HERVÉ CARRIER S.J

DIZIONARIO

DELLA CULTURA

PER L'ANALISI CULTURALE

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Identità culturale. (inizio)

Questo concetto ha acquisito una posizione centrale nelle ricerche e nei programmi d'azione che riguardano le culture. In un senso globale esso indica la cultura propria ed unica di ogni gruppo umano e di ognuno dei suoi membri. L'identità culturale è essenzialmente quell'insieme di tratti che permette ad un gruppo di riconoscersi nella propria originalità e d'essere percepito dagli altri come diverso. Ogni cultura distingue spontaneamente i suoi e questi, a loro volta, vi si ritrovano e vi si riconoscono. L'identità culturale dà al gruppo un suo proprio senso di appartenenza, senza confusione, né alterazione. Esso acquista così una coscienza della propria permanenza nel tempo, della propria continuità, malgrado le evoluzioni e le circostanze che cambiano. L'identità culturale offre un'immagine ideale del gruppo, conserva la sua memoria collettiva e lo fa sentire legato ad una storia e a un destino collettivo. L'identità, attributo sia del gruppo che dell'individuo, è più facilmente concepita che empiricamente descritta. Gli scrittori ne hanno scrutato l'enigmatica realtà.

Paul Valéry era sedotto dal gioco del Medesimo e Identico: " La nostra identità è il nostro primo strumento di pensiero, senza il quale saremmo simili a corpi materiali... ". L'identità, egli dice, è precisamente costituita dalle " memorie dell'io ". Per Victor Hugo, l'identità è " una profonda abitudine di vivere " per la quale l'uomo " diventa a se stesso la propria tradizione... Egli sente che in sé c'è qualcosa d'indivisibile. L'Essere è la somma di tutto ciò che si è stati ": P. Tap. 1980, I pp. 398-401.

Il termine identità è molto usato in psicologia, in sociologia e in antropologia. Freud l'ha usato una volta sola, ma in modo significativo, quando ha voluto identificarsi in rapporto all'ebraismo per raggiungere, diceva, " una identità interiore, che non fosse basata nè sulla razza nè sulla religione: L'interpretazione dei sogni 1899.

Identificazione di sé e degli altri. Per applicare il termine identità alle realtà culturali, è necessario distinguere i significati, diversi e complementari, che riveste la parola identificazione secondo che sia determinata dalle preposizioni " a ", " di ", " da ".

C'è l'identificazione a un gruppo, ai suoi valori, alle sue attese, ai suoi ideali. C'è poi l'identificazione dell'altro come tale, ciò che implica l'identificazione di sé, della propria individualità e della propria differenza: è, infatti, soltanto paragonandosi agli altri che si scopre la propria originalità e la ricchezza della propria cultura. Jean Piaget afferma: " Colui che non ha mai avuto idea di una possibile pluralità non ha nessuna coscienza della propria individualità ". C'è ancora l'identità riconosciuta dagli altri. E un aspetto di cui non sempre si acquista consapevolezza. Di fatto, noi ci identifichiamo secondo come gli altri ci identificano, ci riconoscono, ci situano. Poco tempo prima di morire Jean-Paul Sartre provava la sensazione d'essere identificato già come un uomo scomparso: " Sono già quasi morto da qualche tempo, non che mi senta tale, ma la gente mi vede così ". I membri di una minoranza culturale sono molto sensibili a questa identificazine da parte degli altri. Una giornalista americana di razza nera diceva: " I bianchi non credono che io rimanga culturalmente diversa, i neri, per parte loro, non credono che io rimanga culturalmente la stessa: " Newsweek ", 13 ottobre 1980.

L'identità culturale si collega a punti di riferimento molto particolari, che si potrebbero chiamare il contesto identificante, un insieme complesso riferentesi ad una lingua, ad una famiglia, ad un luogo geografico, a tradizioni proprie, a racconti storici, a monumenti, a libri sacri, ad anniversari, a celebrazioni.

Immagine di sé e immaginario collettivo. Per cogliere l'identità culturale nella sua realtà complessa, dinamica e movente, è utile distinguere tre delle sue principali componenenti: innanzi tutto l'immagine di sé, percepita dal gruppo; poi i modelli e le strutture che sostengono un modo tipico di vivere; infine, le aspirazioni collettive che guidano il gruppo nei suoi progetti di avvenire. Queste tre realtà, l'autopercezione, il comportamento istituzionalizzato e l'immaginario collettivo, hanno tra loro un rapporto di stretta interdipendenza e se una delle componenti viene a mancare c'è crisi di identità. Per esempio, l'autopercezione può diventare confusa nei giovani immigrati, nelle minoranze, nei gruppi sottoposti alle manipolazioni della propaganda. L'immagine di sé è allora inibita, respinta per timore o per desiderio di sicurezza. Si manifesta una crisi d'identità anche quando le istituzioni e le norme sociali crollano, privando gli individui di un punto di riferimento sicuro riguardo al comportamento familiare, politico, religioso. L'identità entra in crisi anche quando il gruppo perde la padronanza del proprio avvenire e quando è colpito nella propria volontà di sopravvivenza come comunità distinta. Questo è il fatalismo in cui rischiano di cadere le collettività che non riescono ad accedere alla modernità e si sentono minacciate nel loro essere storico. Questo problema riveste un'importanza decisiva per i nuovi paesi, che aspirano alla modernizzazione, ma non vogliono sacrificare i valori profondi della loro anima e delle loro tradizioni. Essi si trovano di fronte a scelte estremamente difficili, volendo ad un tempo mantenere vivi i valori tradizionali ed accogliere i nuovi modi di vita familiare, urbana, sindacale, politica, scolastica che esige lo sviluppo desiderato.

L'identità culturale non è necessariamente sinonimo d'identità nazionale poichè si trovano, all'interno dei popoli, alcune comunità minoritarie che aspirano a vivere secondo proprie caratteristiche linguistiche, etniche, religiose, regionali. Il problema è nella conciliazione di quelle che si chiamano le identità plurime. Nelle società complesse le identità sono, in generale, multiple e si ordinano tra loro in forme gerarchiche; per esempio: un gruppo linguistico particolare s'identifica alla propria ristretta cultura, cosa che non gli impedisce di identificarsi anche ad una cultura più larga, quella di una nazione, di un mondo culturale più vasto, quali possono essere la cultura germanica, ispanica, europea, africana.

Memoria e anticipazione creatrice. Se la cultura è libertà, come si afferma, occorre prendere coscienza che l'identità di un gruppo, nelle società complesse, mobili e pluralistiche d'oggi, non può sussistere né crescere senza uno sforzo collettivo e creativo dell'insieme della comunità. Vivere insieme esige ormai l'adesione cosciente ad un progetto collettivamente assunto. Nessuna cultura, nel mondo moderno, può sopravvivere senza una volontà comune: " Stare insieme, scrive Pierre Emmanuel, è un'immensa operazione, un'orchestrazione infinitamente complessa, la cui chiave invisibile è la convinzione condivisa che questo insieme esiste, ch'esso ha un senso attraverso la storia, che occorre esservi attenti perché non s'indebolisca e che questa attenzione, a più livelli, ha dei sinonimi che sono: libertà, democrazia, giustizia sociale, umanità ": P. Emmanuel, 1971, p. 22.

L'identità culturale richiede dunque, più che mai, uno sforzo creatore, costante e voluto. Occorre che, sia i gruppi che le persone, facciano emergere tutta la ricchezza del loro io profondo, con un lavoro continuo. Vivere la storia di un popolo è come la produzione di un'opera letteraria, che traduce la ricerca incessante degli " io " virtuali, potenziali, non ancora maturati nello scrittore. La ricerca del proprio " io " è paragonabile alla ricerca del " noi collettivo ". Claudel dice: " L'"Io" non è un altro, è "se stesso", ma un "se stesso" non ancora raggiunto ". L'errore consisterebbe nel concepire l'identità come una realtà fissa, strutturata. E la sfida posta alle società tradizionali che devono affrontare i valori moderni. Se rimangono chiuse in un fissismo e in un arcaismo protettori, diventano incapaci di adattamento vivo e paralizzano le creatività indispensabili allo sviluppo culturale. La cultura di un gruppo, per rimanere viva, deve collegarsi al passato ma anche all'avvenire. E fatta di fedeltà, ma anche di speranza.

Due paradossi si presentano: prima di tutto, la fedeltà non deve essere confusa con il conservatorismo, ma essere, invece, la costante possibilità di rimanere se stessi. D'altra parte, l'identità è anche tensione verso l'avvenire, capacità di crescere secondo l'essere proprio e di accogliere i mutamenti che s'impongono. E indispensabile valutare attentamente l'equilibrio tra conservazione e crescita, per comprendere le alterazioni che possono colpire l'identità di un gruppo: il décalage o lo scarto culturale - cultural lag -, l'assorbimento o l'estinzione delle culture e, crisi tipica della nostra epoca, l'alienazione culturale. Riteniamo che l'identità di un gruppo si radica sia nella memoria costantemente attualizzata, sia nell'anticipazione creatrice dell'avvenire.

La promozione dell'identità culturale è ormai oggetto di un intervento cosciente dei cittadini, delle associazioni private, degli educatori e delle comunità che vivono all'interno delle nazioni. I governi se ne preoccupano, a buon diritto e con priorità, nelle loro politiche culturali e educative. Ma non è compito dello Stato definire l'identità culturale delle società; il suo ruolo consiste piuttosto nel liberare le forze latenti della nazione, nell'aiutare tutti i gruppi a crescere culturalmente, nell'uguaglianza delle possibilità, nel rispetto dei particolarismi come in quello dei valori comuni. Una politica che volesse determinare il contenuto di una cultura equivarrebbe ad un dirigismo inaccettabile.

Questo statalismo culturale costituirebbe violenza nei confronti del diritto fondamentale di ogni gruppo umano di vivere e di affermarsi secondo la propria esperienza storica. Si tratta di mantenere un equilibrio delicato, non sempre rispettato, come dimostrano le politiche degli Stati totalitari. Ma non è un equilibrio impossibile da raggiungere, quando si rispetta la dinamica democratica.

Identità e dialogo delle culture. Un altro equilibrio è necessario, quello, tra l'affermazione delle identità culturali e il dialogo necessario tra tutte le culture. Se è vero che ogni cultura protegge la propria identità resistendo all'assimilazione da parte di altre culture, è ancora vero che questa resistenza non deve impedire la comunicazione con altre culture, condizione essenziale di progresso. Lévi-Strauss lo spiega così: " Ogni cultura si sviluppa grazie agli scambi con altre culture. Ma occorre che ognuna vi frapponga una certa resistenza, se no, molto presto, non avrà più nulla che le appartiene in proprio da scambiare. L'assenza o l'eccesso di comunicazione hanno l'una e l'altro il loro pericolo ": C. Lévi-Strauss, De près et de loin, Paris, 1988. La difesa della propria cultura è un diritto sacro, che oggi ispira le lotte per la giustizia e la dignità. E bisogna riconoscere che la liberazione economica e politica richiamano necessariamente la liberazione culturale, perché, diversamente, la comunità nazionale viene tradita nel proprio essere profondo.

D'altra parte, la rivendicazione esclusiva ed eccessiva dell'identità nazionale, etnica, regionale rischia d'isolare i gruppi, di impoverirli e di condannarli alla regressione. E, cosa ancor più grave, le identità esacerbate tendono a fare opposizione con la violenza. Questa è la causa grave dei conflitti etnici, sociali, militari e religiosi della nostra epoca. La cultura umana, nel suo senso proprio, e l'avvenire stesso dell'umanità, hanno come presupposto assoluto la comprensione tra le culture. Identità propria e comprensione degli altri si richiamano in una dialettica delicata, ma necessaria. Le collettività devono rimanere fedeli a se stesse, ma devono anche comprendere le altre culture, gli altri gruppi. E questa la condizione indispensabile per l'instaurarsi di una comunità mondiale fatta di solidarietà, di comprensione e di pace.

Vedi: Cultura, Acculturazione, Appartenenza, Analisi culturale, Tratti culturali.

Bibl.: S. Abau 1981. J. Benoît et C. Lévi-Strauss 1977. P. Caussat 1989. E. Erikson 1968, 1992. R. Schlesinger 1991. M. Stein 1960. P. Tap 1980, 1981. Y. Bizeul 1991. F. Braudel 1990. I. Burkitt 1991. K. Gerken 1991. G. Grunebaum 1973. S. Hall et al. 1996. M. Hechter 1987. R. Inglehart 1993. P. McDonough 1992. B. Secondin 1992. P. Suess 1992. C. Taylor 1989. J.-P. Willaime 1992.

 

Ideologia. (inizio)

Etimologicamente ideologia significa studio delle idee ed è così che si definiva l'ideologia alla fine del XVIII secolo: una scienza delle idee, delle loro espressioni e della loro origine. Si chiamavano ideologi quelli che si dedicavano a questa disciplina. Attualmente, un uso non rigoroso del termine indica le idee dominanti o il sistema di pensiero di un gruppo sociale. Alcuni lo impiegano anche per descrivere gli atteggiamenti religiosi o le credenze di un gruppo: parlano dell'ideologia cristiana o islamica, ciò che comporta un rischio di confusione, perché il concetto di ideologia non è privo di connotazione partigiana ed irrazionale. Clifford Geertz (1973) dice che la parola ideologia " è essa stessa diventata estremamente ideologizzata ".

Prospettiva storica. La storia del concetto spiega la difficoltà di giungere ad un significato che sia comunemente ammesso dalle scienze umane. Il termine è stato inizialmente utilizzato al tempo della Rivoluzione francese ed è stato illustrato da Destutt de Tracy (1755-1836), per il quale l'ideologia è essenzialmente " la scienza delle idee ", come abbiamo precedentemente detto. La parola, in seguito, è stata largamente usata da Stendhal e da H. Taine.

I primi sociologi hanno tentato di sviluppare una scienza oggettiva delle idee, ma le controversie suscitate dalle teorie marxiste hanno finito per circondare il concetto di una forte carica passionale. Per Marx ed Engels, l'ideologia corrisponde ai riflessi illusori delle strutture sociali: si tratta di una " falsa coscienza della realtà "; è l'" immagine capovolta nella camera oscura di un apparecchio fotografico ", per cui " l'ideologia borghese " è pura ipocrisia. Soltanto l'ideologia proletaria può restituire all'uomo il senso del proprio destino, perché soltanto i proletari hanno il senso totale del movimento storico. Queste tesi, come è noto, sono state attaccate da Karl Mannheim (1893-1947), il quale ha dimostrato che l'ideologia è sempre da interpretare nella prospettiva dei partiti, delle classi sociali, delle nazioni e delle situazioni sociali storicamente vissute. L'interazione costante tra le mentalità, le utopie e le culture rende fortemente complessa l'analisi delle ideologie.

Malgrado la difficoltà di precisare il significato del concetto, occorre tenere presente che le ideologie esercitano un importante influsso sulle società e le culture. Al di là della critica che si può muovere ad ogni forma partigiana e utopica di pensiero, bisogna riconoscere la forza rivoluzionaria trainante dell'ideologia in quanto realtà psicosociale. L'ideologia è effettivamente una visione sociopolitica che ha incorporato in sé le aspirazioni, gli interessi, i sogni e le legittimazioni degli impegni collettivi di un gruppo umano che si proietta verso l'avvenire. L'ideologia corrisponde ad una rappresentazione collettiva, soggettivamente nobile, ma non imparziale del reale sociale, intravveduto attraverso gli interessi partigiani del gruppo. L'ideologia, in quanto visione totalizzante e globalizzante, tende a diventare spiegazione ultima, assoluta ed obbligatoria dell'ideale di una collettività. E una rappresentazione mitica del destino umano-sociale che mobilita le masse in un modo che non è senza analogia con l'azione delle religioni. Paolo VI diceva che l'ideologia può diventare un " nuovo idolo ": Octogesima Adveniens, n. 28. Il documento di Puebla (1979) indica le ideologie come delle religiones laicales ": n. 396-398. Napoleone descriveva l'ideologia come " un'oscura metafisica " e la sua famosa parola contro " gli ideologi " ha contribuito a screditare l'espressione.

Ideologia e utopia. Il dinamismo dell'ideologia in seno ad una società e ad una cultura è stato analizzato dagli psico-sociologi. Questi hanno dimostrato che l'ideologia porta le credenze cieche e le speranze acritiche di un gruppo che rigetta, come nemici del popolo, tutti gli avversari che non condividono il pensiero comune. L'ideologia ispira i militanti e i rivoluzionari che si dedicano al suo servizio e trovano in questo impegno una soddisfazione psicologica e una motivazione che possono condurli anche al sacrificio della propria vita per la causa comune: A. Akoum, 1975.

In quanto visione sociopolitica, l'ideologia agisce come una potente utopia, alimentata da aspirazioni collettive e da interessi soggettivamente definiti. L'ideologia liberale o neoliberale, come, del resto, l'ideologia marxista, poggiano su di un'interpretazione largamente non razionale dei meccanismi economici e sociali. Privilegiando il principio del profitto, il libero gioco della concorrenza, la semplice legge di mercato, l'ideologia liberale postula che l'ordine sociale sia il risultato di un dinamismo segreto e quasi provvidenziale che uno dei primi teorici liberali, Adam Smith, indicava esplicitamente come " la mano invisibile " della divinità.

Un non-detto irrazionale fa parte integrante di tutte le ideologie, qualunque sia la loro ispirazione: interessi economici, orientamenti rivoluzionari, fondamentalismi religiosi, dottrina della sedicente sicurezza nazionale. Le ideologie moderne costituiscono un paradosso culturale turbante: la nostra epoca che esalta i valori della razionalità è profondamente dilaniata dall'impatto di ideologie largamente alimentate da un'interpretazione irrazionale dell'avvenire umano. Le ideologie sono lo specchio delle culture esplose e in conflitto.

Occorrerà dunque ammettere la situazione paradossale di questo concetto che, malgrado le connotazioni peggiorative che l'accompagnano, rimane una categoria di analisi e di azione la cui portata è innegabile.

E un termine corrente che amano particolarmente i rivoluzionari di orientamento marxista, anche se i partiti comunisti ufficiali hanno registrato, negli ultimi venti anni, una perdita di fede nella purezza delle loro ideologie, al punto che il comunismo appare ideologicamente esaurito ed ha perduto il fascino che esercitava sulle masse. I neo-marxisti stessi hanno contestato il valore scientifico della teoria dell'ideologia elaborata da Marx e Lenin.

Le evoluzioni e le trasformazioni del concetto di ideologia e il conflitto persistente delle ideologie moderne di sinistra o di destra, rimangono tra i fenomeni culturali più caratteristici del nostro tempo. E un vasto campo che richiede approfondimento di analisi culturale ed etica.

Vedi: Coscienza collettiva.

Bibl.: A. Akoum 1975. D. Bell 1965, 1991. M. Billig 1991. R. Boudon 1986, 1991. H. Carrier 1989. C. Geertz 1973, cap. 8. L. Dumont 1993. A.W. Gouldner 1979. K. Mannheim 1929, 1985. K. Marx e Fr. Engels 1932, 1992. J. B. Thompson 1984.

 

Imperialismo culturale. (inizio)

Espressione polemica usata inizialmente dalle antiche colonie per condannare il dominio culturale dei paesi occidentali. Il termine serve anche a descrivere l'attuale invasione dei media, delle ideologie, dei modi di vita che provengono dai paesi più potenti. Al di là del linguaggio propagandistico, è utile precisare i seguenti punti.

L'imperialismo, in senso stretto, suppone una volontà di dominazione e una politica concertata di assoggettamento. Le antiche potenze colonizzatrici possono essere accusate d'imperialismo culturale nella misura in cui hanno imposto alle colonie un'acculturazione forzata, costringendole ad accettare la loro lingua, le loro leggi, le loro istituzioni, il loro sistema economico.

L'opinione pubblica in Occidente e in Giappone ha rigettato l'idea della colonizzazione territoriale, ma chiude facilmente gli occhi sulle forme moderne e più diffuse del dominio culturale. L'URSS, a sua volta, fu accusata d'imperialismo culturale nell'Europa dell'Est. L'URSS vi impose, infatti, l'insegnamento del russo, l'ideologia ufficiale del partito, la propaganda comunista, il controllo sulle scuole, le università, i mezzi di comunicazione. L'URSS era diventata il più importante dei " ri-diffusori " internazionali: F. Benhalla, 1983.

In un senso più largo, i paesi ricchi devono interrogarsi riguardo alla supremazia culturale che tendono ad esercitare, di fatto, nel mondo, attraverso la diffusione della tecnica, della scienza, degli stili di vita e attraverso l'eccezionale irradiazione dei mass-media. " La cultura americana ha dato al nostro paese un impero ", diceva un osservatore: Newsweek, 11 luglio 1983. Questo è vero, in un certo senso, per l'insieme dei paesi ricchi e industrializzati. I neo-marxisti sfruttano questo fatto dicendo che l'imperialismo americano e occidentale non è più soltanto economico, ma culturale, e la lingua inglese ne sarebbe il veicolo: Y. Eudes, 1982; C. Medori, 1979; H. Shiller 1989.

Anche se la supremazia culturale non è perseguita come obbiettivo ufficiale, essa pone ai paesi industriali dei seri problemi di responsabilità etica dato l'impatto della loro cultura sull'estero. La diffusione dei mezzi di comunicazione, della TV e delle industrie culturali suscita nuovi problemi: i paesi riceventi sono invasi da immagini e da messaggi che possono mettere in pericolo la loro propria cultura. Le industrie culturali dei paesi ricchi godono di condizioni di libertà e di finanziamento che favoriscono la loro creatività e la loro competitività sui mercati esteri. Ma il liberalismo economico non dovrà avere l'ultima parola nel campo dell'esportazione culturale. Altrimenti c'è il rischio del dominio e anche di una certa guerra culturale: H. Gobard, 1979.

Il dialogo e la comprensione tra le culture aiuteranno a cogliere le poste in gioco. S'impone un'azione congiunta da parte dei creatori, delle industrie culturali e dell'opinione pubblica nei paesi interessati, perché siano meglio comprese le corresponsabilità che sono in gioco. Nelle loro politiche culturali e negli scambi internazionali, i governi devono darsi delle norme che garantiscano sia la libera circolazione dei beni culturali sia i diritti culturali di tutti i popoli.

Vedi: Alienazione culturale, Rivoluzione culturale, Comunicazione sociale, Modernità.

Bibl.: America's Impact 1975. F. Benhalla 1983. C. J. Bertrand 1985. C.W E. Bigsby 1975. Y. Eudes 1982. H. Gobard 1979. J. M. Mackenzie 1990. C. Medori 1979. H. I. Schiller 1989. C. W. Thomsen 1989. Esprit, giugno 1991. U. Bitterli 1993. E. Said 1993. N. Thomas 1993. C. W. Thomsen 1989. G. A. Volladao 1993, 1995.

 

Inculturazione del Vangelo. (inizio)

Si tratta di una terminologia relativamente recente coniata per descrivere la penetrazione del messaggio cristiano in un determinato ambiente e i nuovi rapporti che si stabiliscono tra il Vangelo e la cultura di quell'ambiente. L'inculturazione si apparenta all'acculturazione, un termine usato dagli antropologi, dalla fine del secolo scorso, per indicare i cambiamenti culturali che si producono quando due gruppi umani vengono a vivere in contatto diretto. L'incontro delle culture provoca generalmente molteplici mutamenti, ad esempio, sul piano della lingua, dei costumi, delle credenze, dei comportamenti. I cattolici cominciarono assai presto ad usare il concetto di acculturazione per studiare i rapporti tra il cristianesimo e le culture. Oggi il termine inculturazione è preferito ed è più corrente. Esso ha il vantaggio di indicare con chiarezza che l'incontro del Vangelo con una cultura non si riduce unicamente al rapporto tra due culture (acculturazione). Si tratta specificamente dell'interazione del Messaggio di Cristo con una data cultura. La parola inculturazione è in uso tra i cattolici dagli anni '30, ma è soltanto a partire dagli anni '70 che i testi ufficiali della Chiesa la impiegano. Nel 1988, la Commissione Teologica Internazionale ha pubblicato il documento La Fede e l'inculturazione, preparato in collaborazione con il Consiglio Pontificio della Cultura, in cui si legge la seguente definizione al n. 11: " Il processo d'inculturazione può essere definito come lo sforzo della Chiesa per far penetrare il messaggio del Cristo in un dato ambiente socio-culturale, chiamando questo a crescere secondo tutti i valori propri quando questi siano conciliabili col Vangelo. Il termine inculturazione include l'idea della crescita, del reciproco arricchimento delle persone e dei gruppi, posto il fatto dell'incontro del Vangelo con un ambiente sociale. "L'inculturazione è l'incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone e, nel medesimo tempo, l'introduzione di queste culture nella vita della Chiesa": Enciclica Slavorum Apostoli, 2 giugno 1985, n. 21 ".

E opportuno sottolineare gli aspetti innovatori e gli aspetti tradizionali dell'inculturazione. In seguito indicheremo le ragioni che fanno considerare l'inculturazione come un nuovo approccio dell'evangelizzazione, ma occorrerà ugualmente notare che l'attuale riflessione sul tema beneficia di una lunga e ricca esperienza nella Chiesa.

Le lezioni della storia. Strettamente parlando, il processo d'inculturazione, cioè la compenetrazione tra Chiesa e culture, è antico quanto il cristianesimo stesso. Il Vangelo si è rivelato fin dall'inizio un potente fermento di trasformazione delle culture. I primi evengalizzatori hanno imparato a conoscere le lingue, i costumi, le tradizioni dei popoli a cui il messaggio di Cristo era annunciato. I primi pensatori cristiani hanno dovuto affrontare il problema sollevato dall'incontro del Vangelo con le culture del loro tempo. Si trovano già, nel secondo secolo, nella Lettera a Diogneto, delle osservazioni molto pertinenti sullo stile di vita dei cristiani, " cittadini del cielo " ma contemporaneamente identificati ai costumi del loro paese: " I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita... Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma il loro modo di vivere supera le leggi ": Lettera a Diogneto: da Liturgia delle Ore, mercoledì della quinta settimana di Pasqua.

Al tempo dell'espansione coloniale e dello sviluppo delle missioni, la Chiesa ha emanato, avanti lettera, delle vere regole d'inculturazione. Per esempio, la Congregazione per la propagazione della Fede pubblicava, nel 1659, la seguente direttiva: " Non fate alcun uso di zelo, non proponete argomenti per convincere questi popoli a cambiare i loro riti, i loro costumi e i loro usi, a meno che questi siano evidentemente contrari alla religione e alla morale. Che cosa c'è di più assurdo che il voler trasferire tra i Cinesi, la Francia, la Spagna, l'Italia o qualche altro paese d'Europa? Non introducete tra loro i nostri paesi, ma la fede, quella fede che non respinge né ferisce i riti o gli usi di un popolo, purché non siano detestabili, ma che, al contrario, vuole che siano conservati e li protegge: Le Siège apostolique et les Missions, Paris, Union missionnaire du Clergé ", 1959.

L'età moderna ha conosciuto un grande sviluppo missionario, segnato da una preparazione sempre più attenta dei preti, dei religiosi e delle religiose inviati in Africa, in Asia, nelle Americhe. Nel secolo XIX sono stati creati numerosi nuovi Istituti missionari che hanno portato il Vangelo in vaste regioni dove la Chiesa non era ancora penetrata per esservi impiantata. Questi Istituti, progressivamente, si sono specializzati nel definire sia il compito missionario, sia i metodi di adattamento ai diversi popoli.

Dopo la prima guerra mondiale e fino al Concilio Vaticano II, molti sono stati i documenti pubblicati nella Chiesa dai papi riguardo alle missioni e, particolarmente: Maximum illud (1919), Rerum Ecclesiae (1926), Evangelii praecones (1951). Vi erano in essi annunciate chiare direttive per promuovere un migliore adattamento del Vangelo al carattere e alle tradizioni di ogni popolo. Prima di tutto è necessario un buon possesso della lingua del paese. Una importanza tutta speciale era data alla costituzione di un clero indigeno. E necessaria la formazione del prete autoctono per la comprensione degli usi, dei costumi e dell'anima del proprio popolo. Egli deve essere accolto e rispettato dall'élite locale e deve essere preparato ad accedere in avvenire alle resposabilità di governo delle nuove Chiese. Anche i religiosi e le religiose sono incoraggiati ad accogliere e formare dei candidati indigeni. Tutti gli evangelizzatori dovrebbero beneficiare dell'aiuto che procurano le scienze moderne per conoscere meglio e servire le popolazioni: geografia, linguistica, storia, medicina, etnografia.

Queste direttive contengono preziosi orientamenti per l'inculturazione e manifestano una maturazione della teologia missionaria. La prima norma è quella di rispettare il carattere e il genio dei popoli da evangelizzare, coltivando i loro doni migliori, purificandoli ed elevandoli mediante la fede cristiana. Pio XII, nella sua prima enciclica Summi Pontificatus (1939), invita tutta la Chiesa " a comprendere più profondamente la civiltà e le istituzioni dei diversi popoli e a coltivare le loro qualità e i loro migliori doni... Tutto ciò che, nei costumi dei popoli, non è indissolubilmente legato alle superstizioni o agli errori, deve essere esaminato con benevolenza e, se possibile, conservato intatto ". Molti di questi orientamenti, come lo vedremo, saranno ripresi dal Vaticano II, soprattutto nel decreto Ad Gentes.

Nuovi aspetti dell'inculturazione. Molti degli avvenimenti che hanno segnato il mondo e la Chiesa dopo la seconda guerra mondiale, erano destinati a dare all'inculturazione una nuova urgenza. Con il movimento di decolonizzazione e di liberazione, le giovani Chiese erano chiamate a ridefinirsi in relazione alle nazioni che avevano portato loro il Vangelo. I pastori, i teologi delle Chiese d'Africa e d'Asia, ed anche molti Occidentali con essi, procedettero ad una revisione dei metodi di evangelizzazione praticati dai missionari. Le Chiese, certo, erano state impiantate, ma le culture autoctone erano state veramente convertite in profondità? Spesso, un certo paganesimo latente non era stato raggiunto. D'altra parte, le potenzialità religiose di molti costumi e tratti culturali non erano stati capiti ed assunti da parte dei missionari. Altre critiche ancora venivano fatte agli evangelizzatori europei, talvolta anche in forma eccessiva: troppo spesso questi avevano trapiantato le loro lingue, le loro istituzioni, il loro modo di pensare da un paese all'altro. Non era forse necessario, a questo punto, spogliare il cristianesimo dei suoi paludamenti occidentali per inculturare la fede nelle culture locali e procedere così ad una africanizzazione, un'indianizzazione o indigenizzazione delle Chiese autoctone? Il dibattito riguardava tutti gli aspetti della vita ecclesiale: il linguaggio, la teologia, la morale, la liturgia e l'eventuale accettazione da parte della Chiesa di certi elementi delle religioni tradizionali, quali i testi sacri e le forme di preghiera.

L'ampiezza e la gravità delle questioni dibattute fecero emergere l'urgente necessità di studi più approfonditi sulle condizioni, i criteri e i metodi dell'inculturazione. S'impose chiara la necessità di un riesame di tutta la questione alla luce dei principi teologici e di una migliore conoscenza dell'antropologia.

Criteri dell'inculturazione. I criteri da tenere presenti sono fondati sulla natura dell'inculturazione, concepita come un approccio metodico per evangelizzare le culture. E il presupposto fondamentale che deve ispirare tutto lo sforzo dell'inculturazione: lo scopo perseguito è l'evangelizzazione della cultura: vedi Evangelizzazione della Cultura.

L'inculturazione del Vangelo e l'evangelizzazione della cultura sono due aspetti complementari dell'unica missione evangelizzatrice. A questo titolo, l'inculturazione sarà guidata secondo le norme che reggono i rapporti tra la fede e le culture. E necessario il duplice rispetto delle realtà teologiche e antropologiche che entrano in gioco nel processo d'inculturazione.

In partenza, c'è il fatto gratuito dell'Incarnazione di Gesù Cristo e la sua eco nelle culture storiche. L'irradiamento del Vangelo chiama ormai tutte le culture ad un nuovo destino. Occorre sottolineare il significato culturale dell'Incarnazione. Gesù si è inserito in una particolare cultura: " Il Cristo stesso, per la sua Incarnazione, si è vincolato a condizioni sociali e culturali determinate dagli uomini coi quali è vissuto ": AG, 10. D'altra parte, l'Incarnazione raggiunge tutto l'uomo e tutte le realtà dell'uomo. Il Cristo raggiunge dunque tutti gli uomini nella complementarità delle loro culture. Si può dire, in un certo senso, che l'Incarnazione del Figlio di Dio è stata anche un'incarnazione culturale. L'Incarnazione del Cristo richiama da sé l'inculturazione della fede in tutti gli ambienti umani.

Il secondo principio che governa l'inculturazione è il discernimento antropologico delle culture da evangelizzare. E un'esigenza che nasce dalla complessità che assume l'evangelizzazione negli ambienti in rapida trasformazione, spesso in crisi d'identità culturale e religiosa.

Uno sforzo metodico di ricerca e di riflessione è oggi indispensabile. Occorre apprendere ad analizzare le culture per discernervi gli ostacoli, ma anche le potenzialità nei confronti della recezione del Vangelo. L'inculturazione favorirà la conservazione e la crescita di tutto ciò che è sacro nei costumi, nelle tradizioni, nelle arti e nel pensiero dei popoli. La vita della Chiesa, la liturgia stessa si arricchiranno del patrimonio culturale delle nazioni da evangelizzare. Nessuna rigida uniformità è imposta dalla Chiesa, come lo afferma il Vaticano II: " Essa, anzi, rispetta e favorisce le qualità e le doti d'animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nei costumi dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o a errori, essa lo considera con benevolenza e, se è possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella Liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico ": SC, 37.

Il discernimento richiesto non s'improvvisa, esso richiede uno sforzo concertato e suppone che le Chiese particolari sottopongano ad un " nuovo esame " i dati della fede e gli elementi culturali di ogni regione, per discernere ciò che può o non può essere integrato nella vita cristiana. Senza usare il termine inculturazione, il decreto sulle missioni del Vaticano II spiega chiaramente le regole che devono guidare la sua pratica: AG, 22.

L'autenticità dell'inculturazione riposa, insomma, sul rispetto delle condizioni sia teologiche che etnologiche del compito missionario. Occorre una piena comprensione delle realtà della fede e delle realtà culturali implicate nell'evangelizzazione. Questo discernimento, di natura socio-teologica, è indispensabile per riconciliare gli elementi che entrano in tensione dinamica nel processo di inculturazione. L'inculturazione deve salvaguardare, in primo luogo, la distinzione tra la fede e la cultura e, quindi, la necessità dell'unità e del pluralismo nella Chiesa. Queste esigenze sono fondamentali nella pratica dell'inculturazione.

Distinguere fede e cultura. Da una parte, la fede dovrà essere riconosciuta come radicalmente distinta da ogni cultura. La fede in Cristo non è il prodotto di una cultura e non s'identifica con nessuna di esse, se ne distingue in maniera assoluta perché viene da Dio. Per le culture, la fede è " scandalo " e " follia ", per usare le parole di san Paolo: 1 Cor 1,22-23. Ma questa distinzione tra fede e cultura non è dissociazione. La fede è destinata ad impregnare tutte le culture umane per salvarle ed elevarle secondo l'ideale del Vangelo. Aggiungiamo che la fede non è veramente vissuta che se diventa cultura, cioè, se trasforma le mentalità e i comportamenti. C'è una dialettica che deve essere rispettata tra la trascendenza della Parola rivelata e il suo destino di fecondazione di tutte le culture. Rigettare l'una o l'altra di queste esigenze conduce ad esporre l'inculturazione sia al sincretismo, che confonde la fede con le tradizioni umane, sia ad un accomodamento fittizio e superficiale del Vangelo a culture contingenti.

Salvaguardare unità e pluralismo. D'altra parte, l'inculturazione mirerà a salvaguardare insieme l'unità della Chiesa e il pluralismo dei suoi modi di espressione. L'evangelizzazione serve a costruire la Chiesa nella sua unità e nella sua identità essenziali. Certo, il messaggio annunciato è stato tradotto, nel passato, nelle categorie di pensiero appartenenti a particolari culture, ma queste interdipendenze culturali non invalidano il valore permanente delle concettualizzazioni elementari della fede e delle strutture organiche della Chiesa. L'evangelizzatore trasmette un insegnamento arricchito da generazioni di credenti, di pensatori, di santi, il cui apporto è parte integrante del patrimonio cristiano. E questa identità essenziale e fondante che l'evangelizzazione è chiamata a trasmettere alle culture umane in termini accessibili a tutti.

Ma l'unità non deve essere confusa con l'uniformità. L'inculturazione dovrà, per conseguenza, saper conciliare l'unità e la diversità nella Chiesa. La lunga esperienza delle Chiese orientali offre, a questo soggetto, un modello che Paolo VI presenta come esemplare: " E proprio nelle Chiese Orientali si ritrova storicamente anticipato e esaurientemente dimostrato nella sua validità lo schema pluralistico, sicché le moderne ricerche intese a verificare i rapporti tra annunzio evangelico e civiltà umane, tra fede e cultura, hanno già nella storia di queste Chiese venerande, significative anticipazioni di elaborazioni concettuali e di forme concrete in ordine a detto binomio di unità e diversità ". Il papa sollecita quindi la Chiesa ad " accogliere un tale pluralismo come articolazione della sua stessa unità ": al Collegio greco, Roma, 30 aprile 1977: Insegnamenti di Paolo VI, 15, 1977, p. 425.

Il principio direttivo di ogni sforzo d'inculturazione della teologia, della predicazione e della disciplina è dunque la crescita della Communio Ecclesiae, la comunione della Chiesa universale. Questa unità, tuttavia, non è quella di un sistema uniforme e indifferenziato, ma quello di un corpo in crescita organica. La Chiesa universale è una comunione di Chiese particolari. Essa è anche, per estensione, una comunità di nazioni, di lingue, di tradizioni, di culture. Ogni epoca o ogni civilità apporta i propri doni e il proprio patrimonio alla vita della Chiesa. Con l'inculturazione, le culture accolgono i tesori del Vangelo e offrono a tutta la Chiesa, in cambio, le ricchezze delle loro migliori tradizioni e il frutto della loro sapienza. E questo complesso e delicato scambio che l'inculturazione deve promuovere per la crescita reciproca della Chiesa e di ogni cultura.

Estensione dell'inculturazione. Uno sviluppo più recente della riflessione porta ad estendere la pratica dell'inculturazione non soltanto ai territori tradizionali delle missioni, ma alle società moderne, le cui culture sono state scristianizzate e segnate da una crescente secolarizzazione. La cultura moderna ostacola l'evangelizzazione e richiede uno sforzo metodico di inculturazione. E la sfida della seconda evangelizzazione negli ambienti nei quali la fede, assopita, respinta o rigettata rende difficile l'annuncio del Vangelo in tutta la sua novità. Il documento La Fede e l'Inculturazione della Commissione Teologica Internazionale (1988) dedica la sua ultima parte alla cultura moderna. Vi si legge: " L'inculturazione del Vangelo nelle società moderne esigerà uno sforzo metodico di ricerca e di azione concertate. Questo sforzo richiederà nei responsabili dell'evangelizzazione: un atteggiamento di accoglienza e di discernimento critico, la capacità di percepire le attese spirituali e le aspirazioni umane delle nuove culture, l'attitudine all'analisi culturale in vista di un effettivo incontro con il mondo moderno ".

L'inculturazione acquista ormai dimensioni nuove: non concerne unicamente le persone, i paesi, le nazioni, le istituzioni in attesa del Vangelo. Inculturare il Vangelo significa anche raggiungere i fenomeni psicosociali, le mentalità, i modi di pensare, gli stili di vita, per farvi penetrare la forza salvifica del Messaggio cristiano.

In sintesi, si può dire che occorre superare una concezione geografica dell'evangelizzazione ed arrivare ad una concezione più culturale. Queste prospettive non si escludono in alcun modo, ma segnano il senso di uno sviluppo necessario della missione evangelizzatrice.

Ci sono, certamente, ancora alcune regioni geografiche da cristianizzare, ma la posta in gioco più grande è oggi quella di evangelizzare le culture stesse. Occorre far penetrare la luce del Vangelo nelle mentalità e negli ambienti di vita segnati dall'indifferenza e dall'agnosticismo. Queste correnti di pensiero tendono a diffondersi ovunque penetri la modernità. Con discernimento e fiducia, la Chiesa intende annunciare Cristo alle culture di oggi e questo richiederà un lungo e coraggioso processo d'inculturazione, come afferma Giovanni Paolo II: " La Chiesa deve farsi tutta a tutti, raggiungendo con simpatia le culture d'oggi. Ci sono ancora degli ambienti, delle mentalità, così come paesi e intere regioni da evangelizzare, la qual cosa suppone un lungo e coraggioso processo d'inculturazione affinché il Vangelo penetri l'anima delle culture vive, rispondendo alle loro più profonde attese e facendole giungere verso la dimensione della fede, della speranza e della carità cristiane ". Il termine missione, aggiunge Giovanni Paolo II, " si applica ormai alle vecchie civiltà segnate dal cristianesimo, ma che oggi sono minacciate dall'indifferenza, dall'agnosticismo o anche dall'incredulità. Numerosi nuovi settori della cultura si presentano con degli obbiettivi, dei metodi e dei linguaggi diversi. Il dialogo interculturale s'impone dunque ai cristiani in tutti i paesi ": al Consiglio Pontificio della Cultura, 18 gennaio 1983.

Vedi: Evangelizzazione della Cultura, Acculturazione.

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Industrializzazione. (inizio)

Nessun mutamento culturale ha segnato l'homo faber più fortemente dell'industrializzazione, questo primo motore della modernizzazione.

Di fatto, la storia sociale può legittimamente essere divisa in due parti: il periodo anteriore alla rivoluzione industriale e quella che viviamo dopo questo avvenimento. Così si fa netta distinzione tra le nazioni industrializzate e quelle che non lo sono. Queste ultime sono, in generale, economicamente poco sviluppate e vivono in condizioni di povertà ed anche di miseria, mentre le prime godono di un livello di vita incomparabilmente più elevato. L'industrializzazione è storicamente considerata un fattore di progresso economico, ma il costo umano della rivoluzione industriale del secolo XIX è stato molto pesante e nella memoria collettiva l'immagine che se ne conserva è quella di un tratto distintivo della cultura contemporanea.

Inizi conflittuali. L'industrializzazione, che ebbe inizio in Inghilterra alla fine del secolo XVIII, poi in Francia all'inizio del XIX secolo, fu un processo complesso che riguardò prima i lavoratori singoli e le loro famiglie e quasi subito anche le classi abbienti e i detentori di capitali, rivoluzionando rapidamente tutto il sistema economico e politico dei paesi, come anche l'equilibrio tra le nazioni. L'industria nacque con l'invenzione della meccanizzazione, cioè con l'applicazione della forza motrice (vapore, elettricità) ad un meccanismo operativo. La meccanizzazione fu introdotta inizialmente in Inghilterra nelle manifatture tessili. Occorre sottolineare che tutto un insieme di condizioni resero possibile l'industrializzazione all'epoca dell'Illuminismo: lo sviluppo della scienza e della tecnica, l'orientamento razionalistico, la costituzione di un capitale libero, il senso della gestione, il gusto dell'invenzione, del rischio e dell'impresa, la concorrenza tra regioni e nazioni. Ma l'industrializzazione, ai suoi inizi, si accompagnò di traumi culturali collegati allo sfruttamento operaio e alla lotta dei lavoratori contro i capitalisti. Di fatto, si manifestò una crescente opposizione nell'opinione pubblica contro i proprietari industriali ed ebbe inizio ciò che più tardi venne chiamato il conflitto industriale, alimentato dalla " immeritata miseria delle classi lavoratrici ", secondo l'espressione di Leone XIII nella Rerum novarum: 1891. Questo sfondo conflittuale non è mai completamente scomparso dalla cultura industriale moderna.

Le prime fasi dell'industralizzazione si sono realizzate senza regole né controlli e sono ancora collegate nella coscienza popolare a tutti gli abusi del capitalismo liberale: sfruttamento dei lavoratori, uomini, donne e bambini, sottoposti ad orari inumani, assenza di contratti, salari derisori, condizioni insalubri, trattamenti arbitrari.

Da parte loro, le classi ricche intravvedevano l'avvento di una nuova società che presto avrebbe beneficiato, pensavano, dei prodotti e dei progressi dell'industrializzazione. Ma la partecipazione generalizzata ai vantaggi del nuovo sistema fu illusoria. Lo sviluppo industriale richiedeva la concentrazione, sempre più forte, dei capitali e la ricerca di materie prime all'estero, ciò che doveva dare un impulso senza precedenti alla colonizzazione.

La situazione dei lavoratori dell'industria ben presto divenne intollerabile e suscitò inchieste che fecero scandalo, come quella di P. Gaskell in Inghilterra (1833), di L. R. Villermé in Francia (1840). Poco a poco si faceva chiara la necessità di un intervento dei poteri pubblici e di una legislazione sociale. Marx ed Engels utilizzarono queste inchieste ed affrettarono lo sviluppo del sindacalismo allora nascente, ciò che portò all'inasprimento del conflitto industriale e alla diffusione dell'ideologia rivoluzionaria.

Conseguenze culturali. Tra le principali conseguenze culturali dell'industrializzazione, che si possono riscontrare fin dall'inizio sono da ricordare: una concentrazione irrazionale dei lavoratori e delle famiglie in zone urbanizzate; un mutamento dei rapporti tra città e campagna; la separazione tra i luoghi di lavoro e quelli di residenza; una divisione del lavoro sempre più accentuata in relazione ai mestieri, ai compiti e ai tipi dell'industria stessa; la crescente affermazione di una coscienza di classe, che mette in opposizione le classi operaie e quelle che detengono i capitali; l'assoggettamento dei lavoratori a sistemi di produzione sempre più razionalizzati che, in seguito, saranno perfezionati dal taylorismo e susciteranno il sentimento di una dipendenza alienante, senza significato, perché l'operaio è obbligato a operazioni parcellari di un " lavoro in briciole ": Georges Friedman.

La rivoluzione industriale è stata dunque anche una rivoluzione culturale che ha profondamente sconvolto un sistema di valori fino allora sicuri quali: il senso del lavoro personale e comunitario; il rapporto diretto dell'uomo con la natura; l'appartenenza ad una famiglia di sostegno attraverso la coabitazione e il lavoro; il radicamento in comunità locali e religiose a misura d'uomo; la partecipazione a tradizioni, riti, cerimonie e celebrazioni che danno significato ai grandi momenti della vita.

L'industrializzazione, con la sua provocazione all'ammucchiamento disordinato delle popolazioni, ha gravemente colpito questi valori secolari ed ha suscitato nelle masse operaie il sentimento di una dolorosa alienazione.

Collaboratori responsabili. Progressivamente, sotto la spinta delle rivendicazioni operaie e di un'opinione pubblica più illuminata, le società industriali hanno cercato di equilibrare meglio i rispettivi ruoli di tutti i collaboratori dell'attività economica: i detentori di capitali, i responsabili delle gestioni e le associazioni di datori di lavoro, i lavoratori e i loro sindacati, i consumatori e i loro organismi di difesa, i rappresentanti dei poteri pubblici.

I governi si sono dotati di una legislazione sociale ed economica efficace, particolarmente nel campo del lavoro, della sicurezza sociale, delle pensioni. Nelle popolazioni si è venuta creando, a poco a poco, una coscienza sociale che non tollerava più gli abusi dell'inizio. Si sono costituiti gruppi di potere che hanno proposto l'ideale della " democrazia industriale " e il conseguimento di un nuovo " contratto sociale ". Questi obbiettivi, malgrado l'imprecisa terminologia che li descrive, rivelano la ricerca di nuove solidarietà all'interno della società industriale. Sempre più si comprende che gli interessi degli uni sono intimamente connessi agli interessi di tutti, proprietari, produttori, lavoratori, consumatori. E quanto aveva già presentito Ford, che, introducendo la prima catena di montaggio, aveva nutrito l'ambizione di produrre un giorno automobili a prezzo accessibile per tutti. Egli annunciava così i suoi famosi quattro principi: diminuire i costi, elevare i salari, abbassare i prezzi, aumentare le vendite.

Il sistema industriale, soprattutto dopo gli anni '20, si andava così orientando ad istituzionalizzare la soluzione dei conflitti e ad adattarsi gradualmente ad una situazione socioeconomica nuova, caratterizzata dall'aumento delle classi medie, dall'accresciuta mobilità della popolazione, dalla differenziazione e specializzazione delle categorie operarie, dal considerevole sviluppo del settore terziario. Di fatto, il settore industriale, chiamato secondario, che aveva inizialmente largamente superato quello primario (agricoltura, estrazione), è oggi soppiantato dal settore terziario (servizi) nei paesi più industrializzati.

Ora, il sistema industriale deve affrontare nuove sfide suscitate dal progresso tecnico, dall'automazione, dalla robotizzazione, che spesso si accompagnano al grave rischio della disoccupazione nel settore tecnologico. Le tecnologie di punta portano le imprese a trasformarsi profondamente e a ridefinire il ruolo della mano d'opera, che la razionalizzazione economica porta a progressiva decrescita. Questi cambiamenti tendono a ridurre il potere di negoziato dei sindacati operai, tanto più che interdipendenze allargate vengono a stabilirsi tra i paesi industrializzati sul piano tecnico, finanziario e commerciale e ciò apre un nuovo spazio a società multinazionali, di fronte alle quali la pratica sindacale e le legislazioni dei paesi si trovano spesso a non poter rispondere. La disoccupazione rappresenta una delle più gravi sfide delle società ad alta tecnologia.

Molti osservatori stimano che il mondo moderno sia ormai entrato in un periodo post-industriale, con i problemi nuovi che pongono la specializzazione dei tecnici, la ridistribuzione dell'impiego e la corresponsabilità tra nazioni inegualmente sviluppate. Le soluzioni di queste nuove sfide non possono essere trovate che nel quadro allargato delle interdipendenze internazionali, che alcuni indicano come l'obbiettivo del mondialismo.

Nell'Est europeo. Le evoluzioni socio-culturali, di cui si è accennato prima, riguardano soprattutto il mondo industriale occidentale. Nell'URSS, l'industrializzazione è stata metodicamente perseguita, secondo le pianificazioni ufficiali, dalla rivoluzione d'Ottobre 1917. Tecnicamente, le industrie si sono sviluppate sul modello delle imprese occidentali da cui hanno attinto largamente i preventivi e le attrezzature meccaniche. Ma le condizioni della gestione industriale vi erano radicalmente diverse: il primo responsabile industriale era lo Stato, che diede priorità all'industria pesante, lasciò poco margine ai sindacati liberi e impedì ogni forma di concorrenza interna. Un modello analogo si è instaurato nella Cina comunista dopo la seconda guerra mondiale.

Nell'URSS, l'industrializzazione è riuscita a produrre, sul piano della quantità e della qualità, armamenti che hanno permesso alla Russia di occupare i primi ranghi nel mondo, ma la società industriale sovietica non è mai riuscita ad armonizzarsi con uno sviluppo agricolo soddisfacente; come non è riuscita a raggiungere gli alti livelli del consumo e della concorrenza commerciale in un mondo in cui le poste in gioco economiche hanno anche una valenza strategica. Avendo constatato il fallimento del loro modo di produzione e di consumo, l'URSS e i paesi dell'Est europeo verso il 1990 si sono impegnati in una radicale ristrutturazione del settore socio-economico e del sistema politico. La perestroika si è proposta come obbiettivo una rifondazione e una liberalizzazione del sistema industriale, la cui realizzazione, come si può constatare, richiederà un profondo mutamento democratico e culturale.

Nel terzo mondo. Nella ricerca che oggi si va compiendo per l'industrializzazione del terzo mondo si comprendono meglio sia i vantaggi sia i rischi e i costi umani dell'industrializzazione. L'esperienza dei due ultimi secoli dimostra che l'industrializzazione esige delle condizioni preventive di carattere tecnico, sociale e politico. Oggi è necessario, in partenza, tener conto dei rapporti tra i collaboratori sociali ed economici sia all'interno sia all'esterno e, fra questi collaboratori, ci sono ormai paesi di alta industrializzazione e paesi che sono ai primi stadi. Occorre, inoltre, conformarsi alle legislazioni nazionali esistenti e alle convenzioni internazionali, quali, ad esempio, quelle dell'Ufficio Internazionale del Lavoro. Questi dati fanno parte di un'esperienza umana secolare che non si può più dimenticare.

Alla luce di molti decenni di sviluppo, si può prevedere che l'industrializzazione nei paesi in via di sviluppo porterà dei mutamenti culturali riguardo alle persone, alle famiglie, alle comunità locali, alle tradizioni e questi mutamenti non saranno meno profondi di quelli che hanno colpito le società occidentali. C'è da augurarsi che la dimensione culturale dell'industrializzazione riceva un'attenzione almeno uguale a quella che si presta agli obbiettivi strettamente economici. E una condizione indispensabile perché l'industrializzazione dei paesi in via di sviluppo sia veramente un fattore di progresso umano oltre che economico.

Vedi: Modernità, Sviluppo culturale, Urbanizzazione.

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Industrie culturali. (inizio)

Il termine è usato fin dal 1947 da Adorno e Horkeimer per descrivere la produzione industriale e la commercializzazione dei beni culturali, come anche le conseguenze di questo fenomeno sull'evoluzione della cultura.

Produzione tipica. Le imprese che lavorano nel settore della cultura sono oggi molto sviluppate e i loro prodotti sono numerosissimi: pubblicazioni di ogni genere, libri, giornali, periodici, riviste, manuali scolastici, cassette, videocassette, films, fotografie, programmi radio, serie di filmati televisivi, pubblicità.

Di recente si sono aggiunti i nuovi prodotti dell'industria culturale, quali le banche dati, le biblioteche elettroniche, le comunicazioni via satellite, i servizi di cablo-visione, l'informatica, i programmi dei computers.

Questi beni culturali sono oggetto di una industrializzazione e di una commercializzazione promossa da potenti imprese nazionali o multinazionali. A livello di creazione, alcuni di questi prodotti richiedono un lavoro personalizzato, quasi artigianale, quali il libro, la pittura, la scultura. Altri, invece, richiedono che il creatore disponga di un equipaggiamento tecnico complesso: tali, per esempio, le realizzazioni della TV o del cinema. Alcuni di questi prodotti sono acquisiti come beni duraturi, per esempio, un libro, un disco, una pubblicazione d'arte. Altri sono prodotti transitori, di fattura complessa, quali i programmi TV che comprendono gli apporti del cinema, del teatro, della musica, dell'informazione e che, in generale, sono legati ad una recezione più passiva da parte di chi li utilizza.

Creatività e rendimento. Dal punto di vista socio-culturale, una duplice logica presiede all'attività delle industrie culturali: la logica della creazione culturale e quella della produzione economica. Tra i due obbiettivi, il rendimento economico e il servizio culturale, esiste tensione e il giusto equilibrio richiede, da parte degli imprenditori, sia una visione di carattere culturale sia una capacità di carattere industriale e commerciale. La tentazione del puro mercato può condurre a sfruttamenti abusivi come, ad esempio, la produzione di video-cassette, di riviste o di films che esaltano il vizio, la pornografia, la violenza, la crudeltà. Molte imprese, dette culturali, si sono ritagliate una buona parte del mercato sfruttando questi istinti degradanti. D'altra parte, il solo obbiettivo culturale non basta a sostenere economicamente un'impresa. Saper produrre ed insieme commercializzare con profitto i propri prodotti è una condizione indispensabile per la sopravvivenza di un'industria culturale. E a questo duplice livello - culturale ed economico - che si situa una delle sfide più complesse della democratizzazione culturale. In questo campo, la società moderna ha bisogno di un nuovo tipo di imprenditore capace, in uno spirito di pubblico servizio, sia di suscitare l'indispensabile collaborazione dei creatori sia di finanziare, produrre e commercializzare prodotti culturali di qualità. Si tratta di condizioni di grande esigenza, che dimostrano come non sia affatto cosa semplice rendere più sani e di migliore qualità i grandi mezzi di comunicazione, quali la TV o il cinema. Occorre la cooperazione tra talento e capacità imprenditoriale.

Audiovisivo e industrie del sapere. Nelle nostre società moderne si sono specialmente sviluppati due tipi di industrie culturali: le industrie audiovisive e le industrie del sapere (Knowledge industries). Le prime comprendono una vasta gamma di prodotti che vanno dallo scritto, al disco, alla cassetta, alla videocassetta, al cinema, alle trasmissioni della radio e della TV. I loro prodotti hanno contenuti culturali di ineguale valore: il giornale d'informazione e la pubblicità non hanno lo stesso valore culturale delle pubblicazioni d'arte o di pellicole d'autore.

Le industrie del sapere hanno raggiunto una grande estensione. Con la generalizzazione dell'insegnamento a tutti i livelli, si è aperto un nuovo mercato per la pubblicazione di materiale didattico, di manuali scolastici, di opere scientifiche, di opere specialistiche. L'introduzione dell'insegnamento assistito mediante il computer nella scuola e nell'università, e l'utilizzazione dell'informatica nelle biblioteche, nei centri di documentazione e nelle imprese hanno creato sbocchi che gli economisti valutano in miliardi di dollari. Si creano nuove professioni: programmatori, esperti di logica insiemistica scolastica, specialisti d'informatica. Ci sono ora delle imprese che si specializzano nella raccolta di dati e nella diffusione dell'informazione. La società post-industriale è caratterizzata dalla preminenza del sapere e dell'informazione e ci sono paesi in cui più della metà degli impieghi sono legati all'informazione sotto tutte le forme: radio, TV, educazione, giornalismo, pubblicità, informatica, consultazione specializzata. Questo sviluppo ha dato un grande impulso alle industrie culturali.

Una delle più antiche industrie culturali, sempre in espansione, è quella del libro, che è stata studiata con cura da Lewis A. Coser et al.: 1982. Se ne coglie tutta la complessità analizzando i rapporti che intervengono tra l'editore, l'autore, il pubblico, gli istituti di ricerca e d'insegnamento, la stampa delle opere, il finanziamento, i canali di distribuzione, la commercializzazione dei libri, il ruolo della critica, la recezione da parte dei mezzi di comunicazione. Tutti questi fattori riguardano contemporaneamente la cultura e l'economia di un dato ambiente e la situazione dell'industria varia di molto secondo che si tratti di libri commercializzati tra un vasto pubblico, di manuali scolastici, di opere destinate ad esperti o riservate a particolari settori o professioni.

Politica dei governi. I governi sono sempre più coscienti del loro ruolo nei confronti dello sviluppo delle industrie culturali. Da una parte, si tratta di industrie che occupano una parte non trascurabile nelle economie nazionali. Dall'altra, l'impatto di queste imprese sulle mentalità e sui comportamenti pone problemi che ogni politica culturale deve attentamente prendere in considerazione.

Ci sono paesi nei quali la concorrenza delle industrie culturali estere può condurre ad un'eccessiva dipendenza e costituire minaccia per l'identità nazionale. Ciò si verifica particolarmente nei paesi del terzo mondo e l'UNESCO ha preso in considerazione questo complesso problema. Si sono elaborati programmi per inventariare i mezzi audiovisivi disponibili in rapporto ai bisogni delle popolazioni e per incoraggiare la creazione di emissioni che rispondano alla mentalità del pubblico. Questi programmi cercano anche d'incoraggiare gli scambi culturali e di promuovere un'assistenza tecnica con lo scopo di favorire l'autonomia della creazione locale e la produzione di beni culturali adatti ad ogni paese.

Nell'Europa dell'Ovest, i governi sono molto attenti ai problemi dell'industria culturale, come testimonia l'azione del Consiglio d'Europa. I membri della CEE, ugualmente, cercano di definire gli orientamenti delle politiche industriali e culturali che dovranno assicurare lo sviluppo indipendente delle loro industrie della cultura: aiuto diretto o indiretto alla creazione, regolamentazione della concorrenza internazionale, politica d'importazione e di esportazione più equilibrata, collaborazione tra i paesi europei.

Nei paesi dell'Est, le industrie culturali erano state collettivizzate: esse sono riuscite a produrre beni di qualità, quali films, documentari artistici e pubblicazioni apprezzate, anche se questi prodotti venivano spesso considerati, da chi li usava, troppo segnati dall'ideologia di partito. Queste industrie resisteranno con difficoltà alla concorrenza delle produzioni occidentali e rischiano ora d'essere superate dalla diffusione internazionale delle emissioni per via satellite.

E negli Stati Uniti che le industrie culturali sono più fiorenti e più potenti. Le loro produzioni sono commercializzate in quasi tutti i paesi. Queste industrie sono meno soggette che in altri paesi alle norme di una politica culturale ufficiale - che non è istituzionalizzata nel sistema governativo americano - ed è nel quadro del libero mercato e della libera concorrenza ch'esse operano. Una forma di autoregolazione tende, tuttavia, ad instaurarsi grazie alla vigilanza dell'opinione pubblica, alla critica professionale e all'azione dei gruppi di pressione. I termini stessi di industria culturale o di politica culturale sono meno usati negli Stati Uniti che in altre parti del mondo. Ci sono, tuttavia, osservatori, sempre più numerosi, che s'interrogano sulle proprie responsabilità nazionali ed internazionali di fronte all'azione delle loro potenti industrie culturali: J. Jensen, 1990; H. Schiller, 1989.

Un'ultima considerazione a proposito dei beni culturali come oggetto di consumo. Sembra chiaro che di fronte alla pletora dei beni di tutti i generi e di ogni tipo di qualità che sono offerti, i consumatori debbano imparare a scegliere e a discernere, ciò che richiede un'educazione idonea di cui sempre più si preoccupano i centri di formazione e le scuole. Il pubblico, d'altra parte, deve essere iniziato e formato alla creazione culturale per poter eventualmente collaborare alla produzione delle industrie interessate. Questa educazione al consumo, come anche alla creazione e alla produzione dei beni culturali è efficacemente promossa dal nuovo orientamento dei programmi scolastici, dai cine-clubs, dall'analisi critica delle emissioni TV e dai programmi di formazione permanente e di animazione culturale.

Vedi: Comunicazione sociale, Sviluppo culturale, Politica culturale.

Bibl.: L. A. Coser et al. 1982. E. L. Eisenstein 1979, 1985. P. Flichy 1980. A. Girard 1982, cap. 2. M. Horkeimer e T. W. Adorno 1947, 1980. R. Merelman 1984. H. I. Shiller 1989.

 

ISESCO. (inizio)

ISESCO indica l'Organizzazione Islamica per l'Educazione, la Scienza e la Cultura. Dalla sua creazione, nel gennaio 1981, l'ISESCO è collegata all'Organizzazione della Conferenza Islamica: OCI.

La prima Conferenza Generale si è tenuta a Casablanca, nel giugno 1983. Nella seconda Conferenza Generale, convocata per valutare i progressi compiuti e i progetti per l'avvenire, ventinove dei quarantatré paesi membri erano rappresentati, in gran parte dai loro ministri dell'educazione. Tutti i paesi dell'OCI, e soltanto loro, possono diventare membri dell'ISESCO. L'Organizzazione conta sulla cooperazione della Banca Islamica per lo Sviluppo e sull'UNESCO. Lingue ufficiali sono l'arabo, il francese e l'inglese.

Lo scopo generale dell'Organizzazione è di promuovere l'influenza del pensiero islamico nelle sue manifestazioni educative, scientifiche e culturali. I suoi obbiettivi possono così sintetizzarsi: 1) La cooperazione tra gli stati islamici nel campo dell'educazione, della cultura, della ricerca scientifica, al fine che la cultura islamica diventi l'asse dei programmi educativi a tutti i livelli. 2) Il sostegno alla cultura islamica e la protezione dell'indipendenza del pensiero islamico contro ogni invasione, distorsione o deformazione culturali. 3) La cooperazione degli stati islamici nei campi della ricerca scientifica, dello sviluppo, delle scienze applicate e l'uso delle tecniche avanzate nel contesto dei valori islamici più alti per la preservazione delle caratteristiche proprie della civiltà islamica. 4) La protezione della personalità islamica dei musulmani che vivono in paesi non islamici. 5) La comprensione tra i popoli e il loro contributo alla pace e alla sicurezza mondiale, soprattutto attraverso l'educazione, la scienza e la cultura. 6) Il coordinamento tra gli Stati membri e tutte le istituzioni dell'OCI nei campi dell'educazione, della scienza e della cultura, a beneficio della solidarietà islamica e dell'integrazione culturale del mondo islamico.

Il Direttore Generale dell'ISESCO, il Professore A. Boutaleb, ha così illustrato la missione dell'Organizzazione in occasione della Conferenza dei Ministri della Cultura dei paesi membri dell'OCI, tenutasi a Dakar nel 1989. Iniziando, egli ha ricordato la responsabilità della comunità islamica verso più di un miliardo e duecento milioni di persone che vivono su di un'area che copre più del ventuno per cento dell'intera superficie del globo, dove gli analfabeti raggiungono il cinquantadue per cento, la frequenza delle università non supera il tre per cento e le spese per l'insegnamento superiore e la ricerca rappresentano soltanto il sedici per cento del bilancio degli Stati.

La cultura islamica, ha detto ancora M. Boutaleb, è antica di quattordici secoli e il suo credo spirituale costituisce la base dell'" esistenza morale della Oumma ". La solidarietà dei paesi islamici è indispensabile per " restituire alla nostra cultura universale il suo posto rilevante compromesso, nel passato, dal colonialismo ". Il Direttore Generale aggiungeva: " Noi siamo chiamati a raddoppiare la nostra vigilanza nei confronti di tutti i tentativi che ci spingono ad abbracciare forme culturali che ignorano i valori spirituali a cui noi siamo profondamente legati. Certo, noi crediamo all'universalità delle scienze e delle tecnologie moderne, ma a condizione che sia rispettata l'originalità della cultura, perché non sapremmo aderire a culture che privilegiano il materialismo che è assolutamente e irreversibilmente incompatibile con i precetti islamici. Su questo piano, forse, non c'è neppur bisogno di ricordare la nostra fede metafisica, fondata sulla rivelazione divina, sorgente del nostro concetto di sapere, della nostra cultura e della nostra originalità culturale ed intellettuale. In aggiunta, la nostra religione ci fa obbligo di diffonderne il messaggio nel mondo, soprattutto in un'epoca dominata dal materialismo e che rifiuta le convinzione spirituali apportate dalla rivelazione. Per parte nostra, pensiamo che le società umane che trascurano le dimensioni spirituali perdono il loro equilibrio, dato che la verità è che Dio ha creato l'uomo perché compia sulla terra la sua volontà e si comporti in questo mondo terreno secondo le prescrizioni dell'Altissimo ": ripreso da Le Matin du Sahara Dakar, 3 febbraio 1989.

Malgrado le difficoltà di bilancio, l'ISESCO intende promuovere l'irradiamento della cultura islamica nel mondo. Due esempi: il collegamento all'Organizzazione dell'Istituto Islamico di Ginevra e il rinnovamento dell'Università Islamica a Cordova.

La sede dell'ISESCO è a Rabat in Marocco.

Vedi: ALECSO, UNESCO.

K

 

Kultursoziologie. (inizio)

Approccio alla sociologia storica della scuola di Heidelberg, rappresentato soprattutto da Alfred Weber, che distingue tre elementi sociali di base: la società, cioè l'insieme del corpo sociale con le sue strutture; la civiltà, realtà intellettuale, universalmente valida, trasmissibile e suscettibile di studio scientifico; la cultura, creazione spirituale, morale, affettiva di ogni popolo storico, realtà non trasmissibile, che non può essere studiata come realtà sottoposta a leggi di sviluppo come una civiltà. La cultura rappresenta la " volontà d'unità " di un popolo in una determinata epoca. Questa la ragione per cui non può essere compresa che nel suo particolare quadro storico. A. Weber si serve del metodo del " tipo ideale " che proponeva suo fratello Max. Le manifestazioni più alte della cultura sono la religione, la morale e l'arte. Le ricerche di A. Weber hanno fatto progredire l'analisi culturale, ma il suo approccio è oggi superato dall'attuale sociologia della cultura e dallo studio critico delle civiltà.

Vedi: Culturologia, Analisi culturale, Civiltà.

Bibl.: A. Weber, Kultursoziologie in A. Vierkandt, 1931.

L

 

Lavoro. (inizio)

E prima di tutto per il suo significato umano che il lavoro interessa l'antropologia culturale. Due aspetti meritano particolarmente la nostra attenzione: il lavoro come produttore di cultura e il lavoro come compimento dell'essere umano.

Considerare il lavoro come produttore di cultura è ricordare la prodigiosa avventura dell'homo faber, dell'artigiano, dell'artista, del lavoratore intellettuale, che hanno edificato civiltà e che continuano ad arricchire il patrimonio comune dell'umanità. E grazie al lavoro che la natura viene trasformata ed è messa in valore, che le opere del genio creatore prendono forma e vita, che il tesoro delle conoscenze si arricchisce e si trasmette. La cultura è inconcepibile senza l'apporto del lavoro, dello sforzo intelligente della ricerca, cioè senza un lavoro teso verso il progresso dell'essere umano individuale o collettivo. Queste considerazioni sollevano la questione centrale di sapere a quale condizione il lavoro sia effettivamente creatore di cultura. Non ogni lavoro è necessariamente generatore di cultura, perché alcune attività costituiscono asservimento e sono infraumane e anticulturali. Il problema che qui si solleva è quello del significato culturale attribuito al lavoro. E l'esplorazione antropologica del tema che qui c'interessa e ci introduce nel problema del lavoro come mezzo di compimento per l'uomo.

Significato socio-culturale. Ciò che anzitutto colpisce il sociologo è l'estrema varietà dei significati che riveste il lavoro attraverso le culture storiche: L. H. Parias, 1960; G. Lefranc, 1975. Uno sguardo, anche se rapido, sulle società pre-industriali può aiutare a cogliere, per paragone, i significati complessi del lavoro per le culture moderne. Nelle società tradizionali, il lavoro, oltre ad essere un mezzo di sussistenza, è un'attività legata all'universo sacro: M. Blin, 1976. Si tratta di una funzione comunitaria che dà forma ad un ordinamento sociale, secondo l'età, i sessi, i mestieri, le capacità di fare.

I Greco-Romani, come è noto, definivano la cultura superiore con il non-lavoro, perché il lavoro si identificava con i compiti manuali riservati esclusivamente agli schiavi. L'uomo libero era quello che godeva dell'otium, cioè non era costretto in nessun modo al negotium. Le società divise in caste sono fondate sullo stesso presupposto. In queste culture il lavoro manuale è essenzialmente servile.

Nella tradizione biblica, il lavoro corrisponde alla vocazione originale dell'uomo creato ad immagine di Dio, primo lavoratore, che ha fatto tutte le cose e si è riposato il settimo giorno, introducendo l'alternanza del lavoro e del tempo di riposo. Attraverso il suo lavoro, l'uomo prolunga l'opera del Creatore. Come conseguenza del peccato, il lavoro è associato all'idea di pena, ma è anche partecipazione all'opera di redenzione e di santificazione instaurata da Gesù Cristo, il Falegname, che diceva ai suoi discepoli: " Il Padre mio opera sempre e anch'io opero ": Gv 5, 17. Questa teologia del lavoro (M. D. Chenu, 1955), di cui riparleremo, sottolinea la vocazione universale al lavoro di ogni uomo, che perfeziona se stesso mentre serve i propri fratelli e continua l'opera del Creatore. I primi secoli cristiani e tutto il medioevo fino alle soglie dei tempi moderni hanno vissuto questa concezione tradizionale del lavoro.

Prima del secolo XIX, la popolazione lavoratrice era occupata nelle attività agricola ed artigiana, che rappresentavano la quasi totalità delle forme di lavoro. Con l'avvento della rivoluzione tecnica nei secoli XVIII e XIX, l'uomo lavoratore è proiettato in una situazione drammatica, del tutto nuova, e la questione del lavoro non ha più cessato, da allora, di essere oggetto di preoccupazione per le società industriali e post-industriali. La condizione inedita in cui vengono a trovarsi i lavoratori solleva problemi economici, psicologici e culturali estremamente complessi che richiedono un perseverante atteggiamento di ricerca. In questo spirito di ricerca aperta, proponiamo alcuni punti base per l'esplorazione del nuovo senso del lavoro in un mondo in accelerata evoluzione.

L'avvento della società industriale portò la razionalizzazione, la specializzazione della produzione, la divisione dei compiti e, fatto massiccio, il lavoro venne nettamente distinto dal capitale, ciò che ebbe per effetto di conferire storicamente al lavoro una posizione subordinata e antinomica. Il lavoro veniva, così, ridotto al suo valore di mercanzia che l'operaio vende contro pagamento. L'espansione del sistema salariale, in mancanza di regole contrattuali e di norme legali, generò, nella nascente società industriale, una situazione di sfruttamento abusivo e di intollerabile miseria. Il lavoro, da quel momento, venne ad identificarsi con l'alienazione dell'uomo. La condizione dei lavoratori suscitò un naturale movimento di difesa e il sorgere di una classe antagonista nei confronti dei detentori di capitale. Fu l'inizio delle associazioni e dei sindacati operai, che organizzarono i loro interventi, ancora presenti oggi, nei confronti degli industriali e dei poteri pubblici.

Karl Marx e Friedrich Engels si fecero presto gli interpreti ideologici e militanti della protesta e della rivolta delle masse operaie. La concezione materialistica del lavoro e della lotta di classe, che è a fondamento dell'ideologia comunista, diede nascita ai regimi collettivisti che avrebbero diviso le vecchie civiltà occidentali e avrebbero finito per rivelare infine il loro carattere utopico e le loro contraddizioni con il conseguente crollo delle società a regime marxista.

Impatto della nuova evoluzione industriale. Il declino della concezione marxista del lavoro coincide, nel tempo, con una nuova rivoluzione industriale, le cui conseguenze culturali sono ancora di difficile valutazione, ma le cui ripercussioni ci si rivelano progressivamente. Da una parte, l'estensione del benessere nelle società industriali ha avuto per conseguenza che i lavoratori accettano sempre meno d'essere considerati una classe a parte e non si distinguono più dall'insieme dei cittadini, degli elettori, dei consumatori, dei beneficiari della società industriale. Questa evoluzione culturale ed economica ha messo in crisi la strategia marxista caratterizzata dalla lotta di classe. I sindacati operai stessi subiscono un mutamento profondo su cui ritorneremo.

Le società industriali hanno prodotto una cultura dei consumi in cui il lavoratore, pur godendo delle meravigliose produzioni e dei progressi della nuova economia, è nel medesimo tempo sottoposto ad un nuovo tipo di alienazione, cioè ad una cultura che privilegia una forma di consumo di carattere materialistico ed edonistico. Questo modello di società esercita anche un immenso fascino su tutte le società in via di sviluppo, sollevando nello stesso tempo le speranze e le invidie dei paesi ex-comunisti. I lavoratori dell'intero mondo sono segnati dal mito del consumo.

Un'altra caratteristica evoluzione è rappresentata dall'entrata massiva delle donne nel mercato del lavoro retribuito. Dall'inizio del secolo, e soprattutto dopo l'ultima guerra mondiale, un numero crescente di donne cercano sia il reddito di un impiego che il proprio sviluppo umano attraverso il lavoro e il contributo ch'esse apportano è effettivamente irrinunciabile sul piano dell'edificazione della società moderna. D'altra parte, la dissociazione tra lavoro e impegni familiari ha posto problemi di carattere educativo, psicologico, demografico che in Occidente vanno aggravandosi. Se, infatti, le economie moderne offrono impiego alle donne che scelgono di lavorare fuori casa, ciò va a grave sfavore delle donne che preferirebbero dedicarsi esclusivamente alla propria famiglia. Le donne che lavorano sono, poi, in maggioranza costrette ad uno stile di vita in cui i compiti domestici si sommano a quelli del lavoro salariato.

Del resto, negli standards di vita che la cultura dominante propone, l'opinione pubblica giudica praticamente indispensabile l'apporto combinato dei due salari, quello del marito e quello della moglie. Ciò significa che la cultura del lavoro che prevale nelle società industriali è una cultura che, se non è antifamiliare, è almeno poco attenta alla famiglia. In alcuni paesi si va delineando un movimento tendente ad armonizzare maggiormente le politiche del lavoro con quelle familiari. La società del benessere è invitata a ridefinirsi con parametri che non siano quelli dell'esclusivo vantaggio economico.

I mutamenti più recenti mettono in causa il sogno della società industriale che stabiliva un rapporto quasi necessario tra il lavoro e il benessere. La rivoluzione tecnica ed elettronica, che ha introdotto la robotica, l'informatica e la burotica, ha ora per effetto di ridurre la parte costrittiva del lavoro umano nella produzione. L'operaio, anche quello specializzato, è sostituito da una macchina che esegue ormai le funzioni umane con maggiore precisione e a minor costo. Questa è la nuova forma di alienazione che colpisce il lavoratore.

Da molti indizi si deduce che il mondo operaio dovrà, nel prossimo avvenire, affrontare una ridefinizione del lavoro profonda quanto quella del secolo XIX. Il sindacalismo perde il suo ascendente nel sistema economico in cui le professioni e i mestieri tradizionali cedono il loro ruolo di protagonisti di fronte alla produzione automatizzata e a compiti sempre più specialistici. I concetti di crescita economica, di pieno impiego ed anche quello di impresa e di economia nazionale sono entrati in crisi e conducono gli economisti e i politici a riscoprire un nuovo senso dello sviluppo umano, della solidarietà e dell'interdipendenza dei popoli. Il crescente potere delle imprese multinazionali ha rivoluzionato l'economia politica tradizionale; il lavoro e il capitale s'inseriscono ormai in un sistema di interconnessione e di rapidi mutamenti. La mobilità dei lavoratori e quella dei capitali è condizionata dalla mondializzazione delle economie e delle culture. Le frontiere nazionali conserveranno i loro limiti, ma saranno sempre più permeabili al flusso degli scambi, degli investimenti, delle innovazioni tecnologiche. La grande sfida del ventunesimo secolo sarà, senza dubbio, quella della condivisione e della ridistribuzione del lavoro in economie regionali e mondiali che avranno la gestione dei capitali e delle risorse dell'umanità con obbiettivi supernazionali. Il lavoro entra in una nuova era di solidarietà nella quale diventerà obbligo includere le minoranze, i disoccupati, i giovani, i popoli in sviluppo.

Le economie sia liberali che collettiviste del ventesimo secolo sono state, certo, creatrici di ricchezza, ma al prezzo di sacrifici diventati insopportabili, come testimonia il grande numero di coloro che rimangono tagliati fuori dal circolo attivo dell'economia: disoccupati, emarginati, minoranze, rifugiati, giovani senza prospettive d'avvenire, incapaci d'inserirsi con dignità nella vita sociale.

Un concetto ampliato di lavoro. E dunque necessario pensare ad un mutamento del concetto di lavoro. Alcuni propongono che il lavoro disponibile sia ripartito diversamente, per permettere ad un maggiore numero di persone di lavorare a tempo parziale. Altri, immaginano soluzioni più radicali: il sistema economico dovrebbe cercare di finanziare nuovi impieghi - non produttivi secondo i criteri vigenti - ma utili ad un miglioramento sociale: animazione culturale, restauro di luoghi ed ambienti urbani, protezione dell'ambiente, risanamento ecologico, creazione artistica, assistenza alle persone anziane, ai malati, agli handicappati, rivalutazione dei lavori domestici ed educativi, aiuto al terzo mondo. Già i governi favoriscono lo sviluppo di questo genere di attività e suscitano modi utili per il finanziamento occorrente: progetti comunitari, centri per il tempo libero, programmi culturali, assistenza sociale. Ma è la società industriale nel suo insieme che deve reinventare un nuovo stile di occupazione per tutti che sia rimunerata e socialmente utile.

Il sistema economico deve ormai progettare un tipo di lavoro i cui modi, tempi e obbiettivi siano profondamente ridefiniti. Le condizioni economiche di oggi lo richiedono, ma anche le nuove esigenze culturali: la formazione permanente, l'emergere della solidarietà, la riscoperta della famiglia, il bisogno del tempo libero, la rivalutazione del volontariato.

La ridefinizione del senso del lavoro nella nostra epoca si presenta dunque come uno dei compiti principali della ricerca culturale. Le soluzioni, certo, dipendono dai condizionamenti economici e tecnici, ma, alla luce delle precedenti considerazioni, alcuni imperativi s'impongono urgentemente alla responsabilità dei nostri contemporanei.

Orientamenti dell'avvenire. L'esperienza storica dell'ultimo secolo, esaminata alla luce della riflessione etica e del pensiero cristiano, suggerisce alcuni orientamenti che pensiamo andranno imponendosi: 1) Innanzi tutto, è la persona del lavoratore che deve essere affermata, come principio primo di ogni riforma socioeconomica e di ogni promozione culturale attraverso il lavoro. Il lavoratore è più importante di tutte le sue produzioni, vale a dire che l'aspetto soggettivo del lavoro ha eticamente la priorità sul suo aspetto obiettivo. 2) Se è con il proprio lavoro che l'operaio guadagna la propria sussistenza, egli cerca anche e soprattutto, attraverso il lavoro, il proprio completamento umano. E, questa, un'aspirazione della cultura moderna che spiega, per esempio, come numerosi disoccupati, i giovani soprattutto, si rifiutino di prestare la loro opera in lavori giudicati non umanizzanti. 3) Il regime di lavoro del futuro non potrà più essere elaborato facendo astrazione dalla famiglia, dai suoi diritti, dal suo sviluppo nella società, come pure dalle esigenze dei ruoli paterni e materni. Il futuro dell'economia è legato al futuro della cultura e della famiglia. 4) I sistemi economici devono rivalutare il concetto di produttività del lavoro per includervi il servizio e la dedizione apparentemente non calcolabili in salario, ma indispensabili al miglioramento dell'ambiente comunitario e naturale. 5) Un nuovo senso della solidarietà s'impone tra tutti i responsabili della vita socioeconomica, per definire il lavoro tenendo conto non soltanto delle nazioni isolate, ma anche delle interdipendenze regionali ed internazionali ed ampliando i progetti di crescita a misura dello sviluppo solidale di tutti i paesi.

Questi orientamenti sono carichi di significato e riguardano l'avvenire dell'uomo e della cultura. Essi richiedono un atteggiamento di ricerca e di riflessione comuni in cui siano convocate tutte le competenze. E l'invito fatto a tutti i cristiani e a tutte le persone di buona volontà da Giovanni Paolo II nella sua enciclica Laborem exercens (1981): " Il lavoro umano è una chiave, e probabilmente, la chiave essenziale di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell'uomo. E se la soluzione o, piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata nella direzione di "rendere la vita umana più umana" (GS 38), allora appunto la chiave, che è il lavoro umano, acquista un'importanza fondamentale e decisiva ": n. 3.

La motivazione più profonda per il credente è di considerare il lavoro come partecipazione all'opera del Creatore, quale ce la rivela il primo capitolo della Genesi e che Giovanni Paolo II chiama il " primo Vangelo del lavoro ". I nostri contemporanei sono chiamati a costruire una nuova cultura del lavoro in cui l'uomo, costretto per natura alla pena del proprio lavoro, nutra, per mezzo di questo, la propria speranza perché convinto di avere un ruolo personale nell'opera rinnovatrice e redentrice del Cristo. Questa cultura del lavoro, se sarà condivisa dalle nuove generazioni, potrà suscitare le solidarietà indispensabili allo sviluppo di tutti gli individui e di tutti i paesi. Mai la cooperazione di tutti i lavoratori è stata così necessaria al progresso economico e culturale della famiglia umana.

Vedi: Industrializzazione, Tempo libero, Società post-industriale.

Bibl.: Giovanni Paolo II Enciclica Laborem exercens, 1981. Enciclica Centesimus Annus 1991. M. Blin 1976. H. Carrier 1990b. M.D. Chenu 1955, 1966. Commissione Pontificia Iustitia et Pax 1982. A. Cotta 1987. S. Erbes-Seguin 1988. G. Friedmann 1963. A.G. Haudricourt 1988. G. Lefranc 1975, 1978. L. H. Parias 1960. K. Erikson et al. 1990. A. Jacob 1995. Varios 1980, 1984.

 

Lingua e cultura. (inizio)

Tra il linguaggio e la cultura le interdipendenze sono così strette che è difficile studiare la lingua come fatto antropologico specifico. Dall'inizio del secolo XX, le ricerche sulla lingua hanno avuto uno sviluppo così ampio ch'esse oggi costituiscono uno dei principali centri di interesse per le scienze umane e la filosofia. I metodi di osservazione e di analisi non hanno cessato di perfezionarsi. Nel XVI secolo lo studio abbracciava circa venti delle lingue conosciute, oggi se ne contano più di tremila e nuove discipline sono sorte per lo studio della lingua. In parallelo con gli studi filosofici sul linguaggio, che sono oggi notevolmente rinnovati, si vanno sviluppando nuove specializzazioni quali l'etnolinguistica, la psicolinguistica, la sociolinguistica.

Qui cerchiamo di individuare i dati che più direttamente si riferiscono alla dimensione culturale del linguaggio. Rivolgeremo la nostra attenzione ad una scelta di problematiche idonee a dimostrare come lo studio della lingua e quello della cultura si illuminino a vicenda. Dopo una parte più descrittiva, riguardo agli aspetti psicopedagogici e sociografici del linguaggio, esamineremo le teorie che si dedicano alla ricerca dei rapporti che la lingua ha con lo spirito e la cultura dell'uomo.

L'apprendimento della lingua materna. Un fatto originale è di fondamento a tutto il resto: la nascita del linguaggio nel bambino. Osservando la meravigliosa trasformazione del bambino che acquista l'arte del parlare, i pensatori di tutti i tempi e gli specialisti di oggi non cessano di interrogarsi sull'umanizzazione e l'acculturazione che si operano con il risveglio del linguaggio. Il ruolo della famiglia nella trasmissione della lingua è un dato antropologico universale che continua a porre problemi di carattere teorico e pratico molto complessi. Per il bambino, imparare la propria lingua materna è, nel medesimo tempo, costituirsi come persona distinta e identificarsi ad una cultura. Gli studiosi di psicopedagogia hanno accuratamente descritto questa lenta maturazione.

Fin dalle prime settimane, il neonato sa riconoscere la voce umana e presto distingue e pronuncia sillabe elementari come: " pa ", " ma ", " ba ". Ovunque, nel mondo, i bambini cominciano ad usare un linguaggio semplificato, imitato dalla " parlata dei genitori " che omette certe parole e ritiene, invece, una forma di espressione telegrafica riferentesi al proprio universo immediato, fisico e biologico. Il loro linguaggio si sviluppa contemporaneamente alla loro capacità di ragionare e di esprimere pensieri e sentimenti più complessi. E impressionante la reciprocità tra lo sviluppo della lingua e quello del pensiero. Jean Piaget ha giustamente osservato come il risveglio del pensiero infantile sia legato al progressivo apprendimento della lingua: " Il pensiero del bambino - egli dice - si sviluppa in connessione con l'acquisizione del linguaggio ". Questo situa il problema linguistico nel più profondo della psicologia umana.

Giunto all'età scolare, il bambino normalmente sviluppato ha già appreso una lingua elaborata e flessibile. Egli dispone di un vocabolario discretamente ampio e di strutture espressive ben differenziate, ma non è in grado di dire le regole grammaticali che utilizza senza averne conoscenza. La scoperta delle regole esplicite di sintassi e di grammatica sarà frutto di un altro apprendimento e questo fa emergere, come in seguito diremo, gli aspetti più reconditi della lingua.

Lingua orale. Prima di una qualsiasi conoscenza grammaticale, il linguaggio orale risulta già costituito nelle sue strutture espressive, poiché ogni lingua possiede il suo genio proprio nell'apprensione e nell'interpretazione della realtà. Il linguaggio orale è fenomeno di grande interesse per gli studiosi della materia, perché molte delle lingue del mondo non hanno ancora la scrittura. Sul piano psicologico e culturale il fatto da rilevare è che l'espressione orale richiede il contatto tra le persone che parlano e questo condiziona un particolare tipo di cultura in cui domina lo scambio diretto, interpersonale, interpellativo e memorizzato.

Lingua primaria, lingue seconde. Il modo di assimilazione della lingua materna deriva da processi psicologici e pedagogici che non agiscono più nella stessa maniera nell'apprendimento di un'altra lingua. L'adulto che studia una lingua straniera difficilmente riuscirà, anche dopo molti anni, ad esserne padrone come i figli del paese. Quando i bambini sono educati in una famiglia perfettamente bilingue, essi riescono fin dalla prima età ad assimilare i due linguaggi, ma, in generale, uno di essi domina in pratica e, in questo caso, si raccomanda che la lingua dominante sia il principale mezzo di comunicazione nella formazione scolastica. L'uso simultaneo di due lingue sul piano scolastico è, tuttavia, frequente soprattutto nei paesi in cui coesistono più lingue o dialetti parallelamente alla lingua o alle lingue ufficiali. Ciò che abbiamo rilevato riguardo alle diversissime condizioni che presiedono all'apprendimento della lingua materna e delle seconde lingue, suggerisce agli educatori un approccio pedagogico che tenga conto del grande sforzo che è richiesto per dominare una lingua non trasmessa dall'ambiente familiare.

Identificazione ad una comunità linguistica. L'esperienza vissuta dal bambino che ha imparato a parlare nell'ambiente familiare, quasi spontaneamente e senza particolare tecnica pedagogica, costituisce un fenomeno che apre grandi orizzonti sulla socializzazione e sull'emergere dell'identità culturale.

Tra la lingua e la società di appartenenza, i rapporti sono molto più complessi di quanto lo credessero certi etnologi orientati, nel passato, a classificare le lingue secondo i tratti fisici o sociali dei popoli: lingue dei popoli dai capelli crespi, dei popoli dai capelli biondi, dei popoli agricoli o non agricoli. I linguisti moderni rifiutano queste visuali deterministiche tese a stabilire un vincolo diretto di causalità tra una lingua e una società. Emile Benveniste (1974) lo precisa in questi termini: " L'idea di cercare tra due realtà delle relazioni univoche, che farebbero corrispondere ad una data struttura sociale una data struttura linguistica, sembra lasci trasparire una visione molto semplicistica delle cose ".

La lingua, tuttavia, è profondamente legata alla comunità culturale con cui il parlante s'identifica. La lingua è il vincolo vivo con una comunità linguistica, con un gruppo con cui si condivide la medesima storia e il medesimo destino umano. Maneggiare una lingua è un modo per comprendere il mondo, per situarsi nell'universo, per identificarsi con un gruppo di appartenenza e con i suoi valori. Non ci sono due lingue capaci di esprimere esattamente la stessa percezione dell'universo materiale e spirituale, di mettere in comunione con le stesse risonanze del sentire umano. Da qui nasce la difficoltà, praticamente insormontabile, di una traduzione perfetta da una lingua ad un'altra. Ogni lingua interpreta ed esprime una propria visione della realtà, ed è in questo ch'essa è, nello stesso tempo, condizione e prodotto di una particolare cultura. Questi fatti sono stati studiati con chiarezza da antropologi famosi quali F. Boas, E. Sapir, A. Kroeber, annoverati trai più importanti linguisti moderni.

Diversità linguistiche e culturali. L'appartenenza a comunità linguistiche distinte permette, di fatto, di specificare la diversità delle identità culturali, perché la lingua è, per eccellenza, la rivelazione di una cultura. Noi, tuttavia, vediamo che le comunità linguistiche ricoprono aree culturali molto differenziate. Alcune lingue hanno, nel corso del tempo, acquisito una diffusione straordinariamente estesa: pensiamo al ruolo del greco e del latino e, poi, quello del francese. Oggi l'inglese ha acquisito un carattere internazionale, ed anche lo spagnolo ha un ruolo analogo, benché più circoscritto.

La condizione linguistica e culturale di chi parla l'inglese o lo spagnolo comporta vantaggi che non ha chi parla una lingua di diffusione limitata, come, per esempio, l'ungherese, il finnico, lo svedese. La comunità internazionale riconosce questo fatto e giustamente guarda alle possibilità di un ascolto universale, quale lo meriterebbero, le grandi opere scritte nelle lingue dette minori. D'altra parte, l'appartenere ad una famiglia linguistica con vocazione internazionale non elimina affatto i particolarismi che si manifestano, per esempio, nei diversi popoli d'espressione anglofona, spagnola o araba.

Accade spesso che la comunità linguistica corrisponda praticamente alla nazione, la cui cultura riveste una propria espressione linguistica. Ma in un grande numero di paesi esiste una situazione di multilinguismo; ci sono paesi che sono ufficialmente bilingui o trilingui. Accade anche che decine o centinaia di lingue o dialetti coesistano su di uno stesso territorio nazionale. Gli Stati optano allora per una o più lingue ufficiali. L'Indonesia ha scelto con successo l'uso dell'indonesiano. L'India ha dichiarato l'indostano e l'inglese lingue ufficiali, senza ottenere ancora che il loro impiego sia generalizzato in tutto il paese. Israele ha riadattato l'uso dell'ebraico. L'Irlanda ha optato per il gaelico e l'inglese, che rimane, in pratica, il mezzo comune di espressione.

Questi esempi dimostrano come l'identificazione tra la lingua e la comunità culturale debba essere interpretata con molte sfumature. La pluralità linguistica costituisce la realtà di un gran numero di paesi ed è il contesto culturale in cui si opera l'acculturazione delle giovani generazioni. Oggi si assiste anche ad una rivalutazione dei dialetti tradizionali, come modi di espressione culturale, concepiti come patrimonio da preservare e da sviluppare per il bene stesso delle nazioni. Questo movimento, che è sensibile in Asia e in Africa, conosce un netto recupero nei paesi occidentali.

A questa molteplicità linguistica si aggiunge l'interpenetrazione delle culture favorita dagli scambi, dai viaggi e soprattutto dai mezzi di comunicazione sociale che tendono ad imporre certe lingue, soprattutto l'inglese diventato oggi onnipresente. Notiamo, di passaggio, che la straordinaria diffusione della cultura giapponese nella tecnica, nelle arti, nelle finanze e nei media non è accompagnato da un'eguale diffusione internazionale della lingua giapponese. Un fenomeno analogo si osserva in Corea.

Pur riconoscendo la validità dell'analsi del linguaggio nel contesto di comunità linguistiche ben definite, occorre oggi, più che mai, tenere conto dell'immenso mescolarsi delle culture e della rapidità delle comunicazioni che tendono a porre fine all'isolamento tradizionale dei gruppi linguistici. Questi fatti forniscono una ragione in più per evitare una interpretazione rigida delle interdipendenze tra le lingue e le diverse culture, come certi teorici hanno preteso di fare. Vi è il rischio del relativismo culturale denunciato dagli antropologi: le lingue e le culture verrebbero allora a non essere più comprese fuori del loro quadro socio-storico, concepito in maniera troppo rigida. L'attuale linguistica ha, al contrario, aperto l'analisi a dimensioni molto più universali.

Le caratteristiche comuni delle lingue. Ciò che emerge chiaramente dagli studi moderni sulla lingua, sono i tratti comuni che caratterizzano tutte le lingue. In un certo senso, le lingue hanno delle caratteristiche comuni che sono più importanti delle loro differenze. Esistono categorie linguistiche universali, che fanno parte del patrimonio culturale di tutta l'umanità.

Ferdinand de Saussure, nel suo Cours de linguistique générale, tenuto, all'inizio, a Ginevra nel 1916, ha dato un impulso privilegiato allo studio della lingua concepita come fenomeno specifico. Egli ha introdotto una netta distinzione tra la lingua, come sistema da studiare in sé, e la parola, come espressione dell'individuo. Già con Locke, la ricerca tentava di esplicitare una forma di grammatica universale del linguaggio. Questa intuizione si è notevolmente arricchita con gli studi di C. S. Peirce, di R. Jakobson, di F. de Saussure, di E. Benveniste e di N. Chomsky. Possiamo qui tracciare le linee principali di queste ricerche, che più direttamente interessano la dimensione culturale.

Queste osservazioni moderne partono da una teoria generale dei segni, la semiologia: essendo l'uomo un essere atto a simboleggiare, egli si esprime con gesti, segni, riti e costumi. La lingua s'iscrive in questa capacità espressiva universale. In un certo senso, la lingua è subordinata alla semiotica, la scienza dei segni, non essendo che uno dei modi della generale facoltà espressiva dell'uomo, ma, paradossalmente, è la lingua che fornisce il modello strutturale che è alla base di tutti gli altri modi della comunicazione umana.

In un senso molto reale, noi parliamo con molte altre espressioni oltre che con le parole. Ma, in fondo, c'è sempre soggiacente un riferimento al linguaggio. Parlare è saper maneggiare il gioco complesso che porta dal significante al significato, secondo la spiegazione di F. de Saussure.

Benveniste fa notare che questa capacità di simboleggiare e di esprimersi con segni, o mediazioni tra l'uomo e il mondo, rivela uno dei dati più profondi della condizione umana. " Il linguaggio rappresenta la forma più alta di una facoltà che è inerente alla condizione umana, la facoltà di simboleggiare. Intendiamo, con questo, in senso largo, la facoltà di rappresentare il reale mediante un " segno " e di comprendere il " segno " come rappresentante del reale, dunque di stabilire un rapporto di " significazione " tra una cosa ed altre cose ": 1966, 1974.

Strutture universali del linguaggio. Abbiamo già detto che le ricerche moderne si concentrano sempre più sulle regolarità comuni a tutte le lingue. Per Noam Chomsky, la cui influenza si rivela oggi notevole, la questione primaria ed essenziale da esplorare è il fatto che lo spirito umano genera strutture linguistiche e che questa capacità si sviluppa in noi spontaneamente e naturalmente.

Queste strutture del linguaggio umano offrono delle regolarità universali e, in generale, si ritrovano in tutte le lingue. Ciò che il bambino apprende, non è tanto una lingua già fatta, ma piuttosto la capacità di generare un numero indefinito di espressioni, di frasi, di proposizioni. Il locutore è colui che possiede questa conoscenza ovvia, tacita, inconscia, dell'arte di esprimersi. Praticamente Chomsky intende dire che " le lingue non esistono " e che è piuttosto lo spirito umano che acquista la struttura mentale che lo rende capace di una creazione espressiva sempre rinnovata. Di qui la teoria di Chomsky, che porta la denominazione di " grammatica generativa e trasformazionale ".

La linguistica non si ferma alle diverse lingue costituite, ma piuttosto alle leggi che governano lo spirito del locutore.

Sul piano metodologico, può sembrare giustificato studiare la linguistica in sé, come sistema di coerenza interna, indipendentemente da ogni riferimento sociale, ma non bisogna esagerare questa autonomia d'analisi, perché verrebbero trascurati precisamente i rapporti necessari ed inconfutabili che esistono tra la lingua e la cultura. F. de Saussure (1916), che fu uno dei primi a presentare la linguistica come scienza autonoma, dalla quale chiedeva che fosse tolto tutto ciò che è estraneo al sistema linguistico stesso, non ha mai trascurato di attirare l'attenzione su ciò ch'egli chiama " la linguistica esterna ", nella quale si rivelano le dimensioni culturali della lingua: " Queste sono, prima di tutto, i punti attraverso cui la linguistica ha rapporto con l'etnologia, tutte le relazioni che possono esistere tra la storia di una lingua e quella di una razza o di una civiltà... tra la lingua e la storia politica... i rapporti della lingua con le istituzioni di ogni genere... infine tutto ciò che si riferisce all'estensione geografica delle lingue e al frazionamento dialettale ".

La lingua e la cultura come sistemi di comunicazione. Le scienze umane invitano ad esaminare ancora più a fondo la simbiosi che si stabilisce tra la cultura e la lingua. L'ipotesi di lavoro che tende ad imporsi è il fatto che le realtà sociali, proprio come la lingua, sono fatti di comunicazione e modi di scambio. Si tratta di una teoria della comunicazione che considera tutti i fatti della società come forme di espressione e di comunicazione: l'arte, la politica, il diritto, la famiglia, la religione. In questo senso, la cultura è strutturata come una forma di espressione, come una lingua. Talcott Parsons considera così il sistema monetario come un codice espressivo e un modo di comunicazione per lo scambio. Lévi-Strauss (1958), da parte sua, ha analizzato i miti come unità espressive, analoghe alle unità più semplici della lingua che sono le frasi. Egli ha anche avanzato l'ipotesi, ardita, temeraria secondo alcuni, che tutta la vita sociale si spieghi con una teoria generale della comunicazione, che si applica soprattutto ai tre ordini di scambi fondamentali che si riferiscono alla famiglia, ai beni economici e ai messaggi linguistici: " Già da ora, questo tentativo è possibile a tre livelli: poiché le regole della parentela e del matrimonio servono ad assicurare la comunicazione delle donne tra i gruppi, come le regole economiche servono ad assicurare la comunicazione dei beni e dei servizi, e le regole linguistiche la comunicazione dei messaggi ". Questa teoria è stata fortemente criticata per il senso ambiguo che attribuisce al concetto di comunicazione; e sembra offensivo considerare le donne oggetto di scambio come i beni economici o come gli elementi di un messaggio linguistico. Lévi-Strauss risponde che la vita sociale deve essere intesa come un insieme strutturato che include tutti i modi di espressione, anche i più segreti. Secondo questa spiegazione, linguaggio e società avrebbero inconsciamente dei fondamenti comuni, a livello della comunicazione, poiché la cultura sarebbe una realtà codificata come la lingua. Lo psicanalista Jacques Lacan afferma perfino che " l'inconscio è strutturato come un linguaggio ".

Al limite, queste spiegazioni condurrebbero a concludere che il soggetto che parla è il puro prodotto del linguaggio piuttosto che il suo creatore. Paul Ricoeur ha chiaramente dimostrato come queste teorie strutturaliste, malgrado il merito ch'esse hanno di situare il linguaggio in un sistema semiologico che abbraccia tutta la cultura, sfociano spesso in un'" esaltazione del soggettivismo ". Sono teorie che costituiscono un prolungamento dell'influenza di Nietzsche che si è sempre violentemente opposto ad ogni forma di grammatica, come ad ogni tipo di teologia; esse risentono anche dell'influenza di Spinoza che voleva una contemplazione della verità facendo astrazione da ogni soggetto. Ricoeur (1985) chiaramente l'osserva: " Lo strutturalismo oscilla tra due pretese: una pretesa "spinoziana" di esprimere l'ordine del vero senza soggetto e una pretesa "nietzscheana" di esprimere il gioco del significante e del significato, al di là della morte di Dio, dell'uomo, del soggetto, delle norme, della grammatica e della sintassi ".

La linguistica, per quanto siano suggestive e stimolanti le sue ipotesi, è lungi dall'aver chiarito tutti gli enigmi del linguaggio. Il libero dibattito tra specialisti ha posto in valore i vantaggi dei diversi tipi di approccio alla linguistica, ma ha anche fatto emergere tutti gli scogli e i rischi di teorie troppo unilaterali riguardo alla lingua. Abbiamo notato tre di questi scogli: quello del relativismo culturale, che finisce per vincolare in modo esagerato la lingua ed una sola cultura; quello del soggettivismo linguistico, che riduce il parlante ad un essere creato dalla lingua, piuttosto che suo inventore; quello del formalismo linguistico che pone talmente l'accento sulle strutture universali del linguaggio da trascurare le lingue in sé.

Queste critiche, che gli specialisti della linguistica si rivolgono tra di loro, non infirmano, tuttavia, le loro profonde intuizioni e l'immenso apporto delle loro ricerche. Altri studiosi fortunatamente giungono a prolungarne l'esplorazione con metodologie diverse, particolarmente con l'ermeneutica congiunta all'analisi culturale.

Ermeneutica e analisi culturale. L'ermeneutica, o l'interpretazione del discorso umano, è una ricerca volta ad illuminare in maniera complementare e indispensabile il significato contemporaneamente personale e culturale del linguaggio. Paul Ricoeur è uno degli studiosi che ha cercato di conciliare i punti di vista della linguistica con quelli della filosofia.

L'analisi antropologica ed ermeneutica ci fa accedere al piano superiore in cui il discorso umano si rivela come lo strumento per eccellenza della creazione culturale. Se la lingua è un sistema di segni, è perché essa è al servizio di un essere alla ricerca del significato e del senso ultimo delle cose. Se la lingua è collegata a culture particolari, essa è anche e soprattutto una mediazione verso la cultura umana in senso proprio. I più validi rappresentanti della linguistica e dell'ermeneutica sono concordi su di un punto essenziale: studiare la lingua nelle sue strutture e nelle sue regole interne è anche esplorare l'attributo proprio del locutore dotato di una capacità espressiva aperta all'universale. La facoltà del dire s'illumina da ciò che è detto e dalle opere che crea la lingua umana.

I capolavori dell'umanità, frutto del genio di scrittori, di poeti, di pensatori, si affermano come una prova irrefutabile che la lingua dell'uomo è il segno per eccellenza della sua capacità creatrice, della sua libera espressione e della sua superiore dignità. Omero, Virgilio, Dante, Cervantes, Shakespeare, Goethe, Pascal non sono riconducibili a nessuna delle teorie esplicative della lingua. Da Aristotele e sant'Agostino, che si sono interrogati sui misteri della lingua umana, molte risposte sono state date, ma gli interrogativi più difficili rimangono tali e probabilmente per sempre. Questi interrogativi riguardano ciò che vi è di più profondo nello spirito e nella cultura dell'uomo.

Lo spirito umano è fatto per dire e ammirare la verità. In Wahrheit und Methode H.G. Gadamer ha dimostrato come le due grandi modalità dell'interpretazione sono la comprensione della propria storia e la comprensione estetica. Attraverso questa regola superiore dell'intelligenza umana, ogni altra comprensione s'illumina e ogni cultura trova la sua propria ricchezza. Riconoscere ciò che è vero nella nostra tradizione culturale e saper scoprire la bellezza del reale costituiscono le operazioni più alte del discorso degli uomini. E la tradizione interpretativa ereditata dal mondo greco-romano e dalla cultura biblica. Altre tradizioni, nate dalla sapienza e dalla spiritualità orientali, lo confermano: il linguaggio umano si è arricchito storicamente di un valore sacro ed estetico. Gli interrogativi millenari sulla natura e il significato del linguaggio continueranno a stimolare gli spiriti migliori, perché è sempre appassionante sollevare il velo sulle molle segrete dello spirito umano alle prese con la totalità del reale.

Questi problemi sono del più alto interesse, soprattutto per quelli che cercano di studiare i complessi processi dell'educazione e dell'acculturazione, essendo una delle questioni centrali il comprendere come un sistema di pensiero o un corpo dottrinale possano essere trasmessi intatti ed arricchiti, di generazione in generazione, a culture e a lingue in costante cambiamento. E la grande sfida umanistica e spirituale posta dall'evoluzione delle culture e delle lingue umane. Tutte le religioni e tutte le culture tradizionali lo riconoscono. La Bibbia, che ha posto il Verbo all'origine di ogni realtà, offre una risposta che fonda la nuova cultura. Il cristianesimo ha perfino identificato la Parola al Figlio di Dio e l'uomo è l'interlocutore privilegiato che gli risponde nella verità e nell'amore.

Vedi: Cultura, Comunicazione sociale, Educazione, Acculturazione.

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