DIZIONARIO DI MISTICA

L. BORRIELLO - E. CARUANA M.R. DEL GENIO - N. SUFFI

C

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COLOMBANO (santo). (inizio)

I. Vita e opere. C. nasce nel regno di Leinster (Irlanda) nel 543 ca., o, probabilmente, nel 525-530 e muore a Bobbio il 23 novembre del 615 o 616. I dati riguardanti la sua vita sono spesso incerti, alcuni di essi possono essere ricavati da uno scritto di Giona di Bobbio dal titolo Vita di san Colombano, che certamente risale ad una sola generazione dopo la morte del santo.

C. riceve un'educazione classica e molto probabilmente abbraccia la vita monastica a San Congallo a Bangor, in Irlanda. Sceglie l'ideale ascetico dell'esilio o Peregrinatio come nuova forma di esistenza solitaria. In seguito, con dodici compagni, parte per la Bretagna, dove arriva nel 590 o 591. Con l'aiuto della corte fonda, successivamente, i tre monasteri confinanti, ossia, quello di Annegray, di Luxeuil e Fontaine. Tali monasteri, popolati da un numero considerevole di monaci irlandesi, si attengono alle tradizioni irlandesi, inclusa la disciplina monastica e penitenziale. Inoltre, celebrano la Pasqua in una data arcaica che, all'epoca, è diversa da tutte quelle osservate nelle Chiese occidentali. Seguendo, poi, la tradizione della pratica irlandese, C. sembra non sottomettersi all'autorità dei vescovi locali che, per lui, incarnano una forma di cristianesimo decadente e corrotto. Sebbene la Regola dei monaci di C. abbia una notevole influenza, le dispute sul calendario pasquale e la denuncia dell'immoralità dei circoli della corte, gli procurano l'espulsione, quindi l'esilio. Dopo aver attraversato la Gallia, egli raggiunge la Svizzera e poi la Lombardia. Qui, con l'appoggio del re, fonda il famoso monastero di Bobbio, dove muore il 23 novembre 615 o 616.

La Regula monachorum, redatta per i monasteri dell'Europa continentale, riflette molti aspetti delle pratiche usate nel monastero di Bangor. E la regola monastica più antica di matrice irlandese ed è l'unica scritta in latino. Nella Regula monachorum, oltre ai molti articoli che riguardano l'organizzazione della vita monastica, si trovano alcuni trattati completi sulla direzione spirituale. In modo particolare viene descritta la rigorosa disciplina monastica, che comunque non è mai fine a se stessa. Infatti, un intero capitolo della regola espone la dottrina della discrezione senza la quale il rigore della vita monastica rischia di essere solo un eccesso non virtuoso. Oltre ad una specie di codice penale, intitolato Regula coenobialis, le altre opere di C. a noi note sono sei lettere, tredici brevi sermoni o Istruzioni, un penitenziale (De poenitentiarum misura taxanda) e, probabilmente, cinque poemi.

Tre delle lettere riguardano la questione pasquale, mentre i sermoni sono dichiaratamente conformi all'insegnamento della patristica e alle tradizioni ascetiche irlandesi.

Il penitenziale è particolarmente innovativo: esso introduce nell'Europa continentale il concetto di penitenze specifiche private proporzionate alla gravità del peccato commesso.

II. La dottrina ascetica e quella mistica di C. non sono esaustive né elaborate, rimangono ampiamente al livello dell'oratoria popolare. Il loro contenuto è pervaso da un senso di austerità che, secondo C., rende la vita monastica conforme al Cristo che " spogliò se stesso " (cf Fil 2,7), portando la croce. A questa sequela il Signore chiama i suoi discepoli (cf Mt 10,38). L'accettare con gioia uno stile di vita considerato una forma di martirio porta ad un'ascesa con il Signore nella dimora celeste. In questo processo, l'obbedienza e l'esilio costituiscono gli elementi chiave.

L'insegnamento di C. può essere considerato come un'enfasi sul bisogno di una carità infaticabile in un mondo caduco. La misura dell'amore verso il prossimo è il sacrificio di sé del Salvatore ed è espresso con gesti concreti che conducono alla conoscenza mistica dell'Amato, cui tende l'anima ferita dall'amore e che ha sete di Dio.

La Regula monachorum di C., comunque, rivelò i suoi limiti come guida all'organizzazione di una perfetta comunità monastica, perciò venne integrata e poi sostituita dalla Regola benedettina.

L'insegnamento ascetico di C. ha, tuttavia, una grande influenza sullo sviluppo della dottrina ascetica medievale, poiché attraverso l'esercizio ascetico si giunge alla conformazione a Cristo.

Bibl. Opere: G.S.M. Walker (ed.), Sancti Columbani opera, in Scriptores Latini Hiberniae, II, Dublino 1957. Studi: A. Angenendt, Monachi peregrini, Monaco 1972, 124-175; F. Callaey, s.v., in EC III, 1996-1998; L. Gougaud, s.v., in DSAM II, 1131-1133; B. Krusch (ed.), Vita di s. Colombano, 1, I e II, in Monumenta Germaniae Historica, IV, Hannover-Leipzig-Berlin 1902, 1-152; M. Lapidge - R. Sharpe, A Bibliography of Celtic-Latin Literature 400-1200, Dublin 1985, 165-168; J. Laporte, Le pénitentiel de Saint Colomban, introduction et édition critique, Paris 1960; T. O'Fiaich, Columbanus in His Own Words, Dublin 1974; C. Poggi, s.v., in BS IV, 108-120; F. Rudasso, s.v., in DES I, 549-553.

A. Ward

COLOMBINI GIOVANNI. (inizio)

I. Vita e opere. Nato nel 1304 a Siena, questo ricco commerciante di famiglia nobile, si sposa e diviene padre di famiglia. Verso il 1353, leggendo la Vita di santa Maria Egiziaca e sotto la guida del beato Pietro Petroni ( 1361) decide di vivere da solo. La sua condotta e la sua dottrina sono, allora, segnate dalla ricerca di un'estrema povertà, ragion per cui, talvolta, viene considerato pazzo e diventa oggetto di persecuzione. Si dà alla predicazione e alle opere di carità, prendendosi cura sia dei malati che dei poveri. Percorre le città e le campagne della Toscana mendicando, cantando laudi, recitando preghiere, parlando della bontà di Dio, fino alla sua morte, avvenuta nei pressi di Siena nel 1367.

La sua opera scritta consiste in una Vita del Beato Pietro Petroni, nel cantico Diletto Gesù chi ben ti ama e altre laudi e soprattutto in 114 lettere indirizzate, per la maggior parte, alle benedettine di Santa Bonda presso Siena.

II. Insegnamento spirituale. L'assoluta povertà che egli pratica e insegna è per lui una manifestazione di abnegazione di sé e di rinuncia a tutto. Ma questa austera penitenza e questa povertà, accompagnate da umiliazioni, non bastano a liberare l'anima se non vi si aggiunge un ardentissimo amore per Dio-Padre.

Egli prende a modello s. Maria Maddalena, che si fa penitente per amore. Ciò lo spinge a mitigare la sua ascesi: " Pregovi che non vi facciate male per la troppa penitenza, ma datevi più alla carità di Dio e del prossimo e alle mortificazioni: il corpo non castigate e non uccidete " (Lettere, t. I, 124). Protesta soprattutto contro la ricerca del rispetto umano e della ricchezza che preoccupa tanti suoi contemporanei, soprattutto nella prosperità della città di Siena. " Che il Cristo vi faccia diventare pazzi! Non c'è niente di meglio. Più ci allontaniamo dall'onore, più ci accostiamo al Cristo ".1 Portando su di sé l'obbrobrio del Cristo, si muore al peccato. La povertà e la mortificazione sono le condizioni per pervenire all'amore totale di Dio. Di questo amore ardente, C. parla volentieri, specialmente rivolgendosi alle monache di Santa Bonda, in termini di mistica nuziale: " Che l'amante si trasformi nell'Amato " (Lettere, t. I, 78). Egli solo rende possibile l'unione mistica, che C. concepisce come una " trasformazione ": " O anima così trasformata in Gesù Cristo " (Ibid.). I suoi discepoli sono, per così dire, " ingesuati " ed, in effetti, l'Ordine religioso che egli fonda, per uomini e donne, è quello dei " Gesuati ". Egli canta e grida: " O Gesù! O Gesù! " Invita a non spaventarsi " delle tentazioni che sono la vita e la corona della nostra anima ". La gioia di essere unito a Gesù si manifesta nei suoi cantici di lode, le laudi, e nei suoi gesti e atteggiamenti entusiastici, che sono tipici di un " pazzo di Dio ". In una società che comporta molte rivalità politiche, economiche, personali, non cessa di predicare la pace che deve regnare grazie a Gesù. Esercita una grande influenza su s. Caterina da Siena e sulla sua devozione al Nome di Gesù.

Note: 1 F. Baleari, Vita, Milano 1832, 12.

Bibl. Opere: Vita del beato Pietro Petroni, in Acta Sanctorum, Maii 7, Anvers 1688, 182-231; Lettere, D. Fantozzi (cura di), Lanciano (CH) 1925; Laudi, O. Pardi (cura di), nel Bollettino Senese di storia patria, 2 (1895), 1-50, 202-230. Studi: F. Baleari - R. Chiarini, Vita (scritta nel 1449), Milano 1832; citata qui, Arezzo 1904; Benedettini di Parigi, Vies des Saints et des Bienheureux, VII, Paris 1949, 746-752; A. Chiari, s.v., in EC III, 2006-2007; M. Dortel-Claudot, s.v., in DIP II, 1236-1237; G. Dufner, s.v., in DSAM VIII, 392-395; I.P. Grossi, s.v., in DES I, 555-557; R. Guidi, Colombini, Bernardino da Siena e Savonarola: uomini e simulacri, in Ben 35 (1988), 372-427; A. Levasti, Mistici del '200 e del '300, Milano 1935, 65-67, 1008-1010; G.B. Praja, s.v., in BS IV, 122-123; M. Tangheroni, La spiritualità del beato Giovanni Colombini, in RAM 25 (1974), 291-350.

J. Leclercq

COMBATTIMENTO SPIRITUALE. (inizio)

I. C. nell'ambito educativo. Il c. si può inserire nel capitolo più vasto dell'educazione, la quale si preoccupa di fare prorompere in atto (=educere) le doti temperamentali o, per dirla con Dante " il fondamento che natura pose ",1 di svilupparle, ordinarle, gerarchizzarle: duplice lavoro dunque: di gerarchizzazione e di attualizzazione.

Ora, è proprio nello sforzo di gerarchizzazione che deve entrare in atto il c., nel senso che il riordino delle doti temperamentali implica un lavoro arduo, lungo, assiduo, perché il peccato originale ha messo a soqquadro la gerarchia dei valori: è entrato in azione un fatto nuovo: il cosiddetto desiderio disordinato o concupiscenza degli occhi (=avere), concupiscenza della carne (=godere), superbia della vita (=potere) (cf Mt 4,1; Lc 8,11-15, 14,18-21). Memoria, intelletto, volontà, dice efficacemente Tommaso, " ...depressae sunt ad inferiora... usano delle cose visibili, ma, come trascinate verso di esse quasi con impeto e con desiderio disordinato ".2 All'uomo, spiega, Pio XII, " ...non è interdetto il dominio sulla terra, ma egli non ha più la sicurezza nell'esercitarlo... Il suo cammino si trascina con penoso avanzamento tra una mescolanza di fiducia e di angustia, di ricchezza e di miseria, di ascesa e di declino, di vita e di morte, di sicurezza e di insicurezza, fino all'ultima decisione alle porte dell'eternità ".3

Tutto ciò si può anche chiamare: " ipnosi del sensibile ": quella creatura che, secondo i disegni del Creatore, doveva avere sentimenti di lode-adorazione-ringraziamento (cf Sir 17,1-11), subisce un fascino così violento dalle cose create da sentirsi ipnotizzare-schiavizzare (=captivitas rerum).

" Tanto son belle le creature! " esclamerebbe la Sapienza, che ci affascinano facendoci dimenticare il dovere della lode-ringraziamento-adorazione, " ...perché il corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla, s'abbatte sulla mente preoccupata da molti pensieri... " (cf Sap 9,13-18; 13,7).

Si va ripetendo che Platone è pessimista, quando con il suo mistico genere letterario, esclama, " che la pestilenza del corpo si avventa sull'anima impedendole di raccogliersi e di pensare ".4

Essendo questa storicamente e obiettivamente la condizione dell'uomo, quando egli si sente annunciare un messaggio trascendente e spirituale, trova le sue facoltà " preoccupate " (=occupate prima) da altri beni-messaggi che lo impressionano più efficacemente, più immediatamente, più facilmente, più continuamente: perciò le sue facoltà risulteranno logicamente e fatalmente " distratte ", cioè tirate in due direzioni opposte: il matrimonio secondo la carne lo tira da una parte e quello secondo lo spirito, dall'altra: e questa tremenda lotta avviene nel suo intimo. Viene da pensare al mito della biga alata di Platone tirata da due corsieri: quello bianco della trascendenza e quello nero dell'incarnazione in lotta tra loro: o, meglio ancora, a Paolo: " La carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste " (cf Gal 5,17). Per questo motivo, le facoltà dell'uomo si trovano " disturbate ", ora dal caldo ora dal freddo, ora dal mal di testa ora dal mal di stomaco, ora non s'è potuto dormire ora si è stanchi, ora si è ammalati ora si ha paura di ammalarsi.

Essendo questa la condizione dell'uomo, è normale che egli avverta un fenomeno di fatale " spiazzamento " e cioè: il pane che perisce " spiazza " il pane che non perisce: le chiamate dell'avere-godere-potere " spiazzano " la chiamata di Cristo: in una parola: i regni di questo mondo " spiazzano " il regno di Dio e la sua giustizia (cf Mt 6,33).

II. Nell'esperienza ascetico-mistica. Santificarsi implica lavorare, continuamente e costantemente, per gerarchizzare, ordinare, controllare i beni visibili in modo che quelli invisibili e assoluti vengano sempre messi al primo posto, perché, come ricorderebbe Paolo, quelli visibili nascono, durano appena un po' e finiscono, mentre quelli invisibili " restano " (cf 2 Cor 4,18). Per questo motivo, gli autori spirituali di tutte le scuole di spiritualità hanno molto insistito sulla necessità e la funzione determinante del c.. suggerendo delle " armi " idonee a far riportare la vittoria sull'uomo vecchio. Alcuni hanno insistito maggiormente sulla preghiera, sul lavoro, sul digiuno; altri sulla prudenza, sull'umiltà, sul rinnegamento di sé, sull'abbandono in Dio, sulla mortificazione in genere.

S. Giovanni della Croce propone, ad esempio, una dottrina che risulta essere la sintesi tra dottrina tradizionale, esperienza interiore ed elementi psicologici. Egli suggerisce la famosa purificazione del senso e dello spirito con l'esercizio delle virtù teologali per riportare la vittoria sul mondo, sulla carne e sul demonio.5 Solo dopo aver attraversato il deserto purificatore della notte, l'uomo rinnovato, o per meglio dire, rinato a vita nuova, può entrare in quella zona diafana in cui contemplare, godendo già, anche se solo in parte, la mistica comunione con Dio.

Note: 1 Cf Paradiso 8, 142-148; 2 Cf De Malo, 4, 2; 3 Radiomessaggio di Natale, 1956; 4 Cf Fedone 11; 5 Cf Notte oscura II, 21,3.

Bibl. P. Barbagli, Lotta, in DCT, 936-944; Id., s.v., in Aa.Vv., Il messaggio spirituale di Pietro e di Paolo, Roma 1967, 229-264; P. Bourguignon - F. Werner, s.v., in DSAM II, 1136-1142; L. Bouyer, Introduzione alla vita spirituale, Torino 1965; A. Dagnino, La vita cristiana, Cinisello Balsamo (MI) 19887, 585-690; B. Ducruet, Il combattimento spirituale, Città del Vaticano 1995; B. Marchetti-Salvatori, s.v., in DES I, 565-569.

A. Dagnino

COMPUNZIONE. (inizio)

I. Deriva dal termine latino compunctio e a partire dal sec. IV entra nel linguaggio cristiano per esprimere il dolore pungente per i peccati di fronte alla misericordia di Dio. L'uso cristiano del termine esprime diversi atteggiamenti dello spirito: sentimento attuale e passeggero, atteggiamento abituale e permanente, dolore per i propri peccati o per le sofferenze del mondo.

II. Nella Scrittura e nei Padri. Il concetto di c. ha forti radici nell'AT e nel NT (soprattutto nei salmi, nei libri sapienziali, in At 2,37), sia come conseguenza della predicazione sia nelle conversioni a partire dall'annuncio del kerygma. Il tema della c. ispira i Padri, in particolare Origene, ma anche Efrem, Crisostomo, Gregorio di Nissa, Giovanni Climaco, Cassiano, Agostino, Gregorio Magno. Il tema caratterizza il monachesimo, quasi in modo esclusivo e pregnante. Infatti, è propria del monaco la " tristezza secondo Dio ", che può coesistere con il gaudio e la pace. La c. rimane un filone sotteso alla spiritualità del '300-'400 (si pensi alla Imitazione di Cristo), ma perde interesse esplicito nel ’500, specialmente con l'apparire di nuove scuole di spiritualità: ignaziana, carmelitana, salesiana... Ritorna come oggetto di riflessione negli autori moderni tra i quali Marmion, Hausherr, J. de Guibert.

III. Nella vita spirituale rappresenta un atteggiamento, del resto frequente nei santi, di dispiacere nei confronti del proprio operato, che può anche manifestarsi all'esterno come pianto pubblico per i propri peccati. Di solito la c. è un sentimento molto importante all'inizio di una vera metanoia da coltivare come fonte di equilibrio lungo tutto il processo di maturazione cristiana. La c. è indotta soprattutto dalla meditazione sulla Parola di Dio, come conseguenza di un ascolto sincero, quasi effetto inevitabile della medesima, che penetra " come spada " nel cuore dell'uomo, svelandogli, contemporaneamente, la sua verità e la verità su Dio.

Bibl. Ch.-A. Bernard, Teologia spirituale, Cinisello Balsamo (MI) 1982, specialmente i cc. X-XI; O. Clement, Il canto delle lacrime. Saggio sul pentimento, Milano 1983; I. Hausherr, Penthos: la doctrine de la componction dans l'Orient chrétien, Rome 1944; B. Marchetti-Salvatori, s.v., in DES I, 573-576; C. Molari, Mezzi per lo sviluppo spirituale, in B. Secondin - T. Goffi, Corso di spiritualità, Brescia 1989, 466-497; H. Nouwen, Viaggio spirituale per l'uomo contemporaneo, Brescia 1980; J. Pegon, s.v., in DSAM II, 1312-1321; P.-R. Regamey, Portrait spirituel du chrétien, Paris 1963; T. Spidlík, Manuale fondamentale di spiritualità, Casale-Monferrato (AL) 1993, in particolare: 345-360.

M.E. Posada

COMUNITA. (inizio)

I. Il rapporto tra vita mistica e vita comunitaria è attestato in differenti tradizioni religiose. Le confraternite sorte all'interno del sufismo (la corrente mistica dell'Islam), il sangha (" c. ", " ordine ") buddhista che riunisce chi professa di volersi rifugiare " nel Buddha, nella sua dottrina, nel suo ordine ", l'asram induista, ne sono un esempio. Queste strutture forniscono all'uomo in ricerca i mezzi per percorrere la via dell'esperienza di Dio o del raggiungimento della perfezione ascetica. Mezzi che consistono essenzialmente nel rapporto maestro-discepolo e nella disciplina ascetica e spirituale. Anche la mistica cristiana conosce un rapporto organico e non meramente estrinseco con la dimensione " ecclesiale-comunitaria ". Tale legame sorge sostanzialmente dal carattere peculiare della rivelazione ebraico-cristiana, dalla centralità dell'evento Cristo nella fede cristiana, dal carattere di koinonía (comunione), riflesso della comunione trinitaria, costitutivo del corpo di Cristo che è la Chiesa, e infine dal fine a cui tende la vita cristiana tutta: la carità. Ha scritto Anselm Stolz: " Anche se il mistico parlasse lingue angeliche e trasportasse montagne, se non ha la carità, egli non è che un bronzo sonante e un cembalo squillante ". Possiamo pertanto affermare con G. Moioli: " Nel cristianesimo il mistico è un credente cristiano: egli cioè resta radicalmente riferito e normato dall'economia storica di salvezza il cui avvenimento definitivo e risolutivo è rappresentato da Gesù di Nazaret. Come tutti i credenti, anch'egli resta riferito e si fa normare da questo singolarissimo avvenimento, mediante la parola ispirata (la Scrittura) e la celebrazione sacramentale, entro quella particolare c. storica di fede che è la c. ecclesiale... Il mistico cristiano ha il senso dell'importanza relativa - per quanto reale - dell'esperienza che egli vive... L'esperienza mistica, infatti, non è necessariamente il dono più alto. L'essenziale è la carità ".

II. Mistica cristiana e c. Al centro della rivelazione ebraico-cristiana c'è la struttura teologica dell'alleanza. Il Dio biblico è il Dio che si rivela all'uomo e solo in quanto si rivela può essere conosciuto ed esperito. JHWH è il Dio dei padri, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dell'altro. Anzi, è il Dio " Padre " nei confronti del popolo " figlio " (cf Es 4,23; Dt 1,31; 14,1; 32,6; Is 63,16; Ger 31,9; Os 11,1). E la fede nel Dio-Padre si fonda sull'ascolto di una parola che introduce in una relazione di alterità (=alleanza): " Ascoltate la mia voce! Allora io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo " (Ger 7,23). Anche il modello profetico di conoscenza di Dio non è fusionale, ma relazionale-comunionale, e comporta la salvaguardia degli elementi della distanza, della differenza e dell'alterità nel rapporto Dio-uomo (A.J. Heschel). Essendo a struttura simbolica paterna, la rivelazione biblica " iscrive l'individuo in una c. e in una storia relazionale da edificare: si tratta di costruire un'alleanza, una relativa unità, in una comunione che è sempre a venire " (T. Anatrella). La rivelazione biblica si oppone così alle forme religiose a struttura simbolica materna che privilegiano l'immediato, l'emozionale, il fusionale nel rapporto con Dio e propongono l'indifferenziazione degli individui, e che, inoltre, rinchiudono il singolo nella propria individualità assegnandogli come finalità la propria stessa soggettività. L'esperienza personale di Dio e la fruizione dei suoi benefici è sempre confessata, dall'uomo biblico, come dovuta al suo inserimento nel popolo dell'alleanza. Come appare dai salmi, questo riconoscimento si manifesta spesso pubblicamente in liturgie comunitarie. Nel NT il Cristo, parola definitiva e perfetto rivelatore del Padre, inaugura nella sua persona la nuova alleanza. E lui, il Figlio, che occorre ormai ascoltare (cf Mc 9,7 e par.), perché è attraverso di lui che si va al Padre (cf Gv 14,6) sotto la guida dello Spirito (cf Gv 16,12-14). Frutto di questo ascolto è la Chiesa: l'ekklesía, cioè l'insieme dei chiamati a uscire da sé per entrare in relazione con gli altri fratelli e con il Padre e formare così il popolo escatologico attratto dal Crocifisso-Risorto e compaginato dallo Spirito Santo. Il Figlio narra agli uomini il Dio che è Tri-unità, che è koinonia nel suo stesso essere, che parla e che ama per primo, che è e che entra in relazione con gli uomini. La Chiesa è il grembo comunitario che si apre a questa inabitazione della vita divina: " Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro " (Mt 18,20). Ed è il grembo che genera ciascuno alla personalissima esperienza dell'inabitazione divina: " Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui " (Gv 14,23). L'esperienza di Dio nel corpo di Cristo che è la Chiesa immette il credente nel discernimento del proprio corpo, che si è rivestito di Cristo nel battesimo (cf Gal 3,27), quale " tempio dello Spirito " (1 Cor 6,19) e spazio di glorificazione di Dio (cf 1 Cor 6,20; 2 Cor 6,16-18). La koinonía trinitaria struttura la Chiesa come koinonía, cioè come partecipazione al modo di essere di Dio stesso, che è quello della " comunione personale " (J. Zizioulas). E la partecipazione personale alla vita di Dio avviene a misura del passaggio (=pasqua) di ciascuno dalla chiusura nella propria individualità alla relazionalità, fino alla comunione e all'amore ordinati cristicamente: " Amatevi come io vi ho amati " (Gv 13,34). Avviene cioè, tale partecipazione alla vita divina, nella concreta vita comune fraterna che è schola caritatis in cui s'impara l'interdipendenza che proibisce di dire l'uno all'altro " Io non ho bisogno di te " (1 Cor 12,21) o di ripetere la domanda " Chi è il mio prossimo? " (Lc 10,29). Un antico detto latino diceva: Unus christianus, nullus christianus. L'amore reciproco all'interno della c. cristiana è elemento di veridizione dell'autentico discepolo di Cristo (cf Gv 13,35) e l'amore verso il fratello è criterio fondamentale di autenticazione della propria esperienza di Dio: " Se uno dicesse ’Io amo Dio', e odiasse il proprio fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello " (1 Gv 4,20-21).

III. Oggettività ecclesiale e azione dello Spirito. L'esperienza mistica non può non essere coerente con l'oggettività cristiana: si radica nell'economia sacramentale (battesimoEucaristia), è nutrita dalla fede sempre rinnovata dall'ascolto della Parola di Dio contenuta nella Scrittura, tende alla carità che vede nell'altro un sacramento del Cristo stesso. La vita in Cristo e l'esperienza del Cristo in me (cf Gal 2,20), oggettivate dai sacramenti, dalla vita fraterna e dalla paternità spirituale, trovano dunque un magistero, non un ostacolo, nella koinonía ecclesiale che è essenzialmente comunione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (cf 1 Gv 1,1-3). Questa oggettività non significa uniformità o spegnimento delle diversità perché la koinonía ecclesiale è " comunione dello Spirito " (cf 2 Cor 13,13). E la koinonía dello Spirito che anima e compagina il corpo ecclesiale nel delicato rapporto fra " tutti " e " ciascuno " (cf At 2,1-13; Ef 4,1-16) e che ordina i diversi carismi ordinandoli verso la excellentior via che è la carità, l'amore (cf 1 Cor 12-13). Lo Spirito è criterio di unità nella differenza, di comunione nell'alterità, di personalizzazione di ciò che è unico. Qui si pone alla Chiesa, alla c. cristiana, l'inderogabile compito di essere soggetto di trasmissione dell'arte della vita spirituale. E questo per rispondere al proprio fondamentale mandato di introdurre ciascuno dei suoi figli alla comunione con Dio.

Bibl. T. Anatrella, Psychologie des religions de la mère, in Chr 154 (1992), 241-253; S. Dianich, La Chiesa mistero di comunione, Torino 1975; A.J. Heschel, Il messaggio dei profeti, Roma 1981; C.A. Keller, Approche de la mystique, 2 voll., Le Mont-sur-Lausanne 1989-1990, soprattutto il vol. II, 169-199; G. Moioli, La mistica cristiana, in NDS, 985-1001; R. Moretti, Mistica e misticismo oggi, in Aa.Vv., Mistica e misticismo oggi, Roma 1979, 28-41; C. Rocchetta, La mistica del segno sacramentale, in La Mistica II, 47-76; A. Stolz, La Scala del paradiso. Teologia della mistica, Brescia 1979, 41-49; Ch. Yannaras, La libertà dell'ethos, Bologna 1984; J. Zizioulas, L'être ecclésial, Genève 1981.

A. Bianchi

CONCUPISCENZA. (inizio)

I. Il termine. Significa bramare, cioè desiderare intensamente una realtà piacevole, con una inclinazione affettiva verso di essa. Le ascendenze filosofiche dell'espressione risalgono a Platone nella cui tricotomia la c. ha il terzo posto (epitumía). Aristotele ( 322 a.C.) fa della c. una facoltà dell'appetito sensitivo insieme con l'ira (tumós), distinguendo dall'una e dall'altro la volontà (boúlesis). Secondo l'insegnamento della Chiesa, la c. è qualcosa di naturale (DS 1979ss.), perché la sua realtà di fondo è un dato che appartiene sia all'antropologia cristiana, quanto all'antropologia universale. Questa considera l'uomo come esistente aperto all'infinito, seguendo in ciò il suo desiderio. Contemporaneamente, però, lo considera come esistente, pertanto posto in tensione di fronte " al tutto " perché limitato dalle colpe e spinto in direzioni che non portano all'alterità. Questa tensione e resistenza della finitezza dell'uomo, insieme alla sua tendenza contraria di fronte all'infinito, sono qualcosa di anteriore alla decisione etica dell'uomo e fuori del suo controllo.

S. Tommaso dice che, come nello stato d'innocenza vi erano un elemento formale (la sottomissione della volontà a Dio in virtù della giustizia originale che includeva la grazia) e un elemento materiale (la soggezione degli appetiti inferiori alla ragione in virtù del dono d'integrità), così pure nel peccato vi erano la perdita della giustizia originale con la grazia (elemento formale) e la ribellione della c. (elemento materiale).1

II. Nella Scrittura è presente questa tendenza interna all'uomo, che gli conferisce una determinazione etica negativa, benché questa non sia formalmente peccato: " Non maledirò più il suolo a causa dell'uomo, perché l'istinto del cuore umano è incline al male " (Gn 8,21). Questa tendenza coinvolge non solo il lato corporeo-sensitivo della vita umana, ma tutto l'uomo. Pur conservando talvolta il significato neutro di " desiderare fortemente ", il NT, ordinariamente, conferisce a questo termine una connotazione morale peggiorativa: " desiderio eccessivo ". La tradizione giudaica conosceva l'" inclinazione cattiva ", lo " spirito di perversione " che è nel cuore dell'uomo. Così la c. originale che " non avrei conosciuto - come dice s. Paolo - se la legge non avesse detto Non desiderare " (Rm 7,7) crea un drammatico dissidio interiore nell'uomo. La legge dà all'uomo la coscienza del peccato senza dargli la forza interiore per vincerlo: in tal modo, a causa della c., diventa, di fatto, strumento del peccato. E questa la struttura propria del mondo, in senso giovanneo: " La c. della carne, la c. degli occhi e la superbia della vita " (1 Gv 2,16). La c. trascina le passioni; " le preoccupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie " (Mc 4,19) schiavizzano la vita, ma la brama è insaziabile.

III. Nella vita cristiana. In quanto contrapposta alla situazione esistenziale soprannaturale dell'uomo, la c. rappresenta una deficienza nella capacità decisionale stabilita per l'uomo da Dio (K. Rahner). Per questo fatto non solo è conseguenza del peccato, ma anche stimolo ad esso. Tale stimolo non può essere superato se non nella morte alla c., nella rinuncia, passaggio obbligato per tendere alla perfezione mistica in Dio. Sulle orme di Gesù, il cristiano deve prendere e portare la propria croce (cf Mt 10,38 e par.) per proclamare la propria morte al mondo malvagio (cf Rm 6,6; Gal 2,19) e farne il suo più grande titolo di gloria (cf Gv 12,26) perché, dice il Signore, " il mio giogo è dolce e il mio carico leggero " (Mt 12,29). In ciò si realizza l'unificazione di tutti i desideri: " Di Dio ha sete l'anima, a Dio anela la carne umana, come terra deserta, arida senza acqua " (Sal 62,2). La Chiesa ha sete del suo Salvatore, bramando di dissetarsi alla fonte dell'acqua viva che zampilla per la vita eterna. E questa la più alta aspirazione di Gesù: " Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi " (Lc 22,15): a tale meta tende ogni cristiano nel cammino che lo porta alla piena maturità, ove campeggia la signoria di Dio in lui e di lui su se stesso e ciò che lo allontana dal suo Dio e Signore.

Note: 1 STh I-II, q. 82, a. 3.

Bibl. Ch. Baumgartner - R. Biot, s.v., in DSAM II, 1334-1373; M. Belda Plans, s.v., in DES I, 590-594; B. Bossuet, Traité de la concupiscence, Paris 1930; A.M. Dubarle, Il peccato originale. Prospettive teologiche, Bologna l984; M. Flick - Z. Alszeghy, Il peccato originale, Brescia 19742; W. Pannenberg, Antropologia in prospettiva teologica, Brescia l987; K. Rahner, Il concetto teologico di concupiscenza, in Id., Saggi di antropologia soprannaturale, Roma 1965, 281-338.

A. Marra

CONDREN CHARLES DE. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce il 15 dicembre 1588 nel castello di Vaubuin nei pressi di Soissons e muore il 17 gennaio 1641. Meno conosciuto di Bérulle, al quale succede come superiore generale dell'Oratorio, C. non ha praticamente pubblicato nulla durante la sua vita, ma in alcuni appunti di conferenze e in varie lettere molto interessanti appare un mistico e un buon pedagogo. Egli esercita un'influenza considerevole attraverso la direzione spirituale. Si è scritto che " tra il 1630 e il 1641 egli dirige tutte le anime sante che sono a Parigi " (J. Delumeau).

Occorre sottolineare la grande influenza esercitata su J.J. Olier tra il 1635 e il 1641. Dopo eccellenti studi alla Sorbona ed un lungo periodo di preparazione, è ordinato sacerdote nel 1614; predica in parecchie chiese di Parigi ed entra a far parte dell'Oratorio nel 1617.

Fin dall'infanzia riceve grazie eccezionali: esperienza viva della grandezza di Dio e del nulla della creatura, percezione vivissima del valore del sacrificio di Gesù e convinzione che Dio lo chiami, malgrado la sua indegnità, al sacerdozio. Questa " stima incomparabile del sacerdozio " resta in lui durante tutta la sua vita, lo orienta verso l'Oratorio e lo fa lavorare, con tutte le sue forze, per il rinnovamento spirituale dei sacerdoti.

I suoi diversi ministeri, sia al servizio della riconciliazione degli " eretici " (i protestanti), sia come direttore spirituale non cessano con la sua elezione, nel 1629, a superiore generale dell'Oratorio. C. non eccelle come amministratore, ma contribuisce a precisare lo spirito e lo statuto degli Oratoriani. A più riprese è tentato di dimettersi, ma conserva sempre la sua carica.

Malgrado le sue proteste di umiltà, serve l'Oratorio con tutte le sue forze e si prende cura di parecchie case, parrocchie e collegi. S'interessa molto alle " missioni " e mantiene una fitta corrispondenza.

La dottrina spirituale di C. sarà diffusa dai suoi discepoli, soprattuto da J. Eudes e J.J. Olier. Una lettera di C. (n. 56) sarà, d'altra parte, ricopiata tale e quale da J. Eudes nella sua opera fondamentale Vita e Regno di Gesù. E Olier riprenderà e amplierà la " piccola preghiera " che C. suggerisce ai suoi figli spirituali: " Vieni, Signore Gesù e vivi nel tuo servo, nel tuo Spirito per la gloria del Padre ".

In mancanza di testi di C. conosciamo la sua dottrina spirituale grazie alle opere pubblicate dopo la sua morte. Da una parte: L'idée du sacerdoce et du sacrifice de Jésus-Christ (di cui solo la seconda parte sembra essere sua, il resto è stato aggiunto dal suo editore P. Quesnel nel 1677), d'altra parte, le Considérations sur les mysteres de Jésus-Christ. Vi si possono aggiungere delle Lettere e dei testi inediti abbastanza numerosi.

II. L'insegnamento spirituale di Bérulle, fondato sul teocentrismo, si ritrova in C.: Dio è santissimo, infinitamente trascendente al mondo che egli ha creato e all'umanità peccatrice. Ma l'adorazione per lui si esprime mediante il sacrificio, l'immolazione, lo stato d'ostia. Egli parla spesso di annientamento. Se Bérulle propone delle Elevazioni e colora l'adorazione di lode entusiasta, C. propone il sacrificio totale di adorazione, cioè la consumazione.

Allo stesso modo, il cristocentrismo mistico berulliano insiste con C. sullo stato di ostia. Niente è degno di Dio se non l'unico sacrificio di Gesù. Per questo motivo, più di Bérulle, C. parla spesso della Messa. Gesù vi trova " il mezzo per continuare in tutti i secoli lo stesso sacrificio e per moltiplicare ogni giorno la sua offerta sui suoi altari ".

La sua pedagogia è centrata sull'adorazione e sulla comunione con Gesù Cristo: " Occorre che voi cerchiate e troviate in Gesù Cristo lo spirito e la grazia che Dio vuole darvi per compierla... Adorate Gesù Cristo, datevi a lui interamente... Sforzatevi di rimettere tutto ciò che siete tra le sue mani, di uscire dal vostro spirito per vivere nel suo, dalla vostra volontà, da tutte le vostre intenzioni e inclinazioni per assumere disposizioni divine e adorabili ".

Infine, avendo, a seguito di Bérulle e prima di Olier e J. Eudes, un'idea molto profonda di ciò che è la Chiesa, Corpo del Cristo, C. insiste molto, lo si è visto, sulla comunione ai misteri del Cristo e alle sue intenzioni. Ciò vale per tutti i cristiani e, molto di più, per i sacerdoti, in particolare quando essi celebrano il sacrificio della Messa. C. morirà nel 1641 lasciando un'eredità spirituale non solo all'Oratorio, ma anche a J.J. Olier e J. Eudes.

Bibl. Opere: Lettres du Père Charles de Condren, a cura di P. Audray et A. Jouffrey, Paris 1943 (Introduction IX-LIII). Studi: D. Amelote, La vie du P. Charles de Condren, 2 voll., Paris 1643, 1657; F. Antolín Rodríguez, s.v., in DES I, 594-595; H. Bremond, Histoire littéraire du sentiment religieux en France, III, Paris 1925, 283-418; R. Deville, Charles de Condren (1588-1641), in Id., La scuola francese di spiritualità, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 55-70; J. Galy, Le sacrifice d'après l'École française de spiritualité, Paris 1951; B. Kiessler, Die Struktur des Theozentrismus bei Pierre de Bérulle und Charles de Condren, Berlin 1934; A. Molien, s.v., in DSAM II, 1373-1388.

R. Deville

CONFERMAZIONE. (inizio)

I. Premessa. Gesù, risorgendo dai morti, ha reso i discepoli partecipi del suo mistero di morte e di risurrezione e li ha invitati ad attendere la venuta del dono del Padre (cf At 1,4). Tale promessa si è realizzata nel giorno della Pentecoste quando i discepoli sono stati riempiti della potenza che viene dall'alto e sono apparsi al mondo proclamando le meraviglie di Dio.

La celebrazione della c. colloca il battezzato in questa medesima atmosfera. Il discepolo di Gesù, nel dono battesimale, ha " conosciuto " Cristo morto e risorto per dono dello Spirito, ora nel contesto della comunità cristiana riunita in preghiera viene accolto dal vescovo perché partecipi in pienezza alla comunione ecclesiale, riceva il sigillo che conferma e dia compimento all'azione che lo Spirito ha iniziato nella vocazione alla fede e nella celebrazione del battesimo: " N. ricevi il sigillo dello Spirito Santo che ti è dato in dono ". Nella c. il cristiano vive il compimento dell'azione divina nei suoi confronti e come i discepoli della prima comunità cristiana può presentarsi al mondo nell'ebrezza dello Spirito Santo per cantare nella semplicità del cuore l'ineffabile amore del Padre per ogni uomo. Il mistero battesimale riceve la sua pienezza nella c. che, a sua volta, fa godere a pieno titolo della celebrazione eucaristica.

II. L'insegnamento della Scrittura. Possiamo intuire le profondità teologiche del sacramento della c. partendo dalla viva coscienza del significato cristologico e pneumatologico del battesimo.

Il battezzato è stato reso Cristo-conforme attraverso la rigenerazione dall'acqua e dallo Spirito Santo. Contemplando i misteri della vita di Gesù come riferimento alla comprensione dei segni sacramentali, intuiamo come ciò che è avvenuto a Gesù al momento del suo battesimo al Giordano si realizzi anche nel battezzato. Su Gesù all'inizio del ministero apostolico è sceso lo Spirito (cf Gv 1,33) e tale evento ha determinato lo scorrere della sua esistenza. Lo svolgimento di questo mistero ha avuto luogo, dunque, nello Spirito Santo che, dopo aver riempito Gesù della sua potenza, lo ha condotto a dare compimento al progetto del Padre sull'albero della croce (cf Eb 9,14). Gesù nello Spirito dice la sua identità d'essere nelle mani del Padre per offrire la salvezza all'umanità tutta e immetterla nei beni messianici (cf Gv 20,22).

Il discepolo nel dono della c. riceve lo Spirito del Cristo perché possa operare in Cristo e come Cristo, rivivendo la vicenda e la sorte del Maestro. Egli, nella pienezza del dono dello Spirito, viene assunto nella sacerdotalità di Cristo e viene condotto a rendere la propria vita un'oblazione gradita al Padre ad imitazione di ciò che è avvenuto in Gesù.

Il dono della c. abilita il discepolo a personalizzare speditamente le intenzionalità del Maestro e a " imitare " nella totalità dell'esistenza il suo stile di vita. Tale lettura cristologica diventa più luminosa penetrando l'avvenimento della Pentecoste. Alla luce, infatti, di tale evento, il cresimato si ritrova nell'ineffabile contesto della comunità primitiva che, attorno alla fede apostolica e nel clima dell'umanità nella preghiera, gode del rivelarsi della pienezza dello Spirito. Il " promesso " dal Padre lo riempie ed egli avverte nella propria esistenza la meravigliosa fedeltà del Padre che fa nuove tutte le cose e dona la libertà dello Spirito nella testimonianza evangelica. Come Stefano, egli è pieno di fede, di sapienza e di Spirito Santo ed è chiamato a consumare il dono pentecostale nel martirio ad imitazione di Gesù. Questa componente pentecostale assume anche un altro significato che si rivela determinante nella comprensione della c.

La pienezza del giorno di Pentecoste immette il cresimato nei tempi messianici (cf Gal 3,1-5), nel mondo nuovo sognato dai profeti e lo introduce nella comunione ecclesiale a titolo pieno. Il dono della c. costituisce il segno sacramentale per evidenziare la vocazione ecclesiale del discepolo, come espressione dell'armonia e della pace che avrebbero caratterizzato il compimento della storia.

III. La vita " crismale ". Il sacramento della c. è caratterizzato da un evento che richiama il mistero della " pienezza ". Il cresimato è inserito nella condiscendenza dello Spirito Santo e gode del rivelarsi nella sua vita dell'azione totale e totalizzante dello Spirito, la cui funzione è quella di rendere l'anima pienamente docile all'azione intradivina che viene dall'alto.

Il segno dell'olio nel rito della c. è estremamente significativo da questo punto di vista. Le sue proprietà caloriche danno il senso della duttilità, della potenza e della docilità del corpo ai comandi della volontà umana. Così avviene nel mistero della c., ove l'obbedienza ai pensieri del Padre è l'elemento dinamico e fecondo della presenza dello Spirito. Infatti, lo Spirito, il cui ruolo nell'economia di salvezza è comunicare la volontà del Padre agli uomini (cf 1 Cor 2,10-15), pone l'uomo in condizione di stare in attento ascolto delle ispirazioni del Padre per costruire un'esistenza sostanzialmente di obbedienza. La pienezza dello Spirito e i suoi sette doni, infusi nell'anima, permettono al cresimato di vivere in attenzione piena e in radicale obbedienza alla volontà del Padre. La conseguenza è che il cresimato dice al mondo nella ordinarietà della sua vita l'ineffabile volontà divina che vuole che tutti gli uomini godano della comunione nella salvezza. Colui che riceve la pienezza dello Spirito è totalmente sottoposto alla sua azione, entra nella libertà divina, fa trasparire la luminosità della consacrazione trinitaria e, nel suo itinerario storico, fa prorompere tutta l'intensità delle relazioni divine con la fecondità della preghiera. Il cresimato è l'orante per eccellenza nella comunità ecclesiale. Di riflesso, l'azione dello Spirito stimola allo sviluppo dell'autentica esperienza di comunione come riferisce At 2,42.

Il Cristo, venendo nel mondo, ha operato per dare compimento nella storia al progetto primordiale del Padre che gli uomini siano una cosa sola. Lo Spirito, che nella Trinità è il principio personale dell'unità intra-trinitaria, nel comunicarsi agli uomini li rende partecipi di questo mistero e li stimola a crescere nella realizzazione della vocazione presente nell'uomo e offerto nella Pasqua di Gesù a vivere un fecondo itinerario di comunione. La comunione orante e teologale, eucaristica e fraterna, diviene segno del mondo nuovo che ogni pentecoste sacramentale depone nell'umanità in cammino. La docilità allo e nello Spirito è strumento di continua fusione dei cuori per fare dei diversi un popolo solo. La pienezza di tale esperienza viene goduta nella celebrazione eucaristica nella quale il cristiano, pieno di Spirito, è assunto nella obbedienza sacrificale di Gesù e gode con i fratelli la comunione in questo stile di vita. E nell'Eucaristia che la fecondità della c. è sempre attuale e dall'Eucaristia riceve le linee operative perché la testimonianza dello Spirito davanti al mondo possa essere in piena sintonia con il volere del Padre ad imitazione di Cristo.

IV. Conclusione. Il cristiano, nel sacramento della c., gode d'essere pieno di Spirito Santo con tutti i doni che ne fluiscono perché possa essere segno fecondo della comunione con il Cristo, per compierne le opere in un atteggiamento di somma libertà davanti al mondo per la gloria del Padre e per costruire la comunione con tutti i fratelli. Egli vive, pertanto, la meravigliosa esperienza degli ultimi tempi preconizzata dai profeti e manifestatasi nella Pentecoste. La c., perciò, rappresenta la pienezza dell'identità del cristiano che vive all'unisono con Cristo e con lo Spirito in una feconda relazionalità con il Padre e in una tensione verso la pienezza escatologica ove egli sarà pienamente associato alla comunione gloriosa dei santi, significata sacramentalmente oggi nella comunità ecclesiale riunita attorno al testimone dell'apostolo, il vescovo. Questo dono porterà, di conseguenza, il discepolo ad entrare in feconda comunione evangelica con tutti gli uomini per porre le premesse del mondo nuovo apparso nel grande evento della Pentecoste.

Bibl. Aa.Vv., La confermazione e l'iniziazione cristiana, Leumann (TO) 1967; Aa.Vv., Il sacramento della confermazione, Bologna 1983; I. Biffi, La confermazione, Casale Monferrato (AL) 1985; H. Bouhot, La confermazione sacramento della comunione ecclesiale, Leumann (TO) 1970; J. Castellano, s.v., in DES I, 595-603; G. Colombo, Iniziare a Cristo. Il cammino di fede nella Chiesa: battesimo e confermazione, Leumann (TO) 1987; R. Falsini, s.v., in NDL, 269-294; Id., La cresima, sigillo dello Spirito, Milano 1972; P. Fransen, s.v., in K. Rahner (cura di), Sacramentum mundi, II, Brescia 1974, 691706; I. Gummersbach - M. Viller, Confirmation en grace, in DSAM II, 1422-1441; L. Ligier, La confermazione. Significato e implicazioni ecumeniche ieri e oggi, Roma 1990; L. Soravito, Il sacramento della confermazione, Leumann (TO) 1987.

A. Donghi

CONFIDENZA. (inizio)

I. Il termine. Nell'uso corrente il vocabolo c. è ricco di significati. Vuol dire " fare affidamento ", porre le proprie attese, contare su qualcosa o qualcuno. In questo caso c. significa fiducia, cui segue la sicurezza. In relazione al verbo " confidare ", inteso quale sinonimo di " rivelare ", c. vuol dire comunicare ad altri un proprio segreto e aprirgli il proprio animo; anche in tal caso appare evidente il legame stretto che essa ha con la fiducia. In questa linea, la c. acquista il significato di familiarità, dimestichezza, intimità cordiale e amichevole. Essa raggiunge il suo significato più pieno e pregnante quando indica l'affidamento di sé, cioè il " fidarsi " di un altro a tal punto da " affidarsi " totalmente a lui.

In contesto biblico la c. è strettamente legata alla virtù della fede come fiducia, conoscenza e obbedienza. Ma è legata anche alla speranza come serena certezza di ottenere, per dono di Dio, ciò che ci si aspetta. Essa, infine, è legata all'amore che genera il fiducioso abbandono e scaccia ogni timore (cf 1 Gv 4,18).

Raramente il termine è usato con riferimento alla comunicazione di " verità " nel senso di svelare o rivelare qualcosa di astratto, esso riguarda piuttosto e sottolinea il coinvolgimento profondo. E la persona o qualcosa di molto personale che viene " affidato all'altro ". Anche quando comporta la trasmissione di una " verità ", la c. dice sempre apertura del proprio animo, comunicazione del proprio intimo e dei segreti che lo popolano, o dei progetti che vi scaturiscono. Tale c. caratterizza l'amicizia e ne è un segno manifesto. Così Dio rivela ad Abramo i suoi progetti (cf Gn 18,17) o parla a Mosè come ad amico (cf Es 33,8-11; cf 32,9-14). Così, Gesù confida ai suoi discepoli tutti i suoi segreti (cf Gv 15,15). Una delle cose più straordinarie della Bibbia è l'incontro con un Dio che fa le sue " confidenze " alla sua creatura e la rende partecipe dei suoi segreti, quasi per trovarvi consiglio e sostegno.

II. Nella vita cristiana. Per quanto riguarda il credente, possiamo dire che la c. costituisce una sua caratteristica essenziale; in effetti, la sua stessa entità morale e spirituale è definita dalla natura della sua c. A chi l'uomo deve dare credito, su chi fare affidamento e porre la propria fiducia, su chi contare come sostegno valido e sicuro o come guida illuminata e saggia? E dalla risposta concreta a queste domande che prende l'avvio la storia dell'umanità e ne viene sistematicamente qualificata. Scegliendo di fidarsi più del serpente che di Dio (cf Gn 2,16-17; 3,1-7), l'uomo dà una svolta determinante e tragica a tutta la sua storia. Egli sperimenta subito, a sue spese, che confidare in una creatura ed escludere Dio significa affidarsi alla menzogna; ma la lezione non sarà sufficiente. Anzi, sarà proprio quella prima scelta a condizionare e quasi determinare tutte le altre, rendendo praticamente impossibile cambiare rotta. Anche il popolo eletto, nonostante tutti i segni e i richiami, finisce sempre con il non voler confidare in Dio (cf Is 30,15), preferendogli idoli che sono " impostura " (Ger 13,25) e " nulla " (Is 59,4). Di fatto, tutta la storia è segnata dalla scelta che l'uomo fa su chi " confidare ", mentre la Bibbia sentenzia inappellabilmente: " Maledetto l'uomo che confida nell'uomo " (Ger 17,5; Sal 146,3-4), e: " Benedetto l'uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia " (Ger 17,7; cf Sal 40,5).

Il peccato dell'uomo è consistito, dall'inizio, nel rifiuto di dipendere da Dio e nella pretesa di fare affidamento unicamente su se stesso e sulle proprie risorse. La redenzione, a sua volta, è consistita nel rendere capace l'uomo di uscire dalla propria chiusura egoistica e dalla schiavitù delle cose, per porre il proprio appoggio in Dio. Caratteristica specifica dei poveri di JHWH, soprattutto del povero per eccellenza Cristo Gesù, è la c. nella provvidenza del Padre (cf Mt 8,20). E proprio questo " confidare " in Dio che segna il passaggio dal regno del maligno al regno di Cristo. Se uno non rinuncia all'illusione di bastare a se stesso e continua a pretendere di salvarsi da solo, non può ricevere la salvezza che è dono totalmente gratuito e può essere offerto solo a chi è disposto ad accoglierlo perché se ne riconosce bisognoso. Per questo motivo, Gesù chiede di affidarsi totalmente all'amore provvidente del Padre, con un rifiuto assoluto di qualunque compromesso con gli idoli di questo mondo (cf Mt 6,24-34; 10,29-30; Lc 21,18).

Com'è logico, la c. è tanto più incrollabile quanto più è umile e obbediente. In effetti, fiducia e umiltà sono inseparabili, mentre non avrebbe senso dire di affidarsi a Dio e poi agire di testa propria e secondo i propri interessi immediati. Il riconoscimento e l'accettazione della propria assoluta impotenza, uniti alla fede più eroica, aprono la strada alla c. estrema, fino ad attendersi anche l'impossibile di fronte a un Dio che sembra smentire le sue stesse promesse. L'esperienza di Abramo è paradigmatica. " Fidarsi ", dunque, non solo come fiducia, abbandono e adesione affettiva, ma anche come piena accettazione di Dio e della sua volontà, che si trasforma in legge definitiva e incontrastata della propria esistenza. Una fiducia senza obbedienza sarebbe sentimentalismo, un'obbedienza senza fiducia sarebbe servilismo. Immagine plastica di tale c. è il bambino che riposa sereno in grembo a sua madre. Per questo Gesù chiede di tornare bambini e di aprirsi come loro al dono di Dio (cf Mc 10,15). L'amore che la c. esprime non spinge, dunque, a trascinarsi ai piedi di Gesù, ma a gettarsi con slancio tra le sue braccia.1

Note: 1 Cf Teresa di G.B., Lettera a don Bellière, 26 luglio 1897.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM II, 1405-1412; Camillo del Sacro Cuore, La dinamica della confidenza, in RivVitSp 25 (1971), 82-87; C. De Meester, La dinamica della fiducia, Cinisello Balsamo (MI) 1996; C. Gennaro, Confidenza, in DES I, 603-604; M.-F. Lacan, Fiducia, in DTB, 343-346; B. Marconcini, Fede, in NDTB, 536-552; A.A. Terreuwe, Essere cristiani senza paura e senza angoscia, Roma 1970.

A. Pigna

CONFORMITA ALLA VOLONTA DI DIO. (inizio)

Premessa. La volontà di Dio arriva a noi attraverso una duplice via: quella dell'autorità tramite il mistero dell'obbedienza cristiana e quella dell'avvenimento.

Qui si vuole percorrere quest'ultima, che si individua con questa terminologia: teologia dell'avvenimento, teologia del " sì ", concezione cristiana della storia, o con il termine più noto, provvidenza. Tale argomento s'inserisce nel trattato più vasto della fede infusa, perché ogni volta che c'è un involucro da trascendere per vedere, oltre il visibile, una realtà invisibile vista da Dio, è interessata appunto la fede, che si definisce un senso della vista infuso dallo Spirito, che permette di vedere ciò che Dio vede, quasi oculo Dei, precisamente.

Per avvenimento s'intende un avvenimento " avvenuto ": cioè non il " prima ", non il " dopo " l'avvenimento, perché " prima e dopo ", Dio vuole che l'uomo si dia da fare perché la storia cammini nel migliore dei modi. Per questo motivo l'uomo ha il dovere di mettere in opera tutte le diligenze perché non capiti nessun incidente, malattia o guerra. La ragione, però, deve pure ammettere che la creaturalità e il limite, il peccato e l'egoismo, fanno sì che la convivenza umana senza incidenti, grandi o piccoli che siano, senza malattie e disgrazie, sia razionalmente inconcepibile, perciò, realisticamente e storicamente, diventerebbe anche irrazionale chi presumesse di concepire una vita senza incidenti; come pure sarebbe irragionevole, e anche ingiusto, far entrare Dio come la causa dei nostri mali.

I. Nozione. Premesso questo chiarimento, si dice " cristiano " colui che " crede ", o, per essere più preciso, colui che, illuminato dallo Spirito, " ha grazia " di credere che sotto l'involucro spesso opaco di ogni avvenimento grande o piccolo, triste o lieto, anche quello che l'uomo, in quanto uomo, " stolto e duro di cuore a credere " (cf Lc 24,25), cioè ipnotizzato dal sensibile, è tentato, come Abramo, di chiamare disgrazia, caso, invidia, gelosia, calunnia, male, ecc., si nasconde un mistero di fede: cioè il sacramento della volontà di Dio (cf Ef 1,9), che sta quale artefice supremo nella vita dei popoli e delle persone. Dio stesso saprà esprimere, presto o tardi, una sinfonia intonatissima: a lui, in ogni caso, possibilissima e facilissima: " C'è forse qualcosa d'impossibile a Dio? " (cf Gn 18,14): la sinfonia della santificazione individuale o collettiva, rapida o lenta, vicina o lontana, ma sicurissima sinfonia, come sicurissima è l'esistenza di Dio.

Questa la tesi in sintesi, tesi classica tramandataci dai nostri Padri nella fede con espressioni cariche di sapienza e di poesia. Tesi che si colloca sul solidissimo fondamento di questa triplice colonna: 1. " Dio è ": " ...non temete... non abbiate paura... Il Signore degli eserciti sia l'oggetto del vostro timore... " (cf Is 8,12-13), " Ma, se non crederete, non avrete stabilità " (Is 7,9), " ...nell'abbandono confidente sta la vostra forza " (Is 30,15); 2. Dio " sa ": si veda il discorso sulla provvidenza, le cui parole chiave sono: " Non affannatevi ", perché " il vostro Padre celeste sa... " (cf Mt 6,25.28.31.34); 3. Dio " è padre ". " Il vostro Padre celeste " è un'altra parola-chiave del discorso sulla provvidenza (cf Mt 6,30. 32) e della montagna (cf 5,16. 45. 48; 7,7-11).

Tale tesi propone una dottrina fondamentale, ma carica di misteri e di discussioni, di difficoltà e di crisi, di luci e di tenebre: il male è sempre stato e sarà sempre il mistero più misterioso e più discusso: " I tuoi occhi, mio Dio " esclama il gran salmo della provvidenza, " vedevano le mie vicende, che nel tuo libro erano tutte scritte con i giorni in cui dovevano prodursi, quando ancora non ne esisteva neppur uno. Ma, per me, quanto sono difficili i tuoi disegni, o Dio " (cf Sal 138,16).

II. Nell'esperienza cristiana. E cristiano, dunque, colui che ha grazia dallo Spirito Santo di " credere " cioè di abbandonarsi " tutt'intero " (cf DV 5) al " Dio della speranza " (Rm 15,13), in qualsiasi circostanza si venga a trovare: qualsiasi avvenimento gli capiti: lo farà soffrire, però non lo turberà in profondità e lungamente, perché ha avuto la grazia dallo Spirito Santo di entrare in comunione affettiva-filiale (cf 2 Tm 2,12). Per questo motivo, di fronte a vicissitudini, prove, fatiche, tribolazioni (cf At 5,41; 14,22; 1 Pt 4,12-16), sa " essere iniziato a tutto in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza... " (cf Fil 4,11).

Il cristiano, in ogni caso e comunque gli vadano le cose, è sempre fiducioso, ottimista e perfino gioioso, perché crede fermamente che nulla può avvenire " a caso ", che Dio, il suo Padre celeste, non è mai distratto, che egli è un artista tale da essere capace di scrivere dritto anche sulle righe storte, capace di saper fare andare bene anche le cose che " sembra " vadano male. Il cristiano ha la grazia di credere che se otterrà la grazia dallo Spirito Santo di entrare nei piani di Dio, tutto gli si cambierà miracolosamente in bene: anzi, in " maggior bene ", perché crede fermamente che Dio non può " far pari ", ma deve " stravincere " il male (cf Rm 8,28; 5,3-5). Di ciò il cristiano è molto sicuro, perché non è che veda o capisca lui, ma è Dio che vede e che capisce per lui,1 al quale da vero protagonista della storia (cf Dt 32,10-12), assolutamente nulla sfugge e può sfuggire: Dio, cui nulla è impossibile (cf Gn 18,14; Mt 10,27; Lc 1,37), farà sempre tornare i conti, perciò, la fiducia, che è ottimismo e gioia, del cristiano non riposa sul debole fondamento della psicologia (cf Ez 29,6-8), ma su quello solidissimo e indistruttibile della fede infusa dallo Spirito.

Sono due, dunque, le impostazioni possibili che l'uomo può dare alla sua vita: 1. quella della prudenza umana, che si risolve in un guazzabuglio fatto di politiche e di raggiri, che si risolvono, a loro volta, in ansie e preoccupazioni, in paure e sospetti, in timori e speranze, che finiscono per togliergli anche il sonno, giacché non c'è mai un dolore o un'angoscia che non si ripercuotano anche sul corpo.

2. Quella della fede infusa dallo Spirito, che si risolve in un benessere fondamentale mistico fatto di coraggio e di ottimismo, di abbandono e di fiducia, di serenità e di gioia che si sintetizzano in una profonda pace psicofisica, che lo calmano e gli permettono di addormentarsi in un sonno ristoratore e profondo: il sonno di chi " sente " che neppure un capello gli cascherà dal capo senza che il suo Padre lo sappia-permetta-voglia: e tanto gli basta per addormentarsi in pace (cf Mt 10,29-31; 7,25-34).

Note: 1 Cf STh I, q. 12, a. 3 ad 3.

Bibl. F.M. Catherinet, s.v., in DSAM II, 1441-1469; A. Dagnino, s.v., in DES I, 606-607; Id., La vita cristiana, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 285-295; L. Di Pinto, Volontà del Padre. Atteggiamenti fondamentali di fronte alla volontà del Padre, in NDS, 1716-1718; T. Goffi, Ascesi cristiana oggi, in NDS, 65-85; J. de Guibert, Perfection et conformité à la volonté de Dieu, in Id., Leçons de théologie spirituelle, I, Toulouse 1943, 208-214; G. Iresselio, La conformità alla volontà di Dio, Alba (CN) 1931.

A. Dagnino

CONSACRAZIONE. (inizio)

Premessa. La " consacrazione " è un tema perenne nella teologia della vita religiosa che, però, ha acquistato particolare importanza negli ultimi decenni, sia ad opera del Concilio Vaticano II (cf LG, PC), sia in particolare dopo (cf RC, ET, MR, RPU, DCVR, PI, CCC, e specialmente nell'OCV, OPR, CDC, EE, RDVC).

I. Il termine c. in genere esprime un aspetto religioso. Consacrare (dal latino consecrare) vuol dire rendere sacro mediante un solenne rito religioso e destinare al culto della divinità. C. (dal latino consecratio) è l'atto del consacrare con cui una persona o una cosa passano dallo stato profano a quello sacro. Anche nel linguaggio ecclesiastico il termine c. viene adoperato per indicare una persona o una cosa dedicate direttamente ad una funzione sacra.

II. Nella Scrittura. Nell'AT, Israele è il popolo consacrato a Dio, di conseguenza la c. manifesta l'alleanza che Dio ha stipulato con esso. L'iniziativa di tale alleanza parte da Dio, ma suppone anche una risposta da parte del popolo. Si tratta, dunque, di una reciprocità che implica una disponibilità dinamica ed una tensione verso un rapporto sempre più stretto fra Dio ed Israele (cf Dt 4,37; 7,6-8; 10,15; Is 42,1-7; 43,8-10; 45,4; si veda anche Es 19,5-6). All'interno del popolo ci saranno, inoltre, dei personaggi particolarmente votati al servizio divino: Abramo (Gn 12), Mosè (Es 3), Davide (1 Sam 16), i profeti (Is 6; 42,1-7; Ger 1,5), i nazirei (Gdc 13ss.; Nm 6), i sacerdoti, i recabiti, gli anawim, gli Esseni... Come Israele, questi personaggi non vengono semplicemente " separati " dagli altri popoli o dagli altri israeliti, bensì presi da Dio per sé, per poi essere mandati agli altri, in favore degli altri.

Nel NT, è innanzitutto Cristo, " colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo " (Gv 10,36; cf Gv 17,18-19; Lc 4,18-19). In lui si riassumono tutte le consacrazioni; in lui ogni battezzato è santificato, consacrato con un " carattere indelebile " (CCC 1121, 1272, 1304; VC 22), ed inviato: " Questo dono battesimale è la c. cristiana fondamentale in cui affonda le radici ogni altra c. " (EE 6).

Dopo Cristo, la Chiesa tutt'intera diventa il nuovo popolo di battezzati-cresimati, consacrati da Dio a Dio e mandati in mezzo al mondo (cf 1 Pt 2,9-10.19; 1 Cor 6,19-20; 1 Gv 9a, 11a). Ogni singolo cristiano, secondo le modalità vocazionali del dono che riceve dallo Spirito (cf LG 10a), vivrà il fatto di essere " consacrato " in Cristo, dallo Spirito, a gloria del Padre, nell'unità della Trinità (cf LG 4b). All'interno, però, di questa indole sacra di tutto il popolo, ci potranno essere dei discepoli chiamati ad incarnare in modo specifico un particolare aspetto della sacralità ecclesiale.

Ogni cristiano, infatti, in virtù del battesimo e della confermazione è già consacrato dallo Spirito, nonché consacratore del mondo a Dio (CCC 784, 901). Ma Dio chiama i singoli cristiani a vivere e a testimoniare la c. battesimale-cresimale in modi diversi; si pensi alla c. sacerdotale (cf CCC 1535, 1556-1559), a quella (" come consacrati ") degli sposati (cf GS 48, CCC 1535), alle molteplici forme di " vita consacrata " (" uno dei modi " della c. battesimale, un modo " più intimo ": CCC 916, 931). La c. religiosa, in effetti, sarà intimamente radicata nella c. battesimale e la esprimerà con particolare pienezza (cf LG 44; PC 5; EE 5-7).

La c. battesimale-cresimale non toglie, dunque, che ci possano essere delle vocazioni, dei carismi, che ne sviluppino aspetti non ugualmente presenti in tutte le forme di vita cristiana, perciò, da una parte, non ci sarà ulteriore c. che non parta e non poggi su quella fondamentale e, in questo senso, non esistono ulteriori consacrazioni veramente " nuove ". Ma, dall'altra, la c. battesimale-cresimale non suppone gli stessi sviluppi in tutti i cristiani; e, in questo senso, si può parlare di possibili " novità ". Infine, sebbene nella vita del singolo credente, quella ulteriore c. avvenga a partire da un certo momento storico, quindi soltanto a partire da quel momento, e non prima, è " consacrato " in quel tale modo, nel disegno di Dio quel secondo momento consacratorio era previsto fin dall'eternità, per cui il suo battesimo - la sua c. battesimale-cresimale - era per così dire protesa verso quella pienezza giunta storicamente solo più tardi. Insomma, la c. battesimale-cresimale è la strada unica che apre verso specificazioni vocazionali posteriori. In altre parole, la c. battesimale-cresimale non è una realtà neutra, isolata, riguardo alle varie vocazioni, e neanche una specie di infra-struttura o supposto-minimo della vita cristiana; bensì coinvolge tutta la vita del credente e la sua trasformazione in Cristo lungo tutta la sua vita. Il battesimo-cresima, infatti, non è il sacramento degli inizi, o che fa semplicemente " laici "; ma, fa " cristiani ", e accompagna sempre l'uomo.

Occorre aggiungere che nel piano salvifico di Dio ogni cristiano è " unico e irripetibile " (CL 28), per cui la sua c. battesimale-cresimale non è indifferente, astratta, anche se non contiene tuttora in modo esplicito tutte le potenzialità carismatiche che si andranno manifestando lungo la vita. Ad opera dello Spirito, quella c. è già in tensione - l'inizio di un cammino, - indirizzata verso una singolarità e pienezza vocazionale che si manifesterà e sarà portata a termine pian piano.

Ecco la ragione, ad esempio, della " novità " della c. religiosa nei confronti di altre vocazioni (cf EE 14), il suo trovare nella c. battesimale-cresimale il punto di riferimento (cf EE 6; RD 7; CCC 916), ed il suo esserne uno sviluppo particolare (cf PC 5; ET 4; CDC 573; VC 30).

In conclusione, la c. battesimale-cresimale è una e molteplice allo stesso tempo, perché uno è Dio ed il suo piano di salvezza; anche se a ciascun cristiano dà una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune (cf Rm 12,6-8; 1 Cor 12,4-7; Ef 4,4-7). Ogni dono arricchisce gli altri e viene arricchito dagli altri. Da questa unità e molteplicità risulteranno la circolarità e sinfonicità comunionale e carismatica della Chiesa (cf LG 13c).

III. La vita religiosa come c. " Alla base della vita religiosa c'è la c. ", la quale " è un'azione divina "; questo dono è " un'alleanza di mutuo amore e fedeltà, di comunione e missione stabilita per la gloria di Dio, la gioia della persona consacrata e la salvezza del mondo " (EE 5). I voti religiosi non saranno altro che " la triplice espressione di un unico ’sì' al rapporto particolare di totale c. ", l'espressione della donazione della vita intera a Dio da parte del religioso " con un nuovo e speciale titolo " (EE 14; cf 15). Tale c. suppone " una partecipazione specifica e concreta alla missione di Cristo " (EE 12). Entro la specificità carismatica, spirituale, apostolica, storica e di vita di ogni forma di vita religiosa, la c. è all'origine della missione, ed essa, a sua volta, esprime e porta a compimento la c. (cf VC 72).

Mediante la c., infatti, Dio " mette in disparte e dedica a se stesso la persona, ma la impegna nella sua propria opera divina. La c. inevitabilmente comporta la missione. Sono due aspetti, questi, di un'unica realtà. La scelta di una persona, da parte di Dio, è per il bene degli altri: la persona consacrata è un ’inviato' per l'opera di Dio, nella potenza di Dio " (EE 23; cf CCC 931; VC 76). I religiosi, come Cristo, vivono pienamente rivolti al Padre nell'amore e, proprio per questo, interamente dediti al servizio in favore dei fratelli: " Questo vale per la vita religiosa in tutte le sue forme " (EE 24). Grazie a questa c., il religioso diventa espressione e attuazione privilegiata dell'amore sponsale tra Cristo e la Chiesa, ed è immerso nell'amore redentivo di Cristo per la Chiesa e per il mondo (cf RD 8,15; CCC 926, 932; VC 18,23-25). La c. - missione dei religiosi non è, dunque, un " privilegio " di cui gloriarsi, ma una " responsabilità " da portare a compimento con umiltà e coraggio. Non si tratta di avere una " maggiore intimità " da soli con un Dio a-storico; ma di un'intima unione con il Padre il quale si dà totalmente al mondo in Cristo. Non un Dio che separa per trattenere per sé; ma un Padre che mediante l'azione dello Spirito prende il religioso per lanciarlo, con Cristo e come Cristo, nel mondo per salvarlo, spinto dal suo amore eterno (cf LG 44c; VC 17-19,22,26-27,29,77-78,84-92...). In Cristo e come Cristo, i religiosi sono chiamati, per essere consacrati e inviati.

Nell'atto di professione religiosa, la Chiesa agisce come " protosacramento ", cioè come " sacramento universale di salvezza " (LG 1,45c), anche se quest'atto non è uno dei sette sacramenti, pur affondando le radici nel battesimo-cresima sviluppandone le linee di forza. E un atto di c. da parte di Dio e di donazione da parte del credente, nella Chiesa e attraverso la funzione sacramentale della Chiesa, la quale accoglie e benedice (cf LG 44a) l'impegno che il religioso poi vivrà mediante i tre consigli evangelici (cf EE 14, 15; PI 12; VC 1,18,20-21...), per tendere così alla perfezione della carità, seguendo più da vicino alcuni tratti della vita di Cristo, mettendosi al servizio specifico del regno, significando e annunciando nella Chiesa e al mondo, con particolare insistenza, la gloria del mondo futuro (cf LG 44c,46b; CCC 916,931,945; VC 26-27), secondo le caratteristiche di ciascun Istituto (cf MR 11; EE 11; PI 16-17).

IV. Mistica e c. Questa è la novità e la specificità della c. religiosa in mezzo alla pluralità delle vocazioni cristiane. Essa accentua o insiste sulla centralità e l'assoluto di Dio nella vita di ogni credente e del suo regno al di sopra di tutto, compresi i valori umani così profondi come la famiglia, l'avere e il potere, non demonizzandoli, ma relativizzandoli (cf VC 84-85,87...). Infatti, se è vero che, a partire dalla c. battesimale scatta nella vita del credente una totale dedizione al Dio di Gesù Cristo, il particolare radicalismo evangelico dei religiosi li colloca in tensione totale verso la perfezione. E se tutti i cristiani, consacrati nel battesimo e per questo chiamati alla santità sono invitati a tendere alla comunione di vita con le tre Persone divine (cf VC 16,18a,31,32a), con la sua c., il religioso vive e annuncia il teocentrismo cristiano: Dio che prende tutta la persona per sé (la consacra), ma per mandarla dove il suo amore agisce ininterrottamente (ai fratelli, al mondo). Per questo motivo, si può ben dire che la c. religiosa mette carismaticamente in risalto non tutte le vocazioni cristiane (sarebbe un assurdo), ma certamente l'elemento fondamentale di ogni vita cristiana.

Bibl. Aa.Vv., La consacrazione religiosa, Roma 1986; Aa.Vv., s.v., in Dizionario teologico della vita consacrata, Milano 1994, 436-476; Aa.Vv., L'identità dei consacrati nella missione della Chiesa e il loro rapporto con il mondo, Città del Vaticano 1994, 11-166; J. Aubry, La consacrazione nella vita religiosa, in Aa.Vv., La teologia della vita consacrata, Roma 1990, 87-128; Id., Teologia della vita consacrata, in Aa.Vv., Vita consacrata un dono del Signore alla sua Chiesa, Leumann (TO) 1993, 180-196; L. Boisvert, La consécration religieuse, Paris 1988; J. Castellano, s.v., in DES I, 607-610; J. Galot, Consacrazione battesimale e consacrazione religiosa, in ViCons 14 (1978), 590-600; Id., La consacrazione religiosa nei documenti postconciliari, in ViCons 21 (1985), 142-157; F. Giardini, Consacrazione battesimale e " consacrazione mediante i consigli evangelici ", in ViCons 22 (1986), 630-638, 721-732, 817-832; A. Herzig, Ordens-Christen. Theologie des Ordenslebens in der Zeit nach dem Zweiten Vatikanischen Konzil, Würzburg 1991; D. Lafranconi, La consacrazione negli Istituti secolari, in Aa.Vv., La teologia della vita consacrata, Roma 1990, 129-146; A. Oberti, Consacrazione e secolarità, in ViCons 27 (1991), 168-173; A. Pigna, La vita religiosa. Teologia e spiritualità, Roma 1991, 229-288; A. Queralt, Il valore della consacrazione religiosa, in Aa.Vv., Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), Assisi (PG) 1987, 1084-1118; P.R. Regamey, Consacrazione religiosa, in DIP II, 1607-1613; A.M. Triacca, La vita di consacrazione nelle sue origini sacramentarie, in Aa.Vv., Per una presenza viva dei religiosi nella Chiesa e nel mondo, Leumann (TO) 19702, 283-548.

J. Rovira

CONSECRATIO MUNDI. (inizio)

I. La nozione di c. è entrata solennemente nel linguaggio della Chiesa cattolica con il Vaticano II là dove, definendo la funzione sacerdotale del fedele laico, la Lumen Gentium, afferma: " Cosí anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo " (LG 34).

L'accoglimento della nozione da parte del Concilio non è stata pacifica. Tesi, riserve, cautele si sono confrontate senza poter poggiare su una tradizione consolidata. L'unica testimonianza storica dell'uso dell'espressione è quella individuata da M.-D. Chenu nel martirologio romano nell'edizione dei Bollandisti del sec. XVI che, al 25 dicembre, registra la data dell'Incarnazione come quella " della creazione del mondo " in cui " Gesú Cristo (...), volendo consacrare il mondo con la sua misericordiosa venuta (...) nasce da Maria Vergine, fatto uomo ".1 Lo stesso storico della teologia, peraltro, è convinto che l'uso conciliare della nozione di c. non si rifaccia a tale fonte, bensì ad un uso piú recente riferito non all'intero corpo ecclesiale, ma esclusivamente ai laici. Anzi, la c. è assunta, nel suo uso preconciliare, come essenzialmente opera dei laici. Di qui la collocazione della c. nel contesto della LG anche se, come si è osservato, essa poteva essere indicata come il fine della missione della Chiesa e di tutti in essa.2 Ma l'uso conciliare della formula la limita ad una sola delle funzioni del fedele laico: quella sacerdotale e cultuale, mentre per cogliere la natura, la vocazione e la missione del fedele laico il Concilio privilegia la definizione di battezzati cui " è proprio cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio " (LG 31). In qualche modo, pertanto, il Vaticano II accoglie e fa propria la nozione di c., ma la limita rispetto all'uso fattone negli anni precedenti il Concilio in cui per alcuni, pur con cautela, essa era utilizzata per indicare l'opera dei laici in azione apostolica nel mondo.

II. Laicità e consacrazione. Tale convinzione poggiava su un'affermazione autorevole: quella di Pio XII contenuta nel discorso rivolto, il 5 ottobre 1957, ai partecipanti al II Congresso mondiale per l'apostolato dei laici. In tale circostanza Pio XII affermava: " Anche indipendentemente dall'esiguo numero di sacerdoti, le relazioni tra la Chiesa e il mondo esigono l'intervento degli apostoli laici. La c. è essenzialmente opera dei medesimi laici, uomini che sono inseriti intimamente nella vita economica e sociale, che partecipano al governo e alle assemblee legislative ".

L'espressione usata da Pio XII era nuova a livello di magistero pontificio, ma veniva usata nell'ambito dell'Azione Cattolica e, in particolare, in quelle forme di aggregazione laicale, sorte tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, denominate nel 1947 dallo stesso Pio XII " Istituti secolari ". Tali laici, infatti, esprimevano la propria vocazione laicale come coniugazione tra reale laicità e reale consacrazione.

Non è, dunque, casuale che sia stato Lazzati - che da tempo utilizzava l'espressione sia nell'ambito dell'Azione Cattolica, sia in quello degli Istituti secolari - a proporre una riflessione matura sulla c. con un saggio che resta un punto di riferimento per il movimento laicale, a partire dall'affermazione di Pio XII.3 In esso, Lazzati non manca di rilevare l'ambiguità dell'espressione c. che, per il linguaggio religioso corrente, può indicare realtà diverse, ma cogliendola nel contesto di una matura teologia del laicato, conclude che " la c., destinazione e orientamento soprannaturali a Dio che Cristo imprime nel mondo col ministero e nei momenti della Incarnazione, della Pasqua, della Pentecoste, e attraverso l'opera sacerdotale della Chiesa nel suo insieme, si traduce poi nell'attuazione delle attività del mondo secondo le esigenze della natura umana e del suo fine soprannaturale ad opera di uomini dalla grazia sanati ed elevati a tale capacità e che offrono questa attività a Dio con omaggio di sottomissione ed adesione alla sua volontà ".4

Nel clima preconciliare si insiste sull'uso dell'espressione per designare il compito fondamentale dei laici. Tra tali insistenze va registrata quella dell'Arcivescovo di Milano, G.B. Montini,5 che indica ai laici " l'opera ardua e bellissima della c., cioè di impregnare di principi cristiani e di forti virtú naturali e soprannaturali l'immensa sfera del mondo profano ".

Nel corso del dibattito sulla Costituzione sulla Chiesa, un articolo di M.-D. Chenu, pur insistendo sul valore dell'espressione, sottolinea l'inopportunità dell'uso per una definizione dottrinale, " a partire dal senso specifico della parola ’consacrazione'. Peserebbe allora, nella congiuntura attuale, dottrinale e pastorale, il grave inconveniente di rendere ambigua tanto la definizione positiva del laico, quanto l'esatta determinazione della relazione tra la Chiesa e il mondo ".6

Cosí il Vaticano II, pur accogliendo l'espressione c. ne limita l'uso e accoglie, invece, la nozione di santificazione del mondo come compito essenziale del laico, perché corrisponde meglio alla sua indole peculiare e alla sua vocazione specifica.

Coloro che nel pre-Concilio avevano sostenuto la tesi di una c. caratterizzante la natura, la vocazione, la missione dei laici, accettano la decisione dei Padri conciliari riconoscendo, da un lato, che essi, sostanzialmente, non pensavano a una c. " come momento specifico dell'azione sacerdotale ", com'è per la consacrazione in senso piú proprio e tecnico, cosí da essere indotti, come aveva sostenuto Chenu7 " a ridurre l'ambito di tale azione esclusivamente sotto l'autorità della gerarchia e del clero facendolo ricadere in una forma di clericalismo ",8 ma a una realtà configurabile come santificazione del mondo, dunque, pienamente e autonomamente laicale, capace di rispettare la relativa, ma reale autonomia del mondo.

Nel post-Concilio l'espressione viene usata relativamente e, per lo piú, con significati fluttuanti e spesso lasciati all'esortazione spirituale: non se ne coglie tutta la densità teologico-spirituale. Essa, comunque, viene anche indicata correttamente affermando: " La c. costituisce proprio l'aspetto primario della secolarità (distinguendosi in questo dalle responsabilità proprie dei religiosi e dei chierici) e i laici sono il punto d'intersecazione del mondo delle realtà spirituali e di quello delle realtà temporali: la società religiosa e la società profana. Questa funzione di raccordo si realizza nel cercare il regno di Dio trattando e ordinando le questioni temporali, non solo facendosi portatori dei valori e delle esigenze religiose nelle istituzioni politiche dei singoli Stati e delle organizzazioni internazionali, ma testimoniando personalmente le virtú cristiane nella vita quotidiana ".9

III. Sul piano della mistica, la c. pone maggiori problemi che l'adozione di tale nozione nell'ambito teologico e ascetico. Non si può ignorare, infatti, che il mondo è spesso considerato una realtà che ostacola l'unione mistica con Dio. Vi è, infatti, una convinzione diffusa secondo la quale la mistica appare come una esperienza di Dio, di unione con Dio, che ignora o ha un ostacolo nelle realtà materiali. Per superare tale riduttiva comprensione di mistica, è necessario dare senso di santificazione al termine consacrazione, almeno in questo luogo specifico, poiché " la santità è una dignità eminente, che si contrae nell'interiorità stessa dell'essere mediante una partecipazione alla vita divina ".10 La santificazione suppone, quindi, un'unione con Dio in cui il mondo, anziché essere indifferente od opporsi a tale unione, è il luogo e il mezzo - che per i laici è peculiare e corrispondente alla loro indole - in cui e con cui avvengono l'unione con Dio, la partecipazione alla vita divina che conducono non solo alla santità (= unione con Dio) colui che è impegnato a " cercare il Regno di Dio trattando le realtà temporali secondo Dio " (LG 31), ma ve lo conducono perché egli è all'opera per la santificazione del mondo, senza che né il fedele né il mondo, divenendo santi (= in unione con Dio) mutino la propria realtà di laico e di realtà profana. La c., allora, si configura come l'opera che muove verso la meta che consiste nella presenza di comunione totale di Dio con tutti e con tutto (cf 1 Cor 15,28); tale meta non è ancora pienamente raggiungibile, ma è già presente come fermento della storia e del mondo, poiché Cristo è già ora tutto in tutti e in tutto (cf Col 3,11).

Note: 1 M.-D. Chenu, I laici e la " Consecratio Mundi ", in G. Baraúna (cura di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, 980; 2 Per esempio, il sacerdote consacra a Dio il mondo nel contesto eucaristico: Cf G. Philips, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della Lumen Gentium, Milano 1967; 3 G. Lazzati, La " Consecratio mundi " essenzialmente opera dei laici, in Studium, 50 (1959), 791-805; Id., L'apostolato dei laici oggi, in Orientamenti pastorali, 9 (1961)1, 124-128; 4 Id. La " consecratio mundi "..., 805; 5 Lettera pastorale alla Chiesa di Milano, in L'Osservatore Romano, 23 marzo 1962; 6 M.-D. Chenu, " Consecratio mundi ", in NRTh 86 (1964), 618; 7 Ibid., 618; 8 G. Lazzati, I laici nel " De Ecclesia ", in Aa.Vv., I laici nella Costituzione sulla Chiesa, Milano 1965; 9 G.B. Varnier, Società religiose, in E. Berti - G. Campanini, Dizionario delle idee politiche, Roma 1993, 842; 10 M.-D. Chenu, I laici..., a.c., 982.

Bibl. J. Castellano, s.v., in DES I, 607-610; M.-D. Chenu, " Consecratio mundi ", in Aa.Vv., La Chiesa nel mondo. I segni dei tempi, Milano 1965, 56-77; Id., I laici e la " Consecratio Mundi ", in G. Baraúna (cura di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, 978-993; I. de Finance, Consécration, in DSAM II, 1576-1583; G. Lazzati, La "consecratio mundi" essenzialmente opera dei laici, in Studium, 50 (1959), 791-805; Id., L'apostolato dei laici oggi, in Orientamenti pastorali, 9 (1961)1, 124-128; Id., I laici nel " De Ecclesia ", in Aa.Vv., I laici nella Costituzione sulla Chiesa, Milano 1965, 69-90; Id., Laicità e impegno cristiano nelle realtà temporali, Roma 1985; G.B. Montini, Lettera pastorale alla Chiesa di Milano, in L'Osservatore Romano, 23 marzo 1962; G. Philips, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della Lumen Gentium, II, Milano 1967, 358-365; Pio XII, Discorso al Secondo Congresso mondiale per l'apostolato dei laici, 5 ottobre 1957 [AAS 49 (1957), 927ss.; tr. it. CivCat 108 (1957)4, 185ss.]; P. Rodriguez, Vocación, trabajo, contemplación, Pamplona 1986; G.B. Varnier, Società religiosa, in E. Berti e G. Campanini (cura di), Dizionario delle idee politiche, Roma 1993, 836-845; A. Zarri, Esiste una spiritualità dei laici, in Aa.Vv., Laici sulle vie del Concilio, Assisi (PG) 1966, 102-113.

A. Oberti

CONSOLAZIONE SPIRITUALE. (inizio)

I. Il Dio delle consolazioni. E noto il severo ammonimento dei grandi maestri spirituali (specialmente Teresa d'Avila, Giovanni della Croce, Francesco di Sales) ai cristiani perché cerchino il Dio delle consolazioni, non le consolazioni di Dio.

Ma questo non esclude che il Signore stesso conceda ai suoi " amici " delle consolazioni spirituali. Anzi è legittimo attenderle; esse, però, non possono mai essere lo scopo primario della vita spirituale.

La c., cioè quell'emozione che produce un senso di pace e di gioia, rientra benissimo nel quadro generale della stessa purificazione del cuore, cui il vero credente viene abitualmente sottoposto da Dio-Amore. Infatti, la c. è il premio di Dio a quell'amore che l'anima sa rendergli quando è provata e purificata.

Amare il Signore con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze comporta la rinuncia a se stessi, ma anche la realizzazione di sé in Dio, quindi implica un certo appagamento dell'essere e una consolazione profonda e sicura.

Il nostro Dio è un Dio di pace e non di afflizione, ricordava l'anziana sr. Genoveffa di Lisieux alla giovane postulante Teresa Martin. E quest'ultima non dimenticò mai tale principio, anche se da parte sua, volendo percorrere solo le vie " ordinarie " della vita cristiana, si disse disposta a rinunciare a ogni dolcezza, pur di cooperare all'opera di salvezza delle anime e all'edificazione della Chiesa.

La c. si colloca nella logica dell'esperienza di Maria di Betania, che sta ai piedi di Gesù e si bea delle parole e ancor più della presenza del Maestro (cf Lc 10,38ss.). Tutta un'estesa corrente teologica del Medioevo si è dedicata all'approfondimento di questa dottrina dello stare " ad pedes Domini " di Maria e non ha tralasciato di intravvedere nell'invito di Gesù ai suoi discepoli: " Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po' " (Mc 6,31), un invito a godere di lui.

La prima forma di c. è sperimentata già da colui che, trovandosi ancora ai piedi del monte della perfezione o essendo appena al primo stadio di " conversione ", è tutto ripieno di una gioia nuova. S. Giovanni della Croce fa notare che questo è il metodo pedagogico molto delicato di Dio, che vuole sostenere coloro che desiderano seguirlo e, mentre non intende certo illuderli con false prospettive, non intende neppure scoraggiarli. Se Cristo, infatti, ha detto chiaramente che chi si mette dietro di lui deve rinunciare a tutto, non ha mai ritirato il suo invito: " Imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime " (Mt 11,29).

Dottrina evangelica e tradizione spirituale, quindi, s'incontrano e si spiegano reciprocamente sulla fatica, ma anche sulla consolazione che c'è nel seguire Cristo, dai primi passi stentati di chi abbandona il peccato fino a quelli spediti di chi sale le vette della perfezione.

A tale proposito, la c. diventa perfino più necessaria e si fa sempre più specifica e sottile man mano che l'impegno nel servizio di Dio diviene più alto e forte. A ogni grado o, se piace, ad ogni stagione della vita spirituale corrisponde una forma di c.

II. La sostanza di ogni forma di consolazione è un'effusione nuova di doni dello Spirito Santo, che giungono a riempire il cuore del fedele nella misura in cui esso in quel momento è capace. Perciò, la c. è un fatto dinamico, cioè fa crescere la vita, mentre crescono le prove e cresce pure la presenza del Consolator optimus.

Ci sono tempi e modi ordinari e tempi e modi straordinari della c., appunto secondo i " ritmi " della esistenza della singola persona nel suo rapporto con Dio. I doni dello Spirito, cioè, vengono concessi in continuità, ma si " incarnano " in maniera differenziata, sulla base d'un misterioso, ma molto concreto calendario di Dio, il quale si fa presente ora in maniera blanda e non molto evidente, ora invece con un modo e una durata che ricordano maggiormente l'esperienza del giorno di Pentecoste.

La storia dei santi è una dimostrazione non secondaria di questo stile di Dio nel condurre per le vie della grazia le anime e nel trattarle in modo adulto, cioè nel purificarle e insieme nell'usare con loro ogni tenerezza di Sposo.

Alcuni di questi santi hanno meglio di altri non solo sperimentato lo stile del Dio che consola, ma l'hanno saputo descrivere in forma approfondita. Così s. Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi Spirituali (n. 316), citando la c. tra le cosiddette " mozioni spirituali ", cioè tra i moti o sentimenti che suscita Dio nel cuore (cioè nella parte affettiva) della persona, afferma: " Per c. intendo quel che si verifica nell'anima quando vi si determina una certa mozione interiore, per cui essa viene ad infiammarsi nell'amore del proprio Signore e Creatore; e così nessuna cosa creata sulla faccia della terra essa può più amare per se stessa, ma solo in relazione al Creatore di tutte le cose ".

Il santo nota che tale consolazione è così intensa da portare a manifestazioni affettive (come le lacrime) " che la inducono all'amore del suo Signore ". E una vera crescita d'amore che può assumere ora il risvolto della riconoscenza, ora quello del pentimento, ora quello della partecipazione alla passione di Cristo, ecc. Ovviamente, crescendo nell'amore, la persona si sente appagata e consolata su ciò che più conta, appunto nell'amore a Dio.

S. Ignazio non manca di notare che sono tutte e tre le virtù teologali a espandersi e a crescere quando Dio consola; infatti avviene " un aumento di speranza, fede e carità e ogni interiore gioia che stimola e attira alle cose celesti e alla salvezza dell'anima, donandole quiete e pace nel suo Signore e Redentore ".

III. La consolazione è vera se è un momento di crescita. S. Agostino ha ammonito a suo tempo che non tutte le c. sono vere e che si può facilmente pensare che " ciò che diletta fa bene, anche se invece, a volte, nuoce ". Ha lodato molto, comunque, la soavità del pianto concesso da Dio nella preghiera e le autentiche delizie o, meglio, " i diletti della legge di Dio " da contrapporre a quelli della concupiscenza.

" Come è soave il tuo Spirito! " è l'esclamazione che, con le molteplici varianti di linguaggio, Padri, dottori e mistici continuamente riprendono per mostrare che c'è il Dio che prova, ma c'è pure il Dio che consola, che si rende vicino, facendosi presenza quasi palpabile per coloro che cercano solo lui.

S. Tommaso ha degli spunti molto significativi in materia di c. In verità, egli non usa propriamente questo termine, bensì quello più generico di dilectatio, ossia di rallegramento o gioia infusa, nel tema espressamente mistico della contemplazione. Nella Summa,1 il Dottore Angelico ricorda che la contemplazione produce una duplice gioia: quella del contemplare stesso la verità e l'amore di Dio; e quella specifica dell'oggetto o tema contemplato. Si è, infatti, pervasi di gioia nell'essere introdotti nella contemplazione e più precisamente nel vedere che Dio ama l'uomo e che lo arricchisce della sua verità e della sua grazia; inoltre, si prova questo o quel particolare gaudio in base a ciò che Dio certamente comunica all'uomo.

Come si vede, secondo una lunga tradizione, la c. si pone, sul piano mistico eo sul piano ascetico, come una crescita d'amore: comporta un sentimento pacificante di gioia e soddisfazione della persona spirituale, che avverte la carità di Dio in modo più vivo e penetrante.

IV. Natura e grazia. Nella c. si ha un intreccio intimo tra la natura e la grazia. Questo fenomeno, sia nella sua sostanza che nei suoi riflessi psicologici, pone in campo vari elementi che interessano il mondo della grazia, ma di una grazia che s'incarna e prende la psiche e anche la corporeità.

La c. coinvolge le due facoltà tipiche dell'uomo, l'intelletto e la volontà, per loro natura orientate a ciò che è vero e buono; e da esse si riversa spesso nella stessa sfera fisica, recando una dolce emozione di gioia, di pace, di appagamento. Questo, secondo tutte le esperienze dei santi, ha un valore enorme non ancora abbastanza esplorato dalla psicologia.

Considerata, poi, sotto il profilo ontologico, questa c. si presenta come l'emergere dell'amore di Dio nella persona: una vera fiammata di carità, una più chiara e avvincente visione di ciò che è eterno e di come è grande Dio in tutte le sue manifestazioni. E, insomma, secondo quanto già si è notato in s. Ignazio, " un interiore movimento per cui l'anima si infiamma d'amore per il suo Creatore ".

In sé, la c. non è strettamente legata alla virtù: può essere maggiore o minore, al di là del grado di virtù che la persona possiede, ma è orientata a premiare la virtù e a promuoverla ulteriormente. E certamente, invece, legata alla profonda vita di grazia che il credente vive: senza tale vita, non ci sarà mai vera c. cristiana, al più, un " certo " gusto o piacere per verità e valori - velati pur dal peccato - che vengono colti da chi vive esperienze e penetra alcuni punti della saggezza umana.

La c. è legata, in qualche modo, anche alla devozione, ma non è un frutto assolutamente accertato di essa: cioè, un grande devoto può avere e non avere molte c., mentre un mediocre devoto può riceverne magari di più, per un progetto educativo di Dio, che distribuisce queste grazie con la sua impareggiabile e sapiente libertà. Su tutto ciò è ben chiara la dottrina di maestri qualificati come Teresa di Gesù e Giovanni della Croce.

Note: 1 II-II, q. 180.

Bibl. Ch.-A. Bernard, Teologia spirituale, Roma 1982; L. Bouyer, Introduzione alla vita spirituale, Roma 1979; C. Gennaro, s.v., in DES I, 616-617; L. Poullier, s.v., in DSAM II, 1617-1634; F. Ruiz Salvador, Caminos del espíritu: compendio de teologia espiritual, Madrid 1978.

R. Girardello

CONTEMPLAZIONE. (inizio)

A. Natura e contenuto. Premessa. Il termine contemplare, cioè guardare a lungo con stupore e ammirazione è composto di due parole cum e templum; cum = con indica simultaneità e contemporaneità, comunanza e unione; templum = spazio celeste, spazio circoscritto dal cielo abbracciato dallo sguardo, o tempio consacrato a una divinità; insieme le due parole assumerebbero il significato di abitare questo spazio celeste o tempio divino. Nella filosofia greca, precedente il neoplatonismo, c. (in greco theoria) è sinonimo di intuizione razionale; a partire dal neoplatonismo, con Plotino, questa attività risulta essere distinta dall'intuizione, attraverso cui si conosce l'oggetto. Dal neoplatonismo in poi, ai primordi del cristianesimo, sulla scia della Bibbia e delle opere di Filone Alessandrino, i Padri presero a considerare la c. come riflessione dell'anima su se stessa e della sua graduale purificazione per accostarsi a Dio. Nel corso del tempo si vanno delineando due correnti: l'intellettualismo, di derivazione tomista, che considera la c. soprattutto come un'azione dell'intelletto che genera l'amore; l'altra, il volontarismo rappresentato da Bonaventura e da Duns Scoto ( 1308), che considera la c. come amore e frutto di amore. In ultima analisi, c. viene ad indicare una forma superiore di conoscenza caratterizzata dalla semplicità dell'atto, di conseguenza, essa si realizza in un atto semplice di intuizione della verità: simplex intuitus veritatis 1 o di riposo tranquillo sull'oggetto conosciuto: contuitus, fruitio, possessio veritatis. Di qui l'insistenza nel ricuperare, nella vita spirituale, quel gusto della c., quale stupore o meraviglia, altra denominazione della fede, dinanzi al Mistero trascendente di Dio Padre che si manifesta nel Figlio, per mezzo dello Spirito. In breve, c. è lo stupore che genera il silenzio quasi abbagliato che segue l'ascolto dell'ineffabile Dio. E il silenzio contemplativo, che non è assenza di parole o di suoni, ma pienezza della Parola e dell'armonia suprema, ragion per cui la c. è una sorta d'immersione nella luminosità della comunione piena di Dio Trinità d'amore. Difatti, il verbo ebraico nbt, che di solito viene tradotto con contemplare, in realtà indica l'azione dello " scavo ": un perforare la superficie della realtà per raggiungere il nucleo segreto che contiene una traccia del mistero. Per questo motivo, il: " Contemplate il Signore e sarete raggianti " (Sal 34,6) sta ad indicare la trasparenza di uno spirito ancora limpido che contempla Dio senza vederne il volto, che lo ascolta senza sentirne la voce, che risponde alla sua volontà senza conoscerla. Anche se in questo approccio a Dio il comprendere è necessario perché l'uomo è dotato di ragione e d'intelligenza, ciò che contano sono la c. e l'amore, unici mezzi capaci di cogliere l'essenziale che è invisibile agli occhi della ragione. E la misteriosa capacità di conoscenza nella fede, ove le ragioni dell'intelligenza non vengono eliminate ma oltrepassate.

I. La c. nella Scrittura. Il problema della c. nella Scrittura si pone soltanto se si annette al termine c. il significato molto ristretto di ricerca di una certa forma di conoscenza, o per meglio dire, di un rapporto esistenziale-amicale con JHWH. In questo senso vanno interpretate e lette le epifanie di Dio ad Abramo. Per esempio la visita dei tre angeli a Mamre (cf Gn 18,1-15) indica un rapporto d'amore che Dio vuole instaurare con Abramo, rapporto che stabilirà il patriarca nella fede e che culminerà con il sacrificio di Isacco (cf Eb 11,17). Avendo rinunciato a tutto (cf Eb 11,8), Abramo, che ha obbedito alla voce di Dio (cf Gn 26,5), ritroverà tutto. Ed è solo per la strada del coltello sguainato che egli potrà incontrare il vero Dio (cf Gn 22) e divenire padre di tutti i credenti (cf Rm 4,16-22). Come avverrà anche al nipote Giacobbe sulle rive del torrente Iabbok: è necessaria una lotta per vedere Dio faccia a faccia e restare in vita (cf Gn 32,31).

Anche con Mosè (cf Es 3,1-6), JHWH instaura relazioni che lo vedono addirittura discutere con Dio (cf Es 3,11-18), che gli si manifesta sul Sinai (cf Es 19) o che conclude con lui l'alleanza (cf Es 24, 1-8). A Mosè che chiede di vederlo (cf Es 33,12-33), Dio appare sul Sinai (cf Es 34,1-9) e rinnova con lui il patto d'alleanza (cf Es 34,10-16), perciò Mosè scende dal monte con il volto raggiante di luce (cf Es 34,28-35).

Dio con la sua Parola parla all'uomo nel silenzio contemplante e, con i suoi appelli, lo solleva verso di lui per unirlo a sé in un connubio fatto solo di fede pura. Si pensi a questo proposito alla celebre apparizione che Elia sperimenta all'Oreb. Dio non è nel vento gagliardo che spacca le rocce, non è nel terremoto devastante o nel fuoco ardente, come in altre epifanie, bensì, come dice l'originale ebraico: " In una sottile voce di silenzio ", di solito tradotto con " mormorio di vento leggero " (cf 1 Re 19,9-15). Dio è un Dio diverso che si manifesta sempre in maniera nuova, ma sopratutto nel silenzio che è parola loquace, silenzio che genera la Parola e la rende vivente. Per ascoltarla occorre il silenzio contemplante che dall'infinito e dall'eterno Vivente penetra fin dentro lo spirito dell'uomo. L'Apocalisse, che è il libro della rivelazione, tra urla e squilli di trombe, ha al centro, quando l'Agnello apre il settimo sigillo della storia, un'oasi che è grembo accogliente: " Si fece silenzio in cielo per circa mezz'ora " (8,1).

Quanto ai profeti, uomini deboli e trepidi, a volte schiacciati dal peso del loro ministero, ma pur sempre raggianti di santità e di gloria divina, saranno chiamati ad annunciare le meraviglie che Dio va compiendo in essi ed attraverso di essi. Il racconto della vocazione d'Isaia è uno dei testi che meglio permettono di comprendere ciò che è per il profeta questa c. santa e tremenda di Dio (cf Is 6,1-13): una visione della gloria e della santità di Dio, dopo una sorta di strana purificazione delle labbra. I profeti, in breve, sono chiamati a far conoscere la volontà di Dio, alla quale non si può resistere: la salvezza impersonificata dal Messia, Servo di JHWH.

Ma ciò che si avvicina di più all'attività contemplativa nell'AT è l'atteggiamento di Giobbe: " Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su polvere e cenere " (42,5-6). Giobbe è l'emblema della celebrazione della fede ardua, di un " perfetto vedere ", in opposizione all'imperfetto e persino idolatrico " sentir dire " di seconda mano, tipica della teologia ufficiale, sclerotizzata, dei suoi amici. Attraverso un dialogo serrato con questi ultimi, nell'umiliazione della cenere e nella desolazione estrema, Giobbe cerca una cosa sola: " Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare al suo trono...! " (23,3). La ricerca del volto di Dio in Giobbe raggiunge quasi il parossismo: il Dio cercato dopo una terribile notte dello spirito può essere trovato solo al di là di ogni garanzia umana, cioè nella teofania libera e gratuita di Dio stesso.

Ed è proprio attraverso questa esperienza, sperata ma inattesa, che il credente giunge, nel NT, a vedere che è perfetto conoscere Dio Padre nella rivelazione di Gesù, fermo restando l'impronunziabilità di Dio. Si tratta di una conoscenza imperfetta e non razionale di Dio.

Nel NT, le allusioni più esplicite a un'attività contemplativa si riscontrano nelle Lettere di Paolo. Il termine non viene adoperato, ma vi si trova la nozione di " conoscenza spirituale " (gnosis). La conoscenza di cui parla l'apostolo è la coscienza della sua vita nel Cristo. Essa scaturisce da una luce interiore, frutto della presenza dello Spirito trasformante la vita di Paolo in una vita nuova " in Cristo Gesù ": è una sorta di movimento che va dall'esterno verso l'intimo più profondo del suo essere, ove egli incontra il Cristo in sé (cf Gal 2,20). Per questo, Paolo parla di una conoscenza affettiva e sperimentale di Dio (cf Ef 1,16-18), del mistero di Cristo (cf Ef 3,4.14-19), di una sapienza misteriosa che Dio ha preparato per coloro che lo amano, rivelata per mezzo dello Spirito (cf 1 Cor 2,7-12); tale sapienza, proveniente da Dio, è la fonte stessa della c. di Dio che si nasconde e dimora nell'amore. E l'amore che corrisponde alla prova d'amore della manifestazione di Dio in Gesù Cristo, nell'amore del quale anche l'amore di Paolo acquista coscienza di sé.

Sempre a questo riguardo è illuminante la dichiarazione della Prima Lettera di Giovanni sul nesso amore-conoscenza di Dio: " Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello " (4,20-21).

La meta ultima della conoscenza perfetta è, quindi, la comunione mistica, orante ed esistenziale di Dio nella sua duplice direzione. Tutta la simbolica paterna, materna, amicale e nuziale che la Bibbia applica alla relazione Dio-uomo diventa il paradigma di un'intimità interpersonale per cui l'uomo sa di essere realmente figlio dell'immenso amore di Dio Padre (cf 1 Gv 3,1). Sa di poterlo chiamare confidenzialmente " Abbà Padre! " (Rm 8,15).

Caratteristica peculiare del NT è, pertanto, quella di richiamare l'attenzione sul fatto che Cristo rivela il Padre e rende l'uomo partecipe di tale conoscenza contemplativa: " Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato " (Gv 1,18). La conoscenza di Dio può avvenire, dunque, soltanto nella comunione con il Figlio, presupponendo cioè la fede, fede che, tra l'altro, nasce solo dalla conoscenza di Dio. Questa è attingibile nel coinvolgimento, anzi nell'accettazione delle condizioni stabilite da Dio stesso. Ciò vuol dire che non si dà conoscenza senza fede, ossia senza obbedienza al suo progetto salvifico-comunionale.

Nella Scrittura, in genere, la c., quindi, non è mai presentata come l'attività suprema della vita cristiana, anche se Cristo contempla il Padre, cioè è in lui ed agisce con lui; è Gesù solo che conduce al Padre (cf Gv 14,8-12); non ne costituisce, neanche lo scopo ultimo, che è invece la visione beatifica. Questa può essere anticipata in qualche modo nella c., comunque rimane il frutto della vita di carità.

II. BLa c. nella tradizione cristiana. I sostantivi greci gnosis, epignosis o il verbo gnonai, presenti nel NT e che indicano la conoscenza intima, vitale, quasi sperimentale di Dio, vengono assunti dai Padri e chiamati theoria o contemplatio. Clemente Alessandrino è il primo a parlare della c. con il termine theoria, vertice della gnosis, conoscenza superiore di Dio.2 La carità che unisce lo " gnostico " a Dio suo amico ha per fine la c.3 Origene è già in un'atmosfera più cristiana. anche se le sue opere risentono dell'influenza platonica; egli descrive l'ideale cristiano come una comunione dell'anima sposa con lo Sposo, come un'unione d'amore che genera una conoscenza affettiva: la c.4 Anche Gregorio di Nissa annette un'importanza di tutto rilievo alla c. Cassiano, nel commentare la risposta di Cristo a Marta: " Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta " (Lc 10,42), scrive: " Vedete che il Signore stabilisce il bene principale, principale bonum, nella sola theoria, cioè nella c. divina ".5 Per Agostino la c. è una conoscenza che nasce dall'amore di Dio e porta ad amarlo meglio: " Quando l'amore si porta su di un oggetto, anche se non ne conosceremo che una piccola parte, questo amore ce ne dà una conoscenza più piena e più perfetta ".6

Ugo di S. Vittore ha scelto il termine contuitus per stabilire la prima definizione propriamente detta della c.: " La c. è uno sguardo dello spirito, contuitus, penetrante e libero, che abbraccia totalmente le realtà date a vedere ".7 Riccardo di S. Vittore ha fatto sua questa definizione e ne ha data un'altra che vi s'ispira: " La c. è un atto dello spirito che penetra liberamente nelle meraviglie che il Signore ha sparso attraverso i mondi visibili ed invisibili e dimora nell'ammirazione ".8 Si deve proprio a Riccardo di S. Vittore un'esplicita distinzione tra ciò che più tardi si chiamerà c. acquisita e c. infusa.9

Sulla scorta di Ugo e Riccardo di S. Vittore, Tommaso insegna che l'atto della c. procede dalla sapienza, distinguendone due generi: " La sapienza, che è dono, differisce dalla sapienza che è virtù intellettuale acquisita, perché questa si ottiene con lo sforzo umano, mentre l'altra "discende dall'alto", come dice s. Giacomo ".10 Ma Tommaso ha sottolineato soprattutto le relazioni che intercorrono tra la carità, amicizia con Dio, e la c.: " E proprio dell'amicizia vivere con i propri amici. Ora l'intrattenersi dell'uomo con Dio costituisce la c. ".11 La c. di Dio stimola il nostro amore per lui e viceversa: " La vita contemplativa consiste essenzialmente in un atto dell'intelligenza, ma attinge la sua sorgente nella volontà, perché è la carità che stimola a contemplare Dio. E, come il fine corrisponde al principio, ne consegue che la vita contemplativa si completa e si consuma nella volontà. Si prova gioia a contemplare ciò che si ama e questa gioia che ci procura l'oggetto contemplato stimola ad amare ancora di più. Questa è l'ultima perfezione della vita contemplativa: non semplicemente vedere, ma anche amare la verità divina ".12

Nell'atto contemplante, l'uomo viene unito alle divine Persone in uno scambio intenso di conoscenza e d'amore. In questo modo egli pregusta, qui ed ora, la vita eterna, la gloria dei beati in cielo. Direbbe l'apostolo Giovanni: " Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato Gesù Cristo " (17,3). Tommaso d'Aquino, alla fine, definisce la c. " uno sguardo semplice sulla verità... che termina nell'amore ".13 Giovanni della Croce, a sua volta, la definisce: " Scienza d'amore, la quale è notizia amorosa infusa da Dio che simultaneamente illumina ed innamora l'anima fino a farla salire di grado in grado a Dio suo Creatore, poiché solo l'amore è quello che unisce e congiunge l'anima a Dio ".14

Occorre, dunque, osservare che nella tradizione cristiana la c. non costituisce un fine in sé, è solo una mediazione per ottenere l'unione con Dio; ciò che conta in maniera incondizionata è la carità. Ad ogni modo, l'attività contemplativa, per quanto subordinata alla carità, gioca un ruolo importante nella vita cristiana. I grandi maestri dello spirito hanno sempre cercato di associare la c. e la carità.

III. Tentativo di definizione della preghiera contemplativa. Sulla base di quanto affermato sopra, si può chiamare preghiera contemplativa ogni attività spirituale che prende in considerazione il mistero di Dio Padre rivelato nel Figlio per mezzo dello Spirito, affinché l'anima vi aderisca in uno slancio di fede pura. Tale mistero è presente in primo luogo nella Scrittura, poi nell'uomo e nell'intero creato. Di conseguenza, si può parlare di una c. naturale di Dio cui conducono lo stesso creato, le creature o se stessi, in cui è riflessa l'immagine di Dio.

I mistici hanno sempre considerato la natura come un oggetto di c. Grazie ad essa, lo spirito umano viene elevato fino a Dio. Il Medioevo ha conferito a tale c. un valore straordinario, considerando la natura come un'impronta di Dio. Francesco d'Assisi, difatti, vede la natura nell'innocenza delle origini, cioè così come essa è uscita dalle mani del Creatore, prima del peccato originale. Ad ogni modo, qualunque sia la mediazione che conduce lo spirito umano fino alla c. di Dio, i mistici non si arrestano alla mediazione in se stessa, che serve loro solo per raggiungere Dio.

Nella loro attività contemplativa si possono distinguere tre forme principali di preghiera contemplativa: 1. La preghiera liturgica, cioè la preghiera pregata in nome della Chiesa. Tale preghiera, scandita nel corso dell'anno liturgico, permette di rivivere l'insieme del mistero del Cristo, dispiegato nel tempo e nelle situazioni personali; 2. La preghiera contemplativa personale, o più comunemente definita la meditazione, il cui fondamento è la lectio divina; 3. La c. mistica, cioè l'attività che consente di cogliere una realtà spirituale con un'operazione semplice dello spirito umano, al termine dell'attività meditativa (c. acquisita) e quella che segue immediatamente la meditazione (c. mistica, infusa o passiva); quest'ultima costituisce uno stato spirituale di passività rispetto all'azione di Dio.

Anche se alcuni autori, soprattutto della scuola domenicana, non accettano la legittimità della c. acquisita, occorre annettere a questa un valore pratico, verificato dall'esperienza: l'anima può compiere un'operazione semplice di tipo intuitivo-affettivo, mentre, dall'altro lato, non si può negare che Dio può agire direttamente nell'anima. Per questo, gli autori mistici distinguono due livelli di attività dell'anima: uno comune, ove si emettono le operazioni della conoscenza razionale e discorsiva, e un altro superiore, ove Dio agisce direttamente nell'anima, rendendosi presente attraverso un modo semplice di conoscenza, da cui scaturisce un'adesione per fede.

La presenza di Dio nell'anima è, dunque, una presenza viva ed efficace, che infonde le virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Il dono della c., offerto dallo Spirito e, in modo particolare dalla carità (cf Rm 5,5), consiste nel fatto che l'orante pregusta, già qui ed ora, Dio presente e operante in lui soprannaturalmente: i modi e i gradi di tale presa di coscienza sono diversi. Questa consiste in una sorta di interiorizzazione sempre più profonda, che conduce nella stanza centrale del castello interiore, secondo l'immagine usata da Teresa di Gesù, ove si trova Dio. E Dio stesso che, attraverso la sua grazia, attira l'anima a sé e la spinge verso la conoscenza-adesione di sé. Tale intervento, libero e gratuito di Dio, è accolto dall'anima in atteggiamento di passività, nel senso che essa non esercita alcuna operazione: l'unica sua attività consiste nell'accogliere attivamente Dio che viene.

IV. Il problema del rapporto tra vita contemplativa e azione, posto fin dagli inizi del cristianesimo, è molto dibattuto. Agostino a tale proposito, commentando Luca 10,38-42, scrive così: " Le parole di Nostro Signore Gesù Cristo ci vogliono ricordare che esiste un unico traguardo al quale tendiamo, quando ci affatichiamo nelle svariate occupazioni di questo mondo. Vi tendiamo, mentre siamo pellegrini e non ancora stabili; in cammino e non ancora nella patria; nel desiderio e non ancora nell'appagamento... Marta e Maria erano due sorelle, non solo sul piano della natura, ma anche su quello della religione; tutte e due onoravano Dio, tutte e due servivano il Signore presente nella carne in perfetta armonia di sentimenti. Marta lo accolse come si sogliono accogliere i pellegrini, e tuttavia accolse il Signore come serva... Del resto tu, Marta, sia detto con tua buona pace, tu, già benedetta per il tuo encomiabile servizio, come ricompensa domandi il riposo. Ora sei immersa in molteplici faccende, vuoi ristorare dei corpi mortali, sia pure di persone sante... Lassù non vi sarà posto per tutto questo. E allora che cosa vi sarà? Ciò che ha scelto Maria: là saremo nutriti, non nutriremo. Perciò sarà completo e perfetto ciò che qui Maria ha scelto: da quella ricca mensa raccoglieva le briciole della parola del Signore... (il quale) farà mettere a tavola (i suoi servi) e passerà a servirli ".15 Marta e Maria sono un esempio di unità radicale in cui non si oppongono vita attiva e vita contemplativa; insieme rappresentano un'esistenza tutta presa dall'ascolto contemplativo, soprattutto quando si è chiamati ad impegnarsi nel mondo.

L'unità radicale della vita spirituale - quindi l'unità fra c. e azione - si ritrova, come afferma Teresa di Gesù nelle Settime Mansioni, al vertice della vita mistica, nell'unione teologale in Dio Trinità d'amore. Ivi, non c'è più distinzione tra apostolato e preghiera, ma la comunione mistica d'amore si fa mistica apostolica 16 perché la vita teologale è vissuta in pienezza sia dal contemplativo che dall'apostolo.

Per il contemplativo la vita di fede conserva principalmente il carattere di oscurità nel cammino verso Dio; invece nella vita apostolica la fede si presenta come una nuova luce proiettata sul mondo da trasformare e come principio di azione. Quanto alla speranza, secondo Giovanni della Croce, essa appare come uno slancio d'amore verso Dio e il prossimo, cioè come un invito ad unirsi in ogni istante a Dio salvatore e fonte di salvezza. A sua volta, l'apostolo si appoggia alla forza di Dio dinanzi alle difficoltà relative all'apostolato.

Infine, la carità contemplativa e quella apostolica hanno per oggetto l'amore nella sua duplice direzione: Dio e il prossimo: entrambe vivono la carità personale, l'una in maniera immediata, l'altra in maniera più concreta e fattiva. Come ammonisce Gesù, tutta la legge, tutti i profeti, quindi, tutta l'esperienza contemplativa si condensano in un'unica parola: " Amerai... " (Mt 22,37; cf Dt 6,5): un amore che, come è ripetutamente affermato, sale verso Dio ma si estende orizzontalmente anche ai fratelli secondo le due celebri equazioni dell'amare il prossimo come se stessi (cf Lv 19,18; Mt, 5,43; 19,19; 22,39; Rm 13,9; Gal 5,14; Gc 2,8) e dell'amarsi gli uni gli altri come il Signore ci ha amati (cf Gv 15,12).

V. Carattere trinitario della vita contemplativa. La c. cristiana si sviluppa normalmente in un senso trinitario. Dato che, secondo le parole di Giovanni, Dio Padre, Figlio e Spirito Santo abitano nell'uomo, la loro presenza attiva si manifesta nella c. Tutti i teologi insistono con ragione su questo aspetto originale della c. cristiana: il disvelamento del mistero trinitario costituisce l'acme dell'esperienza contemplativa.

Lo spazio di quest'accoglienza di Dio Trinità è un dialogo d'amore, nel quale il contemplativo prega in Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, al quale è unito nella forza dello Spirito. Egli si rivolge al Padre, riconoscendo in lui la fonte di ogni dono; nell'accoglienza del Figlio, Verbo incarnato, egli realizza il suo rapporto d'amore con il Padre, al quale si rivolge, pur con tutta la sua debolezza, per mezzo dello Spirito (cf Rm 8,26). La preghiera contemplativa si presenta, quindi, come movimento d'amore che proviene dal Padre (exitus), origine del Figlio e dello Spirito, e a lui ritorna (reditus) attraverso il Figlio nello Spirito, nel cuore del contemplativo. In questo senso, la c. immette in Dio Trinità d'amore, facendo percepire l'inabitazione di Dio vivente nel Figlio per la forza dello Spirito, come attesta l'esperienza di Elisabetta della Trinità.17

L'umanità del Cristo svolge un ruolo importante anche nei più alti vertici della c. Teresa d'Avila insiste molto sulla necessità della mediazione della sacratissima umanità del Cristo nelle sue opere, soprattutto in Vita 22 e nel c. 7 del Castello interiore, Seste Mansioni: la c. dell'umanità di Cristo deve necessariamente accompagnare tutto lo sviluppo della vita spirituale. La dottrina della mistica d'Avila si fonda sia sulla sua esperienza, sia sugli insegnamenti e sulla pratica di numerosi santi.

Il fondamento di questa dottrina è ancorato nell'essenza della fede. Gesù è infatti Dio e uomo, Verbo incarnato, mediatore unico. In lui si manifesta la sua doppia natura divino-umana, ragion per cui non si possono, pena svisamento o confusione teologica, separare le due nature di Cristo, quasi che la sua natura umana impedisse l'unione con Dio. L'umanità di Cristo è propriamente la rivelazione di Dio, stando alle parole di Giovanni: " Chi ha visto me ha visto il Padre " (Gv 14,9) e a quelle di Paolo: " E Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo " (2 Cor 4,6). Ne segue che l'attività contemplativa porta normalmente all'imitazione di Cristo e più profondamente a una conformazione al suo stato di vita terrena.

Più propriamente parlando, la c. consiste nel lasciarsi amare dal Padre nel Figlio suo Gesù Cristo, perché lo Spirito venga ed in lui ci si possa presentare al Padre per mezzo del Cristo (cf Ef 2,18). La c., come unione mistica alle divine Persone, esercita una funzione trasformante nella vita del cristiano: la fede diventa viva e personale, rendendo così sempre più vivi i misteri particolari della salvezza. La luce della fede non soltanto illumina il contenuto oggettivo delle realtà divine, ma consente di prendere meglio coscienza del rapporto che il mistero della salvezza ha con la vita del contemplativo: questi percepisce che tale salvezza è una salvezza per lui, cioè riguarda la sua esistenza concreta. L'attività contemplativa, insomma, personalizza la fede. Anche l'affettività, quando il contemplativo-amante si rivolge a Dio nel Cristo, viene purificata trasformando ed elevando sino alla luminosa comunione perfetta delle divine Persone.

Lo stato contemplativo comporta, dunque, anche una purificazione profonda. Tale, del resto, è l'insegnamento di Giovanni della Croce, il quale parla della c. tenebrosa fonte di purificazione completa. L'azione della c. è, quindi, purificante e trasformante, perché ha per autore lo Spirito Santo stesso, che agisce nel cuore del fedele contemplante.

In breve, la c., proprio perché fondata nel Cristo incarnato e nello Spirito santificatore, vivifica e sostiene la storia degli uomini, rendendoli testimoni dell'Invisibile nella visibilità dei fatti ordinari della loro vita quotidiana.

Note: 1 STh II-II, q. 180, aa. 3.6; 2 Cf Stromati VII, 13,83: PG 9,89; 3 Ibid. I, 26,166; VI, 7,61; 4 Cf G. Bardy, La vie spirituelle d'après les Pères des trois premiers siècles, Paris 1935, 202; 5 Conferenza I, 5; 6 In Ioan., tract. 96,4: PG 35,1876; 7 In Ecclesiast., hom. 1: PL 175,117; 8 Benjamin major l. I a. 4: PL 196,67; 9 Cf Ibid. l. V, c. 2: PL 196,170; 10 STh II-II, q. 45, a. 1, ad 2; 11 Contra gentes l. 4, c. 22; 12 STh II-II, q. 180, a. 7, ad 1; 13 STh II-II, 180, a. 3, ad 1 e ad 3; 14 Notte oscura II, 18,5; 15 Discorso 103, 1-2.6: PL 38, 613.615; 16 Cf F.-R. Wilhélem, Dio nell'azione. La mistica apostolica secondo Teresa d'Avila, Città del Vaticano 1996; 17 Cf Elisabetta della Trinità, Opere, a cura di L. Borriello, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 5-48.

L. Borriello

B. Contemplazione in Teresa di Gesù e Giovanni della Croce. La storia, vissuta e scritta, è piena di momenti in cui la c. ha esercitato un protagonismo che per nulla ha beneficiato del chiarimento di " questa attività suprema " dello spirito umano. Pesa e non poco, tuttavia, il momento presente in cui assistiamo al revival di tanti movimenti spirituali con marcate tendenze contemplative, che spingono al chiarimento della realtà e del concetto di c.: modo di essere e forma concreta di preghiera nel rapporto tra Dio e il credente. Per tutti questi motivi, occorre prendere come punti di riferimento due grandi maestri della c.: Teresa di Gesù e Giovanni della Croce.

Sono questi due praticien della c. (J. Maritain), che aiutano ad operare un attento discernimento per cogliere e vivere la verità del rapporto con Dio e, nel caso cristiano, con il Dio e Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, realmente possibile e realmente personale e personalizzante, realmente reale, vivo, aperto all'infinito, per la filiazione divina che Gesù ha partecipato all'uomo e che lo Spirito attua e dinamizza: " Dio invisibile, mosso da amore, parla agli uomini come ad amici, tratta con essi per invitarli e riceverli in sua compagnia " (DV 2). Compagnia di comunità trinitaria, comunità di relazioni interpersonali nella donazione e accoglienza mutua che " costituiscono " le Persone divine distinte. Entriamo in questa " compagnia ". La preghiera cristiana ha una struttura trinitaria, relazionale 1 e uno statuto teologale, fondato sulla struttura essenziale che chiamiamo virtù teologali, delle quali la preghiera è un'espressione intrinseca.2

Questo semplice vincolo chiarificatore: Trinità vita teologale-preghiera ci pone nel giusto cammino nella riflessione sulla c., tanto nella vita come nella traduzione verbale che abbiamo di essa, nella quale emerge con vigore, luminosamente, che si tratta di una relazione interpersonale, d'intima comunione, reale, " di grazia " della persona nella vita del Dio Trino, possibile per queste sue " azioni " in noi, che chiamiamo virtù teologali, e che ci abilitano a " trattare con lui ". La c. dei grandi contemplativi, la comunicazione che hanno trasmesso del loro vissuto riflesso nelle categorie proprie della cultura in cui vissero, mette alla prova la nostra fede nella reale comunicazione di Dio all'essere libero che è l'uomo e la nostra capacità di balbettare l'esperienza comprensiva che abbiamo della stessa.

I. Dio, donatore e dono. La c., vista da parte dell'uomo è la risposta della persona a Dio che le si avvicina, come donatore e dono, per " chiamarla alla sua compagnia ". San Giovanni della Croce ci ricorda - senza dubbio - che Dio è " il principale amante " nella relazione con l'uomo, amante sempre, prima e più che amato. Idea che poi ripete, applicando il principio ovvio all'atto umano della c., che " consiste nel ricevere ",3 in cui " Dio è l'agente e l'anima la paziente ".4 Risulta allora, che nella c. si " definiscono " i protagonisti del rapporto, Dio e la persona, agente il primo, " passivamente " agente il secondo, ben inteso che l'azione della persona sarà sempre in proporzione diretta a ciò che riceve, vuol dire che sarà tanto più agente quanto più passiva, tanto più generosa quanto più ricettiva. Così, " lasciar fare a Dio ", o " il non impedire a Dio ", si converte nella condizione massima, nell'essenziale dell'azione che la persona può realizzare, tuttavia, nella condizione di essere della creatura razionale.

Il Dio della nostra fede è, dunque, un Dio donatore e dono, come si è manifestato nell'assoluta rivelazione che di sé ha fatto nell'Uomo Gesù di Nazaret, " sacramento " dell'eterna " generazione " nella quale il Padre comunica il suo essere, senza divisioni, al suo Verbo, Figlio coeterno. " Tutto ciò che ha il Padre è mio " (Gv 16,15); " Io e il Padre siamo una cosa sola " (Gv 10,30); " Tutto ciò che è mio è tuo e ciò che è tuo è mio " (Gv 17,10). Questa, non altra, né sminuita, è la filiazione che Gesù ci " partecipa ", nella quale veramente e realmente c'introduce. Con noi Dio non è meno Padre che con il suo Figlio unigenito. Semplicemente Dio è. E comunicazione, dono di sé. Giovanni della Croce a questo proposito scrive: " Le anime possiedono per partecipazione gli stessi beni che Dio possiede per natura, per cui veramente sono dei per partecipazione, simili a Dio e suoi compagni ".5 E ancora: " E l'anima vede che Dio è veramente suo e che essa lo possiede con possesso ereditario, con diritto di figlia adottiva di Dio, per la grazia che Dio fece di darle se stesso e che, come cosa sua, lo può donare e comunicare a chi essa vuole ".6 La persona dona Dio a Dio!

La " spiegazione " di queste stupende affermazioni viene offerta dallo stesso Giovanni della Croce quando scrive: " Dio non ama le cose per ciò che sono in se stesse. Pertanto, che Dio ami l'anima è porla in un certo modo in se stesso, rendendola eguale a sé; perciò ama l'anima in sé e con sé, con lo stesso amore con cui egli si ama ": 7 si tratta di un'" eguaglianza di amicizia ".8

In Fiamma, facendosi eco di un adagio filosofico che così liberamente traduce: " Quando uno ama e fa del bene agli altri, fa del bene e lo ama secondo la propria condizione e qualità ", lo applica con prodigiosa naturalezza a Dio in relazione alla persona: " Così il tuo Sposo stando in te, colui che è, ti concede le grazie ". E termina ponendo in bocca al Padre, che si mostra " con quel suo volto pieno di grazia ", con queste parole: " Io sono tuo e per te e godo di essere come sono per essere tuo e donarmi a te ".9

E Teresa d'Avila, " la maestra degli spirituali ", ci offre la sua esperienza con queste semplici parole: " Sembra che non abbiate tralasciato nulla per salvarmi ".10

Questo è il fatto fondamentale della nostra fede: Dio dà, comunica, opera; si dona e comunica, opera ciò che è. E comunicazione. Questa è la reale sostanza.

A partire da qui, una questione secondaria, comunque importante, sarà il modo concreto che Dio ha di comunicarsi a noi e che Teresa, in un contesto chiaro e immediato di c., come forma di preghiera, sottolinea in queste tre ipotesi: " Il bene dei singoli, il vantaggio del prossimo e quello della sua gloria ".11 E un dato fondamentale della nostra fede: Dio non discrimina nessuno, ama tutti.12 Ad un Dio che si manifesta in Gesù, suo Figlio, Donatore e Dono, comunicatore di tutto il suo amore, e che ancora in Gesù ci rivela l'unica risposta valida, il cristiano deve rispondere con una donazione totale di sé, essendo persona di un unico amore. I maestri carmelitani hanno coniato frasi lapidarie, con la stessa passione d'amore e identica affascinante chiarezza: " Tenete gli occhi sul vostro Sposo ",13 dice Teresa. E nella piena chiarezza del verso, Giovanni definisce il contemplativo: " Ti vedano i miei occhi ché sei loro lume e face e per te solo aprirli a me piace ",14 o nella Notte: " Io giacqui e m'obliai chino il volto su quello dell'amato ".15

Sulla scorta di queste espressioni dei dottori mistici, Teresa e Giovanni, risulta chiaro che si tratta di una comunione personale, di qualcosa che coinvolge la persona nella sua totalità, in maniera permanente, che abbraccia tutta la vita: atteggiamento teologale, senso vivo di appartenenza a Dio, vita teologale senza compromessi. Insomma, vita contemplativa, nel senso pienamente teologico.

II. C., forma di preghiera. Nell'itinerario della preghiera la c. occupa una fase importante, il che vuol dire che i tratti che appaiono nella c. iniziale, come elementi essenziali, sono presenti, intensificati nel corso della prassi contemplativa fino alla fine del processo. La c. si estende dalle Quarte Mansioni alle Settime Mansioni, comprende le tre ultime delle quattro forme di innaffiare l'orto, secondo le due immagini usate da santa Teresa. Per Giovanni della Croce la c. inizia con la purificazione passiva dei sensi, alla fine dello stadio di principiante, e si prolunga fino ai fondamenti stessi della " c. chiara e beatifica " nella quale termina " la c. oscura ", sempre oscura, cioè sempre nella fede.

Tra la meditazione, prima tappa del cammino di preghiera, e la c. non c'è necessariamente continuità o successione cronologica, né tantomeno casuale, né in senso ampio. Tra meditazione e c., anche se " ordinariamente " la prima dispone alla seconda, c'è un salto qualitativo che l'orante non può spiegare, " produrre ", né " esigere ". E pura grazia, cioè intrinsecamente passiva, nel duplice e convergente senso di gratuita e causata, attuata da Dio, che si manifesta come " il principale agente " del rapporto con il credente. " La c. pura consiste nel ricevere ": 16 c. infusa, c. soprannaturale.

Nella stessa presentazione che fa Teresa dei diversi modi di innaffiare l'orto appare con chiarezza lo spiazzamento del protagonismo dell'uomo verso Dio nel suo rapporto, con il conseguente, proporzionale aumento di efficacia, di " frutto " della medesima.17 Nelle Mansioni apre il discorso sulla prima forma di c., sottolineando incisivamente la differenza con la meditazione: " Due bacini si riempiono d'acqua in modi diversi: in uno l'acqua viene da più lontano per via di acquedotti e di artifici; mentre l'altro, essendo costruito nella stessa sorgente, si riempie senza alcun rumore... cioè senza alcun lavoro dell'intelletto. La prima s'identifica con la meditazione, la portiamo noi; la seconda con la c., inizia in Dio ".18

Giovanni della Croce è più preciso: davanti alla " via del senso ", che è la meditazione, esercizio " naturale ", il santo presenta la c. come " via dello spirito ".19 Ben sottolinea che Dio assume le redini della relazione: infatti, Dio è l'operaio, l'agente, l'artefice. E, quando vuole sottolineare temporaneamente il cambio, il passaggio dalla meditazione alla c., sottolinea che Dio comincia a comunicarsi all'anima: " In questa notte [purificazione passiva del senso] le anime iniziano ad entrare quando Dio le va traendo fuori dallo stato di principianti, che sono coloro che meditano nel cammino spirituale, e inizia a porli in quello dei più progrediti, che è già quello dei contemplativi ".20

Cambio di protagonista e di canale della comunicazione. Dio attiva le potenze, lo spirito dell'uomo, la conoscenza e l'amore, " direttamente ", senza la mediazione dei sensi, " soprannaturalmente ": nella c. " riposano le potenze e non operano attivamente, se non passivamente, ricevendo ciò che Dio opera in esse ".21 Si tratta della " notizia soprannaturale di c. ",22 notizia priva di accidenti, " senza che l'intelletto faccia nulla da parte sua ".23 Più avanti dirà che in questa forma di c. " si vede l'intelletto innalzato con strana novità al di sopra di ogni naturale intendimento alla luce divina ".24 Definisce la c., in questo contesto psicologico di scrittore, come " intelligenza serena e quieta, senza rumore di voce ".25 Poeticamente, la c. è " musica silenziosa ", " solitudine sonora ". Il teologo contemplativo spiega: " E silenziosa rispetto ai sensi e alle potenze naturali, è solitudine molto sonora per le potenze spirituali, perché essendo sole e vuote di ogni forma e apprensione naturale, possono ricevere l'altissima conoscenza di Dio.26

L'azione di Dio, " l'infusione divina ", oltre la conoscenza, genera l'amore. Infatti, la c. viene costantemente definita dal santo " scienza amorosa ", " amore e sapienza " " luce divina e amore ".27 " La c. si comunica e infonde nell'anima per amore ".28 E " un influsso di Dio nell'anima... che i contemplativi chiamano c. infusa o mistica teologia. In essa Dio segretamente istruisce l'anima nella perfezione dell'amore, senza che questa faccia alcunché, né intenda come sia questa c. ".29 Alla fine del processo, quando l'azione di Dio e la " passione " dell'uomo raggiungono il grado più alto di sincronia, il santo scriverà: " L'intelletto che prima intendeva naturalmente con la forza e il vigore del suo lume naturale e per la via dei sensi corporei, ora è mosso e informato da un altro principio più alto, dal lume soprannaturale.30 La c. è linguaggio di Dio all'anima da puro spirito a spirito puro.31

La c. " è notizia generale amorosa ", è cioè conoscenza e amore, conoscenza d'amore o amore illuminato, ma " generico ", " senza specificazione di atti ". Di fronte alla frammentazione e pluralità di atti della meditazione, che genera conoscenze distinte e particolari, la c. si muove nell'ambito del complesso e della globalità, per cui è " oscura " per un intelletto che lavora naturalmente con ciò che è distinto, che ha bisogno di frammentare per conoscere e comunicare il sapere.

E conoscenza di fede: trascendendo le " notizie distinte ", la conoscenza va a " porsi sempre più nella fede ".32 Fede e c. a volte si avvicinano fino a dare l'impressione di identificarsi perché la c., come la fede, è relazione interpersonale, incontro dinamico con Dio, aperto, pertanto, alla c. già chiara e beatifica.

Note: 1 Cf Congregazione per la dottrina della fede, Alcuni aspetti della meditazione cristiana, Roma 1990; 2 Giovanni della Croce, che ha fatto delle virtù teologali il nucleo più intimo del suo pensiero, nella duplice, indissociabile dimensione purificatrice e unitaria, ha presentato la preghiera in tutta la sua traiettoria come esercizio e vita teologali: cf M. Herráiz, La oración, palabra de un maestro. San Juan de la Cruz, Madrid 1991, soprattutto le pp. 11-13; 3 Fiamma viva d'amore 3,36, nella quale " Dio è l'agente e l'anima è la paziente "; 4 Ibid., 3,32; 5 Cantico spirituale 39,6; 36,5; 6 Fiamma..., o.c., 3,78; 7 Cantico..., o.c. 32,6; 8 Ibid., 28,1; 9 Fiamma..., o.c., 3,6; 10 Vita 1,8; 11 Cf Cammino di perfezione 18,3; 12 Cf Vita 27,11; 13 Cammino..., o.c., 2,1; 14 Cantico..., o.c., str. 10; 15 Notte oscura, str. 8; 16 Cf Fiamma..., o.c., 3,36; 17 Cf Vita 11,7; 18 Castello interiore, V, 2,3-4; 19 Cf Fiamma..., o.c., 3,44; Notte..., o.c., I, 13,15; 20 Ibid., I, 1,1; 21 Salita del Monte Carmelo II, 12,8; 22 Ibid. I, 15,1; 23 Cantico..., o.c., 14,16.14; 24 Ibid., 15,24; 25 Ibid., 15,25; 26 Ibid., 26; 27 Notte..., o.c., II, 12,2.7; 28 Ibid., II, 17,1; 29 Ibid., II, 5,1; 30 Fiamma..., o.c., 2,34; 31 T. Polo, Dire " l'altro " che tuttavia parla: il linguaggio ferito dei mistici, in REsp 53 (1994), 247-317; 32 Fiamma..., o.c., 3,48.

M. Herraiz

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CONTENSON VINCENZO GUGLIELMO DE. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce ad Auvillar (Tarn-et-Garonne) nel 1641. A quindici anni, mentre frequenta come allievo esterno il Collegio dei padri gesuiti di Montauban, è attratto all'Ordine domenicano dall'insigne predicatore controversista Vincent Baron ( 1674), ed entra nel convento di Tolosa nel 1656, dove emette la professione religiosa il 2 febbraio 1657.

A ventiquattro anni, su invito dell'Arcivescovo Mons. Gaspard de Daillon de Lude, insegna filosofia ad Albi (1664-1665), ma la sua passione è la teologia, per cui nel 1666 viene richiamato a Tolosa, dove inizia appunto l'insegnamento teologico.

Sulla fine del 1666 o all'inizio del 1667 C. è incaricato di una non ben identificata missione a Roma, dove è accolto con particolare deferenza da P. Giovanni Battista De Marinis, Maestro dell'Ordine (1650-1669). Rientrato a Tolosa, C. riprende la stesura, già iniziata in precedenza, dell'unica sua opera, la Theologia mentis et cordis, di cui pubblica il primo volume a Lione nel 1668.

P. Tomas Juan de Rocaberti, nuovo Maestro dell'Ordine (1670-1677) dopo la morte di P. De Marinis ( 1669), scrive personalmente a C. per autorizzarlo e incoraggiarlo a proseguire la pubblicazione dell'opera e, per favorire i suoi studi, lo trasferisce da Tolosa a Parigi presso il convento riformato di rue Saint-Honoré, il 6 luglio 1670.

A Parigi, C. riprende la stesura della Theologia mentis et cordis, ma si dedica con successo anche alla predicazione: predica, tra l'altro, a Tolosa, a Rennes, a Beauvais, ma purtroppo si ammala seriamente. I superiori, nella speranza che egli, cambiando aria e ambiente, si possa riprendere, lo inviano per un periodo di riposo a Creil (Parigi), ma qui il vescovo Mons. Buzenval lo prega di predicare l'Avvento del 1674: C. non può naturalmente rifiutare, predica tutto il periodo prenatalizio, ma quel superlavoro aggrava il suo stato di salute, e il 26 dicembre 1674 muore serenamente. Ha appena trentatré anni.

C. lascia incompiuta la Theologia mentis et cordis, ma il noto teologo Antonin Massoulié, suo confratello e amico, servendosi di suoi appunti e aggiungendovi note personali, pubblica il secondo volume a Parigi nel 1687. L'opera verrà ristampata ripetutamente in tempi successivi: a Colonia (1687, 1722), Venezia (1727, 1787), Torino (1768), Parigi (1874-75, 1886).

II. Dottrina spirituale. La Theologia mentis et cordis vuol essere un commentario alla Summa di Tommaso d'Aquino, ne segue più o meno l'ordine, ma ad ogni sezione C. - ed è questa la novità - fa seguire delle pie reflexiones personali di carattere ascetico-mistico. Egli afferma di non conoscere alcun teologo che " dalle spine scolastiche abbia raccolto le rose della pietà ". In realtà, esperimenti del genere si riscontrano invece negli scritti di Alberto Magno, di Giovanni M. Bertini ( 1669), di Louis Bail ( 1669), però nessuno di loro stimola tanto interesse per una teologia che sfoci nella pietas come C.

La motivazione di fondo, per C., è che la teologia, nonostante il suo procedimento razionale, è figlia della fede, perciò, come la fede, è una scienza intrinsecamente soprannaturale: il vero teologo accoglie le conclusioni teologiche con lo stesso spirito con cui accoglie le verità della fede. La teologia, così intesa, s'impone " come radice della santità e come sorgente copiosissima di tutte le virtù ". Fra speculazione teologica e pietà c'è un reciproco e fecondo commercium, e la vera teologia porta alla teofilia: la speculazione teologica genera la pietas, e la pietas provoca e potenzia la speculazione teologica: la pietas diventa, pertanto, un luogo teologico.

In teologia, perciò, conoscenza e amore camminano di pari passo, non si possono scindere, sono due esperienze unite, come sono unite le Persone della SS.ma Trinità. Solo nel connubio conoscenzaamore, speculazionepietas la teologia realizza veramente se stessa.

Questa proposta, o modo di fare teologia, però, è rimasta soltanto nel cuore di C.: egli è ed è rimasto iniziatore, senza diventare un caposcuola e il suo messaggio è rimasto come sospeso. Non va dimenticato che la speculazione di C. si situa in un periodo di decadenza della scolastica classica.

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A. Abbrescia

CONTROVERSIA DE AUXILIIS. (inizio)

I. Status quaestionis. Nella seconda metà del sec. XVI tra le varie scuole teologiche si accese vivace il dibattito sulla grazia per trovare una spiegazione che potesse anche confutare le affermazioni luterane e calviniste che andavano diffondendosi. Il Concilio di Trento, infatti, non aveva potuto o voluto risolvere tutte le questioni e si era limitato a ribadire due punti fermi: libertà dell'uomo ed efficacia della grazia divina, senza però definire la loro conciliazione. Tra le controversie è rimasta famosa quella detta De auxiliis tra i domenicani e i gesuiti sulla partecipazione della grazia e della libertà umana alla realizzazione dell'opera meritoria.

Il domenicano Domenico Bañez ( 1604), professore prima a Valladolid e poi a Salamanca, ponendo fortemente l'accento su alcune tesi di Tommaso d'Aquino, insegnava, nel dibattito sulla cooperazione tra grazia e libero arbitrio, che deve esistere un diretto influsso di Dio sulla volontà dell'uomo in modo che, infallibilmente, passasse dallo stato di " poter agire " a quello di agire effettivamente, ossia la " premozione fisica " dell'uomo da parte di Dio. Lo stesso Bañez ammetteva pure che Dio agisce in modo conforme alla natura delle sue creature in modo che, libere, agiscano liberamente. Ben presto la dottrina bañeziana divenne comune tra i domenicani.

Una concezione del genere non risultò gradita ai teologi gesuiti, in quanto sembrava minimizzare eccessivamente la base stessa della pedagogia ascetica che essi seguivano. Era loro cura, infatti, insistere sulla libertà assoluta della volontà umana, sulla efficacia non intrinseca della grazia divina e, contro il fatalismo luterano e calvinista, insegnare la predestinazione " post praevisa merita ". In questo senso Leonardo Lessio ( 1623) espose alcune tesi, condannate però nel 1567 dai dottori di Lovanio. Interposto appello a Roma, Lessio ottenne la revoca della censura, nonostante gli sforzi contrari compiuti dai domenicani, suoi oppositori.

Successivamente a Salamanca, nel 1581-1582, un altro gesuita, Prudenzio Montemayor, sostenuto dall'agostiniano Luigi Léon ( 1591) criticava le posizioni di Bañez. La reazione dei domenicani portò all'intervento dell'Inquisizione che, nel 1584, censurò tredici proposizioni di Montemayor chiaramente contrarie alla predeterminazione e premonizione fisica.

Nel 1588 un altro gesuita, Luis Molina ( 1600), interveniva nel dibattito con la pubblicazione a Lisbona dell'opera Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis. Attraverso il concetto di " scienza media " - già sviluppato dal suo maestro Pietro de Fonseca ( 1599) e che attribuisce a Dio oltre alla conoscenza del presente e del futuro, anche quella dei futuri condizionali - Molina tentava una soluzione inedita di conciliazione delle tesi allora opposte, ma al tempo stesso strutturava un nuovo sistema che, pur riconoscendo la necessità della grazia divina, ne subordinava l'efficacia alla cooperazione del volere umano, con esclusione, in pratica, del principio della grazia efficace per se stessa. Inoltre, Molina attaccava esplicitamente la dottrina esposta da Bañez nei suoi Commentarii a s. Tommaso. Reciproche denunce e dispute riaccesero così una polemica che assunse toni scandalosi e nella quale si avvertiva la rivalità tra i due grandi ordini gesuita e domenicano. Della questione si interessò la stessa Inquisizione spagnola, ma il suo intervento risultò insufficiente. La controversia proseguì con toni appassionati anche quando Clemente VIII ( 1605) nel 1594 avocava l'esame della questione al suo tribunale.

Dopo aver fatto esaminare l'opera di Molina da una commissione di teologi e invitato inutilmente i superiori generali dei domenicani e dei gesuiti a mettersi d'accordo, il papa insediava una speciale commissione o congregazione detta de auxiliis che, con venti sessioni di lavoro, concludeva il 12 ottobre 1600 (lo stesso giorno della morte di Molina) per la condanna di ventuno delle sue proposizioni. Una serie di interferenze però impedì una serena valutazione. Per questo motivo, Clemente VIII differì la condanna e volle che venisse approfondito il punto essenziale della controversia: il fondamento della grazia efficace. Dal 20 febbraio 1602 fino al 1605, la Congregazione tenne altre sessantotto sessioni, presiedute dal papa stesso. I domenicani erano rappresentati da Diego Alvarez, Tomaso de Lemos e Michele Ripa; i gesuiti da Michele Vázquez, Gregorio di Valenza, Pietro Arrubal e Fernando de la Bastida. Le dispute si convertivano in accuse di calvinismo contro i domenicani e di pelagianismo contro i gesuiti; e, a più riprese, veniva proposta la condanna e la messa all'Indice di questo o di quel teologo. Dopo ogni seduta, il papa e i cardinali giudicavano le argomentazioni proposte dalle parti. Clemente VIII, che morì il 3 marzo 1605, ondeggiò sovente tra le due posizioni, anche se si può affermare, in base alle annotazioni autografe nell'esemplare da lui usato della Concordia che, in definitiva, non era ostile al molinismo. Nel frattempo, mentre la Spagna favoriva i domenicani, a sostenere il molinismo si ergeva la Francia.

Dopo il breve pontificato di Leone XI ( 1605), la controversia riprese sotto Paolo V ( 1621). In seno alla Congregazione de auxiliis, che continuava i suoi incontri, prendeva sempre più consistenza una soluzione di condanna di Molina, a favore quindi della posizione domenicana. Nel novembre del 1606 la censura di quarantadue proposizioni di Molina era proposta da tutti i consultori, ad eccezione del carmelitano Giovanni Bovio ( 1622) che, invece, riteneva opportuni ulteriori approfondimenti. A quest'ultimo si associarono, poi, alcuni dei cardinali ai quali il papa si era rivolto per ulteriore consiglio il 28 agosto 1607. La disparità dei pareri e il fatto che la dottrina dei domenicani si differenziasse dal calvinismo e quella dei gesuiti dal pelagianesimo indussero il papa a non prendere una decisione in merito. Sciolta la Congregazione, egli ricordò, con lettera del 5 settembre del 1607 ai due superiori generali dei gesuiti e dei domenicani, la dottrina tridentina e proibì alle parti in contesa di accusarsi reciprocamente di eresia, lasciandole comunque libere di seguire le proprie opinioni. Più tardi, l'11 dicembre 1611, l'Inquisizione vietava, con decreto, di pubblicare scritti su questi argomenti senza la previa autorizzazione della S. Sede. Questa proibizione venne confermata da altri pontefici: Urbano VIII ( 1644) nel 1625 e nel 1641, Innocenzo X ( 1655) nel 1654 e Innocenzo XII ( 1700) nel 1694.

II. Conseguenze per la vita mistica. La controversia alla quale Paolo V aveva posto fine senza definirla, è tornata a farsi sentire nel corso del nostro secolo (G. Schneemann, A.M. Dummermuth e altri), imprimendo una svolta significativa al dibattito teologico con l'accento sull'alterità o trascendenza di Dio personale e sulla incatturabilità del suo agire. Ai fini di un discorso sulla mistica risulta utile tener presente tale controversia per poter armonizzare l'intervento di Dio e lo sforzo della volontà umana non certo identificabili tra loro, ma certamente interagenti nel conseguimento della divinizzazione dell'uomo.

Bibl. C. Baisi, S. C. de auxiliis divinae gratiae, in EC IV, 339-340; A. Bonet, La filosofía de la libertad en las controversias teológicas del siglo XVI y primiera mitad del siglo XVII, Barcelona 1932; L. Bournet, Auxiliis (Congrégation de), in DHGE V, 960-970; I.M. March, El ejemplar del libro de p. Molina anotado por Clemente VIII, in Razón y Fé, 24 (1909), 183-194; V. Muñoz, Nuevos documentos acerca de las controversias " de auxiliis " en Salamanca, in Salm 1 (1954), 440-449; A.C. Pegis, Molina and Human Liberty, Jesuit Thinkers of the Renaissance, Milwaukee 1924; A. Queralt, Libertad humana en Luis de Molina, Roma 1977; B. Romeyer, Libre arbitre et concours selon Molina, in Greg 23 (1942), 169-201; G. Scheemann, Controversiarum de divina gratia liberique arbitrii concordia initia et progressus, Freiburg 1881; T.H. Serry, Historia congregationum de auxiliis divinae gratiae, Anversa 1709; F. Stegmüller, Ursprung und Entwicklung des Molinismus, Köln 1933; Id., Geschichte der Molinismus, Köln 1935; Id., Gnadenstreit, in LThK IV, 1002-1007; I. Stöhr (cura di), Zur Frühgeschichte des Gnadenstreites Gutachten spanische Dominikaner, Münster 1980; E. Vansteenberghe, Molinisme, in DTC X, 2154-2166.

A, Boaga

CONVERSIONE. (inizio)

Premessa. Secondo la tradizione giudeo-cristiana la c. significa voltare le spalle all'alienazione che il peccato comporta e volgersi verso Dio. In riferimento a questo processo, la Scrittura usa il termine greco, metanoia, per indicare quel cambiamento di mente e di cuore che allontana dal peccato e volge verso Dio nell'amore fedele e nel servizio. Il NT descrive in modi diversi la c., dalla esigente richiesta di Cristo del pentimento all'inizio della sua vita pubblica (cf Mc 1,14-15) alla drammatica c. di Paolo sulla via di Damasco (cf At 9,1-9).

I. C. requisito essenziale per il discepolo cristiano. La c. è sia un evento, sia un lungo processo di vita nonché il fondamentale requisito per la sequela di Cristo. La descrizione della c. fatta da Marco si riferisce direttamente ai discepoli. Convertirsi vuol dire seguire Cristo. Seguirlo significa prendere la croce, guadagnarsi la vita perdendola (cf Mc 8,35). Rispondere al messaggio di Gesù Cristo implica non solo un cambiamento interiore, ma anche un cambiamento di comportamento portando frutti di opere buone. Il Vangelo di Matteo sviluppa questo tema nel Discorso della Montagna e nell'analogia dell'albero che porta buoni frutti (cf Mt 5-7; 7,16-20). Il discepolo è colui che compie la volontà del Padre e rimane unito a Cristo, vera vite (cf Mt 7,21-23; Gv 15,1-17). Il Vangelo di Luca pone in relazione la c. con la riconciliazione che Dio estende ai peccatori. E singolarmente visibile nelle parabole del cap. 15, delle quali la più famosa è quella del figliuol prodigo (cf Lc 15,11-32). Il figlio perduto è ritrovato ed è riconciliato con la misericordia del Padre. La misericordia di Dio, come quella del padre del prodigo, si estende a tutti coloro che intendono cambiare la loro vita, essere radicalmente convertiti ed abbracciare la vita del discepolo.

II. Storie tipiche di c. Una delle più chiare descrizioni del processo di c. può essere ritrovata nelle Confessioni di s. Agostino. In questa confessione di lode all'amore misericordioso di Dio, Agostino narra il suo graduale allontanamento dal peccato e dalla cecità verso Dio, che " lo chiama... e il cui splendore dissipa la cecità ".1 Questa classica autobiografia spirituale fornisce soprattutto un pressante invito alla necessità di una trasformazione di tutti gli aspetti della vita: intellettuale, affettivo, morale, religioso.

B. Pascal sperimentò che la c. è un atto della grazia di Dio, ma che il ruolo dell'individuo nel processo di c. è altrettanto importante. Egli, perciò, stimola ad una ricerca di Dio che presuppone un sincero combiamento del cuore. Pascal sperimentò la c. in Cristo in un preciso momento e luogo che non dimenticò mai; difatti, conservò un memoriale scritto della sua c. nel 1654 che portò cucito nei suoi vestiti fino al giorno della morte. Forse la parte più commovente del suo memoriale è la semplice affermazione: " Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia ".2 Questo moto interiore verso un'estasi di gioia, che è una caratteristica della c. di Pascal, è una comune esperienza dei cristiani dinanzi alla misericordia e alla bontà di Dio. Mentre le c. di Agostino e di Pascal sono molto evidenti, quella di Teresa di Lisieux, dotata di un pensiero meno brillante, è meno evidente, ma non meno genuina. I suoi pensieri ruotarono intorno alla profonda realizzazione della paternità di Dio e comportarono un movimento da un profondo stato di ansia ad una ferma fiducia nella provvidenza di Dio. Intorno a ciò sviluppò l'insegnamento della sua " piccola via " dell'infanzia spirituale della quale danno testimonianza le parole di chiusura della sua autobiografia spirituale: " Vado da lui con fiducia e amore ".3

III. Dimensioni ecclesiali della C. Con il battesimo i cristiani sono liberati dal peccato e resi membri del Corpo mistico di Cristo, la Chiesa. Il sacramento della penitenza riconcilia nuovamente le persone con Dio e con la Chiesa " alla quale hanno inflitto una ferita con il loro peccato " (LG 11). La continua c. trova la sua fonte e il suo nutrimento nell'Eucaristia, che è cibo per il nostro pellegrinaggio sulla terra. La stretta relazione che esiste tra gli atti esterni di penitenza, la c. interiore, la preghiera e gli atti di carità è affermata in numerosi testi liturgici (cf Paenitemini, 2).

L'atteggiamento del cristiano nella preghiera è una c. dal momento che il vero atto del pregare include la scelta consapevole di volgersi a Dio in modo esplicito. Poiché riceviamo da lui qualsiasi cosa chiediamo (cf 1 Gv 3,22), la preghiera che chiede il perdono conduce il cristiano ad una più piena partecipazione alla vita di Dio. Chiedere il perdono è il requisito fondamentale sia per la liturgia eucaristica che per la preghiera nel segreto del cuore (cf Mt 5,6).

IV. C. e responsabilità sociale. Per i cristiani la c. implica non solo una dimensione personale, ma anche una dimensione sociale. La vita cristiana è pasquale, modellata sulla morte e risurrezione salvifica del Cristo, che ha portato la nuova vita attraverso la morte. E evidente che i cristiani, che condividono la missione della Chiesa, sono chiamati a lavorare per attuare una trasformazione sia individuale che sociale al servizio del regno di Dio, come ha dichiarato il Sinodo mondiale dei vescovi nel 1971: " L'azione a favore della giustizia e la partecipazione alla trasformazione del mondo appaiono pienamente come una dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo ".4 Infine, la c. è la convinta esperienza per cui ognuno di noi è inviato dal Padre per assolvere la stessa missione del Cristo: che il mondo possa essere riempito della sua speranza e trasformato dal suo amore.

Note: 1 Libro X, 27,38; 2 Pensées, Baltimore 1966, 309; 3 Story of a Soul, Washington 1975, 259; 4 United States Catholic Conference, Justice in the World (1971 Statement), Washington 1972, 6.

Bibl. T. Goffi, s.v., in NDS, 288-294; B. Marchetti-Salvatori, s.v., in DES I, 629-632; R. Mohr, s.v., in WMy, 95; V. Pasquetto, La vita come conversione, in Aa.Vv., Ascesi cristiana, Roma 1967, 25-71; H. Pinard de la Boullaye, s.v., in DSAM II, 2224-2265; R. Schulte, La conversione come inizio e forma di vita cristiana, in J. Feiner e M. Löhrer (cura di), Mysterium salutis X, Brescia 1978, 131-261; R.D. Witherup, Conversion in the New Testament, Collegeville 1994.

B. Merriman

CORAGGIO. (inizio)

I. Necessità. " Vigilate, state saldi nella fede, comportatevi da uomini, siate forti " (1 Cor 16,13). L'esortazione paolina è rivolta al cristiano che per vocazione è un combattente, un lottatore (cf 2 Tm 2,3-5; Ef 6,11.13-17), ingaggiato in una battaglia che " non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male " (Ef 6,12).

Il c. è, quindi, una disposizione necessaria per il discepolo di Cristo, il quale partecipa, con la fede, alla vittoria del suo Signore (cf Fil 4,13; 1 Gv 2,13-14; 5,4).

Il c. è correlato con la pazienza, la speranza e la fortezza, tipiche virtù dei martiri, ma anche con la magnanimità, tensione verso le grandi cose, che, in campo cristiano, trova spazio mediata dall'umiltà e dalla fiducia in Dio.

Nel monachesimo antico, nel quale si perpetua, estesa nel tempo, la testimonianza di carità del martirio e si traduce nella prassi ascetica la componente " atletica " del cristianesimo, il c. diventa condizione indispensabile: " Affronta con c. ogni travaglio per il bene, non esporti a questa impresa con l'anima incerta; non permettere al tuo cuore di vacillare nella fiducia in Dio, altrimenti inutile è la tua fatica e il tuo lavoro diventa un peso ".1

La stessa convinzione si trova disseminata in tutta la storia dell'ascesi e della mistica cristiana. Per esempio, Ignazio di Loyola, nella quinta nota esplicativa da spiegare a chi inizia gli Esercizi, scrive: " E di molto giovamento per chi riceve gli esercizi entrarvi con grande c. e con liberalità verso il suo Creatore e Signore, offrendogli interamente la volontà e la libertà perché la divina Maestà possa servirsi, secondo la sua santissima volontà, tanto di lui quanto di tutto ciò che egli possiede ".

II. Nell'esperienza mistica. Per il cammino arduo dell'esperienza mistica, basti ricordare la saggezza di Teresa d'Avila: " E un grande favore che Dio concede a un'anima, quello di darle grazia e c. per tendere con tutte le forze a questo bene. Se essa persevera, Dio, che non nega aiuto a nessuno, a poco a poco aumenterà in essa il c. perché riesca vittoriosa ".2 La santa è convinta che il c., unito all'umiltà, renda l'anima gradita a Dio e la faccia progredire rapidamente: " Sua Maestà cerca ed è molto amico delle anime coraggiose, se camminano con umiltà e senza porre alcuna fiducia in se stesse. Non ho mai visto alcuna di queste anime che sia rimasta indietro nel cammino della perfezione; come pure non ho mai visto alcuna anima codarda, ancorché nascosta sotto il velo dell'umiltà, fare in molti anni il cammino che queste anime fanno in pochissimo tempo ".3

Note 1 Isacco di Ninive, Ammaestramenti spirituali, 207; 2 Teresa d'Avila, Vita 11,4; 3 Ibid. 13,2.

Bibl. Ch.-A. Bernard, Force, in DSAM V, 685-694; R. Fabris, La virtù del coraggio. La " franchezza " nella Bibbia, Casale Monferrato (AL) 1985; R.A. Gauthier, Magnanimité. L'idéal de la grandeur dans la philosophie païenne et dans la théologie chrétienne, Paris 1951; T. Goffi, s.v., in DES I, 632-634; J. Pieper, Sulla fortezza, Brescia 1956; C. Spicq, Théologie morale du Nouveau Testament, Paris 1965.

U. Occhialini

CORPI. (inizio)

Allungamento dei c.

Nozione. E un fenomeno, veramente raro sia in fisica sia nella mistica, per cui il corpo o un membro di esso si allunga oltre la misura normale. Vi sono esempi di a. nella vita della beata Stefana Quinzani ( 1530), in quella di s. Caterina da Genova e in altre sante o beate.

A Londra nel 1860, durante una seduta spiritica, alcuni testimoni osservarono il fenomeno verificarsi nel corpo del medium, D.D. Holmes. Non soltanto il suo corpo cresceva in proporzioni anormali, ma di tanto in tanto la sua statura diminuiva al di sotto della norma.

Per quanto riguarda i medium, quasi sempre si tratta di casi d'impostura o di qualche intervento diabolico.

Nel caso di un mistico autentico, il fenomeno non sembra abbia valenze edificanti o utili. L'allungamento o restringimento del corpo è, alcune volte, accompagnato da un altro strano fenomeno per cui il corpo o una parte di esso si contorce stranamente, qualche volta in una postura catalettica. E un fenomeno, questo, che necessita di ulteriori approfondimenti.

Passaggio attraverso i c.

Il fenomeno, chiamato anche " sottilità o compenetrazione di materia ", si verifica quando un corpo materiale passa apparentemente attraverso un altro corpo materiale o attraverso una sostanza. Infatti, il NT afferma che il corpo di Cristo risorto passò attraverso la porta chiusa della stanza in cui gli apostoli erano raccolti in assemblea (cf Gv 19,20-26), e si è verificato anche nella vita di s. Domenico ( 1221)

II. Spiegazione del fenomeno. Generalmente si crede che l'intrinseca compenetrazione di corpi materiali sia fisicamente impossibile. C'è molto ancora da studiare riguardo alla quantità, al peso e alla distribuzione delle parti in un corpo, ma ancora oggi la compenetrazione di corpi fisici richiede che l'impenetrabilità di uno dei corpi venga miracolosamente sospesa oppure che un individuo sperimenti un'anticipazione del fenomeno di agilità eo dell'imponderabilità di un corpo glorificato. A livello mistico, il fenomeno si spiega solo quando c'è un vero e proprio miracolo operato da Dio.

Bibl. J. Aumann, Teologia spirituale, Roma 1991, 1123-1125; I. Rodríguez, s.v., in DES I, 634; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1123-1125; I. Thurston, Fenomeni fisici del misticismo, Roma 1956, 73; L. Wiesinger, I fenomeni occulti, Roma 1956.

J. Aumann

CORPO. (inizio)

I. Status quaestionis. L'interesse per il c., nel nostro mondo, è un fatto assodato. Grosso modo si può dire che questa rinnovata attenzione prenda le mosse dal profondo mutamento che ha investito la condizione umana: poiché il c. è il luogo dei rapporti dell'individuo con sé e con il suo mondo, diventa pure l'ambito in cui si evidenziano sia la crisi dell'esistenza e dei suoi significati sia l'emergere di una diversa coscienza di sé a partire dalla quale vivere, incontrarsi, completarsi. Il c. si propone così tanto come la cifra di una fatica nella comprensione della vita quanto come l'epifania di nuove possibilità di libertà.

La comprensione del c. è, quindi, un'importante esperienza culturale, profondamente correlata al sistema dei rapporti sociali: là dove l'ideologia efficientista e consumista del nostro modello sociale ha perso il suo indiscusso consenso e ha fatto emergere critiche e ricerche alternative, anche il significato del c. si è fatto oscuro e oscillante, L'attenzione riservata, in certe epoche, ai temi della corporeità umana è, a mio parere, più l'indice di una crisi che di una valorizzazione, più l'espressione di un bisogno che l'apparire di nuove certezze. Le ambivalenze odierne circa la corporeità rispecchiano questa incertezza che rimanda le proprie scelte agli interrogativi, spesso irrisolti, sul senso della vita o sul valore dell'altro e della convivenza sociale. Da questa ambivalenza non si esce che cercando di decifrare il dato culturale e, per i credenti, interrogandosi sul ruolo che vi ha giocato e vi gioca la fede cristiana.

La nostra cultura ha ormai abbandonato ogni forma di dualismo: in particolare si è lasciata alle spalle tanto il positivismo che pensava l'intero essere umano come un organismo biologico, come una macchina, dove la realtà della coscienza era del tutto secondaria, quanto l'idealismo che riconduceva la verità dell'uomo alla sola coscienza declassando il c. a puro oggetto di conoscenza. L'attuale antropologia considera la persona come un tutto e coglie l'originalità dell'uomo nell'apertura al mondo della sua libertà intelligente, la weltoffenheit, apertura mediata appunto dal c. Il c. umano è un modo particolare di essere al mondo, del tutto diverso da quello delle cose ignare di sé e di quanto le circonda. Il c. umano è un c. vissuto, abitato da una intenzionalità, reso luogo originario della manifestazione e della comunicazione della interiorità umana a ciò che è fuori, a ciò che è altro. Il mio c. sono io, nel mio agire e vivere. Proprio qui, però, emergono i problemi. E certo esatto, ma anche soltanto formale, indicare il particolarissimo rapporto del mio c. con la mia libertà; astenersi però dal precisarne i contenuti è operazione rinunciataria che lascia spazio alle peggiori confusioni. In particolare, bisogna pensare fino in fondo il nodo, carico di contraddizioni, che oppone l'aspirazione umana verso l'Assoluto e l'infinito alla franca ammissione della finitudine e della fugacità della materia e del c. Schopenhauer vi scorgerà il dramma dialettico di un'armonia e di una lacerazione da comporre nella sintesi superiore della volontà; Nietzsche vi coglierà l'espressione di un'affermazione della vita al cui significato bisogna mantenersi fedeli; Blondel vi troverà la base per fondare un discorso sulla speranza. In realtà, la franca ammissione del limite della corporeità non è in contrasto con il pieno recupero del suo valore e della sua importanza, anche se ne impedirà ogni assolutizzazione. Occorre saper introdurre una Trascendenza ed un'apertura dello spirito umano all'Assoluto che non solo non contrastino la valorizzazione del mondo e del c. ma, pur nella coscienza dei loro limiti, la comportino e la esigano. Dovrebbe essere questo il compito della fede.

II. Nell'esperienza della fede cristiana. Al di là delle questioni storiche che colgono il complesso rapporto di dialogo e di conflitto della fede cristiana con la cultura ellenista e la civiltà borghese, bisogna riconoscere la singolare prospettiva del pensiero biblico: la salvezza è una salvezza incarnata, è una salvezza dentro e con il c. Caro cardo salutis, scriverà Tertulliano ( 220 ca.). Legato alla storia della salvezza, il c. trova la sua vera dimensione quando è spiegato alla luce della creaturalità che porta insita in se stesso: diventa il segno di un'esistenza donata, dove la grammatica della vita corporea non rimanda solo alla scienza o alla ragione ma, innanzitutto, a Dio e al suo dialogo con noi.

Molto di più, il c. va spiegato in rapporto al Verbo fatto carne: evento e sorgente della salvezza umana, il c. di Cristo proclama la grandezza della comunione a cui Dio ha chiamato ogni uomo e la anticipa come segno e promessa di grazia per tutti. Vivere la corporeità è, per il credente, vivere un progetto di vita dove l'asse della finitezza umana si apre oltre se stesso, si apre a un orizzonte che oltrepassa e supera le possibilità umane. Il c. è per il Signore e il Signore è per il c. (cf 1 Cor 6), dirà sinteticamente Paolo. Certo, anche il credente conosce l'opacità e la chiusura, la ribellione e la lacerazione del c. di morte di cui parla Rm 7,15-25 ma, ugualmente, rimane fermo che Cristo ha chiamato e chiama l'uomo ad una trasformazione e ad una glorificazione del suo c. La redenzione non inchioda il c. al suo peccato ma, smascherando l'inganno di una creatura chiusa a Dio, riporta ciò che è corporeo al suo vero e definitivo senso. Solo qui l'ambivalenza del c. cessa definitivamente. Quest'apertura della corporeità a Cristo non appella ad una logica di eternità che ignori o annulli la dinamica storica: intende, piuttosto, proporre a tutti il dato basilare della fede, cioè che la pienezza della vita dev'essere accolta e riconosciuta, non invece autonomamente costruita. Per questo motivo, la fede non può che opporsi ad una prevaricazione del c. che rinchiuda la vita nel solo orizzonte biologico o, comunque, terreno: orientare il c. al disegno di Dio è l'impegno di una fede che lo mette in rapporto con quella parola e quei gesti che lo trascendono, che lo incamminano verso orizzonti nuovi. E questo lo spazio dei sacramenti che assumono la vita, il matrimonio, la malattia e la morte nel quadro nuovo della comunione con Dio; è questo lo spazio dell'ascesi e della verginità per il regno, soprattutto è questo lo spazio della grande speranza che la risurrezione della carne fa balenare davanti a tutti i credenti.

III. La trasfigurazione del c. Questo rinnovamento e questa trasfigurazione del c. non devono venir presentati come una rinuncia o una rottura, come un'opposizione o una discontinuità ma, nemmeno, devono venir fatti passare come il termine naturale o il frutto maturo del cammino umano. La chiave interpretativa di questa trasfigurazione del c. va indicata nell'agape di Dio: non basta parlare di una unità psico-fisica dove la sensibilità e gli atteggiamenti corporei sono, come è ovvio, investiti e modificati dall'esperienza intima ed interiore della persona, ma occorre riconoscere la forza di un Amore donato che configura profondamente e radicalmente a Cristo. Configura, cioè, a un movimento di vita che si propone espressamente la kenosis, lo svuotamento di sé per amore del prossimo e per il servizio al regno fino a mettere fiduciosamente nelle mani di Dio il proprio destino ultimo (cf Lc 23,46). Queste dinamiche cristologiche, espressive dell'agape divina non possono mai venir saltate: sono la base di ogni vera esperienza cristiana del proprio c. Abbandonandosi ad esse, si entra nella comunione con Cristo e da lui siamo introdotti in quella esperienza dell'Abbà che è sì frutto della fede, ma fa vivere l'affidarsi, cioè il gustare e vedere quanto è buono il Signore.

In ogni caso, questa eventuale esperienza corporea è puro dono: la sua novità altro non sarebbe che l'anticipo di ciò a cui il Signore condurrà la nostra comunione con lui. Come questa comunione non cancella il morire umano ma lo riempie dell'opera del Signore Gesù dandogli un significato completamente nuovo, così avverrà per il c.: i suoi limiti saranno esibiti come i segni della passione nel Risorto, come i segni di una finitudine trascesa e ricolmata di novità da Dio. Di questa novità, avvertiamo la presenza nella singolare comunicazione del Risorto con i suoi discepoli od in ciò che le vite dei grandi mistici narrano circa le loro esperienze corporee. E però qualcosa che solo la risurrezione finale inaugurerà per sempre e davvero in noi. Intanto, qui ed ora, si può recuperare il c., tempio dello Spirito, nell'unità psico-fisica della persona, tesa a rapportarsi a Dio in tutta la sua interezza. I mistici di tutti i tempi testimoniano la trasfigurazione del c., dono ma anche frutto di ascesi, a volte, severa, sempre, fiduciosa.

Bibl. Aa.Vv., Le corps et la vie spirituelle, in Carmel, 77 (1955) 3, tutto il numero; Aa.Vv. Il corpo in scena, Milano 1983; Aa.Vv., Corpo e cosmo nell'esperienza morale, Brescia 1987; S. Acquaviva, In principio era il corpo, Roma 1977; P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Torino 1992; L. Casini, La riscoperta del corpo, Schopenhauer Feuerbach Nietzsche, Roma 1990; V. Fumagalli, Solitudo carnis. Vicende del corpo nel Medioevo, Bologna 1990; U. Galimberti, Il corpo, Milano 1983; P. Gianfranceschi, Il senso del corpo. Segni, linguaggio, simboli, Milano l986; Giovanni Paolo II, Teologia del corpo, Roma 1982; D. Gorce, s.v., in DSAM II, 2338-2378; V. Melchiorre (cura di), Il corpo, Brescia 1984; Id., Corpo e persona, Genova 1987; M. Merleau-Ponty, Il corpo vissuto, Milano 1979; J.B. Metz, Caro cardo salutis, Brescia 1968; G. Moroni, Il corpo e la preghiera, Bologna 1976; A. Motte, La vie spirituelle dans la condition charnelle, Paris 1968; M. Raveri, Il corpo e il paradiso. Esperienze ascetiche in Asia orientale, Venezia 1992; C. Rocchetta, s.v., in DES I, 634-646; Id., Per una teologia della corporeità, Torino 1990; E. Schweizer, Sôma, in GLNT XIII, 690-757; S. Spinsanti, s.v., in NDS, 295-318; Id., Il corpo nella cultura contemporanea, Brescia 1983; S. Spinsanti - R. Di Menna, Per una spiritualità del corpo, Brezzo di Bedero (VC) 1983.

G. Colzani

CORPO MISTICO. (inizio)

I. La Chiesa, come Corpo mistico di Cristo costituiva l'esordio dello schema De Ecclesia, presentato al Concilio Vaticano I, ma che non ebbe seguito, perché tale idea appariva tanto astratta, misticheggiante e metaforica da mettere in pericolo il carattere sociale e visibile della Chiesa. Segno evidente che già si era avverato un certo distacco tra ecclesiologia e teologia spirituale. Però, la dottrina del C. era riemersa soprattutto per opera di Leone XIII, che con le sue encicliche Satis cognitum (1896) e Divinum illud munus (1897) aveva posto in risalto l'azione dello Spirito che anima la Chiesa. Il dibattito teologico, che già nel secolo scorso aveva sottolineato la complessa realtà divina e umana della Chiesa, guidata dallo Spirito nel suo itinerario storico verso traguardi sempre nuovi nella propria vita e nella sua autocomprensione, giunse ad affermare che la dottrina del C. costituisce, nella sua dimensione cristologica, il centro dell'ecclesiologia e persino una vera e propria definizione della Chiesa. Di qui l'emergere di varie tendenze che non sempre si contennero nei debiti limiti. Alcuni presentando la Chiesa come un organismo vivo, che è animato dallo Spirito e unifica realmente i battezzati con Cristo, relegavano in secondo piano i vincoli sociologici (E. Mersch, C. Feckes, A. Wikenauser, W. Köster). In questo orientamento misticheggiante, antiintellettualistico e antigiuridico K. Pelz, soffermandosi sugli effetti della comunione eucaristica, concepì il rapporto tra Cristo e la sua Chiesa addirittura come " unione secondo natura ", " unità della carne ". R. Guardini vide nella Chiesa la " vita nuova ", che è suscitata nell'umanità dalla grazia e nella quale trovano il loro compimento, in pieno equilibrio, il fattore personale e quello comunitario-interpersonale dell'uomo. Tra i seguaci di questo orientamento personalista, qualcuno, sotto l'influsso di tesi unilaterali della sociologia moderna, delineò il " corpo ecclesiale " come pura realtà sociologica, prescindendo dalla sua origine e fine soprannaturali. Altri teologi, tra cui Mersch, ricollegandosi alla prospettiva agostiniana del Christus totus e alla tradizione patristica greca e latina, considerarono il " corpo di Cristo " come realtà centrata sulla grazia e comprendente tutti gli esseri razionali, inclusi i giusti dell'AT e gli angeli. Ora, se non si tiene conto anche dei vincoli visibili di unione, si corre il rischio di restringere il " corpo di Cristo " alla realtà interiore della Chiesa e, dissociando la Chiesa spirituale dalla Chiesa istituzionale, si affermerebbe che l'appartenenza al C. non coincide con l'appartenenza al corpo visibile della Chiesa.

Infine, i sostenitori della tendenza corporativa descrivono la Chiesa come un " corpo " costituito da varie membra e funzioni sociali, unite però da vincoli interni e finalità comuni, che ha origine da Cristo ed è, in modo misterioso, vivificato dal suo Spirito. Tale organismo religioso, universale e sociale, attua la missione di Cristo, profeta, sacerdote e re, sotto l'autorità del vicario di Cristo e con la collaborazione, con i ministri ordinati, di tutti i battezzati secondo i vari stati voluti da Cristo. Di conseguenza, il C. di Cristo s'identifica con la Chiesa cattolica romana. In un momento turbinoso per la storia della Chiesa e del mondo, il 29 giugno 1943, Pio XII prese posizione di fronte: al razionalismo, che ritiene assurdo quanto trascende le forze dell'ingegno umano; al naturalismo volgare, che riconosce nella Chiesa di Cristo solo vincoli giuridici e sociali (cf Mystici Corporis 9) e la confonde " con altre istituzioni umane fornite di norme disciplinari e riti esterni, ma senza comunicazione di vita soprannaturale " (n. 62); all'esagerato misticismo, " il quale falsifica la Scrittura, sforzandosi di rimuovere gli invariabili confini tra le cose create e il Creatore " (n. 9), quindi unisce e fonde " in una stessa persona fisica il divin Redentore e le membra della Chiesa ", attribuendo agli uomini caratteri divini e assoggettando Cristo a errori e debolezze umane (n. 9); o immagina " arbitrariamente la Chiesa quasi nascosta e del tutto invisibile " (n. 62); o sogna " una Chiesa ideale, una certa società alimentata e formata di carità, cui (non senza disprezzo) oppone l'altra che chiama giuridica " (n. 63); o pensa " la Chiesa come se non potesse né raggiungersi né vedersi, quasi che fosse una realtà ’pneumatica' come si dice, per la quale molte comunità di cristiani, sebbene vicendevolmente separate per la fede, tuttavia sarebbero congiunte fra loro da un vincolo invisibile " (n. 4); o all'insano quietismo, " col quale tutta la vita spirituale dei cristiani e il loro progresso nella virtù vengono attribuiti unicamente all'azione del divino Spirito, escludendo cioè e lasciando da parte la nostra debita cooperazione " (n. 86). In un ambito teologico e pastorale non del tutto esente da incertezze o possibilità di equivoci, Pio XII sentì il dovere di esporre la dottrina del C. e la nostra unione in esso con Cristo " secondo la divina rivelazione e la tradizione ecclesiale.

II. La dottrina sulla Chiesa quale corpo di Cristo appartiene a Paolo, che in 1 Cor 11,16-17 stabilisce un rapporto profondo tra il corpo eucaristico e il corpo ecclesiale: comunicando al primo, i discepoli del Signore sono trasformati in questo corpo, divenendo una unità che trascende ogni distinzione di tipo religioso, sociale e biologico (cf Gal 3,27-28). Tale unità dei credenti in Cristo non è qualcosa di puramente spirituale, quindi non sperimentabile. Alla luce della concezione ebraica di " corpo ", l'espressione paolina implica una sua concreta visibilità. In 1 Cor 12,12-31 l'apostolo sottolinea la diversità e la complementarietà che, in virtù del dono dello Spirito nel battesimo, esistono tra i membri di questo corpo. In altri passi (cf 1 Cor 11,1; 12,26; 2 Cor 4,10-12.15), la Chiesa è considerata luogo di scambio vitale tra Cristo e i battezzati, mentre soprattutto nelle lettere agli Efesini e ai Colossesi Cristo è visto come lo sposo, il principio direttivo e il capo, che unifica e vivifica mediante il suo Spirito, dell'unico corpo, in cui si è inseriti con la fede e il battesimo. La denominazione " C. di Cristo " è emersa nella tradizione patristica per designare il corpo eucaristico del Signore e solo all'inizio del secondo millennio, per dissipare ogni equivocabilità sulla presenza reale di Cristo nell'Eucaristia, l'espressione " corpo vero di Cristo ", sino allora applicata al corpo ecclesiale, fu riservata al corpo eucaristico di Cristo e l'aggettivo " mistico " dal corpo eucaristico passò ad additare la Chiesa.

III. Pio XII in rapida sintesi tratta della Chiesa come: 1. corpo, cioè comunità visibile, indivisa, costituita da membra con diverse funzioni, ma coordinate organicamente e gerarchicamente, dotata di mezzi di santificazione e comprendente anche peccatori (nn. 14-23); 2. Corpo di Cristo, che ne è il fondatore, il capo, il sostentatore e il salvatore (nn. 24-57), per cui " il divin Redentore costituisce col suo corpo sociale una sola persona mistica " (n. 67) e la Chiesa " sussiste quasi come una seconda persona di Cristo " (n. 52). La cooperazione dei pastori e dei fedeli (n. 43), richiesta dall'unione stessa di Cristo con la Chiesa, non può essere intesa " come se appartenesse alla Chiesa quell'inafferrabile vincolo con cui il Figlio di Dio assume un'individua natura umana " (n. 53). La Chiesa non è una " incarnazione continuata " né le singole membra del corpo di Cristo sono menomate nella loro libertà e autonomia. Anzi, il Capo dona al suo Corpo i suoi beni e la sua stessa vita, perché ne sia permeato, alimentato e sostenuto, e ciascun membro, secondo il posto che in esso occupa, porti molto frutto. 3. C. di Cristo, benché distinto dal corpo fisico di Cristo, nato da Maria, e dal suo corpo eucaristico, mentre l'unione dei fedeli con Cristo in questo unico corpo va distinta da ogni unione fisica o morale. Essa appartiene al mistero non solo dell'amore eterno con il quale il Figlio del Padre " già prima dell'inizio del mondo... ci ha stretti a sé " (n. 75), ma anche del suo amore " storico " per noi, con cui " ha presenti e congiunte a sé tutte le membra della Chiesa, in modo molto più chiaro e amorevole di quello con cui una madre guarda suo figlio e se lo stringe al seno, e con cui un uomo conosce e ama se stesso " (n. 76).

Richiamate le immagini dell'unione sponsale e dei tralci con la vite e la tensione di tutto il corpo sociale verso un unico fine, il pontefice ribadisce che questa meta è la santificazione delle membra dello stesso corpo e trova la sua fonte nel mistero trinitario: " Il beneplacito dell'eterno Padre, l'amabile volontà del nostro Salvatore e specialmente l'interna ispirazione e l'impulso dello Spirito Santo " (n. 68). In una società visibile qual è la Chiesa non mancano vincoli di unità, detti " vincoli giuridici ", esteriori come la professione dell'unica fede, la partecipazione agli stessi sacramenti e l'osservanza delle leggi della Chiesa sotto l'autorità del successore di Pietro, ed interiori derivanti dalla fede, dalla speranza e dalla carità, con le quali ci uniamo al Padre nel modo più stretto (cf nn. 70-73) e a Cristo, che " è in noi per il suo Spirito che ci comunica e per mezzo del quale egli talmente agisce in noi da doversi dire che qualsiasi realtà divina operi lo Spirito in noi, è operata anche da Cristo " (n. 77). Così " tutti i doni, le virtù e i carismi che si trovano eminentemente, abbondantemente ed efficacemente nel Capo derivano in tutti i membri della Chiesa e in essi si perfezionano di giorno in giorno secondo il posto di ciascuno nel C. di Gesù Cristo " (n. 78). L'unione di questo corpo raggiunge su questa terra il grado più alto nell'Eucaristia, " che ci dà lo stesso autore della grazia santificante " (n. 83). Maria, madre del Capo quanto al corpo, per la sua partecipazione all'opera redentrice è divenuta, " quanto allo spirito, madre di tutte le sue membra " (n. 108). Questi brevi cenni ci fanno constatare che la Mystici Corporis ha sintetizzato un secolo di riflessione mariologica e, basandosi sulla impostazione societaria della Chiesa, ne equilibra i tratti con la nozione biblica e teologica del corpo di Cristo. Contro tendenze misticistiche continua a sottolineare il carattere sociale e visibile della Chiesa, e a concezioni di tipo razionalistico, sociologico o quasi esclusivamente istituzionali, contrappone una visione equilibrata, in cui l'aspetto giuridico e quello caritativo non restano estrinseci l'uno dall'altro, ma " si completano e perfezionano a vicenda (come in noi il corpo e l'anima) e procedono da un solo identico Salvatore " (n. 63). L'impostazione cristologica e pneumatologica dell'enciclica è innegabile e, anche se in essa si afferma che " per definire e descrivere " la Chiesa di Cristo non esiste nulla " di più nobile, grande e divino " dell'espressione " corpo mistico di Cristo " (n. 13), non si vuole attribuire a questa una funzione esclusivistica. Si reagisce contro coloro che l'avevano relegata in uno " stadio pre-teologico " preferendole la nozione di popolo di Dio, il cui fondamento biblico e patristico sarebbe molto più fondato. Certo la formula " C. di Cristo " è capace di rinviarci al mistero della Chiesa senza indulgere a illusori misticismi, perché Pio XII avvertiva che lo stesso Paolo, " sebbene congiunga fra loro con mirabile fusione Cristo e il Corpo mistico, tuttavia oppone l'uno all'altro come lo Sposo alla Sposa " (n. 85). Non è possibile esprimere il mistero della Chiesa senza ricorrere a molteplici immagini e analogie che non potranno mai esaurirlo ed, anche se in qualche periodo storico qualcuna di esse può sembrare più comprensiva e idonea ad indicare la missione della Chiesa, ogni nozione va necessariamente integrata con le altre, senza alcuna contrapposizione.

IV. Il movimento liturgico, biblico, patristico ha contribuito enormemente al progresso della comprensione della Chiesa, che è confluita in misura notevole nella Costituzione Lumen Gentium, ponendo in risalto la dimensione sacramentale e comunionale della Chiesa, il ruolo dei sacramenti, specie dell'Eucaristia, per la sua edificazione, la sua natura divina e umana, il rapporto tra carisma e ministeri, ecc. Il contesto storico dell'enciclica Mystici Corporis e della Lumen Gentium sono ben diversi: la prima in una sintesi di elementi biblici, teologici e pastorali, ha presentato la dottrina della Chiesa come C., mettendo dei punti fermi dinanzi al dibattito, che continuò anche negli anni successivi. Tale dottrina trovò accoglienza ancora agli inizi degli anni ’60, tanto che la Commissione dottrinale preconciliare elaborò una presentazione della Chiesa quale realtà viva proprio mediante la nozione del C. Ritirato quel progetto e riscuotendo crescente interesse l'altra nozione biblica di " Popolo di Dio ", alla dottrina del C. fu riservato un posto di tutto rilievo tra le altre figure e immagini della Chiesa (LG 7). Contro ogni scelta arbitraria è stato di recente autorevolmente richiamato che " alcune visioni ecclesiologiche palesano un'insufficiente comprensione della Chiesa in quanto mistero di comunione, specialmente per la mancanza di un'adeguata integrazione del concetto di comunione con quelli di popolo di Dio e di Corpo di Cristo, e anche per un'insufficiente rilievo accordato al rapporto tra la Chiesa come comunione e la Chiesa come sacramento ".1

VI. Chiesa-salvezza. La Mystici Corporis non ha tralasciato di trattare il problema secolare del rapporto tra l'appartenenza alla Chiesa e la salvezza. Dopo aver precisato che Cristo comunica la salvezza a quanti formano con lui un solo Corpo, la Chiesa, che preesiste ai singoli e alla quale questi sono aggregati mediante la fede, i sacramenti e l'obbedienza alla gerarchia e non sono scomunicati, identifica il C. con la Chiesa cattolica. Ciò è vero se si usa il concetto patristico di " corpo di Cristo " per indicare la comunità di quanti, mediante la fede, i sacramenti e la carità, comunicano fra loro. Però non si può restringere l'azione salvifica di Cristo in un'unica Chiesa visibile. La Lumen Gentium (n. 8) prendendo l'avvio dalla Chiesa come mistero, cioè piano eterno e salvifico realizzato dal Dio Uno e Trino visibilmente nella storia, considera i due aspetti della Chiesa come società gerarchica e C. di Cristo, assemblea visibile e comunità spirituale, realtà terrestre e comunità ornata di doni spirituali, non identici né contrapposi, ma inerenti l'uno all'altro e convergenti nel formare la complessa realtà dell'unica Chiesa. In questa visuale l'unica Chiesa di Cristo continua ad esistere e in concreto si trova (subsistit in) nella Chiesa cattolica. Sostituendo il categorico " est " della Mystici Corporis ed evitando ogni interpretazione esclusivistica della identificazione del C. con la Chiesa cattolica, il Concilio intese solo riconoscere l'esistenza di fattori di verità e di santità al di fuori di essa. Adoperando il concetto più ampio di " popolo di Dio " e tenendo presenti " elementi o beni, dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e vivificata " (UR 3), poté affermare che, anche al di fuori della Chiesa cattolica romana, si trovano " parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni della Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica " (LG 5).

In questa prospettiva si spiega pure come, mentre l'enciclica di Pio XII ammette che in caso d'ignoranza invincibile basta per la salvezza il voto per lo meno implicito della Chiesa, la Lumen Gentium al n. 13 parla di vario modo di " appartenenza " o " ordinamento " di tutti gli uomini al popolo di Dio, al n. 14 tratta di " incorporazione piena " alla Chiesa, al n. 15 dichiara che " la Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta con coloro che, battezzati, sono sì insigniti del nome cristiano, ma non professano integralmente la fede o non conservano l'unità di comunione sotto il successore di Pietro ". In maniera più esplicita l'Unitatis Redintegratio al punto 3 insegna che " quanti credono in Cristo ed hanno ricevuto debitamente il battesimo, sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica ". La Mystici Corporis considera fuori della Chiesa solo i colpevoli di scisma, eresia ed apostasia; la Lumen Gentium al n. 14, subordinando la piena incorporazione all'avere lo Spirito di Cristo, cioè la grazia, parla dell'appartenenza dei peccatori alla Chiesa col " corpo ", ma non col " cuore ".

Il n. 7 della Costituzione sulla Chiesa sintetizza la dottrina paolina e teologica sulla Chiesa come Corpo di Cristo, mettendo in evidenza che Cristo incorpora e assimila a sé nella Chiesa mediante i sacramenti, specie il battesimo e l'Eucaristia, producendo una molteplicità di membri, doni e funzioni senza scapito dell'unità, per la presenza unificatrice del suo Spirito. Il Signore risorto, quale capo del suo corpo e in forza del suo primato universale, conforma a sé le sue membra e promuove l'incremento della sua Sposa mediante il suo Spirito, che incessantemente la vivifica, unifica, ringiovanisce e dirige. L'espressione " corpo di Cristo " si è dimostrata capace di rendere ragione dell'unità della Chiesa e di tener conto della realtà storica della divisione tra i cristiani; di ammettere sia la sconfinata capacità espansiva della grazia sia la sua comunicazione concreta mediante i sacramenti; di suscitare la vita spirituale e la carità operosa; di conciliare la libertà personale con la comunione ecclesiale, l'autorità gerarchica e la spontaneità carismatica. Al Concilio ci si chiese se l'immagine del C. non fosse piuttosto ristretta per costituire il punto di partenza per precisare le varie forme di appartenenza alla Chiesa, ormai esistenti nell'intrico della storia. Il concetto di " popolo di Dio " apparve più ampio e flessibile e ci si attenne ad esso per descrivere il rapporto di " collegamento " dei cristiani non cattolici e quello di " ordinazione " dei non cristiani alla Chiesa cattolica. Esso è stato adoperato, quindi, come " ponte ecumenico ". Però, nota giustamente il card. J. Ratzinger, " i cristiani non sono semplicemente popolo di Dio. Da un punto di vista empirico, essi sono un non-popolo (...). Il non-popolo dei cristiani può essere popolo di Dio solo con l'inserimento in Cristo, Figlio di Dio e Figlio di Abramo. Anche se si parla di popolo di Dio, la cristologia deve restare al centro dell'ecclesiologia e la comunione ecclesiale va di conseguenza considerata a partire dai sacramenti del battesimo, dell'Eucaristia e dell'ordine ".2

VII. L'immagine di Corpo di Cristo aiuta ad esprimere e a vivere adeguatamente: 1. la realtà della grazia, in quanto illustra l'accoglienza da parte di Cristo e l'intima unione che stabilisce tra lui e i credenti in senso non soltanto ideologico e morale, ma anche effettivo perché, assumendo il Corpo eucaristico di Cristo, si diventa membri del suo Corpo ecclesiale; 2. la comunione di amore, che vige tra gli uomini dopo che Cristo, con movimento espansivo, si è identificato con ciascuno di loro e li ha chiamati tutti a confluire in unità di amore efficace con lui e con gli altri fratelli; 3. la spiritualità liturgica, perché l'edificazione della Chiesa si attua con la preghiera incessante, la proclamazione della parola e la celebrazione del " memoriale " di Cristo nei sacramenti, specie nell'Eucaristia! Tutto ciò va tenuto presente per decidere chi è membro del Corpo di Cristo e chi non lo è ancora; chi vi partecipa attivamente e chi con indolenza; chi lo incrementa e chi lo priva di energie. La corrispondenza tra fede, culto e vita promuove l'unità della Chiesa e santifica l'uomo; 4. la sacramentologia, per cui, esclusa ogni concezione ritualistica, oggettivistica e privatistica dei sacramenti, essi vanno considerati e vissuti come azioni della grazia di Cristo mediante la Chiesa; perciò, nella modalità loro propria, educano, vivificano e rigenerano l'uomo. C'è stretta analogia tra la struttura del sacramento e quella della Chiesa: l'uno è costituito dalla parola e dall'elemento materiale; l'altro dalla Parola di Dio che convoca e istruisce la comunità, e dal sacramento che la corrobora e trasforma in Corpo di Cristo; 5. il ministero, perché le funzioni di insegnare, santificare e guidare vengono ricondotte alla loro radice sacramentale, in cui sono sottintesi i rapporti di regalità, comunione e servizio. L'ordinamento giuridico della Chiesa, che risente nella sua concretizzazione positiva dei vari periodi storici e ambiti culturali, è conseguenza, non sorgente della vita interiore della Chiesa; non deve soverchiare ciò che è più essenziale e sorgivo. Lo spirito di fede deve diventare visibile nella vita quotidiana e l'amore, più che la fredda legge, esige l'ordine nella comunione ecclesiale.

Conclusione. Il doppio vincolo della Chiesa a Cristo e all'uomo esige il rispetto della sua dimensione visibile e istituzionale, oltre che l'esplorazione e l'approfondimento della sua dimensione spirituale. La presenza, in senso analogico, delle caratteristiche di Cristo nella sua Chiesa, consente di vedere l'innesto del Capo divino nel resto umano del Corpo, sulla scia dell'assunzione della natura umana da parte del Verbo, sì da formare " una mistica persona ". Nella Chiesa, comunque, la " persona " è totalmente divina solo nel suo Capo, Cristo, mentre il suo Corpo non ha ancora raggiunto la sua perfezione e glorificazione. La Chiesa è in definitiva C. di Cristo perché vive nei confronti del suo Signore un rapporto di identificazione reciproca, perché egli le garantisce la definitiva e totale fedeltà del suo amore, mentre i battezzati non rispondono con altrettanta totalità, solerzia e perseveranza. La Chiesa è già nuova alleanza, germe del regno e sposa di Cristo, ma non ancora regno definitivo di Dio e sposa senza rughe e senza macchie (cf Ef 5,27). " Dalla virtù del Signore risuscitato trova forza per vincere con pazienza e carità le sue interne ed esterne afflizioni e difficoltà e per rivelare al mondo con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi sarà manifestato nella piena luce " (LG 8).

Note 1 Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa come comunione (28 maggio 1992), n. 1; 2 L'ecclesiologia del Vaticano II, conferenza tenuta a Foggia, in L'Osservatore Romano del 25.10.1985.

Bibl. A. Anton, El misterio de la Iglesia. Evolución historica de las ideas eclesiologicas, I, Madrid-Toledo 1986; P. Daquino, La Chiesa " corpo di Cristo " secondo S. Paolo, in RivBib 9 (1961), 112-121; K. Grossens, L'Eglise corps de Christ d'après saint Paul. Etude de théologie biblique, Paris 1949; R. Guardini, La realtà della Chiesa, Brescia 1967-1969; G. Hasenhüttel, Carisma. Principio e fondamento per l'ordinamento delle Chiese, Bologna 1973; W. Kasper - G. Sauter, Le chiese, luogo dello Spirito, Brescia 1980; E. Llamas - C. Laudazi, Comunione dei santi, in DES I, 581-587; H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Milano 1979; Id., Corpus mysticum. L'Eucaristia e la Chiesa nel Medioevo, Milano 1982; E. Mersch, Le Corps mistique. Etudes de théologie historique, 2 voll., Paris 1951; E. Mersch - R. Brunet, Corps mystique et spiritualité, in DSAM II, 2378-2403; H. Mühlen, Una mystica persona. La Chiesa come il mistero dello Spirito Santo in Cristo e nei cristiani: una persona in molte persone, Roma 1968; G. Philips, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della Lumen Gentium, Milano 1982; K. Rahner, L'appartenenza alla Chiesa... secondo la ’Mystici Corporis', in Id., Saggi sulla Chiesa, Roma 1966, 132-141; J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Brescia 1971; Id., Identificazione con la Chiesa?, in J. Ratzinger - K. Leheman, Vivere con la Chiesa, Brescia 1978, 9-30; R. Schnackenburg, La Chiesa del Nuovo Testamento. Realtà, interpretazione teologica, essenza e mistero, Brescia 1971; F. Sullivan, " Sussiste " la Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica romana?, in R. Latourelle (cura di), Vaticano II: bilanci e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), II, Assisi (PG) 1987, 811-824; Id., Il significato dell'affermazione del Vaticano II: la Chiesa di Cristo non " è " ma sussiste nella Chiesa cattolica romana, in RasT 29 (1988), 527-538; S. Tromp, Corpus Christi quod est Ecclesia, 3 voll., Roma 1946-1960.

A. Marranzini

COSCIENZA. (inizio)

I. Status quaestionis. " Non vi è operazione mistica al di fuori di una trasformazione vitale della c. ",1 così Ch.-A. Bernard sintetizza lo stretto rapporto tra esperienza mistica e c. testimoniato dai mistici.

A. Gardeil aveva già tentato di spiegare, nel 1927, il rapporto tra c. psicologica e conoscenza mistica nei termini di una " analogia (o identità) di struttura " tra l'" anima naturale " (la c. psicologica) e l" anima giustificata " (la conoscenza soprannaturale e mistica), individuandone il fondamento in " Dio che nella sua realtà sostanziale è presente nel fondo dell'anima non meno di quanto essa sia presente a se stessa ".2

La teologia manualistica ha, talvolta, definito " dilatazione della c. ",3 o, con linguaggio più tecnico, " iperestesia dello spirito e del cuore " 4 gli effetti che l'esperienza mistica produce. Essi consistono in una consapevolezza " delle operazioni, straordinarie, nuove, elevate " che accompagnano l'esperienza mistica, e dei " loro oggetti ", cioè della " realtà soprannaturale percettibile in modo nuovo ", anche nella forma della " sua privazione o carenza ".5

Diverse sono state, però, le interpretazioni di questi " oggetti ": il soprannaturale,6 la conoscenza immediata di Dio o il sentimento della sua presenza,7 la vita della grazia,8 il principio eo gli atti della vita soprannaturale 9 e, in epoca più recente, la rivelazione dell'" essere tripersonale " di Dio e della capacità degli uomini " di rispondergli, per la sua grazia, nell'amore ".10

II. Esperienza mistica e c. Le nuove acquisizioni della psicologia e della teologia richiedono, oggi, un approfondimento e una riformulazione del complesso rapporto tra esperienza mistica e c. In questa prospettiva appare indispensabile un'attenta rilettura dei testi mistici. Essi offrono alcuni punti di riferimento fondamentali: 1. L'inizio dell'esperienza mistica è comunemente caratterizzato da un cammino di purificazione che sembra condurre a una perdita della c. di sé, ma che, in realtà - come afferma un testo anonimo del sec. XIV - sfocia nell'" essere rivestito della consapevolezza di Dio ": " Ti dovrai denudare, spogliare e svestirti completamente di ogni conoscenza di te stesso, per essere rivestito, in virtù della grazia, della conoscenza di Dio in quanto tale "; 11 2. Ciò non comporta il rifiuto di sé, ma il rifiuto o il superamento di ciò che allontana da Dio: " Avrai dunque dentro di te quest'unico, struggente desiderio: non di non essere - sarebbe pazzia e disprezzo nei confronti di Dio -, ma di perdere completamente la consapevolezza e la c. del tuo io ",12 " vedi che non ci sia nulla che lavori nella tua mente e nel tuo cuore, se non Dio solo. Cerca di sopprimere ogni conoscenza e c. di qualsiasi cosa che sta al di sotto di Dio "; 13 3. I mistici utilizzano spesso un linguaggio che sembra alludere a una " perdita " o a un " annullamento di sé " di fronte alla trascendenza di Dio, ma, in realtà, quella esperienza conduce a una più profonda relazione con Dio; è ciò che appare per esempio - attraverso un sapiente uso degli avverbi e un progressivo rafforzamento dei pronomi personali - in questo testo di s. Bernardo di Clairvaux: " Perdere in certo modo (quodammodo) te stesso (te), come se (tamquam) non esistessi, e non avere più affatto la sensazione di te stesso (teipsum) e svuotarti di te stesso (temetipsum) e quasi (paene) annullarti è già un risiedere nel cielo, non è più seguire un sentimento umano ";14 4. Questa nuova e più profonda relazione con Dio consente al mistico di acquisire una più profonda c., allo stesso tempo, di sé e di Dio: " Arrivare a questo sentimento è essere deificato. Come una piccola goccia d'acqua entro una grande quantità di vino sembra perdere per intero la propria natura, fino al punto di assumere il sapore e il colore del vino, (...) così nei santi sarà necessario che ogni sentimento umano in una certa ineffabile maniera (quodam ineffabili modo) si liquefi e trapassi a fondo nella volontà di Dio ";15 come afferma sinteticamente anche l'Imitazione di Cristo: " Cercando soltanto te e con amore puro, ho trovato allo stesso tempo e me stesso e te ";16 5. Per quanto riguarda, in particolare, la c. morale, s. Tommaso d'Aquino chiarisce come l'esperienza morale predisponga alla vita contemplativa, ma non ne costituisca l'elemento essenziale: " Le virtù morali non appartengono essenzialmente (essentialiter) alla vita contemplativa, poiché il fine della vita contemplativa è la considerazione della verità. (...) Infatti, l'atto della contemplazione, in cui essenzialmente consiste la vita contemplativa, viene impedito dalla violenza delle passioni - che richiamano l'attenzione dell'anima dalle cose intelligibili a quelle sensibili - e dai tumulti esterni. Le virtù morali, però, impediscono la violenza delle passioni e calmano il tumulto delle occupazioni esterne, perciò, appartengono come predisposizioni (dispositive) alla vita contemplativa ".17

Note: 1 Ch.-A. Bernard, Conoscenza e amore nella vita mistica, in La Mistica II, 282; 2 A. Gardeil, La structure de l'âme et l'expérience mystique, II, Paris 1927, 91-92,124; 3 C.V. Truhlar, L'esperienza mistica, Roma 1984, 37; 4 J.-V. Bainvel, Introduction à la dixième édition, in A. Poulain, Des grâces d'oraison. Traité de théologie mystique, Paris 1922, XXXI; 5 C.V. Truhlar, L'esperienza..., o.c., 37; 6 Cf J.-V. Bainvel, Note à propos de la lettre de M. Saudreau, in RAM 4 (1923), 75-76; 7 Cf Ch.-A. Bernard, La conscience mystique, in Studia Missionalia, 26 (1977), 104-106; 8 Cf J.V. Bainvel, Nature et surnaturel, Paris 1903, c. II, n. 5-6; Id., Introdución..., o.c., XXX; 9 Cf J. de Guibert, Études de théologie mystique, Toulouse 1930, 89; 10 H. de Lubac, Préface, in La mystique et les mystiques, a cura di A. Ravier, Bruges 1965, 33; 11 Lettera di direzione spirituale, 8, in La nube della non-conoscenza e gli altri scritti, a cura di A. Gentili, Milano 1981, 361-362; 12 Ibid., 363; 13 La nube della non-conoscenza, c. 43; 14 S. Bernardo di Chiaravalle, Sul dovere di amare Dio, X, 27, cf C. Stercal, Bernardo di Clairvaux. Intelligenza e amore, Milano 1977; 15 Ibid., X, 28; cf anche s. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo 2,5; 16 Imitazione di Cristo, III, 8,9. 17 S. Tommaso d'Aquino, STh II-II, q. 180, a. 2.

Bibl. Ch.-A. Bernard, La conscience spirituelle, in RAM 41 (1965), 44l-466; Id., La conscience mystique, in Studia Missionalia, 26 (1977), 87-115; R. Carpentier, Conscience, in DSAM II, 1548-1575; E. Quarello, s.v., in DES I, 648-655; A. Valsecchi, s.v., in DTM, 148-164.

C. Stercal