HERVÉ CARRIER S.J

DIZIONARIO

DELLA CULTURA

PER L'ANALISI CULTURALE

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Modernità. (inizio)

La modernità come tipica forma mentale del mondo contemporaneo è di abbastanza facile apprendimento da parte della coscienza comune, ma rimane la sua definizione in gran parte inafferrabile. La modernità s'impone a noi come un certo stato della cultura e noi cercheremo di esplorarne la realtà col metodo dell'analisi psicosociale.

Dalla modernizzazione alla modernità. Per cogliere la cultura della modernità sembra utile ed illuminante partire dal fatto stesso della modernizzazione, i cui criteri sono socialmente osservabili. Si tratta di un processo storicamente reperibile nei suoi segni e nei suoi effetti sulle società umane. Tenteremo di tracciare un prospetto sintetico delle descrizioni che i sociologi offrono riguardo alla modernizzazione. Ci chiederemo soprattutto come i mutamenti tecnici della rivoluzione industriale, seguita dalla rivoluzione urbana, abbiano segnato l'anima profonda delle popolazioni che ne sono state i testimoni, gli attori, i beneficiari, ma anche spesso le vittime.

Se consultiamo le analisi fenomenologiche della modernizzazione, quale si è venuta formando con la rivoluzione industriale ed urbana del secolo XVIII in Inghilterra e del secolo XIX in Francia, possiamo descriverla con una prima approssimazione, partendo da quattro indicatori principali.

Progresso delle scienze e delle tecniche. E prima di tutto il progresso delle scienze e della tecnica che rese possibile la rivoluzione industriale. Lo sviluppo decisivo è stato dato dal passaggio delle scoperte scientifiche alla loro utilizzazione tecnica. E diventando empiriche ed utili che le scienze hanno trasformato il lavoro e la produzione. Poi, il prodigioso sviluppo delle scienze fisiche, chimiche e biologiche ha prodotto lo slancio industriale ed agricolo che ha trasformato tutta l'attività economica e l'insieme dei modi di vivere. I mutamenti tecnici e culturali sono, come lo vedremo, paralleli.

L'obbiettivo del mondo industrializzato era la produzione razionalizzata e massimalizzata. Il valore economico del lavoro tendeva ormai a prevalere sul valore umano del lavoratore e ciò portava con sé una rivoluzione psicosociale che i nostri contemporanei ancora non sono riusciti completamente a dominare.

Il progresso delle scienze ha, d'altra parte, prodotto una rottura sempre più netta con le conoscenze tradizionali concernenti la natura dell'uomo e l'uomo stesso. La fisica ha rifiutato le cosmologie bibliche. Le scienze umane hanno offerto una nuova immagine, empirica e positivistica dell'essere umano. Comte, Marx, Freud hanno a lungo influenzato la rappresentazione dell'uomo moderno, individuale e collettivo. L'impatto di questa rivoluzione scientifica sulle culture resta ancora da approfondire.

Mobilità delle persone e dei capitali. Nelle società stabili del passato, le persone e le ricchezze non si spostavano che a ritmo lento, perché la vita economica era largamente collegata alla terra; ma tutto è cambiato con l'industrializzazione. La mobilità delle persone e dei capitali è stata una conseguenza della concentrazione manufatturiera, presto accompagnata da una centralizzazione commerciale e finanziaria. Le ricchezze sono diventate liquide e i capitali si sono presto messi in movimento per essere investiti nelle nascenti industrie.

Le popolazioni, in maggior parte rurali fino a quel momento, affluirono verso i centri manifatturieri, attratti dall'esca del guadagno. Gli uomini, le donne, i bambini venivano a vendere il loro lavoro, ma senza la protezione di un contratto preciso. In un movimento precipitoso ed incontrollato di urbanizzazione, sorsero i primi quartieri operai, ammassi umani più che comunità ordinate, la cui terribile miseria materiale e morale, descritta da P. Gaskell in Inghilterra (1833) e da L. R. Vilermé in Francia (1840), doveva servire da base ai primi conflitti operai e ai fermenti rivoluzionari di Marx ed Engels. L'urbanizzazione moderna è nata storicamente come un fenomeno destabilizzante per le comunità tradizionali, per la famiglia in particolare.

La città, bisogna riconoscerlo, rappresenta d'altra parte una conquista culturale di cui conviene sottolineare l'apporto positivo alla civiltà. Ma è un fatto che l'avventura urbana dell'uomo, anche nei paesi più " urbanizzati " comporta delle contraddizioni evidenti e siamo ancora lontani da quell'" urbanizzazione intenzionale " che farebbe delle città moderne comunità umanamente arricchenti.

L'emergere dello Stato moderno. Un altro fattore di modernizzazione è l'emergere dello Stato centralizzato, burocratico, rappresentativo. Lo Stato veniva ad assicurare una funzione necessaria per l'ordine delle attività economiche e sociali dei gruppi con interessi contrastanti, ma si sarebbe rivelato come un potere astratto, sempre più distinto dalla società, fenomeno che Marx ed Engels denunciarono come vizio fondamentale della società moderna. Qualunque sia il giudizio riguardo a queste critiche, è certo che i nostri contemporanei devono ancora affrontare una grave crisi dell'autorità civile e non sanno come far fronte alle esorbitanti pretese dello Stato provvidenza, che tende a diventare il padrone del diritto, della legge ed anche dell'economia, dell'educazione, della cultura, della comunicazione, della salute, della demografia, per non parlare dei rivolgimenti della politica ideologizzata dei paesi totalitari moderni.

Individualizzazione delle persone. L'accentuarsi dell'individualismo è un altro fenomeno concomitante della modernizzazine. L'accresciuta mobilità delle persone, la promiscuità delle collettività urbane hanno prodotto il distacco degli individui dalle proprie comunità di appartenenza tradizionale, il villaggio, la parrocchia, la famiglia. La ricerca di autonomia esalta l'individuo che si propone ormai di scegliere da solo i propri ruoli nella società, mentre nel passato i ruoli erano prescritti dall'ambiente, l'età, la famiglia, la condizione sociale.

Le correnti di pensiero nate dal romanticismo, dall'illuminismo e dalle filosofie hanno diffuso l'ideale di una più profonda consapevolezza delle libertà e una rigorosa affermazione della persona. La mentalità moderna ha fatto suo il valore positivo di questi diritti fondamentali, pur cercando d'integrarli in un progetto allargato di solidarietà universale. L'equilibrio tra questa duplice richiesta, personale e collettiva, rimane una delle grandi sfide della cultura moderna.

Lo sviluppo dello spirito democratico e la volontà di autonomia, la mobilità e l'arricchimento degli individui hanno dato un forte impulso al movimento dell'educazione generalizzata, uno dei fattori indispensabili dello sviluppo sociale, culturale, economico e politico.

Una conseguenza particolarmente segnata dall'individualizzazione è la crisi delle istituzioni e delle comunità tradizionali. Il mutamento dell'istituto familiare è emblematico. La famiglia è, ormai, sempre più definita in funzione dell'autonomia delle persone nel lavoro e nella società. La famiglia perde il suo ruolo educativo tradizionale e le sue funzioni produttive ed economiche.

La crisi della famiglia è uno degli indici più tipici della modernizzazione, e questa crisi è andata aggravandosi da un secolo, al punto che, oggi, l'avvenire stesso dell'istituto familiare è messo in causa dal rifiuto del matrimonio civilmente o religiosamente sanzionato, dal fenomeno della coabitazione giovanile, dalla moltiplicazione dei divorzi, dalla crescente pratica della sterilizzazione e dell'aborto, dalla diffusione dell'omosessualità come modo di vita e come una nuova subcultura.

La rivoluzione industriale è stata accompagnata da una vera rivoluzione culturale che ha provocato l'erosione dei valori centrali sui quali riposava l'ordine tradizionale: le antiche gerarchie sociali, i modi di lavoro e di associazione, i rapporti dell'uomo con la natura, il ruolo delle comunità familiari, religiose, locali. La nuova cultura ha proposto un'altra maniera di conoscere il mondo e di sfruttarlo. Le somme del sapere, pazientemente elaborate dai teologi, sono state sostituite dalle scienze empiriche e dalle tecniche di sfruttamento della natura e di gestione socioeconomica.

Questa evoluzione storica ha creato un mondo con tutti i vantaggi che gli sono propri, ma ad un costo umano e spirituale molto elevato. Come questa evoluzione segnerà ora i paesi in via di sviluppo? La questione è fondamentale per l'avvenire della modernità. Queste poste in gioco ci invitano ad un esame critico della cultura della modernità quale si rivela nei suoi effetti positivi e negativi nel processo storico della modernizzazione.

Modernità: progresso e contraddizioni. E innegabile che la cultura moderna ha apportato all'umanità vantaggi quali nessun periodo anteriore aveva potuto nemmeno osare sperare. La nostra epoca prova una particolare fierezza e una legittima soddisfazione nel constatare il salto di qualità e l'incredibile massa di scoperte scientiche e tecniche dovute ai ricercatori moderni.

Ma, al di là di questo sentimento di fierezza e di ammirazione per il progresso tecnico, la modernità ci fa paura mentre ci seduce. Nel cuore della psicologia contemporanea nascono profonde inquietudini. La cultura moderna, meravigliosa per le sue creazioni, si accompagna di contraddizioni e di minacce latenti che tormentano l'inconscio collettivo.

Mito del progresso e delusione. Questa angoscia generalizzata ha, per buona parte, la sua spiegazione nel crollo di un mito che a lungo ha ispirato lo sviluppo delle società industriali: quello del progresso irreversibile. Assistiamo alla caduta di un'ideologia che, per circa due secoli, ha guidato la speranza acritica dei popoli occidentali, cioè l'utopia del progresso fondata sulla comune credenza dell'avvento certo di una società felice, grazie all'instaurarsi della razionalità empirica e alla vittoria finale della ragione e della giustizia.

Il mito del progresso ha trascinato nella luce del suo fascino, in conclusione ingannatore, sia le società dette liberali che le nazioni a regime socialista, anche se queste ultime sono state più lente a prendere atto del raffreddamento dell'ideologia progressista.

Accanto alle speranze più valide secretate dalla modernizzazione, che si chiamano progresso, liberazione, razionalità, l'uomo e la donna ordinari sono sempre più disincantati da un progresso deludente e da una falsa razionalità. La nostra generazione vive con angoscia il senso umano del limite, della precarietà e dell'effimero. La storia non gioca più automaticamente in nostro favore, le catastrofi passate e quelle a venire, notava Adorno, hanno fatto aprire gli occhi.

I valori dominanti della modernità si rivelano oggi con più chiarezza nella loro ambivalenza, generando insieme un senso di attrazione e di rigetto, di seduzione e di delusione. Fino ai nostri giorni la società moderna ha considerato l'individualismo, la razionalità, il pluralismo, le comunicazioni di massa, la scienza tecnologica come valori sicuri, e ancora essi rimangono, sul piano psico-sociale, le forze propulsive del progresso sperato. Ma gravi contro-valori sono sorti, che drammaticamente sottolineano i loro limiti e le loro contraddizioni. Questa dialettica in discesa, fonte di serie inquietudini morali e spirituali, può essere illustrata da alcuni fatti che verremo citando.

La razionalità contro la ragione. E un fatto ovvio, per esempio, che lo spirito razionalistico ha trasformato le società tradizionali fornendo loro mezzi produttivi, amministrativi, commerciali, finanziari infinitamente più efficaci di quelli del passato e questo costituisce un progresso che nessuno può contestare e da cui nessuno vorrebbe tornare indietro. Ma il razionalismo, introducendo il sistema tecnico e burocratico, ha spersonalizzato il lavoro, le relazioni sociali e i rapporti tra chi governa e chi è governato.

Privilegiando l'efficienza e la produttività massimale, la società tecnica ha favorito una tendenza schizofrenica dei comportamenti. Per uno strano paradosso, la società del benessere ha prodotto una nuova alienazione, quella degli individui anonimi considerati artificiosamente come semplici consumatori, elettori, contribuenti. La contraddizione si aggrava quando il sistema economico si perfeziona fino a generare la disoccupazione detta tecnologica, che lascia milioni di persone senza lavoro e socialmente emarginate. Questo blocco rappresenta una situazione eplosiva. L'economia non può pretendere a lungo di progredire sacrificando il fattore umano. I provvedimenti socioeconomici, che sarebbero necessari, sembrano essere una sfida alla razionalità vigente.

L'individualismo e la folla solitaria. Anche lo spirito individualistico può essere considerato un valore ed una conquista. Certo, l'individuo libero ha reso possibili la democrazia, lo spirito d'impresa, la libertà d'espressione, l'esigenza di giustizia per tutti, il bisogno generalizzato di educazione e di partecipazione ai benefici della cultura. Queste aspirazioni fanno progredire la società moderna e le nazioni giovani vi tendono con tutte le loro forze malgrado ostacoli e drammatiche difficoltà. Sulla via verso lo sviluppo integrale, non ci si può che rallegrare della promozione, nella società, di persone libere e responsabili.

Ma le contropartite dell'esaltazione dell'individualismo sono evidenti. Il culto dell'individuo ha distrutto il senso della tradizione e colpito l'istituto della famiglia, lasciando le persone senza difesa in seno ad un pluralismo livellatore. Per millenni, l'uomo ha vissuto seguendo le orme di costumi e di tradizioni rispettate, attingendovi una sapienza popolare ed una cultura di sostegno. Oggi non c'è più tradizione che sia al riparo dalla contestazione.

E in questo contesto culturale che oggi si afferma l'uomo che vive in ambiente pluralistico e areligioso. L'individuo entra allora a far parte della folla solitaria dei suoi simili, nella quale ciascuno si ripiega sui propri valori, imparando con difficoltà a vivere in un ambiente segnato dal pluralismo degli assoluti, dove ognuno si dà soggettivamente le proprie ragioni di vita. Il pluralismo culturale della società moderna, dobbiamo riconoscerlo, comporta degli aspetti chiaramente positivi, poiché favorisce la libertà di credenza, la comprensione dell'altro, l'accoglienza delle minoranze, la tolleranza e la volontà di promuovere un ordine sociale rispettoso delle differenze e delle diversità inseparabili della società moderna. Ma, un'accettazione generalizzata e troppo passiva del pluralismo rischia di annullare la libera scelta delle persone, quando tende a prevalere un nuovo conformismo di massa, uno sconsiderato consumismo di beni e di idee, un livellamento culturale verso il basso: vedi: Pluralismo. Questa tendenza alimenta il relativismo e il soggettivismo della società dei consumi.

Si tratta, inoltre, di atteggiamenti diffusi da certi " nuovi intellettuali " che si guadagnano la vita con la produzione del sapere e dell'informazione. Questa " Nuova classe ", come spesso viene indicata, rappresenta un potere in ascesa e tende a dominare nelle ricerche, nel sistema educativo e nei media.

La comunicazione che unisce e destruttura. La comunicazione sociale deve essere considerata un valore e un prodotto culturale e dobbiamo dire che i media moderni, sotto questo punto di vista, ci hanno proiettato in un'altra dimensione del tempo e dello spazio. Noi stiamo ancora vivendo questo grande stupore ed ancora ci interroghiamo riguardo a queste straordinarie possibilità di comunicazione tra noi. Ne deriva un sentimento di esaltazione della solidarietà universale, della virtuale corresponsabilità riguardo agli affari dell'intero pianeta.

Tuttavia, le frontiere tradizionali così importanti per secoli in quanto protettrici delle culture nazionali, hanno ceduto di fronte all'irresistibile invasione delle onde che veicolano, nel libero spazio, le immagini, la pubblicità, le sollecitazioni della radio e della TV. Questa invasione delle nostre frontiere e delle nostre dimore è, noi diciamo, il prezzo da pagare alla modernità e ci meravigliamo che ogni uomo ed ogni donna siano potenzialmente collegati a tutti i fratelli e le sorelle. Le scuole, le università, gli istituti culturali si preoccupano di sfruttare queste possibilità, in un certo senso troppo rapidamente offerte, col pericolo ch'esse possano rivoluzionare strategie educative e pedagogiche.

Ai risultati delle comunicazioni elettroniche si aggiungono quelle dei rapidi trasporti. Tutti i punti del globo sono diventati straordinariamente vicini nel tempo e nello spazio. I viaggi aerei soprattutto hanno stabilito un sistema praticamente unificato di scambi e di rapporti tra tutti i paesi. I concetti di straniero, di vicino, di prossimo, di viaggiatore hanno subito, nella nostra mente, una netta relativizzazione. La famiglia umana si fa più vicina e presente.

Verso una supercultura? Di fronte a questi fenomeni di comunicazione universalizzante, il nostro discernimento rimane ancora insufficiente, anche perché gli effetti dei media sono lungi dall'essere tutti positivi. Uno degli effetti più notevoli è la nascita di una cultura di massa, portata dalla strandardizzazione dei gusti, dalla diffusione universale degli stili di vita e di consumo, dalla crescente influenza delle industrie culturali che sanno abbinare la creazione di opere popolari con il successo finanziario. Ne risulta una omologazione della cultura ed una nuova forma di predominio occidentale, americano, ma in nessun modo esclusivo, come noteremo. I valori ludici a sfondo materialistico e edonistico seducono le masse, i cui gusti tendono ad assomigliarsi in ogni parte del mondo. Questa supercultura, universalizzandosi progressivamente, costituisce una minaccia per le culture regionali, nazionali, etniche, religiose. I valori che sono legati alla famiglia e alle collettività tradizionali subiscono un'erosione quasi irreparabile. Molte comunità culturali rischiano di sparire, alcune si difendono, altre si oppongono violentemente, come si può vedere nel risorgere dei fondamentalismi e dei fanatismi religiosi.

Un problema grave si pone alla nostra epoca, quello di riuscire a conciliare l'avvento di una supercultura con la coesistenza pacifica delle culture particolari, in una ricerca cosciente di equilibrio tra una cultura omogenea universalizzata, già presente, e le policulture vive, già in stato di difesa. Questo internazionalismo culturale, fondato su di un pluralismo rispettoso, trova oggi difensori realisti e chiaroveggenti. Si tratta di una forma di difesa dell'uomo in quanto tale, che non può lasciare indifferenti.

La cultura di massa, propagata dai media, ha raggiunto il suo limite, al di là del quale essa distruggerà se stessa? E una delle questioni morali e politiche più urgenti e difficili che sono chiamati a porsi i cittadini preoccupati di assicurare la sopravvivenza delle istituzioni fondamentali della società moderna.

La scienza tecnologica creatrice e omicida. La scienza e la tecnica, lo abbiamo riconosciuto, sono stati i fattori di propulsione della modernizzazione e le scoperte della creatività scientifica hanno per sempre arricchito la civiltà. Soltanto movimenti anti-scientifici e anti intellettuali possono sognare un illusorio ritorno ad una società prescientifica e naturista. Occorre, però, capire le motivazioni che ispirano queste nostalgie. La scienza-tecnica, che ieri era una trionfante speranza e realmente creatrice di meraviglie, è oggi citata nel tribunale della coscienza universale. Il suo potere è cresciuto, quasi senza limiti, per il benessere, ma anche per la distruzione dell'uomo e del suo habitat. Non c'è uomo né donna che oggi non si senta minacciato dal fuoco assassino e suicida delle armi moderne. Hiroshima ha, per sempre, scosso la psiche collettiva.

La natura e la biosfera sono già gravemente danneggiate e ripetute catastofi ecologiche sollevano un'angoscia generale che spesso confina col panico. L'irrazionalismo della società industrializzata e militarizzata conduce alla devastazione. I movimenti ecologici e pacifisti possono irritare per i loro eccessi, ma le loro denunce poggiano largamente su fatti ben fondati. Essi interpellano le nostre culture troppo poco preoccupate e passive di fronte ai danni prodotti dall'industrializzazione e di fronte a programmi militari che meritano condanna. I nostri contemporanei sono angosciati, hanno paura di ciò che si annuncia. Rimarchiamo che il nostro ambiente sociale è altrettanto, se non di più, minacciato del nostro ambiente fisico.

E le scienze umane? Le produzioni delle scienze umane sono meno visibili di quelle delle tecniche, ma il loro impatto è, per questo, meno profondo? Quando oggi si considera la scienza, si presta una sufficiente attenzione alle scienze del comportamento? Queste discipline hanno considerevolmente approfondito la nostra conoscenza dell'uomo individuale e sociale e hanno permesso di compiere notevoli progressi nell'organizzazione e nella direzione delle comunità umane. Il funzionamento della società moderna sarebbe inconcepibile senza le scienze sociali e queste sono indispensabili alla modernizzazione del mondo. Ma correnti di pensiero imbevute di determinismo e di strutturalismo tendono praticamente a distruggere il concetto umanistico ereditato dalla Bibbia e dal mondo greco-romano. Molti sociologi, economisti e politologi diffondono la concezione materialistica dell'uomo. Smontando i meccanismi dell'inconscio e le strutture segrete del comportamento, gli antropologi e gli psichiatri hanno messo a nudo l'anima umana nei confronti delle forze oscure ed angoscianti che l'abitano. L'essere umano, si sostiene, non sarebbe che il povero giocattolo dei propri impulsi inconsci.

Paul Ricoeur (1978) si è a lungo soffermato su questi interrogativi lanciati alla cultura moderna, alla filosofia e alla teologia in particolare. Le istituzioni culturali nel passato trovavano la loro legittimazione nella religione, ma oggi " la religione non è più direttamente funzionale " né nel campo scientifico, né in quello etico, politico, sociale. Queste constatazioni ci rivelano la condizione dell'uomo moderno in tutta la sua radicalità: quest'uomo è ancora capace di situarsi esistenzialmente e in una relazione psicologicamente significativa, di fronte all'assoluto e alla trascendenza? Se la risposta è negativa, avverte Ricoeur, l'umanesimo e la cultura si distruggeranno nel nichilismo.

Verso l'autodistruzione della modernità? Diversi studiosi concludono che la modernità è ormai votata all'autodissoluzione. Il progresso caccerà il progresso e la cultura umana. L'agitata corsa verso la novità, la sovrabbondanza di sensazioni sempre nuove, il cambiamento per il cambiamento finirà per distruggere la modernità, che si degrada in un cambiare di mode effimere. La modernità avrebbe esaurito il proprio dinamismo innovatore e noi saremmo già entrati nell'epoca del post-moderno nel quale la storia sarà da riprendere in mano con un sforzo concorde a scala planetaria. La storia ha cessato d'essere tutelare, secondo l'utopia del secolo XIX. Toccherà ora a ciascuno di noi fare una storia intenzionale, umanizzata, costruita con corresponsabilità. In caso contrario, la schiacciante egemonia della scientificità, delle tecniche e dei media ci porterà all'agonia dell'umanità, all'estinzione della civiltà. Noi staremmo già entrando in una nuova forma di barbarie. Diversi osservatori lo sostengono con serietà, mediante analisi che provocano gravi inquietudini, anche se non è ancora il momento di abbandonarsi alla disperazione.

All'inizio del secolo, Spengler si era eretto a profeta pessimista ed aveva predetto l'ineluttabile declino dell'Occidente. La storia si è rivelata molto più complessa. L'Occidente, infatti, ha continuato la sua marcia in avanti e, d'altra parte, Spengler non aveva previsto che la modernità ben presto avrebbe cessato di identificarsi col solo mondo occidentale.

La leadership mondiale tende a diventare policentrica e una concorrenza sempre più diversificata si va sviluppando tra l'America del Nord, il continente europeo, il Giappone. Le nazioni del Sud-Est asiatico stanno facendo progressivamente pendere gli equilibri internazionali verso la zona del Pacifico.

La modernità, ancora occidentale? Il problema che ora si pone è di sapere in che senso la modernità rimanga un fenomeno occidentale a dominante americana. Una chiara internazionalizzazione culturale si è prodotta e la modernità tende a diventare una cultura comune a tutti i popoli che hanno accolto l'industrializzazione come modo di vita. Kenneth Boulding (1969) già aveva notato questa transnazionalizzazione della modernità: " La supercultura è la cultura degli aeroporti, delle autostrade, dei grattacieli, delle ibride varietà dei mais e dei fertilizzanti artificiali, della pillola e delle università. Essa è universale nel suo raggio d'azione e, in un senso anche molto reale, tutti gli aeroporti sono un solo e medesimo aeroporto, tutte le università una sola e medesima università. Essa possiede anche la sua lingua universale, che è l'inglese tecnico e un'ideologia comune, quella della scienza ".

Possiamo ricordare quanto aveva affermato Gregory Claeys (1986) professore ad Hanovre: " Appariva sempre più evidente, verso l'inizio degli anni 1960, e come si vuol riconoscere oggi, che la trasformazione dell'Europa del dopo-guerra aveva, di fatto, meno a che vedere con l'americanizzazione che con la diffusione di un nuovo stile di consumi e con nuove forme di produzione e di distribuzione, proprie ad un particolare stadio dell'evoluzione della società industriale ": cf J. R. Blau, 1989.

Paesi poveri e modernità. Se si ammette che la modernità s'identifica con le nazioni più ricche industrialmente, un interrogativo si pone: che ne sarà dei paesi più poveri? Siamo costretti ad ammettere che il mondo moderno non ha saputo abbordare con successo i problemi dello sviluppo. Malgrado i grandi sforzi, spesso generosi, il numero dei poveri, degli analfabeti e degli affamati aumenta nel mondo; si tratta di un grave fallimento per la cultura moderna.

Il mondo moderno non ha saputo mobilitare le risorse e le iniziative che erano necessarie a far decollare, sul piano socio-economico, l'insieme dei paesi. I mezzi tecnici, i capitali, le capacità esistono, ma non sono stati messi in opera con volontà lucida. Nel frattempo, somme favolose e enormi energie sono servite a militarizzare il pianeta, i paesi ricchi come quelli poveri, fino ad un punto di saturazione suicida.

Questa contraddizione sta probabilmente ad indicare la malattia più tragica della cultura moderna, ma la modernità in sé non è da condannare. Malgrado i tanti fallimenti e i tanti sbagli, bisogna sperare in un sobbalzo morale di tutte le nazioni, ricche e povere. E richiesta nella nostra epoca una conversione culturale capace di mobilitare le energie umane e i mezzi efficaci capaci di suscitare le solidarietà necessarie allo sviluppo di tutti i popoli, in uno sforzo unitario di tutti gli interessati a dimensione mondiale.

Non dimentichiamo che la modernizzazione, come progetto ideale, continua ad alimentare i sogni e le speranze legittime di ogni persona, anche della più sprovveduta. Al di là delle loro differenze e dei loro orientamenti ideologici, tutti i paesi in sviluppo aspirano alla modernizzazione e devono confrontarsi con la cultura della modernità. Quale volto dovremo dare alla modernità che un giorno, certamente, si sarà estesa all'intera famiglia umana?

Vedi: Industrializzazione, Urbanizzazione, Sviluppo culturale, Pluralismo culturale, Società dei consumi, Società post-industriale.

Bibl.: H. Arendt 1983. P. L. Berger 1971, 1973, 1980. K. Boulding 1969. H. Carrier 1990a, 1990b. J.S. Chenais 1995. G. Claeys 1986. G. Cottier 1985. S. Crook et al. 1992. J. C. Delauney 1987. L. Dumont 1983. J. Ellul 1977. P.E. Engelhard 1996. M. Featherstone 1990a, 1990b. P. Gisel 1991. A. Gouldner 1979. D. Fauvel-Rouif 1989. D. Harvey 1989. D. S. Landes 1969, 1975. P. Papon 1989. P. Ricoeur 1978. R. Robertson et al 1991. L. Scott 1991. O. Splengler 1978. E. Troeltsch 1974, 1977, 1991. B. S. Turner 1990. J.-C. Chenais 1995. A. Dumais 1995. S. N. Eisenstadt 1987. D. Harvey 1990. H. Foster et al. 1985, G. Larochelle 1990. A. Nouss 1996. W. J. Ong 1982. C. Taylor 1989. A. Touraine 1992. G.A. Valladao 1993.

 

Mondialismo. (inizio)

Movimento che cerca di rispondere alla mondializzazione dei problemi del nostro tempo, suscitando una solidarietà universale tra i popoli e proponendo istituzioni di carattere supernazionale dotate della necessaria autorità. All'origine, il mondialismo è apparso come una " utopia ingenua e simpatica ". Victor Hugo, nel 1842, prediceva che " un giorno il globo intero sarà civilizzato... Allora si realizzerà il sogno magnifico dell'intelligenza: avere per patria il mondo e per nazione l'umanità ". Oggi, il movimento mondialista si fonda sul fatto che la maggior parte dei problemi umani si sono mondializzati e nessuna soluzione soddisfacente può essere trovata sul solo piano delle nazioni singole: alimentazione, diritto sui mari, risorse, energie, acqua potabile, protezione della biosfera, problemi monetari, trasferimenti tecnologici, costo delle materie prime, garanzie di pace, azione efficace contro la droga, il terrorismo, corsa agli armamenti, sottosviluppo endemico. I grandi problemi che emergono anche all'interno di una nazione richiedono, per la loro soluzione, una cooperazione su scala mondiale: la disoccupazione, l'inflazione, il rispetto dei diritti umani, la libertà culturale, il commercio, l'industrializzazione. La corrente mondialista è incoraggiata da numerose organizzazioni, da movimenti e associazioni federaliste che si dedicano al servizio della comunità mondiale, dello sviluppo e del diritto mondiale.

Il mondialismo che trova credito nell'opinione pubblica è quello che rispetta tre condizioni principali: la definizione realistica dei problemi sul piano mondiale; l'approccio federalista dei problemi che, contrariamente a quanto pensavano le utopie del passato, non elimina le entità nazionali; la proposta di un'autorità supernazionale che presupponga il volontario transfert di alcune prerogative della sovranità delle nazioni.

Dal tempo di Pio XII soprattutto, la Chiesa, senza parlare esplicitamente di mondialismo, riconosce la necessità di abbordare i problemi contemporanei in una prospettiva mondiale e di promuovere un'autorità universale, capace di affrontarli efficacemente.

Giovanni XXIII diceva: " Nel nostro tempo, il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali ", ed aggiungeva: " Lo stesso ordine morale domanda poteri pubblici che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale ". Ma egli stesso osservava che tali poteri " vanno istituiti di comune accordo e non impartiti con la forza ": Pacem in Terris 1963, cap. IV. Il Concilio Vaticano II ha chiaramente assunto questa posizione chiedendo " che venga istituita una autorità pubblica universale, da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli sicurezza, osservanza della giustizia e rispetto dei diritti ": Gaudium et spes, n. 82. Giovanni Paolo II ha dimostrato come " il principio della mondialità " è chiamato a fondare un nuovo tipo d'interdipendenza nel mondo: " Ciò che noi possiamo chiamare il principio di mondialità - secondo il quale tutto ciò che è d'interesse mondiale è di competenza mondiale - dovrà essere riconosciuto come il fondamento dei rapporti socio-economici e politici. L'interdipendenza non può risultare soltanto da processi storici determinati. Dal punto di vista della morale, l'interdipendenza s'impone ormai come il criterio delle scelte e dei comportamenti della famiglia umana. Ciò esige una revisione profonda dei principi che hanno fin qui regolato i rapporti internazionali ": Discorso 18 febbraio 1989.

Vedi: Omologazione delle culture, Identità culturale.

Bibl.: C. Bigsby 1975. M. Featherstone 1990b. L. Périllier et J. J. Tur 1977. A. Mattelart 1991, 1996. G.A. Valladao 1995.

 

Museo. (inizio)

" Museum (Tempio delle muse). Il museo di Alessandria era un centro di studi situato vicino alla famosa biblioteca di questa città.

I musei moderni sono istituzioni che collezionano, conservano, classificano e studiano oggetti di valore artistico, etnologico, storico, scientifico, tecnico a scopo di ricerca e di educazione. Le collezioni artistiche hanno avuto inizio nei castelli, nelle chiese, nei monasteri. I tesori delle cattedrali ne sono un eccellente esempio: molti di essi ancora si conservano.

I musei, all'inizio, erano soltanto collezioni di oggetti curiosi o esotici, ricordi, quadri, tesori artistici. Nel secolo XIX, i musei si organizzarono su base professionale: S. Baxi 1973, H. Frese, 1960.

I pezzi furono allora disposti in maniera sistematica secondo tematiche e soggetti scelti, secondo sequenze cronologiche o determinati contesti etnologici. A poco a poco gli oggetti dell'arte detta primitiva furono anch'essi ammessi, a pieno diritto, nelle esposizioni, come testimonianze di culture tipiche.

Molte sono state le resistenze da vincere per far finalmente accettare dai musei le opere moderne. Il Museo nazionale d'arte moderna di Parigi fu aperto soltanto dopo la seconda guerra mondiale per accogliervi opere quali quelle di Picasso, Matisse, Braque, Chagall, che pure erano rappresentative della scuola di pittura di Parigi. Il Museum of Modern Art di New York aveva già tracciato la strada e comprato tutte le opere futuriste disponibili.

I musei, oltre alla funzione di conservazione e di studio, hanno molto sviluppato le loro finalità educative e culturali. Nuove tecniche di esposizione per tematiche scelte, locali con separazioni mobili, metodi di proiezione audiovisiva, sistemi di dimostrazioni meccaniche, banche di dati per rapide consultazioni permettono ai musei una presentazione molto più pedagogica dei loro tesori. I metodi di esposizione utilizzano tutte le tecniche dell'illustrazione visuale, situando il visitatore nell'ambiente in cui le opere sono state create: la sociologia dell'arte viene in aiuto ai musei nel loro sforzo per valorizzare i tesori raccolti. I musei funzionano anche in relazione con scuole, università, e istituti di ricerca. Esistono musei all'aria aperta che ricostituiscono, per esempio, villaggi tradizionali o luoghi archeologici, musei mobili che si spostano di città in città.

Un orientamento recente consiste nel coinvolgere direttamente le popolazioni locali nella costituzione di un museo, avente per scopo la conservazione del proprio patrimonio e l'affermazione della propria identità. Questi musei diventano un mezzo di educazione comunitaria a servizio di un territorio, di una località, di un quartiere, interessati a salvaguardare e a valorizzare il proprio genere di vita e a promuovere i propri progetti collettivi. Questi musei diventano lo specchio che una cultura si dà e dà agli altri. Questi nuovi musei si chiamano ecomusei o musei d'arte e di tradizioni popolari, o ancora, musei del quotidiano, musei del territorio, musei all'aria aperta. Essi sono popolari in Scandinavia, in Inghilterra, in Francia, in Canada e si diffondono in diverse parti del mondo e in molti dei paesi in via di sviluppo. Un'organizzazione internazionale degli ecomusei si è costituita per incoraggiare lo sviluppo dei musei direttamente legati alla promozione delle culture locali.

Lo studio dell'organizzazione, della sistemazione e della direzione dei musei si chiama museologia. Questa disciplina ha assunto un'importanza crescente a mano a mano che i musei venivano acquistando una più marcata funzione educativa e culturale. La rivista trimestrale Museum pubblicata dall'UNESCO a Parigi è un eccellente strumento d'informazione e di riflessione sui musei.

Vedi: Arte

Bibl.: M. M. Ames 1983. S. J. Baxi 1973. P. Bourdieu et A. Darbel 1966. A. Cantwell et al. 1981. H. Frese 1960.

N

 

Nuova evangelizzazione. (inizio)

La nuova evangelizzazione è una delle espressioni tipiche dell'insegnamento di Giovanni Paolo II. All'inizio è stata usata con riferimento all'Europa, sollecitata a ritrovare le proprie radici e la propria vocazione cristiane. L'espressione e le sue varianti, " seconda evangelizzazione " o " rievangelizzazione ", indicano un nuovo approccio della Chiesa riguardo al suo compito di evangelizzazione. La nuova evangelizzazione costituisce una sfida storica, dopo il 1989, quando le Chiese dell'Europa centrale, orientale ed occidentale sono state chiamate ad una stretta collaborazione perché il Continente europeo ridia vigore e creatività alla propria millenaria cultura ispirata al Vangelo. La nuova evangelizzazione indica anche, per l'America latina, una strategia pastorale che si è particolarmente affermata in occasione del quinto centenario dell'evangelizzazione di questo Continente, celebrato nel 1992.

L'espressione deve essere intesa in rapporto alle nuove condizioni dell'evangelizzazione nel mondo attuale. Il compito di evangelizzare le coscienze e le culture presenta, infatti, oggi particolari difficoltà, perché spesso gli ambienti da cristianizzare sono stati, nel tempo, segnati dal messaggio del Cristo, ma la Buona Novella è stata poi dimenticata nell'indifferenza o nell'agnosticismo pratico. La società secolarizzata ha particolarmente aggravato questo clima di fede inibita o dormiente. Per questo, alla Chiesa s'impone il compito di intraprendere una nuova evangelizzazione. Chiediamoci quale sia la differenza tra la prima e la nuova evangelizzazione.

La prima evangelizzazione è quella che rivela la novità del Cristo Redentore ai " poveri ", per liberarli, convertirli, battezzarli e per impiantare la Chiesa. L'evangelizzazione si diffonde nelle coscienze e nelle strutture portanti della fede: famiglia, parrocchia, scuola, organizzazioni cristiane, comunità di vita. E già in questi ambiti c'è una vera evangelizzazione della cultura, cioè un cristianesimo delle mentalità, dei cuori, degli spiriti, delle istituzioni, delle produzioni umane. Le culture tradizionali sono state, in questo modo, cristianizzate per un lento effetto di osmosi. La conversione delle coscienze ha profondamente trasformato le istituzioni. Noi conosciamo bene i prototipi della prima evangelizzazione: san Paolo, sant'Ireneo, san Patrizio, i santi Cirillo e Metodio, san Francesco Saverio.

Molti evangelizzatori del passato hanno compiuto una notevole opera d'inculturazione, ante lettera. Giovanni Paolo II ricordava che " i santi Cirillo e Metodio seppero anticipare alcune conquiste che sono state pienamente assunte dalla Chiesa nel Concilio Vaticano II, circa l'inculturazione del messaggio evangelico nelle rispettive civiltà, assumendone la lingua, i costumi e lo spirito della stirpe in tutta la pienezza del proprio valore ": discorso a Campostella, 9 nov. 1982. La prima evangelizzazione non è terminata nel mondo e si rivela spesso molto difficile: in India, in Giappone, negli ambienti islamici, buddisti, in molti settori della società refrattaria ai valori religiosi.

La nuova evangelizzazione si presenta in condizioni molto diverse. La seconda o nuova evangelizzazione si rivolge a popolazioni che sono state cristianizzate nel passato, ma che vivono ora in un clima secolarizzato che deprezza il fatto religioso e che tollera una forma di religione privata o la combatte direttamente o ancora l'intralcia indirettamente attraverso la politica e iniziative pratiche che emarginano i credenti e le loro comunità. E una nuova situazione che non si è presentata mai con tanta acutezza nella storia della Chiesa. Essa richiede uno sforzo collettivo di riflessione per scoprire i soggetti, cioè i destinatari della nuova evangelizzazione, condizione indispensabile per rievangelizzare le culture.

A chi si rivolge la nuova evangelizzazione? Cerchiamo di capire la mentalità delle persone destinatarie della nuova evangelizzazione.

Sono i nuovi ricchi. Queste persone psicologicamente non si considerano come i " poveri del Vangelo ", ma piuttosto come dei " ricchi ", dei soddisfatti concentrati sui propri beni, la propria autonomia, il proprio benessere, la propria realizzazione. E questa psicologia collettiva che occorre penetrare con simpatia per farle cogliere i limiti di fronte all'Assoluto di Dio. Potrà, così, emergere la povertà spirituale che spesso si nasconde dietro atteggiamenti di soddisfazione o d'indifferenza.

Una fede sradicata. In molte persone la prima fede non si è sviluppata per mancanza di radici e di approfondimento. Spesso la prima evangelizzazione è stata insufficiente, superficiale e si è indebolita e spenta a poco a poco, per mancanza d'interiorizzazione e di motivazioni solidamente ancorate. Vi sono delle intere popolazioni che sono state effettivamente battezzate, ma non sono state poi davvero evangelizzate, sono state cioè private di quella catechesi elementare e costante, indispensabile allo sviluppo di una fede adulta. Queste persone, poste di fronte ai valori proposti dalla secolarizzazione, passano insensibilmente da una pratica abitudinaria alla passività spirituale e all'allontanamento dalla Chiesa. L'evangelizzatore constata che la fede iniziale non è stata irrobustita da un'esperienza personale del Cristo, da una formazione dottrinale e morale fatta attraverso la condivisione della fede nell'amore e nella gioia, col sostegno di una comunità cristiana, vicina e viva.

Una fede rigettata e soffocata. Molti cristiani solo di nome, che vivono in un'indifferenza pratica, hanno rigettato una religione che è rimasta, nella loro psicologia, allo stadio infantile e appare loro moralmente oppressiva dato che la cultura popolare spesso confonde religione e moralità. Questa religione incute timore ed agisce sulle angosce incoscienti. In nome della libertà, la religione e la Chiesa sono rigettate come alienanti. E necessario chiedersi quali deficienze della prima evangelizzazione abbiano provocato questa percezione mentale del cristianesimo.

Una fede dormiente. E difficile dire, riguardo a persone di questo tipo, che la fede sia morta, ma essa è nello stato di sonno, inoperante, dimenticata, sotto la coltre di altri interessi e preoccupazioni: soldi, benessere, comodità, piacere, che spesso diventano dei veri idoli. In un contesto cristiano la pressione che esercita la religione di costume può bastare a mantenere i credenti in una pratica sacramentale regolare. Questa pressione sociale non invalida necessariamente il valore di una religione popolare o tradizionale che ha dato grandi cristiani e grandi cristiane. Ma si constata che la nuova cultura lascia la persona spiritualmente sola, di fronte a se stessa e alle proprie responsabilità spesso percepite nella confusione. La delusione e l'incertezza spirituale rendono l'individuo fragile, angosciato, esposto alla credulità. L'isolamento rende sensibili alla parola d'accoglienza e le sette lo hanno capito, talvolta meglio di noi. Dobbiamo esplorare con cura come condurre l'approccio psicologico e spirituale in questi casi.

Psicologie moralmente destrutturate. Il problema diventa particolarmente grave quando la personalità rigetta ogni norma etica e si presenta come destrutturata moralmente e spiritualmente. Diventa quasi impossibile credere quando l'individuo mette in dubbio ogni ideologia, ogni credenza, ogni grande causa che lo obblighi ad uscire da se stesso. La tendenza si aggrava se l'individuo si rinchiude di una illusoria autarchia morale. La società moderna tende ad erigere questo atteggiamento individualistico a sistema e l'evangelizzatore sa quanto sia difficile superare ostacoli di questo genere e raggiungere la coscienza di certe persone. Malgrado le difficoltà, però, ci dobbiamo convincere che in tutti i cuori c'è il bisogno della speranza e nessun individuo rifiuta per sempre la luce e la promessa della felicità.

Una speranza latente. L'uomo moderno porta in sé angosce e speranze caratteristiche. I cristiani sono veramente entrati nello spirito profondo del Concilio, che con tanta attenzione ha considerato la mentalità dei nostri contemporanei? Occorre indovinare l'angoscia nascosta dietro tanti atteggiamenti e tanti comportamenti apparentemente tranquilli. Mai, come oggi, forse c'è stata una così grande sete di significati e una così appassionata ricerca delle ragioni di vivere. Scoprire questo bisogno latente di speranza, è una prima importante tappa dell'evangelizzazione. Al di là delle angosce, bisogna soprattutto percepire le aspirazioni positive che si esprimono, spesso in maniera confusa. Queste aspirazioni alla giustizia, alla dignità, alla corresponsabilità, alla fraternità manifestano un bisogno di umanizzazione e una sete di assoluto. L'evangelizzatore saprà leggervi una prima apertura al messaggio di Cristo.

Preoccupazioni socio-pastorali di questo genere si trovano in tutti i documenti del Concilio, come concreto problema di evangelizzazione. Bisogna rileggere il Vaticano II in questa prospettiva. Una speranza latente e una fame spirituale si nascondono in fondo ai cuori. Importante è percepirne la traccia nell'attuale cultura per apportarvi la risposta della fede. Questa è una nuova tappa dell'evangelizzazione.

Come rievangelizzare le culture? La cultura non è più un'alleata. In una situazione di seconda evangelizzazione la posta in gioco è la nuova cultura. Non c'è più una " cultura di sostegno " come in passato. Oggi la Chiesa affronta una cultura di opposizione (persecuzione, oppressione) o una cultura di indifferenza o di tranquilla eliminazione, che relativizza tutte le credenze.

La cultura pluralistica, che ha l'inconveniente di mettere tutte le credenze sullo stesso piano, può, d'altra parte, offrire all'evangelizzatore una nuova possibilità, quella di far valere il suo punto di vista originale nel concerto delle opinioni. Spesso egli può anche beneficiare dei mezzi moderni di diffusione per annunciare la novità del suo messaggio. E ormai necessaria una speciale educazione per vivere e agire in una cultura pluralistica.

Scoprire gli ostacoli alla nuova evangelizzazione. Questi ostacoli possono variare molto da un paese o da una regione all'altra. In molti paesi di antico cristianesimo, la Chiesa è stata come sfigurata da una lenta erosione, da un processo di evacuazione o di rigetto della fede da parte di una cultura progressivamente secolarizzata. Ciò ha generato a sua volta una cultura dell'indifferenza, ostacolo dei più temibili sul piano dell'evangelizzazione, perché la religione si presenta come cosa che non interessa più, né più tocca o interpella una massa sempre più grande di individui spiritualmente " fuori campo ", viventi in un universo areligioso.

La situazione d'incredulità è molto diversa secondo i paesi. In molte nazioni, infatti, la rievangelizzazione si rivolge a popolazioni la cui memoria porta la traccia di persecuzioni, di guerre di religione, di rivoluzioni, di politiche aggressivamente atee. Ci sono paesi che hanno fatto l'esperienza della colonizzazione straniera, dello sfruttamento o ancora della perdita della classe operaia nel secolo scorso. Ciò che importa, al disopra di tutto, è di percepire bene la forma di psicologia collettiva segnata dall'esperienza storica di ogni gruppo da evangelizzare.

Creare un passaggio attraverso il muro dell'indifferenza. Nei paesi occidentali, la secolarizzazione ha diffuso un clima d'indifferenza religiosa, di non credibilità, di insensibilità spirituale, di disinteresse per il fatto religioso. Il dramma è che il Vangelo non è del tutto ignorato e neppure del tutto nuovo. Siamo di fronte ad una psicologia religiosa ambigua. La fede è insieme come presente e assente negli spiriti. Il sale evangelico è diventato insipido, le parole stesse hanno perduto il loro mordente. Le parole Vangelo, Chiesa, fede cristiana non sono più nuove, hanno subito l'usura, si sono banalizzate. L'identificazione della cultura con il cristianesimo è diventata superficiale: si pensi, per esempio, alla sorte riservata alle celebrazioni del Natale, della Pasqua e il loro recupero commerciale e mondano. La Buona Novella fa parte del costume, come le tradizioni, come il folklore e i tratti culturali dell'ambiente.

I cristiani devono rivalorizzare i loro tesori nell'opinione pubblica, nei media, nei comportamenti comuni. Occorre reagire contro una culturalizzazione del cristianesimo ridotto a sole parole, a fatti secolarizzati, a costumi dissacrati.

Non lasciarsi emarginare. I cristiani non possono rassegnarsi a diventare degli emarginati, degli accantonati da parte della cultura dominante. Occorre prendere coscienza che i valori cristiani sono stati progressivamente evacuati e che, per esempio, sono diventati tabù nel nostro ambiente culturale parole quali: virtù, vita interiore, rinuncia, conversione, carità, silenzio, adorazione, contemplazione, croce, risurrezione, vita nello Spirito, imitazione di Cristo. Queste parole tipiche della vita spirituale hanno ancora un senso nel linguaggio corrente? Se i nostri contemporanei non comprendono più le parole che esprimono la speranza del cristiano, come li si potrà attirare a Gesù Cristo? I giovani particolarmente risentono della mentalità del tempo che svaluta radicalmente il fatto religioso. I giovani sono i testimoni e le vittime della crisi religiosa, ma sono anche e, soprattutto, i rivelatori delle aspirazioni contemporanee. E con loro che si potrà veramente creare una nuova cultura della speranza.

Un'antropologia aperta allo Spirito. Una delle novità più importanti della nuova evangelizzazione è ch'essa esplicitamente mira alla conversione non soltanto delle persone, ma anche delle culture. Ora, evangelizzare le culture presuppone un nuovo approccio antropologico della pastorale. Le scienze umane possono rendere un servizio prezioso per operare i discerminenti e le analisi indispensabili. Il principale vantaggio dell'antropologia moderna è di definire l'uomo attraverso la cultura e raggiungerlo, così, nel contesto psico-sociale in cui si dispiegano la sua vita associativa, le sue produzioni, le sue speranze e le sue angosce. Giovanni Paolo II ha più volte insistito su questo approccio nell'evangelizzazione: " L'uomo diventa in modo sempre nuovo la via della Chiesa ": Dominum et vivificantem, 1986, n. 58. La percezione dell'uomo come un essere razionale e libero, si arricchisce di molto attraverso la visione culturale della realtà umana fornita dall'antropologia moderna, Giovanni Paolo II lo ha espresso in questi termini: " I recenti progressi dell'antropologia culturale e filosofica mostrano che si può ottenere una definizione non meno precisa della realtà umana riferendosi alla cultura. Questa caratterizza l'uomo e lo distingue dagli altri esseri non meno chiaramente che la intelligenza, la libertà e il linguaggio ": Discorso all'Università di Coimbra, 15 maggio 1982.

Raggiungere l'uomo storico al centro delle culture vive permette all'evangelizzatore di scoprire il dramma di tante vite che soffrono una specie di agonia spirituale, condizione crudelmente presente in molti. Se riusciremo a far penetrare il nostro sguardo in profondità, forse ci renderemo conto che quest'angoscia spirituale spesso prepara la scoperta della salvezza in Gesù Cristo. Paul Tillich così descrive questa esperienza della precarietà umana che può predisporre alla fede: " Soltanto coloro che hanno provato lo choc della precarietà della vita, l'angoscia dove si prende coscienza della propria tristezza, la minaccia del nulla, possono comprendere ciò che significa l'idea di Dio. Soltanto coloro che hanno fatto l'esperienza delle ambiguità tragiche della nostra esistenza storica e che hanno totalmente messo in causa il senso dell'esistenza possono comprendere ciò che significa il simbolo del Regno di Dio ": Systematic Theology, Chicago, 1951. Saper leggere i segni della disperazione morale, ma anche l'immenso bisogno di sperare che provoca la cultura secolarizzata, aprirà una nuova via all'evangelizzazione.

Per la redenzione delle culture. L'evangelizzazione, infine, pone le culture di fronte al mistero del Cristo morto e risorto. Una rottura radicale è inevitabile, " scandalo per i Giudei, follia per i Gentili " diceva Paolo. E richiesta una conversione continua. Il dinamismo dell'evangelizzazione si realizza unicamente nell'incontro con Gesù Cristo. Egli è l'unico mediatore per mezzo del quale si realizza il Regno di Dio. L'evangelizzazione delle culture, come quella delle persone, trova la sua sola efficacia nella forza dello Spirito, nella preghiera, nella testimonianza della fede, nella partecipazione al mistero della Croce e della Redenzione. Sarebbe una vana tentazione il voler cambiare le culture con un semplice intervento psico-sociale o socio-politico. L'evangelizzazione, soprattutto nella notte oscura della fede, e nella notte spirituale delle culture, richiede una conversione al mistero della Croce. Patire questa purificazione e sperare nelle vie, misteriose ma certe, dello Spirito è una disposizione indispensabile per affrontare il lavoro della rievangelizzazione. Non è cosa confortevole vivere nelle angosce di un nuovo mondo che oscuramente prende forma intorno a noi.

Rievangelizzare, in fondo, significa annunciare senza soste la salvezza radicale in Gesù Cristo, che purifica ed eleva ogni realtà umana, facendola passare dalla morte alla risurrezione. In questo senso, ogni evangelizzazione è nuova, perché annuncia il bisogno permanente della conversione. Le culture hanno un'ardente aspirazione alla speranza e alla liberazione. Evangelizzare diventa allora la forma eminente dell'elevazione delle culture e delle coscienze che aspirano alla liberazione da tutti gli egoismi che impediscano l'avvento del Regno di Dio. Evangelizzare esige questo annuncio della salvezza definitiva in Gesù Cristo e ciò vale sia per le persone che per le culture, come ricorda Giovanni Paolo II: " Poiché la salvezza è una realtà totale ed integrale, essa riguarda l'uomo e tutti gli uomini, attingendo, altresì, la stessa realtà storica e sociale, la cultura e le strutture comunitarie in cui essi vivono ". La salvezza non si riduce alle sole finalità terrene o alle sole capacità dell'uomo: " L'uomo non è il salvatore di se stesso in maniera definitiva: la salvezza trascende ciò che è umano e terreno, è un dono dall'alto. Non esiste autoredenzione, ma Dio solo salva l'uomo in Cristo ": Discorso all'Università Urbaniana, 7 ottobre 1988.

La nuova evangelizzazione si rivolge a tutte le persone e a tutte le culture. Giovanni Paolo II ne ha annunciato la necessità in tutti i Continenti. Questa evangelizzazione, ha detto, sarà " nuova nel suo ardore, nuova nei suoi metodi, nuova nelle sue espressioni ": Discorso al CELAM, 9 marzo 1983.

Vedi: Evangelizzazione della cultura

Bibl.: H. Carrier 1987, 1990a, 1991, 1997. J. Grand'Maison 1992, 1993.

 

O

 

Omologazione delle culture. (inizio)

Tendenza verso un'uniformità dei tratti fra le culture. Dai tempi più antichi, le culture si sono influenzate a vicenda attraverso i contatti dei viaggiatori e dei mercanti, attraverso le migrazioni e la circolazione di leggende e di scritti. Si scopre una grande similitudine di valori studiando i proverbi, i racconti, le sentenze, le regole orali o scritte del diritto, le concezioni della libertà, della protezione dei deboli, dei doveri dell'ospitalità. S'incontrano elementi di reciproca derivazione e di dipendenza paragonando le sorprendenti famiglie linguistiche, i riti, i culti, le strutture della famiglia e della città. Una comunanza delle aspirazioni umane denota già una reale omologazione delle culture, che risale ai tempi antichi della storia: J. Hersch, 1985.

Nell'epoca moderna, il fenomeno dell'omologazione culturale si è notevolmente accentuato ed universalizzato, sotto l'influenza delle comunicazioni sociali e delle standardizzazioni introdotte dalle tecniche moderne di produzione, di distribuzione e di trasporto. Gli stessi gusti, le stesse mode, le stesse aspirazioni si diffondono in tutti i paesi. Le istituzioni moderne, come la scuola, l'università, i sistemi d'informazione, di produzione, di relazioni internazionali contribuiscono a diffondere in tutti i paesi uno stile di vita e di lavoro praticamente identico. Tutti gli aeroporti del mondo si assomigliano, così come le grandi banche, i supermercati, gli stadi, le autostrade e ovunque coloro che ne usano adottano le medesime regole di comportamento. Prodotti tecnici, come il telefono, l'automobile, la televisione hanno profondamente cambiato le culture, sia nelle loro forme esterne che nella loro percezione del tempo, dello spazio, della natura.

Le giovani generazioni costituiscono l'elemento di mediazione privilegiato del processo verso l'uniformità culturale: le stesse mode nell'abbigliamento, le stesse scelte per il tempo libero, gli stessi gusti per la musica popolare e la danza si ritrovano a tutte le latitudini, così come si ritrovano atteggiamenti analoghi di fronte all'etica e alle istituzioni tradizionali.

Sul piano psico-sociale, uno dei fattori più caratteristici di questa omologazione è ciò che gli anglofoni chiamano revolution of cultural expectations, cioè la rivoluzione delle speranze e delle attese che porta le masse a desiderare l'acquisizione dei vantaggi e degli stili di vita moderni.

Il giudizio di valore sul fenomeno della omologazione culturale deve essere sfumato. Occorre considerare i benefici che la cultura offre in misura sempre più larga, quali quelli dell'educazione, della scuola, delle università, delle grandi opere letterarie ed artistiche e il senso nuovo della comunità umana con i suoi diritti e le sue responsabilità. D'altra parte, tuttavia, l'omologazione è provocata soprattutto dai valori dominanti dell'Occidente e molte delle culture tradizionali si sentono minacciate da questa occidentalizzazione e americanizzazione degli stili di vita. Non è neppure trascurabile, però, l'influenza dei valori provenienti dal terzo mondo, come anche dai paesi dell'Est europeo. Si misura il loro peso culturale quando si osserva quale influenza esercitino questi paesi nelle grandi istanze internazionali, come anche presso tutte le cancellerie.

C'è chi vede nella diffusione mondiale della lingua inglese uno dei più potenti strumenti dell'omologazione culturale, perché l'inglese serve da mezzo di scambio, tanto nel campo economico che in quello scientifico, universitario, politico, diplomatico. L'inglese stesso è oggetto di omologazione, perché diventa il modo di espressione non soltanto degli anglofoni, ma di un numero sempre maggiore di persone di lingua diversa, che lo utilizzano.

L'omologazione culturale è dunque il prodotto di uno scambio sempre più complesso, facilitato dai contatti e dalle comunicazioni del mondo moderno. Con l'avvento dei satelliti di comunicazione, l'omologazione acquisterà ancora in estensione. Per questo motivo si levano voci a garanzia delle frontiere culturali contro l'aggressione e la cieca concorrenza degli interessi economici che sostengono i nuovi sistemi di comunicazione. Si tratta di un problema posto alle politiche culturali degli Stati.

Omologazione non significa uniformazione fatale delle culture, come dimostrano la persistenza delle lingue, degli stili tradizionali e la sopravvivenza di comportamenti quotidiani molto differenziati anche all'interno di una stessa cultura. Con H. Lefebvre, ci si deve chiedere fino a che punto c'è " omologazione del quotidiano e del moderno ".

Le abitudini quotidiane, più radicate nei gruppi primari, resistono maggiormente al processo di uniformità che invece è chiaramente presente nei settori socioeconomici. D'altra parte, la diffusione della cultura urbano-industriale moderna porta in sé elementi di controbilancio nei confronti dell'informità perché, in regime di libertà, essa s'accompagna ad una forte tendenza al pluralismo culturale.

Vedi: Modernità, Mondialismo, Imperialismo, Identità, Alienazione.

Bibl.: America's Impact 1975. C.W.E. Bigsby 1975. K. Boulding 1969. H. Carrier 1990a. G. Claeys 1986. N. Garcia Canclini e R. Rancagliola 1988. Saturday Review 1975. A. Mattelart 1991, 1996.

 

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Pen Club. (inizio)

L'associazione Pen Club, creata nel 1921, raggruppa scrittori, poeti, romanzieri, drammaturghi e editori. Pen è una sigla che traduce Poets and playwrights. Essayists and editors. Novelists. Fin dai suoi inizi il Pen internazionale è stato sostenuto da grandi scrittori, Bernard Shaw, Thomas Mann, Anatole France, H.G. Wells.

L'associazione s'interessa della situazione professionale degli uomini e delle donne letterati e serve come " forum " per promuovere il ruolo degli scrittori nella società, per difenderli contro la censura, l'oppressione, il carcere.

I congressi internazionali del Pen Club sono avvenimenti culturali importanti per il numero e la qualità dei partecipanti.

L'organizzazione comprende circa diecimila membri divisi in ottantacinque centri affiliati, presenti in sessanta paesi. La sua sede centrale è a Londra.

 

Permissività. (inizio)

Questo neologismo di origine inglese - permissive, che permette tutto - indica sia un atteggiamento dell'individuo che una tendenza della cultura. La permissività è espressione che si usa per le persone o le società che ostentano una piena libertà di comportamento, senza divieti morali. Si tratta della tendenza a negare ogni norma e ogni limite riguardo a ciò che è permesso.

La permissività non corrisponde soltanto all'immoralità o all'amoralismo - che sono sempre esistiti - ma è un nuovo atteggiamento culturale, giustificato da teorie psicologiche o sociologiche che giungono alla disintegrazione dell'uomo in quanto soggetto libero e responsabile dei propri comportamenti. La diffusione e la volgarizzazione delle teorie dell'inconscio, propagate da uno strutturalismo estremista, hanno divulgato, soprattutto tra i giovani, la convinzione che l'essere umano è il giocattolo inconscio ed irrisorio di determinismi che privano l'attore d'ogni libertà. La volgarizzazione di certe correnti freudiane, accentuate dalle teorie di Wilheim Reich, che pretendeva di lottare contro la duplice alienazione economica e sessuale del nostro tempo, ha reso popolare una cultura della permissività tra le giovani generazioni, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale.

L'essere umano, si sostiene, non si realizza che ritrovando le energie profonde del proprio istinto che la società cerca di reprimere con un'educazione e una cultura imposte. La permissività è anche generata da una pedagogia del lasciar-fare che si è diffusa attraverso psicologi che hanno affermato che il bambino deve svilupparsi secondo le proprie virtualità, senza alcuna imposizione, né costrizione. Questa tendenza, che è stata considerata una nuova psicologia improntata al Rousseau, afferma che la crescita del bambino deve essere lasciata alla spontaneità delle sue tendenze e dei suoi ritmi. L'educazione non deve, quindi, permettersi di proibire o di imporre sanzioni.

Queste concezioni, invocate per giustificare la permissività morale, sono, di fatto, crollate sul piano della teoria di fronte ai risultati negativi da essa prodotti. Anche coloro che, nel 1968, nella maggior parte delle università dell'Occidente, si facevano profeti della permissività, hanno scoperto, nello spazio di una generazione, tutte le contraddizioni che il comportamento permissivo porta in sé a grave detrimento degli individui e delle società. Sempre più s'impone la convinzione che l'educazione è un incessante progredire e una lenta conquista che richiedono un ideale e degli sforzi per tendervi. I bambini hanno tutti il diritto ad un'educazione morale e alla formazione di una retta coscienza. L'essere umano è fatto per superarsi, questa è la sua dignità ed è anche il suo diritto che deve essere rispettato da tutti. Il Concilio Vaticano II lo ha ricordato: " I fanciulli e i giovani hanno diritto di essere aiutati sia a valutare con retta coscienza e ad accettare con adesione personale i valori morali, sia alla conoscenza approfondita e all'amore di Dio ". Il Concilio perciò chiede e raccomanda " a quanti governano i popoli o presiedono all'educazione di preoccuparsi perché mai la gioventù venga privata di questo sacro diritto ": Gravissimum educationis, 1965, n. 1.

Vedi: Educazione. Ethos.

 

Pluralismo culturale. (inizio)

Una tendenza tipica delle società moderne è l'estensione del pluralismo culturale. L'orizzonte intellettuale e culturale delle società fa ormai coesistere insieme la pluralità dei valori. Non ci sono più, de facto, istituzioni, partiti o Chiese che detengano un ruolo dominante nel campo morale, dottrinale o ideologico. Si può così oggi parlare della " pluralità degli assoluti ". Il pluralismo si è affermato nelle società libere come un dato permanente della cultura moderna. Noi qui ci limiteremo a trattare del pluralismo culturale. Non intendiamo parlare del pluralismo in generale, ma di quello che riguarda le culture. Il nostro principale interesse non sta nel discutere circa il pluralismo politico, giuridico o teologico.

Aspetti positivi e negativi. Il pluralismo, secondo le circostanze, può rivestire aspetti positivi o negativi. Il pluralismo, infatti, può essere inteso come un atteggiamento positivo e una scelta etica da parte di coloro che vivono in una situazione di coesistenza culturale. Ma il pluralismo può anche significare indifferenza o passività di fronte alla diversità delle credenze. Questo è un atteggiamento di rinuncia etica.

Dal punto di vista positivo, il pluralismo connota il desiderio di un ordine umano rispettoso delle complessità ideologiche, della diversità delle mentalità. Il pluralismo è quell'atteggiamento dello spirito che si assume di fronte a disparità, a fenomeni culturali irriducibili, come lo sono le credenze, i costumi, i diversi modi di concepire l'ordine sociale, ecc. Il pluralismo è alla base di un nuovo tipo di unità sociale o di vita comunitaria. E il rifiuto di un mondo totalitario, il rigetto di una società astratta imposta da una burocrazia impersonale in nome di una ideologia dogmatica o di un positivismo riduttore. D'altra parte, il pluralismo postula il valore positivo di un ordine nuovo da costruire nel rispetto delle disparità. Esso esclude dunque l'anarchismo, ogni forma di violenza irrazionale, ogni ideologia totalitaria, ogni terrorismo parapolitico che tenda a rovesciare una società libera e a distruggere la valida differenziazione delle sue componenti. La collettività umana tende, in questo modo, a diventare una communitas communitatum, cioè: una comunità ampia, arricchita da piccole comunità vive. Il sociologo Horace Kallen (1956), che è, in pratica, l'autore dell'espressione " pluralismo culturale ", osserva che l'atteggiamento del puluralismo propone un mondo unico, ma unico nella pluralità: " One world, but one world in pluribus ".

Il pluralismo può dunque essere compreso come un'esigenza etica. Ci si rende conto allora che il pluralismo non deve significare la semplice somma di opinioni diverse. Il pluralismo, se accettato coscientemente, è un atteggiamento psicologico nuovo mediante il quale i nostri contemporanei imparano a vivere con uomini e donne che sostengono convinzioni, ideologie, credenze, principi di comportamento opposti e praticamente irriducibili. Non si tratta di semplice passività o di fatalismo di fronte a questioni etiche, ma è il riconoscimento pratico della diversità delle condizioni e degli orizzonti spirituali che segnano i nostri contemporanei. E anche la rivendicazione d'essere se stessi, secondo la propria coscienza. Questo atteggiamento di apertura, di tolleranza e di rispetto è diventato una condizione etica delle democrazie e suscita un nuovo genere di solidarietà tra partners, che sono d'accordo nel riconoscere il loro disaccordo, ma vogliono, comunque, perseguire insieme il bene comune. La socialità dei nostri paesi e delle nostre grandi città si attua a questa condizione. Il rispetto del pluralismo delle opinioni deve potersi conciliare con la libertà di difendere, attraverso i mezzi legittimi, le proprie convinzioni riguardo al senso della vita e all'ordine sociale. Si tratta di una tensione morale indispensabile per una società libera.

Discernimento e libertà. Il pluralismo, tuttavia, se non corrisponde ad un atteggiamento responsabile di discernimento, può diventare indifferenza o rinuncia morale. Si assiste allora, in nome del pluralismo, ad un processo psicosociale riduttivo. Herbert Marcuse ha descritto in L'uomo a una dimensione (1968) questo pericolo per la nostra cultura ch'egli paragona ad un nuovo totalitarismo: " Nel campo della cultura - egli dice - il sistema totalitario nuovo si manifesta sotto la forma di un pluralismo armonico: le opere e le verità più contraddittorie coesistono pacificamente nell'indifferenza ". Questo pluralismo è caratteristico delle culture materialistiche dagli orizzonti spiritualmente chiusi.

Un pluralismo di questo genere è una degenerazione che minaccia la maggior parte dei paesi industrializzati e contro la quale si profila una chiara reazione, come testimoniano il riguadagno dei valori post-materialisti e il sorprendente successo dei nuovi movimenti religiosi in Occidente, soprattutto tra i giovani. Il rifiuto di questo pluralismo sterilizzante è da registrare come un segno positivo.

E da notare che il clima del pluralismo ha creato ciò che si può chiamare, per metafora, una libera circolazione delle idee e uno spazio di competizione aperto a tutti. In questo senso, siamo in presenza di una nuova possibilità per la Chiesa, se essa veramente apprende a fa valere la novità del messaggio cristiano. I giovani, soprattutto, riscoprono tutta la freschezza delle parole evangeliche.

Il pluralismo certamente rischia di far vacillare le convinzioni e le unanimità tradizionali, ma ci si può chiedere se esso non ponga anche l'uomo d'oggi in una situazione di permanente dialogo e di ricerca sul significato della propria esistenza. I credenti sono dunque chiamati ad approfondire la propria fede e a testimoniarla; la loro testimonianza interpella tutte le persone di buona volontà che vivono in una società pluralistica.

Vedi: Modernità. Permissività.

Bibl.: I Beaubien et al. 1974. P. Braud 1991. H. Carrier 1982 cap. 5,6. H. Kallen 1956. G. Gosselin et al. 1995. H. Marcuse 1971. J. C. Murray 1960, 1965. J. S. O'Leary. F. Ouellet 1991. D. Tracy 1981.

 

Politica culturale. (inizio)

Gli Stati moderni prestano un interesse sempre maggiore al settore della cultura e la maggior parte di essi hanno oggi un ministero della cultura o un organismo ufficiale dedicato agli affari culturali. Cercheremo, prima di tutto, di precisare cosa sia una politica culturale, poi esamineremo i principali obiettivi perseguiti dagli Stati in questo campo, come pure i criteri generali della loro azione culturale.

Tre tipi di politica culturale. Gli Stati hanno sempre prestato una certa attenzione alla cultura, non fosse che per proteggere le loro tradizioni artistiche o letterarie. La novità che si può osservare oggi è che l'intervento governativo nel campo della cultura si è considerevolmente esteso e specializzato. Si può meglio comprendere questa evoluzione se si tiene conto dell'estensione della cultura nel nostro tempo.

Nell'attuale pratica dei governi si possono distinguere tre tipi di politica culturale. Per alcuni Stati, la politica culturale si riferisce ancora ad una concezione classica ed estetica della cultura e consiste nel promuovere l'istruzione e le arti e ad interessarsi dei monumenti, dei siti nazionali, delle biblioteche e dei musei. In questo senso, il settore culturale abbraccia soprattutto il patrimonio nazionale e le realtà artistiche o intellettuali.

Un secondo tipo di politica culturale, molto più ampio, tende oggi a prevalere ed è quello che mira a stabilire ciò che si potrebbe chiamare la democrazia culturale, che favorisce la partecipazione del maggior numero di persone ai benefici della cultura e della sua produzione. La cultura, concretamente, non è più soltanto l'affare del Ministro della Cultura, ma si estende al campo dell'educazione, della ricerca, della comunicazione, della gioventù, della famiglia, del benessere, della salute, del tempo libero, del lavoro, della formazione professionale, dell'educazione permanente. La politica culturale tende così ad impregnare vasti settori del governo, quelli nei quali emerge una dimensione culturale o umanitaria.

Un terzo modello di politica culturale si evidenzia oggi come conseguenza di una maturazione della riflessione etica. L'idea nuova che con insistenza emerge è quella che richiede che tutta la politica dei governi persegua una priorità culturale. Si sostiene che gli obbiettivi culturali debbano ormai orientare l'insieme della vita collettiva per rimettere la persona umana al centro d'ogni preoccupazione politica. E in questo orientamento che si parla oggi delle finalità culturali dello sviluppo. La politica culturale mira allora a superare l'economicismo che troppo spesso ha ristretto i criteri di valutazione delle amministrazioni private o pubbliche.

I partiti politici, in pratica, hanno il più delle volte concezioni molto diverse riguardo all'azione culturale: alcuni insistono sull'aspetto estetico ed educativo della cultura, privilegiando, per esempio, le Belle Arti; altri intendono la politica culturale estesa anche alle attività ricreative, agli sport, al tempo libero, al turismo.

Ciò che qualifica una politica culturale, è, in fondo, l'idea che si ha della persona umana e del suo sviluppo culturale. Alla base di una tale politica c'è sempre una certa definizione della cultura e una certa immagine dell'uomo che vive in una data società. Ricordiamo, particolarmente, il concetto di cultura elaborato da Mondiacult, la riunione mondiale sulle politiche culturali, tenuta dall'UNESCO a Messico nel 1982, che faceva seguito all'incontro di Venezia nel 1970: " Nel suo senso più largo, la cultura può oggi essere considerata come l'insieme dei tratti distintivi, spirituali e materiali, intellettuali ed affettivi, che caratterizzano una società o un gruppo sociale. Essa raccoglie, oltre alle arti e alle lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali della persona umana, i sistemi di valori, le tradizioni e le credenze ". A proposito dell'importanza e del significato di questa definizione per l'orientamento delle politiche culturali, vedere Dichiarazione di Messico.

Obbiettivi di una politica culturale. L'azione culturale dei governi s'interessa particolarmente delle seguenti questioni: l'identità culturale; la democrazia culturale; i rapporti tra educazione, scienza e comunicazione; lo sviluppo culturale; le industrie culturali.

L'identità culturale. Un primo obbiettivo è la promozione dell'identità culturale. L'identità culturale di un gruppo umano corrisponde al suo sentimento di appartenenza, al suo collegamento con una tradizione e con un patrimonio umano, costituito da una memoria collettiva, di credenze, di costumi, di modi di pensare, di lavorare, di vivere, di creare. E il fondamento di ciò che oggi chiamiamo i diritti culturali. Questo diritto radicale s'incorpora naturalmente in una cultura nazionale, le cui esigenze sono prime rispetto agli interessi o alle ideologie che potrebbero essere in contraddizione con il destino storico della nazione.

Una giusta politica culturale deve tenere conto dell'identità culturale delle minoranze, degli immigrati, dei gruppi marginali, senza tuttavia cadere in una politica di tutela che potrebbe finire per " etnologizzare " o " folklorizzare " queste comunità umane.

Il principio di orientamento potrebbe essere così enunciato: garantire, nel quadro della comunità politica, il rispetto delle comunità culturali. Si afferma, in questo modo, una duplice aspirazione: rispetto delle minoranze e rispetto della comunità nazionale stessa.

Per i paesi che aspirano alla liberazione nazionale, l'elaborazione di una politica culturale efficace sembra essere uno strumento privilegiato per lottare contro l'asservimento economico e culturale. La decolonizzazione e la liberazione colpirebbero allora, alla radice, l'asservimento culturale che impedisce ai popoli d'essere se stessi, secondo le proprie tradizioni, il proprio destino e la propria volontà collettiva.

La difesa dell'identità richiede, particolarmente, l'azione che salvaguardi e promuova il patrimonio culturale che non consiste soltanto nei musei, nei monumenti e nei luoghi storici. Occorre, prima di tutto, considerare le grandi tradizioni intellettuali e spirituali che caratterizzano l'eredità di un popolo. Occorre includervi anche i prodotti dell'artigianato, il folklore, le credenze popolari, i giochi, i riti, le cerimonie, perché l'estinzione di questi valori significa impoverimento culturale per le comunità interessate.

La democrazia culturale. L'obbiettivo è favorire al maggior numero di cittadini l'accesso ai beni della cultura viva della nazione, permettendo loro di contribuire al suo arricchimento. Il potere dello Stato, soprattutto in questo campo, si fonda sulla libera collaborazione dei cittadini.

Nei paesi a regime democratico, lo Stato riconosce che non gli spetta d'imporre o di " concedere " una cultura. Sono le forze vive della nazione ad essere produttrici di cultura. Il ruolo dello Stato sta nel facilitare la creatività e la crescita culturale di tutte le componenti della società, senza esclusioni o pregiudizi. Lo Stato, in definitiva, agisce sulle condizioni che favoriscono la democratizzazione culturale, ma sono le persone o i gruppi gli agenti e i beneficiari del progresso culturale.

Tra i mezzi della democrazia culturale, un posto a parte spetta alla formazione permanente. A questo proposito, si è parlato di una vera rivoluzione culturale. La formazione permanente si presenta come una delle conquiste più grandi della cultura. I sistemi scolastici, a tutti i livelli, devono adattarsi a questa nuova esigenza e i mezzi di comunicazione sociale possono contribuirvi in maniera eminente.

Le condizioni della democratizzazione si sono profondamente trasformate da quando le famiglie dispongono di un loro proprio equipaggiamento culturale: TV, video, sistemi Hi-Fi, reti internet. L'azione culturale pratica si sviluppa a domicilio in parallelo alle istituzioni e senza intermediari. Le famiglie hanno accesso diretto ai migliori come ai peggiori prodotti dell'industria culturale. In un senso, che è doppiamente vero, si può dire che è nel cuore stesso della casa che si gioca l'avvenire culturale della nazione. Una cultura giovane si costituisce al ritmo dei videoclips, diffusi da potenti multinazionali, spesso accusate dalle istituzioni tradizionali di azione anticulturale.

Questi nuovi dati portano a ridefinire i metodi della politica culturale, e soprattutto obbligano a risalire alle sorgenti della creazione e della diffusione dei prodotti audiovisivi.

Educazione, scienza, comunicazione. L'esperienza delle politiche culturali dimostra che è necessario stabilire una connessione tra l'insegnamento, la ricerca e le comunicazioni sociali. Su questi ultimi temi, vedi: Scienza e Comunicazione Sociale, dove le interconnessioni culturali sono analizzate. Qui tratteremo l'argomento sul piano educativo.

L'educazione costituisce un fattore decisivo dello sviluppo culturale e la maggior parte degli Stati le accordano un'alta priorità nella loro politica. La sfida delle società moderne è quella di vigilare perché il progetto educativo possa rispondere in tempo utile alle nuove acquisizioni del sapere, ai progressi della pedagogia e alle accresciute responsabilità dei cittadini, pur nel rispetto degli imperativi della loro propria cultura.

Nei paesi in cui esistono già delle reti scolastiche ben organizzate, s'impone una profonda revisione tesa ad assicurare le finalità culturali dei programmi scolastici. Un po' ovunque si constata che la preoccupazione troppo esclusiva per una preparazione di tipo professionale ha spesso fatto trascurare il valore umanistico della scuola. Occorre, dunque, esaminare con maggiore attenzione la pertinenza culturale dei programmi e delle pedagogie scolastiche. L'educazione artistica sarà uno dei mezzi privilegiati per stimolare la creatività. La scuola dovrebbe accordare una maggiore importanza alla letteratura, alle arti plastiche e grafiche, alla danza, alla musica, al teatro. Oggi si va affermando un particolare orientamento circa l'educazione artistica che dovrebbe avere queste finalità: insegnare ad apprezzare le grandi creazioni delle civiltà, fornire la capacità di un'espressione libera e spontanea, far acquisire delle tecniche elementari di espressione, educare alla percezione spaziale ed estetica e ad un atteggiamento di rispetto nei confronti del patrimonio artistico, nazionale e mondiale.

La politica culturale dovrà cercare di favorire l'effettiva partecipazione delle famiglie allo sviluppo dell'educazione e della cultura. La famiglia, oltre ad essere la cellula che dà accrescimento fisico alla società, è anche il focolare in cui si radica e si sviluppa tutta la cultura viva. E nel suo seno che il bambino scopre la propria identità culturale, ch'egli apprende la lingua materna, principale veicolo della cultura, e che familiarizza con le regole elementari della socialità e della fraternità. La famiglia deve dunque essere considerata, in ogni progetto di politica culturale, come il fondamento privilegiato in cui si comunica e si arricchisce la sapienza popolare, in cui si coltivano quei valori etici e spirituali che conferiscono tutta la propria dignità alla cultura viva.

Lo sviluppo culturale. L'obbiettivo è quello di conciliare la finalità del progresso materiale con una maggiore giustizia e con il rispetto dei valori tradizionali di ogni popolo o collettività. E in questo senso che, sempre più, si parla oggi dei fini culturali dello sviluppo.

Bisogna, tuttavia, riconoscere che questo obbiettivo dello sviluppo integrale non è ancora oggetto di un approccio politico rigoroso. Occorreranno ricerche approfondite per formulare meglio i termini concreti di una politica dello sviluppo culturale. Bisognerà che siano meglio definiti gli indicatori di questo sviluppo. Già esistono utili strumenti di analisi; per esempio, si paragonano statisticamente, da un paese all'altro, il numero dei libri pubblicati, il numero dei giornalisti attivi, il numero dei films o dei programmi televisivi creati in un periodo definito. Ma questi indicatori sono ancora lungi dal coprire tutta la ricchezza della realtà socioculturale.

L'attuale ricerca è rivolta a comprendere meglio le interdipendenze tra le dimensioni economiche e quelle culturali dello sviluppo. Il Decennio mondiale dello sviluppo culturale (1988-1997), lanciato dall'UNESCO, ha indicato i quattro obbiettivi da perseguire: la promozione dell'identità culturale, la partecipazione generalizzata ai benefici della cultura, la comprensione tra le culture, la collaborazione internazionale ed interculturale: vedi: Sviluppo culturale.

Industrie culturali. La conferenza internazionale organizzata dall'UNESCO sulle politiche culturali (Mondiacult, Messico 1982) ha contribuito ad ampliare il concetto d'industria culturale. Mentre per alcuni, le industrie culturali corrispondono essenzialmente al cinema, alla radio e alla televisione, per altri, più numerosi, le industrie culturali includono anche l'editoria, il libro, il giornale, le video-cassette, la TV via cavo ed anche altri mezzi di diffusione più recenti il cui sviluppo è importante, come la mini-rivista, i bollettini d'informazione fotocopiati, i messaggi attraverso computers, i telex, ecc. Oltre ai mass-media, oggi ci sono i mezzi chiamati group-media che raggiungono collettività forse più limitate, ma in maniera più profonda, perché questi mezzi permettono non soltanto l'emissione di messaggi, ma l'interazione e il dialogo tra tutti i partecipanti, collegati con media elettronici, con fax, internet.

Sul piano delle industrie culturali gli stati seguono, in pratica, due tipi di approccio. In alcuni paesi è l'iniziativa privata che sviluppa le industrie culturali, secondo le leggi di mercato per la produzione di films, programmi televisivi, video-cassette, dischi, libri e periodici. In questi ultimi anni si è vista la costituzione di vere multinazionali delle comunicazioni che utilizzano i satelliti e creano in questo modo reti mondiali di diffusione.

Altri paesi, e non solo del terzo mondo, si oppongono a questo liberalismo delle comunicazioni, perché si tratta di un sistema che genera una situazione di dipendenza culturale che obbliga le nazioni interessate ad intervenire per proteggere la propria identità culturale, le proprie tradizioni, i propri valori come anche le proprie istituzioni, soprattutto familiari e scolastiche.

Come si può vedere, i nuovi problemi che le industrie culturali suscitano richiedono una stretta collaborazione tra i responsabili della politica, dei media e della politica culturale.

Vedi: Industrie culturali, Comunicazione sociale.

Criteri generali di politica culturale. Per concludere, tentiamo di precisare la natura e il campo propri dell'intervento dello Stato in materia culturale.

Ricordiamo, anzitutto, che la politica culturale occupa un campo sempre più esteso negli Stati moderni, perché si va scoprendo che gli obbiettivi culturali interessano l'insieme delle attività di un governo preoccupato di promuovere i valori umani in tutti i suoi orientamenti politici.

L'azione del governo, tuttavia, sul piano culturale si esercita molto più per le vie della sollecitazione e dell'incoraggiamento che attraverso l'autorità. Lo Stato ha per compito proprio di favorire la creatività culturale e la partecipazione del maggior numero di cittadini ai benefici della cultura.

Se, da una parte, occorre riconoscere il progresso reale che è rappresentato dal concetto di politica culturale nell'arte moderna di governare, bisogna ancora constatare che gli Stati, soprattutto nei paesi totalitari, utilizzano spesso l'azione culturale come mezzo di dominazione ideologica.

Si tratta allora di una vera forma di violenza anticulturale, perpetrata dallo Stato e dai partiti politici. Non si può che denunciare questa perversione della politica attraverso cui i regimi estremisti, sia di destra che di sinistra, utilizzano la cultura per tentare di asservire spiritualmente le popolazioni. E, questa, una delle peggiori contraddizioni del nostro tempo: in nome della cultura, si assoggettano interi paesi ad interessi ideologici, politici o economici.

Come si è visto, la politica culturale si accentra su di un obbiettivo principale: quello della difesa, dell'incoraggiamento e della promozione dell'identità culturale. Lo scopo che si persegue è il bene culturale della Nazione, perché è in essa che, naturalmente, s'incarna il patrimonio proprio di un popolo. Bisogna, tuttavia, aggiungere che la difesa dell'identità culturale richiama, in controparte, l'apertura verso le altre culture. Ciò è nell'interesse stesso della cultura nazionale che, altrimenti, appartandosi rispetto alle altre culture, rischia d'impoverirsi e di restringersi in se stessa, soprattutto in un'epoca di mondialità e di sviluppo interculturale.

E, inoltre, opportuno tenere presenti i rapporti che si sviluppano tra la politica culturale e la politica estera degli Stati. Una cultura nazionale si arricchisce dell'apporto di tutte le culture che, nel loro insieme, costituiscono un patrimonio comune, indivisibile. Gli Stati ne sono sempre più coscienti ed è questa la ragione per cui ormai essi danno, nella loro politica estera, un'importanza crescente al dialogo e agli scambi tra culture. In quest'ottica si diffonde la convinzione che la pace è una conquista comune della cultura, che si ottiene con uno sforzo creativo dello spirito orientato a rispettare tutti i popoli nelle loro diversità e dignità. La pace è una delle più belle creazioni della cultura.

La motivazione più alta che possa ispirare la politica culturale degli Stati è l'idea che la promozione della cultura è, in definitiva, il servizio dell'uomo, capace di responsabilità morale, di fraternità e di progresso spirituale. Questo è quanto hanno ricordato i centotrenta Stati partecipi a Messico, nel 1982, alla Conferenza mondiale sulle politiche culturali: " La cultura dà all'uomo la capacità di riflessione su se stesso. Essa fa di noi degli essere specificamente umani, razionali, critici ed eticamente impegnati. E per mezzo di essa che discerniamo i valori e operiamo scelte. E per mezzo di essa che l'uomo si esprime, prende coscienza di sé, si riconosce come progetto incompiuto, rimette in causa le proprie realizzazioni, ricerca senza sosta nuovi significati e crea opere che lo trascendono.

Vedi: Sviluppo culturale. Educazione permanente. Scienza (politica della) Industrie culturali, Comunicazione sociale.

Bibl.: I. Angus and J. Sut 1989. H. Carrier 1985 cap. IV, 1987, cap. VII. P. Emmanuel 1971. M.A. Glélé 1981. D. Lapeyronnie et al. 1990. R. Merelman 1984. Mondiacult 1982. D. Pankratz 1990. P. Schlesinger 1991. H. Shaughnesy C. Fuente Cobo 1990. B. Weinstein 1990. J. Blamont 1993. J. H. Bentley 1990-1992. J.R. Blau 1989. D. Harvey 1990b. C. Weedon 1994. B. Weinstein et al. 1990.

 

Pontificio Consiglio della Cultura. (inizio)

Il Pontificio Consiglio della Cultura è un organismo della Santa Sede, creato da Giovanni Paolo II nel 1982 con la finalità di promuovere uno dei più importanti obbiettivi formulati dal Concilio Vaticano II: intensificare il dialogo tra la Chiesa e le culture della nostra epoca.

Nel 1992, il papa ha proceduto alla fusione di questo Consiglio con il Pontificio Consiglio per il dialogo con i non credenti. Il nuovo organismo conserva il nome di Pontificio Consiglio della Cultura e comprende due sezioni, chiamate: Fede e cultura e Dialogo con le culture. Il Consiglio mantiene strette relazioni con la Commissione Pontificia per i Beni Culturali della Chiesa e con le Accademie pontificie.

L'evoluzione delle culture, che segna oggi i comportamenti delle persone e dei gruppi, costituisce un argomento decisivo per l'avvenire del mondo. La Chiesa vi riconosce uno dei problemi spirituali e religiosi più urgenti per la sua missione evangelizzatrice.

Il Consiglio non esercita la sua attività come se avesse autorità sulla cultura o sulle culture. Procede piuttosto attraverso incitamenti e stimoli al fine di animare tutti i cristiani e tutte le istituzioni della Chiesa a comprendere con spirito nuovo l'evangelizzazione delle culture e lo sviluppo culturale di tutti gli uomini. Il Consiglio fa parte degli organismi chiamati " del dialogo " creati dopo il Vaticano II. S'interessa di tutte le manifestazioni della cultura moderna e favorisce il dialogo attivo con i rappresentanti della scienza, delle arti, del mondo universitario e delle industrie culturali. Presta particolare attenzione alle culture che stanno emergendo, ai problemi umani e spirituali collegati allo sviluppo integrale delle persone e dei popoli. Il dialogo si estende a tutti, inclusi quelli e quelle che non credono in Dio o non professano alcuna religione, nella misura in cui queste persone sono aperte ad una sincera collaborazione.

Il Consiglio studia metodicamente i problemi che sono connessi con la rottura che ha avuto luogo tra il Vangelo e la cultura e le manifestazioni di questo grave problema: l'incredulità, l'indifferenza religiosa, la decadenza del sentimento morale e religioso, la necessità che molti sentono oggi di ridefinire il senso della vita in una cultura secolarizzata.

L'azione del Consiglio si esercita soprattutto con la presenza, la testimonianza, la cooperazione, il costante appello ai valori evangelici per la difesa della dignità della persona e per la costruzione della civiltà dell'amore. Per portare a buon termine un compito così complesso, il Consiglio conta su di un'ampia collaborazione di persone sia all'interno che all'esterno della Chiesa. La sua missione si espleta necessariamente in forma collegiale ed ecumenica, ed è diretta a tutte le persone di buona volontà. Si tratta di una forma di azione indispensabile in un mondo pluralista. La Chiesa assunse questa longanime pazienza, fatta di simpatia per la diversità delle società e delle culture. E, del resto, l'unico approccio possibile a molti organismi governativi e a istanze internazionali come l'UNESCO, dove il confronto e il rispetto delle opinioni sono la condizione stessa della cooperazione.

Per sua natura, il Consiglio non dispone dei mezzi né degli strumenti generalmente utilizzati dagli Stati nella loro azione culturale derivante da una politica culturale ufficialmente definita e da progetti finanziati dai fondi pubblici. I mezzi e il raggio d'azione del Consiglio sono completamente diversi. Esso organizza colloqui, incontri e ricerche sul dialogo della Chiesa con le culture, sull'evangelizzazione delle culture, sull'inculturazione e sulle questioni attinenti allo sviluppo culturale. Il Consiglio rappresenta la Santa Sede nelle principali riunioni internazionali tenute dall'UNESCO o da altri organismi similari. Esso prende parte alle riunioni dei Ministri della cultura o dell'educazione, partecipa alle riunioni internazionali delle università, ai principali colloqui scientifici e culturali. Il Consiglio pubblica opere su temi che sono di sua competenza. Esso dispone di una biblioteca specializzata, frequentata da studenti, ricercatori e dai numerosi visitatori che vengono a Roma. I centri culturali di ispirazione cattolica hanno intrapreso una ricerca comune per meglio definire il loro servizio nella società e nella Chiesa di oggi. Il Pontificio Consiglio della Cultura facilita la loro collaborazione grazie a vari incontri di studio e di informazione. Un primo convegno internazionale dei centri culturali cattolici fu tenuto a Chantilly, Francia, nel 1993, seguito da vari incontri regionali (vedere la rivista del Pontificio Consiglio della Cultura: Foi et Cultures, 1993 e seguenti).

I membri del Consiglio, cardinali e vescovi, così come i suoi consultori, provengono dalle diverse parti del mondo e la loro competenza facilita lo studio interdisciplinare, il dialogo internazionale e l'informazione relativa all'evoluzione delle culture e alle sfide che presenta, nella nostra epoca, l'inculturazione del Vangelo e lo sviluppo culturale.

Vedi: Evangelizzazione della cultura, Politica culturale, Sviluppo culturale (e Chiesa Cattolica), Vaticano II (e la cultura), Beni culturali della Chiesa.

Bibl.: H. Carrier, 1990 a, cap. I, 1991, cap. 7.

 

Proletkult. (inizio)

Movimento di cultura operaio e proletario che si è sviluppato nell'URSS, intorno ad A. A. Bogdanov, ed è stato approvato in occasione di una conferenza costitutiva del Proletkult nell'ottobre 1917. Il Proletkult ha avuto un notevole sviluppo tra i lavoratori e i poeti proletari, col lancio di giornali, riviste e centri culturali. Il Proletkult si ispirava all'idea che la cultura proletaria non dovesse dipendere da specialisti o da intellettuali, ma dalla cultura degli operai stessi. Nel 1920, Lenin si oppose a questa forma di autonomia culturale e, progressivamente, il Proletkult si allineò alla politica culturale dell'Unione Sovietica. Lenin, nel 1920, al primo congresso del Komsomol condannò il progetto di Bogdanov come " Vanteria comunista ". Egli affermava, all'opposto, che " soltanto la perfetta conoscenza della cultura, creata nel corso dello sviluppo dell'umanità, e la sua trasformazione permetteranno di creare una cultura proletaria ".

Vedi: Cultura materiale. Rivoluzione culturale.

Bibl.: G. Labica 1982.