DIZIONARIO DI MISTICA

L. BORRIELLO - E. CARUANA M.R. DEL GENIO - N. SUFFI

C

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CAMBIO DEL CUORE. (inizio)

I. Nell'AT il c. dei cuori simboleggiava il passaggio da una vita di peccato ad una vita virtuosa e tutti quei cambiamenti progressivi della vita interiore che portano dal bene al meglio, dal meglio al perfetto e dal perfetto al più perfetto.

II. Nell'esperienza mistica. Per alcune mistiche, si avrebbe l'estrazione fisica del cuore di carne e la sostituzione con un altro che, in genere, è quello di Cristo o, a volte, è lo stesso cuore, ma rinnovato, che provoca una trasformazione profonda come se la persona fosse cambiata in un'altra.

Ricordiamo, a tale proposito, il fenomeno della sostituzione del cuore in s. Caterina da Siena, sostituzione che le lasciò una cicatrice sul petto. Da ricordare anche s. Gertrude e s. Maria Maddalena de' Pazzi.

Per la maggior parte dei mistici è difficile ammettere che Cristo si privi del suo cuore, sia pure momentaneamente, e tantomeno ammettere che il cuore di un'altra persona passi nel suo petto perché Cristo non può rivestirsi di un'umanità nuova, altrimenti sarebbe un evento più sorprendente della sua stessa presenza eucaristica.

La certezza che il fatto sia accaduto è un'impressione puramente soggettiva e la presenza di segni fisici, come la cicatrice sul petto di s. Caterina descritta dal suo confessore, può essere dovuta ad altre cause anche soprannaturali o essere il segno di una grazia spirituale e mistica ricevuta. E più facile ammettere tale fenomeno come simbolo mistico, cioè effetto trasformante di una grazia speciale che Dio concede ad alcuni, per cui dà disposizioni e sentimenti che riflettono gli affetti intimi dell'anima di Cristo e adatta il cuore di carne a questo stato interiore affinché sia in armonia con quello di Cristo. La volontà dell'anima viene così elevata ad un grado di unione tale da amare Dio con la volontà stessa di Dio.

Si tratta, altresì, di un cambiamento spirituale inteso come cambiamento di vita e rinnovamento spirituale interiore che immerge, chi ne è favorito, nel bene, come dice il salmista: " Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo " (Sal 50,12). Tale cambiamento permette, così, di progredire nel bene.

Bibl. A. Cabassut, Coeurs (Changement des, Echange des) in DSAM I, 1046-1051; I. Rodríguez, Cuore (cambio del), DES I, 690-691; A. Royo Marin, La rinnovazione o il cambio di cuori, in Id., Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1103-1104.

S. Giungato

CANTICO DEI CANTICI. (inizio)

Premessa. Rabbí Akiba (morto nel 135 d.C.) aveva affermato: " Il mondo intero non è degno del giorno in cui il Ct è stato donato a Israele. Tutti i libri della Bibbia sono santi, ma il Ct è il più santo di tutti ". Un secolo dopo uno dei massimi esponenti dell'esegesi cristiana del III secolo, Origene, gli faceva eco iniziando così le sue Omelie sul Cantico: " Beato colui che penetra nel Santo, ma ben più beato colui che penetra nel santo dei santi. Beato chi comprende e canta i cantici della Scrittura, ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici ".1 Questa adesione entusiastica nasceva però da un'ermeneutica ben precisa del poemetto biblico fatto di sole 1250 parole ebraiche, ermeneutica che cercheremo di illustrare successivamente nella sua struttura di fondo. Bisogna, infatti, premettere che - secondo l'orientamento dominante dell'esegesi moderna - il Ct ha un punto di partenza profondamente umano, segno di una viva incarnazione della Parola. Al centro degli otto capitoli in cui è stato suddiviso e della sua struttura piuttosto fluida (si sono offerti, infatti, decine e decine di piani di lettura diversi dell'opera a livello letterario) ci sono " lui e lei, l'uomo e la donna, senza un vero nome: sono tutte le coppie della storia che ripetono il miracolo dell'amore " (L. Alonso Schökel).

I. Per cantare l'esperienza dell'amore l'autore rimanda anche alle letterature dell'antico vicino Oriente (soprattutto a quelle dell'Egitto e della Mesopotamia), convoca la natura (paesaggi, fiori, piante, colli, vigne), popola l'orizzonte di luce, di profumi, di animali (colombe, gazzelle, volpi, leoni), crea un'atmosfera primaverile e festosa, pur striandola con due notturni di forte tensione (3,1-4; 5,2-6,3), introduce la corporeità in tutta la sua forza, il suo splendore e i suoi segreti (si vedano le stupende descrizioni dei corpi dei due protagonisti nei cc. 4,5,7). Ma proprio questo apparato straordinario di simboli fa intuire che il Ct, posto sotto il patronato di Salomone (1,1) secondo una costante della letteratura sapienziale biblica, non è riducibile a pura e semplice poesia erotica, né è soltanto una serie di canti per una celebrazione nuziale orientale, né è un dramma rituale sul modello di certi testi liturgici mesopotamici e cananei destinati a rappresentare la ierogamia, cioè le nozze sacre tra coppie di divinità della fecondità (Tammuz-Ishtar o Adone-Astarte). L'amore umano, che è certamente il nodo che tiene insieme la composizione, può diventare paradigma del rapporto tra Dio e l'umanità. Il simbolismo nuziale, come è noto, era stato adottato dalla tradizione profetica per reinterpretare la categoria teologica dell'alleanza tra JHWH e Israele (cf Os 1-3; Ger 2,2; 3,1ss.; Ez 16; Is 54; 62,1-5). Ed è proprio sulla base di questa potenzialità simbolica insita all'amore umano che il Ct era stato accolto nel canone delle Scritture.

II. Ermeneutica del Ct. Su questa base si riesce a comprendere la fioritura ermeneutica a cui si faceva cenno: la tradizione giudaica o cristiana, prendendo spunto dal simbolismo nuziale, ha iniziato un percorso interpretativo che è andato ben al di là del tenore originario del testo biblico. Il simbolo perdeva il suo aggancio concreto all'amore umano e si trasformava in metafora ove si insediavano molteplici e diversi valori spirituali. Nasceva, così, l'interpretazione " allegorica " del Ct, che dominerà per secoli e che ridurrà il poema a campo di libere esercitazioni spirituali o teologiche. Così il Targum lo vedrà come una parabola delle vicende d'Israele dal Sinai all'esilio babilonese e al ritorno per approdare all'avvento dell'era messianica. Il Ct diventava in questo modo una crittografia della storia della salvezza. L'ermeneutica allegorica celebra, comunque, i suoi trionfi nella tradizione cristiana ove l'interpretazione " letterale " viene testimoniata solo da Teodoro di Mopsuestia ( 428), esponente radicale e isolato della cosiddetta " scuola antiochena ". La prima testimonianza è quella di Ippolito di Roma, seguita subito dal citato Origene e da una fittissima schiera di Padri: Cirillo di Gerusalemme, Gregorio di Nissa, Filastrio da Brescia ( metà sec.IV), Ambrogio, Girolamo, Agostino, Teodoreto di Ciro ( 460), Aponio (sec. V), Cassiodoro ( 570), Isidoro di Siviglia ( 636), ecc. e di scrittori medievali, Beda il Venerabile, Ruperto di Deutz ( 1129), Guglielmo di Saint-Thierry, Pietro Abelardo ( 1142), Bernardo, Ildegarda di Bingen, Matilde di Magdeburgo, Gertrude di Helfta, Giovanni Gersone, tanto per citare i nomi maggiori. E una via adottata anche dai grandi scrittori mistici del '500: pensiamo a fray Luís de León ( 1591), al Cantico spirituale, capolavoro di Giovanni della Croce, a Teresa d'Avila coi suoi Pensieri sul Cantico dei cantici (o sull'amore di Dio). E una prospettiva che domina tutta la successiva letteratura teologica e soprattutto spirituale: Francesco di Sales, Maria dell'Incarnazione, Jean-Pierre de Caussade, Bossuet, Rosmini, ecc. Il modulo adottato è costante, pur nelle variazioni a cui è sottoposto e può essere così semplificato. I due protagonisti, la donna e il dôdî " il mio amato ", incarnano rispettivamente l'umanità e Dio, oppure Israele e il Signore, oppure l'anima e il suo Dio, oppure la Chiesa e Cristo o ancora l'anima cristiana e il PadreCristo oppure l'umanità e la divinità nell'Incarnazione del Verbo (Bernardo) o anche Maria e Cristo (Ruperto di Deutz). La trasposizione allegorica, però, non si ferma a questa identificazione di principio, ma si estende all'intera trama dell'opera, a tutti i simboli, alle espressioni d'amore, ai particolari più minuti. Si crea, così, una costellazione spirituale che trasfigura e, per certi versi, sfigura fino a rendere irriconoscibile il senso letterale di base. Tanto per esemplificare la complessità di questa operazione ermeneutica, ricordiamo che la " collina dell'incenso " (4,6), un simbolo amoroso di ebbrezza, diventa il Calvario su cui il cristiano si farà crocifiggere seguendo il suo Maestro e Signore per partecipare alla sua gloria (l'incenso). L'introduzione della sposa nella stanza regale nuziale (1,4) è l'ingresso nella Chiesa del battezzato che si è unito misticamente a Cristo. I due seni della donna a cui s'abbandona l'amato (1,13) diventano l'Antico e il Nuovo Testamento al cui studio si dedica il fedele. Che la sposa abbia " la pelle scura è perché essa raffigura l'anima peccatrice " (1,6), ma da questo ritratto nascerà anche il modello iconografico diffusissimo della " Madonna nera ". La " colonna di fumo che sale dal deserto, esalando profumo di mirra e d'incenso " (3,6) è vista come testimonianza dell'assunzione di Maria al cielo.2 Ambrogio tesse buona parte della sua teologia della verginità sul dialogo e sulle vicende degli sposi del Ct.

III. Lettura spirituale del Ct. E, perciò, necessario, come è stato sottolineato da alcuni orientamenti ermeneutici recenti, tener presente non solo il testo del Ct in sé, ma anche questa sterminata " lettura " secolare che ha fatto lievitare il contenuto di base verso significati ulteriori. La lettura " spirituale " del Ct ha i suoi fondamenti in questo terreno fecondo, anche se fluido. Tuttavia, è possibile ricomporre una lettura teologico-spirituale genuina anche senza ricorrere agli eccessi allegorici e ancorandosi al tenore originario del testo biblico. Lungi dall'essere un puro e semplice documento storico sulla prassi nuziale o sui canti d'amore del popolo ebraico, il Ct è una celebrazione dell'amore umano come grande simbolo (non come mera metafora) dai molteplici valori e significati.

La sola analisi letterale, che pure è base indispensabile, è incapace di giustificare l'arco interpretativo della tradizione ecclesiale. La sola lettura allegorica, pur intuendo verità segrete ignora l'incarnazione del testo riducendolo spesso a una larva illuminata da una fantasmagoria di colori. Bisogna saper annodare le due interpretazioni in una lettura simbolica. L'amore umano, reale e corposo, sbocciato dalla coppia, senza perdere la sua carica concreta e personale, dice anche il mistero dell'amore che tende all'infinito e, perciò, esprime la realtà trascendente e divina. Anche la Prima Lettera di Giovanni vede nell'amore umano il genuino simbolo della conoscenza di Dio che è amore (4,8.16). L'amore umano in sé (e non come esangue metafora) parla di Dio; nella vita terrena chi ama conosce Dio e lo irradia, proprio attraverso il suo amore, rivelandolo all'umanità.

Note 1 Origene: PG 131,37; 2 Cf la Munificentissimus Deus di Pio XII.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM II, 86-109; L. Alonso Schökel, Il Cantico dei Cantici, Casale Monferrato (AL) 1990; D. Barsotti, Meditazione sul Cantico dei Cantici, Brescia 1980; A. Chouraqui, Il Cantico dei Cantici e introduzione ai salmi, Roma 1980; D. Colombo, Cantico dei Cantici, Roma 1985; R.E. Murphy, The Song of Songs, Minneapolis 1990; G. Nolli, Cantico dei Cantici, Torino 1968; G. Ravasi, Il Cantico dei Cantici, Bologna 1992; S. Siedl, s.v., in DES I, 410-414; L. Stadelmann, Love and Politics, New York 1992; R.J. Tournay, Quand Dieu parle aux hommes le langage de l'amour, Paris 1982.

G. Ravasi

CANTO. (inizio)

I. La voce. La voce umana va dal parlato ordinario al c. vero e proprio, passando per numerose forme intermedie. Il cantare è una forma speciale di fonazione caratterizzata da un uso non casuale di altezze sonore ben definite aventi una precisa durata.

Micro-modulazioni della voce sono già presenti nella conversazione ordinaria (all'inizio o alla fine di una frase o per evidenziare un concetto importante) e ciò significa che quanto più la parola si carica di senso, tanto più tende ad organizzarsi secondo schemi ritmico-melodici: si pensi alla metrica, sia quantitativa che accentuativa, o all'uso antico di eseguire in c. o con accompagnamento musicale i componimenti poetici.

II. Una religione in canto. Nella Bibbia la connessione tra c. e preghiera è molto viva: Dio, infatti, viene lodato più degnamente con il canto e gli strumenti musicali. Nella Sinagoga e nella Chiesa i testi sacri prevedono, ordinariamente, un'esecuzione in c. (così come sono cantati anche i Veda indiani e le Scritture buddiste). In ambito liturgico tutte le forme di c. stanno a testimoniare la superiorità della parola cantata rispetto a quella semplicemente pronunciata, in ordine alla lode di Dio.1 Ciò si verifica già nella Scrittura: nei cantici (dal cantico di Mosè e di Maria di Es 15,1-21 al cantico di Debora di Gdc 5 a tutti gli altri cantici dell'AT e del NT) o in quella forma tutta particolare di preghiera cantata costituita dai salmi, o nella " laus perennis " (Ap 5,9; 14,3; 15,3) che nella Gerusalemme celeste sempre si svolge in canto. Lo stesso Dante Alighieri riconosce al c. un maggior potere di significazione rispetto alla parola e costella già il Purgatorio di canti di vario genere: salmi (II, 46; V, 24; XIX, 73; XXIX, 3; XXX, 83; XXI, 98; XXXIII, 1), inni (VIII, 13; IX, 140), passi della Scrittura (XXVII, 8; XXIX, 51; XXX, 11. 19), antifone (VII, 82: la Salve Regina); nel Paradiso (III, 121) Piccarda scompare dalla sua vista al canto dell'Ave Maria.

III. Spiritualità del c. 1. Il c., che non è l'abituale espressione dell'uomo, è in grado di produrre una sorta di nuova auto-percezione. Come nota U. Galimberti, la musica " depolarizzando l'attenzione (...) introduce il soggetto in un'atmosfera psicologica dove si fanno più labili le relazioni con gli aspetti consci della personalità e più favorevoli le condizioni per vivere in modo più intenso i propri contenuti profondi ".2 Questa acquisizione della psicologia della musica assume un valore ancora maggiore in un orizzonte di spiritualità cristiana laddove l'uomo, rientrando in se stesso, è posto nella condizione ottimale per iniziare o approfondire l'esperienza dell'ambiente divino. C. e musica (eseguiti o ascoltati) agevolano il passaggio dalla dimensione concettuale a quella intuitiva profonda, favorendo una certa sospensione del pensiero. L'energia vitale viene distolta dal pensiero e incanalata verso la preghiera del cuore a cui direttamente arriva il messaggio musicale che, con un esercizio approfondito e protratto nel tempo, può dar inizio all'esperienza mistica.3 Gradatamente ci si apre alla contemplazione del contatto unitivo col Cristo e della inabitazione trinitaria.

Questa nuova auto-percezione (che potrebbe definirsi come piena oggettivazione di sé) è resa possibile grazie alla dimensione amorosa a cui il c., mediante il suo fascino, conduce, e fa sì che l'uomo si senta un essere amato, permeato dall'amore infinito che, proprio sull'onda del c., intimamente lo pervade. Auto-percepirsi in modo nuovo porta alla scoperta della propria unicità e irripetibilità e del proprio armonico inserimento nell'universo della grazia. 2. Il passaggio dalla concettualità alla dimensione intuitiva profonda si traduce in dissolvimento del pensiero e dilatazione del silenzio interiore che solo apre la porta alla percezione del divino: " Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall'anima ".4 La stessa profezia, in quanto espressione dell'unica eterna parola di Dio, può essere indotta dal c. Eliseo dice: " "Ora cercatemi un suonatore di cetra". Mentre il suonatore arpeggiava cantando, la mano del Signore fu sopra Eliseo " (2 Re 3,15). La profezia, a sua volta, può sciogliersi in c.: " In quel giorno si canterà questo c. nel paese di Giuda... " (Is 26,1ss.). Paradossalmente proprio il c., che è rottura del silenzio fisico, produce e rivela il vero silenzio " il linguaggio dei felici abitatori del cielo " (S. Teresa di Gesù Bambino).5

IV. Alcune esperienze significative. Nei confronti del c. le Confessioni 6 di s. Agostino mostrano una tensione tra fruizione edonistica e percezione spirituale, senza che si giunga ad una soluzione soddisfacente. Nelle opere successive la tensione si risolve; troviamo, così, delle riflessioni molto suggestive, a cominciare da quelle sul canticum novum menzionato nei salmi. Esso, per s. Agostino, è un inno di lode a Dio 7 intonato non solo con le labbra ma con la vita e le opere da uomini rinnovati dalla grazia. Il Signore stesso lo canta in noi: è il sospiro dell'amore al Regno dei cieli,8 c. di coloro che incominciano ad essere partecipi della vita eterna.9 È un riflesso dell'armonia cosmica, un'armonia che regna anche nel mondo dei beati.10 In molti altri passi s. Agostino espone una personalissima visione del jubilus (una melodia senza testo, di carattere melismatico), anzi si rivela come lo scrittore più documentato su questo fenomeno. " Il giubilo - egli dice - è quella melodia con la quale il cuore effonde quanto non gli riesce di esprimere a parole "; 11 è manifestazione di un gaudio ineffabile.12 Il c. è un mezzo con cui gli uomini possono unire la loro voce a quella degli angeli e dei santi: " In alto i cuori! Eleviamo fino al cielo il cuore, affinché non imputridisca sulla terra, se ci piace partecipare a quello che lassù fanno gli angeli (...). Quale comando avrà dato loro Iddio? Quale, se non quello di lodarlo? ".13

La partecipazione dell'uomo, dopo la sua morte, alla lode perenne dei beati è attestata con deliziosa semplicità da s. Gregorio Magno nel quarto libro dei Dialogi dedicato all'immortalità dell'anima. Cori celestiali accompagnano la morte di Servolo (IV, 14) e di Romola (IV, 15) come pure si ode prodigiosamente il c. di due monaci che erano stati uccisi dai Longobardi (IV, 21).

Nel variegato panorama medievale spicca la figura di Ildegarda di Bingen autrice, tra l'altro, di Symphonia harmoniae caelestium revelationum (settantasette canti spirituali) e dell'Ordo virtutum (una specie di sacra rappresentazione comprendente ottantadue canti di vario genere). Dotata di spiccato talento musicale e di acuta sensibilità, Ildegarda traduce nel linguaggio dei suoni le sue esperienze interiori. Volentieri si serve di paragoni musicali per parlare di Dio, dell'uomo, del mondo, come farà più tardi, in ambito letterario, Dante Alighieri che nel Paradiso usa sovente immagini mutuate dal mondo della nascente polifonia per esprimere le realtà ineffabili.14 Le numerose composizioni di Ildegarda, pur non discostandosi dalla tradizione gregoriana, sono pervase da un forte senso drammatico e da una distesa cantabilità, elementi che la fanno annoverare tra i più originali compositori del Medioevo.

L'inglese R. Rolle di Hampole descrive la sua esperienza dell'amore di Dio in termini di calore, dolcezza e c. Nelle sue opere, specialmente in Incendium amoris e in Melos amoris, il c. occupa un posto privilegiato, tanto da configurarsi quasi come categoria interpretativa dell'intera esperienza mistica. Immagini musicali, d'altronde, ricorrono molto spesso nell'opera di Rolle. Egli percepisce durante la preghiera una gioia improvvisa seguita da un forte calore che lo " sommerge " per più di un anno: " ...Era come un c. meraviglioso che avevo nella mia meditazione e nella stessa musica io pregavo ".15 Il c. di cui parla Rolle è un c. interiore, inaccessibile ai sensi. Esso opera la trasformazione dell'anima e fa sì che il pensiero stesso si musicalizzi e divenga c.: " Consumitur carnalitas et canticus consurgit in mente mundata... ",16 partecipando alla musica celeste, presentata nella forma di un meraviglioso concerto. Dio stesso è definito come " melos (...) mellifluum (...) canticumque consolans et iubilus iocundus " 17 e Cristo come " solacium sonorum in carmine caritatis ".18 Verso questo canto-beatitudine, che è dono di Dio, si volge il desiderio del contemplativo.

Il vissuto spirituale di Ildegarda e di R. Rolle, col marcato riferimento alla musica (dunque, a un'arte) percorre la via della bellezza e si inscrive, perciò, in un orizzonte estetico. Esso " verifica ", per così dire, tutta quella linea di riflessione teologica sulla bellezza che aveva avuto insigni rappresentanti sia in Oriente che in Occidente (da Ireneo ad Agostino, da Dionigi ad Anselmo a Bonaventura) e che giunge fino ai nostri giorni, con la geniale sistematizzazione operata da Hans Urs von Balthasar il quale proprio nell'estetica teologica individua la " forma adeguata della teologia della rivelazione e della fede " (P. A. Sequeri).19

Conclusione. Espressione della vita e dell'amore, il c. è manifestazione di un'esperienza totalizzante in cui si trovano fuse le diverse dimensioni dell'essere umano (razionalità, affettività...): come tale è patrimonio di ogni uomo. Nei mistici il c. viene sperimentato, sia in maniera esterna che interna, come audizione estatica, come espressione delle esperienze spirituali e come intima partecipazione al c. perenne della lode celeste. Nel c., quindi, si realizzano sia l'unità delle diverse facoltà umane, sia l'unione della creatura con il Creatore, sia l'unità con il creato (dagli elementi cosmici sino agli esseri spirituali).

Note: 1 Cf STh II-II, q. 91, a. 2; 2 U. Galimberti, Psicologia della musica, in Id., Dizionario di psicologia, Torino 1992, 733-734; 3 Cf l'episodio della conversione di Paul Claudel a Notre-Dame nel Natale 1886: " I bambini del coro... stavano cantando ciò che più tardi ho saputo essere il Magnificat... In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti...; una rivelazione ineffabile... Era proprio vero! Dio esiste, è qui... Mi ama, mi chiama ". P. Claudel, Ma conversion, in Oeuvres en prose, Paris 1965, cit. in F. Castelli, Volti di Gesù nella letteratura moderna, II, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 124; 4 Parole di luce e d'amore. Sentenze, in Opere, Roma 1975, 1095. Cf anche: Cantico spirituale, 15, 38, 39 (strofe), ibid., 497, 505; 5 S. Giovanni della Croce, Lettera 142, in Opere, Roma 1979, 623; 6 Cf X 33,1-3; 7 Cf Ep. 140,17,44; 8 Enarr. in ps., 32, II, 8; 9 Ibid., 149, 1; 10 Ibid., 150, 7; 11 Ibid., 32, II, 8; 12 Ibid., 46, 7; 13 Ibid., 148, 5; 14 Cf VI, 124-126; VIII, 16-21; XIV, 28-33; XX, 142-144; XXVIII, 115-119; 15 Incend. amor., 15; 16 Mel. amor., 38; 17 Ibid., 46; 18 Ibid. 19 Estetica religiosateologica, in H. Waldenfels (ed.), Nuovo Dizionario delle religioni, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 308-319.

Bibl. I parte: D. Bolinger (cura di), Intonation, Baltimore 1972; G. List, The Boundaries of Speech and Song, in Ethnomusicology, 7 (1963) 1, 1-16; A. Lomax, Folksong Style and Culture, Washington 1968; E. Norden, La prosa d'arte antica. Dal VI secolo a.C. all'età della rinascenza, I-II, Roma 1986, 60-73,815-958. II parte: A. Bonaventura, Dante e la musica, Livorno 1904; A. Daniélou, Die indische Musik und ihre Tradition (=Musikgeschichte in Bildern I4), Leipzig 1978; A. Friedmann, Der Synagogale Gesang, Berlin 1908 (rist. anast., Leipzig 1976); J. Gelineau, Canto e musica nel culto cristiano, Torino 1963; O. Gosvami, The Story of Indian Music, Bombay 1957 (nuova ed. St. Clair ShoresMichigan 1978); A.Z. Idelsohn, Jewish Music in its Historical Development, New York 1929; R. Lachmann, Die Musik des Orients, Breslau 1929; L. Tonelli, Dante e la poesia dell'ineffabile, Firenze 1934; I. Vandor, Bouddhisme tibétain, Paris 1976; E. Werner, The Sacred Bridge, I-II, New York 1959-1984. III parte: P.M. Ernetti, Principi filosofici e teologici della musica, Roma 1980; A.M. Moschetti, Musica, in Enciclopedia Filosofica, a cura del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, V, Firenze 1982, 987-998. IV parte: H.E. Allen, Writings Ascribed to Richard Rolle, Hermit of Hampole, New York-London 1927; L. Bronarski, Die Lieder der heiligen Hildegard, Leipzig 1922; J. Huré, St. Augustin musicien, Paris 1924; W. Lanter, Hildegard - Bibliographie. Wegweiser zur Hildegard Literatur, Alzey 1970; E.T. Moneta Caglio, Alle origini dello Jubilus, in Musica sacra, 1968-70, diversi articoli; Id., Lo Jubilus e le origini della salmodia responsoriale, in Jucunda laudatio, 10 (1976-77), 3-30; Ch. Page (cura di), Sequences and Hymns, Lustleigh (Devon) s.d.; M. Sargent, Richard Rolle de Hampole, in DSAM XIII, 572-590; M. Schrader, Hildegarde de Bingen, in DSAM VII1, 506-522; G. Stefani, L'etica musicale di Sant'Agostino, in Jucunda laudatio, 12 (1968), 1-65.

D. De Risi

CARIONI BATTISTA DA CREMA. (inizio)

I. Vita e opere. Il domenicano C. è senza dubbio il più grande scrittore di spiritualità della prima metà del Cinquecento. Nasce a Crema dalla nobile famiglia dei Carioni soprannominata anche Orefice. Qualche dato biografico si trova nei Registri dell'Archivio generalizio dell'Ordine domenicano. Rimane incerta la data di nascita. Sapendo però con certezza ch'egli è morto ai primi di gennaio del 1534 tra le braccia di s. Antonio Zaccaria ( 1539), fondatore dei Barnabiti, in età avanzata, si può dedurre ch'egli sia nato verso il 1460. Appartiene alla Congregazione domenicana riformata di Lombardia, molto estesa. Ha fama di grande predicatore, scrittore e maestro di vita spirituale. Non meraviglia perciò che eserciti il suo apostolato a Vicenza, Venezia, Milano e Guastalla. E quasi contemporaneo di Girolamo Savonarola ( 1498) che più d'una volta nei suoi scritti lo nomina con ammirazione. E probabile che siano vissuti insieme per qualche tempo ed è certo che abbiano avuto una buona guida spirituale nel beato Sebastiano Maggi ( 1496), superiore del convento delle Grazie di Milano e Vicario della Congregazione di Lombardia. Identico è il fervore spirituale nei due domenicani anche se dal C. esplicato in modo ben diverso. Riceve senza dubbio una seria formazione scientifica. Basti pensare che sono suoi contemporanei e appartenenti alla stessa Congregazione i due famosi commentatori di s. Tommaso, il card. Gaetano ( 1534), e Francesco Silvestro detto il Ferrarese ( 1523). Sono molti i santi domenicani vissuti in quell'epoca che hanno influenzato non solo l'Italia. Le opere del C. sono tradotte in francese e in spagnolo.

Elenchiamo brevemente quelle più importanti: Via de Aperta Verità. E la prima opera edita a Venezia nel 1523. De la professione (sulla professione religiosa); De lí confessori et confitenti (esortazione sull'uso del sacramento della penitenza come mezzo di perfezione); De la S. Comunione (propugna la frequenza quotidiana alla S. Comunione); Del modo di acquistar vera devotione et conservarla (delinea i principi fondamentali della vita spirituale); De alchune declaratione devote et estatiche o Epistola Familiare (tratta in particolare del problema dell'amor puro, sul tipo di s. Caterina da Genova); De la cognitione et vittoria di se stesso. Questo è il suo capolavoro sistematico, ispirato e condotto con chiarezza e vigore. Nei particolari segue s. Tommaso d'Aquino. E diviso in nove libri. Filosofia divina o meditazione della passione di N.S. Gesù Cristo. In trenta capitoli svolge ardenti, appassionate meditazioni sulla passione di N.S.G.C. di carattere ascetico e contemplativo. Specchio interiore è l'ultima opera della trilogia e doveva far corpo unico con le due precedenti. Specchio interiore ne costituisce l'aspetto mistico. Infine, è da ricordare il Libro de sentenzie o Detti notabili. Tutte queste opere costituirono per molti anni il testo di lettura spirituale su cui si formarono generazioni di barnabiti e teatini.

II. Dottrina spirituale. Il C. è ancora oggi sommamente edificante. Tutto il suo insegnamento richiama la dottrina del combattimento spirituale, così diffusa nella spiritualità del Cinquecento. L'uomo deve impegnarsi in una continua battaglia per superare quanto vi è di contrario all'amore. Solo l'amore, infatti, può portare alla pratica dell'imitazione di Cristo, quindi indurre l'anima a rendersi disponibile a Dio. In tale disponibilità a Dio, l'anima può partecipare degli attributi divini fino a raggiungere l'unione trasformante. L'orazione contemplativa, sperimentata dall'anima in questo sublime stadio di vita spirituale, dev'essere integrata dall'amore e dall'attività a favore del prossimo. Ne risulta una vita mista, in cui l'azione e la contemplazione sono due aspetti della stessa imitazione del Cristo.

Ma, il C. passa alla storia come il vero grande maestro dell'ascetica del combattimento spirituale, di cui sarà una lontana eco il celebre libro del teatino L. Scupoli che s. Francesco di Sales porterà con sé, come vademecum di lettura spirituale, per ben sedici anni. Per questo motivo in ultima analisi, il C. rimane nella storia della spiritualità una voce ardentemente paolina per il rinnovamento della vita cristiana.

Bibl. D. Abbrescia, s.v., in DES I, 290-291; L. Bogliolo, Battista da Crema. Nuovi studi sopra la vita, i suoi scritti, la sua dottrina, Torino 1952; I. Colosio, s.v., in DSAM II, 153-156; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, II, Roma 1978; S. Pezzella, s.v., in DizBiogr XX, 115-118.

L. Bogliolo

CARISMA. (inizio)

I. Il termine greco charisma deriva dalla radice char, da cui la parola chairo (aver gioia), o chaire, (il saluto greco: salve, abbi gioia) e charis (grazia). Il suffisso ma di c. designa il risultato concreto dell'azione o la manifestazione di essa. Pertanto, charisma significa una manifestazione della gioia e della grazia di Dio, che si rendono visibili, operano in e attraverso una persona. In senso letterale charisma significa " dono di grazia ".

L'insegnamento sui c. si trova soprattutto in s. Paolo. Nelle sue lettere Paolo, da una parte, esorta le giovani Chiese (Tessalonica) a guardare ai c. come a un traguardo da raggiungere con coraggio e raccomanda loro di " non spegnere lo Spirito " (1 Ts 5,19-22) e, dall'altra, modera le comunità già esuberanti (Corinto), esortandole al discernimento dell'autenticità dei doni spirituali. Paolo attribuisce al termine charisma, oltre al significato generale di dono gratuito della grazia divina, anche quello specifico di doni conferiti per l'edificazione del Corpo di Cristo. I c. sono vari e multiformi perché lo Spirito li " distribuisce " (1 Cor 12,11) come vuole. Paolo enumera più di venti doni spirituali o grazie in rapporto al termine charisma. Le enumerazioni principali si trovano in Rm 12 e 1 Cor 12. Si va dal c. dell'apostolato, della profezia, dell'insegnamento fino a quello delle guarigioni, delle opere di misericordia, dell'amministrazione.

L'ampia gamma dei c. elencati da Paolo induce a due osservazioni: anzitutto, che, data la loro diversità, è difficile ordinarli in un modo sistematico. Le classificazioni tentate dagli esegeti sono sempre un po' arbitrarie (per esempio: c. della parola e dell'azione; c. della parola, della fede, del servizio; c. intellettuali, di preghiera, di azioni miracolose, di servizi alla comunità, ecc.). In secondo luogo, la molteplicità dei c. elencati da Paolo fa concludere che i c. nella Chiesa sono di un numero indefinito. Si determinano in base a due principi: lo Spirito Santo, che è il donatore, e la Chiesa da edificare nella sua concretezza di tempo e di luogo (" tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole ": 1 Cor 12,11). Se i c. sono per l'edificazione della Chiesa devono rispondere alle reali necessità della Chiesa universale e delle Chiese particolari.

Da notare però che Paolo, pur esponendo la pluralità dei c., pone tra essi una certa gerarchia, al cui vertice vi sono il c. degli apostoli e quello dei profeti. Ad ogni modo, tutti i c. concorrono all'unità della Chiesa.

Anche gli altri libri del NT attestano abbondantemente come la crescita della Chiesa, dalla Pentecoste in poi, sia marcata da un assiduo intervento dello Spirito. In quanto potenza di Dio, operante nella storia, lo Spirito agisce nell'intervallo che passa tra l'evento pasquale e la parusia. Potenza che è esplosa nella Pentecoste e che si rinnova nella vita di ogni credente che la implora con cuore sincero. E lo Spirito sta all'origine di ogni dono perfetto. " Nel NT, l'età di Cristo e della Chiesa si presenta come "pleroforia", come estate di abbondanza, come manifestazione della ricchezza e varietà dei doni dello Spirito di Cristo " (L. Sartori). Gesù, infatti, aveva detto: " Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi " (Gv 14,12).

II. Nel dibattito del Concilio Vaticano II emersero due modi diversi di concepire i c.: come doni rari e straordinari (vivi solo nei primi tempi della Chiesa) e come doni diversi tra loro, ma tutti utili per l'edificazione della Chiesa di sempre. La prima interpretazione era sostenuta dal card. Ruffini, che in un suo intervento nella Congregazione generale XLIX del secondo periodo disse: " I c., infatti, abbondavano all'inizio della Chiesa, ma poi a poco a poco diminuirono talmente da scomparire quasi... ". Il card. Suenens sosteneva la seconda interpretazione, affermando: " Si è parlato poco dei c. dei fedeli di Cristo. Ciò può suscitare l'impressione che si tratti di un fenomeno periferico e accidentale nella vita della Chiesa... Certo, al tempo di s. Paolo i c. si manifestavano nella Chiesa in maniera molto straordinaria e meravigliosa... Non si pensi, però, che i doni dello Spirito consistano principalmente ed esclusivamente in questi fenomeni... Lasciamo da parte i c. ’più eccezionali' e veniamo a questi c. ’più ordinari'. Ognuno di noi, nella propria diocesi, non conosce forse laici... gratificati dallo Spirito di c. vari, in materia catechetica, nell'evangelizzazione, all'interno dell'Azione Cattolica in tutte le sue forme, nell'azione sociale ed assistenziale; non sappiamo forse e non percepiamo, per esperienza quotidiana, che l'azione dello Spirito Santo non è spenta nella Chiesa? "

Il Vaticano II nel secondo paragrafo del n. 12 della LG ha affermato il significato perennemente attuale, lo scopo e l'utilità dei c. Sono " grazie speciali " - ha detto - che lo Spirito Santo dispensa tra i fedeli, " con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi varie opere e uffici, utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa ". Ne ha affermato la varietà, parlando di " c. straordinari o anche più semplici e comuni " e ha ricordato che " il giudizio sulla loro genuinità e ordinato uso appartiene all'autorità ecclesiastica ".

III. I segni dello Spirito. L'esperienza dello Spirito del Signore risorto è sempre viva nella Chiesa e, ai nostri giorni, dopo il Concilio Vaticano II, è diventata più forte, come percezione di Dio che viene verso di noi, che abita in noi, che anima la comunità, che è all'opera nella società degli uomini. Il P. Congar, parlando dell'esperienza dello Spirito, diceva: " Si è parlato di una specie di ’kenosi' dello Spirito Santo; egli si svuoterebbe, in qualche modo, della sua personalità per essere tutto relativo da una parte a ’Dio' e a Cristo, dall'altra parte agli uomini chiamati a realizzare l'immagine di Dio e del suo Figlio ".

Segni forti dell'azione dello Spirito Santo sono i c., donati per la crescita della Chiesa, come dice Paolo: " Una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune " (1 Cor 12,7). Oggi stiamo vivendo un'esplosione di vita ’carismatica' che aiuta a riportare l'attenzione della vita della Chiesa su ciò che le è proprio e fondamentale: lo Spirito Santo che fa ’vivere' la comunità dei credenti e i doni spirituali che egli offre liberamente. I movimenti ecclesiali attuali, in particolare il Rinnovamento carismatico, sono segni di questa nuova primavera dello Spirito.

In conclusione possiamo ribadire che questi doni aiutano l'uomo a realizzare, nell'oggi della Chiesa, la propria vocazione fondamentale che è sempre quella di godere un'intimità profonda con Dio uno e trino.

Bibl. X. Ducros, s.v., in DSAM II, 503-507; D. Grasso, I carismi nella Chiesa, Brescia 1982; G. Hasenhüttl, Carisma, principio ordinatore della Chiesa, Bologna 1973; F. Klostermann, Chiesa, evento e istituzione, Assisi (PG) 1978; A. Romano, s.v., in DES I, 422-430; L. Sartori, s.v., in NDT, 79-98; F.A. Sullivan, Carismi e rinnovamento carismatico, Milano 1983; J.M. Tillard, Carisma e sequela, Bologna 1978; B.N. Wambacq, Le mot " charisme ", in NRTh 97 (1975), 345-355.

A. Barruffo

CARISMA DI FEDE. (inizio)

I. Il dono. Quando s. Paolo afferma: " Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità, ma di tutte la più grande è la carità " (1 Cor 13,13) o, ancora, nella Lettera ai Romani, quando parlando delle tre virtù teologali e della loro reciproca dinamica, afferma: " Giustificati per la fede noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; per mezzo suo abbiamo ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio... " (5,1-2) non si pone sul medesimo piano di quando dice, parlando dei doni dello Spirito di cui la Chiesa di Corinto sta facendo l'esperienza: " A ciascuno è data una manifestazione particolare per l'utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito... " (1 Cor 12,7-9).

Nel primo caso, Paolo parla della virtù della fede, nel secondo, tratta dei carismi, tra i quali quello della fede. E evidente che Paolo attribuisce al termine fede due significati, almeno in parte, diversi.

Nella storia della Chiesa già s. Cirillo di Gerusalemme distingue la fede teologale " che consiste nell'assenso dell'anima ad una verità " (da lui chiamata " fede dogmatica ") dalla fede " dono gratuito dello Spirito, che non riguarda solamente i dogmi, ma anche l'efficacia di operare cose che superano le umane possibilità ".1

La fede che opera cose che superano le umane possibilità è il c. di cui s. Tommaso d'Aquino parla, sia nei Commentari che nella Summa Theologica. Nei Commentari il c. è interpretato come " certezza di fede, una certezza eminente, conforme a Mt 15,28: ’Donna, davvero grande è la tua fede' ".2

Si tratta di una certezza di fede, chiamata da Tommaso " fede perfetta ", capace di trasportare le montagne. " L'operare miracoli è attribuito alla fede che non esita, perché essa poggia sulla onnipotenza ".3

Nella Summa Theologica la fede è elencata tra le grazie " gratis datae ", cioè nell'ambito dei carismi, collegata al dono della profezia.4 " I carismi riguardanti la conoscenza possono compendiarsi nel termine ’profezia', poiché la rivelazione profetica non si limita agli eventi umani futuri, ma abbraccia le cose divine, sia per la verità che tutti sono tenuti a credere, sia perché sono oggetto della fede ".5

II. Natura e funzione del c. Mentre la virtù teologale della fede è data per la perfezione della singola persona e, mediante la corrispondenza della persona stessa, diventa permanente operazione dello Spirito Santo in vista della comunicazione dell'uomo con le realtà divine, il c. è la mozione imprevedibile, improvvisa ed imperiosa dello Spirito Santo che spinge una persona a credere, senza esitazione, che in una particolare situazione sta intervenendo o interverrà l'onnipotenza di Dio. Il c. non è dato nella misura della fede teologale del soggetto che lo riceve e, come tutti i carismi, è destinato al bene comune, a rendere evidente, per i presenti a cui è fatto l'annuncio di fede, il disegno della misericordia di Dio e a ravvivare e rinforzare la loro fede teologale. Si tratta, per il soggetto che è mosso da questo carisma, di un'esperienza transitoria nella quale egli ha un ruolo di carattere passivo, anche se tocca a lui decidere il proprio intervento con una parola o un messaggio di fede, superando i timori e le obiezioni che possono sorgere nell'intimo della sua coscienza. E una sorta di illuminazione speciale, così evidente e precisa da spingere all'intervento, quell'intervento che s. Tommaso collega appunto alla profezia, cioè all'ambito dei doni di conoscenza e, in questo ambito, alla luce soprannaturale. Ma, per quanto forte e chiara, a questa luce può contrapporsi la zavorra delle esitazioni psicologiche umane perché nulla, sul piano dei nostri rapporti con Dio, ha carattere costrittivo.

Note: 1 Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, cat. 5: De fide et symbolo, nn. 10-11; 2 Tommaso d'Aquino, Commentarii, c. 12, lectio secunda; 3 Ibid., c. 13, lectio prima; 4 Cf STh I-II, q. III, a. 4, ad 2 e II-II, q. 171, prol.; 5 Ibid., II-II, q. 171, prol.

Bibl. D. Gee, Spiritual Gifts in the Work of the Ministry Today, Springfield 1963; D. Grasso, Il carisma della profezia, Roma 1978; K. e D. Ranaghan, Le retour de l'Esprit, Paris 1972; B. Schlink, I doni dello Spirito e la gioia del pentimento, Milano 1983; Tommaso d'Aquino, STh II-II q. 173, a. 2 e 3.; B. Yocum, Prophecy, Michigan 1976.

M. Tiraboschi

CARISMATICI. (inizio)

Premessa. Parliamo del Rinnovamento carismatico o " Rinnovamento nello Spirito ", titolo preferito, in alcune nazioni, a quello di " Pentecostalismo cattolico ", che indica un movimento sviluppatosi nelle Chiese cristiane, agli inizi del sec. XX.

I. Cenni storici. L'esperienza " carismatica " è una realtà sempre ricorrente nella vita della Chiesa, in costante riferimento all'evento della Pentecoste, alle diverse effusioni dello Spirito di cui parlano gli Atti o alle esperienze spirituali della comunità di Corinto a cui si riferisce Paolo. Ma questa esperienza è stata segnata, alcune volte, dall'ortodossia, altre dall'eterodossia. Tra la fine del secolo scorso e l'inizio del nostro un forte movimento di " risveglio " evangelico, partendo dal metodismo americano si diffuse in altre denominazioni cristiane e trovò una speciale consistenza nel " Pentecostalismo ". Il fondatore, Charles F. Parham, insieme con i suoi studenti alla Bethel Bible School di Topeka (Kansas), individuò il tratto distintivo del movimento nel " battesimo nello Spirito " che, se autentico, doveva avere come segno il " parlare in lingue ". La nuova esperienza dello Spirito ebbe una rapida diffusione e le Chiese cristiane più antiche, a partire dal 1956, ne furono coinvolte, denominando questo risveglio " neo-pentecostalismo " o " Rinnovamento carismatico ". Nella Chiesa cattolica iniziò nel 1967. Alcuni giovani professori e studenti dell'Università cattolica di Duquesne di Pittsburg, impegnati nella vita di fede e di apostolato, si sentivano sfidati nella loro esistenza di credenti alquanto tiepida dal fervore delle primitive comunità cristiane. Partecipando a una riunione di preghiera di pentecostali protestanti chiesero la preghiera su di loro e l'imposizione delle mani per ricevere il battesimo dello Spirito. Anch'essi fecero la tipica esperienza pentecostale e iniziarono a parlare in lingue. Parteciparono questa loro esperienza ad altri studenti in preghiera e nacque così il primo gruppo di neo-pentecostali cattolici. Il movimento si diffuse rapidamente nelle Università, parrocchie e monasteri degli Stati Uniti e infine in varie parti del mondo. Attualmente il movimento abbraccia oltre sessanta milioni di cattolici di novanta paesi.

II. Il Rinnovamento carismatico intende essere una risposta alle istanze di rinnovamento di tutta la Chiesa nella fedeltà alle mozioni dello Spirito, nel superamento di una diffusa secolarizzazione e crisi di fede.

Quali ne sono le componenti? Il teologo F.A. Sullivan così le sintetizza: 1. fedeltà della Chiesa, in tutti i suoi membri, alla sua vocazione; 2. lo Spirito Santo ne è l'agente principale; 3. lo Spirito Santo concede ogni specie di doni carismatici di cui la Chiesa ha bisogno in una determinata epoca; 4. lo Spirito Santo muove i cristiani a riconoscere tali doni, a comprenderne il senso, ad usarli per l'edificazione; 5. lo Spirito Santo guida i laici ad impiegare i loro doni in comunione coi pastori e guida i pastori a riconoscerli e a svilupparli nei fedeli; 6. lo Spirito Santo dà all'autorità nella Chiesa il carisma del discernimento per giudicare e promuovere i doni autentici senza estinguere lo Spirito; 7. la scelta delle persone per la guida pastorale viene fatta in base a una riconosciuta presenza dei doni dello Spirito necessari per un ufficio particolare; 8. in ogni comunità eucaristica locale ciascun membro esercita i suoi doni sotto la guida dei pastori.

Come si vede, tutto ruota intorno allo Spirito Santo riscoperto, conosciuto, accolto quale egli è: " Persona divina, egli è al cuore stesso della fede cristiana ed è la sorgente e la forza dinamica del rinnovamento della Chiesa " (DEV 2). Il teologo H. Mühlen dice che il Rinnovamento carismatico è capace di far superare l'abisso tra fede e esperienza, di far una reale esperienza dello Spirito che anima i cristiani e la Chiesa. " Spesso viviamo praticamente come se Dio non ci fosse - afferma -. Siamo diventati nel centro del nostro essere e del nostro ’cuore' degli atei pratici ". Il rinnovamento carismatico aiuta ad uscire dall'ateismo della mente e del cuore e ci fa parlare con Dio ad alta voce. Non ha scoperto nuove dottrine, ma ha dato la possibilità di una nuova esperienza di esistenza cristiana vissuta.

Un accenno ad alcune dimensioni dell'esperienza del Rinnovamento carismatico.

a. I gruppi di preghiera. Il movimento si attua concretamente nei gruppi di preghiera, sullo stile del primo gruppo e nella convinzione della promessa di Cristo: " Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, ci sono io in mezzo a loro " (Mt 18,20). Le caratteristiche principali dello stile di preghiera dei gruppi sono le seguenti. La spontaneità con cui ci si rivolge a Dio in un gruppo di fratelli e sorelle, secondo l'esortazione di Paolo: " Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l'edificazione " (1 Cor 14,26; cf Ef 5,18-20). Insieme con le preghiere tradizionali della Chiesa, si canta e si parla con Dio, facendosi portare dallo Spirito che formula in noi la preghiera più gradita a Dio (cf Rm 8,26-27). I momenti di silenzio aiutano ad assimilare il messaggio della preghiera. La spontaneità fa partecipare tutto il corpo alla preghiera, soprattutto col gesto tipico dell'orante che accompagna l'elevazione dello spirito. Culmine della preghiera in gruppo resta sempre l'Eucaristia celebrata all'inizio o al termine della preghiera spontanea. La preghiera di lode e di ringraziamento, che non esclude altre modalità di preghiera, ma pone in primo piano l'atteggiamento di chi si rivolge a Dio non solo per quello che può dare, ma per quello che egli è. Una preghiera, quindi, centrata su Dio più che su di sé. Luogo privilegiato della preghiera e del rinnovamento della vita è la Sacra Scrittura, letta, proclamata, commentata, studiata con l'aiuto di persone preparate nell'esegesi cattolica.

b. L'effusione dello Spirito. Il " battesimo nello Spirito " (a cui, per evitare possibili ambiguità si preferisce il termine " effusione dello Spirito ") è stato sempre considerato centrale nell'esperienza pentecostale. E un'esperienza forte e nuova della presenza viva dello Spirito nella persona che lo implora e per la quale (o " sulla quale ") prega un gruppo di fratelli. E una nuova forza che " rinnova " la presenza operante dello Spirito ricevuto nel battesimo, per vivere la vita cristiana, essere testimoni del Vangelo, pregare Dio e servire i fratelli con nuovo slancio. Non è, quindi, un dono " nuovo " dello Spirito già ricevuto nel battesimo e nella confermazione, ma è una nuova consapevolezza esistenziale della sua presenza, una liberazione delle sue virtualità. Il momento della preghiera per l'effusione dello Spirito è preceduto da un cammino catecumenale nei cosiddetti " seminari della vita nello Spirito ", in cui si approfondiscono le verità basilari della vita cristiana e si è aiutati ad aprirsi all'azione rinnovatrice dello Spirito e ai suoi doni. Solo quando si raggiunge un sufficiente livello di maturità spirituale, che spinge ad abbandonarsi totalmente allo Spirito di Dio, si chiede al gruppo di fratelli di pregare " su di sé " per ottenere il dono di una nuova e più efficace presenza dello Spirito.

c. L'esperienza carismatica. Per i Pentecostali il " battesimo nello Spirito ", per essere autentico, deve avere come segno il dono di " parlare in lingue ". I Neo-pentecostali attutirono la necessità di tale rapporto. I cattolici non insistono né su questo segno né su altri doni straordinari, pur apprezzandone il valore per la vita cristiana ed apostolica. E però esperienza comune che coloro i quali, con le dovute disposizioni, ricevono l'effusione dello Spirito, avvertono una specie di dono della preghiera, della lode, del servizio, accompagnato da quella esperienza del frutto dello Spirito, di cui parla s. Paolo: " amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà fedeltà, mitezza, dominio di sé " (Gal 5,22). Lo Spirito che è per eccellenza il dono del Padre, offre, a sua volta, con libertà quei doni spirituali, o carismi, che sono più utili per l'edificazione della Chiesa.

Un carisma tradizionalmente stimato nel Rinnovamento carismatico è il " pregare in lingue " (cf At 2,11; 1 Cor 12,10; 14,2; 14,16), segno della realtà più profonda di una esperienza forte di Dio che non si riesce a tradurre in un linguaggio convenzionale ed esprime in modo ineffabile la novità inebriante operata da Cristo. Questo " pregare in lingue " nel gruppo può prendere la forma di " canti nello Spirito " che si fondono in un'armonia ispirata. Qualcuno può anche pronunciare una " profezia ", come messaggio di Dio al gruppo, spesso ispirato da un brano della Bibbia che mira ad esortare e a consolare piuttosto che a predire. A volte viene anche fatta la " preghiera per la guarigione " fisica o psichica. Essa nasce da una viva fede nel potere che Dio ha di guarire tutti i nostri mali. S'intende che ogni carisma, va sottoposto al vaglio del discernimento, che culmina in quello dell'autorità ecclesiastica.

Paolo VI così descriveva alcune caratteristiche positive del movimento: " Il gusto di una preghiera profonda, personale e comunitaria, un ritorno alla contemplazione e un accento posto sulla lode di Dio, il desiderio di donarsi totalmente, una grande disponibilità agli appelli dello Spirito Santo, un contatto più assiduo con la Scrittura, una grande donazione fraterna, la volontà di dare un apporto ai servizi della Chiesa ".

Tali caratteristiche fanno sì che il movimento si inserisca in quel rinnovamento spirituale richiesto a tutti i fedeli per vivere un'autentica unione con Dio.

Bibl. A. Barruffo, " Il ’Rinnovamento carismatico' nella Chiesa cattolica ", in CivCat 125 (1974) 2, 22-36; Id., Riflessioni teologiche sul ’Rinnovamento carismatico', in Ibid., 332-346; Id. Attualità sul ’Rinnovamento carismatico', in Ibid., 126 (1975) 4, 465-480; D. Grasso (cura di), Vescovi e Rinnovamento carismatico. Documenti scelti, in parte tradotti, e presentati da D. Grasso, Roma 1980; W.J. Hollenweger, The Pentecostals. The Charismatic Movement in the Churches, London 1972; R. Laurentin, Il movimento carismatico nella Chiesa cattolica. Rischi e avvenire, Brescia 1976; M. Panciera, Il Rinnovamento nello Spirito in Italia. Una realtà ecclesiale, Roma 1992; F.A. Sullivan, Carismi e Rinnovamento carismatico, Roma 1983.

A. Barruffo

CARLO DA SEZZE (santo). (inizio)

I. Cenni biografici e scritti spirituali. Nasce nel basso Lazio a Sezze (LT) nell'ottobre del 1613 (discusso il giorno della nascita e del battesimo) da Ruggero Marchione (detto anche Marchionni, Marchion o Merchiori, Merchioris) e da Antonia Maccione (Maccioni o Marchion). E educato ottimamente da questi santi genitori. Riceve un'istruzione solo elementare, perché è avviato al lavoro dei campi. Nel 1635 veste l'abito francescano come fratello laico nel convento di Nazzano (Roma) della provincia Osservante Riformata di s. Francesco a Ripa con il nome di C. invece che di Giancarlo, com'è stato battezzato. L'anno seguente emette la professione religiosa. Nei vari conventi ove è trasferito: Morlupo, Ponticelli, Palestrina, Piglio, Carpineto Romano, Castelgandolfo, Roma (S. Pietro in Montorio e S. Francesco a Ripa), esercita i diversi uffici di cuoco, ortolano, sagrestano, questuante... Muore nel convento di s. Francesco a Ripa, il 6 gennaio 1670. E beatificato da Leone XIII il 1 ottobre 1881 e canonizzato da Giovanni XXIII il 12 aprile 1959.

Nessuna meraviglia che la vita di C. sia costellata da fenomeni mistici fin dalla prima adolescenza, data l'educazione ricevuta. Pur se egli confessa di aver commesso molti peccati, è accompagnato sempre dalla grazia di Dio con prodigi celesti. Mentre vive ancora in famiglia ed è addetto ai lavori campestri, ricorda di aver avuto favori particolari di ordine soprannaturale, restando assorto in Dio fuori dal tempo e ricevendo visioni di santi e di demoni. Notevoli poi i due episodi: la ferita-stimmata del cuore aperta per tre anni, provocata dal raggio partito dall'Ostia consacrata nella chiesa di S. Giuseppe a Capo di Case (frazione di Roma) nel 1645, e il chiodo, riscontrato sul suo cadavere, nel 1670, sulla cicatrice di quella ferita. Innumerevoli, poi, i doni dello Spirito Santo: illuminazioni improvvise per la soluzione dei problemi personali e sociali, scrutazione dei cuori, estasi, profezia, scienza e contemplazione infusa, dono dei miracoli... Pratica, inoltre, la Comunione quotidiana, fatto eccezionale per quei tempi influenzati dal giansenismo, e ne canta, in versi e in prosa, il riverbero di trasformazione spirituale in modo tale da essere celebrato come il " mistico dell'Eucarestia ".

Nonostante C. abbia un'istruzione elementare e trascorra gran parte del tempo nel disimpegno degli uffici del convento, pur attraverso replicati permessi e proibizioni dei superiori, utilizza le ore del riposo notturno per scrivere. Dal 1644 in poi, sia in campo ascetico, sia in quello mistico, scrive oltre trenta opere. Alcune sono stampate durante la sua vita ed altre posteriormente. Riscuotono sempre grande plauso. Non sono mai scritte per vanità, ma sempre su richiesta di amici, del confessore e anche per suggerimento divino. La sua lingua è semplice, intrisa di dialetto e spesso sgrammaticata, immune da sbavature seicentesche. Di queste opere ricordiamo solamente le principali come si presentano nella edizione delle Opere complete affidata a P. Raimondo Sbardella, programmata in dieci volumi e non ancora completata: Le grandezze delle misericordie di Dio, libri I-V (I, Roma 1963), libri VI-VII (II, ivi 1965); Trattato delle tre vie, (III, ivi 1967, 81-390); Canti spirituali, (III, 391-497); Cammino interno dell'anima, Canti I-VI (IV, ivi 1971), Canti VII-XVIII (V, ivi 1971); Settenari sacri, (VI, ivi 1973); L'esemplare del cristiano, (VII, VIII, IX, in preparazione).

II. Dottrina mistica. Essendo il santo uomo illetterato, non cade in elucubrazioni teoriche sulla mistica, ma parla delle sue esperienze mistiche con la massima disinvoltura e spontaneità. La dottrina, però, è sempre sana, sicura e molto originale, influenzata certamente da letture private e insegnamenti comunitari, tanto di autori francescani come s. Bonaventura, s. Pietro d'Alcantara, quanto di alcuni non francescani come s. Teresa d'Avila e s. Giovanni della Croce. Dai suoi racconti, calati sempre nella realtà quotidiana, si può intravvedere il suo itinerario spirituale a cui allude nel Trattato delle tre vie, nei Canti spirituali e ne Le grandezze delle misericordie. Egli non adopera sempre lo stesso linguaggio e non ha una coerenza nella classificazione, per cui resta difficile una sintesi esaustiva del suo pensiero. Dopo aver ricordato lo sforzo per superare la " meditazione immaginaria " ed accennato alle " tre vie " o " gradi " della vita spirituale, si tuffa nella " contemplazione-orazione infusa " di cui esaminerà i ventiquattro " stati " (effetti, elementi, modi), distinguendoli in " generali " (quattordici) e " particolari " (dieci). In tutti questi stati, l'amore di Dio, con la sua presenza, è l'agente principale in quanto trasforma l'anima divinizzandola e creando in essa i tredici " estatici struggimenti interiori " e i tre diversi " gemiti " dell'unione sponsale, senza farle dimenticare gli impegni della vita attiva.

Bibl. Oltre alla ricordata edizione delle Opere complete con relative introduzioni a cura di R. Sbardella, Roma 1965ss., cf i seguenti studi specifici: S. Gori, s.v., in DES I, 449-451; Id., S. Carlo da Sezze, scrittore mistico, in Studi Francescani, 58 (1961), 211-263; J. Heerinckx, s.v., in DSAM II1, 701-703; Id., Les écrits du S. Charles de Sezze, in Archivum Franciscanum Historicum, 28 (1935), 324-334; 29 (1936), 57-78; Id., Ariditas spiritualis secundum B. Carolum a Setia, in Ant 11 (1936), 319-350; I. Rotoli, Itinerario mistico del B. Carlo da Sezze, Roma 1948.

A. Quaglia

CASEL ODO. (inizio)

I. Cenni biografici e opere. Nasce nel 1886 a Koblenz-Lützel. Dopo un breve periodo di studi all'Università di Bonn, nel 1905 entra nell'abbazia di Maria Laach.

All'inizio delle sue ricerche scientifiche si collocano due dissertazioni, una teologica: La dottrina eucaristica in s. Giustino martire, discussa a Sant'Anselmo, Roma, nel 1914 e un'altra filologica: De philosophorum graecorum silentio mystico, discussa all'Università di Bonn, nel 1919. Nel 1932 pubblica quell'opera che ancora oggi permette una prima intuizione autentica della sua teologia dei misteri: Il mistero del culto cristiano. Nel frattempo, si sviluppa una controversia, diventata famosa, contraria e in difesa della sua tesi;1 il dialogo continua dando risultati assai positivi. Muore il 28 marzo 1948, vigilia di Pasqua.

Tra gli scritti più significativi ricordiamo: La memoria del Signore nell'antica liturgia cristiana, Freiburg 1918; La liturgia come celebrazione dei misteri, Freiburg 1922; L'annuario di scienza liturgica, 15 voll., Münster in Westfalen 1921-1941; Il mistero del culto cristiano, Torino 1966; Il mistero della fede cristiana, Paderborn 1941; Il mistero del futuro, Paderborn 1952; La vera immagine dell'uomo, Regensburg 1953; Il mistero della croce, Paderborn 1954; Il mistero dell'Ecclesia, Roma 1965; Il mistero del sacrificio cristiano, Graz 1968; Presenza del mistero di Cristo, Brescia 1995.

II. Dottrina. La tesi fondamentale che sorregge tutto l'insegnamento dottrinale di C. è nell'opera Das Gedächtnis des Herrn in der altchristlichen Liturgien. Die Grundgedanken des Messkanons (1918). Nel " memoriale " del Signore l'opera di salvezza è presente nell'" Azione sacra " della celebrazione della santa Messa; la sua tesi fondamentale è presente anche nel libro Die Liturgie als Mysterienfeier (1922). Il C. vede in quell'" azione sacra " del " Memoriale " di Cristo la realizzazione ideale perfetta dell'Eidos cultico del Mysterion. Questo, in nessun modo, vuol dire una dipendenza di Cristo e della Chiesa apostolica dai misteri ellenistici, ma indica che il tipo ideale di questi misteri, mai perfettamente trovato nei riti pagani, è stato realizzato perfettamente e sovranamente nel rito cristiano. Infatti, il concetto di Mysterion, tratto dalla storia delle religioni, è stato soltanto lo Sprungbrett (=trampolino), ma ora, in modo perfetto, esso è realizzato nella realtà cristiana. Difendendo questa sua interpretazione, il C. ha potuto sviluppare tutta la " teologia dei misteri ", la sua tradizionalità (nei grandi trattati del Jahrbuch für LiturgieWissenschaft), il senso speculativo di questa presenza in linea con la teologia dei Padri, la sintesi di tale teologia. I punti salienti di questa sintesi sono: 1. mystérionsacramentum nel senso dell'opera di salvezza del Cristo, secondo le lettere paoline agli Efesini, ai Colossesi e ai Romani; 2. La presenza di quest'opera nelle celebrazioni liturgiche; 3. Anzitutto l'Eucaristia è il mistero, cioè la presenza del sacrificio unico di Cristo crocifisso e risorto, sostanzialmente presente sotto le specie eucaristiche; 4. Anche negli altri sacramenti è dato il Mysterion della presenza dell'opera del Cristo in un modo diverso, ma pur sempre reale: per esempio, nella iniziazione siamo morti con Cristo e risorti con lui nella presenza del suo Pneuma; allo stesso modo avviene negli altri sacramenti, secondo il loro senso specifico; 5. Il mistero della presenza opera pure nella Parola di Dio proclamata, letta, e ricevuta con fede; 6. Il mistero di Cristo è dato, infine, in tutte le celebrazioni dell'anno liturgico " sempre nella totalità " dell'unico mistero di Cristo, nei suoi aspetti diversi, nell'hodie della sua realizzazione nell'azione sacra simbolica e nella vita ispirata da esse.

Il punto contro il quale la critica ha protestato è anzitutto la relazione tra misteri cristiani e misteri pagani. E certo che il C. non ha parlato di una dipendenza qualsiasi, " non nel senso di un ritualismo amplificato ed estetizzante o come una calcolata ostentazione, piena di magnificenza, ma nel senso di una realizzazione e applicazione del mistero di Cristo a tutta la Chiesa nel corso dei secoli, affinché essa raggiunga la santità e la gloria ".2 Egli pertanto, vedeva nella liturgia dei misteri il centro del culto cristiano.

Note. 1 Ne ha parlato Th. Filthaut in Die Kontroverse über die Mysterienlehre, 1947; 2 O. Casel, Il mistero del culto cristiano, Roma 1985, 58.

Bibl. I.E. Dalmais, La " dottrina dei misteri " di Odo Casel, in A.G. Martimort, La Chiesa in preghiera I, Brescia 1987, 293-298; B. Neunheuser, Mistero, in NDT, 863-883; Id., s.v., in DES I, 463-464; Id., Misteri, Teologia dei, in K. Rahner (cura di) Sacramentum mundi, V, Brescia 1976, 395-400; G. Penco, La prima penetrazione in Italia del pensiero del P. Odo Casel, in Ben 29 (1982), 365-380; O.D. Santagada, Dom Casel, in Archiv für Liturgie Wissenschaft, 10 (1967), 1-77 (con bibl. generale); A. Schilson, Theologie als sakramententheologie. Die Mysterientheologie Odo Casels, Mainz 1982; V. Warnacht, Odo Casel, in P. Vanzan - H.J. Schultz (cura di) Mysterium salutis: Lessico dei teologi del secolo XX, XII, Brescia 1978, 305-310.

A. Neunheuser

CASSIANO GIOVANNI.(inizio)

I. Vita e opere. Nasce verso il 360 nella Dobrugia, regione dell'attuale Romania. La famiglia è cristiana e benestante, secondo la sua stessa testimonianza (cf Confer. 24,1); riceve un'educazione ed un'istruzione all'altezza della sua condizione sociale. Attratto dall'ideale monastico, con un compagno, Germano, si reca in Palestina; verso il 378 ambedue entrano in un monastero a Betlemme. Dopo due anni chiedono ed ottengono il permesso di visitare gli anacoreti dell'Egitto con la promessa di ritornare. Secondo le testimonianze presenti nelle Conferenze di C., essi giungono per mare al delta del Nilo, a Termeso, si fermano dapprima presso Panefisis, poi a Diolkos, prima di passare nel deserto di Scete, dove soggiornano a lungo con l'apa Pafnuzio, origenista, e i suoi solitari. Da qui, in diverse riprese, desiderosi di conoscere solitari e dottrine spirituali, visitano altri gruppi di anacoreti, specie quelli di Nitria e di Celle. Determinante alle Celle è la familiarità con Evagrio Pontico, il ’filosofo del deserto', che sarà il suo maestro.

Verso il 387, presi da rimorso, i due amici mantengono finalmente la promessa di ritornare a Betlemme, al loro monastero d'origine. Qui ottengono l'autorizzazione a recarsi in modo definitivo in Egitto, dove si trovano ancora nel 399 nel gruppo di anacoreti di Pafnuzio. Ma la persecuzione di Teofilo ( 412), patriarca d'Alessandria, contro i monaci sospettati di origenismo, interrompe il loro sogno. Si rifugiano, come i ’fratelli lunghi' e tanti altri monaci, a Costantinopoli, presso il patriarca G. Crisostomo, che ordina Germano presbitero e C. diacono della chiesa costantinopolitana. Per alcuni anni C. s'arricchisce della testimonianza di vita e della dottrina spirituale dell'eroico Crisostomo. Pare che C. sia ordinato sacerdote a Roma, dove rimarrà dieci anni, divenendo amico del futuro papa Leone ( 461). Troviamo C. (Germano sembra già deceduto) a Marsiglia verso il 415, forse invitato da ecclesiastici, desiderosi di averlo come fondatore e riformatore del monachesimo nelle Gallie. Gennadio ( 500 ca.) c'informa che a Marsiglia egli fonda due monasteri, uno per gli uomini, di cui diviene abate, e uno per le donne.1 Probabilmente nel suo monastero, C. muore verso il 435. La diocesi di Marsiglia e l'Oriente cristiano lo venerano come santo.

Tra gli scritti vanno ricordati: Istituzioni cenobitiche (Institutiones cenobiticae o De institutis coenobiorum et octo principalium vitiorum remediis, composte tra il 420-424). I libri 1-4 riguardano l'abito monastico, l'ordine da seguire per l'ufficio divino di notte e di giorno e il comportamento dell'uomo esteriore; importante 4, 32-43: discorso della presa dell'abito, condensato della spiritualità monastica, che C. vuol fare prevalere nelle Gallie. I libri 5-12 contengono un esposto ascetico sugli otto vizi principali, contro i quali il monaco deve lottare per giungere alla perfetta purezza del cuore: gola, fornicazione, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e orgoglio. Vengono proposti gli opportuni rimedi. Le Conferenze dei Padri (Collationes Patrum) costituiscono un'opera di ventiquattro Conferenze, composta in tre riprese dal 425 ca. al 428 ca. C. intende, però, redigere un'opera unitaria con una visione d'insieme e completa su " gli insegnamenti e precetti degli anziani " (Confer. 24,1). La prima raccolta (1-10) è un vero trattatello di perfezione in cui viene indicato il fine del monaco, ossia il regno di Dio, e i mezzi, ossia la purezza di cuore, la carità, la contemplazione assidua. E richiesta la virtù della discrezione, che si ottiene con l'apertura di cuore e la docilità verso gli anziani. La perfezione della rinuncia, poi, che è la vita monastica (cf Confer. I, 4,1), comporta tre gradi attraverso i quali ci s'innalza gradualmente fino all'intimità divina. Le altre due serie di conferenze sono di carattere complementare. C'è un legame tra le due opere. In realtà, le Istituzioni cenobitiche sono presentate da C. come un'introduzione alla dottrina " più sublime ", esposta nelle successive Conferenze cenobitiche (cf Istruz. II, 9,3). Se quelle insegnano come bisogna vivere nelle comunità monastiche, queste ultime insistono specie sulla " disciplina dell'uomo interiore " e sono meglio adatte per coloro che desiderano condurre la vita anacoretica. Le Istituzioni, inoltre, contengono solo i primi rudimenti della dottrina. " Secondo la distinzione, ereditata da Evagrio Pontico, che egli spiegherà nella Confer. 14, la theoria o contemplazione spirituale, alla quale si accede solo con la purezza di cuore, è privilegio di quelli che si sono lungamente esercitati nella vita practica (...). Come purificarsi dai propri vizi e come comportarsi poco a poco, disponibili ai doni divini più elevati: ecco lo scopo principale delle Istituzioni cenobitiche ".2

II. La spiritualità. a. La vita monastica. Il pensiero di C. prolunga quello dei maestri precedenti, basato sulla Scrittura, la tradizione viva dei Padri del deserto; vi si nota l'influsso di Basilio, di Girolamo, di Crisostomo e, in particolare, di Evagrio Pontico. I monaci devono tendere ad essere cristiani perfetti, favoriti dalla loro situazione, nel vivere l'unione con Dio nella carità. Quanto alla vita cenobitica e anacoretica, egli è un interprete della preferenza quasi unanime dell'anacoresi, che, però, esige prima un lungo esercizio nella vita cenobitica (cf Confer. 1,10): due diverse forme di consacrazione a Dio, ma aperte entrambe alla contemplazione (cf Confer. 19,8 e 9).

b. L'ascesi. Il fine della vita monastica da conseguire, anzitutto, per mezzo dell'ascesi, è il regno di Dio. A questo si perviene mediante la purezza del cuore, che è al tempo stesso la condizione e la contropartita del completo sviluppo in noi della carità. C. esprime con una fermezza, prima d'ora sconosciuta, la convinzione che le rinunce dell'ascesi conseguono come effetto la carità (cf Confer. 1,6-7).

Per C. la vita monastica progredisce al ritmo di tre rinunce successive: rinuncia ascetica, rinuncia ai vizi, rinuncia a tutto quello che non è di Dio. La prima rinuncia, implicante l'abbandono dei beni materiali e delle comodità, conduce con l'umiltà e la pazienza all'abbandono dei vizi; in tale contesto la pazienza, lotta assidua contro ciò che ci turba, conduce alla pace. Su questo terreno germoglia la carità (e la gnosi), che mediante la terza rinuncia, diverrà contemplativa, avvio ad un progresso indefinito, perché tendente, ormai liberamente, alla perfezione stessa del Padre. Abbiamo qui la prova della positività della rinuncia in C., che scrive: " L'ora in cui si disdegnano come caduche le cose presenti è anche quella in cui lo sguardo dello spirito è inseparabilmente fissato su quelle immutabili ed eterne " (Istituz. V, 14) ed ancora: " Noi vogliamo scacciare dal nostro cuore le concupiscenze della carne: lasciamo subito il posto alle gioie spirituali " (Confer. 12,5). La contemplazione è, quindi, resa possibile dall'ascesi, non senza che la contemplazione animi l'ascesa stessa dello spirito. Ma il metodo di C. non si riduce a esaminare spietatamente se stessi, a lavorarsi, a combattersi; il suo metodo è positivo più che negativo, è mistico, più che ascetico.

III. La mistica. a. Preghiera e contemplazione. Il momento conclusivo del periodo di purificazione (o praxis) segna il passaggio alla scientia spiritualis di C. e alla theoría o gnosis di Evagrio, fase caratterizzata dalla libertà di conversare con Dio da parte del monaco, divenuto uomo di preghiera. C. ricorda le parole di apa Isacco: " (...), il punto culminante della perfezione del cuore, è costituito da una preghiera perseverante, ininterrotta, è insomma la ricerca di una tranquillità immobile, d'una purezza perpetua, nei limiti consentiti dalla debolezza umana " (Confer. 9,2). " La tua dottrina ha riposto il fine del monaco e il culmine della perfezione nella ’preghiera perfetta' " (Ibid. 9,7). La preghiera perfetta è propria del contemplativo. La preghiera, forma della carità, è, come quest'ultima, lo scopo di ogni rinuncia e ascesi: " Se aspiri alla preghiera, rinuncia a tutto per avere tutto " (Ibid. 36). b. La preghiera. Preghiera continua. Al progresso nelle virtù e nella purezza di cuore corrisponde il progresso della preghiera perfetta fino all'unione abituale con Dio. Sullo sfondo è chiaro il comando paolino della preghiera incessante (cf 1 Ts 5,17). L'obiettivo dei monaci non è la contraddittoria continuità negli atti di preghiera - è necessario il lavoro - ma anche ’lo stato di preghiera' (orationis status) (Confer. 10,4), che induce uno stato di stabilità e di pace. La preghiera continua implica nel monaco lo sforzo, anzi la lotta contro le distrazioni e contro il demonio (cf Istituz. 2,10). c. Bibbia e preghiera. Un altro aspetto tipico della preghiera monastica in C. è il suo legame con la Bibbia. Le formule di orazione dei monaci antichi sono permeate di Bibbia, nella quale il monaco è tutto immerso, vivendo un'intensa comunione e dialogo con Dio. La preghiera privilegiata è il salterio, parte precipua dell'uffico canonico del monaco. Il salterio è la scuola di preghiera del monachesimo primitivo; tutta la vita del monaco è una salmodia. I fatti biblici, assimilati dal monaco, si riproducono, per così dire, in lui (cf Confer. 10,11). Ciò presuppone anche l'abbandono di ogni curiosità e suggestione estranea (cf Ibid. 10,13). Per i monaci la lectio divina è la sorgente prima della preghiera; il monaco quotidianamente legge, medita, assimila la Bibbia. E chiaro che, secondo la logica della mistica dei Padri, la preghiera si nutre della Scrittura. C. è entrato in pieno nella forte corrente derivata da Origene, che non voleva conoscere nessun altro libro che la Bibbia. E, inoltre, da notare come in C. alla lettura attenta della Scrittura è legato l'elemento luce. Questa trasforma l'anima e la deifica. C. conosce la dottrina dell'illuminazione di Paolo (cf Ef 5,8-9; 2 Cor 3,18) e, prim'ancora, di Gesù (cf Gv 8,12). d. La contemplazione. C. traspone in Occidente il primato dell'ideale dei contemplativi (theoretikoi) su quello degli attivi (prakhkoi), della contemplazione (vita contemplativa) sull'azione (vita actualis). Per lui la contemplazione è l'apice della perfezione, il bene supremo (Confer. 23,3; 1,8). Il primo ad elaborare in Occidente una teoria della contemplazione in ambito monastico è C., ma in lui contemplatio ha significati diversi, tra cui quello specifico di visione delle cose divine e anche di Dio. E da notare che contemplazione come stato (o grado) della vita spirituale viene denominata da lui anche con virtus theoretica, scientia (gnosis), theoretiké, theoretica, theoría, invece contemplazione come atto è designata anche con theoría, intuitus e obtuitus. Egli nota che la varietà di forme della contemplazione di Dio è grande (cf Confer. 1,15). C., come Gregorio di Nissa ed Evagrio Pontico, ritiene che la vera contemplazione implichi theoría e praxis: la Scrittura gli insegna che la gnosi deve accompagnarsi alla carità. In secondo luogo, la vera contemplazione apprende direttamente il suo oggetto, è intuitiva; ma la visione è solo delle anime pure, sia che si tratti di leggere il libro della natura che quello della Scrittura: è una grazia di Dio (cf Confer. 12). La contemplazione è sotto l'influsso divino (cf Ibid. 3,12); è effetto di illuminazione particolare dello Spirito Santo (cf Ibid. 14,9); l'anima pura è come piuma leggera, che s'innalza ad altezze sublimi, se spinta dal soffio dello Spirito (cf Ibid. 8,4). Ci vuole con la meditazione della Scrittura anche la purificazione della praxis, alla prima, poi, il monaco non deve rinunciare anche se pervenuto alla contemplazione. E tanto vero questo per C. che non esita, sulla scia del suo maestro Evagrio, ad identificare quasi la contemplazione pura (visione infallibile interiore di Dio) e la scienza spirituale (l'intima comprensione della Scrittura) (Ibid. 14,8). La contemplazione arriva anche a stabilire un contatto con Dio, riguardante non solo i sensi, ma anche l'intelligenza, la quale " esce da sé " per mettesi in contatto con Dio: è la mistica estatica o l'estasi, che da un lato è ignoranza (agnosia) o tenebra (gnophos), dall'altro è " la superconoscenza di questa ignoranza, la superluminosità di questa tenebra ".3 Quanto a C., egli spesso ricorre a termini come excessus mentis, excessus spiritus, excessus cordis, anche se non spiega l'estasi, né elabora di essa una teoria. Per lui, comunque, l'estasi è una grazia speciale, il superamento della vita sensitiva, caratterizzata dalla rapidità con cui avviene: è come una puntura (compunctio) da parte di Dio all'anima (Confer. 9,27). e. L'apice della contemplazione: la preghiera pura. In C. ed in altri autori la contemplazione è facilmente identificata con la preghiera. Alcune sue espressioni lo provano: " Stare incessantemente occupati di Dio e delle cose celesti " (Confer. 1,8); " perseverare in una preghiera incessante " (Ibid. 9,2). Per lui, la contemplazione perfetta si identifica con la preghiera perfetta, definita da C. come da Evagrio " preghiera pura ": le due realtà sono strettamente unite (cf Confer. 9,8; 19,8). Nella preghiera pura " giungono rivelazioni sui più santi misteri, che fino ad ora mi erano rimasti completamente nascosti " (Ibid. 10,10). " Il fervore intenso, osserva il Columbás, in cui ciò avviene, è dedotto dalla terminologia usata, quale ’fuoco', ’fiamma', ’preghiera ignea', che dice manifestazione viva della carità ".4 La stupenda Conferenza X sulla preghiera si fa eco della preghiera sacerdotale di Gesù, comunicazione agli uomini del suo amore, che forma la vita eterna di Dio in se stesso (cf Confer. 10,7). Pregare così è lo scopo della contemplazione: la " preghiera di fuoco " fa un tutt'uno con la contemplazione. E la " preghiera di fuoco " è, infine, preghiera accompagnata da lacrime, segno d'intensa e inesprimibile gioia spirituale.

Note: 1 Uomini illustri, 62; 2 J.C. Guy, Jean Cassian. Vie et doctrine spirituelle, Paris 1961, 10; 3 J. Lemaître, Contemplation, in DSAM II, 1964; 4 Il monachesimo delle origini, Milano 1990, 379-380.

Bibl. Fonti: L. Dattrino (cura di), G. Cassiano, Le Istituzioni, 1, V-XII, in Id., Il primo monachesimo, Roma 1984; J.C. Guy (ed.), Jean Cassien, Institutions cénobitiques: SC 109, Paris 1965; O. Lari (cura di), G. Cassiano, Conferenze spirituali, 3 voll., Roma 1965; E. Pichery (ed.), Jean Cassien, Conférences I-VII: SC 42, Paris 1955; VIII-XVII: SC 54, Paris 1958; XVIII-XXIV: SC 64, Paris 1959. Studi: L. Bouyer, La spiritualità dei Padri (III-VI secolo). Monachesimo antico e Padri, nuova ed. a cura di L. Dattrino e P. Tamburrino, Bologna 1986, 247-258; B. Calati, Sapienza monastica. Saggi di storia, spiritualità e problemi monastici, Roma 1994, 299-314; O. Chadwick, John Cassian, Oxford 1968; L. Dattrino, Lavoro e ascesi nelle " Institutiones " di Giovanni Cassiano, in S. Felici (ed.), Spiritualità del lavoro nella catechesi dei Padri del III-IV secolo, Roma 1986; H.D. Egan, Cassiano, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 94-104; J.C. Guy, Jean Cassien. Vie et doctrine spirituelle, Paris 1961; J. Leclercq, L'unité de la prière, in ParL 42 (1960), 277-284; C. Leonardi, L'esperienza di Dio in Giovanni Cassiano, in Ren 13 (1978), 198-219; S. Marsili, Giovanni Cassiano ed Evagrio Pontico. Dottrina sulla carità e contemplazione, Roma 1936; A. Menager, La doctrine de Jean Cassien, in VieSp 8 (1923), 183-212; M. Olphe-Galliard, s.v., in DSAM II, 214-276; A. Pastorino, I temi spirituali della vita monastica in Giovanni Cassiano, in Civiltà Classica Cristiana, 1 (1980), 123-172; C. Tibiletti, Giovanni Cassiano. Formazione e dottrina, in Aug 17 (1977), 355-380.

O. Pasquato

CATERINA DA BOLOGNA (santa). (inizio)

I. Vita e opere. Nata a Bologna l'8 settembre 1413, ma educata a Ferrara, può giovarsi, dagli undici ai diciannove anni, della cultura offerta dalla corte degli Estensi. Questo potrebbe essere dimostrato dall'intrinseca consuetudine con Margherita, figlia naturale di Nicolò d'Este ( 1496) e dalla mole di cultura cristiana che si manifesta nelle sue opere, una maggiore in latino, chiamata Rosarium, che sviluppa in 5596 versi, sui cardini dei quindici misteri del rosario, una delle primissime vite di Cristo, l'altra, Le sette armi spirituali, che alterna ai precetti ascetici, destinati alle novizie osservanti, molte esperienze della sua vita di clarissa. Una terza opera, inedita, espone I dodici gradini di perfezione, un itinerario per " incipienti, proficienti et perfecti ", fiammeggiante d'amore e di slanci poetici come il Cantico biblico.

Da questi scritti e dalla biografia scritta dalla beata Illuminata Bembo ( 1496), si ricava che, quanto più C. avanza in età, tanto più cresce la sua unione con il Signore. Nella pratica dell'obbedienza, dell'umiltà e della povertà sa trasformare in canto la sofferenza e ricondurre il costume conventuale all'energia e al rigore delle origini. Sa essere un'educatrice " combattendo virilmente con la propria fragilità ". La via ascetica che debbono percorrere " li sferzatori di se medesimi " comporta il rifiuto delle dolcezze e la scelta di " portar la croce "; " imperciò che tanto è l'amore quanto el dolore ". Ma poiché " ogni virtù si fa perfetta per le sue contrarie " ed " è pericolo nel troppo come nel poco ", si usi " la discrezione ", " secondo che disse sant'Antonio da Vienna ". Muore il 9 marzo 1463.

II. Dottrina mistica. La sua è una mistica bernardina, ben lontana dal pietismo della Devotio moderna, che pone al primo posto, contro la tesi umanistica, " il disprezzo di tutte le cose terrene ". C. è sempre immersa nel pensiero di Dio e restia a parlare delle proprie esperienze. Ma non può esimersi dal rivelare di avere contemplato la Trinità, di aver penetrato il mistero dell'Incarnazione e quello eucaristico. Sono celebri l'apparizione della Vergine che le dà in braccio il Bambino nel Natale del 1445 e la visione di s. Francesco e di Tommaso Becket ( 1170).

Le estasi, le profezie e i miracoli rientrano nella norma dei mistici, compresa la notte oscura, che chiama " fossa della dannativa tristitia " e le tentazioni diaboliche durate cinque anni. Secondo lei, si arriva alla perfezione solo attraversando il dolore di aver perduto Dio. Infatti, in lei ritorna spesso il ricordo dell'" helì, helì " di Gesù sulla croce. L'ultima delle " sette armi " sostiene la necessità della conoscenza e meditazione della Sacra Scrittura.

Il Rosarium, viva prova dell'alta speculazione mistica della scrittrice, senza tralasciare i diversi sensi biblici, si diffonde nell'illustrazione degli aspetti storici della vita di Gesù. C. legge i Vangeli con vigile razionalità tenendo conto dei Padri, dei santi e dei teologi santi. Ma va detto che in lei la rivelazione non avviene nelle forme usuali; l'ispirazione non è diretta e specifica, ma fortemente intellettualizzata. Le sue opere sono piene di citazioni dei suoi auctores, dichiarate o sottaciute. Ad una lettura attenta si evince, tuttavia, che su alcuni punti evangelici c'è stata un'esperienza diretta.

Il vero motivo di meraviglia è la sua capacità di esegesi e la straordinaria competenza teologica, oltre alla recente scoperta della teoria sulle " nozze spirituali ", tre cose che difficilmente si colgono insieme in un solo autore. I punti notevoli sono la concezione dell'uomo-microcosmo, l'amore sponsale fra la natura umana e Dio, il grande quadro dell'Incarnazione e la dottrina eucaristica. C., infine, sostiene il primato della donna nella linea della grazia, femminismo teologico, non sociale.

Bibl. I. Bembo, Specchio di illuminazione, Ferrara 1989 (rist.); F. Diotallevi, s.v., in EC III, 1142-1143; G.D. Gordini, s.v., in BS III, 980-982; I. Heernichx, s.v., in DSAM II, 288-290; A. Matanic, s.v., in DES I, 477-478; M. Muccioli, Santa Caterina da Bologna, mistica del Quattrocento, Bologna 1963; Id., La spiritualità francescana in santa Caterina da Bologna, in Vita Minorum, 35 (1964)2, 29-51; S. Spano, Per uno studio su santa Caterina da Bologna, in Studi medioevali, 2 (1971), 713-759.

G. Sgarbi

CATERINA DA GENOVA (santa). (inizio)

I. Vita e opere. C. nasce nel 1447 a Genova nella famiglia nobile dei Fieschi. Riceve un'educazione umanistica e una buona formazione religiosa. A dodici anni sente forte l'attrattiva per la preghiera e sembra dimostrare un'inclinazione verso la vita monastica. I contemporanei dicono che è bellissima; dotata di carattere forte è, tuttavia, molto sensibile e possiede una grande capacità d'introspezione. A sedici anni, nel gennaio 1463, si lascia convincere dalla famiglia a sposare Giuliano Adorno: si tratta di un matrimonio combinato per sanare il dissidio politico tra i Fieschi e gli Adorno. Giuliano è violento, brutale e dissipatore e C. trascorre i primi cinque anni di vita matrimoniale in una solitudine penosissima. Le suggeriscono di inserirsi nella vita mondana della città per conquistare l'affetto del marito, ma questo periodo si conclude dopo breve tempo con un avvenimento che segna la sua totale conversione al Signore. Il 22 marzo 1473, indotta dalla sorella monaca Limbania a confessarsi, deve interrompere la confessione perché sviene. Ritornata a casa, ha la visione del Cristo croficisso che riempie la casa di sangue. Il 25 marzo può riprendere la confessione e riceve l'Eucaristia.

Inizia per C. un'ascesa così rapida verso lo stato d' unione con Dio che sembra bruciare i gradi intermedi, le battute d'arresto del generale cammino mistico. L'ascesa si tempra su due fronti: la lotta senza quartiere al suo amor proprio e la dedizione totale ai malati più trascurati, come i lebbrosi e gli incurabili, ai diseredati, ai trovatelli e alle prostitute. Non ha sosta la sua vita di penitenza come non ha sosta la febbre della carità che consuma le sue energie senza risparmio.

Nel 1479, Giuliano Adorno è toccato dalla grazia e con C. entra nel Terz'Ordine francescano: d'accordo con lei fa voto di castità e si dedicherà fino alla morte, nel 1497, alla cura dei sofferenti. Durante la terribile peste del 1493 C. spende le sue forze in maniera eroica per questi ammalati e contrae il morbo per aver voluto abbracciare una consorella terziaria morente. Ne guarirà, ma la sua salute fisica verrà definitivamente intaccata da un malessere di origine ignota che la consumerà togliendole ogni apparenza di residua presenza e bellezza.

Una cerchia di ammiratori e di collaboratori si stringe intorno a C.: sono uomini e donne, religiosi e laici, nobili e borghesi. Nasce così la Compagnia del Divino Amore, uno tra gli " Oratori " che germogliano nell'Italia del tempo.

E a questo cenacolo che risale l'Opus Catharinianum, un complesso di opere attribuite a C., ma di cui solo una piccola parte è stata probabilmente redatta da lei. L'Opus Catharinianum comprende il Libro della vita mirabile e dottrina santa de la Beata Catarinetta da Genova; il Trattato del purgatorio; il Dialogo spirituale fra l'anima il corpo, l'amor proprio, lo spirito, l'umanità e il Signor Iddio.

La Vita si ritiene redatta dal Marabotto; il Dialogo sarebbe redatto da C. nella prima parte; il Trattato del Purgatorio sarebbe stato composto dal ricordo vivo della voce di C. e risponderebbe, di fatto, al suo pensiero e, in un certo modo, anche alla sua espressione linguistica.

C. muore la mattina del 14 settembre 1510. Il 16 maggio 1737 è canonizzata da Clemente XII ( 1740). Il 15 settembre 1943, Pio XII con il documento Inter gravissimas dichiara santa C. da Genova " Patrona degli ospedali d'Italia ".

II. L'itinerario spirituale di C. ha come idea speculativa portante l'annichilimento di sé per consentire la totale occupazione del suo essere da parte di Dio. La volontà di annullamento le detta interiormente lo spogliamento da tutte le proprietà del proprio essere e l'oblio dello stesso suo io soprannaturale e di ciò che opera Dio. Ella si offre così alla giustizia riparatrice senza sollievi e concretamente compie atti di mortificazione e di penitenza che sono al limite dell'umano. La nudità del suo essere e della sua vita assume l'atteggiamento interiore dell'estraniazione da sé e da ogni relazione con le cose, per quanto esse possono toccarla. L'amor proprio per C. è una forma di anticristo che tende ad impadronirsi della persona escludendo la presenza di Dio. L'amor proprio si pasce, infatti, " di cibi terreni e celesti ed è tanto sottile ladro, che ruba sino a Dio, per sé proprio, senza sentirne dentro stimolo, né riprensione come se fusse cosa sua e senza la quale potesse vivere " (Vita, 21).

C., teorizzando la propria esperienza di purificazione da parte dell'amore divino che sempre più veemente l'invade nel suo cammino mistico, ne trae un'immagine del purgatorio in cui le anime sono tormentate dal fatto che lo slancio infuocato che l'amore di Dio comunica loro è arrestato dai residui di peccato che ancora non sono cancellati.

Sul filo di questa ascesi purificante C. raggiunge i vertici dell'unione con Dio e dell'amore trasformante: " Aveva questa santa anima tanta unione col suo Dio, che spesso diceva: S'io mangio, se bevo, se vado, sto, parlo, taccio, dormo, veglio, vedo, odo, penso, se sono in chiesa, in casa o fuori; se sono inferma o sana; se morissi o non morissi, in ogni ora e momento del corso della mia vita, tutto voglio sia in Dio e per Dio, e per il prossimo per amore di Dio " (U. Bonzi, c. 27).

Bibl. Opere: U. Bonzi da Genova, Edizione critica dei manoscritti cateriniani, II, Genova l962; G. De Libero, S. Caterina da Genova: le opere, Cinisello Balsamo (MI) 1956. Studi: C. Balduzzi, Il soprannaturale in santa Caterina da Genova patrona degli ospedali, Udine 1992; U. Bonzi da Genova, Teologia mistica di S. Caterina da Genova, Roma 1960; F. Casolini, s.v., in EC III, 1145-1148; P. Cassiano Carpaneto da Langasco, Sommersa nella fontana dell'amore. S. Caterina Fieschi Adorno. La vita e le opere, 2 voll., Genova 1990; P. Costa, L'esperienza della purificazione nelle opere di santa Caterina da Genova, Roma 1970; D. Del Bo, Caterina da Genova. L'amore e il purgatorio, Milano 1978; G.D. Gordini, s.v., in BS III, 984-989; P. Lingua, Caterina degli ospedali, Milano 1986; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, I, Roma 1978, 164; G. Pozzi e C. Leonardi (cura di), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988, 346-362; A. Roggero, s.v., in DES I, 478-480; Umile Bonzi da Genova, s.v., in DSAM II, 290-325; Valeriano da Finalmarina, Capolavori dei Mistici Francescani: S. Caterina da Genova. Trattato del Purgatorio, Genova 1992.

M. Tiraboschi

CATERINA DA SIENA (santa). (inizio)

I. Vita e opere. Caterina Benincasa, da tutti conosciuta come Caterina da Siena, spicca nella storia della Chiesa come una donna forte e zelante, fiduciosa in modo appassionato nell'immenso amore di Dio per l'umanità, manifestato in Gesù Cristo. Nasce a Siena il 25 marzo 1347 da Lapa di Puccio Piagenti e Jacopo Benincasa. Giovanissima si consacra a Dio con il voto di verginità. Più tardi si unisce alle " Mantellate ", un gruppo di laiche domenicane che in Siena consacrano la vita alla preghiera ed all'attività caritativa. I primi tre anni come " Mantellata " trascorrono in una solitaria vita di preghiera. Dopo questo periodo di ritiro, ella s'immerge nell'apostolato a favore del prossimo. Molte cronache riferiscono della sua attenta premura verso i poveri ed i carcerati e della sua sollecita cura per i malati. Spesso agisce da conciliatrice tra Stati in guerra. Incoraggia il papa Gregorio XI ( 1378) a lasciare Avignone per ritornare a Roma, sostenendolo fermamente. Così agisce anche con il suo successore Urbano VI ( 1389). Quando nel 1378 è eletto un antipapa - Clemente VII ( 1394) - ella dedica ogni sua energia alla preghiera e all'attività perché si risolva lo scisma interno alla Chiesa. A questo scopo si trasferisce a Roma. Qui muore il 29 aprile 1380. Prima di spirare, offre la sua vita per la Chiesa: " O Dio eterno, ricevi il sacrifizio della vita mia in questo corpo mistico della santa Chiesa. Io non ho che dare altro se non quello che tu hai dato a me. Tolli il cuore dunque, e premilo sopra la faccia di questa Sposa " (Lettera 371). E stata canonizzata nel 1461 e dichiarata Dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970.

Gli scritti di C. sono: Il Dialogo, Le Lettere e Le Orazioni. Il Dialogo è la sua opera principale. Si tratta di un compendio del suo insegnamento teologico e mistico. Abbiamo ancora quasi quattrocento delle sue Lettere e ventisei delle sue Orazioni. Queste ultime sono radicate nelle grandi verità della fede cristiana e dimostrano validamente la sua unione mistica con Dio. Nelle sue preghiere la teologia diviene dossologia.

II. Esperienza mistica. Nella sua omelia - all'atto della proclamazione di C. Dottore della Chiesa - Paolo VI fa particolare menzione del " carisma mistico " che fu la fonte della sua " lucida e profonda " conoscenza teologica.1

In una lettera a Raimondo da Capua ( 1399), suo confessore, ella spiega che i suoi scritti sono un traboccare della sua esperienza mistica: " [Dio] m'aveva dato e proveduto con darmi l'attitudine dello scrivere, acciocché discendendo dall'altezza, avessi un poco chi sfogare il cuore, perché non scoppiasse " (Lettera 272). Le sue opere teologiche trattano dell'itinerario cristiano verso Dio, dai suoi primi, timidi, esitanti passi fino alla sua ultima tappa di unione trasformante.

Per tutta la vita C. è destinataria di straordinarie manifestazioni dell'amore di Dio: rivelazioni, estasi, visioni, scambi di cuore, stimmate, unione mistica. Tuttavia, mentre riceve speciali benedizioni e grazie, insiste sull'idea che una profonda, genuina comunione con Dio è basata prima di tutto ed essenzialmente su di una vita di fede, speranza e carità.

La sua relazione con Dio rivela una condizione di grande semplicità. Raimondo da Capua riferisce che il Signore " parlava con C. come l'amico ad un amico del cuore " (Legenda Major, I, XI, 112). Difatti, ella è a tal punto consapevole della presenza di Gesù mentre prega, che " recitano insieme i salmi, passeggiando soli su e giù per la cameretta come due fratelli di religione che dicano insieme l'ufficio " (Ibid.). La condizione sperimentata da C, di unione trasformante - dono gratuito di Dio - è nel contempo il risultato di un sempre maggior arrendersi della volontà sua propria. Ne Il Dialogo, Gesù le dice: " Sono un altro me, perché ànno perduta e annegata la volontà loro propria, e vestitisi e unitisi e conformatesi con la mia " (D.1).

C. è una donna capace di profondo amore. Ella, che descrive Dio come " pazzo d'amore " e come " ebbro d'amore " è a sua volta persona " impazzata " e " come ebbra " nel suo amore. Nei suoi scritti ella spiega che è precisamente dal loro esser fatti ad immagine di Dio che gli esseri umani derivano la capacità di amare. Ne Il Dialogo Dio le dice: " Senza amore non potete vivere, perché siete fatti da me per amore " (D. 93).

La ragione per la quale C. - o ciascuno di noi - può amare Dio e le altre persone è che Dio per primo ci ha amati. Ella non finisce di sorprendersi per la profondità e per l'ampiezza dell'amore divino. Questo amore è espresso soprattutto nella creazione e nella redenzione. Lodando l'amore di Dio nella creazione, ella lo rappresenta come " l'amore inestimabile con il quale raguardasti in te medesimo la tua creatura e innamorastiti di lei; e però la creasti per amore " (D. 13). Ella è ancor più sommersa dalla manifestazione dell'amore divino nell'Incarnazione. Di nuovo, ella prega: " O abisso di carità! Qual cuore si può difendere che non scoppi a vedere l'altezza discesa a tanta bassezza, quanta è la nostra umanità? " (D. 13).

Tentando di scandagliare l'amore redentore di Dio, ella esclama: " Ai tu bisogno della tua creatura? Sì, pare a me; ché tu tieni modi come se senza lei tu non potessi vivere " (D. 153).

L'amore di C. per Dio è l'amore di una figlia per un padre affettuoso. In molti punti delle sue opere noi troviamo ch'ella si compiace di rivolgersi a Dio come " Padre eterno " e di descriversi come " dilettissima e carissima figliuola " di Dio. Ella, inoltre, si riferisce a Dio nel modo in cui gli amici si rivolgono l'un l'altro. Adottando l'analogia dall'amicizia umana, ella rappresenta l'amicizia con Dio come una relazione di tenerezza amorosa " perché l'amore si trasforma nella cosa amata ". Osserva deliziosamente: " Le cose secrete si manifestano all'amico che è fatto una cosa con l'amico suo " (D. 60). Caratteristica di tutti coloro che sono amici di Dio è che costoro sperimentano " in un modo particulare " l'amore divino. Essi non più provano un amore puramente intellettuale, bensì " gustano e cognoscono e pruovano e sentono per sentimento nell'anima loro " (D. 61). Questo amore esperienziale costituisce il cuore dell'esperienza mistica. L'itinerario verso Dio è pure un viaggio in se stessi, all'interno di ciò che C. chiama " la cella del cognoscimento di sé ", dove uno riceve conoscenza pratica dell'infinita bontà di Dio (D. 1).

III. Nella dottrina di C. un forte accento è posto sul fatto che amor di Dio ed amore del prossimo sono inscindibili. Dio le dice: " Io vi richieggo che voi m'amiate di quello amore che Io amo voi. Questo non potete fare a me... E però v'ò posto il mezzo del prossimo vostro, acciò che faciate a lui quello che non potete fare a me " (D. 64). Ella incarna bene il significato di ciò con il rispondere all'infinito, vertiginoso amore di Dio vivendo simultaneamente un'esistenza di caritativo e compassionevole servizio al prossimo. Per questa ragione, ella è conosciuta come " mistica della strada ".

C. è spesso descritta come donna piena di desiderio. Invero, ella si riferisce a se stessa come " ansietata di grandissimo desiderio " (D. 1). Desiderio di Dio e della salvezza del mondo. Il suo anelito a Dio è una brama profonda di unione con l'Unico che può saziare completamente il cuore umano. E " ansietata " a causa del protendersi verso Qualcuno che non si possiede ancora perfettamente. Solo nella vita eterna, nella visione di Dio, l'aspirazione sarà priva di inquietudine ed il possesso senza tedio (D. 41). Il suo desiderio di Dio è espresso con eloquenza nelle seguenti parole: " Tu, Trinità eterna, se' uno mare profondo, che quanto più cerco più truovo, e quanto più truovo più cerco di Te " (D. 167).

Ella insegna che il desiderio è l'unica cosa infinita che la persona umana possieda: " Il desiderio vostro è infinito... Io che so Dio infinito, voglio essere servito da voi con cosa infinita, e infinito altro non avete se non l'affetto e il desiderio vostro dell'anima " (D. 92). Il desiderio dilata il cuore, in modo tale che in esso trovino spazio Dio ed anche tutta l'umanità.

Ciò porta ad una brama continua di salvezza del mondo. C. prega: " Signore mio, volle l'occhio della misericordia tua sopra 'l popolo tuo e sopra il corpo mistico de la santa Chiesa... mai dinanzi dalla tua presenzia non mi partirò, infine che io vedrò che tu lo facci misericordia " (D. 13).

Nella sua vita mistica C. è una cristiana il cui sguardo è fissato saldamente e primariamente su Gesù Cristo crocifisso, per il quale ella nutre un amore appassionato. Questo è il suo nucleo centrale, nonché l'ispirazione di tutta la sua preghiera ed azione.

Nel proclamarla Dottore della Chiesa, Paolo VI la chiama " Mistica del Verbo fatto carne, soprattutto di Gesù crocifisso ".2 Commentando la risposta di Gesù a Filippo in Gv 14,9 ella sottolinea che Gesù Cristo è l'unico in grado di mostrarci chi sia Dio. Quando ella guarda a Gesù Cristo, vede soprattutto l'amore e la misericordia di Dio. A causa di questo amore e misericordia, Gesù " corse come inamorato " verso la sua morte. C. può dire, di conseguenza, che non furon i chiodi, bensì " lo amore a trattenerlo sulla croce " (Lettera 38).

Una volta, mentre C. sta pregando Dio di concederle un cuore nuovo, ha l'esperienza mistica di Gesù che le estrae il cuore dal corpo e lo sostituisce con il proprio. Da quel momento in avanti ella si sente capace di amare Dio ed il prossimo con il cuore proprio di Cristo (Legenda Major, II, VI, 179-180). Un'altra volta, pregando dinanzi ad un crocifisso nella chiesa di S. Cristina in Pisa, nel 1375, ha l'esperienza di ricevere le stimmate sul suo corpo. Questo avvenimento richiama soprattutto il suo intenso desiderio di essere associata a Gesù nel suo patire e nella sete di salvezza del mondo intero (Ibid., II, VI, 194).

Ella stessa fondandosi su Gv 14,6, mette in rilievo come non vi sia altro modo per giungere a Dio che la via di Gesù Cristo. Quando ella si riferisce al Cristo come via, adopera l'immagine di un ponte steso tra Dio e l'umanità. Spiega che la strada fra cielo e terra era stata distrutta dal peccato e, di conseguenza, gli esseri umani erano incapaci di raggiungere il cielo, così Dio diede loro un ponte, Gesù Cristo, per metterli in grado di giungervi: " Io volendo rimediare a tanti vostri mali, vò dato il ponte del mio Figliuolo " (D. 21). Ci è necessario camminare su questo ponte per arrivare alla nostra meta. E un ponte prodigioso " perché è murato ed è ricuperto con la misericordia " (D. 27). Esso dispone di punti di ristoro lungo il percorso, i sacramenti, ed in particolare l'Eucaristia che offre nutrimento " acciò che i viandanti peregrini delle mie creature, stanchi, non vengano meno nella via " (D. 27). C. ci garantisce che il viaggio lungo questo ponte " è di tanto diletto a coloro che vanno per esso, che ogni amaritudine lo diventa dolce e ogni grande peso lo diventa leggiero " (D. 28). Mediante il percorso lungo il Ponte-Cristo noi raggiungiamo la fine dell'itinerario mistico, cioè Dio, " mare pacifico " (D. 27).

Note: 1 AAS, 62 (1970) 10, 675; 2 Ibid.

Bibl. Opere: Il Dialogo, Siena 1995; Le orazioni, Roma 1978; Le Lettere, Siena 1913-1922, Epistolario, Roma 1940; Raimondo da Capua, Legenda Major, Paris 1866; Thomas Antonii De Senis, Libellus de Supplemento, Roma 1974. Studi: G. Cavallini, La dottrina dell'amore in S. Caterina da Siena, in Divus Thomas, 75 (1972), 369-388; T. Deman, La théologie dans la vie de sainte Catherine de Sienne, in VSpS 2 (1935), 1-24; G. D'Urso, Il genio di santa Caterina, Roma 1971; H.D. Egan, Caterina da Siena, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 394-406; R. Garrigou-Lagrange, L'unione mistica in S. Caterina da Siena, Firenze 1938; Id., La charité selon sainte Catherine de Sienne, in VieSp 47 (1936), 29-44; Giovanni Paolo II, Amantissima Providentia, in AAS 72 (1980), 569-581; M.M. Gorce, s.v., in DSAM II, 327-348; A. Grion, La dottrina di santa Caterina da Siena, Brescia 1962; Id., The Mystical Personality of St. Catherine of Siena, in Cross and Crown, 2 (1950) 5, 266-286; C. Kearns, The Wisdom of St. Catherine, in Ang 57 (1980), 224-243; A.S. Parmisano, Mystic of the Absurd: Saint Catherine of Siena, in Religious Life Review, 97 (1982), 201-214; V. Peri, Io, Caterina scrivo a voi, Gorle (BG) 1995; T. Piccari, Caterina da Siena, mistica illetterata, Milano 1991.

M. O'Driscoll

CATERINA DE' RICCI (santa). (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Firenze il 23 aprile 1522 ed è battezzata con i nomi di Alessandra Lucrezia Romola. Appartiene alla famiglia aristocratica De' Ricci di fazione opposta agli Albizzi in un periodo della vita fiorentina dove splendore di cultura e ricchezza s'intrecciano ai torbidi delle lotte politiche e agli intrighi delle grandi famiglie. Orfana di madre a quattro anni, trova affetto nella matrigna Fiammetta Cattani; a sette anni è inviata in collegio a San Piero in Monticelli presso una zia monaca benedettina. E in questo monastero che probabilmente nasce l'ispirazione che maturerà più tardi diventando il fulcro del suo cammino spirituale. Nutre particolare devozione per Gesù Crocifisso e pratica per suo amore alcune rinunce nell'ambito dei piccoli piaceri della sua età.

A undici anni fa la sua scelta vocazionale decidendo di entrare nel monastero di S. Vincenzo delle domenicane di Prato, una comunità appena eretta, che si raccoglie in una costruzione di modeste proporzioni, ma è di rigida osservanza nella linea spirituale savonaroliana. Uno zio paterno, frate Timoteo, e uno zio fratello della sua matrigna, Angelo da Diacceto, l'aiutano a superare l'opposizione del padre e il 18 maggio del 1535 riceve l'abito religioso domenicano con il nome di C.

Il primo periodo della sua vita religiosa è caratterizzato da un permanente raccoglimento in preghiera che si accompagna a stati di contemplazione che la tengono tanto assorta ed estraniata dalla comunità da farla giudicare " obstupida ".

Dopo la professione, nel 1536, questo andamento di cose sembra peggiorare perché sopraggiunge un decadimento della vitalità sia fisica che psichica. In maniera del tutto inattesa, però, C. rifiorisce a partire dal giorno anniversario del rogo di Savonarola ( 1498) per il quale ella nutre forte ammirazione e devozione spirituale: siamo nel 1540. Ma è un rifiorire che si manifesta con fenomeni mistici quasi continui, la cui straordinarietà fa notizia oltre le mura del convento ed anche fuori d'Italia. Verranno a visitarla numerose persone, tra le più autorevoli del tempo, non senza sollevare, con il polverone della curiosità mondana, il sospetto ecclesiastico soprattutto per il ritorno nell'aria di riminiscenze savonaroliane, C. però è così semplice e così disarmata in una toccante umiltà che l'autorità ecclesiastica deve riconoscervi i segni dell'autenticità.

Nel 1552 C. è eletta priora e dopo pochi mesi inizia per lei un periodo di fecondità costruttiva a favore della sua comunità, dove per quarantadue anni ricoprirà diversi incarichi di responsabilità e per sette volte il priorato. Intorno a lei si va intanto stringendo sempre più vivo, il gruppo savonaroliano dei " piagnoni " e questo darà luogo a una fitta corrispondenza.

Lo guardo di C. va al di là degli orizzonti del chiostro e si allarga alla riforma della Chiesa, oggetto di discussioni con personalità come s. Carlo Borromeo ( 1584) e s. Filippo Neri. La sua salute rimarrà sempre precaria e gli anni di questa esuberanza di lavoro e di rapporti vedranno moltiplicarsi gli acciacchi del suo fisico fino alla morte, avvenuta il 2 febbraio 1590.

Le opere di C. si dividono in due gruppi: le Lettere e le Estasi. L'epistolario è immenso ed indirizzato alle persone più diverse: C. conforta, consiglia, orienta in maniera diversa secondo i bisogni e le richieste dei suoi corrispondenti e soltanto alcune delle Lettere hanno un tono intimo, rispondente alla sua propria esperienza di vita spirituale. Molte delle Lettere non sono autografe, ma dettate. Le Estasi sono state raccolte da diverse religiose, ma particolarmente dalla sua madre maestra, alla quale per obbedienza, prima di diventare priora era tenuta a rendere conto di questi suoi fenomeni straordinari.

II. Il cammino spirituale di C. ha per centro Gesù crocifisso. Nelle sue estasi ella rivive prevalentemente i momenti della passione, partecipando con il corpo e lo spirito alle sofferenze del Cristo. Il Crocifisso è il suo modello supremo, come afferma di lei la sua maestra: " Era talmente legata alla croce del Signore, da non pensare quasi ad altro, da non respirare d'altro... ". La sua unione alla passione non si limita al rapporto d'amore personale con il Cristo, ma è altresì espiazione ed impetrazione per gli altri, per salvare delle anime.

Il convento di S. Vincenzo diventa, così, proprio per questo motivo, un centro di devozione alla passione: le processioni con il Crocifisso, spesso da lei portato stando in estasi, costituiranno una tradizione del luogo al di là della sua vita. Tutto questo costituisce il nucleo centrale dell'esperienza mistica di C., fatta di annichilimento, rapporto sponsale con il Cristo della croce, partecipazione alle sue sofferenze, nel segno di un amore forte e veemente, tipico dei grandi mistici.

Bibl. R. Cai, s.v., in DSAM II, 326-327; G. Di Agresti, s.v., in DES I, 480-482; Id., Mediazione mariana nell'Epistolario di S. Caterina de' Ricci, in RivAM 3 (1958), 243-255; Id., Il dono mistico del cambiamento del cuore in S.C. de' Ricci, in MDom 35 (1959), 33-37; Id., Santa Caterina de' Ricci. Bibliografia ragionata con appendice savonaroliana, Firenze 1973; C. Massarotti, Le lettere di S. Caterina de' Ricci, profilo spirituale letterario, in MDom 27 (1951), 11-37, 104-125, 137-147; G. Pozzi e C. Leonardi (cura di), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988, 387-391; R. Ristori, s.v., in DizBiogr XXII, 359-361; G. Scalia, G. Savonarola e S. Caterina de' Ricci, Firenze 1985.

M. Tiraboschi

CAUSSADE JEAN PIERRE DE. (inizio)

I. Cenni biografici e opere. Nasce il 7 marzo 1675 nel Quercy, nel sud-est della Francia. Nel 1693 entra nella Compagnia di Gesù e dopo alcuni anni di insegnamento ad Aurillac e a Toulouse, a partire dal 1715, inizia una vita di predicatore itinerante. Un primo soggiorno nella Lorena, dal 1729 al 1731, lo mette in contatto con le visitandine di Nancy, alle quali si deve la conservazione della sua larga corrispondenza e della parte migliore del suo pensiero. Dopo una permanenza nel seminario di Albi, quale direttore spirituale, ritorna in Lorena e di questa presenza beneficiano largamente le visitandine, che hanno a capo della comunità donne intelligenti, colte e di profonda vita interiore. E in questo periodo che C. studia, oltre a Francesco di Sales, anche la dottrina di Fénelon e di Bossuet per confutare il semiquietismo.

Dalle note biografiche si ha il quadro di una vita movimentata in netto contrasto con le aspirazioni di quiete profonda di C., ma questo aiuta a comprendere meglio dove si radichi la sua vita mistica e come si alimenti, pur in mezzo a mille difficoltà e a svolgimento di mansioni, come quella di superiore, da cui volentieri rifuggirebbe.

La sua vita, provata anche dalla cecità, si conclude a Tolosa nel 1751.

Non si tratta di un teologo di larga fama, ma la sua testimonianza merita di essere divulgata per il fatto che si tratta di un uomo che ha vissuto in prima persona quello che ha trasmesso attraverso le sue opere, le più mirabili delle quali sono gli itinerari di spiritualità e vita mistica percorsi dalle persone che hanno beneficiato della sua direzione spirituale, in particolare le visitandine di Nancy, che per prime hanno fatto circolare i suoi scritti e i suoi insegnamenti, conservati e trascritti anche in piccole raccolte per argomenti.

La prima opera viene pubblicata nel 1741 con il titolo: Instruction spirituelles en forme de dialogues sur les divers états d'oraison, suivant la doctrine de M. Bossuet, éveque de Meaux.

Il contatto più vivo col suo pensiero si ha però attraverso le Lettere, scritte in particolare alle persone da lui dirette spiritualmente. Rispondendo punto per punto a tutte le questioni e dando i suggerimenti per il cammino spirituale, C. le rende piccoli trattati, adattati alle esigenze di ogni persona.

L'opera per cui C. è maggiormente conosciuto è L'Abandon à la Providence divine, pubblicata la prima volta nel 1861 dal p. Ramiére ( 1884), un trattato composto probabilmente con lettere inviate alla Madre di Rottembourg e con frammenti delle conferenze tenute alla comunità delle visitandine. Il testo ha in breve tempo molte edizioni e nel 1928 raggiunge la ventunesima.

Altri opuscoli sono redatti proprio raccogliendo stralci dalle lettere, come, ad esempio, un trattato sul Cantico dei Cantici.

II. La dottrina. C. non inventa la dottrina dell'abbandono, ma ha il merito di rilanciarla come punto fondamentale nel cammino dello spirito.

Quanto espone e consiglia rivela le fonti della sua formazione e del suo pensiero che sono tutte incentrate sull'abbandono in Dio: naturalmente si risentono gli influssi di s. Ignazio di Loyola, s. Francesco di Sales, sovente anche di s. Teresa d'Avila, s. Giovanni della Croce, s. Caterina da Siena, s. Caterina da Genova, ecc., ma soprattutto in quest'opera traspare la fonte primaria della Scrittura, accostata quotidianamente nella vita liturgica. Scandagliando a fondo la sua opera, si trova la chiave per capire che la cosiddetta " preghiera della Chiesa " non è preghiera se si limita al momento rituale, ma deve " buttare la persona in Dio ".

La sua non è, dunque, una dottrina nuova, ma semplicemente il riprendere e formulare, in forme e visuali " pratiche " e da adattare alla persona, un dato del patrimonio della Chiesa.

Questa " via dell'abbandono " non è per pochi ma per tutti, dice C., e di questa egli si fa " missionario " perché la ritiene la via propria della santità alla quale Dio chiama tutti, ma soprattutto le persone più semplici, i " piccoli del regno ". Metodo universale, " la via dell'abbandono ", si deve adattare ai bisogni e alle capacità di ogni individuo, con attenzione al capolavoro che Dio vuole fare in ogni singola persona. C. non scrive un trattato rigido di passaggi obbligatori a tempi stabiliti, ma traccia un cammino, ognuno poi, giorno per giorno, ne percorrerà il tratto che le sue forze gli consentono, ma sempre in attività mai in passività. Quando parla di " passività " questa è sempre una passività attiva che riposa particolarmente sulla sicurezza che Dio è colui al quale nulla è impossibile ed è buono. Quindi, camminare nella via della perfezione è mettersi a disposizione attiva della volontà di Dio, facendo tutto ciò che a lui piace. In fondo, questo è essere discepoli di Gesù che sempre ha fatto la volontà del Padre: " Mio cibo è fare la volontà del Padre... ".

Dall'abbandono traspare, dunque, una " spiritualità dell'azione " che è stata delineata come l'attenzione al momento presente, cioè a un cammino verso le più alte vette che si fa passo dopo passo, con attenzione a scoprire quanto Dio dice attraverso gli avvenimenti del mondo in cui viviamo. C. arriva a dire che tutte le creature e tutti gli avvenimenti sono come le specie eucaristiche che ci rivelano e ci donano Dio se noi siamo nelle disposizioni di fede richieste, sono " parole di Dio " pronunciate espressamente per noi. La santità si misura con l'amore col quale noi ci rendiamo attenti e docili.

Questo abbandono in Dio diviene, a poco a poco, uno stato permanente per cui chi si mette su questa strada può venire da Dio trasformato in modo tale da divenire incapace di atti che non siano di abbandono, cioè si arriva fino a quando veramente il cristiano può dire: " Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me " (Gal 2,20).

L'atto di abbandono si presenta come una sintesi di vita e richiede l'esercizio delle tre virtù teologali: fede, speranza, carità, dono e caratteristiche dell'itinerario dell'iniziazione cristiana. Vivere il Vangelo, secondo l'insegnamento di C. è " lasciar fare a Dio e fare ciò che Dio esige da noi ", avendo come anelito primo la gloria di Dio, e questo spazza via tante inutili preoccupazioni e scrupoli. La comunione costante con la volontà di Dio in tutte le cose non è altro che, come già insegnavano gli antichi Padri, richiamandosi a Gesù e all'apostolo Paolo, " la preghiera incessante ".

Lo stato di " fede pura ", che è proprio delle " anime abbandonate ", porta ottimismo e serenità perché è la continua vittoria sulla peste dell'amor proprio che ha il primato di rendere la vita triste... attaccando sottilmente, anche con riflessioni che di per sé sembrano buone e legittime, ma che fanno perdere tempo. Lo stato di " abbandono " è dunque " l'attività " che porta ad avere un unico desiderio: " Avere gli occhi fissi costantemente sul Maestro che si è donato ed essere costantemente in ascolto per percepire e capire la sua volontà e metterla in pratica sul campo d'azione quotidiano... "; questo avviene spesso attraverso una purificazione fatta di tempi di oscurità, di aridità, di prove che obbligano la persona a mettersi senza riserve nelle mani di Dio. Si è condotti nel " deserto " per permettere al Signore " di parlare al cuore ".

La " via dell'abbandono " per quanto riguarda la preghiera non esclude né quella vocale né quella organizzata a tempi stabiliti (personale, comunitaria, liturgica), ne riconosce la " pedagogia " per portare all'unione con Dio e alimentarla, anche se la " preghiera di quiete " è vista da C. come la forma propria alla via dell'abbandono e non è qualcosa che si acquisisce con un " metodo " ma è grazia-dono-gratuità, che suppone però tutta la collaborazione e l'allenamento della persona. In fondo è dalla fedeltà alle " cose ordinarie ", che spingono a un cammino costante, che a un certo momento uno si trova nella luce dell'abbandono in Dio. Secondo C. questa " grazia speciale " è donata " abitualmente " a coloro che si aprono ad accoglierla e la rarità dell'" orazione di quiete " è dovuta semplicemente al fatto che pochi sono coloro che con generosità l'accolgono e non all'" avarizia " del dono di Dio...

C. parla anche della " preghiera del cuore " che è riposare dolcemente in Dio, essere pieni di gioia senza quasi sapere perché ...e invita a non moltiplicare le " formule ", a imitare il silenzio pieno di comunicazione degli innamorati, a " fare un certo digiuno " di parole per poter desiderare, aspirare ad una ardente comunione con il Signore, senza arenarsi in tanti pensieri e riflessioni che spesso inaridiscono il cuore e producono solo un vano compiacimento di se stessi.

Nella preghiera c'è un cammino che C. delinea in quattro Dialoghi sulla purezza di coscienza, di cuore, di spirito e d'azione. E chiaro che non condanna l'azione, ma richiama con insistenza il primato dell'azione di Dio. Qui è chiara la luce dell'evangelico " cerca prima il regno di Dio e tutto ti sarà dato in aggiunta... cerca la sola cosa necessaria... non affannarti per le tante cose ".

C. da alcuni è stato criticato per un tipo di " direzione spirituale " troppo semplice, anzi per uno che ne minimizza la necessità, ma questa è proprio una grande perla di questo maestro perché, come scrive, chi ha poco bisogno di direzione è perché ha " eccellenti e grandi direttori " che sanno mettere sulla via del Signore, sanno camminare insieme, in aiuto vicendevole a scoprire il progetto di Dio, senza soffocanti dipendenze e attaccamenti, protesi al Diletto, all'" Unico necessario ", a lasciar lavorare lo Spirito che è stato dato in dono.

Bibl. Opere: J.-P. de Caussade, Trattato sulla preghiera del cuore, Cinisello Balsamo (MI) 1985; Id., L'abbandono alla divina Provvidenza, Cinisello Balsamo (MI) 1991. Studi: F. Cavallera, L'acte d'abandon du P. de Caussade, in RAM 15 (1934), 103; M.G. Chima, Abbandonarsi a Dio. La fiducia nella Provvidenza in J.P. de Caussade, Roma 1990; E.J. Cuskelly, La grâce extérieure d'après le P. de Caussade, in RAM 33 (1952), 224-242 e 337-358; H. Hullet D'Istria, Le père de Caussade et la querelle du pur amour, Paris 1964; M. Olphe-Galliard, s.v., in DSAM II, 354-370; Id., La théologie en France au XVIIIe siècle. Le père de Caussade, Paris 1984; Id., Le père de Caussade directeur d'âmes, in RAM 19 (1938), 394-417; 20 (1939), 50-82; P. Zovatto, s.v., in DES I, 488-490.

G. Oberto

CAVALCA DOMENICO. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Vico Pisano intorno al 1270. Si sa molto poco della sua giovinezza e dei suoi studi. Entra quindicenne nel convento domenicano di S. Caterina Martire in Pisa, dove riceve una solida formazione spirituale e culturale. In quel convento, il C. trascorre tutta la sua esistenza interamente dedito alle lettere e ad un fervido apostolato in favore dei poveri, dei carcerati e specialmente degli infermi languenti negli ospedali, che soccorre meritando l'appellativo di " Domenico l'ospedaliero ". Particolari cure egli rivolge ad alcuni monasteri femminili, tra cui quelli di S. Anna al Renaio e della Misericordia. Fonda, nel 1342, il monastero di S. Maria per accogliervi le donne traviate pentite, molte delle quali convertite dalla sua efficace opera di persuasione. Religioso austero, ricercato e abile predicatore, nonché sereno direttore spirituale, C. si spegne nell'ottobre 1342.

Oltre che alla fama di santità, per cui è stato onorato del titolo di beato dal culto popolare, il nome di C. è affidato soprattutto alla sua vasta produzione letteraria, comprendente soprattutto opere ascetiche e mistiche, che lo collocano non solo tra i più fini scrittori religiosi della prima metà del Trecento, ma anche tra i padri della prosa italiana, apprezzato per la compostezza e la vivacità del suo stile.

E autore di un libero adattamento dal latino delle Vite dei Santi Padri, degli Atti degli Apostoli, come anche del Dialogo di s. Gregorio Magno.

Opere più strettamente spirituali dell'autore domenicano, derivate quasi tutte dalla Summa virtutum ac vitiorum del confratello francese Guglielmo Peyraut,1 per alcune delle quali non è ormai più in discussione la paternità messa talora in dubbio,2 sono nell'ordine di elaborazione: 1. Specchio della Croce, l'opera decisamente più originale del C. e più densa di misticismo in cui vuol dimostrare come Cristo crocifisso presenti ogni sua perfezione in contrapposizione a ogni umano difetto. Il trattato è corredato da dodici sonetti che sintetizzano o riassumono l'argomento svolto; 2. Medicina del cuore, ovvero Trattato della pazienza, in due libri, dedicato il primo all'ira e il secondo alla pazienza; 3. Specchio dei peccati, un manuale per confessori, redatto sulla falsariga di simili trattati provenzali; 4. Pungilingua, contro i peccati della lingua, quelli ovvero che si possono commettere parlando; 5. Frutti della lingua in cui vengono esaltati i pregi della lingua allorché è impiegata per pregare o a fin di bene e ne sono rappresentati i guai se usata invece nella maldicenza; 6. Disciplina degli spirituali, dove il C. procede ad una severa disamina dei vizi che si possono riscontrare nelle persone spirituali " più di vista che di fatti "; 7. Trattato delle trenta stoltizie.

La maggiore diffusione delle opere cavalchiane si registra nel Quattrocento, trovando poi una notevole reviviscenza nel sec. XVIII, attestata dalle due particolari edizioni di D.M. Manni limitatamente alle Vite dei Santi Padri (Firenze 1731-35), e di G. Bottari di quasi tutti gli altri lavori dello scrittore domenicano (Roma 1738-64).

II. Dottrina spirituale. C. pone a fondamento della vita ascetica il mistero della croce come rivelazione dell'amore di Cristo e stimolo a rispondere a tale amore. " Per la croce " si può pervenire al vero " conoscimento di Dio e di noi ", perché siamo impregnati di amor proprio e dominati dalle passioni. La vita spirituale, infatti, è considerata un'impresa cavalleresca in cui il cristiano è chiamato a combattere le sue passioni e i suoi vizi. Per vincere occorrono le mortificazioni, ma senza esagerazioni perché la perfezione non consiste nella mortificazione, bensì nell'amore. Per crescere nell'amore è utile la " memoria " della passione del Cristo che ravviva le virtù teologali e apre all'azione dello Spirito con i suoi doni. Questi induce a praticare le opere di misericordia e colloca l'anima sulla via delle beatitudini evangeliche.

C. ignora gli sviluppi mistici della preghiera contemplativa, perciò insiste sulla preghiera di adorazione perché, a suo avviso, la vita attiva deve precedere e aiutare la contemplazione successiva.

Note: 1 Cf al riguardo A. Zacchi, Di Fra Domenico Cavalca e delle sue opere, in MDom 37 (1920), 272-281, 308-320, 431-439; 2 Cf G. Volpi, La questione del Cavalca, in Archivio storico italiano, ser. V, 36 (1905), 302-318.

Bibl. I. Colosio, s.v., in DSAM II, 373-374; C. Delcorno, s.v. in DizBiogr XXII, 577-586, con tutta la bibliografia precedente; I.P. Grossi, s.v., in DES I, 490-491; A Levasti, Mistici del Duecento e del Trecento, Milano 1935, 1001-1003; Id., Fra Domenico Cavalca, in MDom 66 (1949), 330-343; T. Taddei, s.v., in EC III, 1193-1194.

N. Del Re

CAVERNA - CELLA. (inizio)

I. Nozione. I due termini hanno un significato metaforico identico: uno spazio spirituale dell'anima, nel quale l'azione santificante di Dio riceve accoglienza. Ad essi si può aggiungere per convergenza di senso, quello che s. Teresa d'Avila impiega nel Castello Interiore: morada o mansione o appartamento.

II. Nei mistici. S. Giovanni della Croce ha due indicazioni circa il primo termine; egli intende1 " le potenze dell'anima " (intelletto, volontà, memoria) che dovrebbero essere vuote, purificate, libere da ogni affetto alle cose create, in quanto realtà non riferite a Dio. Purificate, esse diventano grandi spazi spirituali, profondi, in grado di bramare maggior conoscenza di Dio (per l'intelletto), di desiderare intensamente l'amore divino (per la volontà), di dilatarsi al massimo per essere colmata dalla presenza di Dio (per la memoria). Le potenze, sottoposte alla purificazione tanto attiva (da parte della persona) che passiva (da parte di Dio) sperimentano una densa oscurità. In seguito, quando Dio alla sua azione purificante fa seguire una grazia d'illuminazione, d'innamoramento e di pienezza della sua presenza, esse trovano la loro ragion d'essere e rimandano a Dio la gloria ricevuta.

Con la seconda indicazione il Dottore mistico designa2 con la parola c. i misteri di Cristo. Scrive: " Come le c. sono profonde e hanno molte insenature, così ogni mistero di Cristo è profondissimo in sapienza ". L'anima, iniziata all'orazione e già sufficientemente purificata dall'ascesi, desidera approfondire i misteri della vita di Cristo. Il desiderio di scoprire le ricchezze dei misteri di Gesù è finalizzato al raggiungimento della " consumazione dell'amore divino ". Distanziandosi dalle verità umane per entrare in quelle divine, l'anima accede alla " c. del suo talamo " ed ivi può trasformarsi gloriosamente in Dio e bere " il mosto dei dolci granati "3 cioè l'amore nuziale.

Per s. Maria Maddalena dei Pazzi le c. sono le piaghe di Cristo, " dove il Verbo saetta e penetra il mio cuore ".4

Note: 1 Fiamma viva d'amore III, 17-18; 2 Cantico spirituale 37, 2-3; 3 Ibid. 38,9; 4 Cf G. Pozzi, Maria Maddalena de' Pazzi, Le parole dell'estasi, Milano 1984.

Bibl. J. Ohm, Der Begriff " carcer " in Klosterregeln des Frankenreichs, in Aa.Vv. Consuetudines monasticae. Eine Festgabe für Kassins Hallinger aus Anlass seines 70. Geburtstages, Roma 1982, 145-155; M.B. Pennington, The Cell. The Teaching of William of Saint Thierry, in Aa.Vv. Mélanges à la memoire du père A. Dimier, II3, Arbois 1984, 383-389; L. Reypens, Ame (Structures d'après les mystiques), in DSAM I, 433-469.

G.G. Pesenti

CESARIO DI ARLES (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Siamo debitori alla Vita S. Cesarii delle notizie relative al vescovo di Arles, vissuto tra il V e VI secolo in Gallia. L'autore della più famosa Regola per le claustrali nasce in Borgogna tra il 470 e il 471. Entrato ventenne nel monastero di Lérins, è bene accolto dall'abate che gli affida incarichi molto delicati all'interno della comunità. Ma le invidie e le critiche dei suoi confratelli e la salute, minata dai rigori della vita ascetica, costringono l'abate, suo malgrado, ad inviarlo sul continente. Stabilitosi ad Arles, C. frequenta, per un certo periodo, le lezioni di un famoso retore africano del tempo, ma ben presto preferisce dedicarsi allo studio delle opere di s. Agostino, divenendone un profondo conoscitore.

E ordinato prima diacono e poi sacerdote, entrando così a far parte del clero di Arles. Viene inviato dal vescovo Eonio ad un monastero alla periferia della città, forse Trinquetaille, su una delle isolette del Rodano, come abate ad interim, con l'incarico di ristabilire l'ordine e la disciplina, compromesse dopo la morte dell'abate. Egli vi si trattiene per oltre tre anni, riuscendo pienamente nel suo intento di riorganizzare la vita spirituale e materiale del monastero. Ma nel 503 è costretto ad abbandonare questo incarico per assumere quello ben più oneroso di vescovo di Arles. Governa la città per quarant'anni, facendo fronte a vari contrasti politici e religiosi. Partecipa a ben sei sinodi, tra i quali quello di Agde, nel 506, che segna l'inizio di una severa e salutare riforma dei monasteri a lui sottoposti, e quello del 529, ad Orange, in cui viene definitivamente condannato il semipelagianesimo. Nominato vicario della Santa Sede per la Spagna e le Gallie, si trova ad esercitare la sua giurisdizione sulla maggior parte delle città delle due regioni, ritornate in seguito sotto il dominio franco. Muore nel 542 e viene sepolto nella basilica di S. Maria ad Arles, che egli stesso aveva fatto costruire.

Alcuni autori, tra i quali il Bardy sostengono che l'opera del vescovo di Arles non brilli di originalità, avendo egli riutilizzato, prendendo a piene mani e riadattandole alla sensibilità del suo pubblico, molte delle omelie di Agostino. Oltre alle due lettere sinodali, indirizzate rispettivamente al clero e ai vescovi della sua regione, C. è autore di alcune opere dottrinali contro gli eretici, il De mysterio Sanctae Trinitatis ed il Breviarium adversus haereticos contro gli ariani; l'Opusculum de gratia e i Capitula sanctorum Patrum, rispettivamente contro pelagiani e semipelagiani. Se non autore del Simbolo atanasiano, almeno uno dei primi a farlo conoscere e ad adottarlo nella sua diocesi, egli è ricordato soprattutto per la stesura di una Regola per le monache (Statuta sanctarum virginum), ispirata agli Statuta antiquorum Patrum, su consiglio della sorella e della nipote, con le quali egli fonda il monastero di S. Giovanni, il primo ad accogliere la clausura per le donne consacrate. Alla Regola femminile segue, qualche anno più tardi, un adattamento della medesima per i monaci, più breve ed essenziale. L'opera di Cesario si compone soprattutto dei Sermoni, in numero di 238, di cui solo ottanta pubblicati in edizione critica, quasi tutti indirizzati ai fedeli. Sei, scritti per i suoi monaci, formano una sorta di prolusione alla Regula monachorum.

II. Dottrina. Oltre che un padre per le claustrali di S. Giovanni, il tratto più caratteristico che emerge dagli scritti di C., predicatore instancabile e pastore sollecito, è una certa qual forma di pudore e di rispetto verso la vita spirituale dei suoi fedeli, unita ad una umiltà che lo porta più volte ad indicare la strada della salvezza, sulla base di quanto altri più grandi di lui hanno detto (i Padri e gli scrittori sacri). I suoi consigli sono concreti, diretti, attenti alle realtà quotidiane, anche le più minute (cf Ep. I, 1; Sermo 1-2). Eppure questo vescovo è un mistico: la sua esperienza, così come riportata nella Vita (cf Vita II, 36) è fatta non solo di frequenti " visitazioni " di alcuni santi, ma perfino lo stesso Signore Gesù " gli si rivela insieme con i suoi discepoli ". E da questa esperienza personale che C. trae la consapevolezza vissuta che Dio opera in un cuore perseverante e che è solo la vita quotidiana, nutrita alla Parola di Dio, che agisce e fa agire nella carità, la scala privilegiata per l'unione totalizzante con l'Amato. Per questo motivo, l'itinerario spirituale, che sta tra la consacrazione terrena e quella escatologica, va collocato nella perseveranza nello stato scelto, in un abbandono fiducioso e una passività resa feconda dall'azione dello Spirito. Questo è detto nella Regola delle claustrali, ma Cesario rivolge lo stesso discorso anche a chi vive nel mondo, usando una certa finezza psicologica, nel tentativo di creare una spiritualità laicale ante litteram. I Sermoni di C. sono scritti per un popolo cristiano che vive in un contesto socio-culturale piuttosto rozzo e che non sa leggere. Nella sua predicazione egli fa opera di semplice catechesi quotidiana, densa di consigli concreti sulla base della sua esperienza personale (cf Vita 1,62), non solo al clero e ai monaci, ma ai semplici fedeli, della lettura del testo sacro, una sorta di Lectio divina, sia a tavola che nelle lunghe ore di inverno (cf Sermo 6,2; 7,1; 8,2; 72,1), tanto che i sermoni detti De Scriptura sono i più numerosi.

La Parola di Dio, un modo tutto particolare d'essere del Cristo, non meno reale di quanto lo sia nell'Eucaristia (cf Sermo 78,2), è per tutti. Un ricco, meno attento alle cose di Dio, e un povero, che ha più familiarità con il Vangelo, possono farsi vicendevolmente l'elemosina: il ricco, condividendo i suoi beni materiali, il povero condividendo i beni spirituali (cf Sermo 8,1). La Parola è incontro con il Mistero, secondo tutta la tradizione patristica, è luce dell'anima e cibo eterno: è la " lettera dalla Patria " (cf Sermo 6,2; 7,1). E chi non sa leggere, procuri di ascoltare: mediti almeno sul Credo o sul Pater, sul salmo 50 o su un inno, o sul " non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi " (Sermo 6,3; 13,4). Ma tutto questo va preparato da un lento lavoro di ascesi, dal distacco dai beni e dagli attaccamenti terreni innanzitutto, e poi creando un tempo quotidiano per coltivare il campo di Dio, che è l'anima (cf Sermo 6,5; 8,2-3). C. ha una sorta di pudore nel penetrare a viva forza nel rapporto misterioso uomo-Dio: raccomanda di pregare, di chiedere solo la volontà del Padre, di aprirsi alla sua Maestà (cf Sermo 72,5; 152,2).

L'interpretazione mistico-spirituale della Scrittura, la rivisitazione della precedente tradizione patristica e soprattutto la sua profonda fiducia nella Parola di Dio, che cambia radicalmente la persona (è la metanoia del Vangelo) costituiscono anche il fondamento degli scritti ascetici di C.: in particolare di quella Regula ad Virgines, in cui, coniugando l'Opus Dei (la preghiera) e l'opus manuum (il lavoro), il vescovo indica la via di salvezza, con semplicità e pudore, quasi senza esprimere opinioni personali, alle monache del monastero di S. Giovanni. La Lectio costituisce il sottofondo anche della Regola delle vergini: una lettura continua, insistente (cf Reg. ad Virg. 18,3; 20,3; 22,2), porta privilegiata attraverso cui l'anima giunge alla contemplazione di Dio per fruire, in questo modo, della vita trinitaria e rivolgersi, con lo stesso sguardo di Dio, alle creature che egli ha creato e amato. Gli insegnamenti della Scrittura, che C. chiama " fiori del paradiso " e " acqua di salvezza ", sono le perle preziose da appendere agli orecchi e gli anelli e i bracciali, che adornano l'anima consacrata, mentre si dedica alle opere di carità (cf Ep. II, 3). Anche se i cardini della vita contemplativa sono la castità e la povertà e sua compagna inseparabile è l'ascesi, è solo la meditazione costante della Parola, unita a quel silenzio in cui fiorisce la preghiera, che apre il cuore alla libertà dell'incontro con Dio. " Se tu vuoi che Dio ti ascolti, comincia ad ascoltarlo " (Sermo 39,4). Il mistero di Dio si ferma davanti al mistero dell'uomo, che si rinchiude in se stesso. Sebbene appena menzionata, Maria è il modello di queste vergini prudenti, che hanno fatto provvista d'olio, in attesa dello Sposo. Inoltre, le claustrali, ma si badi bene che per C. la vita contemplativa non è vissuta come un " assolo " avulso dalla vita ecclesiale, devono " mostrare nel corpo la Vergine apostolica " (Reg. ad Virg. 63; Ep. I, 2). Come Maria di Nazaret, la monaca deve meditare " queste cose " nel proprio cuore e far sì che la preghiera si levi " così silenziosamente dal cuore da essere appena udita dalla bocca ", mentre attende alle opere quotidiane. Solo in un'attesa così feconda, l'anima contemplativa troverà balsami per le ferite, profumi della castità, gli olocausti della compunzione.

Bibl. G. Bardy, s.v. in DSAM II1, 420-428; L. Bouyer, La Spiritualità dei Padri, 3B (Nuova edizione a cura di L. Dattrino e P. Tamburrino), Bologna 1986, 258-260; P. Christoph, Cassien et Césaire prédicateurs de la morale monastique, Gembloux 1969; J.Ch. Didier, s.v. in BS III, 1148-1150; M. Dorenkarnper, The Trinitarian Doctrine and Sources of St. Caesarius of Arles, Freiburg 1953; S. Felici, La catechesi al popolo di Cesario di Arles, in Aa.Vv., Valori attuali della catechesi patristica, Roma 1979, 169-186; P. Lejay, s.v., in DTC II, 2168-2185; G. Morin, S. Cesarii opera omnia, Maredsous 1937-1942; E. Peterson, s.v., in EC III, 1353-1354; J. Rivière, La doctrine de la Rédemption chez S. Césaire d'Arles, in Bulletin de littérature ecclésiastique, 44 (1944), 2-20; C. Sorsoli - L. Dattrino, s.v., in DES I, 501-502; M. Spinelli, S. Cesario di Arles. La vita perfetta. Scritti monastici, Roma 1981; G. Terraneo, Orientamento ascetico-penitenziale nella pratica religiosa di Cesario di Arles, in Aa.Vv., Miscellanea Carlo Figini, Milano 1964, 73-95; A. de Vogüé, Marie chez le vierges du sixième siècles: Césaire d'Árles et Grégoire le Grand, in Ben 33 (1986), 81-91; Id., La Règle de Césaire d'Árles pour les moines: un résumé de sa Règle pour le moniales, in RAM 47 (1971), 369-406.

L. Dattrino

CHIARA D'ASSISI (santa). (inizio)

I. Vita e opere. Chiara nasce ad Assisi nel 1193 (o 1194), in una famiglia nobile dei " maiores ". Il nome, simbolo di luminosità per la sua radice etimologica, le viene imposto al fonte battesimale dalla madre Ortolana, donna di profonda fede e religiosità. E ancora bambina, di quattro o cinque anni, e già conosce le conseguenze delle violente lotte civili che ai " maiores " contrappongono i " minores ", cioè i poveri, da un lato, e dall'altro i mercanti arricchitisi con il commercio in patria e all'estero. Vive i timori e l'umiliazione dell'esilio con la famiglia costretta a fuggire a Perugia.

Al rientro in Assisi, C., ormai adolescente, viene a conoscenza delle avventurose e affascinanti vicende del giovane Francesco. La sua sensibilità cristiana, che già si esprime con la coerenza della vita mediante la testimonianza della fede, la preghiera, le numerose opere di carità, resta colpita dall'esperienza di Francesco e dei suoi primi compagni, ai quali nel 1208 si aggrega anche il cugino Ruffino; C. ne percepisce la " novità ", la radicalità, lo spessore e decide di conoscere Francesco, visitando di nascosto, con la compagnia di un'amica fedele, il giovane che per lei è diventato come un'eco della voce di Dio che la invita, come " Padre delle misericordie " a trasformare in lui l'esistenza. E attratta irresistibilmente dall'ideale di vita che Francesco le presenta. Egli la esorta, come scrive il Celano, " a disprezzare il mondo, dimostrandole con linguaggio ardente che sterile è la speranza fondata sul mondo e ingannatrice ne è l'apparenza " e sussurra alle orecchie del suo cuore " la dolcezza delle nozze con Cristo " per le quali vale la pena di " serbare intatta la gemma della castità verginale per quello Sposo beato che l'amore ha incarnato tra gli uomini "1

Avvinta, mediante l'invito di Francesco, dal fascino dell'alleanza sponsale con Cristo, C. si sottrae alla voce insistente della famiglia e dell'ambiente sociale che la vogliono sposa e madre onorata, tra gli agi della sua casa, fuggendo nella notte successiva alla domenica delle Palme del 1211 (o 1212), verso S. Maria degli Angeli, dove Francesco l'attende per consacrarla a Cristo. La decisione fondamentale della consacrazione è irrevocabile anche di fronte alle minacce dei parenti. Ma, nella fermezza della sua decisione, C. sperimenta l'insoddisfazione di una risposta secondo le forme tradizionali che il tempo offre alla donna nell'esperienza monastica. Ella percepisce la luce di una strada nuova da percorrere alla scuola di Francesco nella originalità dell'esperienza femminile e claustrale. Perciò, dopo una breve permanenza tra le benedettine di S. Paolo a Bastia e, successivamente, tra le donne penitenti di S. Angelo in Panzo, C. approda tra le mura di S. Damiano, il luogo della duplice profezia di Francesco; quella a lui affidata dal Crocifisso: " Va', Francesco, e ripara la mia chiesa che va in rovina " e quella pronunciata dallo stesso Francesco riguardo proprio a Chiara e alle sue compagne: " Venite ad aiutarmi in quest'opera del monastero di S. Damiano perché fra poco verranno ad abitarlo delle donne, e per la fama e la santità della loro vita si renderà gloria al Padre nostro celeste in tutta la sua santa Chiesa " (cf Test. Sch. 9-14).2 Tra quelle mura C. vive quarantadue anni, " consumandosi " " come sacrificio, vivente, santo e gradito a Dio " (cf Rm 12,1), " di soave odore " (cf Ef 5,2) nel segreto dell'amore totale, senza misura, gratuito a Colui che " per amore nostro tutto si è donato " (cf III Lettera ad Agnese di Praga).3

La Regola da lei scritta, in parallelo a quella di Francesco, ma con il tocco personale del suo genio di madre e sorella delle " sorelle povere ", il Testamento, le lettere a santa Agnese di Praga ( 1282) sono l'espressione più immediata ed autentica della sua intuizione spirituale e dell'itinerario da lei proposto e vissuto in prima persona. Le testimonianze al processo di canonizzazione e la Leggenda, scritta probabilmente dal Celano, ne sono la conferma.

II. Esperienza mistica. La povertà di Cristo, nella manifestazione della nascita fino a quella della croce, è in lei luce di contemplazione; esperienza mistica: è qui la ragione della radicalità e fedeltà alla forma di vita delle sorelle povere che, non a caso, consiste semplicemente nell'" osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo ", nel calore familiare della fraternità connotata di dimensioni profondamente umane animate dalla carità.

Le applicazioni pratiche, le modalità concrete si fondano su questa motivazione teologale ed orante che tiene lo sguardo rivolto a Cristo da imitare, da seguire, da vivere, a cui conformarsi. " Colloca i tuoi occhi davanti allo specchio dell'eternità, colloca la tua anima nello splendore della gloria; colloca il tuo cuore in Colui che è figura della divina sostanza e trasformati interamente per mezzo della contemplazione, nella immagine della divinità di lui " (cf III Lettera ad Agnese).4 I riferimenti paolini non sono casuali. C. deve avere bene assimilato la teologia dell'Apostolo che la induce ad avvalersi delle sue parole per dire a santa Agnese: " Ti stimo collaboratrice di Dio stesso e sostegno delle membra deboli e vacillanti del suo ineffabile Corpo " (cf III Lettera ad Agnese).5 Nella IV Lettera ad Agnese, lo specchio è Cristo stesso, nel quale scrutare continuamente il proprio volto.

A sostegno della forma di vita e di tutta l'esperienza di C. e delle sue sorelle vi è dunque la preghiera. Una preghiera contemplativa fondata sullo sguardo d'amore (" mira ", " colloca gli occhi ", " colloca il cuore "), sull'accoglienza del mistero di Cristo che si propone all'anima e la pervade di soavità, rendendola felice con il suo amore, e sulla comunione di vita con lui, nella vigilanza e nell'attesa. Non ci sono in C. manifestazioni mistiche di eccezionale portata: c'è, però, la consapevolezza che la vita cristiana è dono mistico di cui prendere coscienza, da accogliere e da vivere sino alle sue estreme conseguenze.

C. ha vissuto in modo straordinario e singolare l'ordinarietà: non a caso Francesco l'ha definita la " cristiana ".6 Per questo motivo, ha saputo gustare fino in fondo l'ebbrezza della vita, così da esclamare sul letto di morte, l'11 agosto 1253: " Va' sicura, anima mia benedetta, va', perché Colui che ti ha creata, ti ha santificata e sempre, guardandoti, ti ha amata come la madre il figlio suo piccolino che ama. E, tu, Signore, sii benedetto che mi hai creata! ".7

Note: 1 Cf Legg. Sch. 5 Fonti Francescane (=FF), 3164; 2 FF 2826-2827; 3 Cf FF 2888; 4 Ibid.; 5 FF 2886; 6 FF 2682; 7 Legg. Sch. 46; FF 3252.

Bibl. G. Barone, s.v., in WMy, 312; M. Bartoli, S. Chiara d'Assisi, scritti e documenti, Assisi (PG) 1994; A. Blasucci, s.v., in BS III, 1201-1208; Id., s.v., in DIP II, 885-892; V. Breton, La spiritualità di santa Chiara, in Aa.Vv., Santa Chiara d'Assisi. Studi e cronaca del VII Centenario (1253-1953), Assisi (PG) 1954, 61-78; F. Casolini, s.v., in DSAM V, 1401-1409; F. Cesari, I sermoni, fonti di nuova luce alla spiritualità di s. Chiara, in Chiara d'Assisi, 3 (1955), 21-25; D. Covi e D. Dozzi (cura di), Chiara, francescanesimo al femminile, Roma 1992; L. Hardlick, Spiritualité de St. Claire, Paris 1961; U. Nicoloni, s.v., in DizBiogr XXIV, 503-508; L. Oliger, s.v., in EC III, 1419-1421; Tommaso da Celano, Vita di Chiara d'Assisi, Roma 19882; R. Zavalloni, La personalità di Chiara d'Assisi, Padova 1993.

M.A. Perugini

CHIARA DA MONTEFALCO (santa). (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Montefalco nel l268. A sei anni entra nel reclusorio della sorella Giovanna, maggiore di diciotto anni, costruito dal loro padre Damiano, il quale, quando la comunità aumenta, ne inizia un altro, interrotto per l'ostilità di ambienti civili e religiosi e, in seguito, completato per l'intervento del rettore del ducato di Spoleto. All'inizio del 1288 C. entra in una profonda notte oscura che dura undici anni: crede di essere la peggiore delle creature, abbandonata da Dio e come disperata. Nel 1290 la comunità chiede ed ottiene dal vescovo di Spoleto di adottare la Regola di S. Agostino.

Alla fine del 1291 muore Giovanna e C., nonostante le sue resistenze, viene eletta badessa. Benché priva di ogni consolazione, è sempre fedelissima alla sua vocazione e diviene specchio di santità. Per il bene della comunità spende tutta se stessa. Incompresa dai confessori, che la ritengono santa mentre ella si ritiene la peggiore delle donne, si sottopone a dure penitenze. Durante gli undici anni di purificazione, si sente al centro di una lotta mortale tra i vizi e le virtù, ma ha anche la certezza di essere liberata da ogni vizio e da Dio arricchita di ogni virtù. All'inizio del 1294, C. ha la visione del Cristo che porta la croce e che le dice: " Nel tuo cuore ho trovato un posto per piantare questa croce ". Da quel momento ha acutissimi dolori in tutto il corpo per i segni della crocifissione impressi da Cristo stesso. Per questo, nel 1303, fa costruire la Cappella di S. Croce, affrescata poi nel 1333. Nel 1305 acquista i breviari romani e insegna alle monache a recitare l'Ufficio divino. Nel 1306, già alquanto ammalata, difende la verità cattolica contro i Fratelli del Libero Spirito, smascherandone e denunciandone i gravissimi errori dottrinali e morali.

Muore la mattina del 17 agosto 1308. Volendo conservarne il corpo, le monache ne asportarono le viscere, ma il giorno seguente, ricordando che C. tante volte aveva detto di avere Cristo crocifisso nel cuore, lo aprono e vedono che una parte di esso è trasformata nei segni della passione. Poiché C. gode grande fama di santità taumaturgica, il vicario del vescovo di Spoleto inizia subito il processo informativo e ne scrive la vita. E stata canonizzata l'8 dicembre 1881.

II. Esperienza mistica. C. non ha lasciato nulla di scritto, ma molti suoi pensieri sono riferiti da testimoni diretti nel Processo per la canonizzazione del 1318-19. La sua formazione, l'ascesi e l'assidua meditazione sono in lei esperienza dell'ammonimento della sorella: " Devi pensare sempre alla passione di Gesù e ai dolori della Vergine ". La meditazione è in lei continua. Contro le abitudini del tempo, si confessa e si comunica spesso. Durante gli undici anni di notte oscura è arricchita di straordinari doni di scienza, di sapienza e di profezia: persone di ogni cultura, età ed esperienza, compresi teologi e vescovi e cardinali, ne richiedono il consiglio su cose spirituali. E amica dei poveri e degli ammalati, ai quali manda quanto non è strettamente necessario per la comunità. Fa di tutto perché cessino guerre e violenze e sia resa giustizia ai perseguitati. Nessuno vede mai alla grata il suo volto, ma le sue parole sono parole di vita eterna, vive, penetranti, conformi alla Scrittura. Insegna a non pensare a nulla, a non dire nulla e a non fare nulla che non sia gradito a Dio. Sperimenta rapimenti sublimi, talora una sola volta al giorno, talora più volte, talora addirittura per più giorni. Le sue visioni riguardano tutti gli atti compiuti da Gesù, la presenza eucaristica di Gesù nel mondo intero, il giudizio di Dio sulle anime, la vita beata dei santi in Dio, la giustizia di Dio nell'universo. Gode anche di una forma di visione della Trinità. Vede Dio trino nelle Persone e uno nella sostanza e l'essenza di Dio nella gloria infinita. E evidente l'attività-passività mistica fino al matrimonio mistico: " O fratellanza della vita eterna! Come vorrei invitare tutto il mondo a queste nozze ". Perciò, la sua presenza - " Non vi lascerò come voi pensate " - diventa spesso esperienza spirituale molto intensa e consolazione per quanti sono impegnati sulle vie di Dio.

Bibl. Aa.Vv., S. Chiara maestra di vita spirituale, Montefalco (PG) 1983; Aa.Vv., Chiara da Montefalco e il suo tempo, Firenze 1984; Aa.Vv., La spiritualità di S. Chiara da Montefalco, Montefalco (PG) 1986; Aa.Vv., La stigmatizzazione di S. Chiara della Croce, Montefalco (PG) 1995; G. Barone, s.v., in WMy, 312-313; Ead., Claire de Montefalco, in Aa.Vv., Histoire des saints et de la sainteté chrétienne, VII, Paris 1986, 110-116; Berengarius Donadei, Vita de S. C. a Cruce (codici vari, uno trascritto da P.A. Semenza), Città del Vaticano 1944, tr. it. di R. Sala, Roma 1991; N. Del Re, s.v., in BS III, 1217-1222; E. Menestò (cura di), Il processo di canonizzazione di Chiara da Montefalco, pref. di C. Leonardi e appendice storico-documentaria di S. Nessi, Perugia-Firenze 1984; R. Sala, S. Chiara del Crocifisso, agostiniana, Roma 1977.

R. Sala

CHIAROVEGGENZA. (inizio)

I. Nozione. E la facoltà di conoscere oggetti nascosti da corpi opachi o lontani, indipendentemente dalla mediazione dei sensi e da comunicazioni telepatiche. Benché tale capacità si denomeni c., in realtà non sempre la visione è chiara.

Gli studi su tale capacità iniziarono negli ultimi decenni del Settecento con il medico austriaco Franz Mesmer, che si servì di individui ipnotizzati. Questi dimostrarono di poter leggere a occhi chiusi e uno degli ipnotizzati, Alexis Didier, descrisse luoghi e oggetti lontani. Nei primi anni del nostro secolo si distinsero in questa capacità la signora Leonard, Indwig Kahn e Stefan Ossowiecki.

Spesso, però, si rimane incerti se si tratti di c. o di telepatia. Per questi studi si usavano scritture, chiuse in buste, che potevano essere trasmesse telepaticamente. Quando tali " chiaroveggenti " leggevano in libri chiusi, presi a caso, si trattava certamente di c.

Le ricerche condotte alla Duke University di Durhan, Carolina del Nord, da J.B. Rhine sono state molto criticate perché, in ogni caso, non si distingue tra telepatia e c. Il Rhine stesso usa il termine generico: percezione extrasensoriale (Extra Sensors Perception: ESP). Secondo gli studiosi si possono distinguere più forme di c., in base agli oggetti: criptoscopia: visione occulta; autoscopia: visione dei propri organi interni; eteroscopia: visione degli organi interni di altri; diagnosi chiaroveggente; c. viaggiante. E questo il caso tipico di Pasqualina Pezzola, marchigiana. Questa, in stato di trance, ha l'impressione di recarsi in luoghi lontani, che poi descrive, a visitare un ammalato facendone la diagnosi.

II. Nell'esperienza mistica. Occorre andare cauti nell'attribuire a visioni o a rivelazioni di Dio quanto invece può essere solo l'effetto di una causa naturale. Certo, Dio si può servire di energie presenti nella natura umana per un fine soprannaturale. In tal caso, occorre fare opera di discernimento, vagliando bene sia la persona in questione che le circostanze che determinano tale fenomeno.

Bibl. R. Amadou, La parapsychologie, Paris 1954; H. Bender, Telepatia, chiaroveggenza, psicocinesi, Roma 1988; I. Bergier, Il paranormale. Telepatia, chiaroveggenza, premonizioni, Roma 1988; W. Butler, Telepatia e chiaroveggenza. I segreti della comunicazione mentale, Roma 1986; U. Dettore, L'altro regno, Milano 1973; O. Gonzales Quevedo, La faccia occulta della mente, Roma 1972; E. Pampas, La chiaroveggenza, Milano 1985; P. Pourrat, s.v., in DSAM II, 922-929; I. Rodríguez, s.v., in DES I, 502-503.

V. Marcozzi

CHIESA. (inizio)

Premessa. Questo contributo non risponde né all'esigenza del trattato De Ecclesia, né dell'indagine monografica su qualche tematica o problematica ecclesiologica. E soltanto un'analisi del lemma nell'ottica generale della mistica. Di questa presuppone un'adeguata conoscenza. Dovendo illustrare il rapporto C.-mistica, il suo riferimento va ovviamente alla mistica cristiano-cattolica. Riferimento ineccepibile, oltre che illuminante e relativamente nuovo: non sempre infatti, o non adeguatamente, la teologia spirituale ne ha tenuto conto.

Anche della C. si presuppone una conoscenza globale, dovendo qui limitarne l'analisi a quella parte (Corpo mistico, mistero, comunione, santità) che più da vicino riguarda la mistica. Si studierà pertanto la C. entro i limiti indicati, quindi la mistica come vocazione cristiana ed, infine, la mistica nella sua relazione alla C. In via preliminare va qui precisato che " non è in esame una qualunque esperienza mistica, né una qualunque teoresi di essa, né una qualunque religiosità, pubblica o privata. In esame non è nemmeno una qualunque delle innumerevoli chiese, ma la C. cattolica. Di conseguenza, la mistica della quale si parlerà è soltanto quella di matrice cattolica. Non si nega con ciò la possibilità di esperienze mistiche in ambiti non cattolici, ma s'intende definire metodologicamente l'estensione del presente contributo.

I. La definizione della C. come " società dei veri cristiani che professano la stessa fede, fanno uso degli stessi mezzi salutari ed obbediscono agli stessi legittimi pastori ", elementarmente ineccepibile, coglie della C. quella rilevanza estrinseca che si concreta nella sua istituzionalità e per la quale è sacramento universale di salvezza. Lascia però in ombra tanto la genesi della C. da Cristo, quanto il suo complesso mistero; cioè proprio quel che non deve restar in ombra. A tal fine, le fonti a disposizione sono quelle neotestamentarie nel loro duplice valore di rivelazione divina (conoscenza soprannaturale) e d'attestazione storica (conoscenza naturale, scientifica). Ne discende che un uso onesto di esse non dovrà mai prescindere dalla loro natura, confinandosi in una trattazione puramente storico-scientifica. Esse esigono una trattazione teologica. Tale non fu né quella liberale, né quella Formgeschichtlich (storico-critica), né quella del recente Frühkatholizismus che, obliterando l'elemento soprannaturale della rivelazione, tutto incapsula in schemi preconcetti d'analisi storica. Staccata dal Cristo postpasquale, la C. diventa una sovrapposizione rispetto agli intenti di lui, che si sarebbe limitato a proclamare il regno di Dio. Tant'è che la testimonianza neotestamentaria non trasmetterebbe né parole di fondazione, né qualche sintomo di decisioni o almeno d'intenzioni, da parte di Cristo, di collegare gli effetti della sua opera salvifica con la presenza e l'azione d'una C. Chi legge l'Evangelo con gli occhi della fede sia pur senza pregiudizi per la scienza, perviene a risultati diametralmente opposti: la C. è voluta da Cristo, da lui fondata ed istituita. Per ciò essa non può esser diversa, nella sua sostanza, da quella che egli fondò e da come l'istituì. Tale conclusione non è impedita dal rarissimo ricorrere della parola C. (ekklesia, trad. greca dell'ebr. qahal, che Gesù probabilmente pronunciò qehala nella sua lingua aramaica, cf Mt 16,18; 18,17), ma dipende da non pochi indizi, che non sarebbe " scientifico " ignorare. E già poco attendibile il procedimento storico-critico nella sua negazione di parole neotestamentarie riconducibili a Cristo come espressione della sua volontà di fondare la C. Di Mt 16,18 (un testo in passato molto discusso e perfino contestato) nessuno oggi mette in dubbio l'autenticità e storicità; il suo tenore aramaico ne conferma l'origine da Cristo e gli conferisce il carattere d'un suo loghion: la sua presenza in tutti i più antichi codici lo strappa all'alea del dubbio e dell'inverificabilità. Orbene, proprio in esso è evidente l'idea della fondazione (oikodomézo) e la C. ne è l'oggetto (ten ékklesian). Né meno importanti sono le prove indirette. R. Schnackenburg, mentre sottolinea la non estraneità della C. al momento postpasquale per avere il Risorto convocato ed atteso i suoi a Gerusalemme (cf Mc 16,7), parla anche dei " giorni terreni " di Cristo, caratterizzati dalla scelta dei Dodici " perché stessero con lui e per mandarli a predicare " (Mc 3,14; cf Mt 10,14; Lc 6,12-16). Si tratta di coloro che Cristo " chiamò Apostoli " (Lc 6,13) e che inviò prima ai figli d'Israele, quindi a tutte le genti (cf Mt 28,18; Rm 1,16), perché tutti ammaestrassero, santificassero, governassero (cf Mt 28,18-20; cf Mc 16,15-16; Gv 14,23). I Dodici assurgono, in tal modo, a vera istituzione, con poteri profetici, sacerdotali e disciplinari, ed il gruppo dei discepoli forma, attorno ad essi e con essi, il primo nucleo della C. nascente. In effetti, i discorsi missionari della prima parte degli Atti dimostrano che essa è già in atto quale Cristo l'aveva voluta. Ad essi si aggiunge la testimonianza di s. Paolo ed in special modo della 1 Cor e delle lettere dalla prigionia: documento inequivocabile della " C. di Dio " (1 Cor 11,22) che è in ciascuna delle comunità cristiane particolari, tutte amalgamate dal medesimo riferimento al Risorto, tutte unificate sia dallo Spirito di lui, sia dalla presenza di Pietro e dei Dodici. Se nel NT i Dodici sono la cellula fondamentale della " C. di Dio ", non mancano contesti che ne comprovano la dipendenza genetica ed esistenziale dalla Parola e dall'azione di Cristo. Un solo esempio: la pericope dell'Ultima Cena (cf Lc 22,19-20; 1 Cor 11,23-25; At 27,35). Qui non solo è istituito il sacerdozio cattolico con l'ufficio di consacrare il Corpo ed il Sangue di Cristo-Eucaristia, ma in parallelo è istituita la C. nella sua realtà di nuova alleanza (e kainè diathèke, Lc 22,20; 1 Cor 11,25) suggellata nel e dal sangue di Cristo (cf Ibid.). Una stretta connessione annoda l'ultima Cena ai fatti del Sinai (cf Es 19,24): qui si conclude l'alleanza (berîth) di JHWH con il suo popolo che nasce come tale in quel medesimo istante, là viene sancita la nuova alleanza e con essa la nascita del nuovo " Israele di Dio ". Al sangue dei giovenchi è sostituito il sangue dell'" Agnello che toglie i peccati del mondo " (Gv 1,29). L'alleanza del Sinai configura " un regno di sacerdoti, una gente santa ", quella dell'Ultima Cena dà vita al popolo sacerdotale generato ed unificato dal nuovo sacrificio. La corrispondenza è impressionante: dà l'idea d'un processo perfettivo, d'una tensione escatologica dalla berîth sinaitica all'alleanza del mistero pasquale, dalla prefigurazione e dalla profezia al compimento e alla realtà. In questo contesto ha luogo l'investitura dei poteri sacerdotali con il conferimento del potere sul Corpo e il Sangue del Signore. Ma i precedenti sono vari e dilatano l'ambito dei poteri stessi. Operando " in persona Christi " (cf Mt 10,40; Lc 10,16; Gv 12,44-45), i Dodici potranno d'ora in poi predicare l'avvento del regno (cf Mt 10,7; Lc 10,9), scacciare i demoni (cf Mt 10,1; Mc 3,15; 6,7-13; Lc 9,15), rimettere i peccati (cf Gv 20,23). Sono mandati " in tutto il mondo " ad " ogni creatura " per tale scopo: una missione alla quale è assicurato l'avallo celeste: " Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo " (Mt 18,18; Gv 20,23). In Mt 28,18 è indicata senza equivoci la ragione di codesta investitura: " Mi è stato dato ogni potere (pasa exousia) in cielo e in terra. Andate, dunque (cun)... ". La forza del ragionamento sta tanto nella premessa, quanto nella conseguenza; quel " dunque " non si spiega senza la totalità dei poteri nelle mani di Cristo che ne compie la trasmissione. Ne discende che l'operato dei Dodici sarà quello dello stesso Cristo, espressione della sua stessa exousia. E che Cristo intendesse non già gratificare i Dodici per se stessi, ma provvedere alla vita e sopravvivenza della C. è dimostrato dal seguito delle sue parole: mediante la presenza dei suoi poteri egli sarà con loro " tutti i giorni, fino alla fine del mondo " (Mt 28,20). Dinanzi a tale e tanta chiarezza c'è solo un'osservazione da fare: per negare la dipendenza della C. da Cristo, bisognerebbe tracciare un segno di croce sulle parti più significative del NT, o negare ad esso ogni validità documentale. Forte di siffatta certezza, la coscienza cristiana ha spesso accreditato l'idea della C. che nasce dal costato trafitto del Crocifisso: " ex Corde scisso Ecclesia Christo iugata nascitur ". Così la liturgia, così alcuni Padri, così non di rado il Magistero. E un linguaggio radicato nel rapporto Cristo-C., ma in qualche misura riduttivo. Il " Cuore squarciato " di Cristo richiama evidentemente il colpo di lancia infertogli dal soldato, di cui in Gv 19,34-35. In pari tempo, è per sineddoche un riferimento al sacrificio dell'Agnello di Dio inchiodato sulla croce del venerdì santo; ma anche al fatto sacramentale del giovedì santo, che anticipa " in mysterio " sia la tragedia del Golgota sia l'aurora pasquale della risurrezione. L'evento della salvezza tutt'intero è, dunque, da leggere ed adorare nella sopracitata espressione; ma soprattutto il nascere della C. dal cuore piagato del Signore significa affermarne e confermarne la dipendenza da lui.

1. Mistica identificazione tra Cristo e la C. Qualcosa, in tutto ciò, evadendo dal quadro documentale, si pone su un livello più alto. L'investitura dei poteri sacerdotali illumina la natura profonda della C., ben oltre i confini della sua fenomenicità e verificabilità. Cristo e la C. s'identificano misticamente; essa è il suo prolungamento storico, la sua proiezione spazio-temporale e può parlare, pertanto, al posto suo, la sua Parola: " Questo è il mio Corpo, questo il mio Sangue; io ti battezzo; io ti assolvo ". Il carattere paradossale di tale realtà è fuori discussione: essa è un'associazione di uomini, non di angeli; ha le sue leggi e i suoi istituti, ma non si definisce in essi ed in ciò che ne traspare; la sua verità è oltre (para) il suo stesso fenomeno (dóxa). E invisibile nella sua visibilità, carismatica nella sua autorità, appartenente allo Spirito del Padre e del Figlio nella sua temporalità. E mistero. Realizza in sé quel mistero nel quale l'apostolo Paolo vede il piano della salvezza universale, concepito ab aeterno dal Padre, attuato dal Figlio nello Spirito Santo e consegnato alla C. Per quante riserve occorra fare sulla Mysterientheologie di O. Casel, va lui riconosciuto il merito d'aver ricostituito il binomio C.-mistero come continuazione della missione del Verbo. In realtà, per l'analogia di costituzione che assimila la C. a Cristo, a essa va ricondotta quella ministerialità e strumentalità che è propria della natura umana di Cristo e che ne continua la missione salvifica. La C., pertanto, è come l'umanità di Cristo al servizio della salvezza, è suo organo. L'essere mistero è non un fatto statico, ma un impegno. Proprio perché mistero, la C. è sacramento, cioè segno e strumento della salvezza stessa. Si compie in essa, così, quel travaso che O. Casel e H. de Lubac costatarono nella semantica di mistero: verso il sec. IV, tutto il contenuto di mistero passò in quello di sacramento. Unità contenutistica, dunque, anche se mistero e sacramento si specificano sul piano formale: il mistero è un dono, è grazia; il sacramento è il gesto, il rito, la parola che l'esprime e lo realizza. Il mistero è; il sacramento avviene. Per questo il Vaticano II riaffermando la C.-mistero, ne proclama la sacramentalità, perché costituita " segno e strumento ", " un sacramento grande ", una grande mediazione di salvezza in cammino verso il regno. Il discorso sulla C.-mistero elude quello, puramente apologetico, di una ecclesiologia attenta più alle rilevanze esteriori che all'interiorità della C., ed è soprattutto un atto di fede nel mistero di Cristo: ne coglie, infatti, il prolungamento sacramentale e proclama la sacramentale " identità " fra Cristo e la C.

2. Questa è per tale motivo il suo mistico Corpo. Che si tratti d'una definizione o d'una metafora, una cosa è certa: si è qui dinanzi ad una delle più profonde verità cristiane, oltre che ad un'acquisizione ecclesiologica che non solo segna una direttrice di marcia, tra le più felici, alla riflessione teologica, ma apre anche luminose prospettive di vita e di crescita nella fede. Incrementa, infatti, una sensibilità autenticamente ecumenica che valorizza l'efficacia ecclesificante del battesimo e l'universale chiamata alla salvezza. La dottrina è già presente, almeno in nuce, nel quarto Vangelo ed è poi approfondita dall'apostolo Paolo. Mt 10,40 e Lc 10,16 unitamente ad At 9,4-5 la espongono come mistica identificazione di Cristo e dei suoi seguaci; Gv 15,16 la presenta come mutua immanenza dell'uno negli altri (cf Gv 17,21-24). L'apostolo Pietro, a sua volta (cf 1 Pt 2,4-5), scorge nella detta immanenza la ragione per la quale tanto Cristo quanto i cristiani sono " pietre vive " dell'" edificio spirituale ", cioè la C. Ma la vera applicazione dell'idea di corpo alla C. e la sua analisi teologica sono opera di san Paolo. Nelle sue grandi lettere e in quelle dalla prigionia l'idea di corpo gli serve per sottolineare la partecipazione vitale e l'ammembramento dei cristiani a Cristo. E questo il contenuto di 1 Cor 12,27 nella cui scia si muovono pure Rm 12,5 e Gal 3,28 verso un medesimo traguardo: " Tutti voi siete uno (=corpo solo) in Cristo Gesù... ". Alla base di tale ammembramento Rm 6,3-11 pone la partecipazione sacramentale a Cristo morto e risorto, grazie alla quale ogni cristiano diventa un sunphotos, un innesto, un germoglio, un " connaturato " o consanguineo di Cristo. Viene così a determinarsi una comunione insieme verticale ed orizzontale: l'una fa dei cristiani una sola entità in Cristo (eis éste en Cristó Iesoú, dove è da notare il maschile eis), al quale essi sono stati conformati dal battesimo, cosicché la loro individuazione non soggiace più ai criteri del discernimento puramente umano, ma al loro mistico identificarsi col Signore Gesù (cf Gal 3,27-28); l'altra insorge da codesto identificarsi e si configura come una grandiosa concorporazione: gli uni son membra degli altri (cf Rm 15,5; 1 Cor 12,27) ed ognuno concorre al bene dell'intero organismo (cf 1 Cor 12,16-30; Rm 12,4). A quest'analisi le lettere dalla prigionia aggiungono l'idea del pléroma, la pienezza, o totalità (pan to pléroma) della vita divina che il Padre si compiacque d'effondere in Cristo (cf Col 1,19) e che questi riversa sulle membra del Corpo suo che è la C. (cf Col 2,9-10; Ef 1,23; 3,19). Per questa partecipazione vitale a Cristo, la C. risulta soggetto ed oggetto dell'enunciata pienezza: Cristo la " riempie " di sé ed essa ne " riempie " a sua volta i cristiani. Vi si può verificare davvero quella pienezza o totalità ch'è espressa dall'ebraico basar (il tutto vivente), del quale soma (corpo) è la traduzione greca. Dal NT all'enciclica Mystici Corporis (29.6.1943) e da questa al Vaticano II (particolarmente in LG 7), l'idea del corpo come totalità vivente accompagna la maturazione d'una coscienza ecclesiologica: presente nella patristica (chi non ricorda il " Christus totus " di sant'Agostino?), nella preghiera liturgica, nella riflessione dei grandi scolastici e perfino nella Riforma, sia pur con alterne vicende ed interpretazioni non univoche si presenta come una colonna portante dell'essere cristiani, non raramente consolidata dall'intervento del Magistero. E vero che l'aggettivo " mistico " può creare, e di fatto talvolta creò, qualche difficoltà, ma, se non altro dopo la Mystici Corporis, tali difficoltà hanno sempre avuto minore consistenza. " Mistico ", infatti, non significa, come in qualche caso si disse, morale, spirituale, ideale, irreale, non scientifico, sentimentale; significa appartenente ad una realtà diversa da quella naturale, cioè soprannaturale. L'aggancio a codesta realtà mette in evidenza, attraverso Cristo, il dilatarsi in senso trinitario della C.-mistero. L'Ecclesia de Trinitate assume il significato di C. modellata sul paradigma trinitario, donde si sprigiona sia la relazione Spirito Santo-C., sia l'ecclesiologia in prospettiva pneumatologica. Spunti di una ricchezza e profondità e suggestività incomparabili, che solo una trattazione monografica potrebbe permettersi di sondare.

3. La considerazione della C.-corpo si completa, per logica conseguenza, in quella della C.-comunione. Nel NT il sostantivo koinonia varia di significato in ragione dei diversi contesti: da comunione a comunicazione, partecipazione, colletta, società. Lasciando le rispettive analisi agli specialisti, non si può non ricordare alcuni punti fermi dai quali meglio si deduce l'idea di comunione. In At 2,42-46 essa ha per oggetto la dottrina degli apostoli, la preghiera comune, l'agape fraterna, la messa in comune dei propri averi. Gli fa eco At 4,32-35 collegando un comportamento del genere all'essere tutti " un cuor solo ed un'anima sola ". In 1 Cor 10,16-21 la comunione dipende dall'esperienza eucaristica della C. e si precisa mediante due sinonimi: koinioneo (comunico) e metexo (partecipo, ho parte a). Altrove, è un valore che si traduce operativamente in carità fraterna (cf Rm 12,13; 1 Cor 16,1; 2 Cor 8-9; Gal 2,10). Le comunità più dotate sovvengono ad altre più bisognose, temperando così le differenze del più e del meno. Anche della comunione va detta la profonda radicazione nella coscienza cristiana, che, nel sec. IV, con Niceta vescovo di Remesiana ( 414 ca.), l'introdusse nel Simbolo sotto l'ormai classica formula " Sanctorum communio ". Il genitivo di tale formula può interpretarsi in due sensi: oggettivamente (cioè di cose sante: sacramenti, sacramentali, meriti, preghiere, opere buone) e soggettivamente (di persone sante, ossia dei cristiani in quanto santificati dal battesimo). Il senso soggettivo unifica cielo e terra, trapassati e viventi, nell'unità della C. trionfante, purgante e militante (espressioni, oggi, piuttosto in disuso: ma non è un progresso).

4. La terza parte del Simbolo colloca la C. fra le verità di fede e la definisce " una santa cattolica apostolica ". Si potrebbe esser tentati, e qualcuno a tale tentazione ha ceduto, di collegare la santità della C. al significato soggettivo poco prima accennato, ma potrebbe essere un errore. Se il collegamento venisse assolutizzato, implicherebbe il pericolo di trasferire sulla C. le condizioni etiche dei suoi figli, come se essa fosse santa o peccatrice in conseguenza della santità o della peccaminosità dei cristiani. Anche quel poco che qui è stato possibile dire sul rapporto Cristo-C. e Trinità-C. e Spirito Santo-C. lascia facilmente intendere che la C. è dotata di santità oggettiva. Non solo perché realizza in sé il significato etimologico di santità (separazione), ma perché è costituzionalmente santa. E, sì, " separata ", quindi " riservata " per il Signore che perciò l'amò e la volle tutta per sé splendente, " senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata " (Ef 5,26-27). Ma soprattutto ha nella santità uno dei suoi costitutivi essenziali. Se in quanto " separata " s'aggancia al significato veterotestamentario di santità come popolo tutto dedito al servizio del Signore (cf Lv 11,44, 19,2; 20,7; Sal 89,27), in quanto costituita di santità rivela sul suo volto il riflesso della santità increata di Cristo e del suo Spirito e si pone come " segno e strumento " dell'" umana universale santificazione ".

II. La C. tra il già e il non ancora. Perfino una veloce carrellata sul pianeta C. è in grado di svelarne l'appartenenza non solo al tempo e allo spazio, ma anche all'eternità nella vita di Dio. Ma a questo punto, prima di continuarne l'esplorazione sul versante della mistica, sarà opportuno qualche ragguaglio sulla mistica stessa.

1. Più che una sintesi teologico-formale, è in oggetto l'esperienza mistica; il motivo è che così si è più vicini alla C. santa, Corpo mistico e comunione. D'altra parte, la considerazione formale è presente in quest'opera, sotto la voce " mistica ". Mistico, dunque, è qui inteso un certo tenore di vita, quello che, o a livello ancora primordiale, o al massimo sviluppo della perfezione cristiana, si caratterizza come unione con Dio e sua contemplazione. Ciò non dev'essere mai confuso con qualche processo psichico, pur non essendo del tutto avulso da alcuni moti psicologici. Né va confuso con quei fenomeni paranormali cui la santità non è correlata né sotto il profilo dei segni probatori, né sotto quello assiologico dei gradi di perfezione. L'unione con Dio, la contemplazione mistica qui in esame è conseguente all'efficacia dei sacramenti, dei doni dello Spirito ed altri mezzi della grazia; è il processo stesso dell'inserzione in Cristo, o più genericamente nella vita divina; è l'effetto del graduale sviluppo dell'organismo soprannaturale instaurato dal battesimo e perfezionato dagli altri sacramenti, specie dall'Eucaristia. Di conseguenza, è inimmaginabile una vita mistica che prescinda dai mezzi della grazia, anche nel caso d'una eccezionale capacità di concentrazione nel mantenersi alla presenza di Dio. Purtroppo A. Mager rilevò che, già dopo s. Teresa d'Avila, l'osservazione si portò più sui risvolti psichici dei mistici, che non sull'azione della grazia in essi. Ma il nocciolo dell'esperienza mistica sta qui e solamente qui, anche se da qui partono due diverse interpretazioni del fenomeno. C'è chi, come P. Poulain, lo distingue nettamente da una normale vita cristiana, e chi, come R. Garrigou-Lagrange, riconosce, sì, la detta distinzione, ma la definisce non già d'essenza, bensì di grado. L'idea del P. Garrigou-Lagrange, emergendo da uno sfondo tipicamente tomistico, è che l'unione mistica sia la vocazione d'ogni battezzato, anche se non tutti la conseguono. Da notare che parlando d'unione o di contemplazione mistica, l'aggettivo distingue il fenomeno da quello qualificato con l'aggettivo " acquisita ", perché questo può conseguirsi anche con le forze puramente umane. Le due scuole hanno riflessi pratici da non trascurare: per l'una, infatti, la contemplazione mistica non rientra affatto nella normale vocazione cristiana; per l'altra, ogni cristiano è, in quanto tale, ordinato alla contemplazione mistica in quanto essa satura tutte le virtualità del suo organismo soprannaturale. Tra le due scuole, è senz'ombra di dubbio preferibile la seconda: tutti infatti sono chiamati alla vita eterna che ha il suo anticipo nella grazia e il suo coronamento, in terra, nell'unione mistica, in cielo nella visione beatifica. E quanto, del resto, sembra emergere, ora più ora meno esplicitamente, dalla letteratura più recente: G. Gozzelino ne è un esempio.

2. Ciò stabilito, ci si chiede quale sia il contenuto dell'unione mistica. E pacifico che il punto di partenza è l'incorporazione in Cristo, con tutti gli effetti cristoconformanti che ne derivano. Il grande messaggio paolino lascia intendere che la grazia, infusa con il santo battesimo, è la " gratia Christi ", cioè la partecipazionecomunione con tutto il mistero di Cristo. " Con luiin lui " è una formula ricorrente, per ricordare che si è immersi sacramentalmente nella sua stessa morte, comunicanti con la sua stessa vicenda salutare, concrocifissi consepolti conrisuscitati in novità di vita. Come Cristo vive in Dio, così in lui si è tutti ugualmente viventi a Dio (cf Rm 6,3-11). Spogliati dell'uomo vecchio con tutte le sue opere (cf Col 3,9), si è rivestiti di Cristo (cf Gal 3,27), ma in modo che l'assimilazione a lui sia sempre in divenire. La vita nuova, proprio perché vita e come ogni altra vita, è dinamismo e polarità: tende al suo epilogo perfetto " affinché la vita di Gesù sia manifesta in noi " (2 Cor 4,10). Ciò significa che, come Cristo è il fondamento della vita cristiana fin dal suo primo sbocciare, così lo è pure nella fase del suo coronamento, vale a dire nel dinamismo ascensionale di tutta l'esperienza mistica.

3. Per tale ragione, il mistico riproduce in sé il mistero pasquale nella sua interezza. E, come Cristo, obbediente fin alla morte e alla morte di croce; al seguito del suo Maestro lungo le pendici del Calvario esistenziale, prende anche lui la sua croce, ogni giorno, e si dona all'Amore; con Cristo muore, e con Cristo risorge per vivere soltanto nell'ottica di Dio. In Cristo morto e risorto, diventa ogni giorno " creazione nuova " (2 Cor 5,17). Nuova, perché quotidianamente altra, sempre più intimamente personalmente immediatamente e perfino affettivamente sprofondata nella preghiera di contemplazione, parvasa dall'azione dell'Unitrino in attitudine insieme attiva e passiva, in un rapporto semplicissimo con le tre divine Persone sotto l'influsso dei doni dello Spirito Santo, come ha ben segnalato J. Aumann. E stato sempre difficile analizzare l'esperienza del divino; ma è certo che si tratta di un'esperienza senz'uguali, colma di fascino, mai statica, inarrestabile nella sua evoluzione intrinseca e nel suo movimento d'adorante contemplazione, oltre che di gaudiosa comunione.

III. A tale esperienza la C. può esser estranea? Nella realtà " misterica " della C. cattolica e nella sua ordinazione a tutta la realtà dell'uomo, una tale estraneità sarebbe assurda. In verità, il rapporto C.-mistica è ineludibile ed intenso, non essendo altro che lo stesso rapporto tra la mistica e Cristo. Vediamone alcuni aspetti.

1. L'attenzione si volge anzitutto all'enorme tesoro accumulatosi nell'arco di secoli, nel quale si coaugulano le esperienze mistiche del passato e le teorizzazioni teologiche ripetutamente sintetizzate. Si tratta d'un capitale inestimabile, che ha arricchito ed arricchisce la C. e che la propone come luogo e strumento sacramentale dell'esperienza mistica. Luogo, anzitutto: perché, se la mistica è di per sé esperienza del divino, non ogni esperienza del genere avviene nella C. Non c'è però esperienza soprannaturale di Dio che possa far a meno della C. Non si nega la possibilità che una tale esperienza sia dovuta all'influsso diretto del divino; ma nell'economia ordinaria della salvezza, la causalità efficiente è quella dei sacramenti, nonché della preghiera liturgica; e ciò ha nella C. il suo ambiente, il terreno ideale, l'humus dove affondare le radici e donde trarre linfa vitale. Oltre che luogo, strumento. La C. stessa è mistero e sacramento. Ha in sé il divino e concorre alla produzione dei suoi effetti. E come strumento, concorre anche, attraverso la grazia dei sacramenti, la liturgia e gli altri mezzi della grazia ad essa stessa affidati, a far nascer e crescere il fenomeno mistico. Questo, pertanto, dipende immediatamente dalla C., che a sua volta è essa stessa unione mistica con Dio. Pertanto, una mistica diversa, se pur possibile, non è e non può esser cattolica; tale infatti può esser solo se è nella e dalla C.

2. Non sembri, questo, in antitesi con la nozione corrente di mistica, facente leva sul carattere " immediato " del rapporto con Dio. Il mistico, è vero, viene come pervaso dal fulgore del divino ed in certa misura trasformato in esso. Nulla, dunque, da eccepire su una nozione che definisce lo stato nel quale il mistico si trova. Se non che, l'interesse di quest'analisi è volto non alla teorizzazione dello stato mistico, bensì alla causa soprannaturale che lo determina. Ora, se la causa remota è Dio, quella prossima è sempre la C. Come a Dio appartengono i doni dello Spirito Santo e gl'influssi molteplici della grazia, così alla C. appartengono i sacramenti, la liturgia è tutto quel " munus triplex " grazie al quale svolge il suo ministero. Alla C. pertanto appartiene anche il fenomeno mistico in ognuno dei suoi gradi ed in ognuna della sue fasi di sviluppo. Ne consegue la totale e gioiosa sottomissione del mistico alla C., sia quanto al giudizio circa la natura delle sue manifestazioni mistiche, sia quanto all'esclusione di qualunque messaggio mistico non conforme alla " sacra dottrina " (Tt 2,1; 2 Tm 4,19) ed al suo " bonum depositum " (2 Tm 1,14).

3. E, questa, una conseguenza dello stesso fenomeno mistico. In quanto unione con Dio, esso ripropone in sé, analogicamente, il teandrismo di Cristo. E la C., Corpo di Cristo, ha nel mistico il suo membro più coerente, non perché sia ontologicamente diverso dagli altri, o si discosti dal cammino che ogni altro dovrebbe intraprendere, ma perché lo percorre tutto. Del pari, la C.-comunione non è un'astrazione, ma la compresenza armonica d'ogni suo membro, che peraltro solo il mistico vive in pienezza. Se infine la C. è tutta santa e generatrice di santità trova nel mistico il suo riflesso più fulgido ed un contributo efficace all'espansione della santità.

4. Quest'ultimo accenno sposta ancora l'interesse verso uno dei possibili equivoci collegati con la nozione formale di mistica; cioè verso la famosa passività. Non c'è autore di teologia spirituale che non ne parli, definendo " passiva " l'orazione mistica. S. Giovanni della Croce allude alla passività nella purificazione sia dei sensi, sia dello spirito. Altri accennano alla " preponderanza " del passivo. Parrebbe che passività e mistica siano un tutt'uno. Impressiona però s. Giovanni della Croce con la sua " conoscenza amorosa " e con la " fiamma viva " che non solo consuma il mistico, ma lo trasforma in tanto in quanto questi risponde con atti d'amore, fonte di meriti inestimabili. Sembra di capire che non si tratta di sola passività. La carità, infatti, sviluppa e perfeziona tutte le facoltà soprannaturali, coinvolgendole attivamente nel farsi della vita mistica, nella sua partecipazione alla C. ed alle esigenze dei fratelli. I carismi dell'esperienza mistica diventano così principio di fecondità cristiana. Perfino al livello più alto di vita spirituale, il mistico non può né deve considerarsi disobbligato dal precetto comune: " Ama il prossimo tuo come te stesso " (Gal 5,14). Insomma, questo sembra di poter dire: anche l'esperienza mistica è vita di C.

Bibl. Attesa la relativa novità del contributo, nella seguente nota bibliografica, si segnalano soltanto, con quelli citati nel testo, alcuni Autori fra i più sensibili alla tematica svolta: Aa.Vv., s.v., in DSAM IV, 370-479; Aa.Vv., La Chiesa sacramento di comunione, Roma 1979; E. Ancilli - M. Paparozzi (cura di), La mistica I e II; J. Arintero Gonzales, Desenvolvimiento y vitalidad de la Iglesia, 3 voll., Madrid 1974-1976; J. Aumann, Sommario di storia della spiritualità, Napoli 1986; J. Beaude, La mistica, Cinisello Balsamo (MI) 1992; J. Betz, Die Gründung der Kirche durch den historischen Jesus, in Theolog. Quartalschr., 138 (1958), 152-185; E. Bianchi, Una Chiesa da vivere, Casale Monferrato (AL) 1995; L. Bouyer, Jésus a-t-il fondé l'Eglise?, in Id., L'Eglise de Dieu, Corps du Christ et Temple de l'Esprit, Paris 1970, 677ss.; J.M. van Cangh (cura di), La mistica, Bologna 1992; L. Cognet, I problemi della spiritualità, Torino 1969; M. Figura, Kirche und Mystik, in WMy, 310-312; A. Gardeil, La structure de l'âme et l'expérience mystique, Paris 1927; R. Garrigou-Lagrange, Perfezione cristiana e contemplazione secondo san Tommaso d'Aquino e san Giovanni della Croce, Torino 1936; Id., Le tre età della vita interiore, 4 voll., Roma 1984; B. Gherardini, La Chiesa. Mistero e servizio, Roma 1993; G. Gozzelino, Vocazione e destino dell'uomo in Cristo, Leumann (TO) 1985; Id., Al cospetto di Dio. Elementi di teologia della vita spirituale, Leumann (TO) 1989; B. Haussler, The Church and God's People, Baltimore-Dublin 1963; G. Helewa - E. Ancilli, La spiritualità cristiana. Fondamenti biblici e sintesi storica, Milano 1982; O. Kuss, Bemerkungen zum Fragekreis: Jesus und die Kirche im Neuen Testament, in Theolog. Quartalschr., 135 (1955), 28-55; A. Mager, Mystik als Lehre und Leben, Innsbruck-Wien-Köln 1934; A. Poulain, Delle grazie di orazione. Trattato di teologia mistica, Torino 1926; P. Pourrat, Spiritualité chrétienne, 4 voll. Paris 1919-1928; H. Rahner, Symbole der Kirche. Die Ekklesiologie der Vater, Salzburg 1964; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 1965; R. Schnackenburg, La Chiesa nel Nuovo Testamento, Roma 1965; A. Stolz, Teologia della mistica, Brescia 1947.

A. Gherardini

CIPRIANO (santo). (inizio)

I. Vita e opere. La vita di Tascio Cecilio Cipriano (nome avuto nel battesimo, - Girolamo: Viris ill. 67 - nato probabilmente tra il 200 e il 210) si desume da tre fonti principali: i suoi scritti, gli Atti del suo martirio (Acta procunsalaria Cypriani), la Vita Cypriani scritta dal diacono Ponzio. Dei suoi scritti si hanno tre elenchi antichi: la Vita Cypriani, c.7 (riferisce il contenuto di dodici opere); il ms (n. 12266 s. X) della Philipps Library di Cheltenham, pubblicato dal Mommsen (contiene anche le Lettere di C.); il Sermo de natale s. Cypriani di s. Agostino, contiene un catalogo ciprianeo rilevato dal Morin (in Bull. Anc. Litt. et Arch. Chr. 4,1914, pp. 16-22).

Gli scritti di C. nacquero interamente dalle idealità cristiane da lui abbracciate (ricevette il battesimo probabilmente nella notte di Pasqua del 246) e dal suo ministero ecclesiale di vescovo della Chiesa di Cartagine (anni 249-258). Gli Atti del suo martirio raccolgono tre documenti: il processo verbale del 257; l'interrogatorio del 258 che c'informa dei suoi ultimi giorni ( 14 settembre 258); una notizia sul martirio dovuta ad un testimone oculare. La Vita Cypriani, attribuita al diacono Ponzio, è fondamentalmente un encomio del vescovo di Cartagine. Alla soluzione cristiana della sua crisi religiosa - come desumiamo dalla sua lettera Ad Donatum (c. 246) - contribuì notevolmente il presbitero Cecilio, con il quale C. convisse dopo la conversione.

Le letture cristiane di C. furono, oltre la Bibbia, gli autori latini Tertulliano ( 220 ca.) e Minucio Felice (II-III sec.). Il suo studio della Bibbia approdò ai Testimonia ad Quirinum libri tres (scritti prima del 249, un florilegio dell'AT letto come libro profetico). Egli articolò per temi tali estratti veterotestamentari, quasi certamente, allo scopo di dimostrare che Cristo aveva completato l'attesa dei profeti. L'opera, concepita originariamente in due libri, ne ebbe un terzo, su richiesta del medesimo Quirino, sulle prescrizioni morali e disciplinari, perché si desse fondamento scritturistico anche alle virtù cristiane. Quest'opera, che ebbe molta influenza nella cristianità latina antica, assieme all'Ad Fortunatum, offrì un grande contributo per le prime versioni latine della Bibbia e il loro uso nelle comunità cristiane latine.

Dopo l'Ad Donatum - il primo scritto di C. (quasi un'autobiografia della sua conversione) - nel 249 egli scrisse il De habitu virginum. Il trattato, pur dipendendo dal De cultu feminarum di Tertulliano, risulta uno scritto notevole per lo stile, l'informazione sulla prassi cristiana delle " virgines " nel sec. III e la conseguente cultura della donna promossa in Africa dall'evangelizzazione cristiana. Da vescovo scrisse i seguenti trattati: del periodo della persecuzione deciana il De oratione dominica (250), De Ecclesiae unitate (251), De zelo et livore (25152), De lapsis (251); i tre trattati sull'aiuto vicendevole (De mortalitate, De opere et eleemosynis, ad Demetrianum (252); De bono patientiae (256 ca.); Ad Fortunatum de exhortatione martyrii (257-258); Quod idola dii non sint (opera attribuita); l'Epistolario (ottantuno lettere di cui cinquantanove scritte da lui, sei lettere sinodali scritte unitamente ad altri vescovi, sedici indirizzate a lui. Il Codex Taurinensis le contiene tutte).

Di alcuni scritti, che costituiscono l'ossatura della sua spiritualità, diamo un'informazione più ampia. Nel De lapsis (=gli apostati) C. impostò la questione di come ricuperare gli apostati, linea accettata dai Concili di Cartagine e di Roma del 251. Nella Ep. 54, una vera e propria lettera pastorale sul come aiutare gli apostati a rientrare in comunità, egli precisò il tenore del De lapsis e la problematica che vi era sottesa. La questione dei lapsi fece assimilare a C. la natura materna della Chiesa e le basi teologiche dell'unità dei cristiani: l'Eucaristia, il significato della preghiera al plurale, secondo l'insegnamento del Signore, il legame dei fedeli con i vescovi garanti del legame apostolico. Il De ecclesiae unitate fu il primo trattato sulla Chiesa, scritto in latino. Nell'anno 252 l'Africa proconsolare fu provata dall'epidemia della peste. C. si adoperò in ogni modo a favore dei cristiani e dei non cristiani. Nei tre trattati, che egli scrisse per l'occasione (De mortalitate, De opere et eleemosynis, Ad Demetrianum), elaborò una profonda spiritualità del cristiano di fronte alle disgrazie della vita e alla stessa morte. Le prove della vita vengono lette da lui come chiamata di Dio per far fronte alle necessità altrui. L'elemosina, di fronte a calamità comuni, diventa, oltre il dovere di soccorrere il proprio simile, anche servizio di Dio. Nel tempo della controversia battesimale C. scrisse il De bono patientiae (256 ca.), evidenziando come la pazienza cristiana sia imitazione di Cristo e non dell'indifferenza stoica (apatheia). Durante la persecuzione (257-258) di Valeriano scrisse l'Ad Fortunatum de exhortatione martyrii: una raccolta di passi biblici, distribuiti in dodici titoli, sul come incoraggiare i cristiani nei momenti di persecuzione. Un capitolo a parte merita il suo Epistolario il quale, formato forse dallo stesso vescovo di Cartagine, è un ricco dossier della vita della Chiesa latina della metà del sec. III.

II. Eredità spirituale. Ricaviamo la dottrina spirituale di C. dal suo delineare il cristiano come uomo capace di comunione, in particolare ecclesiale, quindi quale uomo di pace. L'esplicitazione di tale impostazione si ha particolarmente nella sua concezione di Chiesa e in riferimento alla figura del vescovo, nodo della comunione ecclesiale. La Chiesa, avendo per lui la sua radice in Dio Trinità, è una, ed ha la sua espressione visibile nel ministero episcopale. Egli sviluppa sempre congiuntamente i due aspetti, evidenziandoli in modo particolare quando parla dell'Eucaristia che è una, quindi, postula un unico pastore; della comunione dei vescovi tra di loro (la collegialità fatta propria dal Vaticano II nella LG) e con il vescovo di Roma; della Chiesa che, essendo in costante cammino di redenzione, è dedita per costituzione interna ad una pastorale di riconciliazione in particolare a favore dei cristiani caduti in " delicta o crimina " (Epp. 34; 55; 59; 60); della preghiera ’cristiana', la cui fisionomia può essere solo " al plurale ". Qui ne riassumiamo l'insieme in tre aspetti che in C. sono interdipendenti: l'unità della Chiesa, la peculiarità della preghiera cristiana, il ministero della riconciliazione nella Chiesa.

a. L'unità della Chiesa e la comunione ecclesiale. Ne abbiamo un esempio nell'Ep. 64, dove C. annuncia il principio teologico della comunione ecclesiale. " Per Cristo la Chiesa è formata dal popolo unito al suo vescovo e dal gregge che resta fedele al proprio pastore. Devi sapere, quindi, che il vescovo si trova nella Chiesa e che la Chiesa è nel vescovo. Se qualcuno non resta con il vescovo non si trova nella Chiesa... La Chiesa è una nella sua cattolicità e non può dividersi in diverse parti. La Chiesa senza dubbio è unita strettamente, il suo legame consiste nella fraternità che unisce i vescovi tra loro... ci ricordiamo sempre di voi nella concordia e nel reciproco amore. Noi dobbiamo sempre pregare per voi e voi fate altrettanto. Amandoci a vicenda rendiamo più leggere le difficoltà nei momenti di persecuzione " (Ep. 60,4).

Il vescovo di Cartagine ribadì, soprattutto nel De unitate ecclesiae catholicae, il rapporto della Chiesa con la Trinità tramite il battesimo e il ruolo del vescovo, quale elemento visibile di unità della comunità cristiana. Questa, in altri termini, è un sacramentum unitatis che si esplicita visibilmente nella liturgia, in particolare nella presidenza eucaristica, e nel ministero episcopale in generale. L'unità della Chiesa pertanto ha il suo fondamento nell'unità divina e la sua visibilità nel ministero episcopale. Rompere l'unità ecclesiale visibile, ponendo ad esempio un altro vescovo a fronte che celebri un'altra Eucaristia, equivale a profanare l'essere sacramentale della Chiesa. Il battesimo, dal canto suo, quale dispensatiooikonomia monarchiae, è l'unità di Dio che, attraverso il dono del mistero trinitario, giunge alla creatura umana. Dio Padre, pertanto, è fonte dell'unità della Chiesa e questa, in sé e nella sua visibilità, è un inseparabile unitatis sacramentum, simile a quello che intercorre tra il Padre e il Figlio, tra il pastore e il gregge che sono una cosa sola (cf Ep. 69,5).

L'esempio del cristiano, uomo di comunione e di pace, è Cristo stesso, il portatore dell'unità del Padre che, nella Chiesa, è il " maestro della pace e della concordia... il Dio della pace e maestro della concordia " (Or. dom. 8), colui che edifica la Chiesa come la casa della Sapienza, che anzi ne è lo sposo (cf Ep. 74,4,1 e 6,2), avendola fatta sua a prezzo della vita (Ep. 72,1,2).

Essere uniti al vescovo, per C. vuol dire essere uniti alla Chiesa; staccarsi da lui o, peggio, creare un altro vescovo al suo posto, è spezzare l'unità della comunità cristiana. Il porsi poi fuori dell'unità della Chiesa è esporsi a perdere la fede, quindi, a perdersi perché fuori della Chiesa non c'è salvezza. Dalla realtà unitaria, creatasi nel battesimo tra Dio e la Chiesa, derivava per il vescovo di Cartagine la disparità di fede tra gli eretici e gli altri cristiani.

b. La preghiera. C. contribuì all'approfondimento teologico della preghiera cristiana dedicandovi il De dominica oratione. Egli ne percepì il carattere di universalità rilevandone la valenza cristologica. Se Cristo è il redentore di tutti, la preghiera cristiana, proprio perché tale, oltrepassa sempre l'ambito individuale. Essa perciò si colloca come una forza di pace posta nel cuore delle difficoltà dell'umanità, soggetta sempre alla tentazione di disgregarsi. Scrive Cipriano: " La nostra preghiera è pubblica e comunitaria e, quando preghiamo, preghiamo per tutto il popolo, non per il singolo, perché tutto il popolo sia una cosa sola. Il Dio della pace e maestro della concordia, che ha insegnato l'unità, ha voluto che uno preghi per tutti come lui, uno, ci ha portati tutti in sé. L'uomo nuovo, rinato e restituito al suo Dio per grazia di lui, per prima cosa dice: "Padre", perché ha già cominciato ad essere figlio. Non anteporre niente a Cristo, perché Cristo non antepose nulla alla nostra salvezza. Niente mancherà a chi ha Dio con sé, purché Dio non gli venga mai meno " (Or. dom.).

c. Il ministero della riconciliazione assieme alla predicazione e alla presidenza liturgica, era nella Chiesa antica uno dei tre obblighi (munus) espliciti del ministero di un vescovo. C., costretto a regolamentarla per l'impellenza della questione dei lapsi, diede un orientamento pastorale che divenne prassi spirituale nella Chiesa. All'interno della penitenza quotidiana o battesimo quotidiano (tramite il digiuno, l'elemosina e la recita del Pater noster), vi era per gravi delitti la prassi della " grande o seconda penitenza ", che culminava col rito della riconciliazione (l'imposizione della mano da parte del vescovo). Quest'ultima, pur essendo limitata a casi particolari, misurava difatti la reale capacità di una comunità di reintegrare un cristiano fallito sul piano dei contenuti essenziali della fede (i tre delitti capitali di apostasia, omicidio e adulterio).

La mentalità penitenziale di recupero riguardava tuttavia tutti, dal pastore al semplice fedele, e rifletteva la dimensione spirituale del cristiano che veniva educato a comprendersi non diviso tra una classe di " puri " ed " impuri ", ma facente parte di una comune fallibilità bisognosa e passibile di perdono quotidiano ed anche straordinario per i " crimina ". Su questo orientamento C., opponendosi ai presbiteri che impedivano la riconciliazione, avviò la possibilità di un recupero per tutti i lapsi (cf in particolare, Epp. 54; 55; 59; 60), nonostante le diverse classi di rigoristi del suo tempo e dopo (luciferiani, novaziani, donatisti, ancora presenti al tempo di Agostino). Perdonare e lasciarsi perdonare è la vita stessa dei cristiani.

Se Tertulliano aveva indicato nel legame apostolico la possibilità per una Chiesa sub-apostolica di potersi riconoscere come cristiana, fu tuttavia C. a sviluppare articolatamente tali principi a dottrina spirituale ecclesiale. La spiritualità del cristiano è data, infatti, per il vescovo di Cartagine, dal suo appartenere ad una Chiesa che è una, fondata sull'unità della Trinità. La fede trinitaria, infatti, la dispensatio monarchiae, la concordia et unitas proprie del vinculum caritatis che conserva la fede e l'unità (cf Ep. 54,1,3; Ep. 76,1,3), con la comunione ecclesiale connotano anche l'identità stessa dell'essere cristiani. La Chiesa latina antica ricordò il martire C. sempre con indiscussa devozione. Ne fa fede l'intervento in sua difesa di Agostino d'Ippona quando, durante la polemica donatista, si volle insinuare il sospetto della sua non completa ortodossia.

Bibl. Opere: PL 4; CSEL 3,1-3; CCL 3,1-2; PLS 1,1 (1958) 62-72; J.N.S. Bakhuizen van der Brink, Caec. Cyp. episcopi... scripta quaedam, Den Hagg 1961; S. Cipriano, Opere, a cura di S. Colombo Torino 1980; Studi: G. Bardy, s.v., in DSAM II, 2661-2669; J. Colson, L'éveque, lien d'unité et de charité chez saint Cyprien, in Journal of Ecclesiastical History, 14 (1963), 143-146; M. Figura, s.v., in WMy, 97-98; P.A. Gramaglia, Cipriano e il primato romano, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, 28 (1992), 185-213; J. Gribomont, Ecclesiam adunare. Un écho de l'Eucharistie africaine et de la Didaché, in Recherches Théol. Anc. Med., 27 (1960), 20-28; V. Grossi - A. Di Berardino, Ecclesiologia e Istituzioni, Roma 1983; Melchiorre di S. Maria - L. Dattrino, s.v., in DES I, 523-525; C. Mohrmann, Sacramentum dans les plus anciens textes chrétiens, in Aa.Vv., Études sur le latin des chrétiens, I, Roma 1958, 233-244; M. Pellegrino, Vita e martirio di S. Cipriano, Alba (CN) 1955; V. Saxer, Vie liturgique et quotidienne à Carthage vers le milieu du III s., Roma 1969; Id., Saints anciens d'Afrique du Nord, Roma 1979; Tertulliano-Cipriano-Agostino (a cura di V. Grossi), Il Padre nostro, Roma 1980; G. Toso, Cristiani con coraggio. Il nostro essere cristiani oggi secondo s. Cipriano, Roma 1985; U. Wickert, Sacramentum unitatis. Ein Beitrag zum Verstandnis der Kirche bei Cyprian, Berlin-New York 1971.

V. Grossi

CIRILLO DI ALESSANDRIA (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Le notizie sulla vita di C. anteriori al 412, anno in cui raccoglie l'eredità dello zio Teofilo alla guida della Chiesa di Alessandria, risultano piuttosto incerte. C. nasce con tutta probabilità ad Alessandria intorno al 378 e riceve qui anche la sua formazione classica e teologica. Forse soggiorna per qualche tempo nel monastero di Pelusio, sotto la guida di Isidoro. In qualità di lettore accompagna lo zio al " conciliabolo della Quercia " ove assiste alla deposizione di Giovanni Crisostomo, al quale rimane ostile fino al 418. Sono di questo periodo alcune delle sue più importanti opere esegetiche: il De adoratione et cultu in spiritu et veritate, i Glaphira in Pentateucum, il Commentarius in XII prophetas minores, il Commentarius in Iohannis evangelium. Altri scritti di natura essenzialmente dottrinale, quali il Thesaurus de sancta et consubstantiali Trinitate, e il De sancta Trinitate sono invece la testimonianza del suo impegno e lotta contro l'eresia ariana. Dal 428 lo si vede impegnato soprattutto nelle grandi controversie cristologiche che lo rendono un aperto nemico di Nestorio ( 451), il vescovo di Costantinopoli. Dopo il ricorso di ambedue a papa Celestino I ( 432) nel 430, Nestorio viene condannato. E proprio la preoccupazione di contrastare a fondo le teorie nestoriane che conduce C. a formulare, negli anatematismi, la dottrina dell'unione ipostatica tra logossarx, tradizionale ad Alessandria dagli ultimi decenni del III secolo. La diffusione degli anatematismi provoca proteste violente da parte dei teologi antiocheni che lo accusano di apollinarismo. La confusione diviene tale da indurre l'imperatore Teodosio II ( 450) a convocare il Concilio di Efeso (431), per dirimere la controversia nestoriana. Lo scontro si protrae per ben due anni. Nel 433 si arriva ad un accordo che si traduce nel cosiddetto " simbolo dell'unione ", testo che sancisce di fatto la condanna di Nestorio, riconoscendo in pieno soprattutto la divina maternità di Maria (Theotòkos), sia pure favorendo ampiamente gli antiocheni, soprattutto sul piano della terminologia teologica. Un tale compromesso crea tuttavia numerosi scontenti da ambo le parti, costringendo C., soprattutto negli ultimi anni, a difendere l'ortodossia anche fra gli stessi suoi seguaci.

Le opere di questo secondo periodo denotano, pertanto, questo suo preminente interesse a confutare gli errori dottrinali dell'impostazione cristologica di Nestorio. Esse sono: Adversus Nestorii blasphemias, De recta fide, Apologia XII capitolorum contra Orientales, Apologia XII anathematismorum contra Theodoretum, Explicatio XII capitulorum, Scholia de incarnatione Unigeniti, Adversus nolentes confiteri Sanctam Virginem esse Deiparam, Contra Diodorum et Theodorum, Quod unus sit Christus. Di natura strettamente apologetica sono l'Apologeticus ad Theodosium, in cui C. difende la propria condotta al Concilio di Efeso, e il Contra Iulianum imperatorem, difesa del cristianesimo contro le accuse dei pagani. C. muore il 27 giugno 444.

II. Dottrina spirituale. Nonostante l'esegesi di C. appaia fortemente condizionata da intenti dogmatici e polemici, non si può tuttavia negare come il patriarca alessandrino fondi tutta la sua dottrina spirituale su due pilastri: la Scrittura e i Padri. Ricorre sovente in lui l'espressione: " hoi pateres kai hè graphè ". Scrittura e tradizione sono assolutamente inseparabili nel suo spirito di teologo credente, ed è per questo che non teme il confronto con tutte le correnti filosofico-culturali del tempo. Sono proprio i Padri, infatti, che lo aiutano a vedere l'unità del disegno di Dio nell'unità indivisibile della Bibbia concepita come un " vasto organismo che si adatta alle più grandi diversità degli uomini, piegandole tutte ad uno stesso disegno " (In Is.: PG 70, 656). Sia pure nella fedeltà alla scuola esegetica di Alessandria, C. è, però, contro ogni forma di allegorizzazione esasperata. Tutta la Scrittura ispirata ha uno scopo: quello di comunicarci la conoscenza del mistero della salvezza che, nella persona stessa del Cristo, trova la sua luminosa interpretazione. E questo ciò che egli chiama: ’senso spirituale delle Scritture': " Dapprima intendiamo esporre ciò che è avvenuto storicamente... Dopo aver narrato ciò convenientemente, trasformeremo quasi il racconto dalla figura e dall'ombra in cui si trova e lo renderemo chiaro, tendendo il discorso al mistero di Cristo, considerato quale fine, se è vero che il termine della legge e dei profeti è Cristo (cf Rm 10,4) " (Glaph. in Gen. I: PG 69, 13a; 14a).

Ogni contemplazione spirituale riguarda il mistero di Cristo stesso ed implica una ’visione' che apre lo spirito a tale mistero. Tale visione (theoria) è pneumatica, poiché lo spirito umano è aiutato dallo Spirito divino, e per questo è nello stesso tempo un carisma ed una gnosi. Questo dono dello Spirito Santo, perduto a causa del peccato, con i beni della vita divina, viene ridonato all'umanità mediante l'Incarnazione del Figlio. A differenza del primo Adamo, il nuovo Adamo fa attecchire nell'umanità in modo definitivo e irreversibile lo Spirito di Dio (cf In Jo. 7,39: PG 73, 756A; Com. Gv. V, vol. II, 46).

La partecipazione del Figlio, nello Spirito, produce in noi l'immagine divina. Il Figlio unico, infatti, incarnandosi ha perseguito lo scopo non solo di espiare i nostri peccati, ma anche di fondare la nostra adozione divina (cf Rm 8,3) (cf In Jo. XI, 10,74, 545a; Com. Gv., XI, vol. III, 355).

E, dunque, a causa del Cristo e grazie a lui che lo Spirito Santo risiede nei credenti, dono effuso loro dopo la sua risurrezione. Per C., il posto di Cristo nella vita del cristiano è centrale. Nella sua passione morte e risurrezione si consuma la più grande prova dell'amore di Dio per l'umanità poiché egli ha reso inefficace l'antica maledizione cui la natura umana soggiaceva fin dalle sue origini (cf Com. Rm. VI, 6,64).

Questa incorporazione a Cristo si compie grazie al battesimo (cf Ibid., 3-4, 60-62), il quale a sua volta suppone la fede (cf Ibid. VII, 1-4, 65-67) e apre alla carità, dal momento che Dio è carità (cf Com. Gv. VI, vol. II, 287; X, vol. III, 224-225). Grazie all'Eucaristia, inoltre, siamo in comunione gli uni con gli altri poiché siamo uniti non solo spiritualmente ma anche corporalmente a Cristo (cf Ibid. XI, vol. III, 368).

La bellissima dottrina del Corpo mistico, C. la sviluppa soprattutto nel suo Commento a Giovanni (cf Ibid., 368-369). Per C. è questa unione a fondare quella naturale. Questa realtà di unità è il mistero della Chiesa. Essa è il Corpo di Cristo, e come il Corpo di Cristo nella sua intimità non può essere diviso, così neanche la Chiesa (cf Ibid., 367).

Di conseguenza, si potrebbe ritenere che, se la perfezione, dal punto di vista personale, consiste nel divenire ad immagine del Padre, seguendo l'imitazione del Figlio, da un punto di vista sociale essa consisterebbe nel realizzare, nella misura del possibile, l'unità del Padre e del Figlio secondo l'affermazione di Gesù nella preghiera sacerdotale (cf Gv 17,21). Tutto questo non può essere compiuto senza la cooperazione dello Spirito Santo. Da qui derivano pure tutte le conseguenze ascetiche e mistiche nonché sociali della vita cristiana, soprattutto nell'espressione di un culto comunitario e liturgico. I cristiani essendo degli altri " cristi ", poiché hanno ricevuto l'unzione, devono vivere i medesimi sentimenti di Cristo e condividere pure la medesima sorte (cf Com. Gv. III, 21-22).

Bibl. W. Burghardt, The Image of God in Man according to Cyril of Alexandria, Woodstock 1957; L. Janssens, Notre filiation divine d'après saint Cyril d'Alexandria, in Ephemerides Theologicae Lovan., 15 (1938), 233-278; A. Kerrigan, St. Cyril of Alexandria. Interpreter of the Old Testament, Roma 1952; J. Mahé, La sanctification d'après saint Cyril, in Revue d'Hist.Eccl., 10 (1909), 30-40, 469-492; H. de Manoir, s.v., in DSAM II2, 2672-2683; C. Sorsoli - L. Dattrino, s.v., in DES I, 525-528; C. Vona, s.v., in BS III, 1308-1315.

M.M. Porcellato

CIRILLO DI GERUSALEMME (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Gerusalemme verso il 315, dove si forma allo studio della Scrittura, ed è ordinato presbitero. Vescovo nel 348, la sua elezione episcopale conserva punti oscuri; egli, infatti, era stato proposto alla sede gerosolomitana probabilmente da Acacio ( 348), che erroneamente lo riteneva vicino al suo partito filoariano. Ma C. si scontra con Acacio sul terreno dottrinale e soprattutto su quello giuridico, col mirare all'autonomia della sua sede da quella metropolitana di Cesarea. In seguito a ciò viene deposto nel Concilio di Gerusalemme del 357; nel giro di una ventina d'anni (357-378), tra alterne vicende, subisce tre esili. Rientrato definitivamente nel 378 nella sua sede, vi riporta con l'unità la pace. Partecipa al Concilio Costantinopolitano I del 381 e a quello del 382, in cui i vescovi orientali riaffermano ufficialmente l'ortodossia e la validità dell'ordinazione espiscopale di C., in vario modo fino allora contestata. Muore nel 386 ca.

Quanto agli scritti, conserviamo di lui ventiquattro Omelie, corrispondenti alle ventiquattro celebri catechesi. La prima catechesi è introduttiva, Protocatechesi, le diciotto successive (da 2 a 19) sono rivolte a coloro che, entrati nella seconda fase del catecumenato e detti photizómenoi o illuminandi avrebbero ricevuto il battesimo nella notte del sabato santo: sono le catechesi (pre-)battesimali. Le ultime cinque (da 20 a 24), spiegano ai neofiti, durante la settimana di Pasqua, il significato dei tre sacramenti della iniziazione cristiana appena ricevuti (battesimo, cresima, Eucaristia): sono le catechesi mistagogiche. In passato era contestata l'autenticità di queste ultime in quanto attribuite dai mss. o a C. o al suo successore Giovanni II di Gerusalemme ( 417). Recentemente, gli studiosi propendono sempre più ad assegnarle a C. La protocatechesi e le catechesi battesimali furono tenute nel Martyrium della basilica del S. Sepolcro, le catechesi mistagogiche nella rotonda dell'Anástasis. Dal punto di vista contenutistico, la protocatechesi è del tipo di accoglienza; le prime cinque delle diciotto catechesi battesimali trattano ciascuna rispettivamente delle disposizioni previe al battesimo, della conversione, del battesimo, delle dieci verità dogmatiche del Simbolo della fede; le tredici successive (7-19) costituiscono una catechesi continua del Simbolo di Gerusalemme e le ultime (20-24), mistagogiche, vertono a loro volta, ciascuna nell'ordine di successione, sui riti del battesimo, sul battesimo, sul crisma, sul corpo e il sangue di Cristo, sulla liturgia eucaristica.

II. La mistagogia è l'angolatura da cui studiamo la mistica in C., che, come tutti i Padri, attraverso la catechesi mistagogica valorizza i segni per introdurre al mistero celebrato, interpreta i riti alla luce della tipologia biblica e apre all'impegno cristiano ed ecclesiale, espressione della nuova vita in Cristo. In forza della " disciplina dell'arcano " egli spiega i riti solo ai neofiti. Valorizza così l'effetto psicologico della sorpresa e fa leva sull'efficacia dell'esperienza spirituale vissuta. Urge l'esigenza pastorale di condurre i neofiti a penetrare il mistero dei riti, impedendo loro un'interpretazione magica, che li renderebbe " esteriori " alla loro vita spirituale.

III. Simbolismo e mistero. C., come gli altri Padri, intende inserire il simbolismo cristiano nel quadro del simbolismo " generale " delle religioni non cristiane. Tale simbolismo, che conduce a penetrare nel mistero di Cristo (dalla mistagogia alla mistica), si presenta complesso: verbale, basato sull'immagine; tipologico, basato su fatti o personaggi dell'AT e del NT, in quanto figure del mistero di Cristo e rituale, basato su gesti corporali. Elemento vivificante, il simbolismo cristiano è la fede. Il simbolismo è servizio della fede e costituisce, in C., un segno sociale del Corpo mistico di Cristo perché mediante tale simbolismo Cristo esprime i suoi misteri facendovi partecipare tutti i membri del suo Corpo a livello individuale e sociale. La catechesi mistagogica di C. fa rifluire la dimensione dottrinale e la dimensione morale nel presente della liturgia, specificamente nella celebrazione dei sacramenti dell'iniziazione cristiana. Tutta la catechesi di C. si svolge nel contesto liturgico (Protoc. 13-14). La catechesi mistagogica è da lui giustificata ai neofiti all'inizio delle sue catechesi mistagogiche. Arricchiti dall'esperienza dei misteri ricevuti nella notte del sabato santo e resi capaci di essere istruiti, perché battezzati, essi erano nella migliore disposizione per la catechesi (Cat. mist. 1,1). Con tatto pastorale C. esclama: " Rispetta questo luogo e lasciati educare da quello che è sotto i tuoi occhi " (Protoc. 4).

IV. Mistica del battesimo. L'ingresso nel battistero è simbolo del paradiso (cf Protoc. 15): è l'entrata nella Chiesa, il ritorno al paradiso perduto. La decorazione del battistero (Buon Pastore in un giardino), la forma ottagonale di esso (il numero otto simbolo della risurrezione e della vita eterna) completano il significato mistico.1 In senso negativo, invece, lo spogliamento delle vesti indica che " voi avete deposto la tunica, a significare che vi spogliavate degli abiti dell'uomo vecchio (...), siete rimasti nudi anche per imitare Cristo nudo sulla croce " (Cat. mist. 2,2). La nudità battesimale comporta anch'essa un tempo rituale e metafisico: è l'abbandono della " vecchia tunica di corruzione e di peccato, che il battezzato depone ad imitazione di Cristo, la stessa di cui era rivestito Adamo dopo il peccato ".2 In senso positivo, la nudità è il ritorno all'innocenza primitiva.3 L'unzione con l'olio, a modo d'esorcismo, significa, oltre la messa in fuga di satana,4 la funzione di preparare la discesa nelle acque battesimali, acque della morte, per imitare Cristo (cf Cat. 3,11). La triplice immersione, con l'immersione (purificazione) ed emersione (vita nuova), è da riferirsi prima a Cristo morto-risorto e poi al battezzato che partecipa della morte e risurrezione di Cristo (cf Cat. mist. 2,4). L'immersione equivale ad una dissoluzione delle forme, l'emersione ripete il gesto cosmogonico della manifestazione formale.5 Nel battesimo cristiano l'immersione nell'acqua lustrale equivale alla sepoltura di Cristo (cf Rm 6,3-5; Tertulliano, De bapt. 3-5). Non si tratta di ’influssi' e di ’prestiti', " perché tali simboli sono archetipali e universali ".6 In C., come in altri Padri, intervengono determinati elementi di novità legati a una ’storia', nel caso, la Storia sacra.7 Ritornando al testo sopracitato di C. sul battesimo, vi è presente, oltre alla densità del simbolismo ora espresso, anche una configurazione sacramentale che opera realmente, ma nel segno, ciò che in Cristo si operò nella realtà: " In senso letterale, noi non siamo né veramente morti, né veramente sepolti, né veramente crocifissi; l'imitazione immaginifica di questi eventi esprime la vera realtà della nostra salvezza: il Cristo veramente crocifisso, veramente seppellito, veramente risorto per elargirci tutti questi doni, perché partecipando all'imitazione della passione ottenessimo la realtà della salvezza " (Cat. mist. 2,5). In realtà, " nessuno creda che il battesimo conferisca la remissione dei peccati e non anche l'adozione a figli di Dio ". Il battesimo è l'anticipo dei patimenti di Cristo, " è il modello di imitazione e il mezzo di partecipazione ai dolori di Cristo " (Ibid. 6). E vero, infatti, che " in lui (Cristo) tutto è veramente avvenuto, per voi invece non è avvenuta che una somiglianza della sua morte e della sua passione. Quanto però alla salvezza, è una realtà, non una semplice somiglianza " (Ibid. 7). E C. spiega il significato del battesimo come anticipo della passione e risurrezione di Cristo: nel sacramento la realtà storica della morte di Cristo è solo simboleggiata nel rito, il contenuto invece vi è attuato mediante una reale partecipazione, perciò il sacramento del battesimo è simbolo efficace della morte e risurrezione del Signore.8

C. nelle sue catechesi mistagogiche, come visto, utilizza spesso la tipologia, rapportando i fatti dell'AT e del NT ai sacramenti e ai loro riti, di cui i sacramenti sono figure che rivelano le dimensioni reali dell'atto salvifico realizzatosi nel sacramento, ossia ciò che Dio fece un giorno per il suo popolo, lo continua a fare per mezzo dei sacramenti. C. utilizza diverse figure, come le acque primordiali (cf Cat. 3,5), il diluvio (cf Cat. 17,10), typos del battesimo, la Pasqua (cf Cat. mist. 1,2), il passaggio del Mar Rosso (cf Cat. 19,3).

V. Mistica della crismazione. Rivestito della veste bianca, il neofita viene unto con olio profumato (crisma): è il sacramento della crismazione, con cui il neofita diviene un nuovo Christos, un christianos. " Associati al Cristo ne portate giustamente anche il nome, siete quelli di cui disse il Signore: "Non toccate i miei cristi" (Sal 105 [104],15), e lo siete realmente dal momento che avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo, che ha realizzato in voi il tipo del Cristo. Tutto si è compiuto in voi figuratamente, perché voi siete le immagini del Cristo " (Cat. mist. 3,1). Mediante l'unzione, inoltre, lo Spirito Santo discende sul neofita risalito dal fonte, come era disceso su Cristo risalito dal fiume Giordano (cf Ibid., 3,2). Anche qui il sacramento fa partecipare in figura (mysterium in figura) a ciò che Cristo ha vissuto in realtà. C., infine, mette in relazione il crisma con i sensi spirituali (cf Ibid., 4). Pure per la crismazione C. ricorre alla tipologia evocando figure, soprattutto dell'AT, come l'unzione regale di Salomone (cf Ibid., 6). Il significato della crismazione e del battesimo è legato alla partecipazione al mistero di Cristo, che esso trasmette.

VI. Mistica dell'Eucaristia. Le catechesi mistagogiche dell'Eucaristia di C., come quelle degli altri Padri, svelano due aspetti dell'Eucaristia: essa è una partecipazione sacramentale del sacrificio della croce e una partecipazione sacramentale alla liturgia celeste. Questi due aspetti orientano l'interpretazione dei riti. Mediante l'idea di sacrificio, l'Eucarisitia ci si presenta sulla stessa linea degli altri sacramenti per cui tutta l'iniziazione cristiana è partecipazione a Cristo morto e risorto. L'aspetto della liturgia celeste è piuttosto nuovo.9 Il tutto, comunque, alimenta la mistica dell'Eucaristia. La fase preparatoria all'Eucaristia presenta la mistagogia della lavanda delle mani, che nasconde un ’mistero': " L'abluzione delle mani è un rito simbolico che ci ricorda il dovere di purificarci sempre più da ogni peccato o mancanza: le mani, infatti, simboleggiano l'attività umana e il lavarle significa la volontà di purificazione che deve rendere irreprensibili le nostre azioni " (Cat. mist. 5,2). Il bacio di riconciliazione e di pace " è un gesto che esprime la volontà di conciliare le anime con il proposito di dimenticare le vicendevoli offese " (Ibid., 3). " In alto i cuori ", poi, " è il momento tremendo in cui bisogna rivolgere il cuore a Dio, in alto (al cielo) " (Ibid., 4), dove si svolge la liturgia celeste. Il centro dell'Eucaristia è la consacrazione, in cui, al di là del segno del pane e del vino, bisogna attingere il mistero della presenza del corpo e del sangue di Cristo, il memoriale della passione e della risurrezione del Signore, dove il mistero si attua con l'invocazione dello Spirito Santo (l'epiclesi). " Non giudicare dal gusto, ma ritieni per fede " (Cat. mist. 4,6). La contemplazione mistica raggiunge il suo vertice. Anche qui le figure ricoprono il ruolo di svelare il mistero, ponendosi esse in rapporto immediato con il rito celebrato: ad esempio, la tavola imbandita contro gli avversari (cf Cat. mist. 4,7), il miracolo di Cana: preannunzio della trasustanziazione (cf Ibid., 2).

VII. Sintesi conclusiva della mistica in C. In C. troviamo il termine mysteria, proprio delle religioni dei misteri (i riti), riferentesi qui al rito dell'iniziazione cristiana (cf Protoc. 16; Cat. mist. 1,1). C. usa il termine anche per indicare l'Eucaristia (cf Cat. mist. 5,22). Con l'applicazione del plurale mysteria, s'introduce anche il termine mystagogia per designare un commento ai riti battesimali nella settimana di Pasqua. Inoltre, il termine telete, applicato in particolare per l'iniziazione ai misteri, viene trasposto ai riti cristiani. " E in questo contesto che la parola mystikos appare in questo ambito sacramentale. Eusebio e Teodoreto descrivono l'Eucaristia, il primo come una " leitourgia mystica " (Vita Constantini IV, 71 e 75) e il secondo come una " hierourgia mystica " (Epist. 146 e Storia rel. 13)10 Il termine mystikos si estende; Gregorio di Nissa chiamerà l'altare una " tavola mistica " (cf Disc. 40) e Gregorio Nazianzeno chiamerà l'acqua battesimale un'" acqua mistica " (Disc. cat. 35). La linea mistica si sviluppa particolarmente nel passaggio dalla Scrittura ai sacramenti, come si è visto. Il punto di partenza delle catechesi di C., come tutte quelle del sec. IV, è l'idea di Paolo che cioè il mistero di Cristo deve avere in noi il suo ultimo compimento e ciò precisamente attraverso i sacramenti. " Se i loro autori considerano i riti cristiani come dei ’misteri', è perché essi sono mistici, nel senso in cui lo è l'interpretazione delle Scritture fondate sul Mistero paolino. Ed è per questo che essi presentano questi riti come dissipando l'illusione, l'inganno diabolico dei misteri pagani, sostituendovi la realtà, la verità divina del Cristo ".11 C. a proposito del battesimo dirà che Cristo ha veramente sofferto per noi e per la nostra salvezza; non ha patito apparentemente. Che dobbiamo partecipare alla sua passione, lo dice Paolo con precisione (cf Rm 6,5). C. ribadisce ciò a proposito della cresima: " Battezzati nel Cristo, (...), siete divenuti conformi al figlio di Dio, (...), modellati sul corpo glorioso di Cristo. Associati al Cristo ne portate giustamente anche il nome (cristi) " (Cat. mist. 3,1). Analogamente per l'Eucaristia: " E con somma certezza di fede che partecipiamo al corpo e al sangue di Cristo. (...), [così] tu diventi un solo corpo e un solo sangue con lui " (Cat. mist. 4,3). Insomma, ciò che è ’mistico' per C. e per i Padri, nella prassi sacramentaria legata alla meditazione della Scrittura, che vi ci conduce, è appunto la trasformazione del nostro essere nonché l'esperienza viva che l'accompagna. Un testo stupendo di C. sintetizza il suo pensiero catechetico-mistico: " Eri chiamato catecumeno, circondato da un suono esteriore (periecumeno); udivi la speranza, ma senza vederla; udivi i misteri, ma senza capirli; udivi le Scritture, ma senza vederne le profondità: ora non è più un suono esteriore, ma interiore quello che riecheggia dentro di te (enecumeno), perchè lo Spirito che abita dentro fa della tua anima una dimora divina " (Protoc. 6): C., giocando sul termine ’catecumeno', sintetizza il processo formativo di una catechesi che culmina in una mistica globale nello Spirito.

Note: 1 Cf R. Iorio (ed.), Battesimo e battisteri, Firenze 1993; 2 J. Daniélou, Sacramentum futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Paris 1950, 50; 3 Ibid.; 4 Cf Ibid., 3; 5 " Il simbolismo delle acque, quindi, implica sia la morte che la rinascita. Il contatto con l'acqua comporta sempre una rigenerazione, poiché, da un lato alla dissoluzione fa seguito una ’nuova nascita', dall'altro l'immersione rende fertile e moltiplica il potenziale di vita " (M. Eliade, Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico religioso, Milano 1991, 135); 6 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 1976, 203; 7 Ibid., 204; 8 Cf P. Lundberg, La typologie baptismale dans l'ancienne Eglise, Upsala-Leipzig 1942; J. Daniélou, Sacramentum..., o.c., 13-20, 55-85; Id., Bibbia e liturgia, Milano 1958, 25-152; 9 Cf J. Daniélou - R. du Charlat, La catechesi dei primi secoli, Torino 1970, 173; 10 J. Daniélou, Sacramentum..., o.c., 65; 11 J. Daniélou - R. du Charlat, La catechesi..., o.c., 178.

Bibl. Opere: A. Piedagnel (ed.), Cyrille de Jérusalem, Catéchèses mystagogiques: SC, 126, Paris 1966. Studi: F. Bergamelli, Cirillo di Gerusalemme, in J. Gevaert (ed.), Dizionario di catechetica, Leumann (TO) 1986, 155-156; A. Bonato, La dottrina trinitaria di Cirillo di Gerusalemme, Roma 1983; L. Bouyer, Mysterion. Dal mistero alla mistica, Città del Vaticano 1998; P.-T. Camelot, Simbolo e Simbolismo, in EC XI, 611-616; Id., Notes sur la théologie baptismale des catéchèses attribuées à saint Cyrille de Jérusalem, Münster 1970, 724-729; J. Daniélou, Sacramentum futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Paris 1950; J. Daniélou - R. du Charlat, La catechesi nei primi secoli, Torino 1970; H. du Manoir, s.v., in DSAM II, 2672-2683; B. Neunheuser, Mistero, in NDL, 863-883; O. Pasquato, Rapporto tra catechesi e liturgia nella tradizione biblica e patristica, in RL 72 (1985), 39-73; Id., Cirillo di Gerusalemme, in G. Bosio et Al., Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III-IV, Torino 1993, 247-260; A. Paulin, Saint Cyrille de Jérusalem catéchète, Paris 1959; H. Rahner, Mysterion. Il mistero cristiano e i misteri pagani, Brescia 1952; A.M. Triacca - A. Pistoia (edd.), Mystagogie: pensée liturgique d'aujourd'hui et liturgie ancienne (Conférences Saint-Serge, 1992), Roma 1993; E. Yarnold, The Authorship of the Mystagogic Catecheses Attributed to Cyril of Jerusalem, in The Heythrop Journal, 19 (1978), 143-161.

O. Pasquato

CLAUDIO LA COLOMBIERE (santo). (inizio)

I. Vita e opere. La vita di C. è un esempio dell'influsso incisivo che la famiglia cristiana ha nella formazione e nello sviluppo della personalità dei figli. Nasce in una famiglia di sette fratelli, due dei quali muoiono in età molto tenera; degli altri cinque, tre scelgono il sacerdozio, Pietro, Giuseppe e Claudio; l'unica sorella entra nell'Ordine della Visitazione. Il fratello maggiore, Umberto, si sposa e forma una famiglia cristiana. Claudio, terzo dei fratelli, nasce a Saint-Symphorine d'Ozon nella regione francese del Delfinato il 2 febbraio 1641. Dopo due anni, la famiglia si trasferisce a Vienne, paesino molto vicino a Lione, città nella quale i padri della Compagnia di Gesù hanno due collegi per giovani studenti. Uno, il grande collegio della Trinità è situato vicino al Rodano e l'altro, il piccolo collegio di Nostra Signora del Soccorso, ai piedi della collina di Furvière. Così, al compimento dell'età minima per poter entrare in collegio, nove anni, C. è iscritto al collegio di Nostra Signora del Soccorso, come alunno ordinario. Ben presto, però, si pone il problema della sua chiamata alla vita religiosa nella Compagnia di Gesù. L'idea non è semplice: egli stesso confesserà più tardi di sentire una grande avversione alla vita religiosa (Lettera 70 alla signora de Lyonne). Tuttavia, vince le difficoltà talvolta nate dalla sua timidezza ed entra nel noviziato della Compagnia di Gesù ad Avignone nel 1658. Trascorsi due anni di noviziato, emette i primi voti religiosi, che nella Compagnia di Gesù sono perpetui, il 20 ottobre 1660. Il maestro dei novizi parla di lui così al padre provinciale: " E un giovane di prudenza superiore alla sua età, di grande giudizio e di rimarchevole pietà. Le più alte virtù non sembrano inottenibili con il suo fervore ". Emessi i voti perpetui, rimane ad Avignone come professore di lettere e di retorica (1660-1666). Le sue doti oratorie si manifestano già quando, senza essere ancora sacerdote, lo s'incarica del discorso inaugurale del corso accademico dell'anno 1665 e del panegirico per celebrare la canonizzazione di s. Francesco di Sales. Trascorre gli anni seguenti a Parigi come studente di teologia e il 6 aprile 1669, alla vigilia della domenica di passione, è ordinato sacerdote. Il 2 febbraio 1675 emette la professione solenne come religioso della Compagnia di Gesù e immediatamente è nominato superiore della residenza dei Gesuiti a Paray-le-Monial e confessore straordinario del monastero della Visitazione. In questo monastero vive una religiosa di nome Margherita Maria Alacoque che, senza saperlo, aspetta i suoi consigli e la sua direzione spirituale. Diventano i due grandi pilastri eletti da Dio per diffondere nella Chiesa il culto al Cuore di Gesù. Tuttavia, resta poco tempo a Paray perché nell'ottobre 1676 è inviato a Londra, dove imperversa la persecuzione contro i cattolici. Siccome attraverso le sue parole e il suo esempio alcuni protestanti tornano alla Chiesa cattolica, C. è incarcerato e poi espulso dall'Inghilterra. Muore il 15 febbraio 1682.

Per quanto riguarda le sue opere, occorre ricordare prima di tutto i Sermoni, poi i Ritiri spirituali, le Riflessioni cristiane, le Lettere spirituali, le dieci Meditazioni sulla passione di N.S. Gesù Cristo.

II. Dottrina spirituale. Tutta la sua dottrina è ancorata al pensiero ignaziano con uno speciale accento sul compimento della volontà di Dio, sulla mortificazione dei sensi, sulla docilità e fedeltà alla grazia, sulla devozione al Sacro Cuore.

Quest'ultima non solo ha larga parte nella sua pietà personale, ma è diffusa con la consacrazione al Cuore di Gesù capace di ottenere grazie straordinarie. Egli raccomanda a molte comunità la Comunione del venerdì dopo l'ottava del SS.mo Sacramento. A sua sorella visitandina scrive: " Vi consiglio di comunicarvi l'indomani dell'ottava del SS.mo Sacramento per riparare le offese commesse verso Gesù Cristo. Questa pratica è stata consigliata da una persona di una santità straordinaria, la quale mi ha assicurato che tutti coloro che offriranno a nostro Signore questo segno del loro amore ne avranno grandi frutti ". C. insiste, inoltre, sulla confidenza nella misericordia di Dio, fonte d'ogni bene, che si manifesta nel Cuore di Cristo.

Bibl. Opere: Oeuvres complètes, 6 voll, Grenoble 1900-1901; Diario spirituale, Roma 1991; Il libro dell'interiorità. Scritti spirituali, Roma 1992. Studi: F. Baumann, Aszese und Mystik des seligen P.Cl. de la Colombière, in ZAM 4 (1929), 263-272; L. Carré, Claude la Colombière, in Chr 29 (1982), 237-250; L. Filosomi, Claudio la Colombière, maestro di vita cristiana, Roma 1982; J. Guitton, Claude La Colombière, Madrid 1991; J.M. Igartua, San Claudio de la Colombière, Bilbao 1992; A. Liujma, s.v., in DES I, 553-555; H. Monier-Vinard, s.v., in DSAM II1, 939-943; A. Ravier, Bienheureux Claude la Colombière, Paris 1982; C. Testore, s.v., in BS VII, 1065-1067.

J. Collantes

CLEMENTE D'ALESSANDRIA (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Nasce ad Atene verso il 150 ca. Rimane pagano per un certo tempo e dal modo di parlare dei misteri pagani si può dedurre la sua iniziazione ad essi. Dopo vari viaggi in cerca dei migliori maestri, verso il 180, egli trova ad Alessandria in Panteno ( 200 ca.), direttore della scuola catechetica, un maestro a lui congeniale, oltre che la ricercata penetrazione della fede con l'aiuto della scienza del tempo. Non ci è noto il momento della sua conversione, né sappiamo con certezza se sia stato ordinato sacerdote. Ben presto affianca nell'insegnamento Panteno e alla morte di questi gli succede nella direzione della scuola catechetica, fino alla persecuzione di Settimio Severo ( 211), allorquando è costretto a fuggire. Nel 216 è già morto. La " nuova filosofia " della scuola d'Alessandria mette in luce, con termini filosofici, l'ideale di vita cristiana (M. Mees). I suoi principali scritti sono il Protrettico, il Pedagogo, gli Stromati; di essi, ai fini dello studio della gnosi e della mistica, sono particolarmente importanti gli Stromati.

II. Il pensiero. L'avvio al cristianesimo. Il primo passo è operare la rottura con gli idoli e i costumi della vita pagana. Il Protrettico (Esortazione ai pagani), simile alle apologie del II secolo, descrive Cristo come novello Orfeo: " Egli non tarda, appena venuto, a spezzare la schiavitù amara imposta dalla tirannia dei demoni " (1, 3,2). Cristo è un perpetuo Oriente, di cui C. vede il simbolo nel giorno del Signore, la domenica, l'indomani del sabato, in cui Cristo è risuscitato e l'ottavo giorno escatologico, che è al di là della settimana cosmica (cf Strom. 6,16, 138,1). S'impone la catechesi: " Non è possibile credere senza catechesi " (Egloghe profetiche 28,3), continuata nell'insegnamento gnostico (cf Ibid. 16,1). " E non solo il lavacro che libera, ma anche la gnosi " (Estratti da Teodoto 78,2). L'origine (" Da dove veniamo? ") e la filiazione adottiva (" Chi siamo? ") ambedue divine dell'uomo, sono i due punti, a livello naturale e soprannaturale, interdipendenti, della catechesi battesimale di C. In lui, poi, tra la terminologia propria del mistero paolino e quella dei misteri (iniziazione, telete, iniziati, mystes e mystikos, che nei misteri pagani si riferisce al rituale e ai partecipanti ai riti) non c'è confusione. C. non deve trarci in inganno con il suo stile accattivante di conferenziere mondano.1 La sua iniziazione al cristianesimo consisterà, ad un primo livello, nel presentare il piano di salvezza, mediante il Protrettico, che apre il cammino, e il Pedagogo, che fa progredire. Nel Pedagogo egli intende formare con larghezza di vedute l'uomo dal punto di vista interiore ed esteriore secondo la legge di Cristo e renderlo capace di vivere il Vangelo nella città. Nella terza sua opera, chiamata Stromati (da ’tappeti', serie variopinta di saggi) sente l'esigenza di ritornare spesso alle problematiche del Pedagogo.

Per quanto riguarda il piano filosofico C. pensa che la filosofia greca abbia preparato il messaggio evangelico (come la legge per gli ebrei) ed abbia un valore propedeutico anche per il singolo cristiano che voglia passare da una semplice fede alla gnosi.2 Negli Stromati egli presenta una teoria originale della perfezione, mutuando elementi dalla filosfia greca. Con il suo eclettismo, egli si propone solo di formulare la verità cristiana nel linguaggio scientifico del suo tempo. " Se la sintesi rimase incompiuta e i concetti adottati non sono ancora del tutto cristianizzati, giacché tradiscono ancora la loro provenienza pagana, se le formulazioni talora deformano un'idea cristiana, che gli preme tradurre nel linguaggio filosofico e ha conservato troppe idee dei suoi maestri pagani, non per questo dobbiamo giudicare troppo severamente un uomo alla ricerca di nuove vie; dobbiamo invece ricordare che non ebbe il tempo di creare qualcosa di compiuto e fu appunto il primo a tentare l'organizzazione di tutta la dottrina cristiana in un sistema filosofico ".3 Nella sua parte migliore, la filosofia è " un'ancella della teologia ".4 Per C. la filosofia è di origine divina, " una chiara immagine della verità, un dono divino fatto ai greci " (Strom. 1, 2,20); egli, però, si rifà pure alla nota tesi del ’furto' perpetrato dai greci ai danni della sapienza ebraica.5

III. Gnosi e mistica. Fedele alla Scrittura e alla tradizione facente capo agli apostoli, C. ritiene tuttavia necessario che il cristiano perfetto non s'accontenti della semplice fede, ma gli assegni un valore più alto, la ’gnosi'. Questa, a livello etico, esige il distacco dell'anima dal corpo e la ’somiglianza a Dio'; a livello intellettuale, essa si basa anzitutto sull'interpretazione allegorica della Scrittura, che non può ignorare la filosofia greca (cf Filone). La gnosi sola permette di oltrepassare il ’velo' e il ’simbolo' costituito dalla lettera e di pervenire al significato più profondo che coincide con quello più autentico. " Gnosi significa conoscenza delle più alte verità teologiche e contemplazione di Dio; può essere realizzata dal cristiano perfetto (lo gnostico) già su questa terra, ma raggiunge il suo apice dopo la morte del corpo ".6 Il contenuto di essa ha un carattere esoterico, accessibile solo agli iniziati di un livello etico e intellettuale superiore. Da qui è chiaro che la lettera della Scrittura sia un simbolo, che nasconde una verità più alta. La caratteristica esoterica della gnosi e l'uso del linguaggio misterico, avviato da C. nella tradizione patristica, fanno di lui il precursore di Origene, di Gregorio di Nissa e di Dionigi l'Areopagita. La norma ermeneutica, poi, della Scrittura, unica in grado di condurre alla gnosi, discende dall'epoca apostolica attraverso i presbyteroi e lo stesso Panteno. La norma, anzi, risale a Cristo; il Logos, infatti, sta alla base della gnosi di C. Questa, nonostante il rivestimento fortemente esoterico, è cristiana. A Penteo, schiavo di Dioniso, C. dirà: " Io ti mostrerò il Logos e i misteri del Logos, per parlare secondo le tue immagini " e, descritti i riti cristiani, esclama: " O misteri davvero santi (...). Tali sono le celebrazioni bacchiche dei miei misteri " (Protr. 12,119 e 120). Nonostante l'insegnamento delle discipline classiche (egkyklia), posto come premessa da lui come, poi, da Origene, la sua gnosi non è filosofica; infatti tali discipline il suo gnostico " non le studierà per se stesse: egli le considererà, sebbene necessarie, secondarie e accessorie "; esse sono una propedeutica (cf per l'intero testo, Strom. 6,10; 80-83). Lo studio propedeutico è finalizzato, non solo, come si può notare, ad un accostamento critico della Scrittura, ma anche a scoprire nella contemplazione del cosmo il suo carattere spirituale, quale involucro di esseri spirituali: gli angeli (cf Ibid. 7; 13,1), dimoranti in luoghi superiori, dove siede Cristo, eterno sacerdote. La gnosi di C. non è solo intellettuale; infatti lo gnostico è contrassegnato da tre qualità: in primo luogo, la didascalia o insegnamento della via da seguire, che è all'origine della gnosi cristiana, erede di quella giudaica, poi l'adempimento dei precetti e, infine, la contemplazione (theoria).

La perfezione dello gnostico, cristiano perfetto, prende avvio dal battesimo e dal dono della fede: rigenerati come figli adottivi di Dio, i cristiani vengono illuminati sull'unico vero Dio, conoscere e possedere il quale è la meta degli sforzi dello gnostico (cf Ped. 1,6,25-31). Per quanto riguarda la contemplazione, essa ha per contenuto il " canone ecclesiastico ", ossia la visione di Cristo e del suo mistero come chiave d'interpretazione della Scrittura,7 secondo il mistero paolino, anche se essa conserva come scopo principale quello di conoscere Dio (cf Strom. 2,47,4), anzi vederlo (cf Ibid. 7,68,4) e possederlo (cf Protr. 106,3 e 13). Infatti, ’contemplazione' e ’conoscenza (episteme) dell'essere in sé' sono in egual modo elementi della gnosi (cf Strom. 2,17,76) e il fine del cristiano consiste nel ’conoscere' e ’contemplare' Dio (cf Ibid. 2,10,47: conoscere Dio è la " massima contemplazione "). Talora per C. questa equivale alla 'visione beatifica' (cf Strom. 7,2,10). Ed è proprio tra la conoscenza abituale del cristiano e la visione diretta di Dio, che C. situa un tipo superiore di conoscenza, peculiare dello gnostico, cristiano perfetto " attraverso la sua propria limpida purificazione egli contempla Dio, che è santo, in modo santo " (Ibid. 4,23,152). Ma C., pur partendo dai filosofi greci e arrivando fino agli stoici ed epicurei con i loro misteri, perviene, ad una contemplazione più specifica, di tipo paolino, (cf Ef 3,3-5): conoscere l'intelligenza di Paolo circa il mistero di Cristo; Col 1,25-27: ministro della Chiesa con la missione " di realizzare la sua parola, cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, (...), cioè Cristo in voi, speranza della gloria " (Col 1,25-27) (cf Strom. 5,10).

C., inoltre, sviluppa la sua nozione della gnosi in riferimento al suo insegnamento sulla preghiera, che per lui è una conversazione con Dio (omilia), ossia una meditazione della parola divina che suscita la nostra risposta (cf Ibid. 7,39,6) e che culmina nell'azione di grazie (eykaristia), tendendo a diventare preghiera silenziosa e continua della vita: " A questo punto lo gnostico è uguale agli angeli " (Ibid. 7,57,5).8

Osserviamo che, oltre alle tre qualità distintive sopra riportate, C. rileva, dopo la gnosi, ora esaminata, la carità (agape) e l'apatheia. Ora, a questo proposito, la linea di progresso della mistica si muove nel senso di una simbiosi tra lo sviluppo della gnosi in contemplazione e lo sviluppo dell'amore, che la stimola, in modo tale che l'esito e il vertice di tale progresso sarà quello di conoscere Dio amante, riamandolo come egli ama (cf Strom. 5,1,12). Lo gnostico è così in grado di divinizzare (theopoiein) se stesso (cf Protr. 1,8,4) nel segno della carità, nel contesto di una reale adozione filiale. La carità, così entrata in funzione, non è assente nemmeno dall'altra qualità dello gnostico, l'apatheia, che, contro ogni ingiustificata accusa di insensibilità nei confronti di essa, è effetto del dominio sulle parti inferiori dell'anima, sui desideri sensibili e sugli influssi esterni, che vengono così sottoposti alla ragione, a difesa della nostra libertà. Ciò in C. si realizza, appunto, per mezzo della vittoria dell'agape cristiana, virtù fondamentale dello gnostico e virtù cristiana per eccellenza (cf Ibid. 7,10,55), pura generosità, che sfocia nella pacificazione di ogni tendenza disordinata: " Per noi, occorre che lo gnostico perfetto si tenga lontano da ogni passione dell'anima; poiché la gnosi opera l'esercizio, l'esercizio conferisce l'abitudine o la consuetudine, e questa pacificazione (katastasis) culmina nell'apatheia " (Strom. 6,9,74). Ciò non comporta l'estinzione dell'umano, ma piuttosto una unificazione e una trasfigurazione: " Egli ama costantemente Dio verso il quale è integralmente rivolto (...). Egli non invidia nulla, poiché nulla gli manca per essere assimilato a colui che è buono e bello (...), attraverso le creature egli ama il Creatore. Egli non cade in alcuna brama o appetito, né l'anima sua ha bisogno di alcun'altra cosa, perché per mezzo dell'amore egli dimora già nell'amato; a lui è già familiarmente unito per elezione e, con l'abitudine che gli proviene dall'ascesi, si avvicina sempre più a lui ed è felice per l'abbondanza dei beni. Quindi, con ogni sforzo, cerca di rendersi simile al maestro nel conseguimento dell'apatheia " (Strom. 6,9,71-72). Questa conduce il perfetto gnostico ad uno stato di stabilità, fatto di gioia e di pace, che lungi dall'equivalere ad un quietismo, è " un assorbimento progressivo nella verità che è amore (...). Lo gnostico, in effetti, non è per nulla un falso spiritualista: egli onora sia il corpo, sia il mondo e vi riconosce l'opera di Dio (cf Ibid. 4,26,163-164); ama dunque i suoi fratelli, con una carità che abbraccia le necessità del corpo e quelle dell'anima, anche se culmina naturalmente nella comunicazione della gnosi " (cf Ibid. 4,26,163-164).9 Quando l'amore ha raggiunto la sua perfezione esso è l'unione molto intima con Dio (cf Ibid. 6,12,102).

Non tutti gli studiosi concordano sul fatto che C. sia un vero e proprio mistico. Ma egli " è in un certo senso un mistico, in quanto insegna delle ’tappe del progresso mistico', attraverso cui l'uomo perviene alla fine ad una ’visione di Dio' mediante una purezza sempre maggiore del cuore e una conoscenza progressiva superiore alla fede " (Strom. 7,10,56).10 I due autori citati, comunque, appoggiandosi al Bardy e al Lebreton, ritengono quella di C. " una conoscenza intellettualistica di Dio, per quanto anche eticamente arricchita, di un filosofo cristiano ".11 E, però, questo un giudizio datato, dopo che lo studio citato di W. Völker (1952) ha dimostrato che C. è un maestro di spiritualità non meno di Origene, il padre della mistica cristiana nella forma che si affermerà a partire dal IV-V secolo. C., con la scuola di Alessandria, ha così aperto la via ad una mistica vera e propria, quella di Origene, dei Padri cappadoci e di Evagrio Pontico.

Note: 1 L. Bouyer, Mysterion. Du mystère à la mystique, Paris 1986, 178; 2 S. Lilla, Clement of Alexandria, Oxford 1971, 169-170; 3 M. Viller - K. Rahner, Ascetica e mistica nella patristica, Brescia 1991, 74; 4 S. Lilla, Clemente alessandrino, in G. Bosio et Al., Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli II e III, Torino 1991, 241-242; 5 Cf Id., Clement..., o.c., 31-33; 6 Id., Clemente..., o.c., 245; 7 Cf W. Völker, Der wahre Gnostiker nach Clemens Alexandrinus, Berlin 1952, 363-364; 8 Cf L. Bouyer, Mysterion..., o.c., 187; 9 L. Bouyer - L. Dattrino, La spiritualità dei Padri, 3A, Bologna 1984, 191; 10 M. Viller - K. Rahner, Ascetica..., o.c., 76; 11 Ibid., nota 18a, 77.

Bibl. Fonti: O. Stählin - L. Fruechtel - U. Treu (edd.), Clemens Alexandrinus, Berlin 1985. Studi: L. Bouyer, Mysterion. Du mystère à la mystique, Paris 1986, 177-191; L. Bouyer - L. Dattrino, La spiritualità dei Padri, 3A, Bologna 1984, 173-192; P.-T. Camelot, Foi et gnose. Introduction à l'étude de la connaissance mystique chez Clément d'Alexandrie, Paris 1945; H. Chadwick, Early Christian Thought and the Classical Tradition, Oxford 1966, 31-65; J. Lebreton, s.v., in DSAM II, 950-961; A. Levasti, Clemente Alessandrino iniziatore della mistica cristiana, in RAM 12 (1967), 127-147; S. Lilla, Clement of Alexandria, Oxford 1971; Id., La teologia negativa dal pensiero greco classico a quello patristico e bizantino, in Helikon (da 22-27 [1982-1987] a 31 [1991, passim]); Id., Clemente Alessandrino, in G. Bosio et Al., Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli II e III, Torino 1991, 237-289; A. Mehat, Études sur les Stromates de Clement d'Alexandrie, Paris 1966; C. Nardi, Il battesimo in Clemente Alessandrino. Interpretazione di Eglogae propheticae 1-26, Roma 1984; Id., Clemente Alessandrino. Estratti profetici, Firenze 1985; F. Storelli, Itinerario a Dio nel Protrettico di Clemente Alessandrino, in Nicolaus, 8 (1980), 3-71; M. Viller - K. Rahner, Ascetica e mistica nella patristica, Brescia 1991, 71-80; W. Völker, Der ware Gnostiker nach Clemens Alexandrinus, Berlin 1952.

O. Pasquato

CLEMENTE DI ROMA (santo). (inizio)

I. Cenni biografici. Sappiamo poco della vita di Clemente Romano. Ireneo lo indica come terzo successore di Pietro ed Eusebio ( 339 ca.) come autore di una lettera ai Corinti.1 Null'altro, se non delle false attribuzioni di una serie di altri scritti, tra cui le Clementine. Inoltre, è falsa anche la notizia dell'appartenenza alla casa imperiale dei Flavi, di essere quel Tito Flavio Clemente, console, messo a morte nel 95-96, perché cristiano. Il suo martirio, narrato in una Passione tardiva del sec. IV, sarebbe avvenuto in una città del Chersoneso, condannato ad essere gettato in mare, con un'ancora appesa al collo. La tradizione racconta che i suoi resti sarebbero stati portati a Roma e sepolti nella basilica di S. Clemente al Celio, della cui esistenza anche Girolamo dà notizia. Perfino la data del suo pontificato è controversa, anche se Eusebio la fissa tra il dodicesimo anno dell'impero di Domiziano ( 96) e il terzo di quello di Traiano ( 117), quindi tra il 92 e l'anno 101, presumibilmente anno della sua morte. La tradizione lo ritiene di origine giudaica, (la prima parte della Lettera - c. 4-39 - è tutta disseminata di richiami veterotestamentari), inculturato all'ellenismo, discepolo di Pietro e di Paolo. Origene ed Eusebio lo identificano con il Clemente, collaboratore di Paolo (cf Fil 4,3), quindi a buon diritto il primo Padre apostolico.

II. BOpere e dottrina. La Lettera ai Corinti è la prima opera della letteratura cristiana, contemporanea agli scritti neo-testamentari, quando ad Efeso viveva ancora l'apostolo Giovanni.

L'occasione della lettera è attuale: la comunità di Roma invia questo scritto, frutto dell'attività pastorale di C., alla comunità di Corinto, viva ma profondamente divisa da fazioni interne, quella stessa comunità a cui, anni prima, Paolo aveva indirizzata la famosa " lettera delle lacrime ". Anche al tempo di C., la Chiesa di Corinto non sembra aver perso la sua problematicità. Questa volta si tratta di una controversia generazionale: i giovani mal sopportano l'autorità degli anziani e li contestano, arrivando a deporre gli stessi presbiteri. Il vescovo di Roma sente di dover intervenire: e con il suo intervento fonda quella modalità di servizio della sede di Pietro di avocare a sé le questioni dottrinali e disciplinari delle diverse comunità cristiane e che troverà in Agostino una sintesi magistrale: " Roma locuta, causa finita est ". La lettera, redatta tra il 96-98, allorché s'era appena attenuata la persecuzione di Domiziano, non menziona mai il nome di C., anche se fin dall'antichità egli ne è stato considerato unanimemente l'autore. La lettera si presenta con una struttura organica: un'introduzione, una parte più generale a carattere parenetico-dottrinale, una parte più specifica con l'intento di comporre il dissidio in corso, una parte finale, con una stupenda preghiera di grande respiro liturgico. La lettera presenta l'autore come un uomo ben conscio delle sue responsabilità pastorali (siamo nella stessa arena, dice al c. 7,1), sinceramente sollecito dell'unità della comunità cristiana, dalla dottrina salda ed equilibrata, con una spiritualità essenziale, ma ricca.

L'introduzione narra la storia dei Corinti: storia di una elezione da parte di Dio, che ha scritto i suoi comandamenti " nella larghezza dei loro cuori " (c. 2,8). Essi hanno corrisposto a questa chiamata con generosità: nella meditazione della Parola di Dio, conservata nel profondo dell'anima e nella meditazione delle sofferenze della croce, sempre davanti agli occhi (c. 2,1), questi santi, " colmi di volontà santa nel sano desiderio e di pietà fiduciosa ", hanno teso le mani verso Dio onnipotente: il frutto che ne è scaturito è la " pace profonda e splendida ".

La disubbidienza alla volontà di Dio ha fatto sì che la comunità si dividesse in discordie, liti, calunnie, ingiustizie. Di qui l'appello accorato al pentimento per ristabilire la concordia e l'umiltà ubbidiente per la mediazione del Cristo.

Cristo mediatore è, infatti, il cardine della teologia e della spiritualità clementine: " protettore e soccorso della nostra debolezza " (c. 61,3) e " splendore della maestà di Dio " (c. 36,2) a un tempo, egli chiama a raccolta l'ekklesia di Corinto, sceglie, così come dice nel c. 62,1, per volontà del Padre e per opera dello Spirito, dando vita a quell'ordine cristocentrico, prefigurato fin dall'antichità, la disubbidienza la quale conduce alla morte.

L'umiltà è il filo conduttore della lettera: vivere l'umiltà è aprirsi al mistero di Dio, fissare lo sguardo sul Padre (c. 19), ammirando i doni elargiti a piene mani dalla misericordia, dalla volontà previdente e dalla sua clemenza. Il Padre misericordioso e benefico, ribadisce Clemente, e pieno di amore per coloro che lo temono, elargisce le sue grazie, con dolcezza e soavità. Molte sono le porte aperte, ma solo questa santa porta è quella di Cristo (c. 48), ammonisce C.: Cristo si fa Maestro agli umili, a cui soprattutto appartiene (c. 14), per farci gustare la gnosi immortale (c. 36,1), dove il termine gnosi è adoperato con il senso di vera conoscenza delle cose di Dio, e che addita il cammino cristiano come un passaggio, operato dal Salvatore, dalle tenebre dell'ignoranza alla luce della conoscenza del nome glorioso di Gesù. " Tu hai aperto gli occhi del nostro cuore! " esclama C. nella preghiera che chiude la lettera (c. 59,1). Questa è la parte più propriamente mistica della lettera che riflette il c. 36 dove, dopo aver spiegato che Cristo è il sommo sacerdote della nostra debolezza e della nostra offerta, aggiunge: " Per lui (il Cristo) noi leviamo i nostri sguardi verso le altezze dei cieli, per lui noi riflettiamo come in uno specchio il suo volto senza difetti e sublime; per lui si sono aperti gli occhi del nostro cuore; per lui la nostra intelligenza, incapace e oscurata, rifiorisce, rivolta verso la sua luce; per lui, il Maestro ha voluto farci gustare la ’gnosi immortale' " (c. 36,2).

Ma c'è ancora un'altra dimensione che il vescovo di Roma addita come disposizione del cristiano per aprirsi alla luce di Dio: gli esempi della carità fraterna, tratti dalla vita quotidiana e da quella Scrittura che i Corinti conoscono bene, sembrano sintetizzarsi nel rispetto dell'ordine con cui è stato creato il mondo: " Ognuno dia grazie a Dio stando al proprio posto " (c. 41). L'obbedienza all'ordine di Dio, che si riflette nella creazione e nella società, è la sintesi della vita comunitaria cristiana. Si imitino pure i santi (c. 45), si approfondisca la Scrittura, che ci presenta modelli di esperienza che non passano, ma ci si disponga alla carità (c. 49).

La carità, dice C. riecheggiando Paolo, tutto soffre, tutto sopporta, niente di banale, niente di superbo, non ha scisma, non si ribella, tutto compie nella concordia: nella carità, il Signore ci ha presi con sé. Per la carità avuta per noi, Cristo ha dato se stesso. Non è possibile spiegare la carità, dice C. né esprimerne la grandezza e la bellezza, se non se ne fa esperienza e la nostra esperienza può essere solo a misura di Cristo: essa sola ci unisce a Cristo: chi è capace di vivere nella carità, se non colui che Dio vuole? Ai Corinti non resta che innalzare preghiere alla sua misericordia, perché siano riconosciuti irreprensibili nella carità, senza sollecitazione umana, ad opera della sua grazia.

Note: 1 Eusebio, Storia ecclesiastica IV, 22,1; 23.

Bibl. G. Bardy, La vie spirituelle d'après les Pères des premiers siècles, Paris 1935, 44-59; G. Bosio, I Padri Apostolici, I, Roma 19582, 96-209; L. Bouyer - L. Dattrino, La spiritualità dei Padri, 3A, Bologna 1984, 24ss., 161ss.; F. Cavallera, s.v., in DSAM II, 962-963; Cirillo di S.Teresa del B.G., La perfezione cristiana in s. Clemente romano, in RivVitSp 6 (1952), 368-375; Melchiorre di S. Maria - L. Dattrino, s.v., in DES I, 543-544; M. Pellegrino, s.v., in EC III, 1809-1814; A. Quacquarelli, I Padri Apostolici, Roma 19782, 49-92; C. Riggi, Lo Spirito Santo nell'antropologia della " Prima Clementis ", in Aug 20 (1980), 499-507; N. Spaccapelo, Nella fraternità e nella concordia, in Parola, Spirito e Vita, 11 (1985), 233-244; G. Zannoni, s.v., in BS IV, 38-47.

L. Dattrino