HERVÉ CARRIER S.J

 

 

 

 

 

 

 

DIZIONARIO

DELLA CULTURA

PER L'ANALISI CULTURALE

E L'INCULTURAZIONE

 

 

 

 

 

LIBRERIA EDITRICE VATICANA

00120 CITTA DEL VATICANO

Titolo originale: Lexique de la Culture

pour l'analyse culturelle et l'inculturation

Gédit s.a.

Desclée, Tournai-Louvain-la-Neuve

Traduzione di Marisa Tiraboschi

Copyright 1997 Libreria Editrice Vaticana

00120 Città del Vaticano

Tel. (06) 698.95003 - Fax (06) 698.84716

ISBN 88-209-2418-8


PRESENTAZIONE

Questo Dizionario è rivolto a quel pubblico che sempre più si rende sensibile agli attuali mutamenti della cultura e delle culture. Come giungere ad interpretare l'evoluzione delle mentalità e delle istituzioni? L'utilità principale del Dizionario, come è suggerito nel sottotitolo, sarà precisamente quella di servire all'Analisi culturale e all'Inculturazione.

Il concetto di cultura è diventato una categoria privilegiata per comprendere le società e per guidare l'azione educativa, politica, religiosa. Il linguaggio corrente sottolinea l'originalità del discorso culturale. Ne sono testimonianza espressioni ormai diventate familiari: acculturazione, identità culturale, dialogo tra le culture, sviluppo culturale, politica della cultura, imperialismo culturale, evangelizzazione della cultura, inculturazione.

La presente opera non è un dizionario enciclopedico, o un lessico esauriente dei termini che riguardano la cultura. Essa è il risultato di una selezione suggerita dalle scienze umane. Il Dizionario si limita alle materie e non porta i riferimenti corrispondenti alle persone citate, rinviandole all'Indice.

La scelta delle parole-chiave e la trattazione che le riguarda sono desunte dalla sociologia culturale e dalla psico-sociologia. I termini sono stati scelti in funzione della loro utilità per l'analisi culturale, per lo sviluppo e per l'inculturazione.

Una sommaria classificazione delle parole-chiave indica l'orientamento pratico del Dizionario come lo illustrano, a titolo d'esempio, le seguenti categorie con i principali articoli che a loro si riferiscono.

La cultura come fatto umano specifico

Acculturazione, Antropologia, Beni culturali, Cultura, Civiltà, Coscienza collettiva, Etnologia, Identità culturale, Lingua e cultura, Patrimonio culturale.

La cultura nelle sue produzioni e creazioni

Arte, Educazione, Educazione permanente, Ethos, Famiglia, Ideologia, Lavoro, Scambi culturali, Scienza, Tempo libero, Università.

I mutamenti socio-culturali

Alienazione culturale, Città-campagna, Industrializzazione, Modernità, Pluralismo culturale, Rivoluzione culturale, Società dei consumi, Urbanizzazione.

Le forme dell'azione culturale

Animazione culturale, Comunicazione sociale, Ecologia, Industrie culturali, Obbiettivi culturali, Politica culturale, Politica della scienza, Sviluppo culturale, Turismo.

La cooperazione culturale internazionale

Carte, Convenzioni, Dichiarazioni, Diritti culturali, Mondialismo, Omologazione delle culture, UNESCO, Consiglio d'Europa, ALECSO.

Rapporti tra cultura e religione

Appartenenza religiosa, Catechesi e cultura, Civiltà dell'amore, Evangelizzazione della cultura, Inculturazione, Nuova evangelizzazione, Religione e cultura, Scienza e fede, Vaticano II e cultura.

I termini studiati corrispondono prevalentemente all'esperienza dell'autore, professore di sociologia, collaboratore di organismi internazionali, universitari e culturali, segretario, fino al 1993, del Pontificio Consiglio della cultura a Roma.

L'opera privilegia l'approccio fenomenologico dei problemi culturali e cerca di interpretarli nella loro dimensione umanistica, etica e cristiana.

L'indice delle materie e quello dei nomi delle persone permetteranno al lettore di reperire molte delle tematiche complementari studiate in occasione dei principali articoli del Dizionario. I numerosi rimandi tematici e bibliografici hanno lo scopo di facilitare la consultazione e lo studio personale.

Il Dizionario è stato elaborato pensando agli studenti e ai lettori interessati alla consultazione di una terminologia atta ad illuminare le loro ricerche e i loro impegni a profitto dello sviluppo culturale e dell'inculturazione.

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

Siamo lieti di poter offrire al pubblico italiano questo Dizionario che, come si può dedurre dalla sua Presentazione, ha il duplice prezioso carattere di portare l'impronta originale dell'unico Autore e di spaziare in orientamenti universalmente acquisiti dal mondo contemporaneo.

L'interpretazione dei fenomeni culturali presentati ha il raro vantaggio di porsi su di una linea scientifica che continuamente viene confrontata con i più recenti documenti del progetto in atto della nuova inculturazione del Vangelo.

Lo stile che l'A. usa è quello del maestro attento a tenere agganciati il rigore della ricerca scentifica e il calore di un'esposizione che non deve parlare solo all'intelligenza, ma scendere nell'intimo di chi legge e studia.

DIZIONARIO DELLA CULTURA

HERVÉ CARRIER S.J

 

 

A

B

 

Accordo culturale. (inizio)

Intesa ufficiale tra i governi per facilitare e promuovere gli scambi culturali tra due o più nazioni. L'intesa è oggetto di negoziati ed assume forme diverse: scambio di note informative, protocollo, firma di accordo ufficiale, dichiarazione, progetto di cooperazione, ecc. Le intese impegnano, in generale, i ministeri degli esteri e i ministeri interessati, soprattutto quelli della cultura, dell'educazione, delle ricerche e delle scienze, delle comunicazioni, della gioventù. Gli accordi culturali mirano, in generale, a facilitare lo scambio di professori e di studenti, le reciproche visite di artisti, la partecipazione a progetti di comune ricerca, la cooperazione nel campo dell'informazione, dell'editoria, della traduzione, della televisione, delle industrie culturali in genere. Questi accordi non sono indipendenti dagli obbiettivi che ogni paese persegue in politica internazionale, né dagli interessi economici collegati agli scambi culturali. I paesi s'impegnano reciprocamente, per esempio, ad acquistare libri, films, programmi televisivi, materiale didattico o informatico. Sono previste convenzioni per l'assegnazione di borse di studio o sovvenzioni per " stages " di ricerca. L'accordo culturale tra paesi di diverso sviluppo pone delicati problemi che non sempre evitano il senso di dipendenza da parte dei più poveri. Accade che questi accusino i paesi più ricchi di considerare gli scambi culturali come semplici progetti di carattere assistenziale. I nuovi tipi di convenzione culturale cercano di superare queste difficoltà, come, per esempio, la Convenzione di Lomé.

Vedi: Politica culturale. Sviluppo culturale. Scambi culturali, Dichiarazione, Carta culturale.

Bibl.: A. Girard 1982. P.M. Henry e B. Kossou 1985.

 

Acculturazione. (inizio)

Il concetto di acculturazione è usato dagli antropologi, dalla fine del secolo scorso, per descrivere i fenomeni d'assimilazione o di scambio culturali che intervengono tra due gruppi di tradizioni diverse in situazione di vita di continuo contatto. Il termine acculturazione è stato inizialmente piuttosto fluido, fino alla precisazione che ne è stata fatta e pubblicata da Robert Redfield et al. (1936) su richiesta del Social Research Council. Questa la loro definizione: " L'acculturazione indica i fenomeni che si producono quando gruppi di individui sono in continuo contatto tra loro e ne seguono cambiamenti nei modelli culturali di uno o di due gruppi ". Il testo inglese si legge così: " Acculturation comprehends those phenomena wich result when groups of individuals having different cultures come into continuous first-hand contact, with subsequent changes in the original cultural patterns of either or both groups".

La parola acculturazione è anche talvolta usata come sinonimo di socializzazione e significa allora l'identificazione e l'integrazione di un individuo in una cultura per educazione o a seguito d'immigrazione. In questo caso molti utilizzano il termine inculturazione che indica il modo con cui l'individuo assimila la cultura del proprio gruppo. Dal punto di vista psico-sociale, tuttavia, non è sempre facile distinguere esattamente i fenomeni d'inculturazione da quelli di acculturazione soprattutto quando le culture si compenetrano e s'influenzano reciprocamente. Questo è particolarmente evidente in una situazione di pluralismo culturale. Gli aspetti individuali e collettivi dell'integrazione culturale tendono allora a confondersi.

Il concetto di acculturazione è usato nello studio di numerosi fenomeni interculturali, quali le migrazioni, gli scambi e i conflitti culturali, la reciproca influenza fra tradizioni culturali e religiose, i cambiamenti culturali dovuti all'industrializzazione, all'urbanizzazione e ai mass-media.

Il campo di studio dell'acculturazione è ora più chiaramente tracciato e questo ha permesso di comprendere meglio ciò che accade quando gruppi di culture diverse entrano tra loro in rapporti prolungati. Si osservano allora importanti cambiamenti a livello dei valori, dei comportamenti, delle credenze e dei modi di vivere. Al limite, l'assimilazione di un gruppo con l'altro può praticamente essere totale, quando, per esempio, un gruppo minoritario adotta la lingua, le istituzioni e le caratteristiche culturali del gruppo dominante. L'acculturazione è particolarmente evidente tra gli immigrati che acconsentono di immedesimarsi nella cultura del paese che li ospita, casi tipici quelli degli Stati Uniti, dell'Australia, dell'Argentina. Ma anche qui esistono livelli diversi di identificazione e non è raro che discendenti di immigrati che hanno dimenticato la lingua d'origine e sembrano perfettamente assimilati alla maggioranza conservino, tuttavia, un profondo attaccamento ad alcuni dei propri valori tradizionali, quali le credenze religiose, i costumi familiari, le forme di vita comunitaria, di celebrazioni, di espressione artistica.

Spesso l'acculturazione è percepita come effetto di una dominazione subita, a seguito, per esempio, di una conquista, di un'annessione e del rapporto di disuguaglianza che s'impone allora come imperialismo culturale. Questi fenomeni si verificano prima di tutto tra gruppi dominati e dominanti che coabitano nella stessa area geografica. La nozione classica di acculturazione si riferisce soprattutto a quei gruppi umani che sono geograficamente vicini. Ma oggi la ricerca antropologica s'interessa ad una forma più larga di acculturazione prodotta dalla diffusione culturale oltre frontiera, resa possibile dai mezzi di comunicazione moderni. Con l'avvento dei mass-media l'acculturazione può ora prodursi senza che praticamente ci siano contatti diretti tra gli individui che appartengono alle diverse culture in interazione.

E in questo modo che i paesi occidentali, e particolarmente gli Stati Uniti, esercitano una profonda influenza culturale molto al di là delle proprie frontiere. Anche il Giappone ha un ruolo analogo nell'esportare non soltanto i propri prodotti, ma le sue tecniche di produzione, la sua cultura industriale, i prodotti della sua industria culturale. Questo tipo di acculturazione, generalizzandosi, tende all'avvento di una cultura mondiale segnata dalla modernità.

Occorre notare che il processo di acculturazione implica generalmente una certa reciprocità delle influenze subite da una cultura rispetto all'altra, anche se una di queste è in situazione dominante. E piuttosto raro che l'acculturazione si produca a senso unico. Nel processo di acculturazione si verifica, certamente, la ricettività di una cultura rispetto ad un'altra, ma si può osservare anche un processo di selezione, di combinazione, di rinforzo o di rigetto delle linee culturali. In questo scambio culturale, non bisogna minimizzare il ruolo degli individui con il loro prestigio, il loro potere e il loro ascendente.

Un gruppo di maggioranza potrà dare l'impressione di avere assimilato gruppi minoritari, ma molto spesso anch'essa sarà stata segnata dalla cultura di questi.

Questo fenomeno dà origine a una nuova forma di cultura composita e pluralista, o ancora ad un vero e proprio meticciato culturale, come accade nell'America del Nord e del Sud. Analogamente, gli stessi fenomeni si producono oggi tra i paesi ricchi e i paesi poveri, sempre più solidali per l'intensificarsi degli scambi economici, delle comunicazioni e delle migrazioni umane. Possiamo così vedere i valori e le attese del terzo mondo trasformare progressivamente le culture occidentali e molti sperano che queste si aprano ad una nuova cultura della solidarietà, arricchita sia dai valori dei popoli moderni che da quelli delle civiltà tradizionali.

Occorre, d'altra parte, riconoscere che l'acculturazione può effettivamente sfociare in un'assimilazione totale di un gruppo umano da parte di un altro, con l'oblio da parte delle persone assimilate della propria eredità culturale. Questo può prodursi per consenso comune a seguito di matrimoni misti, della scolarizzazione e dell'adozione di stili di vita comuni. Ma questa acculturazione unilaterale sarà percepita da altri come una minaccia e un'imposizione da combattere. Ciò che è in causa è l'identità dei gruppi e la loro sopravvivenza. Subire senza resistenza la dominazione culturale di un gruppo straniero può sfociare in una vera " deculturazione " ed anche nella scomparsa del proprio gruppo. La nostra epoca evidenzia che questi rischi di alienazione culturale suscitano un forte movimento di liberazione culturale. Possiamo notare che, anche in seno a questi antagonismi, le culture continuano ad influenzarsi reciprocamente e il processo di acculturazione si esercita ancora di frequente al di là delle apparenze. Questo ci mostra come il fenomeno di acculturazione si dispieghi in un'ampia zona dell'inconscio collettivo, rendendone, in questo modo, estremamente complessa l'analisi. Ne emerge una ragione in più per incoraggiare lo studio attento dei rapporti e degli scambi tra culture. I leaders politici, gli educatori, i pastori ne misurino tutte le implicazioni per lo sviluppo culturale di tutti i gruppi umani e per la pace tra le nazioni.

L'antropologia religiosa ha saputo utilizzare con profitto il concetto di acculturazione per l'analisi dei reciproci rapporti tra i sistemi religiosi e le forme di cultura. Un tema particolarmente fecondo della ricerca è l'interrelazione tra il cristianesimo e le culture. Molto presto ricercatori quali Wihelm Schmidt e Pierre Charles hanno compreso che i metodi di analisi dell'acculturazione potevano apportare una nuova luce allo studio dell'adattamento del lavoro missionario della Chiesa. Questo originale approccio suscita oggi approfondite ricerche tese a comprendere come il Vangelo possa incarnarsi nelle diverse culture. Molti autori preferiscono il termine inculturazione a quello di acculturazione per precisare più specificamente i rapporti particolari tra il Messaggio rivelato e le culture. Ma acculturazione e inculturazione rimangono termini che s'illuminano reciprocamente, come lo testimoniano le parole di Giovanni Paolo II alla Commissione Biblica: " Il termine acculturazione o inculturazione può essere anche un neologismo, ma esprime perfettamente l'uno degli elementi del grande mistero dell'Incarnazione ": 26 aprile 1979.

Dal punto di vista teologico, uno studio speciale sulla questione è stato preparato dalla Commissione Teologica Internazionale con la collaborazione del Pontificio Consiglio della Cultura e pubblicato col titolo: La fede e l'inculturazione (1988).

Diversi aspetti complementari dell'acculturazione sono trattati in altri articoli.

Vedi: Antropologia, Educazione ", " Famiglia ", " Inculturazione ".

Bibl.: M. Abdallah-Pretceille 1986. S. Abou 1981. S. Bochner 1982. R. W. Brislin 1990. P. Charles 1953, 1956. L. Gallino 1983. N. Garcia Canclini e R. Roncagliola 1988. A. Girard 1982. P.M. Henry e B. Kossou 1985. M. Herskovits 1938, 1955. J. Poirier 1968. R. Redfield et al. 1936, B.J. Siegel 1955. E. Spicer 1968. H. Malewska-Peyre et al. 1991. N. Thomas 1993.

 

Alecso. (inizio)

Questa sigla indica l'Organizzazione Araba per l'Educazione, la Cultura e la Scienza.

Il progetto risale al 1964, quando è stato adottato dalla Lega degli Stati Arabi. La finalità dell'Alecso è formulata nel primo articolo dei suoi Statuti: " L'obiettivo dell'Organizzazione è di vigilare tramite l'educazione, la cultura e le sciene, alla realizzazione, nelle diverse parti della Nazione Araba, dell'unità intellettuale, all'elevazione del livello culturale di questa nazione perché possa seguire il movimento della civilizzazione mondiale e contribuirvi positivamente".

L'Alecso ha iniziato la propria esistenza ufficiale in occasione della sua prima Conferenza ufficiale al Cairo nel 1970 e dopo che i servizi culturali del Segretariato della Lega degli Stati Arabi sono stati collegati alla nuova organizzazione. Nel 1970, l'Alecso aveva soltanto otto Stati membri. Nel 1981 tutti gli Stati Arabi, ed anche l'OLP, ne facevano parte. Il Libano vi aderirà nel 1991.

Le strutture dell'Alecso comprendono la Conferenza Generale, il Consiglio Esecutivo, il Direttore Generale e quattro Dipartimenti tecnici: il Dipartimento dell'Educazione, il Dipartimento della Cultura e delle Scienze Sociali, il Dipartimento delle Scienze naturali e della Tecnologia, il Dipartimento dei Servizi e del Sostegno ai Programmi.

Tra i programmi e i piani d'azione nel settore dell'educazione, segnaliamo in particolare una strategia per l'alfabetizzazione e l'educazione prescolare, la ricerca sull'insegnamento superiore. E da notare anche l'importanza data alla " promozione dell'educazione religiosa e della lingua araba ". Molti dei programmi gravitano su " i fondamenti dell'educazione islamica e dei precetti dell'educazione religiosa ".

Nel settore della cultura e delle scienze sociali l'Alecso si preoccupa di porre in valore il patrimonio scientifico arabo, l'archeologia araba, i manoscritti arabi ed islamici, il teatro arabo. L'Organizzazione s'interessa, in accordo con l'UNESCO, alla salvaguardia delle città storiche arabo-musulmane (vedi: Convenzione del Patrimonio Culturale) come alla celebrazione dei grandi avvenimenti islamici, per esempio, il decimoquinto secolo dell'Egira. Nel settore scientifico, l'Organizzazione ha intrapreso ricerche sull'ambiente, l'idraulica, l'energia nei paesi arabi e studia l'uso della lingua araba e del suo alfabeto nell'informatica.

L'Organizzazione persegue come obiettivo importante la promozione della lingua e della cultura araba e la loro diffusione all'estero. Particolare attenzione è data al patrimonio arabo in Africa e alla trascrizione delle lingue africane in caratteri arabi. Si procede alla formazione di specialisti per l'insegnamento dell'arabo a coloro che non lo parlano. L'Alecso stimola la cooperazione arabo-internazionale, particolarmente con gli organismi degli Stati Arabi, e le loro istituzioni specializzate, con gli Stati Africani, con la Comunità Europea, con le varie istanze delle Nazioni Unite, soprattutto con quelle dell'UNESCO.

In stretto vincolo con l'Alecso, diversi organismi specializzati operano in vari paesi: l'Istituto dei Manoscritti Arabi, creato nel 1946; l'Istituto delle Ricerche e degli Studi Arabi, fondato nel 1953; l'Ufficio di Coordinamento dell'Arabizzazione nella Nazione Araba, istituito nel 1961; il Centro Arabo delle Tecniche Educative, inaugurato nel 1975; l'Organizzazione Araba per l'Alfabetizzazione e l'Educazione degli Adulti, fondata nel 1967; l'Ufficio Regionale dell'Africa dell'Est, creata nel 1978; l'Ufficio per l'Ambiente del Mar Rosso e del Golfo di Aden, eretto nel 1980; vi sono inoltre altri istituti o centri regionali per l'alfabetizzazione e per la diffusione della lingua e della cultura araba.

Il principio ispiratore dell'Alecso si fonda sulla comunità di interessi degli Stati Arabi che si concepiscono come la Nazione Araba. L'Alecso tende a realizzare gli obbiettivi della Carta dell'Unità Culturale Araba il cui scopo principale è rendere concreto " il sentimento di parentela naturale vincolante tutti i figli della comunità araba, partendo dalla convinzione che l'unità del pensiero e della cultura è alla base dell'unità araba e che la salvaguardia del patrimonio della civilizzazione araba, la sua trasmissione attraverso le generazioni che si succedono e il perpetuarsi del suo rinnovamento sono tutti elementi validi per assicurare la coesione della Nazione Araba e per permetterle di assumere un ruolo creatore di avanguardia nel quadro della civilizzazione umana e di una pace mondiale fondata sulla giustizia, la libertà e l'uguaglianza ".

La sede dell'Alecso è a Tunisi.

Vedi: UNESCO, ISESCO.

Bibl.: L'Organisation Arabe pour l'Education, la Culture e la Science, Tunis, Alecso, 1981.

 

Alienazione culturale. (inizio)

E la condizione degli individui o dei gruppi che sono colpiti nella loro identità culturale e nel loro senso di appartenenza. Questo sentimento di rifiuto è quello che provano le persone sottoposte a situazioni di violenza quali la dominazione militare, la colonizzazione, l'oppressione economica o ideologica.

La parola alienazione deve, tuttavia, essere usata con discernimento, per evitare ogni forma di enfasi che finisce per renderla insignificante. I filosofi mettono in guardia circa l'ambiguità del concetto di alienazione di cui fanno abuso i discorsi ideologici e la propaganda. Secondo Paul Ricoeur, è " una parola malata " che soffre di un " sovraccarico semantico ".

La parola alienazione veniva inizialmente usata per indicare un transfert di proprietà o di uno stato mentale.

Giangiacomo Rousseau ed Hegel hanno esteso il senso giuridico e psicologico dell'alienazione alla sfera metafisica della persona che aliena la propria individualità per ritrovarsi un altro. E ciò che si produce nel " contratto sociale " in cui gli individui rinunciano al proprio isolamento per ritrovarsi nella società (Rousseau); o si identificano alla volontà di un altro per dare oggettività e sostanza ad un contratto di natura economica, o ancora, si realizzano perdendosi nel Dio, totalmente altro ed assoluto (Hegel). L'alienazione in questo senso comporta un aspetto positivo che è stato giustamente riconosciuto. Questi riferimenti storici già inducono a non confondere l'alienazione-oppressione con l'alienazione-promozione, cioè la trasformazione delle persone e dei gruppi che accedono ad un livello d'essere superiore per un arricchirsi della loro identità.

E su questa linea di pensiero che Karl Marx ha sviluppato il concetto di alienazione, ma ponendo l'accento sul dramma del proletariato, sfruttato e reso incapace di trasformarsi liberamente in rapporto alla natura e al lavoro. Per i marxisti, infatti, l'alienazione dell'operaio nasce dall'espropriazione del prodotto del proprio lavoro: egli subisce un'alienazione della propria persona, ridotta a merce di scambio. L'alienazione economica comporta il dominio culturale sul proletariato, sottoposto alla cultura dei detentori dei mezzi di produzione.

In generale i sociologi affermano che lo sviluppo industriale, basato su di una rigida divisione tra capitale e lavoro, ha provocato l'alienazione dei lavoratori per la parcellizzazione dei compiti e la spersonalizzazione del sistema produttivo. Erich Fromm, per esempio, ha accuratamente analizzato le forme di alienazione che incidono su tutte le relazioni dell'uomo moderno nei confronti del proprio lavoro, delle cose che consuma, dei suoi simili. In ultima analisi egli risulta essere alienato verso se stesso. Questo crea una situazione sociale di schizofrenia nella quale l'alienazione culturale è strettamente legata all'alienazione psico-sociologica. La razionalizzazione e la burocratizzazione della vita sociale espongono l'individuo alla solitudine, al disorientamento, all'angoscia, all'apatia. I " rapporti fraterni " sembrano essere banditi dalla maggior parte delle sfere della vita sociale ed economica.

La sindrome dell'alienazione psico-sociale si manifesta con diversi segni: la sensazione d'essere impotente o l'incapacità di agire sulla condizione stessa della soggezione; la perdita del senso di sé, o l'incapacità di definire il proprio comportamento per mancanza di punti di riferimento sicuri e significativi; la sensazione d'isolamento o l'assenza di una comunità di sostegno e d'integrazione. Melvin Seeman ha rilevato cinque caratteristiche dell'alienazione attraverso gli studi dei sociologi e degli storici: powerlessness; meaninglessness; normalessness; isolation; self-estrangement: 1959.

L'alienazione culturale più radicale è quella di un gruppo umano che perde la propria lingua, le proprie tradizioni, il desiderio di vita collettiva. L'alienazione può finire per diventare una completa assimilazione ai gruppi dominanti. Essa genera la " coscienza infelice " di cui parla Hegel, perché è percepita come una condizione oppressiva e degradante. Non si tratta, tuttavia, di alienazione in senso stretto quando l'assimilazione è accettata volontariamente, come accade per gli immigrati che hanno in anticipo deciso liberamente di adottare la lingua, i costumi e gli usi del paese di accoglienza. Nella misura in cui il cambiamento è accettato senza costrizioni, si tratta piuttosto di sostituzione di identità che di alienazione subita, anche se gli immigrati non riescono sempre a placare la pena di aver alienato una parte del proprio passato.

Il sentimento di alienazione è fortemente percepito nei paesi in via di sviluppo che vedono il proprio modo di vita minacciato dal processo di modernizzazione, dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione; essi vivono, infatti, un'interna divisione tra la fedeltà alla cultura tradizionale e i valori delle nuove culture. L'alienazione è ancora più penosa, quando la modernizzazione s'instaura, in nome d'interessi economici o di orientamenti ideologici che contraddicono o addirittura disprezzano e attaccano violentemente l'identità culturale delle popolazioni in via di cambiamento. E in questo contesto che nascono i movimenti di liberazione da cui gli aspetti economici, sociali, politici e culturali sono indissociabili.

Un altro tipo di alienazione, o di contraddizione culturale, è vissuto dai paesi che subiscono la violenza di un regime totalitario. Questa fu l'esperienza delle nazioni dell'Est europeo: la loro cultura è stata vessata nel suo libero dinamismo, nelle sue tradizioni religiose, nella sua espressione e nella sua creatività. I media, la scuola e tutto il sistema sociale hanno cercato di espropriare le popolazioni della loro cultura vitale per creare la cultura del sedicente " uomo nuovo ". Ma i risultati sono lungi dall'aver corrisposto alle intenzioni ufficiali. Dopo settanta anni, si constata che soltanto la forza ha permesso ai poteri pubblici di mantenere una politica culturale di fatto non accettata. Per uno straordinario paradosso, queste politiche sono sfociate nella riscoperta e nella riaffermazione delle identità profonde nazionali, religiose e culturali.

L'alienazione culturale si manifesta anche nei rapporti tra generazioni, nei quali i giovani e gli adulti si scoprono sempre più distanti gli uni dagli altri. I giovani s'identificano più spontaneamente con le nuove culture, veicolate dai media, dalla musica popolare, dagli stili dei divertimenti di moda. Ciò costituisce una sfida inedita per gli educatori, il cui compito consiste ormai nel preparare i giovani per delle " società in divenire ", cioè a forme di società che giovani e adulti dovranno creare insieme. Gli uni e gli altri devono inevitabilmente assumere il senso di alienazione provocato dalla spersonalizzazione, dalla burocratizzazione, dall'aggressione visuale e uditiva dei media, dall'accelerazione del cambiamento, non soltanto nella società esterna, ma negli atteggiamenti e nei comportamenti personali. Questa esperienza alienante esige un approccio fatto di discernimento, di ricerca, di comune padronanza nei confronti dell'avvenire.

Come si vede, l'alienazione può suscitare reazioni molto diverse secondo ch'essa sia il risultato di un'oppressione ingiusta, che occorre combattere, o sia la conseguenza di cambiamenti profondi che richiedono uno sforzo positivo per costruire l'avvenire. Nella situazione prima descritta, riguardante le nuove culture rappresentate dalle giovani generazioni e dalle nazioni che sono in via di sviluppo, un'analisi attenta s'impone per comprendere quale sia la vera natura dell'alienazione provata dagli attori sociali. Se, da una parte, occorre combattere le alienazioni degradanti ed ingiuste, bisogna, d'altra parte, riconoscere la necessità del cambiamento e i sacrifici ch'esso impone, per accedere ad una forma superiore di vita individuale o collettiva.

L'analisi del fenomeno dell'alienazione psico-sociale e culturale rivela, nel profondo, uno dei bisogni più intimamente percepiti dalle collettività umane: quello di ridefinire la propria identità culturale in un mondo in cambiamento accelerato. Secondo alcuni sociologi, il concetto di alienazione sarebbe centrale per comprendere l'espressione umana tipica del nostro tempo. Possiamo convenirne, a condizione, però, di non dimenticare gli avvertimenti di Paul Ricoeur sull'uso abusivo di questo termine che può facilmente diventare uno " pseudo-concetto ". Si evita questo rischio quando ci si ricorda che l'alienazione culturale non può essere veramente compresa che in rapporto alla nozione correlativa dell'identità delle persone e dei gruppi in crescita.

Vedi: Appartenenza, Identità, Liberazione.

Bibl.: P. Asweld 1953. C. Camporesi 1974. F. Johnson 1973. P. Ricoeur 1985. M. Seeman 1959.

Analisi culturale. (inizio)

Metodo di studio orientato a far emergere le caratteristiche di una determinata cultura e a comprendere il significato del fatto culturale per un gruppo. L'analisi culturale presuppone: la percezione di ogni cultura come una realtà storica singolare e l'attenzione portata sugli elementi che specificano una cultura e la distinguono da ogni altra, per esempio, i valori dominanti, la scala degli interessi, le tendenze, le evoluzioni e i cambiamenti nelle consuetudini sociali, i modelli tipici di comportamento, i costumi e le tradizioni, i giudizi della collettività, i processi di socializzazione delle nuove generazioni. L'analisi culturale studia soprattutto il significato che la realtà culturale riveste per un gruppo umano.

L'analisi culturale si esercita a due livelli, il primo dei quali è quello dell'inventario descrittivo che ridisegna, il più oggettivamente possibile, i tratti distintivi di una cultura. Il secondo livello di analisi, più esigente, ma necessario, è quello che punta ad interpretare il significato della cultura per coloro che la vivano.

L'approccio comparativo è praticamente indispensabile, sia che l'osservatore studi la propria cultura, sia che egli analizzi culture diverse dalla sua. Ogni cultura viva comprende una larga parte di elementi inconsci e non detti, che non possano essere percepiti che per inferenza e che occorre far emergere con una forma di analisi in profondità dei simboli culturali, dei significati latenti che rivelano le condotte e le espressioni culturali.

Non si tratta tanto di cercare una spiegazione dei fatti culturali attraverso determinanti esterne, quanto di partire dall'interno di una cultura per scoprire il suo significato profondo. Ciò conduce ad intendere la cultura come lo sforzo collettivo di un gruppo per dare senso al proprio destino e al proprio modo tipico di vivere. Questo nuovo approccio alle culture, come ai fenomeni simbolici, ideologici, artistici, religiosi, segna un progresso dell'antropologia, come ha dimostrato Clifford Geertz (1973).

In un mondo segnato da una crescente interazione tra le culture, l'analisi culturale è tesa anche a comprendere i fattori culturali d'origini diverse che influiscono sullo sviluppo dei popoli, sull'evoluzione delle ideologie, delle istituzioni e dei costumi, sui rapporti tra le religioni e le culture. L'analisi culturale richiede un approccio interdisciplinare che nella sua metodologia si richiami alla psico-sociologia, all'antropologia e alla storiografia. I lavori di Claude Lévi-Strauss, di Margaret Mead, di Clifford Geertz hanno contribuito al progresso dell'analisi culturale, concepita non soltanto come metodo descrittivo delle linee culturali, ma anche come tentativo di comprendere le culture, le credenze, le religioni dal punto di vista di coloro che le vivono e ne vivono.

Come si può vedere, i metodi dell'analisi culturale sono strettamente collegati al concetto che si adotta di antropologia culturale.

Vedi: Identità culturale, Tratti culturali, Sviluppo culturale, Antropologia.

Bibl.: C. Geertz 1973, 1987. R. Hess et al. 1989. G. Hofstede 1984. R. Wuthnow, 1987. R. Wuthnow et al. 1984. H. Bernard 1988. C.F. Lowe et al. 1985. P. Laburthe-Tobra et J.-P. Warnier 1993. R. Wuthnow 1984, 1987.

 

Animazione culturale. (inizio)

Metodo di promozione comunitaria diretto a stimolare lo sviluppo culturale degli individui e dei gruppi, orientato a sensibilizzarli nei confronti dei propri bisogni ed aspirazioni, e a favorire la comunicazione tra loro per porre in valore le proprie capacità creatrici. Occorre, per questo, realizzare le condizioni della partecipazione e della creatività e trovare i luoghi o i supporti dell'azione comune.

E importante costituire bene i sottogruppi - giovani, adulti, anziani, immigrati - affinché possano beneficiare il meglio possibile dell'animazione. Particolare attenzione deve essere data alle sub-culture che hanno il loro proprio linguaggio, il loro proprio stile di vita e i loro propri bisogni. Queste categorie sociali costituiscono spesso un non-pubblico e sono i non-utenti e i non-abituati alle attività culturali riservate alle classi più agiate.

L'azione culturale può essere considerata una forma di educazione popolare che favorisce la democratizzazione della cultura e la formazione permanente. Due sono gli scogli da evitare: il primo è il concepire l'animatore culturale come un semplice funzionario o un militante anche se la sensibilizzazione alle responsabilità politiche può costituire un obbiettivo valido dell'animazione. Il secondo scoglio è il perseguire l'educazione popolare con spirito di condiscendenza come se si intendesse far " discendere " l'alta cultura verso le classi disagiate, i quartieri poveri, gli immigrati. Si tratta invece di far " salire " i più poveri culturalmente verso le forme più elevate della cultura aiutandoli ad accedervi con i propri gusti e le proprie motivazioni. I mezzi esterni sono secondari nei confronti dei mezzi educativi. Facilitare mediante sussidi l'ingresso nei teatri, nei musei, nelle mostre d'arte, all'opera è certamente uno dei modi di promozione della cultura, ma spesso queste iniziative non favoriscono che i privilegiati già abituati al linguaggio della grande arte, ai modi del pubblico raffinato e familiari della cultura detta di " élite ". Non è facile per i " non-abituati " oltrepassare le barriere di una certa segregazione culturale. Ne deriva tutta l'importanza di aiutare gli esclusi della cultura a sviluppare a poco a poco i propri talenti, a situarsi nei confronti della vita collettiva, a partecipare insieme alla propria elevazione sociale e culturale, a cercarsi i mezzi e l'audacia di creare, di comunicare liberamente tra loro e con l'insieme della società.

L'iniziazione agli audiovisivi, all'uso diretto della radio e della TV comunitarie sono mezzi eccellenti. Nelle società dominate dai mass-media, una delle funzioni prioritarie dell'animazione culturale è quella di formare coloro che ne usano alla critica, all'apprezzamento e alla scelta dei programmi offerti dalla radio, dalla TV, dal cinema, secondo i criteri di uno sviluppo progressivo delle persone, delle famiglie, delle comunità umane. Importa soprattutto formare il gusto in vista di una consumazione selettiva dell'immensa produzione delle industrie culturali. Questo lavoro di animazione, per sé, non richiede che un supporto istituzionale leggero e può essere intrapreso con mezzi semplici.

L'animazione culturale può essere perseguita in tutti gli ambienti educativi o di formazione permanente. Essa è organizzata in maniera sistematica o professionale nei centri culturali e nelle case di cultura.

Questi centri sono spesso affidati ad animatori o ad animatrici molti dei quali sono specializzati in campi specifici. Il termine " animatica " è talvolta usato per indicare tutte le questioni attinenti all'animazione culturale.

Vedi: Centro culturale, Educazione permanente.

Bibl.: A. Girard 1982, cap. 3. F. Jeanson 1973. P. Moulinier 1980.

 

Anticultura. (inizio)

Tutto ciò che contraddice la cultura intesa come progresso dell'essere umano. L'anticultura deve essere compresa con riferimento ad una concezione normativa della cultura: se questa rappresenta l'ideale dello sviluppo intellettuale, estetico, morale e spirituale dell'uomo, l'anticultura è allora ciò che contraddice o impedisce questa elevazione dell'uomo. L'anticultura si rivela nei comportamenti che degradano l'umano riducendolo ai suoi istinti. L'anticultura è anche generata da situazioni di oppressione o di sfruttamento che impediscono agli esseri umani di svilupparsi secondo le proprie attitudini e le proprie aspirazioni. L'anticultura si manifesta anche nelle correnti antintellettualistiche o antiumaniste, o ancora in comportamenti dominati da motivazioni edonistiche, materialistiche o anarchiche.

Non bisogna confondere l'anticultura con l'ignoranza o l'analfabetismo. Per esempio, le persone dette incolte, secondo i criteri della società industriale, non sono necessariamente prive di una cultura viva; questa è spesso la realtà delle classi più povere che non sono sprovviste di una cultura popolare che costituisce il quadro di riferimento dei loro comportamenti e delle loro aspirazioni. Georges Sand scriveva: " Un contadino incolto, ma felicemente dotato ". L'incultura non equivale dunque all'ignoranza, all'assenza di una cultura sapiente. L'anticultura è un'espressione che ha una connotazione normativa per descrivere tutto ciò che è in contraddizione con il progresso dell'essere umano. Se è attraverso la cultura che si diventa uomo, l'anticultura equivale allora ad una disumanizzazione. Il concetto di anticultura è correntemente usato dai sociologi per discernere tutto ciò che, nelle società attuali, porta detrimento all'essere umano: l'economismo che antepone il profitto all'uomo, la tecnica che diventa riduttrice dell'essere umano, la dominazione dei regimi totalitari che tendono a distruggere l'identità culturale dei popoli, o ancora tutte quelle situazioni che privano gli individui e i gruppi dei loro diritti culturali e della loro dignità.

Vedi: Alienazione culturale. Contro-cultura. Sviluppo culturale.

 

Antropologia. (inizio)

Tra tutte le scienze umane, l'antropologia è la disciplina che ha studiato il fatto culturale in modo più esteso e più profondo. Se si ritracciano gli sviluppi dell'antropologia, balzano con chiarezza la realtà e il concetto stesso di cultura. L'antropologia, o la scienza dell'uomo, risale lontano nella storia intellettuale dell'umanità che da sempre è stata interessata ad osservare i gruppi nelle loro straordinarie diversità. Erodoto (484-425 a.C.) faceva già dell'antropologia avanti lettera, quando descriveva gli usi, i costumi, la lingua, le leggi, le credenze dei popoli stranieri alla Grecia. Alcuni fanno risalire la parola antropologia ad Aristotele, ma sembra più probabile che i tre termini " antropologia ", " etnologia " e " etnografia " siano apparsi nelle lingue europee tra il 1785 e il 1815. Di fatto, è nel secolo XIX che l'antropologia si è costituita come disciplina grazie ai ricercatori britannici, tedeschi e americani. Le idee evoluzioniste, relativiste e comparativiste dell'epoca hanno segnato molti dei primi lavori. Ma l'antropologia diventa poi più critica, si diversifica in molte scuole, ed è oggi la disciplina impegnata nella ricerca di convergenze metodologiche che possano mostrare in contemporanea la varietà delle culture storiche e l'universalità della civilizzazione umana. Il moltiplicarsi degli appellativi sta a sottolineare il destino contrastato di questa scienza da un secolo: etnologia, etnografia, antropologia fisica, antropologia sociale, antropologia culturale, antropologia strutturale.

Distinguiamo, per prima cosa, l'" antropologia fisica " dagli altri rami dell'antropologia: si tratta dello studio degli aspetti corporei, morfologici e fisiologici degli individui e dei gruppi umani, secondo la loro localizzazione geografica e climatica, la loro storia naturale, le loro consuetudini alimentari, la loro età, il loro sesso, la loro eredità. Considerata per molto tempo un ramo scientifico separato, l'antropologia fisica è ora messa in relazione con i comportamenti, la psicologia, le strutture sociali e la cultura dei gruppi umani. Questo significa che lo sviluppo fisico, sociale e culturale dell'essere umano è oggi percepito meglio in tutte le sue interdipendenze, anche se l'antropologia fisica si giustifica ancora come metodo distinto.

L'antropologia come scienza sociale. E a questo livello che l'antropologia si è profondamente diversificata, prima di orientarsi verso un movimento di sintesi che continua sempre tra gli esponenti di due principali tendenze: l'antropologia culturale e l'antropologia sociale. I rapporti tra loro rimangono ancora laboriosi. Così lo indica Paul Mercier: " L'antropologia sociale e l'antropologia culturale costituiscono una casa comune per molte scuole di pensiero. Le diverse stanze di questa casa comunicano male e talvolta non comunicano affatto. Coloro che vi abitano non si mettono d'accordo per dire: questa è la facciata, questa è la stanza principale ": 1968. Esaminiamo separatamente i due approcci, culturale e sociale, dell'antropologia. Il primo ha per centro la considerazione dei modelli culturali, il secondo ha per centro l'analisi delle strutture sociali.

L'antropologia culturale. L'antropologia culturale è rappresentata da grandi nomi quali quelli degli Americani Alfred Louis Kroeber (1876-1960) e Bronislaw Malinowski (1884-1942) che esercitarono un'influenza preponderante soprattutto tra gli antropologi americani. Una delle migliori esposizioni del metodo culturale è quella di A.L. Kroeber e del suo collega Clyde Kluckhohn. Tracciamone le linee essenziali. L'oggetto dell'antropologia secondo Kroeber e Kluckhohn (1952) è lo studio della cultura analizzata partendo dai modelli tipici di comportamento di un gruppo umano.

La cultura è l'insieme dei comportamenti appresi e trasmessi in un gruppo; ma non basta osservare i comportamenti: bisogna proseguire la ricerca fino a scoprire i modelli delle condotte, i codici, le regole di comportamento che rivelano " le tendenze verso l'uniformità nelle parole, nelle azioni, nella creazione dei gruppi umani ". Il metodo di analisi culturale si apparenta alla psicologia tedesca della " Gestalt " (la forma) o alla storia culturale.

I tratti culturali più semplici da osservare in un gruppo corrispondono ai modi concreti di vestirsi, di alimentarsi, di lavorare, di conversare. Ad un livello più complesso, si trovano la lingua, le tecniche, l'organizzazione sociale, le leggi, la filosofia, la religione, le arti.

Alcuni dei tratti culturali godono di una grande stabilità e persistono attraverso i cambiamenti che impone la storia: la lingua, l'alfabeto, il senso del diritto, la religione, il monoteismo ne sono esempi noti. Il processo di deriva che colpisce le culture tocca inizialmente gli elementi particolari ed esterni che caratterizzano i modi di vita, ma i modelli culturali d'insieme resistono di più ai cambiamenti e non si trasformano che lentamente, tendendo, in generale, a ritrovare una nuova stabilità.

I modelli culturali obbediscono alla logica interna d'ogni gruppo umano che vive in una data epoca. La cultura non è determinata dall'esterno, anche se bisogna riconoscere i condizionamenti che provengono dalla biologia, dalla geografia, dalla psicologia ed anche i particolari tratti di personalità dei membri del gruppo.

L'unità d'osservazione dell'antropologia culturale si è notevolmente allargata dal tempo dei precursori che limitavano i loro studi alle società dette primitive. Oggi l'unità culturale, considerata dall'antropologia, dipende dal livello d'analisi che intende abbracciare. Può trattarsi della cultura occidentale greco-romana, della cultura della Foresta Nera del 1900, ecc. Compete all'antropologia giustificare, più oggettivamente possibile, l'area socio-culturale dei suoi studi.

L'obbiettivo dell'antropologia culturale consiste dunque nello scoprire le caratteristiche dei gruppi umani analizzando i loro modelli tipici di comportamento, distinguendo i loro tratti primari o secondari al fine di comprendere la stabilità, l'evoluzione e i mutamenti di una configurazione culturale, frutto di un'esperienza collettiva unica.

I modelli di comportamento caratteristici di un gruppo umano sono appresi per mezzo di simboli, sono trasmessi da una generazione all'altra come portatori di valori e ispiratori di opere immateriali e materiali. Provenendo dall'azione umana, i modelli di comportamento costituiscono contemporaneamente un quadro che condiziona l'azione futura dei membri di un gruppo.

Gli elementi descrittivi forniti precedentemente permettono di comprendere meglio la definizione della cultura, spesso citata, di Kroeber e Kluckhohn (1952) ed elaborata dopo l'esame di centinaia di definizioni ch'essi avevano pazientemente collezionato ed analizzato: " La cultura consiste in schemi, espliciti o impliciti, di e per il comportamento, acquisiti e trasmessi con la mediazione di simboli: essi costituiscono la realizzazione distintiva di gruppi umani, incluse le loro espressioni in artefatti; il nucleo essenziale della cultura è costituito da idee tradizionali (cioè storicamente derivate e selezionate) e specialmente dai valori connessi: i sistemi culturali possono essere considerati, da una parte, come prodotti dell'azione e, dall'altra, come elementi condizionanti l'azione futura ". Altri rappresentanti noti dell'antropologia culturale americana sono spesso citati come, ad esempio, Ruth Benedict (1934), Melville J. Herskovits (1955). Ricordiamo soprattutto Bronislaw Malinowski, il cui articolo classico sulla cultura (1931) ha influenzato in maniera duratura la sociologia culturale.

L'antropologia sociale. La scuola avversaria - la parola non è troppo forte - parte da una prospettiva tutta diversa: quella delle strutture sociali. Il nome più citato è quello dell'antropologo britannico Alfred R. Radcliffe-Brown (1881-1955), seguito da numerosi antropologi inglesi e dalla maggior parte dei sociologi americani. La scuola inglese conta molti antropologi rinomati: M. Fortes, J. Goody, J. Middleton, M. Douglas, S.F. Nadel, in particolare, Edward Evans-Pritchard, professore a Oxford, il cui lavoro postumo ritraccia la storia del pensiero antropologico (1981). Ma è Radcliffe-Brown che ha formulato meglio gli orientamenti caratteristici dell'antropologia sociale.

Per Radcliffe-Brown (1952) l'oggetto dell'antropologia è l'analisi della struttura sociale, cioè la rete delle relazioni sociali che compone i gruppi umani, le classi, i ruoli sociali. L'antropologia, secondo questa scuola, non è prima di tutto lo studio della cultura; Radcliffe-Brown stesso è arrivato fino ad evitare la parola cultura, anche se effettivamente tratta della cultura indirettamente attraverso un'altra terminologia, per esempio, quando riconosce il ruolo dei " costumi sociali ", le " regole di condotta ", i " valori ed interessi " e i " modelli di comportamento nei rapporti sociali ": 1952.

L'antropologia sociale, senza negare il ruolo della cultura, subordina, tuttavia, l'elemento culturale alla struttura sociale, mentre è il contrario che si verifica nell'antropologia culturale, nella quale la struttura sociale è subordinata al dato primo della cultura.

L'antropologia sociale si fonda sull'analogia biologica per discernere le società nella loro morfologia (le reti di relazioni) come nella loro fisiologia (il sistema di funzionamento dei rapporti sociali).

Diamo alcuni esempi di relazioni sociali osservate: i rapporti padre-figlio, venditore-compratore, padrone-servitore. I sistemi di parentela offrono il campo di osservazione ideale per scoprire le relazioni sociali nella loro complessità e nella loro interdipendenza.

L'antropologia sociale, ai suoi inizi, si limitava all'osservazione delle società semplici o primitive, ma progressivamente ha orientato la sua attenzione al di là degli " isolati primitivi " per interessarsi ad insiemi sempre più vasti: villaggi, paesi, imperi. Radcliffe-Brown ammette che l'antropologo può studiare sia un villaggio cinese sia una parte della Cina o l'impero britannico, come esempi di società. La questione sta nel reperire il sistema strutturale, cioè la rete dei rapporti sociali che collegano tra loro le persone, i gruppi e i popoli sotto osservazione.

Le due tesi, precedentemente esposte, sono oggi raramente sostenute nel loro tenore originale ed esclusivo, ma meritano d'essere ricordate perché sottintendono ancora concezioni complementari della cultura, intesa sia come " modelli di comportamento ", sia come " strutturazione dei rapporti sociali ". In ogni caso, le discussioni si sono calmate dopo che il Presidente degli antropologi americani, A.L. Kroeber, e il Presidente dei sociologi americani, Talcott Parsons, hanno congiuntamente firmato una dichiarazione d'intesa nel 1958: A. Kroeber and Talcott Parsons 1958.

Verso un'antropologia integrale. Dopo più di mezzo secolo di aspre polemiche, gli antropologi delle diverse obbedienze tendono ora ad attenuare le loro differenze per sottolineare la complementarità dei loro approcci. Le culture e le strutture sociali, in conclusione, non si comprendono che nella reciprocità dei loro dinamismi. Tutti, praticamente, riconoscono l'utilità di studiare i modelli culturali che sono alla base delle strutture sociali, delle famiglie, dei villaggi, delle tribù, delle caste, delle città, delle regioni. La cultura s'incarna nelle diverse istituzioni sociali e le istituzioni, a loro volta, sono rivelatrici e creatrici di cultura. R.W. Firth (1951) ha bene espresso la complementarità dei due punti di vista: " Se la società è vista come una organizzazione di individui che hanno un proprio stile di vita, la cultura è precisamente questo modo di vita. Se la società è vista come un insieme di relazioni sociali, allora la cultura è il contenuto di queste relazioni. La società accentua la componente umana, l'insieme delle persone e le loro reciproche relazioni. La cultura insiste sulla componente delle risorse accumulate, immateriali o materiali, che il gruppo riceve in eredità, che utilizza, trasforma, arricchisce e trasmette ". In altri termini, cultura e struttura sociale non possono esistere indipendentemente l'una dall'altra in una società umana, perché esse sono mutualmente dipendenti, e manifestano insieme i comportamenti degli individui e il dinamismo del sistema sociale.

L'uomo, come animale sociale e creatore di simboli, non può essere ridotto ad uno schema di analisi parziale. L'antropologo deve prestare uguale attenzione ai modelli culturali e alle strutture sociali. Ciò che è in causa, è l'interpretazione dei rapporti tra la cultura e le istituzioni. Claude Levi-Strauss ha descritto bene i punti di vista che si affrontano: " L'uomo può essere definito come animale che fabbrica degli utensili o come animale sociale. Se lo si considera come animale che fabbrica degli utensili si parte dagli utensili e si va verso le istituzioni in quanto utensili che rendono possibili le relazioni sociali. E l'antropologia culturale. Se lo si considera come animale sociale, si parte dalle relazioni sociali per raggiungere gli utensili e la cultura, nel senso ampio del termine, in quanto mezzo attraverso il quale si mantengono le relazioni sociali ": J. Poirier 1968, p. 882.

Questa apertura alla totalità del fatto sociale ha favorito una interdisciplinarietà dell'antropologia, come già aveva lasciato intravvedere il metodo comprensivo di Marcel Mauss (1872-1950), fondatore dell'Istituto di Etnologia dell'Università di Parigi, che cercava di studiare le società umane nell'integralità del loro sistema sociale e culturale e della loro storia: cioè rispettando il fenomeno sociale totale nelle sue componenti geografiche, economiche, politiche, estetiche, religiose. In questo spirito, gli antropologi attingono, ormai, alla linguistica, alla paleontologia, alla preistoria, alla biologia, alla psicologia, alla psicanalisi, all'estetica, alla storia delle religioni, all'ecologia, i punti di vista che permettono di cogliere meglio il segreto delle culture. L'antropologia, in questo modo, si sviluppa come una etno-storia, una etno-psicologia, una etno-linguistica, una etno-economia, una etno-scienza, una etno-medicina, ecc.

La convergenza delle scienze è venuta ad allargare, talvolta in maniera sorprendente, la nostra comprensione dell'antropologia. Le ricerche in biologia, per esempio, fanno apparire una diversificazione quasi contemporanea del patrimonio genetico dei popoli e delle loro lingue. Come osserva Luca Cavalli-Sforza (1966), " i geni, le popolazioni e le lingue sembrano essersi diversificati simultaneamente, durante migrazioni cominciate probabilmente in Africa, passando dopo in Asia, poi in Europa, e nel Nuovo Mondo e nel Pacifico ".

Tra gli sviluppi particolarmente significativi, menzioniamo la scuola di antropologia psicologica che concentra le sue ricerche sulla cultura e la personalità, nella linea delle esplorazioni di Ruth Benedict, di Margaret Mead, di Ralph Linton, di Edward Sapir, di Abraham Kardiner, di Clyde Kluckhohn. La " personalità di base ", secondo Kardiner, o " i modelli di cultura " (patterns of culture) di Ruth Benedict (1934) ne sono delle caratteristiche illustrazioni. I tratti di personalità che emergono come più comuni in una società rivelano a che punto le persone si formino attraverso configurazioni culturali tipiche, i cui valori, credenze e norme socializzano il bambino dalla più tenera età e condizionano la personalità di base di una società.

Nuove prospettive si sono dunque aperte all'antropologia con l'analisi estesa ai fenomeni psicologici, economici, religiosi, ecologici, tecnici, geografici, biologici. Sia la complessità come la continuità dei dati antropologici sono messe in luce e conducono ad ulteriori interrogativi sulla condizione sociale degli esseri umani.

Un nuovo punto di vista è offerto dall'antropologia strutturale, rappresentata, come è noto, da Claude Lévi-Strauss in Francia, che cerca di sintetizzare e superare gli approcci di Kroeber e di Radcliffe-Brown, ponendosi il problema del " senso " delle culture e del significato latente delle realtà socio-culturali. La linguistica strutturale gli permette di analizzare le forme di comunicazione rivelatrici di una cultura ed egli si chiede se non esista una struttura mentale universalmente valida per tutta l'umanità. Due tipi di analisi illustrano il suo metodo: l'esame semantico dei vincoli di parentela e quello dei miti. Le strutture di parentela, egli osserva, rappresentano un modo di comunicazione per gli individui, le famiglie e la società. Il divieto dell'incesto, per esempio, stabilisce delle regole precise concernenti lo scambio dei congiunti. Questo equivale ad un modo particolare di comunicare tra parenti. Ciò che qui bisogna notare è meno il ruolo attribuito ad un sesso o all'altro, che lo sforzo semantico per comprendere il senso di un modo di comportamento collettivo. Altro esempio, l'analisi dei miti, il cui significato inconscio non deriva, secondo il suo pensiero, da un preteso " pensiero prelogico ", ma piuttosto da un sistema di espressione sociologico, culturale, cosmologico, a base di opposizioni binarie (acqua-fuoco, silenzio-rumore, cotto-crudo) o di regole codificate, di cui l'antropologo deve decifrare gli elementi significativi, come in uno spartito musicale: musica e miti sono, d'altra parte, dei " congegni per eliminare il tempo " che permettono di superare " l'antinomia del tempo storico " e del permanere delle società. L'antropologo si fa analista e, egli osserva, " c'è già della psicanalisi nei miti ": La potière jalouse, Paris, 1986. Queste teorie hanno suscitato un ampio dibattito in Europa e negli Stati Uniti ed hanno incontrato obiezioni soprattutto per il fatto che Lévi-Strauss sembra trascurare troppo l'individuo libero in seno al dinamismo sociale e minimizzare il ruolo creativo della storia, come gli ha rimproverato Jean-Paul Sartre. Il suo intellettualismo e il suo entusiasmo per l'" Uomo " non gli fanno forse trascurare " tutti gli uomini ", come nota Clifford Geertz: 1973, cap. 13? Non è questo il luogo per inoltrarci nella discussione; ci basti sottolineare i tentativi fatti dall'antropologia moderna per approfondire il significato del fatto culturale.

Secondo gli strutturalisti, l'antropologo, quando osserva una società, deve scoprire " come questa cosa parli " e cogliere il senso che gli uomini inconsciamente danno alla loro vita in comune. Compito sovrumano, si dirà, ma la vivacità dei dibattiti provocati dai seguaci di un'antropologia comprensiva, guidata in Francia da un Lévi-Strauss o un André Leroi-Gourhan, etnologo della preistoria, o un Clifford Geertz negli Stati Uniti, dimostra un'intenzione che certamente si rivelerà feconda: quella di approfondire, evitando ogni riduzionismo ed ogni falsa speculazione, ciò che significa, al di là delle apparenze, la cultura umana nella storia delle società.

Una antropologia integrale nascerà in un avvenire che possiamo prevedere? La questione ha almeno il merito di essere stata posta con insistenza da una nuova generazione di antropologi. All'inizio del secolo, le teorie universalistiche erano state scartate dai rappresentanti di un'antropologia relativista, monografica, storicista, influenzata da quel pioniere, d'altra parte molto fecondo, che fu Franz Boas (1858-1942), un americano di origine tedesca. Ma oggi, con un ritorno paradossale delle cose, la tesi dell'unità del genere umano ritorna attuale. Essa era già stata postulata da Edward Tylor (1832-1917) nella sua celebre definizione di cultura del 1871. Per questo autore inglese bisogna " considerare il genere umano come naturalmente omogeneo, anche se posto a livelli diversi di civilizzazione ". Questo approccio universale ha fatto strada e suscita, in antropologia e in sociologia, una copiosa letteratura che permette ora di meglio percepire i rapporti che esistono tra la molteplicità delle forme culturali e la cultura umana semplicemente detta. Lévi-Strauss lo spiega così: " Ciò che si chiama una cultura è un frammento di umanità che, dal punto di vista della ricerca in corso e della scala a cui è riportata, presenta, in rapporto al resto dell'umanità, delle discontinuità significative ": 1958; sull'opera di Lévi-Strauss, vedere M. Hénaff, 1991.

Seguendo questo orientamento, l'antropologia diventa una disciplina essenzialmente aperta alla comprensione del fatto culturale, concepito come l'espressione di un progresso sempre incompiuto dell'uomo. Questo atteggiamento è stato reso possibile da un'interiorizzazione dell'analisi antropologica, che non cerca più di " spiegare " le culture con fattori estrinseci, ma che preferibilmente si dedica a " comprendere " dall'interno la cultura come la più alta creazione di un gruppo. L'antropologo cerca di cogliere il significato che riveste una cultura viva partendo dal punto di vista dei membri di una società. Questa prospettiva, come ha efficacemente notato Clifford Geertz, apre un orizzonte nuovo all'antropologia. Questa vede l'uomo essenzialmente come un animale creatore di simboli e ricercatore di significati: " Il bisogno di trovare un senso all'esperienza, di darle ordine e forma, è con evidenza altrettanto imperioso e pressante di quanto lo siano le necessità biologiche più familiari ". E attraverso i simboli, l'arte, la religione, l'ideologia che l'uomo esplora il significato della vita e del mondo. Geertz conclude che si sbaglierebbe se si cercasse d'interpretare l'arte e la religione diversamente da " uno sforzo per dare orientamento ad un essere che non può vivere in un mondo che non è capace di comprendere ". La cultura non è il frutto di determinismi più o meno inconsci, è il dinamismo stesso dell'umanizzazione dell'uomo da parte dell'uomo: " Senza l'uomo non c'è cultura; ma è vero anche e significativo dire: senza cultura non c'è l'uomo ": C. Geertz, 1973, pp. 5, 140. E questa la posizione sviluppata da Giovanni Paolo II davanti all'unesco il 2 giugno 1980; egli ha riassunto il suo discorso con queste parole: " Sì, l'avvenire dell'uomo dipende dalla cultura ".

Vedi: Etnologia, Cultura.

Bibl.: C.R. Badcock 1980. H. Bernard 1988. F. Boas (1896) 1955. C Camilleri 1985. E. Evans-Pritchard 1981. P. Farb e G. Armelogos 1981. R.W. Firth 1951. C. Geertz 1973, 1987. M. Hénaff 1991. M.J. Herskovits 1955. A.L. Kroeber and C. Kluckhohn 1952. A.L. Kroeber and T. Parsons 1958. C. Lévi-Strauss 1949, 1958, 1984, 1990. R. Manners and D. Kaplan 1968. B. Mazlish 1989. P. Mercier 1968. J. Poirier 1968. A.R. Radcliffe-Brown 1952. J. Ries et al. 1992. G. Rosolato 1993.

 

Appartenenza (senso di). (inizio)

Sul piano psico-sociale, il vincolo di attaccamento di un individuo al proprio gruppo si opera con un processo d'identificazione chiamato senso di appartenenza. Le modalità di appartenenza ad un gruppo sono molto varie: esse possono risultare da un vincolo biologico, da un fatto ereditario, da una convenzione contrattuale, da una identificazione culturale, da un'adesione religiosa. Lasciando da parte gli aspetti puramente biologici e giuridici dell'appartenenza, ci concentreremo sulle dimensioni psico-sociali e culturali. In un ulteriore articolo affronteremo la questione dell'appartenenza religiosa.

Nell'ottica che qui abbracciamo, il senso di appartenenza suppone nei membri di un gruppo un sentimento cosciente di far parte di questo gruppo che, a sua volta, lo riconosce come uno dei suoi. Il senso di appartenenza presuppone dunque una duplice integrazione personale e sociale, più strutturata dell'identificazione spontanea di un individuo con una realtà più indifferenziata, come la razza, la classe sociale, il partito di massa. Avendo circoscritto la nostra prospettiva d'analisi, fermiamoci, per prima cosa, al punto di vista della persona cosciente di appartenere ad un gruppo.

Il senso personale di appartenenza. Come analizzare questa realtà psico-sociale che si chiama senso di appartenenza? Una delle vie d'analisi che ci sembra la più illuminante consiste nel trattare l'appartenenza come un atteggiamento di comportamento. Si sa che il concetto di atteggiamento è uno dei più solidamente precisati in psicologia sociale. Che cosa in realtà significa? Richiamiamo brevemente gli elementi di definizione spiegati nell'articolo Atteggiamento. Un atteggiamento è la disposizione favorevole o sfavorevole di una persona riguardo ad un oggetto psicologico. L'atteggiamento è una strutturazione attuale dello psichismo, risultante da processi contemporaneamente percettivi, emotivi, motivazionali. Si dirà ancora che l'atteggiamento è un insieme delle mie disposizioni immediate nei confronti di un oggetto al quale sono psicologicamente collegato; è il mio modo di percepire questo oggetto, di reagire nei suoi confronti, di preferirlo o di rigettarlo. L'atteggiamento è il dinamismo attuale per il quale una persona s'impegna per o contro un oggetto psico-sociale ed assume una particolare condotta nei suoi confronti. Come concepire l'appartenenza sociale in questa prospettiva? Partendo dall'esterno, si può dire che il fatto di appartenere ad un raggruppamento suscita degli atteggiamenti ben determinati sul piano sociale, politico, familiare ecc. In questo caso l'appartenenza è sorgente di atteggiamenti. Per esempio, appartenere ad una certa famiglia susciterà un certo atteggiamento politico. Ma questo modo di considerare l'appartenenza rimane esterno al fenomeno da studiare. Ciò che bisogna raggiungere è il vincolo psicologico, l'attaccamento stesso al gruppo considerato. Occorrerà guardare all'appartenenza non soltanto come ad una sorgente di atteggiamenti, ma scrutarla in se stessa come una disposizione " sui generis ". In altri termini, noi guarderemo all'appartenenza come ad un atteggiamento specifico: è l'atteggiamento proprio del membro cosciente di fare parte di un gruppo. L'appartenenza sociale, vista dal psico-sociologo, è dunque il dinamismo psicologico fondamentale attraverso cui il membro percepisce il proprio gruppo, vi si sente più o meno impegnato, vi s'identifica, vi attinge le sue motivazioni, partecipa alle sue attività, se ne ispira nelle proprie scelte, nelle proprie preferenze, nei propri comportamenti. L'appartenenza appare allora come il collegamento psico-sociale al proprio gruppo.

Questo, il fatto psicologico fondamentale; ma come osservarlo e studiarlo? Secondo lo schema di analisi che proponiamo, si esaminerà, in primo luogo, la genesi o la nascita dell'atteggiamento di appartenenza. E per via di educazione, di libera adesione, di acculturazione che il membro si vincola coscientemente al proprio gruppo. Ciascuno di questi processi dovrà essere attentamente studiato. Si vedrà come si produca l'integrazione dei valori a livello della persona e come si realizzi l'integrazione del membro nella struttura del gruppo. E, insomma, questo duplice fenomeno d'integrazione a livello della personalità e in seno alle strutture sociali che bisognerà analizzare. Questa è la rete complessa delle influenze per la quale si opera la socializzazione o l'acculturazione del membro.

Dopo aver considerato la genesi del senso di appartenenza, si cercherà di valutare il suo vigore o la sua coesione. Si esamineranno le diverse condizioni che sembrano irrobustire o indebolire l'attaccamento psicologico al gruppo. Questo già ci conduce sul piano del gruppo propriamente detto, e vi ritorneremo in seguito. Ma vediamo ora come l'istituzionalizzazione del senso di appartenenza sarà più o meno solida secondo che lo status e il ruolo del membro saranno meglio definiti in seno alla comunità, secondo che la sua concreta partecipazione sarà più intima, secondo che la sua identificazione con il gruppo sarà più o meno profonda. Diverse altre variabili influiranno sull'intensità dell'attaccamento al gruppo: per esempio, la dimensione della comunità, lo status del leader, le modalità della partecipazione. L'immagine stessa che ci si fa del gruppo in un dato ambiente contribuirà a rafforzare o a disintegrare il senso di appartenenza dei membri.

Oltre a questi problemi di differenziazione e di gradi nel senso di appartenenza, è la questione dei mutamenti positivi o negativi di questo sentimento che bisogna esaminare. Notiamo in primo luogo i mutamenti positivi per i quali il vincolo sociale si solidifica e si rinforza. A questo punto si possono percepire tutti i problemi che si pongono allo psico-sociologo riguardo alla maturazione del sentimento di adesione ad un gruppo. Come ci si identifica perfettamente al proprio gruppo, come se ne assume la causa come causa propria?

Ci sono, d'altra parte, i mutamenti negativi e i fenomeni di rottura nell'adesione al gruppo. Come i sentimenti d'indifferenza e di apatia si stabiliscono nel membro? Come il membro gradatamente si distacca dalla comunità, come avviene la brusca rottura? A quale profondità psicologica si produce la rottura? Quali sono i residui psico-sociali che possono sussistere nel membro che ha rotto col proprio gruppo?

Questo, nelle grandi linee, uno schema di analisi che permetterà di scrutare sistematicamente l'appartenenza a livello del membro individuale. Questo modello, come si vede, procede dallo studio della genesi, delle differenziazioni e dei mutamenti dell'atteggiamento. Vi si troveranno, pensiamo, alcune piste di ricerca utili per degli studi a livello empirico.

Il gruppo di appartenenza. Entriamo ora nella prospettiva del gruppo di appartenenza. Nel senso stretto del termine, è la persona che propriamente appartiene ad un gruppo come è stato precedentemente detto. Ma, in pratica, non si può trattare dell'appartenenza senza un costante riferimento al gruppo che accoglie e che aggrega il membro individuo. Ciò che in altro luogo diciamo a proposito del gruppo di riferimento e della sua funzione psico-sociale trova qui un'applicazione diretta. Notiamo, inoltre, che l'appartenenza alla società globale, alla nazione, all'etnia, ha come mediazione gruppi più circoscritti e più vicini all'individuo. Questo modo di guardare all'integrazione degli individui attraverso delle strutture intermedie è diventato un postulato fondamentale della ricerca. Per comprendere la coesione delle collettività, come per cogliere l'integrazione sociale delle persone, occorrerà prestare un'attenzione particolare ai gruppi ristretti, alle comunità primarie che servono all'individuo come quadro d'integrazione immediato e di primo gradino nell'affiliazione alla società totale.

Ci si chiederà allora come queste micro-strutture - famiglia, scuola, comunità, associazioni, ecc. - possano servire da base di posteggio, da quadro integratore, da centro di partecipazione, da focolare di trasmissione per i valori e le norme culturali di una data società. La questione riveste un'importanza capitale soprattutto in una società specializzata e pluralista.

Qui ci limitiamo ad insistere sulle condizioni psico-sociali che permettono ai membri, ad un dato livello di partecipazione, di identificarsi col gruppo. Sono quattro le condizioni che si sottolineano. Affinché i membri si sentano psicologicamente membri di un gruppo occorre, innanzi tutto, che abbiano un minimo d'interazione con questo raggruppamento, è necessario poi che accettino i valori e le norme proprie del gruppo, essi devono anche, in una certa misura, identificarsi col gruppo stesso e, infine, devono sentirsi considerati ed accolti come veri membri del gruppo.

Il contesto esterno. Dopo aver considerato l'appartenenza sociale dal punto di vista del membro individuo, e poi dal punto di vista del gruppo stesso, occorre ora considerarla in rapporto al contesto socio-culturale. Possiamo subito pensare alla forte influenza che può esercitare l'ambiente culturale sulle affiliazioni sociali. I membri non possono rimanere insensibili, né all'immagine che la società ambientale si forma a loro riguardo, né ai giudizi che si pronunciano sul loro gruppo, né agli stereotipi che si usano per descrivere l'atteggiamento dei membri. Questi tipi di reazione variano molto da una società all'altra. In certi ambienti favorevoli ad una data appartenenza, questa gode di incontestato prestigio e trova sicuro sostegno nella cultura dominante. In altri contesti, ci sono gruppi che vengono considerati come psicologicamente marginali od anche come devianti. Ci sono luoghi in cui un determinato gruppo vive in un clima culturale che non è né ostile né favorevole, ma praticamente neutro o indifferente.

E in questa congiunzione della psicologia individuale e della dialettica socio-culturale che prende consistenza il senso di appartenenza ad un gruppo. Questi dati sono di capitale importanza per l'educatore e i responsabili sociali o religiosi.

Vedi: Identità culturale. Gruppo di riferimento. Appartenenza religiosa.

Bibl.: H. Carrier 1988. J. Maisonneuve 1966. P. Tap 1980, 1981. H. Malewska-Peyre et al. 1991. B. Mazlish 1989.

 

Appartenenza religiosa. (inizio)

Ciò che qui specificamente ci interessa è comprendere che cosa psicologicamente significa per un fedele il fatto di appartenere ad un gruppo religioso. Delimitiamo il nostro argomento fermandoci inizialmente alle comunità cristiane e alla Chiesa cattolica in particolare, avendo per centro il punto di vista psico-sociale e lasciando da parte gli aspetti tipicamente teologici e giuridici dell'appartenenza religiosa: G. Dejaive, 1977.

La nozione di appartenenza religiosa. Seguendo lo schema d'analisi in precedenza proposto per lo studio dell'appartenenza sociale, tratteremo l'affiliazione religiosa come un atteggiamento di comportamento. Dal punto di vista psico-sociale, il senso di appartenenza ad una Chiesa equivale all'atteggiamento specifico del fedele in quanto tale. Questo atteggiamento corrisponde ad una struttura della sua psiche risultante da processi contemporaneamente percettivi, emotivi e motivazionali riguardo alla propria Chiesa. La sua appartenenza, in altre parole, è il suo modo di vedere e di conoscere la propria Chiesa, di aderirvi effettivamente e di lasciarsi da essa ispirare nel proprio comportamento.

Precisiamo ulteriormente come vada inteso il carattere speciale di questo atteggiamento del fedele. Esso può essere guardato come sorgente di atteggiamenti non religiosi, quali, per esempio, si possono dare sul piano sociale e politico. Un cattolico voterà destra, un protestante sinistra o viceversa. Ma questo modo di considerare l'appartenenza religiosa rimane esterno al fenomeno che stiamo studiando. Ciò che occorre raggiungere è il vincolo psicologico, l'attaccamento stesso alla Chiesa. Occorre prospettare l'appartenenza non soltanto come sorgente di atteggiamenti profani, ma come oggetto di un atteggiamento specifico da scrutare in sé, come una disposizione non riducibile a nessun'altra. Riassumendo, considereremo l'appartenenza religiosa come un atteggiamento specifico. L'appartenenza alla Chiesa, vista dallo psico-sociologo, è dunque il dinamismo psicologico fondamentale attraverso cui il fedele percepisce la Chiesa, vi si identifica, aderisce ai suoi valori, se ne ispira per le sue scelte, le sue convinzioni, i suoi comportamenti. L'appartenenza religiosa appare allora come l'identificazione psico-sociale del membro al proprio gruppo religioso: è il suo atteggiamento proprio di fedele.

Come questo atteggiamento di appartenenza viene osservato dal punto di vista delle scienze umane?

Genesi dell'atteggiamento. Sarà, in primo luogo, esaminata la genesi o la nascita dell'atteggiamento di appartenenza. E per le vie della conversione, dell'educazione e dell'istruzione religiosa che il fedele aderisce coscientemente alla Chiesa. Ciascuno di questi processi dovrà essere attentamente studiato in termini psico-sociali. Vi si vedrà come si produca l'integrazione dei valori a livello della persona e come si realizzi l'integrazione del membro nella struttura istituzionale della Chiesa. Si tratta, insomma, di analizzare questo duplice fenomeno d'integrazione, a livello della personalità e in seno alle strutture ecclesiastiche.

La conversione, come modo di adesione religiosa merita un'attenzione particolare. Se, infatti, è attraverso una conversione che si accede alla vita di un gruppo religioso, si può notare tutta l'originalità di questo modo di affiliazione. Nessun'altra adesione sociale, all'infuori delle conversioni religiose, apporta un così forte capovolgimento nella psiche. La conversione ad una religione ridà alla personalità una nuova unità, reintegra tutti i suoi valori, le procura uno status di identificazione in un gruppo religioso. E, in definitiva, in rapporto a questi tre elementi funzionali che si esplica una conversione: un Io nuovo, situato nei confronti di una collettività religiosa, e polarizzato dalla coscienza di una chiamata divina. Siamo di fronte a tratti distintivi.

Non intendiamo, tuttavia, assimilare tutte le conversioni al medesimo modello e dobbiamo distinguere quelle che rivendicano le sette e le diverse denominazioni religiose, da quelle che introducono nella Chiesa. L'adesione " settaria " è spesso caratterizzata da insicurezza psico-religiosa manifesta; non vogliamo, tuttavia, spiegare le " conversioni settarie " come se non fossero che la risultanza di situazioni socio-economiche traumatizzanti, di compensazioni psichiche o di semplici forme di protesta sociale. Vi si trovano, al contrario, i tre elementi specifici della conversione: delle psicologie individuali, accoglienti lo status e il ruolo che offre un gruppo religioso (anche rudimentale), e soprattutto quell'elemento di credenza che è determinante se si vuol comprendere come un comportamento settario si distingua da un altro. Che la si chiami illusione o elementarismo religioso, la fede del convertito alle sette è la spiegazione ultima del suo comportamento: B.R. Wilson, 1990.

Con la conversione alla Chiesa è il riferimento istituzionale che è posto in rilievo. La Chiesa offre una stabilità istituzionale propria, ed è nell'irradiamento della sua influenza che ci si converte ad essa; essa offre la salvezza totale. La risposta del convertito riveste ad un tempo la forma di un'acquiescienza e quella di una celebrazione. Nessun comportamento psico-sociale rivela una così netta unificazione delle motivazioni: tra il fedele, la sua devozione, la sua fede, il rito del battesimo, la sua Chiesa e il suo Dio si stabilisce una continuità spirituale che dà alla personalità religiosa la propria unità mentre la lega intimamente alla comunità dei credenti.

Sul piano delle rappresentazioni religiose, si opera una forma di interpenetrazione tra il sentimento e il rito, il rito e la Chiesa, la Chiesa e Dio; per il credente l'accedere al battesimo è l'affiliarsi alla Chiesa e l'affiliarsi alla Chiesa è diventare figlio di Dio. Nessun comportamento, al di fuori delle condotte religiose, abbraccia dimensioni che siano insieme così intime e così universali.

Ruolo dell'educazione. Il senso di appartenenza religiosa si coltiva anche per la via dell'educazione. Notiamo, a questo proposito, come caratteristica dei sentimenti religiosi, la loro straordinaria precocità. Tra gli atteggiamenti dell'età adulta (atteggiamenti politici, sociali ecc.) pochi risalgono fino alla lontana prima infanzia. L'influenza parentale e l'ambiente primario in generale costituiscono i quadri privilegiati allo schiudersi dei sentimenti di appartenenza religiosa. L'identificazione con la religione dei genitori si prolunga in un'identificazione più ampia: è la scoperta progressiva dell'istituzione religiosa da parte del bambino. Verso l'età di dodici anni, l'adolescente sembra aver assunto nettamente il significato della sua appartenenza spirituale; egli è in possesso di convinzioni personali - nell'ipotesi di un'educazione che sia progredita normalmente -. Dopo essersi identificato con la vita religiosa dei suoi genitori, egli s'identifica ora con la vita della sua Chiesa, con quel fervore nell'attaccamento che caratterizza le appartenenze spirituali coscientemente assunte.

L'insegnamento religioso perfezionerà l'integrazione psico-sociale e spirituale del fedele nella comunità di fede. Una lunga esperienza ha rivelato alla Chiesa i modi propri che presiedono alle trasformazioni degli spiriti e delle culture. L'istruzione religiosa dei giovani è per la Chiesa un compito primordiale; il permanere stesso delle comunità religiose ne dipende. Una pedagogia autentica presuppone, tuttavia, che l'istruzione religiosa si prolunghi sufficientemente nella vita dell'adolescente per dare modo alle motivazioni religiose di illuminare e ispirare i lenti processi d'individuazione dei valori e d'integrazione profonda della personalità.

Per quanto riguarda la diffusione più generale del messaggio religioso, conviene notare il genere particolare d'interazione che si stabilisce tra il predicatore e il suo ambiente. L'educatore religioso trasforma gli atteggiamenti tenendo conto delle solidarietà che uniscono i suoi uditori rendendoli collettivamente favorevoli o refrattari alla Chiesa. Se un'identificazione molto stretta lega i fedeli alla propria Chiesa, non si deve dimenticare il persistere delle solidarietà primarie (famiglia, amici, gruppi intimi) che rinforzano e sostengono gli atteggiamenti spirituali anche nell'adulto religioso. Le connessioni che, dall'interno, collegano l'atteggiamento religioso alle comunità culturali e agli ambienti primari ci sembrano essere un tratto distintivo della psicologia del fedele. E il caso di tenerne conto in ogni sforzo d'inculturazione. Nessun altro atteggiamento, pensiamo, suppone una simile sintesi, neppure sul piano psico-sociale.

Ruolo della comunità dei credenti. Per comprendere le differenziazioni interne di appartenenza religiosa, occorrerà osservare, nella loro complementarità, la partecipazione del fedele e la coesione del suo gruppo.

In ogni gruppo religioso, anche nelle sette, l'elemento specificante della coesione sociale è la credenza che vi si professa; è questa, in definitiva, che determina l'orientamento e il significato, anche psico-sociale, dell'affiliazione religiosa.

Le comunità ecclesiastiche hanno la loro propria coesione; esse suscitano appartenenze fondamentalmente identiche dal punto di vista della teologia, ma si esprimono con partecipazioni più o meno strette, per cui lo status psico-sociale del membro della Chiesa comanderà zone più o meno profonde del suo comportamento globale.

Tra i fattori che influiscono sulla coesione delle comunità ecclesiastiche, segnaliamo, in particolare, il ruolo del clero, nel suo aspetto istituzionalizzato e personalizzato e nella qualità della sua relazione coi fedeli. La dimensione numerica delle parrocchie favorisce la vita comunitaria o la rende impossibile quando si sono superati certi massimi o certi minimi degli effettivi; i movimenti, le associazioni e gli istituti religiosi sono pertanto strutture tipiche di partecipazione e di identificazione tra la persona, la Chiesa locale e la Chiesa universale. Dobbiamo, a questo proposito, sottolineare le relazioni che esistono tra la partecipazione comunitaria ed il proselitismo religioso. La comunità si manifesta e si rafforza interiormente aggregandosi continuamente nuovi aderenti.

Di quanto detto, si dovrà ritenere come elemento specifico dell'appartenenza alla Chiesa che questa richiede una partecipazione eminentemente personale, ma in un quadro altamente istituzionalizzato. Poche affiliazioni psico-sociali impegnano in questo modo la totalità della persona, pur richiedendo un sostegno istituzionale così complesso.

L'immagine che il fedele si fa del proprio gruppo religioso locale ha un ruolo capitale nel suo apprezzamento della comunità di appartenenza e nella qualità della sua partecipazione psico-religiosa. Occorre qui interpretare le situazioni oggettive che, apparentemente, deprezzerebbero lo status esterno dei gruppi religiosi (persecuzioni, rifiuti, ecc.) e vedere come queste situazioni sono religiosamente assunte, nella fede, da parte dei fedeli. L'apprezzamento spirituale delle solidarietà nate dalla fede costituisce, ugualmente, un tratto specifico delle appartenenze religiose. Lo si comprende soprattutto esaminando le " espressioni simboliche " tipicamente religiose della comunità cristiana: le solidarietà vi sono concepite come relazioni vitali all'interno di un Corpo vivo.

Il contesto culturale. Il modo di appartenenza alla Chiesa potrà variare da un contesto culturale ad un altro, perché una dialettica particolare si stabilisce tra i valori culturali di una società e l'identificazione propria dei cristiani che vivono in quell'ambiente. Si distinguono tre contesti abbastanza tipici che possono condizionare l'identità del cristiano dal punto di vista psico-sociale: la cultura di sostegno, come quella di molti paesi tradizionali in cui le appartenenze sociali e religiose si rafforzano reciprocamente; la cultura di rottura, in cui inferisce una situazione di rigetto, di persecuzione e di marginalizzazione dei cristiani; la cultura pluralistica che obbliga i cristiani a precisare la propria identità, in un ambiente in cui tutte le condizioni coabitano in un clima generale di indifferenza.

Le trasformazioni religiose. Anche nelle sue trasformazioni interne, l'atteggiamento religioso presenta tratti che lo differenziano dagli atteggiamenti profani. E soprattutto attraverso le rotture nell'unità delle sintesi spirituali che si dissolvono, si appiattiscono e si spengono i sentimenti religiosi. Si possono così tracciare certe vie che portano all'indifferenza, al disamore, alla scristianizzazione e all'incredulità religiosa. Esistono degli assoluti profani capaci di colmare il vuoto lasciato da una fede scomparsa? Le risposte negative date da molti psico-sociologi a questo interrogativo riteniamo che pongano in rilievo la funzione propria del sacro nell'integrazione profonda della personalità, soprattutto se il sacro è contemporaneamente sia personalizzato che posseduto in comune.

A causa stessa delle motivazioni sacre ed assolute che l'accompagnano, il sentimento religioso gode di una stabilità particolarissima. Cambiamenti collettivi possono operarsi nei sentimenti religiosi, movimenti di indifferenza o di scristianizzazione; anche allora, tuttavia, delle persistenze e delle sopravvivenze tenaci stanno a testimoniare le influenze profonde, quasi non sradicabili, che le consuetudini religiose hanno lasciato nelle psicologie e nelle culture. Psicologi e etnologi si accordano nel riconoscere questo duplice tratto distintivo dei sentimenti religiosi: nessun atteggiamento offre una così grande resistenza al cambiamento, nessuno lascia tracce così persistenti nelle mentalità.

Si può, in un certo senso, dire che la caratteristica per eccellenza delle trasformazioni religiose, è il progresso spirituale, il movimento verso la santità. Nell'ottica dell'appartenenza alla Chiesa, la maturazione religiosa si esprime nell'apertura all'universale, nell'oggettivazione delle convinzioni personali che trasformano interamente la condotta, nell'assimilazione di una sapienza unificante. Appartenere alla Chiesa, per l'adulto religioso, è situarsi in rapporto all'universo degli uomini in cerca di salvezza e in rapporto a Dio. L'affiliazione religiosa è, in definitiva, un'accoglienza nella fede della Parola di Dio. Parola che suscita essa stessa e vivifica, agli occhi del fedele, la comunità dei credenti.

Questo atteggiamento fondamentale del membro della Chiesa ci offre la risposta alle apparenti antinomie che può suggerire l'identificazione personale ad una Chiesa: antinomia tra la libertà e l'appartenenza socio-religiosa, tra la partecipazione istituzionale e il sentimento interiore, tra una religione personale e una religione sociologicamente intesa. Il sentimento di appartenenza, nel fedele, trascende queste distinzioni troppo sommarie. La psicologia sociale, che non intende trascurare né l'individuale, né il collettivo, ci serve da strumento privilegiato per osservare come si concilino e si arricchiscano, in una personalità adulta, il sentimento religioso intimo e l'appartenenza ad una comunità spirituale visibile.

L'appartenere ad una religione si accompagna ad una promessa di felicità e di progresso morale individuale e collettivo; ma ogni gruppo religioso deve continuamente superarsi per restare fedele alla propria vocazione e per evitare le tentazioni, più o meno coscienti, di egoismo o di chiusura culturale che spesso portano all'intolleranza e al settarismo. La maturità religiosa comporta una duplice apertura, cioè verso i fratelli nella fede e verso i fratelli di altre convinzioni. Al di là delle loro divergenze nella fede, c'è la speranza che il loro amore per Dio ispiri un comune amore per l'uomo. Questo richiede uno sforzo illuminato di dialogo interreligioso ed interculturale.

In conclusione, lo studio delle appartenenze religiose ci introduce in uno dei problemi più brucianti delle attuali culture: il bisogno urgente di difendere, nel medesimo tempo, l'identità religiosa di ogni gruppo e la comprensione tra le famiglie spirituali.

Bibl.: H. Carrier 1988. G. Dejaive 1977. P. Delooz 1969. H.J. Mol 1977. F. Oser et al. 1991. P. Tap. 1980. A. Battlori 1983. F. Garelli 1991, 1996. C.F. Lowe 1985. P. McDonough 1992. B. Secondin 1991. E.E Whitehead et al. 1990. J.P. Willaime 1992.

 

Area culturale. (inizio)

Espressione usata dagli antropologi per classificare, secondo le zone geografiche, gli aspetti e le caratteristiche delle culture. Nel secolo scorso, il geografo tedesco Friedrich Ratzel aveva già usato il termine Kulturprovinz. Il suo compatriota L. Frobenius, verso la fine del secolo, aveva proceduto alla classificazione cartografica delle culture ed anche se il suo " metodo intuitivo " è stato criticato, esso ha esercitato un'influenza duratura, per esempio, nel quadro della scuola di " morfologia culturale ".

L'analisi delle aree culturali è stata all'inizio suggerita dall'esame di esemplari etnologici e da pezzi di museo. L'Americano Clark Wissler racconta come sia giunto a questo metodo di analisi: " Noi vedevamo che gli autoctoni del Nuovo Mondo potevano essere raggruppati secondo alcuni aspetti culturali particolari, ciò che faceva emergere delle aree di alimentazione, delle aree di tessili, delle aree di ceramica, ecc... D'altra parte, se consideriamo insieme tutti gli elementi caratteristici e se concentriamo l'attenzione sul sociale o le unità tribali, arriviamo allora a dei gruppi sufficientemente ben definiti. Questo ci darà delle aree culturali, o una classificazione dei gruppi secondo i diversi aspetti culturali ": The American Indian, New York, 2a ed., 1922.

Un altro autore americano, A.L. Kroeber, estese la ricerca a quindici diverse culture del Nuovo Mondo, cercando di stabilire dei rapporti tra le aree naturali e le aree culturali. Egli credeva di percepire delle concordanze tra queste due aree, per esempio, in California. In altre parti, invece, non poteva stabilire nessun tipo di collegamento. Egli, comunque, non vedeva nessuna relazione causale tra le aree naturali e le aree culturali.

In generale, la nozione di area culturale non ottiene l'unanimità tra sociologi ed antropologi, perché non c'è intesa sui criteri di classifica di queste aree e sul modo di stabilire le frontiere degli spazi culturali.

Il termine, tuttavia, può essere usato in modo più libero per descrivere la relazione tra gli spazi geografici e i fenomeni socio-culturali, per esempio, per parlare delle aree urbanizzate, industrializzate o delle aree della cultura romana, islamica, francese, spagnola, ecc.

Vedi: Ecologia, Tratti culturali.

Bibl.: J. Poirier 1868. D.H. Price 1990.

 

Arte. (inizio)

Dopo una parte descrittiva, ci fermeremo sull'aspetto socio-culturale dell'arte e sui rapporti dell'arte con la Chiesa.

Introduzione descrittiva. Si chiama arte la creazione di opere che piacciono per la loro bellezza, che sono frutto di virtuosità tecnica, di genio immaginativo, di ispirazione intellettuale. L'opera d'arte è un prodotto sia materiale, come la scultura, sia intellettuale come la letteratura. L'arte esalta la bellezza, ma non esclude l'utile: come ad esempio, la ceramica, l'architettura, la decorazione interna.

Gli antichi distinguevano le arti meccaniche e le arti liberali. Nel Medioevo s'insegnava che sette sono le arti liberali: la dialettica, la grammatica, la retorica (trivium), l'aritmetica, l'astronomia, la geometria, la musica (quadrivium). Le Belle Arti indicano le produzioni del bello plastico, quali l'architettura, la pittura, la musica. L'arte letteraria comprende tutte le forme di poesia, del romanzo, della storia, del teatro. Alcuni distinguono le arti dello spazio (architettura), le arti del tempo (la danza), le arti del linguaggio (letteratura), le arti dello spettacolo (teatro, cinema).

Un sistema comune di classificazione delle arti ritiene le seguenti categorie: la letteratura, le arti visive, grafiche, plastiche, decorative, le arti d'interpretazione e l'architettura. In pratica, si riduce la classificazione a due grandi categorie: quella delle arti plastiche ed applicate e quella delle arti d'interpretazione.

La sociologia sottolinea le strette interrelazioni che esistono tra le diverse forme di arte e gli stili di vita nelle società. L'arte degli aristocratici o dei privilegiati è diversa da quella dell'artigianato, dell'arte popolare, o dell'arte indigena. La società moderna ha creato l'arte di massa e una commercializzazione senza precedenti dell'arte, come per esempio la pop-art, la musica pop, i cui dischi sono ascoltati dai giovani di tutto il mondo. La storia dell'arte mostra a che punto le forme artistiche si evolvono con il progresso delle tecniche e delle culture. Pensiamo al cinema, alla televisione, al fumetto che sono rispettivamente chiamate la settima, l'ottava e la nona arte.

Fermiamoci soprattutto ai rapporti tra l'arte e la cultura.

L'arte e la cultura. L'arte e la cultura sono creazioni indissociabili del genio umano ed è a giusto titolo che la concezione tradizionale della cultura abbraccia sia la raffinatezza artistica che l'erudizione intellettuale. Ogni persona colta è tenuta ad apprezzare le Belle Arti e le lettere. Ma, considerato in una dimensione socio-culturale, il ruolo dell'arte è molto complesso da analizzare e la sociologia dell'arte è lungi dall'aver trovato un'unica via d'interpretazione. Le ricerche più recenti evidenziano due maggiori prospettive: l'arte come espressione e linguaggio simbolico di una cultura e l'arte come gioco dell'immaginario, dell'utopia, della rottura.

L'arte è, per un aspetto, rivelazione dell'anima collettiva. Una società umana si fa conoscere attraverso la sua arte di vivere che comprende le forme creatrici della sua religione, dei suoi miti, delle sue tradizioni, delle sue celebrazioni comunitarie. I suoi monumenti, la sua architettura, i suoi scritti, i suoi spettacoli e le danze sono l'espressione stilizzata di una coscienza comune che continuamente rianima " la potenza creatrice dell'emozione artistica ", come diceva Henri Bergson. L'arte egiziana, per esempio, sapeva avvicinare i vivi ai morti, venerando i defunti ed accompagnandoli nella traversata verso l'al di là. I miti raccontati da Omero hanno rivelato i Greci a se stessi, formando la loro anima e il loro genio. Nei miti di Edipo, di Elettra, di Narciso, è la cultura universale che si scopre. L'arte cristiana di un Giotto, ad Assisi, d'altronde, celebra gli episodi della vita di san Francesco, testimone di un fervore religioso che ha segnato la sua epoca e tutta la storia della spiritualità.

E difficile isolare l'arte dall'ambiente di vita da cui sorge perché è la cultura nel suo insieme che sussiste come creazione dello spirito, come arte del vivere insieme, come stile di vita in cui tutti gli elementi sono da osservare nella loro interdipendenza, nella loro armonia, nelle loro tensioni, nei loro contrasti. Per esempio, se i riti religiosi ispirano le forme del culto, essi influenzano anche tutti i riti sociali: il cerimoniale di corte, l'etichetta, il calendario, le feste, la moda. L'arte dell'abbigliamento nella Cina del secondo millennio a. C. situava ciascuno nella gerarchia sociale e nell'ordine del cosmo. Ogni società ha il suo codice di onore, le sue forme di buona educazione, le sue regole di convenienza. La sua concezione della vita dà forma all'architettura dei templi, dei monumenti e delle case nobili. Essa comanda la disposizione delle abitazioni nello spazio urbano, l'alternanza dei monumenti, dei giardini, dei centri di potere, l'ordine funzionale dei quartieri. L'arte proclama ed esalta uno stile ed una concezione dell'esistenza.

L'arte non è puramente e semplicemente il riflesso o l'eco di una cultura, e spesso si produce uno sdoppiamento o una deriva tra il primo intento dell'artista e il nuovo significato che la società o il principe attribuisce all'opera artistica. La pittura egiziana, creata da principio come arte funeraria, esalta in seguito il culto dei faraoni. Le statue delle divinità greche diventano, col tempo, una forma di glorificazione della città e uno stile di decorazione delle fontane e dei monumenti. Anche la prodigiosa arte di Versailles sarà presto utilizzata, secondo le critiche di Colbert e del suo mercantilismo, come una vetrina di prestigio per la Francia e il suo re. Oggi le sedi sociali delle grandi imprese sono abbellite da pitture e sculture fatte su ordinazione, che richiamano la moda dei sovrani di altri tempi che incoraggiavano l'arte di corte.

Crisi dell'arte? L'arte specchio delle culture? Questo rimane ancora vero quando la morte di Dio e la morte dell'uomo hanno minato la pretesa umanistica dell'arte? In un'epoca in cui la miseria dei popoli rinvia l'umanità ai bisogni biologici elementari, in cui le società ricche idolatrano l'utile e il consumismo, in cui la razionalità tecnica tende a svalutare la logica intuitiva e la percezione dei simboli, in cui l'artificiale nasconde e distrugge le bellezze della natura, in cui l'aggressione visiva e uditiva dei media satura al massimo la psiche dalla più tenera età, si nota che lo spirito umano sembra diventare progressivamente insensibile allo splendore gratuito dell'arte, che è ora da molti considerata come fenomeno anacronistico borghese, esercizio vano e privo di significato. Anche la discussione sulla bellezza, che è stata appassionante in altre epoche, riscuote oggi scarso interesse. La crisi si rivelerebbe anche nella situazione sociale dell'artista il cui ruolo è ambiguo e marginale. La produzione artistica ha ancora un posto nell'insieme delle produzioni industriali?

Riconoscere questa crisi è ancora un altro modo per osservare gli stretti vincoli tra l'arte e la cultura: l'arte sarebbe allora ammalata della patologia della cultura. Noi pensiamo che questo giudizio non deve essere spinto all'estremo perché, se l'arte è in crisi, è lungi dall'essere moribonda. La creazione assume oggi delle forme inusitate e si dispiega in direzioni sconosciute nel passato: il cinema, la settima arte, ne è un esempio, come lo sono le nuove creazioni della musica, della pittura, lo sviluppo continuo del libro, il rinnovamento dell'arte popolare, la diffusione generalizzata dell'educazione artistica.

L'arte, d'altra parte, rimane sempre la memoria viva dell'umanità e mai come ora i tesori artistici del passato hanno esercitato un così grande fascino. La TV, la radio, il cinema hanno reso popolari i capolavori della musica, del teatro, della pittura, dell'architettura. L'arte sta certamente entrando in una nuova èra che darà un volto originale alle culture in gestazione.

Il gioco dell'immaginario sociale. Il linguaggio dell'arte è certo rivelatore delle credenze, delle ideologie, delle mode, dell'evoluzione dei gusti mutevoli di una società, ma denota anche una tensione tra i valori convenuti e l'immaginario collettivo, sempre aperto al senso del nuovo, spesso inatteso, imprevedibile, stupefacente. Per esempio, il tempio distrutto di Gerusalemme è diventato il tempio invisibile dell'ebraismo in diaspora, e questa immagine non ha cessato di nutrire le speranze del popolo d'Israele.

E al centro di questa dialettica, tra la cultura istituzionale e l'immaginario in continua ricreazione, che l'artista trova il suo spazio d'ispirazione e di libertà. Se si accontenta di servire l'arte del regime, tradisce se stesso e la sua opera diventa pura illustrazione o propaganda. E dunque come un gioco dell'immaginario, dell'utopia ed anche della rottura sociale, che l'arte deve essere percepita. L'artista non è soltanto l'interprete, egli è il profeta e il precursore che anticipa le forme innovatrici del pensiero, dell'immaginazione, della sensibilità sociale. I grandi geni, Omero, Dante, Cervantes, Shakespeare, Leonardo da Vinci, sono senza dubbio stati dei testimoni della loro epoca, ma essi hanno anche e maggiormente scolpito i tratti nuovi del loro popolo e della cultura universale. I grandi testi sacri della storia, come la Bibbia e il Corano, portano, attraverso le epoche, una carica innovatrice che continua a sconvolgere le coscienze e le società.

Al limite, si può dire che l'artista è un rivoluzionario e che le sue tele, i suoi canti, i suoi poemi esercitano un effetto destabilizzante sui suoi concittadini e talvolta diventano chiamata al combattimento. La tela di Picasso Guernica, i canti rivoluzionari e molti degli inni nazionali ne sono un esempio. L'opera d'arte può perfino diventare un simbolo di mobilitazione, il cui impatto supera, di molto, le intenzioni del creatore. I Nazisti, per esempio, avevano interdetto la musica di Chopin in Polonia perché questa musica, secondo l'espressione di Robert Shuman, era come " cannoni sotto i fiori ". E alle note della Polacca in là bemolle che scoppierà l'insurrezione di Varsavia il 1o agosto 1944.

L'arte è un fermento inebriante che spesso provoca lo scandalo delle culture dissacrando le credenze e le norme morali tramandate. Ancora al tempo di Molière il teatro era considerato un'arte pericolosa e gli attori giudicati persone immorali. Le regole dell'etica e dell'estetica non interdicono la rappresentazione del male morale, questa dimensione drammatica dell'animo umano, ma l'arte distrugge se stessa se si compiace di ciò che è indegno, pornografico, crudele, perché in questo modo si perverte in anticultura.

I più grandi artisti sono stati insieme dei testimoni e dei veggenti di genio. Il loro rapporto con la cultura ambientale non è mai a senso unico. Essi sono segnati dal loro ambiente, anche nelle opere più inattese o le più provocanti per il pubblico. I cubisti furono i testimoni della rivoluzione culturale del soggettivismo e della pretesa umana di ricreare l'universo e le sue forme. Ma l'arte moderna ha, essa stessa, partecipato alla rivoluzione del soggettivismo. Le regole estetiche non hanno più nulla a che vedere con i canoni tradizionali dell'arte. Il soggetto e la sua ispirazione hanno il primato su tutto, col rischio che questo provochi contraddizione tra creatori ed interpreti. I surrealisti, per esempio, si rifacevano a Freud e alle sue rivelazioni sull'inconscio, ma il padre della psicanalisti li considerava, partendo dal proprio pensiero, dei " folli integrali ". Gli studi sulle motivazioni dei creatori di genio sono spesso lungi dall'essere in armonia con la sublimità e lo splendore delle loro opere. Anche l'artista è talvolta guidato dallo spirito di lucro, di concorrenza, di cortigianeria come ha dimostrato André Chastel: 1986. La psicanalisi dell'arte è illuminante, ma non toglie all'opera creata la sua vitalità e il suo linguaggio. I volti umani sfigurati di Picasso o di Jean Dubuffet scandalizzarono profondamente i loro contemporanei, ma oggi vi si legge l'angoscia dell'uomo moderno che ha perduto l'intelligibilità contemplando la propria immagine esplosa. Perfino l'architettura convulsa di certe agglomerazioni urbane ha un significato recondito. Le Corbusier diceva di New York: " E una catastrofe, ma una bella catastrofe " ed è noto che Dvorak ha composto la Sinfonia del Nuovo Mondo dopo aver scoperto New York che l'accoglieva.

L'ispirazione artistica, ch'essa sia serena o tormentata, raggiunge, nella sua finalità il mistero dell'uomo e le sue radici ontologiche. L'arte si apparenta alla contemplazione metafisica e al dramma religioso dell'umanità. Questo è vero per la pittura di Fra Angelico che è insieme meraviglia per lo sguardo e preghiera per l'anima. Jacques Maritain parlava del suo grande stupore di fronte ai personaggi apparentemente ingenui e ridicoli del pittore Georges Rouault, suo amico: " Questo strano assembramento di teste sinistre o pietose, questi fantocci paurosi e sintetici, giudici, ricchi borghesi, donne oneste, saccenti; questi poveracci deformati dalla miseria, questi giocolieri, questi pagliacci, questi tristi infermi, questi spaventosi storpi, sono forse un gioco di massacro preparato qui perché il pubblico rida e si diverta? No, tutto questo è un'opera seria... ". Maritain spiega che la contemplazione di Rouault getta una luce cruda sulla realtà profonda della miseria umana: " Ciò ch'egli vede e conosce con una strana pietà, e ciò che ci fa vedere, è la miseria e la dolorosa bassezza di questo tempo, ma non la miseria del corpo soltanto, ma la miseria dell'anima, la bestialità e la iattanza dei ricchi e dei mondani, la schiacciante fatica dei poveri, l'infermità di tutti... ": J. Maritain, testo inedito del 1910, in Cahiers Jacques Maritain, n. 12, 1985, pp. 23-24.

Specchio enigmatico della condizione umana, l'arte ci seduce, ci interpella nel più profondo di noi stessi. Tutte le religioni sono ricorse all'arte per celebrare il mistero e il dramma dell'uomo di fronte alla vita e alla morte, di fronte alla trascendenza e al fascino del divino. L'intera storia della Chiesa ne è testimonianza.

La Chiesa e l'arte. Il Concilio Vaticano II ricorda che la Chiesa ha sempre incoraggiato l'arte e gli artisti perché essa riconosce le alte capacità civilizzatrici della creazione artistica: Gandium et Spes, n. 57 e 62. In particolare, l'arte dà alla preghiera e al culto un'espressione e uno splendore incomparabili: Sacrosantum Concilium, n. 122. Il Cristianesimo ha ispirato opere meravigliose; ne sono testimonianza le cattedrali, i capolavori dell'arte sacra come i più illustri nomi della pittura, della letteratura o dell'architettura. I musei più celebri sarebbero molto impoveriti se li si privasse dei capolavori dell'arte cristiana.

Ma bisogna riconoscere che nell'epoca moderna le relazioni tra la Chiesa e l'arte si sono alquanto raffreddate. Da una parte e dall'altra si sono accumulati motivi di risentimento: gli artisti sono stati accusati di secolarismo, di dissacrazione e perfino di iconoclastia estetica. La Chiesa, d'altra parte, riconosce di aver abusato di un'arte religiosa di bassa qualità e di non avere sufficientemente compreso i nuovi artisti. Di fronte a queste incomprensioni, Paolo VI non nega le deficienze che hanno potuto offuscare gli artisti: " Noi non vi abbiamo spiegato le nostre cose... Ecco perché voi non ci avete conosciuti... Noi andremo fino in fondo ai nostri "mea culpa", noi vi abbiamo offesi ricorrendo al falso, all'oleografia, all'opera d'arte a basso prezzo ".

Rapporti più promettenti prendono ora forma e un nuovo patto tra la Chiesa e gli artisti è prospettato dal Concilio Vaticano II e dagli ultimi Papi. Vi si ricorda che, da sempre, il culto cristiano è stato nobilitato dalla poesia, dalla musica, dalla pittura, dall'architettura. E se la Chiesa si vedesse ora privata del concorso degli artisti, essa dovrebbe reinventare un " ministero artistico e profetico " per " far vedere che fra sacerdote e artista c'è una simpatia profonda e una capacità d'intesa meravigliosa ": Insegnamenti di Paolo VI, II, 1964, pp. 312-317; XI, 1973, pp. 446-450.

Nel suo Messaggio all'umanità il Concilio (dic. 1965) offre una nuova alleanza agli artisti: " Non lasciate interrompere un'alleanza feconda fra tutte... Questo mondo ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione... Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo ".

Non soltanto bisogna che la storia sacra, la letteratura e la Bibbia in particolare continuino ad ispirare i creatori, gli scultori, i pittori, i poeti, i compositori di opere musicali e teatrali, ma bisogna ancora che l'uomo contemporaneo riscopra l'arte nel suo significato spirituale. L'arte infatti è apertura al mistero e alla tensione religiosa dell'essere umano: " E un passo un po' analogo a quello della fede... L'essenziale dell'arte si situa nel più profondo dell'uomo, in cui l'aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna ad una fugace intuizione della bellezza e della misteriosa unità delle cose ": Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII1, 1985, p. 1563. Senza l'arte l'uomo resterebbe ampiamente cieco a se stesso, al proprio mondo interiore, al senso drammatico della propria miseria, del proprio destino, della propria sete d'infinito. Il mondo, la Chiesa hanno bisogno dell'arte come della contemplazione. La musica, tra tutte le arti, esalta l'armonia universale e suscita la fraternità dei sentimenti al di là di tutte le frontiere: essa " per la sua natura può far risonare interiori armonie, solleva intense e profonde emozioni, esercita un potente influsso con il nuovo incanto ". La musica è " uno strumento di vera fraternità, aiutando a superare discriminazioni e frontiere ". La Chiesa insiste perché nella liturgia " l'arte musicale entri come elemento di glorificazione a Dio, come espressione e sostegno della preghiera, come mezzo di effusione degli animi dei partecipanti ": Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII2, 1985, pp. 209-211; cf VI2, p. 691ss; VIII1, 1984, p. 429ss. Tra le arti e la religione si rivelano connaturalità e convivenza spirituale. I cammini dell'arte e le vie della Chiesa si raggiungono là dove palpita lo spirito umano alla ricerca d'identità e di assoluto.

Bibl.: R. Alleau 1982. R. Bastide 1977. A.S. Berger 1989. P. Bourdieu 1966, 1990. A. Chastel 1986. C. Chenis 1991. G. Durand 1968, 1973, 1991. J. Duvignaud 1965, 1967. J.L. Ferrier 1969. P. Francastel. 1963, 1968. L. Goldmann 1964, 1981. R. Goldwater 1988. J. Guiart 1979. F. Haskell 1986. A. Hauser 1982. J. Huizinga 1983, 1989. M.C. Kearl 1989. H. Kuhn 1929. Ch. Lalo 1921. D. Menozzi 1991. R. Moulin 1985. J. Ortega Y Gasset 1925. D. Pankrantz 1990. K Popper 1989. H. Read et al. 1983. Sociologie de l'art. 1980-1981. P.C. Rosenblatt et al. 1976. E. Souriau 1990. A. Verger et al. 1990. J. Wolff 1981. O. Bell 1992. S. Elavathingal 1992. S. Escarpit 1994. R. Goldwater 1988. M. Lagny 1992. Ch. Lalo 1921. J.A. Maravall 1986. C. Pommier 1993. V.L. Zolberg 1990.

 

Atteggiamento. (inizio)

L'analisi degli atteggiamenti offre un approccio privilegiato per la comprensione delle culture. Conoscere gli atteggiamenti di una persona o di un gruppo, infatti, è, per buona parte, conoscere il segreto dei comportamenti e delle identificazioni culturali. Supponiamo di essere informati sui particolari atteggiamenti di un individuo - di cui conosciamo la nazionalità, la famiglia, l'appartenenza sociale -, non potremmo già forse indovinare l'orientamento delle sue opinioni, dei suoi impegni, del suo comportamento? Gli atteggiamenti di una persona ci rivelano il suo comportamento. Da ciò l'interesse collegato allo studio degli atteggiamenti. La nozione di atteggiamento è centrale in psico-sociologia. Cerchiamo di precisarne la nozione. Diciamo inizialmente ciò ch'esso non è.

La nozione. L'atteggiamento non è soltanto un'opinione, un'idea, una semplice preferenza, un interesse, un sentimento. Questo si spiega dimostrando come l'atteggiamento si colleghi all'azione. Le disposizioni che abbiamo sopra elencate possono rimanere sul solo piano emotivo e non portare all'atto concreto. Non si tratta di atteggiamenti del comportamento.

L'atteggiamento non è neppure una semplice motivazione o un'attrattiva psico-sociale; non si tratta neanche di un semplice particolare modo di percepire la realtà sociale o di aspirare ad uno status invidiato. Questi fattori del comportamento possono, in un certo senso, rimanere inefficaci e nell'ordine di un'idealità platonica.

L'atteggiamento è una realtà sintetica e dinamica che dispone all'azione. Se non si riduce né all'azione, né alla motivazione, né alla reazione emotiva; essa però comprende tutte queste componenti e predispone efficacemente il soggetto ad agire in un senso o in un altro. Definiremo l'atteggiamento come una struttura del dinamismo personale che orienta positivamente o negativamente il comportamento riguardo ad un oggetto psico-sociale: persona, situazione o realtà materiale. E un dinamismo, una disposizione all'azione, o ancora il dinamismo che prepara all'azione. E un modo abituale di vedere, giudicare, sentire, reagire concretamente.

In una formula più elaborata, si può dire che è una disposizione risultante da strutture relativamente durature dei nostri processi percettivi, emotivi e motivanti che si esercita verso un oggetto psicologico. Quando, per esempio, si parla dei nostri atteggiamenti riguardo a degli stranieri, o alla politica o ad un determinato gruppo religioso, si usa una formula sintetica che indica il nostro modo di percepire, di sentire, di reagire di fronte ad un oggetto sociale e questa struttura della nostra psiche costituisce come un dispositivo acquisito che ci impegna in un comportamento sia favorevole che sfavorevole nei confronti degli stranieri, di un determinato partito politico, di una determinata religione, ecc.

Dinamica del comportamento umano. Come si può vedere, il concetto di atteggiamento si applica al comportamento globale che include tutte le dimensioni delle condotte umane. Rimarchiamo gli apporti di questa teoria dell'atteggiamento: 1) L'atteggiamento abbraccia, si può dire, la totalità del comportamento, e questo evita le arbitrarie suddivisioni che talvolta si stabiliscono tra i comportamenti intellettivi o affettivi, tra credenza e morale. Il comportamento religioso, ad esempio, non dovrà essere trattato come un compartimento autonomo, ermetico, della nostra vita psicologica. Al contrario, le condotte religiose racchiudono l'insieme del comportamento. 2) Con la nozione di atteggiamento si supera il behaviorismo sociale, poiché accorda un ruolo fondamentale all'aspetto conoscitivo e percettivo del comportamento psico-sociale. Diventa inutile insistere sul vantaggio di cui parliamo se ci si rende conto del ruolo della conoscenza e della credenza nelle condotte etico-religiose e nelle opzioni più importanti della vita umana. 3) La nozione di atteggiamento è inseparabile da quella di disposizione e struttura psicologica; ciò significa che, pur insistendo sull'apprendimento e l'esperienza psico-sociale del soggetto, ci si trova a postulare un substrato della personalità che gode di una stabilità propria. Da un canto, sono così scartate le concezioni psicologiche che riducono il comportamento umano a determinismi inconsci o a istinti ciechi. Da un altro canto, la persona emerge come un soggetto capace di percezioni e di scelte morali. 4) Si noterà ugualmente che l'analisi degli atteggiamenti si situa ad un piano che trascende le antinomie dello psicologismo o del sociologismo. Non si tratta più di opporre in maniera irriduttibile la libertà dell'individuo e i condizionamenti sociologici che subisce. I nostri atteggiamenti esprimono tanto la nostra propria personalità che l'ambiente e la cultura con cui siamo solidali. Due sorgenti dei nostri atteggiamenti sono così precisate: quella che proviene dalla psicologia individuale e quella che ispira l'ambiente socio-culturale. Ma, pur tenendo conto della specificità di questi due fattori, non bisognerà trascurare le interazioni che si stabiliscono tra di loro. Siamo veramente noi che reagiamo in questo o in quel modo secondo la nostra psicologia intima, ma è ugualmente secondo l'influenza degli ambienti con i quali ci identifichiamo.

Per percepire con esattezza il ruolo degli atteggiamenti nei comportamenti individuali e collettivi bisogna comprenderli nel contesto dei gruppi di riferimento che ispirano e motivano i nostri valori, le nostre identità, le nostre appartenenze. Rinviamo a questi concetti per i completamenti utili.

Vedi: Appartenenza, Gruppo di riferimento, Identità, Valore.

Bibl.: G.W. Allport 1935. F. Demarchi e A. Ellena 1976. N. Elias 1973, 1988. P. Fraisse et al. 1961. A.H. Maslow 1954. W. McGuire 1969. G. Mugnyl 1995. J. Piaget et al. 1987. M. Siguan 1987.

B

 

Beni culturali (destinazione universale). (inizio)

Per analogia con il principio etico che afferma che i beni terrestri hanno una destinazione universale perché sono stati creati per il vantaggio di tutti, oggi si pone il problema se anche i beni culturali, come quelli materiali, abbiano una destinazione universale. In un mondo sempre più interdipendente, come bisogna intendere la partecipazione di ogni persona e di tutti i gruppi umani ai beni della cultura? In altri termini, le regole della giustizia distributiva trovano una applicazione stretta nel campo dei beni e dei diritti culturali?

Comunicabilità dei beni culturali. E inizialmente indispensabile una chiarificazione a proposito della comunicabilità dei beni culturali. Questo appartiene essenzialmente alla natura della cultura, al suo modo di acquisizione e di trasmissione. In questa questione che riguarda insieme la cultura e l'etica, il nostro punto centrale di riferimento è il bene della persona, prima creatrice e beneficiaria del progresso culturale. Ora, in una prospettiva personalistica, è ogni singola persona che si perfeziona con l'apprendimento, l'allenamento intellettuale, l'approfondimento della conoscenza e la creatività del proprio spirito. E un bene proprio della persona che chiamiamo colta l'aver saputo dispiegare i propri talenti. La cultura, certo, esige la trasmissione delle conoscenze, ma essa è, in radice, il risultato di uno sforzo di assimilazione e di perfezionamento personale. Essa è il risultato di un autosviluppo e di un autoarricchimento perché è la persona che coltiva se stessa. Nessun altro la può arricchire al suo posto. Dobbiamo quindi riconoscere questa parte di singolarità e di incomunicabilità in ogni cultura personale. Ne abbiamo un'intuizione acuta quando la morte ci priva di un grande scienziato o di un noto artista. Abbiamo allora l'impressione che sia accaduta una perdita irreparabile per la cultura. Ognuno si distingue per la cultura che è collegata ai propri talenti e per la somma delle conoscenze e delle esperienze che l'hanno fatto crescere sul piano umano.

Occorre, tuttavia, subito aggiungere che il progresso autentico della persona richiama in controparte un incessante scambio all'interno della comunità umana, perché l'isolamento autosufficiente conduce alla morte dello spirito. Ciò che io conosco è insieme un'acquisizione personale ed un arricchimento condiviso con altri. La scienza, l'arte, la cultura esigono contemporaneamente l'interiorizzazione personalizzata e lo scambio collettivo. Il sapere, il saper fare e il saper vivere diventano allora attributi delle persone ed anche di tutta la società che chiamiamo colta. E questo valore deve essere difeso come il bene inalienabile che distingue le persone e i gruppi umani.

Beni culturali comuni. Ogni comunità umana si definisce precisamente per la sua cultura, cioè per il suo modo originale ed unico di percepire la vita, di giudicare, di comportarsi, di creare opere e istituzioni che umanizzano uno spazio fisico e sociale. La cultura così concepita specifica l'identità di ogni collettività umana. E il bene primo, il patrimonio e il progetto di vita tipico che nessuna società può sacrificare senza distruggere se stessa. Ma la cultura dei gruppi, come quella delle persone, non può sopravvivere nell'isolamento senza minaccia di chiusura, di disumanizzazione e d'incultura. La promozione dell'identità culturale richiama dunque, per una specie di necessità interna, la comprensione e il dialogo tra le culture. Questa reciprocità sottolinea l'interdipendenza dei beni culturali di ogni persona e di ogni gruppo. La destinazione universale dei beni dello spirito si opera dunque, in larga parte, con il libero scambio ed il reciproco arricchimento. La caratteristica dei beni culturali è proprio quella di poter condividere senza impoverirsi. Accade, anzi, che il contrario ne sia la regola, perché è diffondendosi che una cultura si approfondisce e si universalizza.

La solidarietà umana sarebbe illusoria senza il rispetto di una duplice esigenza: prima di tutto, la crescita e la salvaguardia della ricchezza culturale propria di ogni persona e di ogni società; e, contemporaneamente, la mutua fecondazione delle culture particolari, sorgente di arricchimento continuo della cultura umana in sé. Un bene culturale comune s'impone dunque come un imperativo di cui prende più chiaramente coscienza la società moderna. In controparte, s'impone la necessità della democratizzazione culturale.

Di fronte all'esigenza di sviluppo di tutti gli uomini e di tutti i popoli, possiamo meglio comprendere la funzione della scienza, dell'arte e della cultura in genere nel progresso della società umana. Nuovi problemi etici s'impongono alla coscienza universale e alla riflessione cristiana. Teniamo presenti alcuni dei più recenti fenomeni di evoluzione che si compendiano nelle seguenti espressioni: la socializzazione della scienza, lo slancio dello sviluppo culturale, la politicizzazione della cultura, la democratizzazione culturale.

La scienza, un bene socializzato. La scienza non è più soltanto una questione che riguardi gli scienziati considerati individualmente. La scienza oggi costituisce una vera e propria istituzione della società. Il settore scientifico rappresenta un considerevole potere che implica una responsabilità collettiva di uomini e donne di scienza per la promozione di una società giusta, pacifica e fraterna. La scienza si è socializzata e le équipes o i centri di ricerca sono ormai sottoposti a norme e regole di condotta richieste dal bene comune.

Lo Stato moderno è, in questo modo, condotto a definire una politica della scienza per dotare la nazione di un equipaggiamento equilibrato nelle principali discipline che sono vitali per il progresso dell'industria, della medicina, per la difesa, la ricerca fondamentale, la qualità della vita (notiamo il crescente ruolo delle scienze umane). Criteri di comune partecipazione al progresso della scienza fanno ormai parte di una politica illuminata. Questo impegno si fa complesso per i rapidi progressi della scienza, per l'accumulo quasi illimitato delle conoscenze e per la superspecializzazione delle discipline che, spesso, crea una situazione oggettiva di incomunicabilità all'infuori degli esperti e degli iniziati. Come allora la società può controllare l'uso delle scienze a beneficio di tutti?

L'aspetto internazionale delle politiche scientifiche pone dei problemi ancora più complessi, al di là del diritto al segreto (supposto o reale), del rispetto per i brevetti d'invenzione e dei diritti d'autore. La politica e la pratica delle nazioni ricche, in materia di scienze, tendono a creare una nuova situazione di dipendenza o di colonizzazione culturale. La condivisione dei vantaggi della scienza tra nazioni esige molta chiaroveggenza e generosità da parte del mondo scientifico e dei responsabili politici. La loro responsabilità è molto grande di fronte alla prospettiva dello sviluppo di tutti i popoli.

Partecipazione allo sviluppo culturale. La nozione di sviluppo culturale pone oggi in rilievo la dimensione umanistica ed etica del progresso dei popoli. Uno sviluppo autentico esige la partecipazione ai vantaggi sia economici che culturali del progresso umano. L'esperienza ha ampiamente dimostrato che i progetti di sviluppo producono illusione e disinganno quando si limitano agli aspetti economici e tecnici trascurando l'identità dei popoli e le loro aspirazioni culturali. Nessun gruppo umano può rinunciare a progredire sotto pena di perdere la propria anima e la propria cultura. Ma per accedere ai benefici della modernizzazione, i popoli in sviluppo devono operare una scelta molto complessa: pur accogliendo la scienza e la cultura moderne, essi devono discernere gli elementi che sono conciliabili con la propria cultura tradizionale. Essi devono, d'altra parte, chiedersi quali siano i valori tradizionali da mantenere vivi in un paese che sta emergendo, ma che intende preservare la propria identità nazionale.

I beni della scienza e della tecnica acquistano oggi un'importanza considerevole nello sviluppo delle nazioni. Giovanni Paolo II così si esprimeva: " Un'altra forma di proprietà esiste, in particolare, nel nostro tempo e riveste un'importanza non inferiore a quella della terra: è la proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere. Su questo tipo di proprietà si fonda la ricchezza delle nazioni industrializzate molto più che su quella delle risorse naturali ": Centesimus annus, 1991, n. 32. Le nazioni industrialmente più avanzate sono chiamate ad esplorare insieme alle nazioni in via di sviluppo, come queste possano partecipare ai vantaggi delle scienze tecniche. D'ambo le parti s'impongono dei discernimenti responsabili. Se queste scelte non raggiungono il progetto idoneo, il rischio è che le nazioni ricche sommergano la cultura dei paesi in via di sviluppo. Questi aspirano ardentemente ad acquistare tutti i vantaggi della scienza e della creatività culturale e certamente i programmi di sviluppo devono rispondere a queste esigenze. Ma è soltanto in un dialogo responsabile tra paesi ricchi e paesi poveri che l'intercomunicazione culturale potrà tener conto della duplice esigenza del rispetto delle identità nazionali e della libera partecipazione ai tesori dell'educazione, della scienza e dell'arte che devono, progressivamente, diventare il patrimonio comune dell'umanità. Questo patrimonio includerà anche la ricchezza dei costumi, l'eredità artistica, la sapienza e la filosofia delle culture tradizionali.

Democratizzazione culturale. Questi bisogni incitano oggi gli Stati a dotarsi di un'autentica politica della cultura. L'obbiettivo minimo è costituito dalla difesa e dalla promozione del patrimonio culturale comune della nazione: luoghi, monumenti, arti tradizionali e popolari, archivi, opere letterarie ed artistiche. Una finalità più ambiziosa tende ora ad imporsi: essa mira alla democratizzazione culturale secondo la quale tutti i cittadini e tutti i gruppi devono potenzialmente avere accesso ai vantaggi della scienza, dell'educazione, dell'arte, della formazione permanente.

Per promuovere il diritto e l'accesso alla cultura devono essere assicurate certe condizioni. Gli Stati, attraverso la loro politica, possono favorire la democrazia culturale garantendo, prima di tutto, un minimo di uguaglianza nelle possibilità di progresso date ai cittadini. Sul piano negativo, occorre escludere ogni forma di discriminazione basata sulla razza, sul sesso, sulla religione. Sul piano positivo, la democratizzazione presuppone che sia stimolata la creazione popolare e che tutte le componenti della comunità nazionale possano liberamente esprimersi. Non è compito dello Stato imporsi direttamente o dettare i criteri di una cultura. Il suo ruolo consiste piuttosto nell'assicurare la libertà di partecipazione e l'accesso di tutti ai benefici della cultura. Questa libertà è difesa quando il pubblico acquista la capacità di critica dell'informazione e non rimane passivo di fronte al consumismo di massa.

L'influenza dominante dei media impone condizionamenti che rischiano di uniformare le culture. La politica culturale deve favorire tutto ciò che incoraggia la libera scelta e la creatività delle persone e dei gruppi.

Diritto umano fondamentale. Pur accettando una certa mondialità della cultura, conseguenza della grande interdipendenza tra le nazioni, occorre vegliare affinché il bene proprio di ogni cultura sia protetto e promosso, altrimenti l'omologazione delle culture diventa un pericolo comune. I vantaggi apportati dalle scienze, dalla tecnica e dall'arte contribuiscono certamente al progresso di tutte le persone e di tutti i popoli, ma la condivisione effettiva dei beni culturali esige che siano rispettate le leggi di un libero scambio tra i collaboratori interessati.

E applicabile la giustizia distributiva nella condivisione dei beni culturali? Forse, ma in modo molto particolare. I beni culturali non si distribuiscono come i beni materiali. Non si tratta semplicemente di ripartire tra tutti gli uomini la somma delle conoscenze e delle produzioni artistiche, ma piuttosto di rendere ogni persona intellettualmente capace di accedere, in piena libertà, ai tesori del sapere, della scienza e dell'arte. Si tratta di una forma di giustizia superiore o di un diritto fondamentale che permetta ad ogni uomo e ad ogni donna di realizzarsi come essere umano. Per beneficiare dei beni culturali, occorre, in primo luogo, una educazione di base, poi una progressiva iniziazione che esige applicazione e prolungato sforzo. E un compito che rimane sempre incompiuto perché i tesori della cultura umana sono inesauribili, ivi compresi quelli della conoscenza teologica e dell'arte sacra. Un immenso progresso etico si compirà quando i nostri contemporanei si convinceranno che tutte le risorse della scienza e dell'arte devono progressivamente concorrere all'elevazione intellettuale e spirituale di tutti gli uomini. Soltanto una nuova educazione della coscienza dei ricchi come dei poveri potrà affrontare una sfida così complessa.

Vedi: Educazione, Sviluppo culturale, Diritti culturali, Politica culturale, Politica della scienza.

Bibl.: Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus, 2 maggio 1991. H. Carrier 1990 b. J. Hersch 1968, 1985. R. Etchegaray et al. 1992.

 

Beni culturali (Convenzione per la protezione dei). (inizio)

La Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato è stata firmata a La Haye il 14 maggio 1954, in occasione di una conferenza internazionale degli Stati convocata dall'UNESCO. Lo scopo della Convenzione è la salvaguardia e la protezione dei beni mobili ed immobili considerati di grande valore per il patrimonio culturale dei popoli, qualunque sia la loro origine, la loro natura o il loro proprietario.

Vedi: Diritti culturali, Patrimonio culturale, Politica culturale.

 

Beni culturali della Chiesa (Commissione pontificia per i). (inizio)

La Commissione pontificia per i beni culturali della Chiesa è stata istituita da Giovanni Paolo II partendo da un organismo anteriore creato nel 1988 con il nome di Commissione pontificia per la conservazione del patrimonio artistico e storico.

La Commissione ha per compito di curare la conservazione e la promozione dei beni culturali nel complesso della Chiesa. S'interessa particolarmente delle opere antiche, come dei documenti e degli atti giuridici, soprattutto di quelli che riguardano i diritti e gli obblighi delle parrocchie, delle chiese e delle istituzioni cattoliche. La Commissione collabora con Chiese particolari per la costituzione di musei, archivi e biblioteche, per assicurare la conservazione e l'accesso alle ricchezze culturali, artistiche e storiche dei territori ecclesiastici corrispondenti. In accordo con gli altri organismi della Santa Sede più direttamente interessati in materia, la Commissione intende sensibilizzare il popolo di Dio alla necessità di conservare e valorizzare l'insieme del patrimonio storico, artistico e culturale della Chiesa. La Commissione consegue la sua attività in stretta relazione con il Pontificio Consiglio della cultura.

Vedi: Pontificio Consiglio della cultura. Arte.