HERVÉ CARRIER S.J

DIZIONARIO

DELLA CULTURA

PER L'ANALISI CULTURALE

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Relativismo culturale. (inizio)

Questa teoria, difesa con convinzione da diversi antropologi, e particolarmente da M. J. Herskovits, ed anche, sia pur con minore vigore, da Ruth Benedict, sostiene che i valori e le istituzioni di una società non hanno altra spiegazione, né altra legittimazione se non dalla cultura stessa di quella particolare società. La diversità dei modelli culturali includerebbe una sorta di autonomia dei modelli etici. Ciò significa, in altri termini, affermare l'autovalidazione dei valori culturali e, quindi, in conseguenza, la profonda incompatibilità tra le culture, delle quali nessuna sarebbe superiore all'altra. La teoria ha avuto successo negli anni 1930-1950, ma ha avuto anche vive critiche per il principio ch'essa postula del relativismo morale secondo il quale i concetti di bene e di male non hanno un valore universale, ma variano secondo i tempi e le società. Questa era già la tesi del sofisti greci. Il relativismo antropologico, d'altra parte, sembra negare l'effetto cumulativo del progresso culturale e lo sviluppo di una civiltà dell'universale.

Il relativismo culturale, inoltre, si avvicina alle posizioni dello storicismo che privilegia, in forma unilaterale, i fattori storici nell'interpretazione delle idee, dei costumi e dei comportamenti di ogni epoca. Ciò significa negare i valori trascendenti, come le credenze delle religioni universali, in particolare del cristianesimo.

Pur criticando le pretese abusive del relativismo culturale, gli antropologi riconoscono che le discussioni sul carattere relativo delle culture ha favorito, negli osservatori occidentali, un approccio molto più rispettoso delle particolarità proprie di ogni società posta allo studio. Un etnocentrismo, che consisteva nel guardare le società tradizionali soltanto dal punto di vista occidentale, è stato giustamente denunciato a tutto vantaggio dell'osservazione sociale e dell'analisi culturale.

Vedi: Valore. Religione.

Bibl.: R. Benedict 1934. M. J. Herskovits 1948. P. F. Schmidt 1935. W. Shmidt 1930.

 

Religione e cultura. (inizio)

Per uno strano paradosso, il fatto religioso è una delle questioni che più hanno attratto l'attenzione degli antropologi pur non essendoci tra loro accordo sul modo di definire la religione. Come la cultura, la religione è più facile da intuire che da definire logicamente, perché queste due nozioni sono tra le più comprensive, in quanto toccano praticamente tutti gli aspetti della vita dell'uomo.

Nel quadro del presente discorso concentreremo la nostra attenzione sul contributo che le scienze umane possono fornire allo studio dei rapporti tra religione e cultura.

Le difficili definizioni. Una delle prime constatazioni è l'apparente impossibilità di formulare, in una proposizione che possa essere comunemente accettata, ciò che è la religione. Sono numerosi i tentativi fatti da una sessantina di anni: centinaia di definizioni sono state raccolte, analizzate, messe a paragone per cercare una convergenza sulla definizione del fatto religioso. Si possono, per esempio, citare gli studi riportati in Journal of Religion (1927), in Journal of Social Psychology (1958), la rivista Concilium (1980); vedi: C. Skalicky, 1982. Tutti i ricercatori sentono, tuttavia, il bisogno di circoscrivere, in una formula almeno provvisoria, ciò che costituisce l'oggetto dei loro studi socio-religiosi. Per quanto ci riguarda, in partenza noi optiamo per la descrizione che prende ispirazione dalla scuola storico-culturale rappresentata particolarmente da Wilhem Schmidt, Henri Pinard de la Boullaye e i numerosi ricercatori ch'essi hanno ispirato. Questi distinguono gli aspetti oggettivi della religione da quelli soggettivi. Oggettivamente, la religione corrisponde ad un insieme di credenze e di comportamenti che si riferiscono ad una realtà concepita come oggettiva, suprema, trascendente, nei confronti della quale l'uomo individuale e collettivo si sente legato e dipendente. Soggettivamente, la religione è l'atteggiamento delle persone riguardo a realtà percepite come trascendenti.

Vedremo in seguito come questa accezione della religione può aiutarci a comprendere la varietà dei fatti religiosi, quali si manifestano nelle società tradizionali, ma anche nelle nostre società dette secolarizzate.

I falsi problemi eliminati. L'attuale antropologia si è liberata dai falsi problemi su cui si erano accaniti molti autori del secolo XIX e dell'inizio di questo secolo: per esempio, la pretesa di " spiegare " l'origine della religione partendo da un " ateismo positivo ": John Lubbock. Altro falso problema, l'ipotesi di un evoluzionismo naturale delle religioni per stadi progressivi dall'animismo primitivo: Edward B. Taylor. Del resto, all'epoca dell'Illuminismo, la tesi del " declino delle religioni " era stata accettata come il postulato che una sociologia della modernizzazione ha sostenuto a lungo, tesi seguita da un marxismo smentito dai fatti, anche nei paesi ufficialmente atei. La superstizione, come presunta causa di ogni religione, è una spiegazione oggi smentita, anche da autori che si dicono agnostici. Nessuno cita più il celebre detto di Voltaire, che rivela un ateismo un tempo di moda: " I nostri preti non sono ciò che un vano popolo pensa, la nostra credulità costituisce tutta la loro scienza ".

Per una sorta di conversione metodologica, l'osservatore moderno ha abbandonato la pretesa di " spiegare " la religione partendo da un punto di vista areligioso e cerca piuttosto oggi di comprendere l'uomo religioso dall'interno, ponendosi, per così dire, al posto del credente o delle comunità credenti: C. Geertz. Il riduttivismo, come spiegazione atea delle origini della religione, o come predizione del suo fatale declino, è riconosciuto come un errore di metodo dal punto di vista rigorosamente empirico. Un fatto soprattutto è in contraddizione col riduttivismo: la religione, non soltanto non si riduce, né declina con la modernità, ma risorge sotto forma straordinariamente tenace nel cuore stesso delle società più sviluppate. La cultura e le religioni hanno sorte collegata.

E, questo, un vincolo indissolubile, come sostengono molti tra gli autori recenti? Interroghiamo gli antropologi che ci aiuteranno a comprendere le interrelazioni che si creano tra le credenze, il fatto sociale e la cultura.

Relazioni tra religione, cultura, società. Un fatto s'impone subito all'inizio all'osservazione: la religione si concentra prima di tutto sui punti cruciali della vita sociale: la nascita, la socializzazione del bambino, la pubertà, il matrimonio, la parentela, la morte. Nelle società tradizionali, la religione è il centro di tutto, è l'essenziale, il " vero reale " - the real real, secondo Geertz -, " la vita presa sul serio " (Durkheim), o ancora " la vita sociale in quei punti in cui è più intensamente sentita ": R. Benedict. Queste affermazioni sottolineano il vincolo nascosto con il trascendente, che fonda ogni società permanente. Senza ritenere i presupposti di un funzionalismo rigido, oggi non accettato, può essere fonte di chiarezza l'interrogarsi sul ruolo che l'antropologia moderna attribuisce alla religione nel dinamismo sociale.

Sembra ci sia largo consenso tra gli autori più conosciuti sul modo di analizzare le relazioni tra la religione e la cultura: M. Griaule, C. Kluckhohn, A. Radcliffe-Brown, Cl. Lévi-Strauss. Ricordiamo le grandi linee di queste analisi. Le credenze religiose apportano ad un gruppo umano, sempre alle prese con le angosce, le forze centrifughe e il tragico della vita, " un sentimento di coerenza e di realtà ". I bisogni d'integrazione, di convalida, di legittimazione, essenziali ad ogni società, sono soddisfatti con " sanzioni sopra-naturali ", prescrizioni sacre, riti che celebrano e restaurano l'unità, dando risposta ai " perché dell'anima " riguardo al senso della vita e della morte. Le conoscenze empiriche non potrebbero, da sole, assicurare l'integrazione di una comunità umana. Per illuminare i significati ultimi, gli esseri umani ricorrono a espressioni simboliche apportatrici di credenze e di pratiche ch'essi situano in una dimensione sopra-biologica ed immateriale.

Queste forme di religiosità sono pure illusioni e proiezioni di bisogni umani fondamentali, come hanno sostenuto Sigmund Freud e Geza Roheim? Gli antropologi non accettano queste interpretazioni riduttive, anche se riconoscono i processi inconsci che orientano l'anima collettiva di una comunità credente. I concetti di simbolo e di proiezione - non ristretti al livello psicanalitico - sono oggi ampiamente usati per studiare i rapporti tra religione e cultura, particolarmente per comprendere i processi di socializzazione del bambino, il ruolo delle cosmogonie come guida delle condotte sociali, sotto la luce dei poteri supremi che reggono l'universo.

E nel quadro di una cultura tutta pervasa da religiosità che il bambino acquista il suo " equipaggiamento mentale " e la sua " personalità di base ": A. Kardiner e M. Mead.

Le ricerche dimostrano che la religione influenza tutti i settori della vita sociale, la parentela, la politica, il lavoro, l'arte, gli scambi e l'economia. Gli studi di R. Firth (1951) hanno particolarmente sottolineato questa influenza comprensiva della religione sull'insieme delle attività sociali. Una domanda si pone a questo punto: quale valore universale rivestono queste teorie esplicative? Valgono soltanto per le società arcaiche, primitive o tradizionali? Il dibattito è aperto e le considerazioni che seguono permettono di intravvederne la portata.

Religione e cultura moderna. La tendenza degli antropologi e dei sociologi più recenti è quella di attenuare la dicotomia troppo rigida che i loro predecessori avevano posto tra le società dette primitive e le società moderne. Senza negare i contrasti tra questi due tipi di strutture sociali, gli autori sono attenti ora a percepire le continuità, le analogie, le similitudini culturali che si stabiliscono tra di esse. L'antropologia, che oggi s'interroga sull'universalità della cultura umana, afferma molto più chiaramente che in passato che la religione costituisce una categoria universale del comportamento umano. Questa problematica può gettare una luce nuova sul dibattito sempre attuale della secolarizzazione, come potremo vedere in seguito.

Max Weber, uno dei più prestigiosi fondatori della sociologia religiosa, ha apportato un contributo solido alla tesi secondo cui tutta la società, sia antica che moderna, si fonda, in definitiva, su di un'idea religiosa almeno implicita. Rigettando i postulati dei filosofi dell'età illuministica e quelli di Karl Marx, secondo cui la maturità sociale e culturale si attuerebbe con l'evacuazione delle superstizioni, delle credenze e dei miti, Max Weber ha dimostrato, al termine di una monumentale inchiesta riguardo alle religioni dell'Oriente e dell'Occidente, che il pensiero religioso ha sempre condizionato, ieri come oggi, le forme di vita nella società. Descrivendo più specificamente il ruolo culturale del cristianesimo, egli ha sostenuto che è il fattore religioso ad aver svolto un ruolo decisivo nel processo di modernizzazione della società industriale. Contrariamente ad altre forme religiose che hanno condotto i credenti ad una fuga dal mondo, ad un misticismo passivo e fatalista, il protestantesimo, secondo Max Weber, ha proposto un'ascetica, un'etica del lavoro, dello scambio, della responsabilità ed ha suscitato una cultura della trasformazione e della creazione attraverso lo spirito d'impresa. Il principale elemento esplicativo, egli dice, è la razionalizzazione del mondo e della società, ispirata dall'etica protestante, che ha dato i suoi propri valori alla società industriale moderna ed ha aperto così la strada ad un nuovo tipo di sfruttamento della natura, della produzione, della circolazione e dello scambio dei prodotti del lavoro umano. Una " economia-mondo " prendeva forma, stimolata dai " pellegrini " diventati coloni in America e dallo spirito sopra-nazionale del cristianesimo. Notiamo che Weber non stabilisce un vincolo di causalità tra il protestantesimo e il capitalismo, ma piuttosto pone in rilievo la " congruenza ", cioè la compatibilità tra fede cristiana, razionalità del mondo e slancio industriale.

La tesi socio-religiosa di Max Weber ha influenzato tutti coloro che hanno studiato il processo di ammodernamento e d'industrializzazione del mondo occidentale. Ma le furono apportati critiche e completamenti importanti. Werner Sombart, per esempio, ha osservato che artefici della modernità erano stati anche gli Ebrei sefarradi e i re cattolici, che seppero, ciascuno nel proprio modo, dare un impulso storico allo sviluppo del commercio e della finanza, come all'esplorazione e al progresso del Nuovo Mondo.

Non bisogna neppure minimizzare l'apporto significativo dei grandi Ordini religiosi, quali i Benedettini, che furono all'origine di un cospicuo sviluppo dell'agricoltura e della vita sociale in Europa. Si deve a loro l'introduzione di tecniche artigianali ed agricole e di nuove macchine, quali il mulino ad acqua, " per salvare il tempo della preghiera ".

Leo Moulin (1964) ha posto in evidenza il contributo dei monaci e dei religiosi nella fondazione della vita democratica attraverso la pratica della vita capitolare; le loro Costituzioni e i loro regimi di direzione sono una prefigurazione delle forme moderne di governo. San Benedetto non è soltanto patrono dell'Europa per il suo irradiamento spirituale: egli è stato con i suoi monaci un focolaio di umanesimo, di progresso sociale, economico e culturale.

Leo Moulin dice dell'organizzazione dei Domenicani ch'essa è " una cattedrale del diritto costituzionale ". Talcott Parsons, pur essendo un fedele seguace di Weber, ha riconosciuto, in seguito, che l'etica protestante non aveva avuto il ruolo esclusivo che il suo maestro sembrava riconoscergli. Egli faceva notare, per esempio, che sant'Ignazio di Loyola e i Gesuiti furono anch'essi gli iniziatori di un nuovo senso dell'impresa, i formatori di una nuova generazione di esploratori, di missionari, di educatori che hanno affrettato il processo di ammodernamento del mondo contemporaneo.

Verso quale secolarizzazione delle culture? Molti dei sociologi seguaci delle teorie di Marx e Freud avevano predetto l'affievolimento e l'estinzione progressiva delle religioni nel mondo. La Rivoluzione stava finalmente per liberare l'Uomo nuovo, e la religione, cioè il " sospiro della creatura oppressa ", non avrebbe avuto più ragione d'esistere.

L'uomo adulto, d'altra parte, avrebbe finito per rigettare le proprie illusioni inconsce e le proprie proiezioni infantili di un Dio paterno: vedi P. Gay, 1991. Queste teorie hanno ispirato sistemi politici e pedagogici che avrebbero dovuto, secondo le previsioni, affrettare l'avvento di una società e di una cultura senza Dio, obbiettivo che è stato perseguito ufficialmente in molti paesi socialisti.

Un'altra ipotesi prevedeva che la società industriale, urbana e pluralistica, stava per evacuare le religioni tradizionali per effetto della razionalità e dei valori materialisti. Mircea Eliade (1965) ha saputo descrivere con penetrazione la cultura dell'uomo che aveva la pretesa di realizzarsi diventando areligioso: " L'uomo si costruisce da se stesso e non giunge a costruirsi completamente che nella misura in cui si desacralizza e desacralizza il mondo. Il sacro è l'ostacolo per eccellenza di fronte alla sua libertà, egli non diventerà se stesso che nel momento in cui sarà radicalmente demistificato. Egli non sarà veramente libero che nel momento in cui avrà ucciso l'ultimo dio ". Eliade mostra come la desacralizzazione conduca alla disumanizzazione.

La secolarizzazione è, certamente, un fatto massiccio del secolo ventesimo, ma la natura del fenomeno, nota Eliade, è lungi dall'essere così chiara come avevano affermato alcuni osservatori ancora venticinque anni fa. Una nuova lettura delle realtà socio-religiose giustifica ormai un interrogativo fondamentale: le psicologie e le culture possono essere totalmente secolarizzate? Il fatto religioso è ora riscoperto sotto forme inattese o male percepite fino ad oggi. Questo ci conduce a chiederci se la religione non sia effettivamente una categoria antropologica universale e permanente.

Se è innegabile che le religioni istituzionali dell'Occidente sono state colpite dalla secolarizzazione della cultura e ch'esse hanno largamente perduto l'influenza che esercitavano sull'insieme della vita sociale - famiglia, lavoro, economia, politica, arte, filosofia, letteratura - non bisogna trascurare l'impatto culturale che continua chiaramente ad affermarsi sulle comunità islamiche, buddiste e induiste. Il cristianesimo da parte sua ha trovato nuove vie alla propria azione nel mondo pluralistico e i risultati sono visibili nelle antiche cristianità ed anche, in forma notevole, nei paesi del terzo mondo e nell'America Latina. Pur riconoscendo che le religioni istituzionali subiscono una forma di regresso culturale, non per questo, tuttavia, la religione scompare dalla società moderna, come rivela l'affermarsi dei nuovi movimenti religiosi e dei culti e il riemergere del sacro, anche nelle società di industria avanzata.

E importante notare che, al di là della privatizzazione reale del sentimento religioso, si può osservare una nuova forma sociale della religione nella società industriale, che Thomas Luckmann (1967) chiama " religione invisibile ". Con il suo collega Peter Berger egli offre una spiegazione del fenomeno che merita attenzione. Partendo da una teoria della conoscenza applicata all'individuo in seno alla cultura, Berger e Luckmann (1966) dimostrano quanto sia eminente il ruolo del sacro nella formazione dell'" io ", che richiede un dispositivo cognitivo e normativo atto a legittimare un universo socialmente costruito. Il sacro ha sempre espresso la speranza dell'uomo in un ordine culturale che abbracci tutta la realtà e dia un significato ultimo alla vita.

L'uomo non può vivere senza questa proiezione di un ordine trascendente, e questa espressione simbolica offre allo spirito " strutture plausibili " e corrisponde alle " protoforme universali della religione ". La religione appare dunque come il fenomeno antropologico per eccellenza; è essa che interiorizza, nella persona, l'universo culturalmente costruito e contribuisce a strutturare la sua coscienza. In questa prospettiva, la secolarizzazione totale equivarrebbe semplicemente alla disumanizzazione. " La struttura sociale è secolarizzata, l'individuo no ": T. Luckmann.

Essere umano è essere religioso. Il concetto di religione qui adottato è quello che si rapporta alla concezione dei teologi e alla definizione da noi data all'inizio. Essa ha il merito di sottolineare il ruolo soggettivo e culturale delle credenze e di porre in rilievo il carattere universale del fatto religioso.

" L'uomo dovrebbe cessare di esistere, perché cessi la religione ": T. Luckmann. La religione è un elemento strutturante della coscienza umana, una categoria universale indispensabile all'antropologia, perché appare come un fenomeno caratteristico di tutte le società e di tutte le culture passate, presenti e future. Carl Jung l'ha riconosciuto, in posizione di contrasto con le teorie antireligiose di Freud. Questa è la conclusione a cui è giunto, alla fine della sua vita, Mircea Eliade, uno dei più grandi storici delle religioni: " Io non credo che sia possibile l'esistenza di un uomo completamente areligioso. Essere - o piuttosto divenire - un uomo significa essere religioso ". Per Eliade, ogni cultura attribuisce più o meno coscientemente un carattere sacramentale agli atti più importanti di chi vive in quanto essere umano: " Ai livelli più arcaici della cultura, vivere in quanto essere umano è, in sè, un atto religioso perché l'alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno un valore sacramentale. In altri termini, essere - o piuttosto divenire - un uomo significa essere religioso ": La nostalgie des Origines, Paris, 1971.

Questa ottica offre una chiave di lettura per comprendere molte forme di religiosità caratteristiche del nostro tempo, quali le religioni secolarizzate, cariche di dimensioni carismatiche e profetiche, che suscitano convinzioni e dimensioni assolute. Anche i comunisti ricordano che Marx, discendente da stirpe di rabbini e formato dal cristianesimo di Hegel, aveva immaginato la " società liberata " dell'avvenire sul modello inconscio di un messianesimo guideo-cristiano. I comunisti cinesi, che prendono ora le distanze da Mao e da Lenin, sembrano voler riabilitare il ruolo integrante della religione nella cultura, come dichiaró Zhao Fusan all'Accademia delle Scienze Sociali di Pechino nel 1985: " La religione è parte integrante della civiltà spirituale di ogni nazione... L'idea che la religione sia soltanto l'oppio dello spirito è insufficiente e antiscientifica ". Jean Guéhenno, uno scrittore notoriamente agnostico, onestamente confessava la religione umanistica che nell'intimo lo guidava: " C'è un universale umano. Nel più profondo dell'io, c'è questa fede della specie, se mi è lecito dirlo. La trovo da sempre in me, come un fatto ben più commovente di qualunque favola teologica o metafisica. La sola parola " uomo " risveglia in me un certo brivido. Io credo come vivo e voglio credere ": Jean Guéhenno, Ce que je crois, Paris, Grasset, 1964.

A questo punto, il credente, membro di una religione istituzionale, s'interrogherà sulla legittimità di definire il fatto religioso sul solo versante soggettivo ed avrà ragione di osservare che il sacro non si può concepire senza rapporto con un Assoluto oggettivo, con una dottrina, un codice di condotta, con dei riti prescritti. Ma, dal punto di vista psicosociale ed antropologico, sembra difficile negare ogni carattere sacro alle credenze ultime - a questo " ultimate concern " di cui parlava Paul Tillich - e nel quale ogni essere umano ricerca un significato ultimo alla propria esistenza. Questo ci riconduce, in definitiva, al problema iniziale che è quello di definire la religione in maniera sufficientemente larga per non trascurare nessuna delle dimensioni del religioso in seno alle culture vive.

Questo dibattito, la cui conclusione è impossibile dal solo punto di vista fenomenologico, pone le Chiese cristiane di fronte ad un interrogativo fondamentale: l'uomo moderno, detto secolarizzato, deve essere abbordato come un essere areligioso o, invece, come un credente, la cui religione, più o meno cosciente, entra in concorrenza con la fede cristiana? I chiarimenti, forniti dalle scienze umane sul rapporto tra religione e cultura, richiedono considerazioni dottrinali molto più specifiche da approfondire soprattutto nell'analisi del processo d'inculturazione del Vangelo, illustrato da tutta la storia dei rapporti tra cultura e cristianesimo: Christopher Dawson, 1948, 1958. Questo argomento richiede una particolare trattazione.

Vedi: Inculturazione. Evangelizzazione. Educazione. Catechesi. Arte.

Bibl.: J. A. Beckford and T. Luckmann 1991. P. Berger et T. Luckmann 1966, 1974. H. Carrier 1985, 1988, 1990a. C. Dawson 1948, 1958. E. Durkheim 1925. M. Eliade 1965, 1971, 1973, 1976-1980, 1990. C. Geertz 1973, cap. IV. A. Leroi-Gourhan 1964. T. Luckmann 1967. L. Moulin 1964. F. Oser et al. 1991. H. Pinard de la Boullaye 1929. J. Poirier 1968. P. Poupard 1985. W. Schmidt 1930, 1955. C. Skalicky 1982. W. Sombart 1923, 1932, 1967, 1989. S. Turner 1991. M. Weber 1930, 1966, 1982. D. Dory 1993. J. Delumeau et al. 1992. A. Dumais 1995. E. Fizzotti 1992. F. Garelli 1991, 1996. P. Gay 1989. J. Ries et al. 1992. E. Troeltsch 1977, 1991. E. E. Whitehead et al. 1990. D. M. Wulff 1991.

 

Rivoluzione culturale. (inizio)

Sconvolgimento provocato in una società da avvenimenti o da politiche che trasformano in profondità le istituzioni, le mentalità, le abitudini. Si dirà, per esempio, che l'industrializzazione è stata accompagnata da una rivoluzione culturale, che i mass-media hanno portato con sé una rivoluzione culturale, che la secolarizzazione della società tecnica ha prodotto una rivoluzione culturale. L'espressione può, in questi casi, essere utile come sintesi descrittiva, ma ha bisogno di essere precisata.

La rivoluzione culturale assume un senso nettamente politico quando diventa il progetto volontarista di un nuovo Stato che s'instaura a seguito di un capovolgimento di regime o di una liberazione nazionale. Questo si produce in molte antiche colonie e nei paesi sottoposti a regimi totalitari sia di sinistra che di destra. La lotta ideologica mira allora alla rivoluzione culturale. I Khmer rossi, per esempio, perseguivano esplicitamente la rivoluzione culturale nel Kampucea negli anni 1975-1978. Un altro esempio è quello della diffusione culturale islamica in molti paesi. E il caso dell'Iran, dopo la caduta dello Scià, dove la rivoluzione culturale si propone di lottare contro l'occidentalizzazione delle università nazionali per sostituirvi " una cultura islamica autonoma e autosufficiente ". Il Consiglio Superiore della Rivoluzione Culturale è incaricato d'islamizzare l'insegnamento superiore: " L'università islamica, inserita in un'autentica società islamica, deve formare ricercatori islamici, in modo da islamizzare il sapere ": Per un mondo nuovo, II, 3-4, 1986.

L'espressione rivoluzione culturale ha, d'altra parte, acquisito un'accezione storica particolare nell'esperienza rivoluzionaria dell'URSS e della Cina: vedi articoli seguenti.

 

Rivoluzione culturale in Cina. (inizio)

La rivoluzione culturale in Cina si è scatenata, verso la metà degli anni Sessanta, come violenta protesta contro il sedicente imborghesimento che sobillava la rivoluzione comunista. L'idea della rivoluzione culturale è attribuita a Mao Tsé Toung, ma è stata animata soprattutto dagli intellettuali che lo circondavano e da sua moglie Jiang Qing. Il pensiero ispiratore di questa rivoluzione lo si trova nel Libretto Rosso di Mao, pubblicato nel 1965, che afferma il carattere permanente della rivoluzione e la necessità di una rieducazione continua dell'uomo, capace di una trasformazione radicale: il contadino è " un foglio di carta bianco " sul quale si potranno tracciare " i più bei caratteri ". Mao è stato l'erede della prima rivoluzione culturale che scoppiò in Cina con il Movimento del 4 maggio 1919, " il giorno in cui Confucio è morto " data simbolica della nascita della Cina moderna: Patrice de Beer, 1969. Due anni dopo veniva fondato il partito comunista cinese a cui aderì Mao Tsé Toung, un oscuro impiegato di biblioteca, accanto ad intellettuali di fama.

Verso il 1960 Mao constatò che il puro ideale del comunismo egualitario era minacciato da due pericoli: le idee borghesi della burocrazia e il conservatorismo contadino.

La modernizzazione tecnica comportava il rischio inerente di un contagio da parte dei principi del capitalismo e della mentalità borghese. La burocrazia aveva praticamente soppiantato Mao dal 1958. Questi, tuttavia, continuava a proclamare il principio di una rivoluzione proletaria da proteggere nella sua purezza: occorreva lottare contro tutto il revisionismo borghese d'ispirazione anti-comunista e favorevole al capitalismo. Per questo, la grande forza da preparare era il popolo stesso che avrebbe dovuto sollevarsi in massa contro i nemici della rivoluzione. Per attuarla occorreva avviare un processo di rinnovamento radicale: " l'ordine nasce dal disordine ".

E in questa prospettiva che si attua la Rivoluzione culturale, soprattutto negli anni 1966 e 1970. Masse di giovani si abbattono in tutto il paese brandendo il Libretto Rosso. Essi fanno appello alla Cina profonda contro ogni tendenza straniera e contro i detentori " della via capitalista al potere nel partito ". Questi gruppi organizzati sono chiamati Guardie rosse del Presidente o Custodi del suo pensiero. Le polemiche degenerano in violenza fisica, in anarchia, in una vera guerra civile. Le fazioni rivali si affrontano in una lotta accanita per il potere. Sotto l'influenza di Jiang Qing, si procede ad una vera caccia agli artisti, agli scrittori, agli intellettuali, a tutti coloro che si mostrano favorevoli alle influenze straniere. I centri di ricerca vengono paralizzati, le università sono chiuse.

La rivoluzione culturale in Cina ha rivelato l'opposizione violenta tra due tesi. Quella dei tecnici e dei burocrati che desiderano modernizzare la Cina utilizzando le risorse della scienza e della tecnica, che, secondo loro, sono i soli mezzi per procedere ad una industrializzazione delle città e ad un progresso dell'agricoltura. Quella opposta, dei rivoluzionari puri e duri, appoggiati da Mao Tsè Toung, che temono una modernizzazione che rischia di portare con sé imborghesimento e deviazioni capitalistiche. Secondo questi, una rivoluzione tradita avrebbe creato un abisso tra villaggi e città, tra tecnologia e popolo, tra masse contadine e popolazioni urbane. La Rivoluzione culturale aveva come primo obbiettivo confessato il rigetto di un tipo di modernizzazione che avrebbe mortificato il comunismo egualitario.

La Rivoluzione culturale ha provocato la chiusura della Cina su se stessa, il disprezzo per tutto ciò che non era cinese. Questa Rivoluzione, in fondo, poggiava su di una illimitata fiducia nelle virtù nascoste delle masse e nella forza creatrice di un'azione rivoluzionaria che distrugge l'ordine per lasciar emergere la nuova società. Questa ideologia semplicistica, veicolata dalle proposte radicali del Libretto rosso, è stata all'origine della Rivoluzione culturale. L'anarchia che ne è risultata si è aggravata al punto che Mao Tsè Toung stesso vide la necessità di una ripresa in mano delle cose con l'appoggio dell'intervento dell'esercito.

Dopo un periodo di disordini e di incertezze, durante il quale la Cina è stata praticamente tagliata fuori dal resto del mondo in un atteggiamento di autosufficienza rovinoso, altre correnti spirituali si preparavano ad una modernizzazione più realistica del paese, aperta alla coesistenza con l'Occidente. Alla fine, Mao stesso incoraggiò il riavvicinamento agli Stati Uniti, concretatosi nel 1972. La vita culturale rinascerà in Cina verso il 1977.

Il gruppo che aveva animato la rivoluzione culturale, intorno alla signora Jiang Qing e che era chiamato la Banda dei quattro, cade completamente in disgrazia nel 1976 e i suoi membri sono arrestati, dopo un umiliante processo, nel 1980.

Vedi: Rivoluzione culturale nell'URSS.

Bibl.: P. de Beer 1969. J. Golfin 1982. G. Jackson and R. Devlin 1989. S. R. Schram 1973. R. MacFarquar 1974. S. Leys 1989.

 

Rivoluzione culturale nell'Urss. (inizio)

Fu Lenin stesso a precisare il concetto di rivoluzione culturale nel 1918, quando il dibattito tra i primi rivoluzionari faceva temere, come già sosteneva A. A. Bogdanov, che l'ambito culturale sarebbe diventato autonomo nei confronti del campo politico e di quello economico. Per Lenin, la rivoluzione culturale era il necessario prolungamento della rivoluzione proletaria ed era chiamata a completare questa nei dieci o quindici anni che avrebbero seguito la presa di potere da parte dei comunisti nel paese. Occorreva disfarsi dell'idea di una cultura proletaria autonoma, utopistica, tagliata fuori dalla vita politica ed economica. Lenin diceva: " E soltanto la perfetta conoscenza della cultura, creata nel corso dello sviluppo dell'umanità, e la sua trasformazione che permetteranno di creare una cultura proletaria. La cultura proletaria non sorge da non si sa dove, non è invenzione di uomini che si dicono specialisti in materia. Tutto ciò è cosa stupida. La cultura proletaria deve essere lo sviluppo logico della somma delle conoscenze che l'umanità ha accumulato sotto il giogo della società capitalistica, della società dei proprietari fondiari e dei burocrati ": Opere scelte, I, p. 161.

Lenin indica i principali elementi della cultura rivoluzionaria: una fedeltà selettiva all'eredità culturale, la lotta contro l'analfabetismo, l'organizzazione di un sistema di educazione comunista che privilegi i figli dei lavoratori e dei contadini, lo sviluppo di intellettuali, scrittori, artisti socialisti. In una parola, la rivoluzione culturale deve favorire l'avvento di un nuovo uomo comunista. Intorno agli anni 1920, gli intellettuali, i professori, i funzionari, gli studenti furono inviati nelle zone rurali per combattere l'analfabetismo. Li si chiamò i " soldati della cultura ". Ma queste esperienze di soggiorni proletari e rurali si rivelarono un fallimento e produssero un netto ribasso della cultura. La medesima esperienza fu ripetuta, con gli stessi effetti, in Cina.

Vedi: Proletkult. Rivoluzione culturale in Cina.

Bibl.: V. I. Lenin 1969. J. Wilczynski 1981. G. Labica 1982.

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Scambi culturali. (inizio)

Nel suo senso ampio, il termine indica gli apporti culturali da un paese o da una regione agli altri. Nei paesi in cui prevale la libera circolazione delle persone e delle informazioni, gli scambi culturali sono più numerosi e vari, facilitati dai mezzi moderni di trasporto e di comunicazione ed anche da una crescente tendenza a considerare i beni culturali come facenti parte del patrimonio universale. Spontaneamente, i professori, i ricercatori, gli artisti, gli studenti, le compagnie teatrali passano da un paese all'altro con facilità, ciò che certamente produce un mutuo arricchimento delle culture, ma rischia, in certi casi, di causare l'erosione delle culture locali e dei valori tradizionali.

Gli scambi culturali sono limitati sia da ineguaglianze economiche, sia da barriere ideologiche. Gli Occidentali, in generale, e gli Americani del Nord, in particolare, sono economicamente avvantaggiati nel loro accesso al resto del mondo. Il peso della loro azione culturale all'estero, soprattutto per mezzo dei media e dei prodotti delle loro industrie culturali, è sproporzionato rispetto all'influenza che, a loro volta, possono esercitare su di essi gli altri paesi.

Ci sono critici, soprattutto nel terzo mondo, che non esitano a parlare di dominazione, di egemonia e perfino d'imperialismo culturale.

In ogni modo, si può osservare un po' ovunque un fenomeno di omologazione culturale dovuto in gran parte all'influenza dei paesi ricchi sull'insieme delle culture.

I paesi socialisti, da parte loro, da molto tempo tendevano a seguire una politica di stretto controllo sugli scambi culturali, limitando la circolazione delle persone e delle informazioni, sia all'interno che con gli altri paesi. Ma le frontiere culturali non possono rimanere a lungo impermeabili e le correnti di pensiero, le arti popolari, la musica, le mode dell'abbigliamento, gli stili di vita del mondo occidentale sono penetrati in questi paesi per una specie di osmosi culturale, soprattutto tra le generazioni più giovani. L'apporto culturale dei paesi socialisti è avvenuto soprattutto attraverso l'estensione dei regimi comunisti secondo il processo della rivoluzione culturale predicata da Lenin. In un tempo più recente, dopo il 1989, questi paesi hanno liberalizzato ed accentuato la loro attività culturale grazie alla qualità dei loro artisti, delle loro compagnie di teatro e di ballo, invitate in tutto il mondo.

In un senso più ristretto, per scambio culturale s'intende le intese ufficiali o gli accordi culturali tra gli Stati, per favorire e promuovere la reciprocità nell'accoglienza degli artisti, dei ricercatori, degli universitari, degli studenti, degli organismi culturali di ciascuno dei paesi interessati.

Vedi: Accordo culturale. Acculturazione. Identità culturale.

 

Scienza (come Istituzione). (inizio)

Una delle evoluzioni tipiche della società moderna è quella che vede la scienza diventare istituzione e costituire ciò che si chiama il settore scientifico. La scienza non è più semplicemente oggetto di studio per il ricercatore, ma è ormai un settore di attività che occupa uno spazio ed ha un ruolo riconosciuto dalla società. Il mondo scientifico ha una sua propria fisionomia, proprie regole di condotta e fa valere i propri interessi, i propri valori, il proprio potere. La scienza è ora oggetto di una politica consapevole nello Stato e la creazione di ministeri per la ricerca scientifica, in quasi tutti i paesi, pone in rilievo il fatto che la scienza è diventata una nuova istituzione. Ciò che bisogna soprattutto sottolineare è che il potere scientifico è collegato all'industria, alla tecnologia, all'amministrazione moderna e ai modi di vita dei nostri contemporanei. In altri termini, è la scienza, in quanto attività organizzata, che rende possibile la società post-industriale, fondata sulla tecnologia e le comunicazioni moderne. Occorre intendere qui la scienza nel senso più ampio, comprendente le scienze naturali, le scienze esatte, come pure le scienze della cultura o scienze umane. Gli uomini dediti alla scienza costituiscono una categoria professionale particolare che partecipa in maniera decisiva al funzionamento della società industrializzata. La scienza, la tecnica e la ricerca istituzionalizzate sono oggi diventate un oggetto privilegiato di studio per i sociologi e i politologi e si constata il moltiplicarsi degli studi sulla sociologia della scienza, la politica della scienza ed anche della scienza della scienza.

E proprio grazie all'organizzazione della scienza che il mondo moderno ha potuto sperimentare i suoi successi più spettacolari. Basti pensare ai meravigliosi progressi realizzati nei campi della medicina, dell'agricoltura, delle comunicazioni, dei trasporti. Senza le scienze sociali, le forme moderne di gestione, di finanza, di amministrazione pubblica sarebbero impensabili. La pedagogia stessa ha fortemente beneficiato di tutte le risorse dell'elettronica e dell'informatica. Ma l'ammirazione dei nostri contemporanei per la scienza non è senza contropartita. La scienza, come istituzione dal potere quasi illimitato, suscita un atteggiamento ambivalente fatto di ammirazione e di timore, di fierezza ed anche di angoscia. La scienza, meravigliosa creazione dell'umanità, fa ora paura all'uomo, anche s'egli riconosce di non poterne più fare a meno. La scienza, come istituzione, è oggi entrata in crisi e gli scienziati sono i primi ad avvertire inquietudine.

Crisi della scienza. Sembra un paradosso, ma bisogna constatare che è in buona parte a causa dei suoi prodigiosi successi che la scienza è entrata in crisi. Il ritmo delle scoperte e l'esplosione del sapere sono tali, che l'individuo prova un vero sentimento d'impotenza di fronte ad ogni tentativo di sintesi; egli è condannato a non dominare che una frazione, sempre più limitata o specializzata, del patrimonio scientifico mondiale. Siamo di fronte ad un cambiamento culturale che ha avuto un effetto traumatico: l'uomo moderno sembra schiacciato psicologicamente dall'accumulo delle conoscenze ch'egli ha messo in circolazione. La frammentarietà del sapere appare soprattutto nella proliferazione delle opere scientifiche; in ogni settore, le pubblicazioni specialistiche si sono moltiplicate e ciò che è ancora più notevole è che l'accelerazione sembra seguire un ritmo esponenziale. La classificazione e la conservazione della letteratura scientifica sono diventate uno dei problemi più importanti e tutte le grandi biblioteche sono alle prese con questa difficoltà. La proliferazione delle riviste scientifiche presenta un aspetto ancora più sorprendente, forse, dell'esplosione stessa del sapere moderno.

Tutto questo, tuttavia, non rivela che un aspetto globale del fenomeno. Guardando le cose più da vicino, si constata che ogni disciplina ha la tendenza a differenziarsi sempre più con il progresso delle ricerche. La lista delle specializzazioni scientifiche, per ogni disciplina, tende a crescere in modo quasi illimitato. Il paradosso è evidente: mentre da una parte la scienza è diventata la grande impresa della società moderna, di cui la principale risorsa è il maneggiare le conoscenze, dall'altra parte, l'accumulo indefinito di nuove conoscenze è proprio ciò che pone l'istituzione scientifica in grave difficoltà.

L'impresa sembra essere sfuggita al controllo di colui che l'ha lanciata. La superproduzione del sapere ha gettato l'uomo moderno nella perplessità e l'incertezza. Fermiamoci a considerare alcuni degli aspetti socioculturali del fenomeno.

Ripercussioni psico-sociali. La progressiva specializzazione obbliga il ricercatore ad approfondire un settore sempre più circoscritto della realtà. Difficilmente egli può sfuggire all'impressione di lavorare su di un oggetto frammentario, parziale. Egli prova grande difficoltà a comunicare, sul piano professionale, all'infuori del gruppo che è al suo livello. La sua ottica di specializzato lo porta, quasi inevitabilmente, all'isolamento, perché il suo sapere è inaccessibile a chi non è stato iniziato. Senza ch'egli lo voglia, la sua professione è spesso circondata da segretezza e mistero.

Il ritmo delle scoperte produce, inoltre, nello scienziato la persuasione che le sue conoscenze siano precarie e obsolescenti. Certamente, ciò che è vero e dimostrato oggi, conserverà tutto il suo valore domani, ma l'esperienza insegna che il ritmo delle invenzioni obbliga lo scienziato ad una costante revisione e spesso anche all'abbandono di teorie ch'egli aveva ritenuto vere.

Questa è la ragione per cui il mondo scientifico è segnato dalla spietata concorrenza e dall'insicurezza nei confronti dell'avvenire. Il giovane scienziato che oggi esce dall'università deve sapere che il proprio bagaglio di conoscenze sarà presto in buona parte rinnovato dal progresso delle ricerche e delle tecniche.

Più che mai, il diplomato dovrà imparare ad autoeducarsi e a riciclarsi continuamente, altrimenti, per il semplice gioco della competizione, rischia un invecchiamento precoce.

E opportuno aggiungere che, nell'esercizio dell'attività scientifica, è difficile evitare una certa forma di alienazione. La crescente massa del sapere appare ormai come irragiungibile anche da parte dell'individuo più dotato. Egli deve rassegnarsi a coltivare un unico settore limitato del sapere e questa rassegnazione talvolta si traduce in fatalismo o in noncuranza di quell'insieme, non controllabile, delle conoscenze umane. Ci sono osservatori che hanno parlato di schizofrenia per descrivere la mentalità dello specialista moderno, spesso rappresentato come un uomo diviso in se stesso, prigioniero della propria specializzazione, che appare deluso e scettico riguardo alle possibilità di collegare l'insieme del sapere per il servizio del bene comune.

E difficile che, in queste circostanze, il mondo scientifico conservi la fiducia popolare; si diffida di questa nuova categoria sociale costituita dagli specialisti. Se è vero che l'opinione pubblica, in generale, dubita e la sua fiducia è scossa, è vero anche che sono soprattutto gli scienziati stessi ad essere i più preoccupati. Possiamo quindi constatare che sia tra gli studiosi delle scienze della natura che tra quelli che coltivano le scienze umane esiste un grave malessere. Grande è il contrasto tra questa angoscia d'oggi e l'atteggiamento di utopica esaltazione che ha caratterizzato gli studiosi di scienze nel secolo scorso. Ernest Renan, nel suo celebre libro L'avenir de la science (1849), descrive la scienza con un fervore religioso. Era il credo dei nuovi tempi. La scienza, diceva Renan, è " la sola religione definitiva "; in essa si trova " una religione così soave e così ricca di delizie da essere come quella del più venerabile dei culti ".

Ciò che nell'attuale crisi è posto in causa sono precisamente i due presupposti che fino ad oggi avevano ispirato l'attività dei ricercatori. Il primo dei presupposti può così esprimersi: il progresso della scienza racchiude in sé la promessa di un progresso continuo dell'uomo e della società. Il secondo presupposto sostiene implicitamente che la scienza può ottenere il sostegno incondizionato della società.

Questi presupposti si fondavano su di una fiducia praticamente illimitata nel potere della scienza ad assicurare l'avvenire dell'uomo. Alfred Nobel, che ha notevolmente contribuito a fare della scienza un'istituzione, scriveva nel suo testamento nel 1895: " Diffondere la conoscenza è diffondere la prosperità - voglio dire la prosperità vera, non le ricchezze individuali - e con la prosperità il male... in gran parte sparirà. Le conquiste della ricerca scientifica... istilleranno in noi la speranza che i microbi, quelli dell'anima come quelli del corpo, saranno poco a poco sterminati e che l'unica guerra in cui l'uomo s'impegnerà sarà la guerra contro questi microbi ".

Di fronte al potere difficilmente controllabile della scienza, l'uomo moderno appare sconcertato dalle proprie scoperte. Egli è profondamente perplesso ed inquieto. Sarà possibile controllare il potere particolarmente distruttore dei nuovi armamenti? A quale prezzo si potrà con processo ininterrotto sfruttare la natura? Come la scienza e la tecnica possono servire all'avvento di un mondo più giusto? Questi, gli interrogativi che l'opinione pubblica non può più eludere. Un dubbio profondo si è impossessato del nostro spirito e le giovani generazioni ne sono particolarmente colpite.

Henri Bergson aveva già espresso angoscia di fronte ad uno sviluppo tecnico e scientifico che non fosse orientato da un progresso spirituale adeguato. Nel ricevere il premio per la letteratura il 10 dicembre 1928, Bergson dichiarava: " Se il secolo decimonono ha dato un meraviglioso slancio alle invenzioni meccaniche, (Nobel) ha creduto che queste invenzioni... avrebbero elevato il livello morale del genere umano. L'esperienza ha dimostrato, al contrario, ... che la crescita dei mezzi materiali di cui l'umanità dispone può presentare dei pericoli se non è accompagnata da uno sforzo spirituale corrispondente ".

Dopo la morte di Bergson nel 1941, l'umanità è stata drammaticamente scossa da Hiroshima e da gravi catastrofi ecologiche e biologiche.

Critica dell'opinione pubblica. Si è dunque prodotto uno strano rovescimento dell'opinione pubblica nei confronti della scienza: essa non beneficia più a priori di una fiducia senza riserve. Certo, nessuno pensa a negare i benefici della scienza e della tecnica moderne. Neppure i critici più accesi della tecnica e coloro che professano un antintellettualismo alla moda sono inclini a rifiutare i vantaggi che quotidianamente ci procurano le meraviglie della tecnica quali l'aereo, la televisione, il computer, le comunicazioni attraverso satellite e i più recenti prodotti della biochimica medica. Non è in questo che consiste il problema; si tratta piuttosto del fatto che, malgrado l'universale ammirazione dei nostri contemporanei per i risultati della tecnica, un grave dubbio si pone riguardo agli obbiettivi e alle condizioni dell'attività scientifica. La società ha perduto fiducia nel potere illimitato della tecnologia e gli scienziati stessi non hanno più la stessa sicurezza di prima.

Questo cambiamento di atteggiamento è dovuto a più cause, tra le quali hanno una particolare importanza le seguenti: ripugna l'uso di tecniche sofisticate ai fini dell'aggressione militare; si temono le rovine che la tecnologia può creare riguardo alla natura e alla biosfera; si giudica esorbitante il costo delle imprese spaziali e sproporzionato rispetto ai bisogni sociali più immediati; ci si augura che lo Stato determini in maniera più razionale le priorità della ricerca in funzione del bene comune; si è più coscienti del neo-colonialismo che genera il progresso tecnico dei paesi più sviluppati. Le armi nucleari non sono le sole a suscitare indignazione. L'impiego delle nuove armi scientifiche urta profondamente la coscienza universale.

Le scienze esatte e le tecnologie non sono le sole a costituire oggetto di riflessione. Le scienze umane, come l'antropologia, la sociologia e la psicologia sociale sono anch'esse oggetto di gravi critiche. In molti paesi, l'antropologia è entrata in grave crisi, quando il pubblico è venuto a conoscenza che specialisti di fama avevano attivamente collaborato a piani paramilitari ed avevano partecipato a ciò che si chiama la guerra psicologica. Non sono mancate denuncie aperte anche riguardo all'impiego abusivo delle scienze umane nelle imprese di colonizzazione o di dominio ideologico.

Un'altra contraddizione difficile da sopportare è quella che nasce dall'interrogativo: gli scienziati stessi non costituiscono forse spesso un nuovo potere e una nuova ideologia la cui razionalità è oggi contestata?

Oggi le posizioni si sono capovolte: la scienza che si proclama figlia del razionalismo è posta in processo proprio a causa delle sue acquiescenze irrazionali riguardo alle ideologie e ai nuovi poteri della società industriale. La scienza, si constata, non è un'istituzione neutra; essa ha costituito il dinamismo fondamentale della società moderna sia nei paesi dell'Est che in quelli dell'Ovest. Non è esagerato dire che un mito crolla: quello della scienza in quanto attività autonoma e apolitica.

Scienza e promesse di sviluppo. Malgrado tutte queste critiche, una speranza sussiste e un problema si pone: quale è il ruolo che la scienza avrà nella promozione universale dello sviluppo? Se c'è un campo in cui i risultati della scienza sono deludenti è proprio quello dello sviluppo. Siamo tanto lontani da quelle promesse di un progresso continuo che gli scienziati delle generazioni passate avevano fatto intravvedere. Le nazioni tecnicamente sviluppate godono ricchezza ed opulenza, ma un'intollerabile povertà rimane la sorte della maggiore parte del genere umano. Tutto il sapere umano, tutte le nostre tecniche sembrano colpite da impotenza di fronte ai problemi che si aggravano, invece di attenuarsi. Bisogna semplicemente riconoscere la nostra ignoranza. Noi ancora non sappiamo realizzare programmi atti a promuovere lo sviluppo universale. Non disponiamo ancora di una scienza comprensiva dello sviluppo. I nostri contemporanei, che hanno saputo allestire équipes di ricerca imponenti nel campo militare e in quello delle comunicazioni interplanetarie, non hanno ancora scoperto il metodo per far lavorare insieme gli specialisti dell'agricoltura, dell'industria, delle scienze politiche, economiche e sociali, in modo da stabilire un piano più realistico per un giusto sviluppo del mondo. Le conoscenze scientifiche e tecniche, che costituiscono la ricchezza delle nazioni industrializzate, sono difficilmente trasferite o anche trasferibili nei paesi che ne avrebbero un grande bisogno. Siamo qui di fronte ad una grande delusione; la scienza, anche quella meglio organizzata, sembra impotente a far regredire la miseria nel mondo. Questa presa di coscienza è forse tardiva, ma salutare.

Sarà dunque necessaria una mobilitazione internazionale del mondo scientifico per affrontare con competenza compiti di tale ampiezza.

Nella nuova etica oggi chiamata a guidare la pratica scientifica c'è l'imperativo della collaborazione, su scala internazionale, a progetti di sviluppo globale. La sfida posta ai nostri contemporanei è, prima di tutto, quella di comprendere che cosa comporti la socializzazione della scienza e la creazione di un'azione concertata che si serva di tutta la creatività scientifica ed etica per lo sviluppo integrale dell'umanità.

Vedi: Sviluppo. Modernità. Scienza (politica della).

Bibl.: H. Carrier 1975. cap. I-II. L. Giard 1995. Salomon 1970. M. Serres 1989. L. Sklair 1973. H. Zuckerman 1988. B. Mazlisch 1989.

 

Scienza (Politica della). (inizio)

Il settore scientifico ha acquisito, nei paesi moderni, una tale ampiezza e un tale potere che esso necessita di una regolamentazione da parte dei governi. Gli Stati, del resto, sono fortemente interessati a mettere al riparo lo sviluppo della scienza e della ricerca da qualsiasi ritardo che possa essere di danno all'interesse della nazione. Sono nate, così, le politiche scientifiche, alle quali i partiti politici danno crescente importanza.

Descrizione-definizione. Per politica della scienza s'intende, secondo la definizione dell'UNESCO, l'attività governativa che ha per oggetto tutta la gamma della ricerca scientifica, che va dalla ricerca nelle scienze fondamentali fino all'innovazione e all'invenzione pratica.

La politica della scienza abbraccia la scienza pura, la scienza applicata, la tecnologia, i processi d'invenzione e le creazioni pratiche. Si usano spesso le lettere R e D - Research-Development - Ricerca e Sviluppo, per indicare l'insieme delle attività governative a proposito della scienza. I governi moderni mirano, per principio, a dotarsi di una politica scientifica globale. Il loro scopo non è soltanto quello di promuovere la ricerca nei settori specialistici nei quali il progresso è già acquisito, ma si tratta di ricerche sull'ambiente, nei settori dell'agricoltura, dell'energia, dei trasporti, dello spazio, della difesa, dell'elettronica, della medicina sociale, ecc. Gli Stati che perseguono una politica scientifica generale tendono anche a fare in modo che la ricerca sul piano nazionale non trascuri nessuno dei settori, perché l'equilibrio tra le discipline si mantenga in maniera razionale e l'informazione scientifica sia assicurata. Esiste una reale concorrenza internazionale nella corsa scientifica e tecnologica.

L'orientamento delle politiche scientifiche è naturalmente molto vario da un paese all'altro, ma si constata che la politica RD, in generale, poggia sull'azione di tre organismi: un consiglio o un organo di consultazione; un ministero o un organismo esecutivo; un fondo per il finanziamento dei progetti di ricerca. Se, nell'attuale società, lo Stato arruola in massa ricercatori e studiosi per il servizio della collettività, non si deve credere che gli obbiettivi dell'interesse comune siano percepiti nello stesso modo da una parte e dall'altra.

I rapporti tra la scienza e la politica, infatti, non sono senza tensioni e spesso comportano una vera lotta per il potere. Il fenomeno è stato bene analizzato dall'opera classica Il lavoro intellettuale come professione (1966) di Max Weber, a cui si aggiunge oggi una ricca letteratura.

Gli uomini di Stato, come pure i rappresentanti della scienza, possono essere tentati di confondere il fine con i mezzi. Ora è la scienza che rischia d'essere assoggettata alla ragione di Stato, ora è la classe degli scienziati che vuole utilizzare i mezzi dello Stato per far prevalere punti di vista politici o interessi particolari. La posta in gioco è importante perché il sapere oggi comporta un potere che la scienza non ha mai detenuto in passato. La classe degli scienziati esercita un potere privilegiato sugli organismi dello Stato che pianificano l'avvenire delle nazioni. D'altra parte, lo Stato per le grandi risorse che gli competono può facilmente operare la scelta tra diversi tipi di ricerca secondo un giudizio di priorità sul piano politico. Finora, nei paesi tecnicamente più sviluppati, la priorità è stata concessa a settori strategici come l'energia atomica, l'elettronica, la ricerca spaziale. La politica della scienza negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia, in Italia, in Germania, ha avuto, fino al recente passato, la tendenza a nettamente privilegiare sia le scienze esatte e naturali che la ricerca con finalità utilitarie, militari e industriali.

Nuovi obbiettivi. Da qualche anno, una precisa evoluzione si fa strada: si vede comparire un senso critico più avveduto a proposito delle politiche scientifiche. La complessità dei rapporti tra scienza e politica è percepita meglio. Gli Stati sono ormai più inclini a comprendere l'importanza di una ricerca fondamentale nelle scienze umane e nelle scienze della gestione. Queste questioni sono oggi studiate con una prospettiva più ampia e sono anche oggetto di una ricerca specifica che qualcuno chiama " la scienza della scienza ".

Si possono distinguere due tempi o due generazioni nell'elaborazione delle politiche della ricerca. La prima generazione aveva soprattutto per oggetto la difesa nazionale e l'innovazione industriale. Essa mirava ai progressi tecnici ed economici. La seconda generazione della politica scientifica cerca di superare la prospettiva esclusivamente economica e tecnologica. Essa insiste sulla ricerca in campi come quello della qualità della vita e quello che riguarda gli aspetti sociali e culturali. Si perseguono studi concertati su temi quali l'urbanizzazione, l'ambiente, la sicurezza sociale, il tempo libero, il ruolo della donna nella società. Si stabilisce dunque un vincolo più stretto tra la politica della scienza e i grandi temi della politica culturale e della politica dell'educazione. Questi ultimi sviluppi segnano, almeno a livello delle intenzioni, un progresso nell'orientamento della ricerca, quale è in pratica promossa dagli Stati moderni. Un problema centrale emergerà negli anni futuri ed è quello che riguarda il concetto di scienza definito in rapporto all'insieme del sapere e dei nuovi modi di conoscenza. E il problema detto del " New learning " trattato nella voce Scienza nuova.

Vedi: Politica culturale. Scienza (come istituzione).

Bibl.: J. Blamont 1993. H. Carrier 1972, cap. V; 1982a. P. de Bruyne 1988. Y. Dror 1971. L. Gallino 1983. W. McNeil 1982. P. Papon 1989. L. Rouban 1968. J.J. Salomon 1970. L. Sklair 1973. R. E. Kohler 1991.

 

Scienza (e conoscenza dell'Assoluto). (inizio)

Come lo scienziato si pone di fronte ai valori assoluti ed universali? E significativo constatare che, dopo un lungo periodo dominato dal positivismo, il mondo scientifico è oggi impegnato in un riesame coraggioso dei propri atteggiamenti etici e spirituali. Cercheremo di tracciare questa evoluzione la cui portata culturale è considerevole.

La totalità del sapere. Se consideriamo l'immagine varia degli scienziati e degli eruditi nel corso dei secoli, constatiamo che i maestri intellettuali del passato avevano l'abitudine di interessarsi della totalità del sapere concernente l'universo, gli dei, il sacro, le tradizioni, le scritture, le regole e i codici di comportamento umano. Questa era la condizione delle personalità colte in Egitto, in Mesopotamia, in India, in Cina, in Grecia. Pitagora stesso si diceva rapito dall'armonia del cosmo e dalla " musica delle sfere ". Aristotele scriveva che la " scienza s'interessa del necessario e dell'eterno ": Etica a Nicomaco, VI, 3. Questa convinzione si perpetuò fino al tempo di Cartesio, il quale sosteneva che " non possiamo sapere nulla di certo se non conosciamo in primo luogo che Dio esiste ": Meditazioni metafisiche.

Ma, come si può rilevare dalla storia delle scienze, questa immagine dello scienziato che studia nello stesso tempo l'Universo e il suo Creatore è stata praticamente distrutta nel secolo dell'Illuminismo. Da quel tempo si è venuto pensando che la scienza dovesse dichiarare la propria indipendenza nei confronti della religione, della Scrittura, della teologia, della scolastica e delle tradizioni.

Voltaire, che aveva assistito ai funerali ufficiali di Newton nel 1727, scriveva che questo gigante della scienza aveva avuto " la particolare fortuna, non soltanto d'essere nato in un paese libero, ma in un'età in cui tutti gli spropositi della scolastica erano stati banditi dal mondo. La ragione sola era coltivata e l'umanità non poteva esserne che il discepolo ". Questo giudizio di Voltaire ha molto contribuito ad imporre Newton come il modello tipico dello scienziato dell'Illuminismo. In nome della ragione, le scienze empiriche progredivano ormai senza impedimenti, liberate da ogni interpretazione religiosa dell'universo.

Scientismo riduttivo. Nessuno oggi nega l'opportunità di fare netta distinzione tra il campo delle scienze induttive e quello della riflessione filosofica e teologica. Ma per molti, in nome della ragione pura, la distinzione tra i metodi significò presto opposizione dei campi della conoscenza e i rapporti tra le discipline divennero doloroso divorzio. Rigettando radicalmente la tradizione, la scienza non poté evitare la trappola del criterio riduttivo. Lo scientismo finì col dichiarare che l'unica conoscenza valida è quella che proviene dal metodo induttivo delle scienze naturali. Questo presupposto si applicava anche agli esseri umani e ai loro valori più alti, ai loro ideali, per esempio, all'amore. In tutte le discipline, ed anche nelle scienze umane, s'impose lo stesso riduzionismo come sforzo orientato a spiegare l'origine della cultura intesa come prodotto di determinismi naturali.

Oggi i rappresentanti delle culture tradizionali, coscienti dell'apporto delle scienze moderne, si stupiscono di fronte ad una mentalità tanto limitata da sfociare nella distruzione della capacità umana di conoscere l'universale e di percepire lo spirituale. Nello sfondo del pensiero antropologico occidentale, spesso c'è stato un complesso latente di superiorità ed un antropologismo ottuso. Le grandi culture dell'Oriente sono state generalmente disistimate. Thomas Macauley, uno storico britannico del secolo decimonono, sosteneva che un solo ripiano di una buona biblioteca europea valeva quanto tutta la letteratura nata in India e in Arabia.

Un'opinione corrente considerava lo scienziato come un ricercatore oggettivo che deve rifiutare tutto ciò che non entra direttamente nella sua area di studio, per diventare un osservatore freddo, concentrato sulle proprie astrazioni, insensibile ai giudizi di valore o anche alle conseguenze pratiche delle proprie scoperte. Questo atteggiamento era inculcato come rigoroso ideale per il futuro scienziato.

Lo scienziato e il senso del mistero. Oggi, si è prodotto un mutamento nell'immagine che si ha dello scienziato. La sociologia delle scienze e gli studi sulla psicologia degli scienziati tendono a dimostrare che gli atteggiamenti degli uomini di scienza sono molto più complessi di quanto si supponesse in certi ambienti. La conoscenza delle loro motivazioni e della loro condotta rivela le vere motivazioni che ispirano, in generale, il loro lavoro.

Newton, per esempio, è lungi dall'essere il tipo dell'empirista razionalista, come molti hanno preteso affermando che, in tutta la sua produzione scientifica, trenta pagine appena sono dedicate a riferimenti che riguardano questioni teologiche. Un esame più attento dei suoi manoscritti, resi pubblici dopo il 1936, ha rivelato la parte cospicua dei suoi scritti dedicata al problema di Dio, alla Sacra Scrittura, alle questioni etiche e spirituali. Grazie, infatti, a recenti ricerche su Newton e sui suoi manoscritti, si scopre un uomo molto diverso dallo stereotipo presentato in certi manuali: cf G. Holton, 1977. Si constata, per esempio, che non meno di ottomila pagine dei suoi manoscritti sono dedicati alla religione. Newton, nato nel giorno di Natale, si considerava come scelto da Dio per una particolare missione. Le scienze naturali, egli asseriva, non possono condurci direttamente alla Causa prima e al Creatore, ma esse ce ne avvicinano, per quanto è possibile in questa vita terrena. Attraverso questa filosofia naturalistica dunque, secondo quanto egli scrive, " le frontiere della filosofia morale saranno ampliate ": Optics, Q. 31. Newton ha una viva coscienza della tradizione, sa di quanto sia debitore ai suoi predecessori e questo lo esprime in una famosa frase: " Noi ci reggiamo sulle spalle di giganti e per questo possiamo guardare più lontano ".

Questa visione della scienza, che collega l'osservazione empirica con l'intuizione spirituale, non è andata perduta e molti sono gli esempi che possiamo trovare, tra i migliori rappresentanti della scienza moderna, di scienziati che hanno avuto familiarità con l'umanesimo classico: cf. E. Cantore, 1977. Einstein aveva l'abitudine di ricordare con i suoi compagni di studio l'elenco degli autori che amava leggere e, tra questi, Platone, Spinoza, Hume, Ampère, Poincaré, come i classici greci e francesi. Per Einstein, la scienza non può essere separata dall'arte, né da una esperienza della bellezza e dal mistero della realtà: " La più bella e più profonda esperienza che l'uomo possa fare è quella del senso del mistero. Questo costituisce il fondamento della religione e di ogni ricerca profonda sul piano delle arti e delle scienze. Colui che non ne ha l'esperienza è, mi sembra, se non morto, almeno cieco ".

Scienza e contemplazione. (inizio)

Esperienze simili si ritrovano in molti scienziati famosi come Henri Poincaré, Pasteur, Bohr, Heisenberg, Max Planck. Questi esempi dimostrano che l'immagine dello scienziato come puro razionalista, chiuso in un universo morale limitato, è falsa. Anche se un tipo di scienziato di questo genere è esistito ed ancora esiste, esso è lungi dall'essere l'unico modello.

I più grandi tra loro si rivelano uomini dediti sia a ricerche scientifiche che a questioni di carattere profondamente umano e spirituale. Si potrebbe anche dire che la passione per la scienza è intimamente collegata alla ricerca religiosa, come ha scritto Einstein: " Difficilmente tra i pensatori più profondi nel campo scientifico riuscirete a trovarne uno che non abbia un proprio sentimento religioso... Il suo sentimento religioso assume forma di ammirazione e di contemplazione di fronte all'armonia della natura, che rivela un'intelligenza così superiore che, in paragone, ogni pensiero sistematico o azione umana non è che riflessione totalmente insignificante".

L'atteggiamento religioso di Einstein non è facile da descrivere in poche parole. Pur dichiarandosi agnostico, in una lettera, così completa la propria affermazione: " Io sono un incredulo profondamente religioso ". Ed egli spiega in che senso sia religioso: " Percepire che, dietro di ciò che può essere sperimentato, c'è qualche cosa di nascosto, di inaccessibile all'intelletto, qualcosa la cui bellezza e sublimità non ci raggiunge che indirettamente, come un pallido riflesso - questa è la religiosità. In questo senso, io sono religioso. Mi basta percepire questi misteri con stupore e cercare, umilmente, di formulare con la mia intelligenza una debole rappresentazione della sublime struttura della realtà ": cf E. Cantore, 1977.

Si può anche aggiungere che l'assenza di un simile impegno spirituale e morale può provocare in alcuni scienziati una vera angoscia. Molti di loro, che praticamente non sono riusciti a vedere nulla di valido al difuori delle scienze sperimentali, sono giunti a scoprire la fragilità intellettuale risultante dal loro presupposto: si sono trovati di fronte al timore che la scienza diventasse il tiranno dell'umanità e che la potenza del sapere distruggesse il potere dell'amore. Bertrand Russel esprime bene questo sentimento: " La società scientifica dell'avvenire, quale possiamo immaginarla, sarà una società in cui l'impulso del potere avrà completamente soggiogato l'impulso dell'amore e in ciò è la sorgente psicologica delle crudeltà ch'essa rischia di produrre ": The Scientific Outlook, New York, Norton, 1959.

Coscientizzazione spirituale ed etica. La coscientizzazione morale degli scienziati è il frutto di una progressiva maturazione delle menti, ma è stata anche suscitata da elementi drammatici che stanno a dimostrare il potenziale distruttore della scienza nelle sue applicazioni tecniche. Oggi l'opinione pubblica, su scala mondiale, interpella inesorabilmente il settore della scienza. Come è possibile che scienziati onesti possano pretendere d'ignorare l'impatto che le loro invenzioni e le loro tecniche hanno sulla vita e sulla sicurezza di intere popolazioni, sull'integrità della natura, sull'equilibrio biologico e psicologico degli esseri umani? Nessuno può sfuggire alla dura e dolorosa sfida che rappresentano il nostro avvenire e la nostra sopravvivenza.

Numerose e prestigiose associazioni di scienziati, in tutte le discipline, pongono oggi i problemi etici nella prima pagina della loro agenda. Si tratta di problemi fondamentali, quali la vita, la morte, la pace, l'ecologia, lo sviluppo, i bisogni elementari biologici, culturali, spirituali. Questi gravi interrogativi stanno diventando preoccupazione per ogni uomo e per ogni donna di buona volontà, compresi gli stessi scienziati.

Se gli scienziati oggi sembrano essere meno impegnati di un tempo in discussioni filosofiche riguardo al pensiero dell'empirismo e del razionalismo, essi sono, però, molto interessati ad un altro campo filosofico, quello dell'etica. Come al tempo di Socrate e dei pensatori del secolo decimosettimo, molti sono i problemi in discussione riguardo ai rapporti tra scienza e progresso spirituale.

Un patto etico. Non stiamo forse assistendo all'emergere di una forma di convenzione etica che interviene tra la scienza e la società? Di fatto, le innovazioni scientifiche hanno contribuito all'unione della famiglia umana migliorando le comunicazioni, i trasporti, la mobiltà, gli scambi economici e culturali tra tutti i popoli. Come conseguenza, l'Umanità diventa sempre più consapevole della propria unità, dei propri diritti, delle proprie aspirazioni, delle proprie comuni responsabilità, e analogamente, si sente giustificata di interpellare la coscienza di esperti.

D'altra parte, sempre più numerosi scienziati e ricercatori sono stati resi sensibili riguardo al servizio dovuto alla famiglia umana ch'essi hanno collaborato a riunire. Un dialogo illuminato tra il settore scientifico e il pubblico merita d'essere incoraggiato come nuova dimensione della cultura moderna.

Tutti siamo consapevoli che, per la prima volta nella storia, l'essere umano, su piano universale, è diventato problematico nei confronti di se stesso: il senso della vita si pone drammaticamente alla coscienza di tutti, poiché ogni vita umana e ogni cultura potrebbero essere cancellate dalla faccia della terra per decisione di uno di noi, capace di innescare un olocausto nucleare.

Desideriamo tutti rigettare e rifiutare questa fatale eventualità, non osando credere alle parole di Claude Lévi-Strauss: " Il mondo è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui ". Mai, in passato, abbiamo così chiaramente compreso come ora che la nostra sorte futura dipende dalla nostra comune cooperazione morale. La saggezza soltanto potrà salvarci. La scienza, diventata la nuova e vera ricchezza delle nazioni, deve ora diventare un'alleata a servizio di questo orientamento umanistico circa il nostro avvenire e la nostra crescita.

Verso un umanesimo interculturale. Un nuovo umanesimo viene esprimendosi con la ridefinizione degli approcci intellettuali alla realtà. Questo nuovo umanesimo difende alcuni principi di base capaci di fondare le sintesi dell'avvenire: la specializzazione può essere conciliata con l'interesse per i problemi globali; la ricerca sperimentale non è in contraddizione con gli obbiettivi etici; l'astrazione scientifica non elimina la compassione; l'identificazione con la propria cultura non separa dalle altre civiltà.

Questo ultimo punto merita particolare attenzione. Mi riferisco ai recenti e promettenti sforzi che mirano a superare le prospettive etnocentriche di troppi specialisti occidentali. Molti tra essi stanno riscoprendo, con interesse e ammirazione, a che punto la scienza e la tecnologia occidentali siano debitrici delle civiltà orientali. Per esempio, una conferenza internazionale tenuta a Venezia nel marzo 1986, i cui risultati sono stati pubblicati dall'UNESCO, ha molto efficacemente illustrato il debito che la scienza occidentale ha nei confronti del Sud asiatico, dell'India, della Cina, dell'Arabia, della Persia.

L'influenza culturale e scientifica di questi paesi sull'Occidente è ora chiaramente dimostrata in molti campi del sapere: medicina, architettura, navigazione, aritmetica, algebra, trigonometria, astronomia, tassonomia, botanica, chimica, fisica, metallurgia, come pure nei principali campi delle scienze umane, del diritto, della psicologia, della pedagogia, della filosofia. Platone, Pitagora, Parmenide, ora lo si riconosce, sono stati direttamente e indirettamente influenzati dalle culture dell'India. Attraverso la Grecia e Roma, gli Europei sono entrati in contatto con il contributo degli Arabi, del Sud asiatico, della Cina. Come scherzosamente osserva Donald Lach, quando Matteo Ricci e i Gesuiti arrivarono in Cina nel secolo decimosettimo, portando con loro le conoscenze dell'Occidente, la loro scienza includeva l'aritmetica, l'algebra, la trigonometria, che erano state ampiamente ispirate dall'India, come pure l'astronomia e la cosmologia che provenivano da tradizioni indiane, cinesi e arabe: cf D. J. Lach, 1977.

Il dialogo ora impegnato tra scienziati dell'Est e dell'Ovest, offre una promessa di reciproca crescita. Un'ottica intellettuale nuova potrà esserne il risultato riguardo al passato e al futuro della scienza. Saremo tutti incoraggiati a comprendere e promuovere l'apporto degli scienziati dell'Asia e dell'Africa.

Ci si chiede come gli scienziati delle nazioni che stanno emergendo possano, nel loro paese, manovrare le forti esigenze della scienza e della tecnologia evitando i sottoprodotti che si constatano in Occidente quali: forme d'industrializzazione e di urbanizzazione che decadono nel materialismo, l'edonismo, la distruzione dell'ambiente naturale e culturale. Ci si chiede anche come sarà loro possibile coltivare la scienza moderna e, contemporaneamente, apportare alla comunità scientifica il patrimonio umanistico della loro cultura.

Di fronte a queste nuove prospettive, la scienza è ora percepita come operazione includendo l'impegno per l'etica, per il servizio e per la comprensione interculturale. La mentalità interdisciplinare dovrà aiutarci a guardare le scienze moderne come altrettante vie verso la conoscenza di tutte le realtà materiali ed immateriali, verso la contemplazione di ogni verità ed ogni bellezza.

Scienza e sapere religioso.

Si va sviluppando un nuovo sforzo di comprensione tra scienziati e pensatori religiosi, che culmina in una mutua comprensione dei propri metodi e dei propri modi di conoscenza. I responsabili dell'ambito religioso vedono oggi con maggiore chiarezza che i Libri Sacri e le tradizioni sacre non offrivano conoscenze scientifiche riguardo alla costituzione materiale dell'universo o alla sua struttura astronomica. Gli scienziati, dal canto loro, comprendono meglio che nel passato essi avevano spesso rigettato, non soltanto le antiche cosmogonie religiose, ma con esse anche il messaggio universale di sapienza contenuto nelle tradizioni e nella Sacra Scrittura. Pasteur usava dire: " Un po' di scienza ci allontana da Dio, molta scienza ci avvicina a Dio ".

Scienziati molto noti - John Eccles, H. Morowitz, F. Northrop, Henry Margenau e molti altri - mettono oggi in causa le leggi del determinismo come spiegazione ultima della costituzione fisica della realtà e della struttura biologica. I fattori che presiedono all'ordine e producono le regolarità fisiche e biologiche sembra postulino l'esistenza di una Intelligenza universale e di una Coscienza trascendente. Pur nel rispetto della distinzione dei metodi, molti tra gli scienziati giungono a pensare che gli interrogativi più profondi concernenti il mistero della natura non sono tanto lontani dalla riflessione dei teologi a proposito della creazione. Per esempio, H. Margenau, professore di fisica e di filosofia naturale alla Yale University, offre, a questo proposito, una sintesi originale sul pensiero scientifico e religioso: The Miracle of Existence, Woodbridge, Conn. Ox Bow Press, 1984.

Rivolgendosi agli scienziati e agli studenti dell'Università delle Nazioni Unite, riuniti a Hiroshima il 25 febbraio 1981, Giovanni Paolo II, ha sottolineato il bisogno di cooperazione tra la scienza razionale e la conoscenza religiosa: " Voi che vi dedicate alle scienze, non siete forse invitati a studiare il legame che è necessario stabilire fra la conoscenza scientifica e tecnologica, e la conoscenza morale dell'uomo? Conoscenza e virtù furono coltivate insieme dagli antichi, in Oriente come in Occidente. Anche oggi, lo so bene, molti studiosi, anche se non tutti professano una religione particolare, sono alla ricerca di un'integrazione fra la loro scienza e il loro desiderio di servire l'uomo nella sua interezza. Essi costituiscono una grande famiglia spirituale, uniti da comuni atteggiamenti quali la loro onestà intellettuale, la loro auto-disciplina in quanto studiosi, e la loro obiettività e rispetto davanti ai misteri dell'universo. Tutti quelli che generosamente applicano le loro conoscenze al progresso dei popoli e tutti quelli che hanno fede nella vocazione spirituale dell'uomo sono invitati a svolgere un compito comune: costituire una vera scienza per lo sviluppo integrale dell'uomo ": Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IV1, 1981, pp. 548-549.

Vedi: Scienza e fede, Religione e cultura.

Bibl.: E. Cantore 1977. H. Carrier 1990a. G. Holton 1979. J. Ladrière 1977.

 

Scienza nuova (New Learning). (inizio)

Dalla fine del secolo XIX, si è attuata una rivoluzione nel modo di apprendere, di scoprire, di comunicare il sapere. Si è chiamato New Learning questo modo radicalmente nuovo di percepire il mondo, di interpretarlo e di comprendere l'uomo nel suo rapporto con l'universo materiale o culturale. Una pedagogia secolare è stata lentamente soppiantata da un nuovo processo della conoscenza. Si percepisce chiaramente il contrasto, quando si paragonano i metodi d'insegnamento o di ricerca anteriori al XIX secolo con i modi di conoscenza di oggi. Poniamo in parallelo le due pedagogie che, per semplificazione, chiameremo la pedagogia classica e il metodo del New Learning.

Secondo la tradizione classica, il metodo di conoscenza si articola intorno ad alcune costanti che si riferiscono allo stato stesso delle scienze e alla mentalità del soggetto che conosce. Teniamo presenti, tra gli altri, i seguenti punti: 1) Le conoscenze nella tradizione classica tendevano ad integrarsi in sintesi trasmissibili in quanto tali, che si chiamavano trattati, somme, digesti, codici. Le discipline erano certo distinte, ma collegate tra loro in sintesi interpretative dell'universo visibile ed invisibile; 2) Le conoscenze progredivano, ma ad un ritmo quasi impercettibile, ed era soprattutto notevole la loro stabilità. Grazie all'opera dei grandi autori, la codificazione del sapere rivestiva un carattere quasi definitivo, al punto che l'insegnamento si faceva soprattutto attraverso lo studio dei testi dei grandi scrittori del passato; 3) L'analisi logica e concettuale costituiva lo strumento per eccellenza della conoscenza. L'osservazione sperimentale rimaneva globale e descrittiva, la conoscenza storica fortemente limitata. La ricerca si orientava verso lo studio della natura delle cose. S'indugiava sulle loro cause ultime e sulle loro finalità. La filosofia e la teologia coronavano l'insieme delle conoscenze. Si può dire che la ricerca era, nei suoi fini ultimi, ispirata da motivazioni metafisiche e religiose; 4) La diffusione del sapere era lenta e limitata ad una piccola élite. Era il maestro che costituiva la sorgente principale della trasmissione del sapere; era chiamato lector chi leggeva il suo testo. Poche erano le biblioteche e pochissimi i laboratori o i centri di ricerca accessibili. Il sapere rivestiva naturalmente un aspetto aristocratico.

Gli attuali modi di conoscenza presentano forti contrasti nei confronti dei metodi classici. Non si tratta tanto di un rifiuto del sapere di un tempo, quanto di fatti quali il cumulo delle scoperte ed i nuovi metodi di ricerca che hanno tolto valore alle sintesi e scosso il vecchio sogno di riunire, in trattati ordinati, la somma delle conoscenze umane.

Riprendiamo i termini del nostro paragone per vedere in che cosa si distingua il New Learning.

Sia il contenuto che il processo della conoscenza sono stati profondamente modificati: 1) Il tratto più eminente del New Learning è il suo carattere cumulativo. Il nuovo tipo d'informazione è caratterizzato dalla crescita ad un ritmo sempre più accelerato. Le scienze sono a tal punto ripartite in distinzioni specifiche che quasi si stenta a comprendersi tra specialisti della stessa disciplina. La rapida estensione delle ricerche, anche in campi molto ristretti, rende caduca ed effimera l'elaborazione di sintesi o di somme di conoscenza; 2) Le scoperte della scienza moderna, inoltre, si presentano col carattere della provvisorietà, cioè come tappe o successioni di approssimazioni nella conoscenza della realtà. E soltanto col tempo e con la convergenza delle ricerche che può essere confermato il carattere durevole o precario delle scoperte. Se era tipico della pedagogia classica il trattato, oggi l'età della nuova scienza si caratterizza con la proliferazione di articoli specialistici e di memorie scientifiche; 3) Anche il New Learning utilizza strumenti concettuali, ma preferisce fare ricorso a descrizioni di carattere operativo piuttosto che a definizioni di carattere formale. Si dà preferibilmente importanza alle relazioni di concomitanza e alle correlazioni funzionali tra i dati osservati. I fenomeni naturali e l'essere umano stesso sono considerati meno come sostanze che come processi. L'analisi sequenziale e il punto di vista storico hanno dato ad ogni forma di conoscenza un aspetto di carattere progressivo e prospettico; 4) La trasmissione del sapere, nell'attuale società, è praticamente istantanea ed universale. Non esistono quasi più frontiere tra i paesi e tra i ricercatori. Ogni nuova scoperta è subito portata a conoscenza del mondo intero. Esistono, certo, dei segreti che rimangono accuratamente custoditi, soprattutto nel campo della difesa e della produzione industriale, ma il sapere in sé non è più riservato ai pochi discepoli di qualche maestro. Le biblioteche e tutte le risorse dell'informazione moderna mettono virtualmente la totalità del sapere a disposizione di tutti. L'aristocrazia del sapere non è più fondata sulla condizione sociale di poche persone privilegiate. La democratizzazione della conoscenza è un fatto compiuto, anche se ancora rimangono classi culturalmente sfavorite e categorie di scienziati che hanno difficoltà a comunicare tra loro o col pubblico, proprio a causa della super-specializzazione delle loro ricerche.

Da quanto siamo venuti dicendo emerge che la rivoluzione culturale in questione riguarda i concetti stessi di scienza e di sapere. C'è chi si chiede se il concetto tradizionale di scienza sia ancora valido. La scienza moderna offre non tanto una risposta definitiva, quanto un approccio, cioè un metodo di graduale percezione e di interpretazione sempre da perfezionare.

Citiamo alcuni esempi. Abbiamo detto che oggi le discipline non vengono presentate come le scienze nel passato sotto forma di corpus, di trattato sistematico. Non si mira tanto alla sintesi di proposizioni definitive, quanto ad un metodo di approccio, ad approssimazioni e valutazioni, a verifiche e a proggressive conferme. E un modo di analisi progressivo e di spiegazioni dei fenomeni attraverso prove e contro-prove. Si potrà dire che queste osservazioni si applicano soltanto alle scienze sperimentali e che non toccano le scienze dell'interpretazione o le scienze morali nel senso in cui le intendeva Dilthey. Ma oggi si constata che tutte le discipline, anche la filosofia, la critica letteraria, la storia, la sociologia hanno adottato la metodologia delle scienze moderne. L'uso della ricerca interdisciplinare, l'analisi dei testi, come anche l'analisi culturale, il moltiplicarsi di monografie su argomenti sempre più specifici, hanno dato a tutte le discipline un carattere mobile e sempre aperto a nuove scoperte.

Le osservazioni che abbiamo fatto non sono ispirate da relativismo culturale e non intendono, in alcun modo, menomare l'oggettività del sapere umano. Ogni disciplina rimane fedele metodologicamente ai propri dati d'origine e all'universo che intende esplorare con fedeltà. Ciò che semplicemente si è voluto sottolineare è il carattere dinamico ed aperto che ha acquisito il nostro modo di conoscere. Il concetto moderno di scienza, che guida la multiforme ricerca nelle nostre società, pone l'accento sulle intrinseche esigenze della ricerca stessa che rimane sempre aperta alla novità ed è chiamata a progressivi superamenti per il suo stesso interiore dinamismo. L'uomo moderno è sempre insoddisfatto delle sue ultime scoperte.

Diverse connotazioni culturali di queste evoluzioni sono da porre in rilievo: 1) La scuola e l'università non sono più soltanto serbatoi di conoscenza e di sapienza umane. Esse sono piuttosto centri che perseguono l'acquisizione di un sapere sempre più esteso, destinato soprattutto a provocare un incessante cambiamento nei campi tecnico, sociale e culturale. 2) Gli insegnamenti dispensati ad una generazione di studenti saranno già in parte superati quando questi giovani lasceranno l'università. Di qui la necessità dell'educazione permanente che, tenendo conto della vertiginosa evoluzione nel campo delle scienze, mira a riciclare costantemente gli adulti seguendo i progressi delle conoscenze. L'educazione e l'insegnamento, in altri termini, non sono più riservati esclusivamente ai giovani. 3) La pedagogia si orienta più verso insegnamenti di carattere monografico che verso corsi sistematici o verso sintesi di carattere formale. I programmi di studio diventano un insieme di corsi, spesso giustapposti, che offrono agli studenti informazioni globali su date discipline, ma soprattutto un metodo di scoperta e di critica applicabili ad ulteriori ricerche. La distinzione tradizionale tra insegnamento e ricerca tende ad annullarsi. 4) Il rapporto del maestro con lo studente, che era un cardine della pedagogia classica, non sussiste quasi più nella sua forma tradizionale. L'avvento dell'università di massa, come la continua specializzazione delle conoscenze, hanno portato ad una spersonalizzazione del maestro. Questi conosce poco gli studenti che frequentano il suo corso e i programmi di carattere elettivo degli studenti portano questi a circolare liberamente da un'aula all'altra sottraendoli così all'influenza preponderante di un particolare professore. Questa spersonalizzazione dell'insegnamento sta prendendo un'insospettata dimensione per l'introduzione della tecnologia pedagogica e l'uso delle macchine per l'insegnamento. 5) La diffrazione delle conoscenze e la scomparsa delle sintesi cognitive del passato si accompagnano, come si constata in molte università, ad un rinnovamento della ricerca sul significato stesso del progresso scientifico e sul destino dell'uomo. Il carattere spesso provvisorio e parcellare della conoscenza scientifica porta le nuove generazioni a cercare, al di là del frazionamento delle informazioni e delle analisi, una sapienza che li orienti e dia loro una ragione di vivere.

Il New Learning, in un primo tempo, può sedurre le menti. Esso ha un ruolo decisivo nella società moderna e si può prevedere che i suoi metodi si specializzeranno ulteriormente. Ma un'altra esigenza culturale continuerà ad affermarsi come esigenza fondamentale: lo spirito umano aspirerà sempre a conoscere gli insiemi, a cogliere l'assoluto, a raggiungere la sapienza. La scienza moderna, mentre s'interroga su se stessa, pone il problema del senso dell'uomo. Il modello sperimentale ed utilitaristico della scienza chiede, allora, d'essere superato.

Vedi: Scienza (e fede). Educazione. Società post-industriale. Università.

Bibl.: H. Carrier 1987, cap. II; 1985, cap. II. L. Gallino 1983. A. G. Haudricourt 1988. G. Holton 1993. J. Ladrière 1977. F. Marton et al. 1984. C. P. Snow 1959, 1969, 1977. B. Mazlisch 1989.

 

Scienza (e Fede). (inizio)

I rapporti tra la scienza e la fede non sono stati sempre facili. Come ha ricordato il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha largamente contribuito al progresso della cultura, ma, per ragioni storiche, " l'accordo fra la cultura e la formazione cristiana non si realizza sempre senza difficoltà ": GS, 62.

E nel secolo scorso che la tensione si è fatta più viva, quando il liberalismo e il positivismo hanno attaccato le posizioni tradizionali della Chiesa.

In nome delle nuove scienze e delle nuove filosofie, Leone XIII ha raccolto questa sfida ed ha dimostrato, a più riprese, che queste calunnie erano in grave contraddizione con il vero atteggiamento della Chiesa nei confronti della scienza, della ricerca, della filosofia. La Chiesa, diceva il papa, accoglie con gioia tutto ciò che allarga il campo della scienza, tutto ciò che permette di esplorare meglio la natura, tutto ciò che contribuisce a migliorare la condizione umana. Non ci può essere contraddizione tra ciò che la scienza scopre di vero e le verità rivelate, poiché ogni verità procede da Dio: Immortale Dei, 1885.

E il principio fondamentale che il Vaticano II ha riaffermato con chiarezza ottanta anni più tardi. Le tensioni tra la Chiesa docente e i rappresentanti più qualificati della scienza si attenuarono a poco a poco, proprio a causa della riforma intellettuale che Leone XIII, Pio XI e, più tardi, Pio XII e Paolo VI hanno suscitato, manifestando così l'interesse quasi connaturale della Chiesa nei confronti del progresso scientifico, caratteristica tra le più significative della cultura moderna. Pio XI ebbe il grande merito d'instaurare una profonda riforma delle facoltà ecclesiastiche, che incoraggiò lo studio delle scienze esatte e delle scienze umane. Nel 1937, egli inaugurò la nuova Pontificia Accademia delle Scienze. Pio XII, da parte sua, diede al mondo intero, nel suo lungo pontificato, una chiara testimonianza dell'interesse della Santa Sede per tutte le scienze, accogliendo moltissime delegazioni di specialisti e di esperti di tutte le discipline. Paolo VI egualmente si mostrò molto attento al mondo delle scienze, della cultura e dell'arte. E facile osservarlo nei suoi numerosi discorsi e nei documenti più importanti, quali la Popularum Progressio (1967), in cui il ruolo della scienza e della tecnica è fortemente sottolineato, e nell'Octogesima Adveniens (1971), in cui la funzione delle scienze umane è analizzata con grande penetrazione.

Nuovo dialogo. Si può dire che nell'epoca moderna un cambiamento si è prodotto nelle relazioni tra il mondo scientifico e la Chiesa. Un nuovo tipo di dialogo si è andato instaurando tra la Chiesa e il mondo scientifico. Il Concilio Vaticano II ne è chiara testimonianza; la Gaudium et Spes, per esempio, insegna che le realtà terrene hanno le loro leggi e i loro valori propri ed è conveniente affermare che la loro " esigenza di autonomia è pienamente legittima ". Ed aggiunge che questa autonomia corrisponde alla volontà del Creatore, che ha fatto tutte le cose secondo la loro propria consistenza, il loro proprio ordine e le loro proprie leggi. Bisogna dunque rispettare tutto questo e " riconoscere i metodi particolari di ciascuna delle scienze e delle tecniche ". Nessun atteggiamento di timore deve sussistere, come se la ricerca scientifica potesse minacciare la fede o la morale. Il Concilio va anche oltre e deplora le paure ingiustificate di certi cattolici nei confronti della scienza. Il Vaticano II approfondisce la questione ammettendo che le ricerche più recenti possono porre nuovi problemi per la fede stessa. Ma questo esige indagini originali da parte dei teologi: GS, 36, 62.

E un evento di vasta portata culturale l'attuale avvicinamento tra il mondo scientifico e la Chiesa cattolica. Ricevendo un folto gruppo di premi Nobel, Giovanni Paolo II diceva loro, il 9 maggio 1983: " La vostra presenza assume ai miei occhi un valore altamente simbolico, perché voi testimoniate che tra la Chiesa e la scienza un dialogo fecondo sta approfondendosi ".

Caso Galileo. L'attuale atteggiamento della Chiesa di fronte alla scienza è stato chiaramente illustrato dalla recente revisione del caso Galileo che per secoli è stato citato come prova della così detta intolleranza scientifica dei cattolici.

L'11 novembre 1979 Giovanni Paolo II parlando alla Pontificia Accademia delle Scienze chiese che il dibattito storico su Galileo fosse riaperto con la massima oggettività e franchezza, che i teologi, gli scienziati e gli storici riesaminassero il caso Galileo " nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano ".

Nel 1981 si costituì una commissione interdisciplinare per studiare l'intera questione; questa presentò al Papa il 31 ottobre 1992 la sua relazione in una solenne sessione della Pontificia Accademia delle Scienze.

Il Papa espose, in quell'occasione, importanti argomenti per precisare la posizione della Chiesa riconoscendo che, in conseguenza del caso Galileo, si erano venute sviluppando delle gravi incomprensioni tra la Chiesa e il mondo della scienza. " Una tragica reciproca incomprensione è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva tra scienza e fede. Le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso malinteso appartiene ormai al passato " (L'Osservatore Romano, 1o novembre 1992).

La Chiesa, da parte sua, ha percepito meglio, grazie ad una forma di maturazione e di purificazione intellettuale, la distinzione che esiste tra le teorie scientifiche e la rivelazione. Nella Bibbia non s'incontra alcuna teoria astronomica e non si può invocare lo Spirito Santo per garantire una spiegazione che riguarda la costituzione fisica della realtà. La Chiesa, come qualunque istituzione storica, è stata solidale di un'epoca culturale e dei suoi condizionamenti. Il papa riconosce l'errore d'interpretazione che si commise in quell'epoca: " La maggioranza dei teologi non percepiva la distinzione formale tra la Sacra Scrittura e la sua interpretazione; il che li condusse a trasporre indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica " (ibid).

Galileo sofferse molto in questo frangente. La teoria copernicana, che sosteneva con argomenti, che tuttavia non erano decisivi nelle loro dimostrazioni, finì per imporsi sul terreno scientifico soltanto quando i suoi successori scoprirono argomenti conclusivi tratti dalla meccanica, dall'ottica e da calcoli matematici.

Galileo, nel suo tempo, non ha potuto offrire la conferma della teoria copernicana per mezzo di prove che fossero irrefutabili. Il metodo sperimentale esigeva ch'egli si limitasse a presentare la sua posizione come un'ipotesi e non come una tesi, così come aveva compreso prudentemente Copernico. Gli scienziati che riconoscono il genio di Galileo e il merito delle sue importanti investigazioni percepiscono anche meglio attualmente i limiti della sua metodologia e l'insufficienza delle sue dimostrazioni empiriche a conferma della teoria di Copernico.

Il mondo scientifico, d'altra parte, si è anche venuto maturando ed ha riportato tutta l'argomentazione nel contesto culturale di questa epoca, ha precisato la critica dei propri metodi ed ha riconsiderato i propri obbiettivi e le proprie grandi responsabilità di fronte al mondo moderno. Oggi si avverte una maggiore responsabilità degli scienziati nei confronti dei valori dello spirito e della morale, ciò che apporterà alle loro discipline una dimensione nuova e una nuova apertura verso l'universale. Le ricerche in corso sull'emergere della complessità e sull'integrazione dei diversi rami del sapere dovrebbero favorire una collaborazione più stretta tra gli scienziati e i teologi, al servizio della totale verità.

Il papa guardando al futuro ha chiesto ai teologi: E un dovere per i teologi " tenersi regolarmente informati sulle acquisizioni scientifiche per esaminare, all'occorrenza, se è il caso o meno di tenerne conto nella loro riflessione o di operare delle revisioni nel loro insegnamento " (ibid).

Più di una volta il papa ha lanciato invito agli scienziati perché collaborino. Nel 1983 ha trattato il caso Galileo di fronte ad un gruppo di premi Nobel sottolineando le conseguenze positive di questa disgraziata controversia: " La Chiesa e la scienza stessa trarranno profitto da questo, scoprendo con la riflessione e l'esperienza, a volte dolorosa, quali siano le vie che portano alla verità e alla conoscenza oggettiva ". E aggiungeva: " Che non si ponga alcun limite alla nostra comune ricerca del sapere!... Lasciate che l'inclinazione del vostro spirito vi porti verso l'universale e l'assoluto. Più che mai il nostro mondo ha bisogno d'intelligenze atte ad abbracciare gli insiemi e a far progredire il sapere verso una conoscenza umanizzata e verso la sapienza " (L'Osservatore Romano, 9 maggio 1983).

L'attuale posizione della Chiesa riguardo alla famosa controversia tolomeo-copernicana ha avuto una sua grande chiarificazione in occasione del 450o anniversario della morte di Copernico e della pubblicazione del suo celebre trattato De revolutionibus orbium coelestium. In una lettera del 20 settembre 1993 al rettore dell'Università di Ferrara, dove Copernico conseguì il dottorato in diritto canonico, Giovanni Paolo II dà testimonianza di apprezzamento per l'autore di una delle più famose rivoluzioni scientifiche di tutti i tempi.

Copernico aveva compreso che il fatto di situare la terra al centro dei movimenti celesti costituiva un errore matematico, ma non riuscì a dimostrarlo con prove irrefutabili. Ciò nonostante, seguitò a sostenere con convinzione la teoria eliocentrica cercando di confermarla, benché senza esito. Per questo egli non volle pubblicarla come tesi definitiva a differenza di Galileo. Fu soltanto alla fine della sua vita, nel 1543, che i suoi discepoli pubblicarono il famoso trattato del maestro presentando la sua scoperta come ipotesi. Il papa sottolinea il valore dello scienziato che tentò di armonizzare la libertà del ricercatore con la fedeltà alla Chiesa. Copernico sapeva che la maggior parte dei teologi cattolici e protestanti del suo tempo rifiutavano la teoria eliocentrica come inconciliabile con la Bibbia, però continuò ad avanzare nelle sue ricerche con tutta lealtà e Giovanni Paolo II aggiunge: " Per la sua prodigiosa erudizione e la sua forza morale, Copernico incarna l'immagine dell'umanista prudente e audace, sempre preoccupato di conciliare l'insegnamento del passato con l'esplorazione valida delle nuove frontiere della scienza. Personalità eminente della scienza e della fede non pose limiti alla conoscenza della realtà e della verità. Rimanendo fedele al metodo scientifico più rigoroso, seppe situare le sue osservazioni in un ambito conoscitivo che includeva sia la filosofia che la teologia e quella conoscenza del creato che gli sembrava stesse nella linea della contemplazione del Creatore. Copernico ricorda ai nostri contemporanei che la grandezza del sapere ha la sua base in una disciplina intellettuale e in una forza spirituale capaci di motivare una vita tutta dedita allo studio e al servizio dei fratelli. Per questa ragione merita il nostro rispetto e la nostra gratitudine " (Lettera al rettore dell'Università di Ferrara, 20 settembre 1993. Bollettino Sala Stampa della S. Sede, n. 433, 19 ottobre 1993).

L'intervento del papa nella revisione della controversia tolomeo-copernicana equivale al riconoscimento ufficiale, da parte della Chiesa, delle conclusioni a cui sono giunti la storia delle scienze e il progresso dell'esegesi per distinte vie. Gli scienziati e i teologi moderni, illuminati da questa eccezionale esperienza, troveranno per il futuro nella risoluzione di questo dibattito storico uno stimolo per approfondire il dialogo nella collaborazione interdisciplinare.

Legittimazione della scienza. La Chiesa non è insensibile alla crisi della cultura scientifica. La scienza oggi rischia di corrompersi e di diventare uno strumento tecnico di dominazione o di manipolazione per fini economici e politici. Esiste una crisi di legittimazione della scienza. Questa entra in crisi quando la si riduce ad un modello puramente funzionale o utilitario. La scienza, che dovrebbe occuparsi della verità e del servizio all'uomo, rischia di ritorcersi contro gli stessi esseri umani. Ciò spiega la virulenza delle correnti antiscientifiche ed antintellettualistiche che nascondono anch'esse dei rischi propri, quali l'irrazionalismo, il nichilismo, i comportamenti istintivi. Di qui l'urgenza di difendere una scienza autentica, aperta al problema del significato dell'uomo e alla ricerca della verità integrale. La Chiesa non esita a farsi l'avvocata della scienza nel nome stesso della libertà di conoscere. Essa ricorda i problemi fondamentali che si pongono all'uomo di scienza: quali sono il ruolo e il fine della scienza? Riconosciamo che la scienza da sola " non è in grado di rispondere al problema del significato ". La cultura tecnico-scientifica è in crisi perché ha dimenticato l'uomo nella sua totalità, ha trascurato il valore primario, che è la ricerca della verità. Pur nel rispetto delle esigenze metodologiche dell'astrazione e dell'analisi specialistica, non bisogna mai trascurare l'orientamento unitario del sapere. E soltanto in questo modo che si potrà superare la crisi della legittimazione della scienza: " Una scienza libera, dipendente unicamente dalla verità, non si lascia ridurre ai modelli del funzionalismo o ad altri modelli di questo genere, che limitino il campo conoscitivo della razionalità scientifica ". Giovanni Paolo II notava il paradosso: stiamo assistendo ad un vero rovesciamento della situazione ed è la Chiesa, un tempo accusata di oscurantismo, che ora si fa avvocato della scienza, della ragione, della libertà di ricerca: " Nel passato ci sono stati precursori della scienza moderna che hanno combattuto la Chiesa in nome della ragione, della libertà e del progresso. Oggi, di fronte alla crisi di significato che colpisce la scienza, alle molteplici minacce che assediano la libertà e al carattere problematico del progresso, i fronti della lotta si sono invertiti " (cf discorso a Colonia, 15 novembre 1980). E la Chiesa che ora difende la ragione e la legittimità di una scienza autentica.

Responsabilità morale. E per una ragione fondamentale che la Chiesa difende la scienza moderna, malgrado le occasionali deviazioni di cui può essere oggetto. Esiste un vincolo connaturale tra la scienza e la Chiesa. Per un autentico servizio all'uomo, scienza ed etica si richiamano a vicenda.

La Chiesa ha un interesse particolare riguardo alla responsabilità morale degli scienziati. Nel nostro tempo, la scienza è diventata un'istituzione che, nei paesi moderni, costituisce ciò che è chiamato il settore scientifico, vero potere capace di meravigliose realizzazioni, ma anche di opere di morte. In questa prospettiva, gli scienziati assumono una nuova responsabilità: l'avvenire delle nostre società e dell'intera umanità dipende dal loro atteggiamento morale. Giovanni Paolo II agli universitari spagnoli (3 novembre 1982) ha detto: " Uomini e donne che rappresentate la scienza e la cultura: il vostro potere morale è enorme! Voi potete fare in modo che il settore scientifico serva prima di tutto alla cultura dell'uomo e che mai si possa pervertire ad essere utilizzato per la sua distruzione ".

Un fatto culturale ed etico gravido di promesse nel mondo moderno è l'emergere di una comunità scientifica mondiale cosciente delle proprie responsabilità e del proprio potere morale. La collaborazione tra gli scienziati di tutto il mondo ha permesso di realizzare scoperte che sono state estremamente positive per il progresso dell'umanità intera, che suscitano la nostra ammirazione quali: la lotta contro le malattie e le epidemie, le scoperte di nuove fonti di alimentazione, l'intensificazione delle comunicazioni, la difesa dalle catastrofi naturali. Gli scienziati, tuttavia, devono essere vigilanti perché il loro potere non venga sfruttato contro il bene dell'umanità. La Chiesa fa appello a tutti gli scienziati del mondo perché resistano all'utilizzazione della scienza per scopi militari di aggressione o di distruzione. Tutti gli scienziati dovrebbero essere uniti in questo rifiuto della morte, al fine di disarmare la scienza e trasformarla in uno strumento di pace. L'uomo di scienza può essere paragonato al medico che fa giuramento d'impegnare tutte le proprie energie per guarire gli ammalati. La comunità scientifica internazionale, d'altra parte, non può essere assoggettata al dominio di qualche potenza o nazione: " Non basta che sia scomparso il colonialismo politico, occorre anche che cessi ogni forma di colonialismo scientifico e tecnologico ". La Chiesa si rallegra di poter dialogare con scienziati appartenenti a tutte le nazioni del mondo, senza distinzione di razza o di religione.

Promozione della ricerca. L'interesse particolare della Chiesa per la ricerca scientifica ha i suoi segni visibili nel sostegno che la Santa Sede prodiga a importanti centri di ricerca quali l'Osservatorio astronomico del Vaticano (la Specola Vaticana) e la Pontificia Accademia delle Scienze. Quest'ultima comprende ottanta accademici di rinomanza mondiale, designati senza alcuna restrizione di carattere raziale o religioso, e conta un buon numero di Premi Nobel. Pio XI diceva che l'Accademia serviva da " Senato accademico ".

Svolgendo i propri studi in piena libertà, l'Accademia partecipa anche all'insieme delle ricerche assunte da altri centri accademici e culturali della Santa Sede. Giovanni Paolo II riconosceva il suo contributo in questi termini: " Non posso non rallegrarmi con la Pontificia Accademia delle Scienze che abbraccia un numero sempre più grande di scienziati appartenenti a tutte le nazioni del mondo, senza nessuna discriminazione raziale o religiosa: è una forma di ecumenismo culturale che la Chiesa, promotrice di un verace ecumenismo religioso, non può non considerare con un senso di viva soddisfazione ": 12 novembre 1983.

L'attività scientifica e culturale della Santa Sede s'inserisce nella rete mondiale degli istituti superiori, diretti dalla Chiesa e dedicati alla ricerca e all'insegnamento universitario. Il numero di questi Istituti supera molte centinaia.

Vedi: Educazione. Modernità. Vaticano II e la cultura.

Bibl.: H. Carrier 1985, cap. IX, 1990a. M. Gargantini 1985. J. Ladrière 1985. G. Minois 1991. P. Poupard 1983, 1984. T.F. Torrance 1980.

 

Società dei consumi. (inizio)

Secondo l'accezione più corrente, la società dei consumi è il sistema socio-economico che trae il proprio dinamismo dall'incitamento al crescente consumo grazie alla persuasione pubblicitaria e all'incessante creazione di bisogni, spesso artificiali, e alla manipolazione degli istinti edonistici delle masse moderne. Questa formulazione lascia intravvedere fino a che punto la categoria " società dei consumi " abbia una carica emotiva, portatrice di serie contraddizioni. Ciò significa difficoltà d'analisi del termine che ha rapporti contemporaneamente con aspetti sociali, economici, psicologici ed etici molto complessi, quali i meccanismi della commercializzazione, dello sfruttamento dei bisogni, il gioco della pubblicità. Uno sforzo di chiarezza s'impone per evitare semplificazioni che portino a considerare la società dei consumi come un sistema globalmente creato da non si sa quale cospirazione d'oscuri interessi. Per orientarsi in questa analisi devono essere esaminate con cura due nozioni: quella dei consumi e quella dei bisogni, che sono da comprendere nei loro reciproci rapporti.

Questa analisi ci permetterà di guardare alla funzione della pubblicità in una società dei consumi e ci introdurrà a ciò che oggi si chiama la cultura dei consumi.

Consumo e bisogni. Prima di dare un giudizio critico sul consumo occorre riconoscere la sua indispensabile funzione nella vita economica e sociale. Gli autori classici ponevano il consumo tra le funzioni essenziali dell'economia, accanto alla produzione e alla distribuzione. Non ci sarebbe progresso economico, nel senso moderno, senza consumo e senza incitamento a consumare prodotti creati di recente e fatti conoscere dalla pubblicità a potenziali clienti. Questo ci riconduce alla nozione di bisogno, categoria che interessa l'economia, la sociologia, la psicologia e che non è facile, attraverso il confronto tra le diverse teorie, distinguere da concetti vicini come la motivazioni, le aspirazioni, i desideri, le soddisfazioni.

Ricordiamo alcuni dei criteri di classificazione dei bisogni nel quadro di quanto ci interessa. Una prima distinzione è spesso posta tra bisogni primari e secondari. I bisogni primari sarebbero i bisogni umani di base chiamati anche istintivi, fisiologici, indispensabili ad assicurare il mantenimento e la trasmissione della vita umana. I bisogni secondari sarebbero acquisiti, culturalmente derivati e destinati ad assicurare la qualità della vita e la partecipazione sociale.

Un'altra distinzione considera bisogni individuali e bisogni sociali. A.H. Maslow, in Motivation and Personality (New York, 1954), offre una classificazione dei bisogni personali definiti secondo il loro ordine di preminenza nella scala del progresso tipicamente umano: bisogni fisiologici, di sicurezza, di possesso e di amore, di stima, di autorealizzazione. I bisogni collettivi corrispondono ai beni e ai servizi richiesti per il buon funzionamento della società: servizio per la sicurezza pubblica, la salute, la libera informazione, l'organizzazione educativa e culturale, l'infrastruttura dei trasporti, la qualità delle risorse e dell'ambiente.

Altri, distinguono bisogni necessari e superflui; bisogni essenziali e non essenziali, bisogni naturali e artificiali. Importante è ricordare che il bisogno non è soltanto una categoria economica, ma anche psicologica e soggettiva, collettiva e culturale. Il consumo deve essere visto in questa prospettiva.

Condizionamento culturale dei bisogni. Si può, così, percepire come il consumo sia un comportamento sia economico che culturale, condizionato dal tipo di società in cui vivono i consumatori, perché l'ambiente influenza ampiamente il modo di concepire i bisogni. Adam Smith in The Wealth of Nations (1776), come Karl Marx in Il Capitale (1867), avevano riconosciuto che i bisogni sono culturalmente definiti. " Le necessità della vita, nota Smith, non corrispondono soltanto ai bisogni indispensabili per il mantenimento della vita, ma a tutto ciò di cui, secondo i costumi del paese, sarebbe indecente mancare anche per il più povero ". Anche Marx insiste sul carattere relativo dei bisogni, che variano non soltanto secondo le condizioni materiali di una nazione, ma anche secondo " il grado di civiltà di un paese ".

Occorre notare che la civiltà dei consumi è un fenomeno tipicamente moderno, legato all'industrializzazione e all'urbanesimo. Essa suppone prima di tutto un'abbondanza di beni ed un'aspirazione generalizzata ad un costante miglioramento dei livelli di vita. Marx aveva già detto che la produzione avrebbe creato il consumo. Basti pensare che un supermercato americano che offriva novecento prodotti negli anni 1940 ne offriva più di ottomila nel 1970. Le mostre di prodotti dei centri di vendita moderni rivelano l'enorme profusione delle novità offerte all'ammirazione e alla cupidigia dei consumatori. L'effetto trainante del consumo è rilevato dagli economisti come: stimolo all'economia, diffusione del benessere, incitamento alla creazione di nuovi beni, estensione dei mercati, della produzione e della manodopera, incoraggiamento alla concorrenza e all'emulazione in tutti i settori dell'economia. Questi obbiettivi sono legittimi e nessuna società, come ha dimostrato l'esperienza di molti paesi socialisti, può trascurarli senza gravi inconvenienti.

Il consumo come stile di vita. La critica alla società dei consumi non è diretta al fatto del consumare e al desiderio generalizzato di migliorare il proprio tenore di vita. Ciò che è messo in causa è un tipo di mentalità che accorda al consumo un valore sproporzionato ed esorbitante. Nella massa della popolazione si sviluppa una cultura del consumo favorita da un individualismo edonista e da un'ossessione d'acquisto sempre maggiore di beni materiali. Marx condannava già, nel secolo scorso, questo " feticismo dei prodotti materiali ". Le principali critiche riguardo alla società dei consumi possono essere espresse come segue.

In questa società si produce una " mercializzazione del modo di vivere ", secondo l'espressione di Victor Scardigli: 1983. Consumare diventa un obbiettivo preponderante nella scala dei valori individuali e collettivi. Il consumo acquista un ruolo simbolico, perché rappresenta il segno del successo acquisito o sognato, l'appartenenza ad una classe sociale. E un modo d'imitazione delle élites artificiali, presentate dalla pubblicità, di cui s'invidia la sorte. Il sociologo Thorstein Veblen, in Theory of the Leisure Class (New York, 1899), aveva felicemente illustrato l'aspetto simbolico del consumo come segno di appartenenza ad una classe sociale, ciò che spiega la stravaganza di coloro che si danno ad una forma ostentata di consumo per affermare il proprio stato sociale. Questo atteggiamento è indotto da una cultura dell'effimero, dell'invidia, dell'istantanea gratificazione.

Il consumo come delusione. Le delusioni di questa cultura sono evidenti. Secondo quanto osserva Christopher Lasch (1978): " La pubblicità crea il proprio prodotto: un consumatore perpetuamente insoddisfatto, agitato, curioso, disincantato... Essa si rivolge alla desolazione spirituale della vita moderna e propone il consumo come cura ". Il consumatore tipico è facilmente colpito dall'ossessione del lusso reale o immaginario. Una mentalità di nuovo ricco si diffonde come un'illusione generalizzata, crudelmente smentita dall'inevitabile delusione dei consumatori e soprattutto dalla persistenza di vistose ineguaglianze di fronte al consumo. Un atteggiamento di consumatore invade l'insieme del comportamento, anche in campi non economici, ivi compresi gli impegni religiosi, come ha dimostrato Thomas Luckmann: 1967. I beni materiali assumono maggiore importanza delle persone, l'avere primeggia sull'essere come valore etico. E " la civiltà dei consumi in cui il perseguire il piacere è eretto a valore supremo ", come osserva Paolo VI: Evangelii Nuntiandi, 1975, n. 55.

La trascuratezza dei bisogni collettivi. In assenza di correttivi, difficili da applicare, la società dei consumi privilegia la soddisfazione dei bisogni individuali a spese dei bisogni collettivi. Le automobili sono vendute in numero sempre crescente, ma le strade e il sistema dei trasporti pubblici rimangono insufficienti.

La massa dei beni individuali aumenta, ma la polizia non basta più a proteggerli. Il benessere individuale si generalizza - con notevoli eccezioni - ma i servizi educativi, sanitari, culturali non riescono ad assicurare il benessere collettivo. Bisogna riconoscere che i regimi socialisti avevano cercato di sviluppare una maggiore sensibilità riguardo alle esigenze del consumo detto pubblico, ma il loro successo in questo campo è rimasto relativo e non è riuscito a compensare la crescente frustrazione dei consumatori individuali.

La cultura occidentale è minata da un caratteristico individualismo, di cui è vistoso rivelatore una forma di consumismo compulsivo ed ossessivo. Di fronte a questa mentalità egocentrica, chiedere privazioni ai consumatori per soddisfare i bisogni collettivi è cosa che si dimostra sempre più difficile. Il consumatore individuale si abbandona senza ritegno ai propri desideri anche artificiali: comprare sempre di più, lasciarsi sedurre dall'ultima moda, dall'ultimo prodotto di grido, in un istinto di gratificazione immediata ed ostentata. La visita di routine ai grandi magazzini, spesso senza precisa intenzione, diventa un'abitudine, un bisogno psicologico, quasi un rito. Questi sono i connotati del consumo per il consumo, una specie di ebbrezza e di narcisismo ossessivi, come hanno dimostrato numerosi studi psico-sociali.

Il ruolo della pubblicità. La pubblicità gioca abilmente su questi fattori psico-sociali esaltando l'immagine di una classe media, idealizzata e descritta come accessibile a tutti. Nelle masse si crea inconsciamente l'idea di una grande società opulenta e aperta, ciò che favorisce il paragone invidioso, l'imitazione collettiva, l'aspirazione di tutti al piacere continuo, al benessere totale. Il ruolo della pubblicità nella cultura dei consumi non è facilmente valutabile in maniera oggettiva. C'è chi la rende direttamente responsabile del degrado della cultura. " E l'attività più distruttrice della civiltà economica ", dice Robert Heilbroner: 1976. Sembra più giusto considerare la pubblicità come uno dei fattori della cultura del consumo, il cui ruolo è meno quello di creare nuovi valori che quello di rinforzare, di ripercuotere atteggiamenti suscitati dall'insieme dei condizionamenti economici, sociali, tecnici, etici della società moderna. In questo senso, la pubblicità è uno specchio a ingrandimento che rinvia alla nostra società la propria immagine.

Come si è detto del consumo in sé, si può dire della pubblicità che non può essere giudicata soltanto per i suoi abusi o i suoi eccessi. J. K. Galbraith, pur essendo severo nei confronti della società opulenta, afferma che il sistema industriale non potrebbe assolutamente esistere senza la pubblicità: The Affluent Society, New York, 1958.

Perfino le critiche più crude nei confronti della pubblicità ammettono ch'essa abbia un importante ruolo d'informazione per i compratori, di stimolo per la creatività, d'incitamento alla competitività e allo spirito d'impresa. La pubblicità contribuisce anche a democratizzare le aspirazioni e a generalizzare i desideri o la plausibilità di un'elevazione dei livelli di vita. Questi risvolti della pubblicità costituiscono altrettanti fattori positivi nelle economie dei regimi liberi. Anche i paesi socialisti hanno finito per riconoscerlo, perché il dirigismo del loro sistema di consumo non ha saputo soddisfare le popolazioni, che scoprirono con crescente invidia i mercati e i prodotti occidentali.

Non bisogna, tuttavia, minimizzare gli effetti di destabilizzazione culturale dovuti allo stile corrente della pratica pubblicitaria. Anche gli autori che accordano alla pubblicità soltanto un limitato potere persuasivo, riconoscono che la sua influenza è spesso disumanizzante. Michael Schudson (1984) scrive: " Una pubblicità noncurante trasmette sulle onde valori che pochi pubblicisti o artisti accetterebbero personalmente o per i loro figli... Valori che le nostre tradizioni religiose, le nostre scuole, i nostri consiglieri più rispettati ci invitano a rigettare ".

La pubblicità dispone di somme favolose, ricavate, d'altra parte, dal costo dei prodotti annunciati, per illustrare e vantare una cultura materialista, in cui sono sfruttati gli istinti primari e sessuali in uno sforzo concertato per inibire il senso critico dei consumatori. La pubblicità gioca sull'illusione delle apparenze, semplifica, idealizza, offre un'immagine ottimistica della vita e costantemente eccita il desiderio latente di apparire meglio, di elevarsi nella scala sociale imitando una élite immaginaria e utopica.

Consumo e alienazione. La pubblicità si fa complice, più o meno consapevole, di una società schiava, perché dominata dal principio del godimento. Herbert Marcuse (1964) ha descritto efficacemente questa alienazione: " La promessa suprema è quella di una vita sempre più confortevole, per un numero sempre crescente di persone, che non sanno veramente più immaginare un altro tipo di discorsi e di comportamenti, perché il potere di manipolare e di contenere l'immaginazione o la reazione sovversiva è parte integrante di questa società ". Vedendo come il sistema di commercializzazione giochi sulla credibilità delle masse, alcuni osservatori parlano della pubblicità come di una forma di religione. Anche se questo giudizio è eccessivo, bisogna riconoscere che è con una mentalità da predicatori che la pubblicità trasmette il suo messaggio, il cui contenuto, del resto, non è senza analogia con la propaganda ideologica del " realismo socialista ". M. Schudson vi scorge un parallelismo nel " realismo capitalista ", propagandato dalla pubblicità moderna che pur senza un piano prestabilito instilla nelle popolazioni lo spirito della società dei consumi. Questa massa umana, plasmata dalla pubblicità, è stata chiamata Admass dal britannico J. B. Priestly.

Poiché gli immensi capitali che sono dietro la pubblicità s'identificano con gli interessi dei poteri economici stabiliti, alcuni autori giungono ad affermare che una delle principali funzioni della pubblicità non è quella di accrescere il consumo globale, ma quella invece d'integrare gli individui in una società tutta rivolta ai consumi, come promessa d'un benessere idillico.

La pubblicità avrebbe per effetto d'inibire ogni velleità di critica o di contestazione sociale. La società capitalista, in questo modo, esalta se stessa e previene ogni possibile sovversione che potrebbe intralciare il sistema di produzione e di consumo. Questo effetto della pubblicità è difficilmente misurabile, ma non lo si può escludere o trascurare.

I consumatori, bisogna dirlo, in generale non si lasciano ingannare dal linguaggio esagerato, interessato e unilaterale della pubblicità. Ma, anche se la comunicazione " non vuol dire ciò che afferma " suscitando un sedicente distacco negli ascoltatori, essa crea in loro disposizioni latenti, voglie non coscienti, " proprio perché non chiede di credervi ", afferma Schudson. In questo è, forse, il segreto del suo insidioso potere, a proposito del quale David Riesman et al. si chiedeva in The Lonely Crowd (1950): " Non è forse possibile che, in conclusione, la pubblicità sia una fantastica frode che rappresenta un'immagine dell'America che nessuno prende sul serio? ". Questo interrogativo non potrebbe diventare un grido d'allarme che permetterebbe ad un pubblico alienato di dare con lucidità un giudizio critico sulla società dei consumi? Questa società frattanto si universalizza nei paesi industrializzati e costituisce anche il modello che spontaneamente cercano d'imitare le nazioni del terzo mondo. " E la società dei consumi che guida già il loro avvenire ", osserva Victor Scardigli.

Per un consumo umanizzato. Le sfide poste dalla società dei consumi non rimangono senza risposta. Ci sono potenti associazioni di consumatori che hanno preso l'iniziativa di agire sui produttori e sui commercianti per controllare i prezzi, la qualità e la sicurezza dei prodotti. Ralph Nader ha suscitato negli Stati Uniti una crociata per la difesa dei consumatori. La sua azione e quella dei suoi affiliati, malgrado sia villipesa dagli industriali, ha ottenuto risultati molto tangibili. Essi hanno costretto i produttori a riprendere in fabbrica più di cento milioni di autovetture difettose, sono riusciti ad imporre le cinture di sicurezza, a controllare la qualità e i prezzi dei prodotti, a boicottare le industrie che inquinano l'ambiente, a far votare leggi formulate dai consumatori. Il movimento si organizza in molti paesi e rappresenta una forza con la quale industriali e politici devono fare i conti. I partiti politici cercano ormai di agire sul potere dei consumatori. Il movimento si fa promotore di un'economia in cui i consumatori e gli utenti negozieranno i prezzi e la qualità con i produttori, i commercianti, i servizi, le compagnie di assicurazione. In Svezia, si è sviluppato un sistema di cogestione in cui i consumatori hanno voce nel ciclo della produzione e della commercializzazione. Alcuni prevedono che il movimento dei consumatori potrà, in avvenire, rappresentare una forza sociale potente quanto l'attuale sindacalismo. Noi, comunque, assistiamo ad una presa di coscienza che promette lo sviluppo di uno spirito critico, capace di apportare un correttivo agli incontrollati condizionamenti della società dei consumi, oggi troppo esclusivamente guidata dalla pura legge del mercato e dai giochi d'interesse.

Molti si chiedono se non si stia assistendo ad un rovesciamento di tendenza del pubblico, perché il consumo di massa sta finalmente toccando i propri limiti e rivela la disfunzione del sistema. Ci sono osservatori che ora riscontrano nei paesi ricchi un movimento di " erosione del consumo ". Le cause sarebbero multiple. I consumatori sono stanchi d'essere manipolati dalla pubblicità e sono delusi dall'accumulo dei prodotti che non portano la felicità sognata. In pratica, una larga parte della popolazione deve limitare con meticolosità le proprie compere a causa di un'indebolita situazione economica: persone anziane, disoccupati, pensionati precoci, immigrati, giovani senza impiego, gruppi di emarginati dal sistema. D'altra parte, i bisogni non materiali si fanno sentire chiaramente nella popolazione e chiedono una nuova ripartizione dei bilanci familiari e personali. Questi bisogni corrispondono a nuove aspirazioni: la qualità della vita, la salubrità dell'ambiente, il tempo libero che dà un senso alla vita, le esigenze della formazione permanente, la partecipazione alla vita collettiva.

L'azione organizzata dei consumatori non può limitarsi alla sola rivendicazione economica. C'è da augurarsi ch'essa agisca nei confronti delle tendenze destabilizzanti della pubblicità e che incoraggi positivamente le forme pubblicitarie che mirano a promuovere sia gli interessi dei consumatori che quelli dei produttori e del pubblico in generale, nel pieno rispetto dei valori etici della società. Questo tipo di pubblicità esiste già ed è in gran parte compito dei consumatori, di assicurarne lo sviluppo come forma d'indrustria culturale creatrice.

Sul piano culturale, la posta in gioco è dunque quella di sapere se il consumo anarchico continuerà a plasmare la società dell'avvenire o se il consumo non si trasformerà invece in un comportamento collettivo più critico e disciplinato attraverso l'apporto etico degli individui e dei gruppi. Come è stato detto a proposito delle industrie culturali, la pubblicità, come industria, esige un'autoresponsabilità dei creatori e un nuovo tipo di educazione del pubblico.

Vedi: Industrializzazione. Industrie Culturali.

Bibl.: J. Baudrillard 1970. M. Featherstone 1990a. S. Fox 1984. R. Heilbroner 1976. J.N. Kapferer 1982, 1984, 1985. C. Lasch 1978. V. Scardigli 1983. M. Schudson 1984. A. Wernick 1991. J. Castarède 1992. J. Fowles 1996. J.K. Galbraith 1972, 1992, 1993. J.H. Kavanaugh 1991. C. Lasch 1992. J. Ritz 1992. R. Rochefort 1995.

 

Società post-industriale. (inizio)

Il termine società post-industriale è forse discutibile e c'è chi preferisce dei sinonimi quali società dell'informazione, società pianificata, società cibernetica o società dei servizi.

Ciò che importa, è il constatare che la società industriale sta subendo trasformazioni radicali.

Economia e servizi. I cambiamenti sono visibili soprattutto nel campo dell'occupazione e delle attività socioeconomiche, con tutte le conseguenze culturali che ne derivano. Facciamo un esempio. Nei paesi più industrializzati, si constata che le persone impiegate nei servizi superano numericamente gli operai delle industrie. Dieci anni dopo l'ultima guerra mondiale, negli Stati Uniti, il numero dei colletti bianchi superava il numero dei colletti blu. Il movimento si è andato accelerando in tutti i paesi industrializzati ed è in questo senso che oggi si parla di un'economia dei servizi. Il valore dei servizi forniti supera il valore dei prodotti manifatturati e i beni materiali creati dall'industria.

Si constata, inoltre, l'emergere di una nuova classe, quella dei tecnici e delle persone dedite ai servizi professionali. Questa nuova classe è costantemente alimentata da nuovi effettivi e diventa perfino il simbolo dell'economia dei servizi, come l'operaio è stato ieri il simbolo della società industriale. Notiamo che l'industria non è in declino. Al contrario, i suoi progressi sono ogni giorno più evidenti. Ciò che vediamo è che l'equilibrio tra i tipi di occupazione si va continuamente trasformando a vantaggio del settore terziario.

Costante innovazione. La società moderna esige, come condizione vitale del suo sviluppo, l'inseguimento organizzato dell'innovazione e della creatività, ciò che richiede la pianificazione, la previsione e la ricerca volontaria del cambiamento. Il sociologo Daniel Bell, conosciuto per i suoi studi sulla società post-industriale, afferma che " il cambiamento sociale senza dubbio più importante nel nostro tempo è costituito dall'emergere di un processo tendente a provocare direttamente il cambiamento stesso. Gli uomini d'oggi cercano di prevedere il cambiamento, di misurare il suo orientamento e i suoi effetti, ed anche di padroneggiarlo per determinati fini ".

I ricercatori emergono come classe nuova. In un testo del 1947, Teilhard de Chardin anticipava con lucidità il senso della rivoluzione culturale che si è operata nella società moderna: " Oggi si contano a milioni gli uomini che ricercano, in tutti i campi, e sono milioni ad essere organizzati. In numero di uomini impiegati, in somme di denaro assorbite, in qualità di energie spese, la ricerca tende prevalentemente a diventare il Grande Affare del Mondo... La nostra epoca è spesso definita dall'ascesa sociale delle masse. Questo è giusto... ma la si potrebbe caratterizzare dall'Ascesa della Ricerca ": Oeuvres, 1945, t.9.

Conseguenze culturali. Già si possono intravvedere le conseguenze di questi mutamenti sulle attività cognitive ed intellettuali dei nostri contemporanei. Il cambiamento pianificato e l'impulso alla creatività contribuiscono a dare un posto eminente all'informazione, all'analisi e alla programmazione. La società post-industriale, poiché richiede degli specialisti in tutti i campi del sapere e non funziona che con l'apporto di servizi professionali fortemente differenziati, più d'ogni altra società del passato organizza intorno a sé istituzioni che stimolino la ricerca, la conoscenza, la specializzazione.

Nelle società del passato, i proprietari terrieri, i militari, i rappresentanti delle grandi famiglie dominavano le attività socioeconomiche. Recentemente, hanno avuto il dominio i rappresentanti dell'industria, la gente d'affari, gli imprenditori. La nostra epoca è sempre più l'epoca dei ricercatori, dei tecnici, degli ingegneri, degli economisti, dei sociologi, degli specialisti d'informatica.

Questo fa affermare a Daniel Bell che la leadership della nuova società non si troverà più, come ieri, tra gli uomini d'affari e tra i direttori d'industria, ma " nei centri di ricerca, nei laboratori industriali, nelle stazioni sperimentali e nelle università ". Ed aggiunge: " L'università diventerà l'istituzione centrale dei prossimi cento anni a causa del suo ruolo di sorgente d'innovazione e di conoscenze ". Questo è anche il parere di John Kenneth Galbraith che parla del ruolo centrale degli istituti di ricerca e d'insegnamento: " Essi sono in rapporto al sistema industriale ciò che erano, in gran parte, gli istituti bancari e finanziari per l'industria del passato ".

La società post-industriale appare dunque sempre più plasmata da un nuovo potere: quello dei ricercatori, dei tecnici, come anche degli specialisti di amministrazione, di programmazione e di pianificazione. I problemi estremamente complessi posti dalla produzione moderna e dall'estensione dei servizi in tutti i campi, soprattutto nelle amministrazioni nazionali, richiedono il ricorso a tecnici altamente qualificati e l'impiego dei computers. Decisioni legate ad immensi interessi sono spesso prese in uffici di ricerca e di consultazione, senza che sia possibile, da parte dei responsabili ufficiali, la verifica degli elementi che hanno suggerito una soluzione a preferenza di un'altra. Quando è in gioco l'interesse pubblico, c'è il rischio che delle decisioni politiche siano elaborate da tecnocrati senza che i rappresentanti del popolo o dell'opinione pubblica possano criticare le motivazioni delle scelte proposte. Il cittadino comune prova una crescente frustrazione perché ha l'impressione che le decisioni che lo toccano siano preparate da un potere sul quale non ha molta presa. Questo fenomeno, ben noto in Occidente, è anche osservabile nei paesi socialisti. Arnold Toynbee aveva anche previsto che l'impatto decisivo sui regimi comunisti sarebbe venuto non dagli amministratori o dagli scrittori, ma, secondo la sua espressione, " da una classe specializzata in possesso di particolari conoscenze, dagli uomini della scienza, dai tecnici e dagli ingegneri. Il potere nel mondo d'oggi è dato dal possedere buoni scienziati e buoni tecnici ".

L'innovazione sociale, perseguita come obbiettivo, suscita nuove professioni, ispira metodi di pianificazione e tecniche decisionali inedite. Queste evoluzioni fanno comprendere il ruolo centrale e dinamico che avrà d'ora in poi la scienza in questo tipo di società del sapere che gli Inglesi chiamano Knowledge society. La scienza è la forza propulsiva e il fattore decisivo del progresso socioeconomico: si tratta di un postulato fondamentale di questa società. Il progresso della scienza e della ricerca appare come la condizione indispensabile dell'innovazione e dello sviluppo nei diversi settori dell'attività sociale: l'industria, il commercio, l'amministrazione, le comunicazioni, l'agricultura, la medicina, la difesa.

Il potere politico sempre più poggia sulla ricerca e sulla perizia scientifica.

Verso una società partecipativa. Parallelamente a questa tecnologizzazione del potere politico, si assiste, nei paesi liberi almeno, ad un'estensione della democrazia ad altre sfere oltre quella politica. Il sindacalismo ne è un esempio. Nello stesso modo si può parlare del potere dei consumatori e delle realizzazioni democratiche in seno all'industria. L'opinione pubblica si oppone all'opacità del potere tecnologico che suscita paure collettive e che i movimenti ecologici, pacifisti, antiscientifici sanno sfruttare con successo. Sul piano della politica locale soprattutto, si osserva la creazione di comitati o di organismi di cittadini che cercano, attraverso una partecipazione diretta, di promuovere o difendere i loro interessi collettivi, anche i più complessi.

L'uomo della società post-industriale ha imparato a contestare quando non lo si ascolta, non lo si consulta e non lo si intende. Si esige da parte dei responsabili che rendano conto al pubblico anche riguardo ai problemi più tecnici. Si cercano vie nuove per partecipare all'elaborazione delle politiche che interessano il bene comune. E comprensibile che questa mentalità abbia conquistato tutte le sfere della vita sociale, gli affari, il sindacato, e perfino la famiglia, la scuola e il settore religioso.

Nel campo civile, una certa concezione dell'autorità va accantonandosi, soprattutto se per autorità s'intende un potere incontrollato, ereditario o fondato su privilegi. L'autorità tende ad identificarsi con la competenza e il sapere. Nella vita privata, si è pronti ad obbedire al proprio medico, al proprio avvocato o ad uno specialista che dimostri competenza. L'uomo politico stesso è giudicato secondo questi criteri. L'autorità, inoltre, tende a collettivizzarsi, cioè gli interessati stessi tendono a prendere in mano il governo dei propri affari e ad istituire i controlli sulle decisioni che li toccano. La vigilanza popolare si dota di esperti e di uffici specializzati.

Un altro aspetto culturale della " Knowledge Society " è da segnalare. In questa società, il sapere non è considerato principalmente dal punto di vista accademico, ma dal punto di vista sociale, politico ed economico.

Non si tratta di porre l'accento sui contrasti, ma dobbiamo tuttavia dire che il sapere è ormai visto come un potere e non, in primo luogo, come oggetto di contemplazione. L'uomo della società post-industriale considera la scienza come un mezzo di trasformazione e di sfruttamento della natura e come un fattore d'orientamento del cambiamento sociale. Siamo lontani dall'ideale di quel tipo di uomo onesto, formato nella società del passato, per il quale il possesso tranquillo del sapere aveva un valore inestimabile. Da quel tempo, la scienza ha rivoluzionato la tecnologia e la condotta degli affari collettivi. E riflettendo su questa evoluzione che si può percepire il nuovo ruolo dell'Università moderna e le poste in gioco che deve affrontare ogni riforma umanistica dell'insegnamento.

Vedi: Industrializzazione. Scienza nuova (New Learning). Università. Modernità. Società dei costumi. Lavoro.

Bibl.: D. Bell 1973, 1976. J. C. Delaunay 1987. J.K. Galbraith 1972, 1992, 1993. A. Touraine 1969.

 

Statistiche culturali. (inizio)

Dati numerici che permettono di descrivere quantitativamente le attività culturali, di classificarle, di paragonarle, di interpretarle secondo criteri quali la creatività, i bisogni, le carenze, lo sviluppo dei gruppi umani. Vengono utilizzati indicatori culturali come, per esempio, il numero dei libri, delle riviste, dei giornali pubblicati, il numero delle sale di teatro con il numero di opere rappresentate, di spettatori presenti in un tempo dato, le percentuali di frequenza scolastica per fasce di età, il numero di apparecchi televisivi, di ore di trasmissione, di programmi creati o importati, il numero di università, di centri di ricerca, di musei, in rapporto alla popolazione, ecc. Un altro indice importante è rappresentato dai bilanci culturali degli Stati, anche se i paragoni sono resi difficili a causa della definizione degli articoli di bilancio secondo i paesi.

Molti organismi internazionali s'interessano di statistiche culturali, particolarmente l'UNESCO: vedi la sua pubblicazione Statistiques Culturelles et Développement culturel, Paris, UNESCO, 1982. Citiamo come esempio d'organismo regionale dell'UNESCO particolarmente attivo, il CSC - Cadre pour les Statistiques Culturelles - che studia la situazione culturale in Europa. Le ricerche riguardano i seguenti dati: il patrimonio culturale, stampe e letteratura, musica, arte dello spettacolo, arti plastiche e figurative, fotografia, cinema, radio e televisione, attività socioculturali, sport e giochi, attività culturali legate alla natura e all'ambiente. Le statistiche culturali sono una componente importante per la costituzione di banche di dati culturali.

Vedi: Sviluppo culturale. Analisi culturale.

 

Stereotipo. (inizio)

Forma di pensiero rigida e superficiale, cliché culturale, rappresentazione degli altri secondo categorie stabilite a priori. Alla base dei pregiudizi, delle incomprensioni razziali e dei conflitti culturali, ci sono quasi sempre dei giudizi fondati su stereotipi. Questi hanno in gran parte origine in motivazioni inconsce: la paura degli altri, l'invidia, un sentimento latente di superiorità, la mancanza di senso critico di fronte all'altro, di fronte allo straniero. E soltanto con uno sforzo di comprensione culturale che è possibile sbarazzarsi degli stereotipi e dei pregiudizi riguardo a gruppi che ci interpellano a causa della loro diversità.

Vedi: Atteggiamento. Etnologizzazione.

 

Sviluppo culturale. (inizio)

Lo sviluppo dei popoli apparve, dopo la seconda guerra mondiale, come uno degli impegni preminenti di questo secolo. Ma, malgrado notevoli sforzi ed immensi investimenti, i risultati rimasero sproporzionati e deludenti.

Un concetto nuovo. Alla luce dell'esperienza acquisita e della riflessione, gli specialisti e gli sperimentatori scoprirono che i freni più seri allo sviluppo erano d'ordine culturale. Si è allora insistito, oltre che sugli aspetti economici, sulla dimensione culturale dello sviluppo. L'evoluzione dei grandi organismi internazionali, come le Nazioni Unite e le sue agenzie, come il Consiglio d'Europa e l'ALECSO, l'Organizzazione Araba per l'Educazione, la Cultura e la Scienza, fa luce sulla questione e permette di comprendere l'attuale nozione di sviluppo culturale. L'esperienza delle Nazioni Unite e, in particolare, dell'UNESCO è rivelatrice a questo proposito. Nell'articolo che è riportato qui di seguito sarà preso in considerazione il punto di vita della Chiesa sullo sviluppo culturale.

L'UNESCO, per esempio, ha istituito nel 1987 un Decennale Mondiale dello Sviluppo Culturale (DMDC, 1988-1997) di cui i quattro obbiettivi maggiori sono i seguenti: la presa in considerazione della dimensione culturale dello sviluppo; l'affermazione e l'arricchimento delle identità culturali; la crescita della partecipazione alla vita culturale; la promozione della cooperazione culturale internazionale.

Le Nazioni Unite avevano, fin dal 1960, lanciato un primo Decennale dello sviluppo e i Decennali seguenti sono stati oggetto di una valutazione e di una critica che ha sottolineato, in particolare, la grave trascuratezza riguardo ai fattori culturali nella crescita dei popoli. Il Direttore dell'UNESCO lo riconosceva inaugurando il DMDC nel gennaio 1988: " Ci si è resi conto, nel corso dei decennali scorsi, che quando ci si dà come obbiettivo una crescita economica in divorzio con l'ambiente culturale, si producono gravi squilibri sia economici che culturali, s'indebolisce molto il potenziale creativo di un popolo. Se lo sviluppo mira all'essere più e all'essere meglio di ciascuno e di tutti, deve fondarsi sullo sviluppo ottimale delle risorse sia umane che materiali di ogni comunità, attraverso la libera espressione dei talenti e degli interessi di tutti i suoi membri. Ciò significa, in ultima analisi, attingere le proprie priorità, le proprie motivazioni e le proprie finalità dalla cultura ": Parigi, 21 gennaio 1988.

Progresso di un'idea. Vediamo come a poco a poco sia progredito il concetto di sviluppo culturale. Dagli anni '50, le Nazioni Unite abbordano la questione dello sviluppo affrontando prima di tutto le urgenze del dopo-guerra e le gravi necessità delle antiche colonie d'Africa e d'Asia, diventate paesi liberi. Lo sviluppo da promuovere in questi paesi - per assicurare la loro sopravvivenza e farne degli interlocutori validi in materia politica ed economica - è progettato come crescita economica, se possibile endogena.

La strategia prevista si fonda su di una concezione dello sviluppo limitata alla razionalità economica conforme alla scienza del momento. Lo sviluppo si misura per mezzo del Prodotto Nazionale Lordo pro capite e un paese che ha un reddito inferiore a 1.000 dollari per anno e per persona è dichiarato sottosviluppato.

E necessario uscire dal sottosviluppo e pervenire ad un decollo economico che mobiliti tutte le energie nazionali, lasciando da parte tutte le considerazioni perturbatrici (non economiche). Queste sono le concezioni dominanti quando l'Assemblea generale delle Nazioni Unite proclama un primo Decennale dello sviluppo dal 1960 al 1970.

Lo schema " Sviluppo = Progresso economico ": cioè riduzione di ogni e qualsiasi realtà all'aspetto economico " è il punto di partenza che regola l'azione delle Nazioni Unite e delle loro agenzie specializzate. Alcune vi rimarranno fedeli, con qualche tardiva modificazione. Altre - come l'Organizzazione per l'Agricoltura e l'Alimentazione e l'Organizzazione Mondiale per la Salute - amplieranno il concetto di sviluppo secondo le loro specifiche funzioni. L'UNESCO è nel numero di queste e in prima linea.

Fin dal 1954 l'UNESCO approfondisce il concetto di sviluppo, aggiungendovi l'aspetto sociale come elemento essenziale. Se si esaminano le risoluzioni della Conferenza generale e del Consiglio esecutivo, si può tracciare un quadro cronologico dell'introduzione delle nuove componenti incluse nella definizione di sviluppo: nel 1963: la dimensione educativa (alfabetizzazione e formazione); nel 1965: le dimensioni scientifiche e tecniche; nel 1966: la dimensione culturale; nel 1968: la concezione umanistica dello sviluppo, con i suoi aspetti etici e spirituali.

Nel corso del Secondo Decennale dello sviluppo (1970-1980) la nozione che comprende l'educazione, la scienza e la cultura, diventa tema privilegiato dell'UNESCO. Un cambiamento si opera nelle preoccupazioni dell'Organizzazione. La riflessione sullo sviluppo porta a considerare il fattore culturale come elemento centrale dell'identità nazionale di un popolo e i due concetti diventano inseparabili. La preservazione dell'eredità culturale assume importanza non soltanto più come bene della nazione, ma dell'umanità intera.

La giustizia sociale e la qualità della vita sono riconosciute come parti integranti dello sviluppo. Il carattere endogeno dello sviluppo è associato ai valori presenti in ogni cultura. Ormai l'UNESCO possiede la propria definizione di sviluppo, il quale deve essere globale, integrato, endogeno e centrato sull'uomo.

Nel Terzo Decennale (1980-1990) la riflessione si approfondisce ancora. Nel 1980 la Conferenza generale afferma che l'Organizzazione deve " promuovere l'elaborazione e l'attuazione di una strategia dello sviluppo che tenga conto della cultura come fattore e fine dello sviluppo ". Nel 1982, a Messico, la Conferenza mondiale dell'UNESCO sulle Politiche culturali sottolinea fortemente la dimensione culturale dello sviluppo: " La cultura costituisce una dimensione fondamentale del processo di sviluppo, che contribuisce a rafforzare l'indipendenza, la sovranità e l'identità delle nazioni. La crescita è stata spesso concepita in termini quantitativi, senza che si sia tenuto conto della sua necessaria dimensione qualitativa, cioè la soddisfazione delle aspirazioni spirituali e culturali dell'essere umano. Lo sviluppo autentico ha per fine il benessere e la costante soddisfazione di tutti e di ciascuno. E indispensabile umanizzare lo sviluppo, che deve avere per fine ultimo la persona considerata nella sua dignità individuale e nella sua responsabilità sociale ".

La cultura a centro dello sviluppo. In sintesi, si può dire che, per l'UNESCO, la cultura e i valori ch'essa pone al centro dello sviluppo costituiscono la sostanza intorno alla quale si ordinano gli altri aspetti. Questo concetto umanistico, aperto all'etica e alla spiritualità, è il risultato di un lungo processo, il frutto di un lavoro sostenuto e non sempre facile, favorito dall'incontro di due forze convergenti: il pensiero africano ed asiatico, desideroso d'affermare l'identità culturale non occidentale, e il settore minoritario legato ai valori etici e spirituali della vita. Naturalmente, questa evoluzione ha incontrato forze opposte: il punto di vista economicista di alcuni paesi e l'ideologia marxista che, pur sostenendo il contenuto umanistico dello sviluppo, lo interpretava nel senso del materialismo dialettico e storico, lasciandone talvolta tracce sulle formulazioni concettuali. Diverse organizzazioni e importanti finanziatori, per parte loro, hanno assistito con ostilità, diffidenza o ironia all'evoluzione del concetto e agli sforzi dell'UNESCO per farlo passare nei paesi interessati allo sviluppo. E in gran parte merito dell'UNESCO l'aver proposto all'Assemblea generale delle Nazioni Unite la proclamazione di un Decennale mondiale dello sviluppo culturale deciso da una risoluzione del 29 gennaio 1987, per il periodo 1988-1997.

In pratica, i compiti che riguardano lo sviluppo culturale si rivelano estremamente complessi e richiedono una stretta collaborazione di tutti gli attori presenti: governi, organismi internazionali, fondazioni, ONG, Chiese, religioni e soprattutto i beneficiari stessi dello sviluppo.

Vedi: Diritti culturali. Industrializzazione. Urbanizzazione. Alienazione culturale. Modernità. Sviluppo culturale (e Chiesa cattolica). Educazione. Civiltà.

Bibl.: H. Carrier 1990a. P. E. Evans and J. D. Stephens 1988. G. Filibeck 1991. A. Girard 1982. P. M. Henry e B. Kossou 1985. S. H. Mendlovitz 1975. Mondiacult 1982. Rapport mondial... 1991. P. Worsley 1984. A. Grafton et al. 1990. C. Kay 1989.

 

Sviluppo culturale (e Chiesa cattolica). (inizio)

La problematica dello sviluppo culturale trova un'espressione originale nell'insegnamento sociale della Chiesa. Questo insegnamento, che si radica nel messaggio evangelico e in una lunga tradizione d'impegno al servizio della giustizia, ha trovato una formulazione più sistematica nel momento della rivoluzione industriale, con l'enciclica Rerum Novarum: 1891. Seguirono numerosi documenti che precisavano la dottrina cattolica secondo le circostanze e le sfide nuove: problemi riguardanti il capitalismo, il socialismo, il comunismo, il fascismo, la guerra, la pace, la decolonizzazione e l'indipendenza delle nazioni giovani. In tutti questi interventi, la Chiesa adotta, per definizione, un approccio etico e religioso, sempre attento, prima di tutto, all'aspetto umano dei problemi, all'ottica culturale, come ora si dice.

Mondializzazione dei problemi. Oggi, dopo una lunga maturazione dei problemi, i cattolici prendono coscienza che la questione sociale è diventata mondiale. In questo contesto, a livello di mondo, il problema dello sviluppo occupa un posto del tutto centrale.

I documenti fondamentali della Chiesa sullo sviluppo dei popoli sono le encicliche: Populorum Progressio (PP) di Paolo VI (1967) e Sollicitudo Rei Socialis (SRS) pubblicata da Giovanni Paolo II venti anni dopo, nel 1987, e Centesimus Annus, pubblicata nel 1991. Il pensiero della Chiesa in questa materia non può essere apprezzato a giusto titolo che se è compreso in una prospettiva nettamente culturale. E sempre l'orizzonte delle culture e della civiltà che è ricordato nell'impegno per lo sviluppo dei popoli e di tutti i gruppi umani.

Sviluppare tutto l'uomo ed ogni uomo. L'espressione chiave dell'insegnamento di Paolo VI nella PP è " lo sviluppo integrale dell'uomo e lo sviluppo solidale dell'umanità ". I due aspetti, individuale e collettivo, sono inseparabili: " Lo sviluppo integrale dell'uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell'umanità ". Ciò, è legato all'avvenire della civiltà: " In questo cammino siamo tutti solidali... La sopravvivenza di tanti bambini innocenti, l'accesso a una condizione umana di tante famiglie sventurate, la pace del mondo, l'avvenire della civiltà sono in gioco ". L'essenziale del messaggio si riassume in queste parole: " Lo sviluppo non si riduce alla sola crescita economica. Per essere autentico, deve essere integrale, il che vuol dire è volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo ": PP, 5, 43, 80.

Lo sviluppo, nome nuovo della pace. Quasi ad ogni pagina, Paolo VI parla di cultura, di civiltà, di umanesimo, per dimostrare che nessuno sviluppo degno di questo nome è possibile senza una comprensione delle condizioni culturali del progresso dei popoli. Questa è la chiave di lettura del messaggio sullo sviluppo.

Lo sviluppo è compreso nella prospettiva più realistica possibile: Paolo VI richiama continuamente le realtà morali che sottendono tutto il progresso umano. Cultura, sviluppo e pace costituiscono un'unica cosa ed egli lo ha proclamato in una formula che ha colpito le immaginazioni: " Lo sviluppo è il nuovo nome della pace ".

La cultura e la giustizia sono indissociabili e devono essere promosse insieme. La giustizia o lo sviluppo non si ottengono unicamente attraverso pianificazioni economiche o progetti tecnici. La giustizia non è neppure il risultato automatico di un'azione violenta. Per instaurare nel mondo una situazione di giustizia, è indispensabile costruire " una civiltà della solidarietà mondiale ", afferma Paolo VI. In altri termini, i fratelli devono porgere aiuto ai propri fratelli. E la coscienza mondiale della famiglia umana che è necessario promuovere. Il Vaticano II e gli ultimi papi hanno fortemente insistito sul principio della solidarietà universale dei popoli.

Occorre, contemporaneamente, raggiungere la cultura degli oppressi e quella degli oppressori, dei ricchi e dei poveri, dei donatori e dei beneficiari, delle nazioni opulente e dei paesi che aspirano ad uscire dalla miseria. E il senso più profondo dell'insegnamento della Chiesa sulla giustizia e lo sviluppo, che è, in definitiva, un appello alla fraternità umana. Non si otterrà un vero sviluppo che raggiungendo sia il dinamismo culturale dei ricchi che quello dei poveri. Da parte dei popoli più ricchi è necessaria una revisione culturale profonda perché si pongano all'ascolto degli uomini, loro fratelli, che sono nel bisogno e nella miseria. Anche da parte dei paesi economicamente poveri che vogliono accedere alla modernità, sono necessari dei cambiamenti culturali perché sarà loro necessario accogliere i valori della società industriale e tecnica, senza sacrificare l'essenziale delle loro tradizioni ancestrali.

Bisogni elementari fisici e morali. E dunque falso il contrapporre le richieste di giustizia e le esigenze della cultura, perché l'opera di giustizia è una delle più alte realizzazioni umane. E propriamente un'opera di civiltà e di elevazione dell'uomo. I bisogni elementari dell'uomo non sono soltanto di ordine fisico o materiale: essi sono allo stesso modo di ordine spirituale e culturale. L'uomo, certo, ha il bisogno essenziale di nutrirsi, d'essere curato, di trovare dove porsi al riparo, nella sicurezza, ma ha egualmente il bisogno vitale di sapere, di comprendere il mondo che cambia, d'essere rispettato nella propria identità, per affermarsi e crescere nella propria cultura. L'uomo aspira, dunque, con tutte le sue forze a soddisfare insieme i bisogni elementari di giustizia e di cultura.

La riflessione della Chiesa sulle esigenze di giustizia nel mondo insiste, a buon diritto, sulle interrelazioni concrete che esistono tra cultura, educazione, promozione dello sviluppo, lotta contro la fame, azione per la guistizia e la pace. Si tratta, dice Giovanni Paolo II all'UNESCO nel 1980 " di un vasto sistema di vasi comunicanti ". In nome stesso della giustizia, la Chiesa rifiuta tutti gli umanesimi chiusi su se stessi che finiscono per tradire l'uomo.

Appello alla coscienza universale. Giovanni Paolo II riprende, approfondendoli, i principi della Populorum Progressio. L'idea centrale è che lo sviluppo umano non può essere realizzato senza richiamarsi alla coscienza e alla solidarietà morale dei nostri contemporanei, ricchi o poveri, tutti impegnati nel vero progresso della famiglia umana e tutti corresponsabili. Sollicitudo Rei Socialis (SRS) sottolinea " la stima per la cultura e la civiltà tecnica che contribuiscono alla liberazione dell'uomo ", ma riafferma con forza che lo sviluppo non può ridursi ai suoi aspetti tecnici ed economici. In altri termini, la Chiesa ricorda alla coscienza universale che non c'è vera promozione se non si parte dalla dimensione sociale, culturale e spirituale dell'uomo. La liberazione dell'uomo non si realizza che nella verità e la giustizia.

Le povertà materiali e culturali. L'esperienza deludente di tre decenni di sviluppo viene a rinforzare questa analisi. Malgrado i numerosi sforzi, il mondo non è riuscito ad agire in profondità sulle cause del sottosviluppo di tante persone e gruppi umani. In molte parti del mondo, la miseria si è considerevolmente aggravata, e l'accelerazione dei cambiamenti sociali ha reso ancor più intollerabile la disparità tra gli esseri umani. A diverse riprese, Giovanni Paolo II utilizza nella SRS, l'espressione " vivere senza speranza " per descrivere la tragedia umana dell'estrema povertà. E dunque necessario rivalutare moralmente il senso della povertà che opprime tanti nostri fratelli. C'è, dunque, l'indigenza materiale, la mancanza di beni essenziali che riduce la vita ad un livello infra-umano; ma c'è anche la povertà causata dalla privazione violenta dei diritti elementari della libertà sociale, culturale, religiosa. Questa povertà può essere molto grave, più penosa della stessa povertà materiale. L'azione per lo sviluppo riguarda dunque non soltanto i paesi del terzo mondo, ma anche tutti i paesi in cui l'uomo è oppresso fisicamente, culturalmente e spiritualmente. La sovranità e l'identità culturali di ogni popolo costituiscono obbiettivi fondamentali di promozione umana. Se l'opzione o l'amore preferenziale per i poveri mira particolarmente al terzo mondo, non si possono ignorare tutti quelli che, anche nei paesi più avvantaggiati, sono oppressi dall'indigenza materiale e culturale e sono trattati in maniera indegna. Lo sviluppo riguarda tutti i poveri del mondo.

Tensione disastrosa tra i blocchi. Le diverse forme di povertà sono state aggravate dal fatto che tutta l'umanità è stata oppressa da una dura tensione tra i blocchi ideologici dell'Est e dell'Ovest, che ha prodotto un " gigantesco ingranaggio " dividendo il mondo in due concezioni opposte e criticabili dello sviluppo. Questa " situazione anormale " ha avuto per disastrosa conseguenza la concentrazione di immense risorse nei programmi militari di sicurezza, privando così la famiglia umana dei mezzi necessari allo sviluppo di tutti. C'è da augurarsi che la cooperazione tra l'Occidente e l'Est dell'Europa contribuisca allo sviluppo economico e culturale delle parti interessate come delle nazioni del terzo mondo.

Le radici culturali e morali del sottosviluppo. Un'analisi veramente realistica delle forme attuali del sottosviluppo porta a riconoscere che le povertà del nostro tempo sono radicate in fattori politici e, alla fine, in un male morale dovuto alle colpe e alle omissioni di molte persone. Sarà dunque necessario agire a livello del peccato sociale o delle strutture di peccato, intese come la somma o la risultanza di mancanze e di omissioni di una moltitudine d'individui. L'obbiettivo positivo è quello di costruire un avvenire umano più degno per tutti e la sfida dello sviluppo appare dunque come un appello pressante alla fraternità universale, sola realtà dinamica capace di ridefinire il vero progresso partendo dall'essere autentico dell'uomo. Limitarsi soltanto a obbiettivi economici o all'accumulo di beni materiali significa tradire le vere finalità dello sviluppo. Una profonda riforma morale e culturale s'impone se il nostro mondo vuole rimanere padrone del proprio destino comune. Bisognerà, in particolare, rivalutare il senso del lavoro umano, degli scambi e degli aiuti economici, delle iniziative locali e regionali, del commercio internazionale, della responsabilità civica in tutti i paesi, ricchi e poveri. Giovanni Paolo II invita i nostri contemporanei ad un grado superiore di organizzazione internazionale e cita spesso le realizzazioni delle Nazioni Unite, chiamate ad un'opera sempre più efficiente e solidale.

Rovesciare le culture egocentriche. I cristiani sono convinti che, di fronte alla sfida dello sviluppo, la luce del Vangelo perverrà finalmente a trasformare le culture dominanti che frenano scandalosamente i tentativi di promozione generale e minacciano l'avvenire dell'uomo nel mondo. Occorre rovesciare la cultura della società dei consumi, le ideologie oppressive e la pura rassegnazione di fronte alla miseria delle masse. Siamo, invece, chiamati a instaurare una cultura della solidarietà e dell'impegno efficace a servizio del bene di tutta la famiglia umana.

Nella cultura contemporanea, si manifestano tendenze ed aspirazioni positive (SRS, 26) che potranno favorire l'impegno comune per lo sviluppo umano: una maggiore sensibilità per la giustizia e i diritti umani, un accresciuto senso di interdipendenza e di corresponsabilità per il bene comune dell'umanità, un maggiore impegno per la difesa della vita e della pace, una maggiore preoccupazione per l'ecologia. La Chiesa, in virtù della sua missione, si sente profondamente impegnata nell'opera della promozione umana che la nostra epoca reclama.

Per una nuova cultura della solidarietà. Un appello energico è dunque rivolto a tutti i popoli e a tutte le persone per suscitare un indispensabile movimento di solidarietà umana capace di affrontare efficacemente i doveri urgenti e gravi dello sviluppo. E il solo mezzo morale capace di promuovere lo sviluppo integrale di tutti gli uomini e di tutte le donne del nostro tempo, di edificare una pace duratura. L'enciclica SRS traduce questo obbiettivo nell'espressione: " Opus solidaritatis pax ", la pace è opera della solidarietà.

La sfida può sembrare umanamente sproporzionata, ma la Chiesa non dubita della forza dell'amore e della fraternità ispirata dal Vangelo. Il papa afferma: " La solidarietà è indubbiamente una virtù cristiana ": SRS, n. 40. Questo messaggio si rivolge a tutti i credenti per suscitare le collaborazioni necessarie. Aggiungiamo che tutti, ispirati o non da una fede religiosa, sono chiamati d'urgenza ad un cambiamento degli atteggiamenti spirituali che condizionano i rapporti tra tutti gli uomini. Bisogna ritornare ad un amore elementare del fratello per il fratello nello spirito di una civiltà dell'amore.

E a questo livello delle mentalità, dei modi di pensare, di lavorare, di fare politica e di percepire la famiglia umana che bisogna agire. Le culture stesse devono essere cambiate perché la giustizia diventi operante, perché le ingiustizie siano combattute con efficacia. Questa concezione culturale dello sviluppo è, in fondo, la sola realistica perché essa sola si richiama alla dinamica più profonda delle nostre società e alla psicologia dei nostri contemporanei.

I due documenti della Chiesa PP e SRS si presentano come la Magna Charta dello sviluppo integrale dell'uomo che aspira alla propria promozione economica, culturale e spirituale.

Questi principi illustrano l'azione delle persone e dei gruppi impegnati nei compiti dello sviluppo culturale.

Vedi: Sviluppo culturale. Civiltà dell'amore.

Bibl.: H. Carrier 1990a, 1993b. G. Filibeck 1991. O.I.C. 1989.

T

 

Tempo libero. (inizio)

E il tempo di cui disponiamo liberamente al di fuori degli obblighi e delle costrizioni abituali.

I Greci usavano il termine scholé, che significa contemporaneamente assenza di lavoro, conversazione, studio, riposo e da cui deriva il termine scuola. I Romani contrapponevano otium (tempo libero) a negotium (assenza di tempo libero o affare).

Il tempo libero è uno spazio di libertà in cui l'individuo si rifà fisicamente e mentalmente, in cui può realizzarsi sviluppando le proprie capacità. Oggi, il tempo libero è concepito in rapporto alla formazione permanente e al progresso culturale delle persone e dei gruppi.

J. Dumazedier ha sottolineato con vigore il rapporto che esiste tra il tempo libero, l'educazione e la cultura. Per essere benefico culturalmente, il tempo libero deve essere orientato verso lo sviluppo delle persone, perché il tempo libero per sé è ambivalente e può essere impiegato sia nella crescita degli individui che nel loro degrado e in divertimenti disumananti. Le società moderne richiedono una educazione al tempo libero, mentre diminuiscono le ore di lavoro e i media offrono a tutti larghe possibilità per approfittare utilmente dei periodi liberi.

Rapporto con il lavoro e con la libertà. Gli attuali studi sul tempo libero dimostrano che questo tempo è diversamente interpretato secondo la varietà dei contesti socio-economici: regime liberale, socialista, comunista: M. F. Lanfant, 1974. Teniamo presente che il tempo libero è ordinariamente concepito nel suo rapporto con il lavoro e con la libertà.

Per i teorici del marxismo, il tempo libero deve essere concepito come una conquista degli operai che devono recuperare il lavoro fornito senza contropartita per produrre il plus-valore. I regimi comunisti hanno voluto una considerevole riduzione del tempo di lavoro per permettere ai lavoratori di dedicare le ore libere alla costruzione del socialismo: S. Strumilin 1959. Ma, nei paesi comunisti stessi, gli osservatori si sono resi conto che il tempo libero era piuttosto in diminuzione a causa della lentezza dei trasporti, delle lunghe file d'attesa nei negozi, dei compiti domestici che si venivano ad aggiungere ai lavori esterni. Se i regimi socialisti hanno cercato di offrire, nei grandi centri, programmi ricreativi, artistici e sportivi finanziati dai fondi pubblici, lo Stato, per parte sua, si è visto obbligato a lottare contro l'inoperosità, la delinquenza, l'alcoolismo che spesso imperversano là dove mancano i servizi comunitari e i mezzi di animazione culturale. Queste difficoltà hanno condotto diversi paesi socialisti a ridefinire la propria politica del tempo libero, abbandonando l'approccio del collettivismo rigido.

Nelle democrazie liberali, il tempo libero è considerato come un'estensione delle libertà della persona che deve essere garantito con adeguate misure sociali. I sindacati operai propongono una ridistribuzione dell'orario che assicuri una maggiore flessibilità dei periodi di lavoro e dei tempi liberi nel corso della giornata, della settimana, dell'anno e di tutta la vita.

La critica sociale dimostra che il tempo libero rischia d'essere deprezzato da una sopravvalutazione della razionalità e della produttività, dall'aumento dell'edonismo - la fun morality, di cui parla Martha Lowenstein - e dello sfruttamento commerciale del tempo libero stesso. I media, in particolare, sono oggetto di una critica severa: la TV, secondo alcuni, avrebbe per effetto di distrarre la massa dei lavoratori e di far loro accettare un sistema economico in cui i medesimi interessi finanziano contemporaneamente le imprese e i media. I poteri economici sono interessati a perpetuare un modello determinato di produzione e di consumo, e una larga parte della pubblicità specula sul tempo libero come momento ideale per il consumo. Dietro il tono negativo di queste analisi, bisogna riconoscere i problemi reali che pone l'estensione di una cultura di massa propagata senza criterio etico.

Tempo libero e Cultura. Per essere umanamente arricchente, il tempo libero nelle società complesse deve essere liberato dalle manipolazioni ideologiche o dagli appetiti economici di cui è troppo facilmente oggetto.

Il puro liberalismo, come il socialismo, tendono ad alienare l'uomo moderno privandolo di un tempo libero veramente libero. Uno degli obbiettivi prioritari di ogni promozione culturale, è quello di assicurare democraticamente le condizioni di un tempo libero che arricchisca e sia formativo per tutti gli elementi della popolazione, rivolgendo una speciale attenzione alle classi più disagiate, ai gruppi di emarginati, agli immigrati, ai giovani, agli anziani, agli individui detti non-produttivi. La prima educazione, come la formazione permanente, devono affrontare seriamente il problema moderno del tempo libero, che può diventare un tempo prezioso per perfezionare le proprie conoscenze, per partecipare al progresso delle arti, delle scienze, della cultura in genere. Il tempo libero può così diventare un'occasione di sano divertimento, di riposo, di sviluppo personale e di promozione umana per tutta la collettività. Bisogna anche che possibilità concrete siano offerte al maggior numero di persone.

I governi devono tenere conto di questo obbiettivo nella loro politica culturale. Molti paesi hanno istituito, a questo effetto, un Ministero del Tempo Libero che, oltre agli sports, cerca di favorire lo sviluppo culturale con un sano uso del tempo libero. Occorre che i cittadini e gli organismi privati si sentano incoraggiati ad una utilizzazione benefica di questo vasto spazio-tempo che costituisce il tempo libero nell'attuale società, ma sempre nel rispetto della libera partecipazione di tutti gli interessati. Il tempo libero può allora divenire un tempo di formazione per l'arricchimento dell'individuo, delle comunità umane e di tutta la società.

La Chiesa riconosce l'importanza del tempo libero per fortificare la salute dello spirito e del corpo, per arricchire le proprie conoscenze, per ampliare le relazioni fraterne, per partecipare ad attività culturali umanizzandole ed impregnandole di spirito cristiano: Gaudium et Spes, 61.

Vedi: Educazione permanente. Lavoro. Turismo. Animazione culturale.

Bibl.: N. Anderson 1961. W. Andreff 1989. J. Dumazedier 1962, 1988. J.R. Kelly 1985. M. F. Lanfant 1974. R. Meyerson 1969. P. Simonnot 1988. M.A. Smith et al. 1973. S. Strumilin 1959. J. Urry 1990. N. Elias et al. 1994. H. Risse 1991.

 

Tratti culturali. (inizio)

Gli antropologi hanno stabilito dei cataloghi per l'osservazione delle caratteristiche di una cultura. Un tratto rappresenta un elemento semplice d'osservazione. Un insieme di tratti forma un complesso culturale. I cataloghi generalmente accettati distinguono sette elementi principali che rivelano i tratti tipici di una cultura: 1. La tecnologia, o il modo di trattare le risorse naturali per i bisogni dell'uomo. 2. L'organizzazione economica, che condiziona i metodi di produzione e di consumo. 3. L'organizzazione sociale, che ordina i rapporti umani soprattutto nei due tipi di istituzioni: la parentela e la libera associazione. 4. L'organizzazione politica, che regola il potere, l'apparato amministrativo, legale, giudiziario e l'ordine pubblico. 5. L'educazione, che permette la trasmissione del sapere, la socializzazione dei giovani, la preparazione a tutte le tappe della vita. 6. La religione, che dà forma ai rapporti con l'aldilà, alle credenze, ai riti e alle strutture comunitarie del comportamento religioso. 7. Infine, i simboli culturali, rappresentati soprattutto dalla lingua - probabilmente l'elemento culturale più importante -, dalle arti, dal sapere, dalla musica, dalle celebrazioni, dai costumi, dalle feste, dai giochi.

L'analisi dei tratti culturali può essere più o meno dettagliata. In certi studi sugli autoctoni della California, le liste dei tratti analizzati variano da qualche centinaio a qualche migliaio. Un approccio analogo, ma molto più complesso, è usato per le società industrializzate, soprattutto quando domina il pluralismo culturale.

Vedi: Analisi culturale. Identità.

 

Turismo. (inizio)

Il turismo è una delle manifestazioni più visibili della cultura di massa, che interessa un numero sempre maggiore di persone di ogni età e condizione.

Il turismo può essere definito come una forma di viaggio fuori dal proprio ambiente abituale, intrapreso per ragioni di riposo, di piacere, di cultura. Il turismo si distingue dai viaggi di affari o dagli spostamenti per ragioni di lavoro, di studio o di emigrazione.

Fino all'inizio del secolo XX, il turismo era un lusso riservato all'aristocrazia, alla élite, ai benestanti, i soli che potevano pagarsi viaggi costosi o crociere di prestigio. E soprattutto dopo l'ultima guerra mondiale che, grazie ai nuovi mezzi di trasporto, le popolazioni dei paesi industrializzati ne hanno potuto godere in numero sempre maggiore, anche se la percentuale potenziale dei turisti varia molto da un paese all'altro. Nel terzo mondo, praticamente, soltanto i ricchi sono in grado d'intraprendere viaggi dispendiosi, generalmente effettuati all'estero. Nei paesi ad alta urbanizzazione, invece, il turismo interessa progressivamente la maggior parte della popolazione.

Tra queste due situazioni, molti paesi, in Europa per esempio, occupano una posizione intermedia: il turismo è praticato dai cittadini delle capitali e delle grandi città di provincia, i rurali lo praticano in numero molto ridotto. In questi paesi si può calcolare una percentuale di turisti che varia dal trenta al trentacinque per cento della popolazione.

Turismo e società industriale. Come fenomeno culturale, il turismo moderno è legato all'esplosione della società industrializzata che ha sviluppato mezzi di trasporto sempre più rapidi, a prezzi popolari. Da principio, verso la metà del secolo XIX, ci furono i treni da diporto e, circa nella stessa epoca, l'organizzazione di viaggi in nave, resi popolari da Thomas Cook in Inghilterra e da Samuel Cunard negli Stati Uniti. In seguito, è giunta la rivoluzione dell'automobile, onnipresente, e si è imposto poi, in questi ultimi trenta anni, lo straordinario sviluppo dei viaggi aerei.

Con la generalizzazione delle ferie pagate, dopo l'esempio dato dalla Francia nel 1936 e dall'Inghilterra nel 1938, il turismo è progressivamente entrato nei programmi dei vacanzieri urbani. Come si può vedere, il turismo, in quanto comportamento culturale, è indissociabile da una concezione del lavoro legata all'idea di vacanze, di tempo libero, di mobilità.

Tipi di turismo. I turisti si dividono in diverse categorie, secondo le motivazioni e gli interessi. E. Cohen distingue i Sightseers dai Vacationers. I primi cercano prima di tutto nuovi siti, nuovi paesi da visitare, desiderano fare incontri, esperienze inedite e sono disposti a spostamenti numerosi ed importanti nel corso delle loro vacanze. I secondi sono vacanzieri per i quali la preferenza è data al riposo, alla distensione, al soggiorno stabile in un luogo di villeggiatura lontano dall'abituale domicilio. V. Smith, da parte sua, introduce un'altra distinzione - confermata dalle ricerche di Philip Pearce (1982) - tra turisti particolarmente interessati alle popolazioni da visitare (Ethnic Tourism) e quelli che preferiscono il turismo ricreativo (Recreational Tourism).

Il turismo come esperienza umanizzante. Il turismo può rivelarsi una delle esperienze più arricchenti sul piano umano. Il viaggio riserva al turista preparato la possibilità di meravigliarsi di fronte agli splendori della natura, di scoprire la bellezza di città e di nuovi luoghi, con i loro monumenti, la loro arte, i loro ambienti di lavoro, di commercio, di vita quotidiana. Il turista apprezzerà soprattutto l'incontro con popolazioni fino a quel momento sconosciute e la ricchezza dei loro costumi, della loro carica umana. Il turismo è un mezzo privilegiato per la reciproca conoscenza e la comprensione dei popoli, per fondare la solidarietà e la pace tra le nazioni. Le agenzie di viaggio che si interessano di cultura offrono crociere o itinerari con tematiche quali: musica, teatro, visite archeologiche, storiche, scoperte di popoli, fraternizzazione tra giovani o, semplicemente, un programma equilibrato di condizionamento fisico. Questo tipo di turismo culturale suscita un interesse crescente e vi ritorneremo nella trattazione che segue.

Il turismo come consumo. Uno degli aspetti del turismo moderno è la sua commercializzazione attraverso potenti interessi nei quali si coalizzano agenzie di viaggi, compagnie di trasporti terrestri, marittime ed aeree, reti di alberghi e di luoghi di villeggiatura. I programmi di vacanza, gli itinerari e i viaggi così offerti alla concorrenza, beneficiano di tutti i vantaggi della società dei consumi, quali la riduzione dei prezzi, la competizione professionale, la perizia internazionale.

Il turismo, d'altra parte, come produzione commercializzata, non evita sempre le critiche formulate nei confronti della società dei consumi: vedi Società dei consumi.

Il turismo diventa anticulturale e disumanizzante, quando è promosso da agenzie senza scrupoli, che speculano sulla sete di piacere, di consumo, di scialo. Lo slogan facile, inventato negli anni '50 è sempre in vigore nella pubblicità turistica: Sea, Sex Sun le tre S a cui si aggiunge " Sport ". E di pubblica notorietà che certe grandi metropoli sono destinazione di viaggi organizzati e riservati alla sfrenatezza e alla prostituzione. Ci sono agenzie di viaggi che sono molto esplicite su questo punto nella loro pubblicità. Il turismo, come bene di consumo, rappresenta per molti un simbolo di prestigio e di vanità. In certi ambienti, è di buon tono, quasi indispensabile, aver " fatto " un tale itinerario ed una talaltra crociera. E il turismo-prestigio. Molti viaggi organizzati favoriscono la passività, evitando qualunque tipo di incontro significativo con ambienti e popolazioni visitate.

Accade anche che alcuni turisti intraprendano dei lunghi viaggi all'estero soltanto per trovarsi in compagnia di connazionali che ignorano del tutto la popolazione che li ospita. La motivazione culturale di questi viaggi è nulla, come osserva con arguzia A. Huxley: " Noi non viaggiamo per ampliare o arricchire i nostri spiriti, ma per dimenticare allegramente ch'essi esistono".

Dimensione interculturale. I rapporti tra viaggiatori e popolazioni visitate costituiscono un'importante dimensione culturale del turismo: Ph. Pearce, 1982. Nei paesi d'accoglienza, le popolazioni locali traggono dal turismo un guadagno economico apprezzato e ricercato. Questo può essere anche occasione per sviluppare un'industria turistica, un'infrastruttura alberghiera e stradale, località di villeggiatura. Spesso le comunità locali riscoprono la loro identità attraverso gli occhi stessi dei loro visitatori. Non è raro che costumi tradizionali, minacciati di estinzione, come la danza, le cerimonie, le arti popolari e l'artigianato siano rivalorizzati per l'interesse che vi scoprono i turisti. Gli stranieri, d'altra parte, introducono nei paesi visitati la conoscenza delle lingue, delle nuove tecniche, delle aspirazioni sociali ed economiche, che possono essere benefiche, come lo prova l'esperienza.

I turisti, per parte loro, hanno tutte le possibilità di ampliare i propri orizzonti e la propria esperienza a contatto con popolazioni scoperte nella loro cultura tipica e nella ricchezza delle loro tradizioni. Si annodano amicizie a maggior profitto della comprensione e della stima reciproca. I turisti, in genere, ritornano a casa loro più fieri del proprio paese che riscoprono con nuovi occhi.

Un turismo di massa incontrollato, tuttavia, porta spesso gravi danni all'ambiente, ai luoghi o ai monumenti. Le politiche turistiche e culturali degli Stati giustamente si preoccupano di questi rischi del turismo abusivo. Le popolazioni locali sono urtate dall'ostentazione e dallo spreco dei turisti, dai lussuosi alberghi costruiti come ghetti per gli stranieri sulle spiagge o in località privilegiate.

Il turismo spesso si accompagna a tensioni psicosociali. La sfrontatezza e l'indiscrezione dei turisti suscitano il risentimento delle popolazioni che si vedono minacciate nei loro valori e nella loro cultura. Questi popoli si sentono umiliati d'essere fotografati come esseri strani e soggetti da folklore: vedi Etnologizzazione. I loro costumi, le loro cerimonie, il loro modo di vivere, i loro templi sono dissacrati da viaggiatori senza scrupoli, che li invadono senza alcun rispetto o che li sfruttano a scopo commerciale. Da una parte e dall'altra sorgono stereotipi che sfigurano l'immagine dei turisti, come quella dei paesi visitati.

Per ragioni politiche o religiose, in certi paesi il libero flusso dei turisti è rigidamente sotto controllo. E stato il caso dell'URSS che aveva istituito l'intourist a questo effetto; è il caso di molti paesi islamici, che temono il contatto massiccio con viaggiatori occidentali, con i loro modi e i loro comportamenti.

Ovunque, le ripercussioni del turismo provocano la presa di coscienza dei problemi che il turismo moderno pone, quando diventa un fatto di migrazione massiccia, di reciproca invasione dei paesi, di mescolamento inquinante delle culture.

Verso un turismo culturale e sociale. Di fronte all'ampiezza del fenomeno turistico e alle sue dimensioni culturali, i governi si preoccupano di formulare una politica specifica in questo campo, affidata, in genere, ad un Ministero del turismo o del tempo libero, vincolato ai Ministeri della cultura e dell'educazione.

I centri culturali e gli istituti di cultura iscrivono il turismo nei loro programmi di animazione e di educazione popolare: vedi Centro culturale, Animazione culturale.

Nuove forme di turismo compaiono, particolarmente il turismo sociale e il turismo culturale. Si va tentando lo sforzo di favorire le categorie sociali private di vacanze e di possibilità di viaggiare, e vengono loro offerte facilitazioni da parte dei governi, delle imprese, dei sindacati, delle organizzazioni umanitarie, dei centri culturali. Sono, per esempio, riservati prezzi speciali da parte delle compagnie aeree per gruppi popolari, per giovani e per persone anziane.

Il turismo non è un'invenzione recente. I grandi scrittori del passato, da Erodoto, hanno esaltato il significato umano dei viaggi, ed esistono guide per i viaggiatori da molto tempo. Ne è prova la Guida del pellegrino di San Giacomo di Compostella apparsa verso il 1140. Oggi esistono guide eccellenti per trarre il massimo vantaggio da un itinerario turistico.

L'idea del turismo culturale è sostenuta dagli educatori che cercano di sensibilizzare i giovani e gli adulti all'aspetto formativo dei viaggi e alle possibilità di arricchimento del tempo libero. Giovanni Paolo II diceva a Courmayeur: " Il turismo è, sì, un fenomeno generale, che è anche portatore e ricercatore di valori... Si scopre l'importanza del tempo libero come valore, capace di far crescere interiormente; esso infatti rappresenta una delle più concrete ed efficaci affermazioni di libertà dell'individuo... ": Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX2, 1986, p. 553. Riguardo al turismo in particolare egli aggiungeva che ne derivano " grandi vantaggi per la cultura, per i rapporti tra i popoli e, di conseguenza, per la pace, per la promozione della civiltà e per la diffusione di un maggiore benessere. Tutto questo non può lasciare indifferente la Chiesa, la quale è attenta a tutto ciò che è di autenticamente umano ".

Il turismo culturale suppone una pedagogia del tempo libero e delle vacanze che tenga conto di una pratica a livello d'uomo del turismo, orientata alla distensione fisica, all'amore e al rispetto per la natura e l'ambiente, all'arricchimento dello spirito, alla scoperta e alla stima degli altri, e, reciprocamente, alla capacità d'accoglienza nei paesi che ospitano. Il turismo culturale contribuisce così a ritemprare la salute fisica e morale. E questo un obbiettivo culturale ed educativo che Giovanni Paolo II sottolineava a Cormayeur: " Occorre perciò una vera e propria educazione all'accoglienza, alla gentilezza, alla reciproca comprensione, alla bontà, al rispetto del prossimo; occorre anche un'educazione ecologica per il sano e sobrio godimento delle bellezze naturali; ma occorre soprattutto un'educazione religiosa affinché il turismo non turbi mai le coscienze e non abbassi mai lo spirito, ma, anzi, lo elevi, lo purifichi, lo innalzi al dialogo con l'Assoluto e alla contemplazione del mistero immenso che ci avvolge e ci attira ".

La Chiesa cattolica segue con attenzione lo sviluppo del turismo e ne studia le componenti culturali, etiche e religiose, per le persone e le nazioni. Il Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti ne ha l'incarico. Esso pubblica On the Move, quaderni di ricerca che trattano in forma regolare il tema del turismo.

Nelle Nazioni Unite un organismo speciale, l'OMT, è stato creato per occuparsi della questione del turismo nei suoi aspetti sociali, economici, culturali e educativi a livello delle società nazionali e dei rapporti internazionali. L'Organizzazione Mondiale del Turismo ha istituito una Giornata mondiale del turismo e approvato, nel 1985, la Carta del turismo e il Codice del turista.

Vedi: Tempo libero. Società dei consumi.

Bibl.: M. Boyer 1984. E. Cohen 1972, 1979. R. Lanquar 1984. P. Pearce 1982. G. Sigaux 1983. S. Urry 1990.

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UNESCO. (inizio)

L'UNESCO è una delle grandi istituzioni specializzate delle Nazioni Unite, la cui sigla è l'abbreviazione dell'espressione inglese United Nations Educational Scientific and Cultural Organization; in italiano, " Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura ". L'UNESCO è stata creata subito dopo la seconda guerra mondiale, nel novembre 1945, in una riunione a Londra di ventiquattro Stati convocati dalla Gran Bretagna e la Francia. L'anno seguente, nel novembre 1946, l'UNESCO ha stabilito la sua sede a Parigi.

Lo scopo principale dell'istituzione è di contribuire alla pace e alla comprensione internazionale favorendo la collaborazione nel campo dell'educazione, della scienza, della cultura, della comunicazione e dei diritti dell'uomo.

Il suo Atto costitutivo del 1945 proclama il principio che " le guerre nascono dallo spirito dell'uomo ed è nello spirito degli uomini che devono essere elevate le difese della pace... questa pace deve essere stabilita sul fondamento della solidarietà intellettuale e morale dell'umanità ".

L'UNESCO ha ripreso, in forma completamente nuova, l'esperienza dell'antico Istituto Internazionale di Cooperazione Intellettuale, che ha funzionato a Parigi nel quadro della Società delle Nazioni tra il 1924 e il 1940. Ma, mentre questo Istituto era un organismo sovvenzionato dai governi, soprattutto dalla Francia, l'UNESCO si definiva invece come un'organizzazione intergovernamentale di Stati associati per convenzione, ciascuno dei quali s'impegnava a contribuire al bilancio dell'istituzione in funzione del proprio reddito nazionale.

La direzione e il funzionamento dell'UNESCO sono basati su tre organi principali: la Conferenza Generale, che riunisce ogni due anni gli Stati membri per decidere i programmi e i bilanci corrispondenti; il Consiglio Esecutivo, formato da cinquantuno membri eletti dalla Conferenza, è incaricato di seguire l'esecuzione del programma e le questioni amministrative; il Segretariato, che assicura il funzionamento dell'organizzazione con l'aiuto di personale fisso, di incaricati di missioni, di consiglieri tecnici. Il Segretariato è presieduto da un Direttore Generale eletto per sei anni dalla Conferenza Generale.

Principali settori di attività. Le attività essenziali dell'UNESCO corrispondono ai grandi settori dell'educazione, delle scienze, della cultura, delle comunicazioni.

L'educazione rappresenta il campo più importante e si diversifica in quattro tipi di intervento: l'alfabetizzazione, la formazione degli insegnanti, l'educazione dei rifugiati e il riconoscimento internazionale dei diplomi universitari. Questi programmi si concretano attraverso le campagne di sensibilizzazione, la partecipazione a programmi di sviluppo scolastico, la collaborazione con numerosi specialisti di questioni educative ed universitarie. L'UNESCO ha formulato un Piano d'azione per eliminare l'analfabetismo prima del 2000 attraverso una mobilitazione della comunità internazionale. La priorità è data dell'educazione delle donne e delle ragazze. L'UNESCO collabora regolarmente con l'Associazione Internazionale delle Università e con altre organizzazioni universitarie internazionali. Lo scopo perseguito è quello di condurre gli specialisti universitari a partecipare più strettamente ai programmi dell'UNESCO. Numerose inchieste e pubblicazioni sono state dedicate ai problemi dell'educazione. Menzioniamo, a titolo d'esempio, lo studio dei sistemi educativi, che la Commissione internazionale per lo sviluppo dell'educazione ha intrapreso e pubblicato sotto la direzione di Edgar Faure, Apprendre à être, 1972. Vedi Educazione permanente.

Nel campo della Scienza, bisogna segnalare i programmi di cooperazione scientifica promossi da organismi internazionali creati nel seno stesso dell'UNESCO, il cui campo abbraccia l'oceanografia, l'idrologia, i rapporti dell'uomo con la biosfera. Questi programmi interessano migliaia di specialisti nel mondo ed hanno ripercussioni pratiche importanti per la comunità internazionale. Oltre alle scienze esatte e naturali, l'UNESCO cerca d'interessarsi prevalentemente di scienze sociali e di scienze umane, più direttamente legate allo sviluppo e alla promozione dei diritti dell'uomo.

La Cultura è il settore in cui l'azione dell'UNESCO è più conosciuta. Le sue campagne per la protezione del patrimonio culturale dell'umanità hanno suscitato una vasta eco: salvaguardia dei monumenti della Nubia minacciati dalla diga di Assuan, salvaguardia del tempio di Borobudur in Indonesia, del sito di Venezia e di molti monumenti celebri nel mondo. L'UNESCO ha inoltre dato un impulso nuovo all'idea e alla pratica della politica culturale, notoriamente mediante le sue conferenze internazionali di Venezia nel 1970 e di Messico nel 1982: vedi Mondiacult.

Lo sviluppo culturale è un altro grande obbiettivo dell'Organizzazione, di cui il Decennale mondiale dello sviluppo culturale è l'espressione di maggiore rilievo: vedi Sviluppo culturale.

L'UNESCO elabora anche strumenti di cooperazione culturale sotto forma di protocolli, di norme o di convenzioni. Ricordiamo soprattutto: 1) La circolazione internazionale del materiale visivo e uditivo: 1948; 2) Principi internazionali da seguire in materia di scavi archeologici: 1956; 3) Mezzi per rendere i musei accessibili a tutti: 1960; 4) Dichiarazione dei principi della cooperazione culturale internazionale: 1966; 5) La protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale: 1976; 6) Lo scambio internazionale dei beni culturali: 1976; 7) La salvaguardia e la valorizzazione di complessi storici tradizionali: 1976; 8) La condizione dell'artista: 1980.

La Comunicazione è un settore che interessa in modo speciale l'organizzazione, perché il suo Atto costitutivo chiede di " facilitare la libera circolazione delle idee attraverso la parola e l'immagine ". L'UNESCO si è particolarmente preoccupata dei problemi dei paesi poveri che vengono considerati troppo dipendenti dai grandi sistemi informativi del mondo e che reclamano un'infrastruttura e agenzie d'informazione per accedere direttamente alla comunicazione. Il programma di un nuovo ordine internazionale della comunicazione e dell'informazione è stato occasione di vive polemiche, ma ha contribuito a sensibilizzare l'opinione mondiale sulla eccessiva dipendenza delle nazioni povere nel campo della comunicazione e dell'informazione. Un programma internazionale più recente riguardante lo sviluppo della comunicazione insiste sulla cooperazione, l'assistenza tecnica, la formazione, la regolamentazione e la sperimentazione in questo campo: World Communication, UNESCO, 1989.

L'UNESCO estende ampiamente il suo raggio d'azione grazie ad un sistema di collaborazione con più di cinquecento ONG - Organizzazioni Non Governative - i cui modi di cooperazione sono più o meno limitati e definiti secondo statuti convenuti. Alcune ONG sono sovvenzionate dall'UNESCO e si sono incaricate di eseguire, per contratto, delle attività in corrispondenza ai suoi programmi. Molte ONG sono state, d'altra parte, create per l'iniziativa stessa dell'UNESCO: il Consiglio Internazionale dei Musei (ICOM), costituito nel 1946; il Consiglio Internazionale degli Archivi (CIA), fondato nel 1948; il Consiglio Internazionale della Musica (CIM), creato nel 1949; il Consiglio Internazionale dei Monumenti e Siti (ICOMOS), creato nel 1965.

Scopi e filosofia dell'UNESCO. Per creare uno spirito di libera cooperazione tra partners con ideologie e credenze molto diverse, l'UNESCO ha dovuto superare alcuni scogli, di cui il più grave è stato quello di aver voluto proporre una filosofia unica a tutta l'istituzione. Tale era stata, da principio, la pretesa di Julian Huxley che, in uno studio preparatorio per la prima Conferenza Generale del 1946, aveva sostenuto questa tesi ed aveva avanzato la seguente raccomandazione: " Sembra dunque che la filosofia generale dell'UNESCO debba essere quella di un umanesimo scientifico universale che unifichi i diversi aspetti della vita umana e s'ispiri all'Evoluzione ". Per Huxley, soltanto una filosofia del progresso fondata su di un umanesimo evoluzionistico poteva costituire l'obbiettivo primo dell'UNESCO e questa filosofia esigeva che fosse scartata ogni visione del mondo che s'ispirasse ad una religione, ad una credenza, ad una particolare ideologia. Egli concludeva il suo studio intitolato L'UNESCO, i suoi scopi e la sua filosofia (Londra, 1946) affermando che l'UNESCO aveva per compito " di aiutare la nascita di una cultura mondiale unica, che possedesse una sua propria filosofia, un sottofondo di idee e un ampio disegno ".

Il rapporto di Huxley provocò gravi critiche. Molti dei rappresentanti nazionali contestarono il suo agnosticismo e il suo monismo culturale. Jean Thomas (1962) ricorda così la reazione diffusasi in molti delegati: " L'ateismo implicito di questa dottrina ha suscitato un turbamento pari a quello dell'annuncio di una cultura unica per il mondo intero e della pretesa di conciliare tutte le credenze in una medesima filosofia che sarebbe quella dell'UNESCO ".

Di fronte alle gravi obbiezioni suscitate dal suo rapporto, Julian Huxley attenuò la sua posizione filosofica ed assunse un atteggiamento più conciliante sul piano esecutivo, ciò che facilitò la sua elezione a primo Direttore generale nel dicembre 1946.

E nella seconda Conferenza generale a Messico, nel 1947, che l'UNESCO chiarì i principi di una possibile collaborazione sul piano pratico tra coloro che sostenevano convinzioni e credenze divergenti. Jacques Maritain, l'autore di Umanesimo integrale, rappresentava la Francia alla Conferenza e ricopriva l'incarico di presidente interinale. Egli dimostrò, in un discorso molto apprezzato, come l'UNESCO dovesse definire la propria linea di azione su di un piano pratico e non cercando un impossibile accordo di mentalità appartenenti a famiglie spirituali o a scuole di pensiero diverse o antagoniste. " Precisamente perché... la finalità dell'UNESCO è una finalità pratica - ha detto -, l'accordo delle mentalità può avvenire spontaneamente non su un comune pensiero speculativo ma su un comune pensiero pratico; non sull'affermazione di una medesima concezione del mondo, dell'uomo e della conoscenza, ma sull'affermazione di un medesimo insieme di convinzioni dirette all'azione. Ciò è certamente poco, ma è l'ultimo rifugio per un accordo degli spiriti. Ciò è, tuttavia, sufficiente per intraprendere una grande opera, e a molto gioverebbe prendere coscienza di questo insieme di comuni convinzioni pratiche ". Ciascuno, certo, conserva le proprie convinzioni nel rispetto delle convinzioni degli altri, ma ciò non impedisce a uomini di buona volontà di intendersi su obbiettivi pratici, intravvisti necessari per tutti. " Per comprendere questo basta, spiegava Maritain, distinguere in maniera conveniente le giustificazioni razionali impegnate nel dinamismo spirituale di una dottrina filosofica o di una fede religiosa, dalle conclusioni pratiche che, diversamente giustificate per ciascuno, sono per gli uni e per gli altri, principi d'azione analogicamente comuni ". Maritain aggiungeva: " E così, che, a mio avviso, si risolve il paradosso che segnalavo prima. L'accordo ideologico necessario tra coloro che lavorano a far servire la scienza, la cultura e l'educazione, all'instaurazione di una pace vera si limita ad un certo insieme di punti pratici e di principi d'azione ". Senza imporre la propria convinzione, Maritain ricordava che questa collaborazione pratica s'ispira ad un'energia spirituale e che, qualunque sia la nostra propria confessione religiosa, noi sappiamo che il suo nome è " l'amore fraterno che, annunciato dal Vangelo, ha per sempre scosso la coscienza umana ": Documentation Catholique, 1o feb. 1948.

La posizione pratica proposta da Maritain non ha impedito che si producessero in seguito numerosi scontri ideologici in seno all'UNESCO, ma l'orientamento formulato dal filosofo francese s'impose effettivamente all'istituzione come principio generale dell'azione comune.

Relazioni con la Chiesa cattolica. Fin dalla prima Conferenza Generale del 1946 a Parigi, la Santa Sede aveva inviato alcuni osservatori. Questi primi contatti si sono, in seguito, sviluppati sotto forma di una rappresentanza ufficiale e di una partecipazione attiva e costante. Il Comitato cattolico internazionale di coordinazione presso l'UNESCO (CCIC) è stato costituito a Parigi nel 1947 e i suoi statuti sono stati più volte rimaneggiati. Il CCIC cerca di coordinare l'azione dei cattolici presso l'UNESCO, particolarmente quella degli OIC e d'informare i cattolici sulle attività dell'istituzione. Il CCIC pubblica Le Mois de l'UNESCO, la cui diffusione raggiunge un largo pubblico e rende un grande servizio all'interno stesso dell'UNESCO. La Santa Sede, in quanto tale, gode dello statuto di osservatore speciale e vi nomina un rappresentante diplomatico chiamato Osservatore permanente presso l'UNESCO. La Santa Sede partecipa, infatti, come osservatore a tutte le Conferenze Generali e segue da vicino tutte le attività dell'UNESCO, specialmente quelle che interessano più direttamente la promozione e la difesa dell'uomo.

In più occasioni, la Santa Sede ha fatto sentire la propria critica, quando principi di etica o principi riguardanti la libertà religiosa sembravano essere messi in causa; ma, nello spirito degli orientamenti formulati da Maritain, i cattolici, in genere, hanno preso parte attiva ai grandi programmi dell'UNESCO. Menzioniamo, a titolo di esempio, il programma di alfabetizzazione e il Decennio Mondiale dello Sviluppo Culturale.

I direttori dell'UNESCO mantengono, da parte loro, rapporti regolari con la Santa Sede e sono stati di frequente ricevuti dal papa e dagli organi della Santa Sede.

La visita di Giovanni Paolo II alla sede dell'UNESCO, a Parigi, il 2 giugno 1980, riveste un significato tutto particolare e illustra la posizione della Chiesa verso questo organismo internazionale. Ricevuto dalla Conferenza generale, il papa ha, in quell'occasione, ricordato che la fondazione dell'UNESCO è stata un avvenimento provvidenziale perché era la conferma del principio fondamentale della cooperazione internazionale come mezzo per assicurare la pace e il progresso dell'umanità. Questo ideale rimane sempre valido: " Mi richiamo a quell'origine, a quell'inizio, a quelle premesse e a quei primi principi. E in loro nome che oggi vengo a Parigi, nella sede della vostra Organizzazione, con una preghiera: che alla fine di una tappa di più di trent'anni delle vostre attività, voi vogliate unirvi ancora di più intorno a quegli ideali e a quei principi che si trovarono all'inizio ".

Il nostro punto comune d'incontro, afferma Giovanni Paolo II, è la difesa e l'amore per l'uomo in quanto tale: " Noi tutti qui presenti, ci incontriamo sul terreno della cultura, realtà fondamentale che ci unisce e che è alla base della costituzione e delle finalità dell'UNESCO. Noi ci incontriamo, per il fatto stesso, intorno all'uomo e, in un certo senso, in lui, nell'uomo. Questo uomo che si esprime e si oggettiva nella e per la cultura, è unico, completo e indivisibile. Egli è insieme soggetto e artefice della cultura ".

Alla luce del cristianesimo, l'uomo deve essere affermato e amato per se stesso e per nessuna altra ragione: " Io penso soprattutto, Signore e Signori, al vincolo fondamentale del Vangelo, cioè al messaggio del Cristo e della Chiesa, con l'uomo nella sua umanità stessa. Per creare la cultura bisogna considerare, fino alle sue ultime conseguenze ed integralmente, l'uomo come un valore particolare ed autonomo, come il soggetto portatore della trascendenza della persona. Bisogna affermare l'uomo per se stesso e non per altro motivo o ragione: unicamente per se stesso! E più ancora, bisogna amare l'uomo perché è uomo, bisogna rivendicare l'amore per l'uomo in ragione della particolare dignità ch'egli possiede ".

Dopo aver sottolineato il vincolo tra cultura e religione, e più precisamente, tra cultura e cristianesimo, il papa ha voluto rendere omaggio a tutte le culture della famiglia umana: " E pensando a tutte le culture che voglio dire ad alta voce qui, a Parigi, nella sede dell'UNESCO con rispetto e ammirazione: "Ecco l'uomo!". Voglio proclamare la mia ammirazione di fronte alla ricchezza creatrice dello spirito umano, di fronte ai suoi incessanti sforzi per conoscere ed affermare l'identità dell'uomo: di questo uomo che è presente sempre in tutte le forme particolari della cultura ".

Un appello solenne è lanciato all'UNESCO per la difesa dell'uomo e della sua cultura: " Mi è stato dato di penetrare, qui all'interno dell'Areopago che è quello del mondo intero. Mi è stato dato di dire a voi tutti, a voi membri dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, a voi che lavorate per il bene e per la riconciliazione degli uomini e dei popoli attraverso tutti i campi della cultura, dell'educazione, della scienza e dell'informazione, di dirvi e di gridarvi dal profondo dell'anima: Sì! l'avvenire dell'uomo dipende dalla cultura! Sì! la pace del mondo dipende dal primato dello Spirito! Sì! l'avvenire pacifico dell'umanità dipende dall'amore! ".

Vedi: Alecso. Isesco. Consiglio d'Europa.

Bibl.: M. Barbier 1971. J. Huxley 1946. W. Laves and Ch. Thomson 1957. R. Maheu 1985. J. Thomas 1962. C. Bekri 1991.

 

Università. (inizio)

L'eredità culturale. Richiamiamo la tradizione culturale delle origini che ha segnato la lunga storia dell'Università. Il modello di civiltà che ha ispirato l'Università ha le sue radici nell'eredità greco-latina e giudeo-cristiana, arricchito progressivamente dall'apporto arabo e delle tradizioni germaniche, slave, celtiche, nordiche. L'Europa cristiana è nata da questa integrazione ed è in questo ambiente che sono sorte le università, creatrici di un umanesimo insieme teologico, filosofico, letterario, giuridico, scientifico. Grazie all'università, si è diffusa in Europa una cultura fondata sulla ragione e il diritto. Questa storia intellettuale è stata ricordata con lustro nel 1988, in occasione del nono centenario dell'Università di Bologna che, con l'Università di Parigi, è stata la madre delle università. La lenta maturazione dell'Universitas lungo tutto il Medio Evo è stata ricordata nell'articolo sull'Educazione.

L'Europa, ricordiamolo, si è costituita riconoscendosi una posizione preminente nel mondo. I valori-guida ch'essa ha difeso e codificato si radicano in una percezione cristiana dell'uomo e dell'universo. Questi valori sono ancorati in una particolare filosofia della persona umana e del suo destino trascendente, su di un ideale della famiglia e del bene comune, su di una concezione del lavoro e del rapporto con la natura, su di una visione dell'economia e della politica, su di un'idea della propria nazione e delle sue relazioni con l'insieme del mondo. E in questo contesto che sono nati i diritti dell'uomo, la democrazia, la scienza moderna, lo Stato rappresentativo, l'esplorazione e lo sfruttamento del globo, il diritto internazionale. Le università hanno avuto un ruolo determinante nella diffusione di questo modello culturale in tutti i paesi d'Europa e in tutte le parti del mondo in cui è penetrata l'influenza europea, attraverso la colonizzazione, la conquista, o l'irradiamento delle idee e delle convinzioni religiose. Questa concezione dell'università è stata illustrata dal Cardinale John Henry Newman, in un libro spesso citato: The Idea of a University.

Importanti adattamenti furono operati in diversi paesi, ma le università del mondo, nel loro insieme, hanno conservato fino ad ora un riferimento quasi d'obbligo al modello universitario europeo, di tipo inglese, francese o tedesco con le loro varianti americane. Questo tipo di università, legato alla cultura occidentale, è quello prevalso fino ai nostri giorni: la parentela si ritrova nei programmi accademici, nella formazione dei docenti, nei metodi di ricerca e d'insegnamento, nell'organizzazione delle biblioteche e dei laboratori, nelle pubblicazioni, nell'amministrazione, negli scambi interuniversitari. Le forme istituzionali della università moderna sono estremamente varie e vanno dalla sede universitaria per poche centinaia di studenti fino alla " multiversity " disseminata in più luoghi e comprendenti un centinaio di sezioni universitarie come in California: C. Kerr, 1982.

L'eredità accademica. Il fattore principale che spiega la vitalità e la permanenza dell'università è ch'essa si fonda sul dinamismo di una comunità accademica. Come rappresentarcela oggi? Come descriverla nei suoi tratti caratteristici? La risposta non è semplice, né sempre unanime nella sua espressione. Una convinzione comune, tuttavia, sembra imporsi: la grande maggioranza dei docenti universitari è consapevole, oggi come ieri, di formare una comunità specifica nella società, la cui funzione è di perseguire liberamente una missione d'insegnamento, di educazione, di ricerca, di critica e d'impegno sociale. Il loro servizio s'ispira ad una convinzione fondamentale, ereditata dai Greco-Romani: l'avvenire dello stato poggia prima di tutto sul sapere, la saggezza e la virtù dei cittadini. Era il postulato della Politica di Aristotele, il filosofo e il maestro, guida del pensiero prima dei Greci e poi di tutta la tradizione occidentale: H. Barreau, 1972.

Questa concezione civica e pedagogica dell'educazione equivale ad un principio primo. Questo principio è stato consacrato ed arricchito dalla creazione delle prime università nel Medio Evo. Comunità accademiche furono allora istituite con questo scopo. Innocenzo IV riconosceva, verso il 1253, che l'Universitas era fondata su due elementi, l'uno esterno, il riconoscimento dell'autorità legittima, l'altro interno, la volontà comune di un gruppo di persone che si dedicano allo studio e all'insegnamento come proprio servizio alla comunità.

E questa la coscienza originaria che fa da riferimento base ai maestri universitari. E a questa memoria fondatrice ch'essi si ricollegano sempre per dire a se stessi e ai loro concittadini quale sia il significato essenziale del lavoro accademico. Attraverso i secoli e fino ai nostri giorni, le università vi hanno trovato la sorgente della loro creatività, della loro gioia di conoscere, di ricercare, e d'insegnare. Secondo questa tradizione intellettuale, la conoscenza è il bene supremo, la "scientia" rappresenta uno dono prezioso, chiamato " donum Dei ", " summum bonum ", " velut splendor firmamenti ", " magnanimitas ": R. A. Gauthier, 1951.

Certo, bisogna stare attenti a non idealizzare troppo i meriti e le virtù delle comunità accademiche di tradizione occidentale, perché la storia dimostra ch'esse hanno spesso deviato dall'ideale professato diventando autosufficienti, cedendo all'intolleranza, all'arroganza, all'abuso di potere, all'ambizione politica, alla chiusura ideologica, alla paralisi burocratica. Molte sono morte di sclerosi e d'inanizione intellettuale. Ma le debolezze di un'istituzione non distruggono il valore in sé, esse piuttosto dimostrano la necessità di una continua vigilanza per rimanere fedeli alle intenzioni delle origini. Fatte queste riserve, si può dire che, per l'insieme delle università del mondo libero, questo ideale morale e istituzionale della comunità accademica resta sempre vivo, evidentemente, con il complesso degli adattamenti e degli arricchimenti apportati dall'evoluzione delle discipline e delle culture.

Le nuove sfide universitarie. Durante la sua lunga storia, l'università in quanto istituzione, non si è, si può dire, mai trovata a doversi confrontare con un complesso così impressionante di capovolgimenti politici, sociali, scientifici e culturali, come quello d'oggi. Partiamo da ciò che è più vicino: i nuovi modi di produzione culturale. Per secoli, l'università si è identificata ad una particolare idea della civiltà riconoscendosi un ruolo proprio di civilizzazione. Questo postulato è oggi scosso perché una nuova cultura è ora prodotta e trasmessa da potenti concorrenti extra-universitarie, che hanno invaso il campo dell'insegnamento, della ricerca, della documentazione, dell'informazione. Le università devono ancora scoprire come passare dalla concorrenza alla cooperazione con questi nuovi agenti di produzione culturale. Pensiamo ai media, alle industrie culturali, alle banche di dati, alle comunicazioni via satellite, agli insegnamenti e ricerche legati all'industria privata e allo Stato. I docenti universitari s'interrogano con ansia sul loro specifico ruolo nella società in gestazione.

La sfida maggiore per le università è quella di definire il proprio ruolo nello sforzo di modernizzazione delle società. Come conciliare la crescita economica e il progresso umanistico? Come concretamente armonizzare il ruolo professionale dell'università con il suo ruolo culturale? Il problema è di sapere se l'ideale accademico, descritto sopra, è ancora compreso dalla cultura contemporanea. L'immagine idealizzata, che le università cercano di proiettare di se stesse, è percepita dalla società? In molti ambienti si viene affermando una mentalità anti-universitaria che contraddice radicalmente i principi della vita accademica. Il linguaggio duro della produttività moderna non si accorda facilmente con il discorso umanistico. Gli agenti economici provano una specie di pudore e di malessere ascoltando le dissertazioni sui valori che fondano la cultura dello spirito. La fredda razionalità del pragmatismo, della redditività, della concorrenza non si armonizzano facilmente con la logica del sapere e della ricerca disinteressata.

Il realismo economico. Una questione centrale sembra emergere: essa riguarda il ruolo proprio dell'università nelle società industriali che chiedono un impegno più diretto delle istituzioni d'insegnamento e di ricerca nella pianificazione socioeconomica dei paesi moderni.

La convergenza tra il mondo universitario e gli ambienti economici è una tendenza che merita d'essere esaminata con cura. Con tutti i protagonisti della vita economica e politica, l'università è chiamata ad affrontare due grandi problemi: il problema dell'impiego e quello della modernizzazione. L'università è strettamente coinvolta in questi dibattiti ed è diventata partecipe, a pieno diritto, dei progetti di sviluppo, di rilancio economico, d'innovazione tecnica.

Un altro segno della complementarità crescente tra università ed economia è la valorizzazione della ricerca universitaria da parte delle imprese. I responsabili socio-politici prendono coscienza del ruolo determinante della ricerca nell'innovazione economica ed industriale. La modernizzazione, la produttività e lo sviluppo dell'impiego passano per la via della libera ricerca. L'originalità e la concorrenza economica dipendono dall'impulso indispensabile della creatività e della ricerca. Questa convinzione si diffonde nelle amministrazioni e nei ministeri e le università sono invitate a cooperare allo sforzo innovatore comune. Il potenziale d'investigazione, di studio e di ricerca delle università si rivela dunque in una nuova luce. Coloro che decidono sul piano economico e politico prestano ormai un'importanza sempre maggiore ai problemi educativi e culturali, perché sono convinti che lo studio e la ricerca avranno un peso determinante nei settori di punta portatori della modernizzazione.

In questo nuovo contesto, l'amministrazione e la gestione dell'impresa universitaria presentano problemi specifici che costituiscono oggetto di particolari studi: N. Karol and S. G. Ginsburgh, 1980; J. I. Bess, 1988. A. Borrero Cabal 1993.

Legittimazione culturale dell'Università. Gli imperativi della crescita economica devono, tuttavia, potersi conciliare con le esigenze dello sviluppo culturale. Se le università sono interpellate dagli ambienti socio-politici, anch'esse hanno questioni da far valere di fronte all'opinione pubblica. Di quali responsabilità si pensa di caricare le università? Gli attori sociali, a cui si associano volentieri le università moderne, comprendono ed accettano la funzione propria dell'università nel concerto che è insieme sociale, politico e culturale della società moderna? Il malinteso sarebbe grave se gli interlocutori dell'università esigessero da essa servizi che non sono conformi alla sua specifica competenza, al suo ruolo distintivo ed inalienabile nella società. Il problema di fondo è quello del ruolo culturale proprio dell'università. Il realismo economico, oggi necessario, non dispensa affatto dal realismo culturale.

Il discorso sulla cultura non è stato mai facile ed è raramente abbordato senza esitazione o riserve, perché tocca il campo dello spirito, dell'ideale, dei valori più alti che l'università rappresenta dalle sue origini. E necessario superare queste difficoltà, perché oggi, più che mai, le contingenze sociali e le dure realtà economiche obbligano i docenti universitari a spiegarsi in maniera credibile riguardo alla propria missione. Che cosa essi fanno di tanto importante nel mondo attuale? E indispensabile che di continuo si reinterpreti la legittimazione sociale e culturale dell'università. Ciò è vero soprattutto nelle nostre società in continuo cambiamento e mobilità in cui nulla va più da sé, in cui le istituzioni non possono sussistere a lungo senza giustificazioni convincenti. Per l'università, il compito di illuminare l'opinione pubblica sulla propria missione non è obbiettivo secondario accanto alle attività accademiche d'insegnamento e di ricerca. Saper comunicare con le culture vive rappresenta per l'università una necessità vitale.

C'è chi oggi denuncia una professionalizzazione eccessiva dell'insegnamento superiore. Occorre riconoscere che il dibattito sulla questione è complesso. La formazione professionale ha, certo, un'importanza capitale a garanzia del dinamismo delle nazioni e nessuno può minimizzare il suo valore, né il merito dei nuovi programmi che hanno considerevolmente ampliato i quadri dell'insegnamento superiore. Ma è anche necessario considerare che, se la parte migliore della tradizione e dello spirito universitari fosse sacrificata nelle riforme dell'insegnamento superiore, sarebbe l'intera società a soffrirne gravemente. L'università potrebbe essere ridotta ad un agenzia pragmatica di distribuzione di corsi offerti al pubblico senza il riconoscimento di una missione culturale. La società moderna dovrebbe pagare cara questa forma di discontinuità educativa e questa amnesia culturale.

Le stesse università del terzo mondo sono poste di fronte a scelte cruciali. Se, naturalmente, esse sono tenute a dare la priorità alla formazione tecnica e professionale, necessaria allo sviluppo dei loro paesi, esse, spesso, trovano difficile conciliare una " modernizzazione all'occidentale " con il sostegno delle culture tradizionali. Non mancano le voci che contestano l'università, accusata di favorire l'alienazione culturale. I responsabili trovano allora difficile legittimare la parte spettante all'insegnamento superiore nella distribuzione delle risorse economiche destinate ai vari settori dell'educazione. Il contributo dell'università nei programmi di sviluppo è lungi dall'essere percepito e stimato nel suo giusto valore da tutti i governi, dai politici e dalle agenzie di cooperazione internazionale. Le università devono chiarire la loro posizione e presentare, su questa questione, un dossier che sia più credibile.

Le Università e la coscienza universale. Una realtà si fa sempre più chiara: i programmi universitari attuali o futuri non possono essere definiti facendo astrazione dai bisogni urgenti della comunità umana. Se è legittimo che i diplomati cerchino la propria promozione personale e il successo della propria carriera, è anche necessario ch'essi entrino nella prospettiva di un servizio solidale ai più poveri. Gli studenti universitari rappresentano una porzione limitata e privilegiata della gioventù nel mondo, ed è doveroso ch'essi assumano il loro proprio ruolo nello sviluppo economico e culturale dei popoli. Sarebbe cosa grave ostacolare la funzione culturale dell'università, mentre i problemi più complessi delle attuali società sono proprio di ordine etico, umanitario e culturale.

Gli avvenimenti stessi stanno rivelando alle società e agli universitari che le maggiori poste in gioco dell'avvenire sono precisamente quelle della cultura. I problemi più urgenti, infatti, sono prima di tutto d'ordine etico e culturale, e sono inerenti al senso della vita umana, ai nuovi modi di procreare, alla sperimentazione biologica, alla ricerca genetica. E possiamo aggiungere ancora le questioni che riguardano la protezione dell'ambiente, le nuove povertà generate dall'economia " duale ", l'equo sviluppo di tutti i gruppi e di tutti i popoli, la responsabilizzazione dei grandi settori culturali quali il mondo scientifico e i media, le nuove sfide delle migrazioni interetniche.

Tutti questi interrogativi si pongono in maniera viva alla coscienza universale. Per risolverli, occorrerà una grande perizia tecnica e una competente riflessione etica. Le università che s'ispirano ad una tradizione umanistica si sentono direttamente interpellate. Si chiede loro un lavoro di ricerca interdisciplinare, sia di carattere scientifico che di carattere filosofico e morale. E ciò che giustifica la loro ragione d'essere. Nessun'altra istituzione può rispondere a questo fondamentale bisogno dello spirito umano. In una società in cui tutte le ideologie sono in crisi e in cui il puro pragmatismo rivela la sua drammatica insufficienza e i suoi effetti destabilizzanti, le università sono chiamate ad affermarsi come équipes dedicate alla ricerca di significato, come centri di libera riflessione e di educazione indispensabili alla salute culturale di una nazione.

La missione dell'università non è meno necessaria e urgente oggi di ieri. Le società libere non potrebbero sopravvivere e progredire a lungo senza la libera promozione del sapere, senza la creatività che nasce dalla ricerca, senza un approfondimento, per ogni generazione, dei valori permanenti del mondo civile. Questi valori si fondano su di un'antropologia umanistica e spirituale: essi si richiamano alla verità, alla giustizia, al diritto, alla libertà, al primato della persona e del suo destino spirituale, al senso della solidarietà e del bene comune. Questi valori che fondano le società civili non sono acquisiti una volta per sempre. Essi non maturano che attraverso la riflessione, l'educazione, lo studio, che li fanno lentamente penetrare nelle coscienze e nelle istituzioni. Questa è una delle più alte funzioni dell'università. L'epicentro di tutta la ricerca universitaria è precisamente questo orientamento a servire l'essere umano in quanto tale e la sua cultura. L'università moderna non rifiuta certo la ricerca utile ed applicata, ma vi aggiunge un ulteriore e più alto obbietivo che è nell'ordine educativo, culturale e spirituale. E in questo che i suoi insegnamenti e le sue ricerche sono universitari.

Le università cattoliche, eredi di questo modello accademico ormai universale, sono impegnate in uno sforzo comune, coordinato dalla Federazione Internazionale delle Università Cattoliche, per definire concretamente il senso della loro identità e della loro missione nel mondo attuale. Giovanni Paolo II ha tracciato la loro fisionomia e il loro ruolo proprio, in quanto università, chiamate ad arricchire l'integrazione del sapere alla luce del Vangelo: Costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae, 15 agosto 1990.

Oggi la problematica universitaria si è di molto ampliata ed è praticamente indissociabile dalle grandi evoluzioni culturali segnate dallo straordinario slancio delle scienze, dalla rivoluzione dei media e dalla richiesta di democratizzazione culturale. Tutte queste problematiche sono attualmente dibattute in numerose federazioni di università e nell'Associazione Internazionale delle Università aperta a tutte le università del mondo, la cui sede è a Parigi. Queste ricerche saranno arricchite dagli studi internazionali promossi dall'UNESCO sull'" Insegnamento superiore nel ventunesimo secolo ".

Vedi: Educazione. Scienza. Sviluppo culturale. Contro-cultura. Educazione permanente.

Bibl.: J. L. Bess 1989. A. Borrero 1993. P. Bourdieu 1984. C. Boys et al. 1988. H. Carrier 1982, 1990b. CEPES 1989. B. R. Clark 1983, 1987. H. Gouhier 1987. N. Karol and S. G. Ginsburgh 1980. C. Kerr 1969, 1982. G. Mialaret et J. Vial 1981. C. Michaud 1996. G. Neave and F. A. Van Vught 1991. J. H. Newman 1931. C. Rondi 1991. U. Teichler 1988. J. Verger 1973. F.A. Van Vught 1989. H. de Ridder-Symoens 1992, 1996. M. Seybold 1993.

 

Urbanizzazione. (inizio)

Da molti millenni, le città e i centri urbani hanno avuto un ruolo di primo piano nella cultura delle nazioni. Atene e le altre città greche, Roma, Gerusalemme, Alessandria costituiscono gli esempi più noti. Lewis Mumford diceva in The Culture of Cities (1938): " La città, come la si scopre nella storia, rappresenta il punto massimo della concentrazione del potere e della cultura per una collettività ". Ed aggiungeva che la città stessa è una delle più belle realizzazioni della cultura: " Insieme al linguaggio, essa è la più grande opera d'arte dell'uomo ". Ma, se la città è sorgente di civiltà, essa è anche un fattore di mutamento delle culture. Dalla rivoluzione industriale soprattutto, l'urbanizzazione ha profondamente trasformato i modi di vivere della famiglia umana e questi cambiamenti andranno ancora accentrandosi fino alla fine del secolo, mentre le città del terzo mondo si prevede che si accresceranno di più di un miliardo di abitanti.

Come comprendere un fenomeno così complesso?

Aspetti demografici e culturali. L'urbanizzazione riveste una moltitudine di aspetti e ciò esclude una semplice ed univoca descrizione del fenomeno che richiede considerazioni statistiche, demografiche, amministrative, politiche, economiche e culturali. La sociologia urbana, che ha avuto il suo primo sviluppo nell'università di Chicago negli anni '20, e, in seguito, in Francia e in Inghilterra, ha insistito sugli aspetti demografici e socioculturali dell'urbanizzazione. E quest'ultimo punto di vista che costituirà particolare oggetto della nostra attenzione, dopo una breve considerazione riguardo ai criteri demografici dell'urbanizzazione. Tra i problemi demografici che presenta l'urbanizzazione, ricordiamo i seguenti: la ripartizione delle popolazioni urbane e rurali nel paese; l'ampiezza delle città e la dimensione delle popolazioni urbane; la composizione delle popolazioni urbane secondo le categorie di età, di occupazione, di gruppi etnici, ecc; l'aumento del numero delle città nel mondo; la classificazione e la tipologia delle città secondo criteri numerici, geografici, di livello di vita, di grado di concentrazione; lo studio delle reti interurbane, delle conurbanizzazioni, cioè delle città contigue che formano un vasto spazio urbanizzato.

Il paragone tra il grado di urbanizzazione delle diverse regioni del mondo è reso difficile per l'assenza di criteri numerici uniformi che definiscano ciò che è una località chiamata urbana. La cifra minima, secondo i paesi, varia tra i duemila e i settemilacinquecento residenti. Le Nazioni Unite considerano come urbane tutte le località che contano almeno duemila abitanti.

Tra le unità demografiche comunemente considerate negli studi, segnaliamo: l'agglomerazione urbana formata dalla città e dal suo circondario sub-urbano; l'area metropolitana, che conta almeno centomila abitanti; le città che superano cinque milioni di abitanti, ecc. L'Università di California ha perfezionato questo tipo di ricerche nel quadro dell'International Population and Urban Research. La fonte indispensabile di ogni ricerca internazionale in questo campo, è il United Nations Demographic Yearbook che si pubblica dal 1948.

Se ci si sofferma ora agli aspetti socioculturali dell'urbanizzazione, si osserva una differenza fondamentale nello stile della vita urbana sia nel periodo che precede sia in quello che segue la rivoluzione industriale. E utile, quindi, paragonare, nelle loro grandi linee, i tratti culturali della città preindustriale con le caratteristiche culturali della città moderna.

La cultura della città preindustriale. La città preindustriale, quale è stata studiata, per esempio, da G. Sjoberg (1960) e da Y. Barel (1975), rivela, per prima cosa, che l'urbanizzazione antica si produceva a ritmo molto lento. Le principali città d'Europa si sono formate nel corso di secoli o anche di millenni. La città si distingueva nettamente dal suo circondario rurale ed era, in generale, circoscritta da mura. I cittadini di quei tempi erano inseriti in strutture rigide e stabili: i quartieri dei nobili, dei ricchi, dei lavoratori, e dei poveri erano nettamente distinti. La mobilità sociale era praticamente inesistente. Nella città preindustriale, la famiglia aveva un ruolo preponderante; appartenere ad una famiglia era una condizione d'inserzione nella città e nei mestieri. Le strutture economiche erano anch'esse stabili e non si modificavano che molto lentamente. Nella città preindustriale, la religione occupava una posizione centrale, culturalmente e spazialmente: le chiese, i monasteri, i conventi, i templi erano situati nel cuore dello spazio urbano. Storici come Fustel de Coulanges sostengono che la città sia nata intorno al culto degli dei e il fatto storico di Atene, di Roma, di Gerusalemme sembra corroborare la tesi che collega la vita urbana tradizionale con il culto religioso.

In questo ambiente urbano, la socializzazione delle generazioni giovani, anche in assenza di scuole, si esercitava attraverso la famiglia, le istituzioni religiose e, più tardi, attraverso le corporazioni di mestieri e le associazioni. Le feste e le celebrazioni, civili e religiose, costituivano i momenti forti nei quali si affermava l'identità dei cittadini con la propria comunità urbana. Le relazioni tra persone rimanevano a misura d'uomo. Anche se non tutte le persone si conoscevano, non esisteva una massa anonima. I rapporti sociali erano di tipo comunitario e si esercitavano attraverso la famiglia, il vicinato, la gilda, la parrocchia. Si produceva una simbiosi tra tutti i livelli di appartenenza e di identificazione sociale: famiglia, parrocchia, quartiere, classe sociale, mestiere, regione. La città stessa era collegata da un commercio costante con il suo circondario rurale.

La comunicazione era soprattutto di tipo orale tra individui e tra gruppi. I dialoghi e le conversazioni dirette occupavano uno spazio privilegiato nelle relazioni sociali ed è nella città che soprattutto si sono sviluppate l'arte raffinata della conversazione, le buone maniere, i costumi educati. Questo saper-vivere si è sviluppato ed è diventato ciò che più tardi è stato chiamato civiltà o l'arte di vivere nella città. Le maggiori città della storia si vantano di essere state centri di civilizzazione. Fichte non ha esitato a dire della Germania che il tempo dello sviluppo delle sue città, tra il dodicesimo e quindicesimo secolo, è stato il periodo del suo maggiore splendore.

L'arte della vita nella città era dunque considerata come uno stato di equilibrio, un ideale di umanità. Questo modo ideale - o idealizzato - di guardare la città non ci impedisce di vedere le miserie e le carenze che spesso vi si potevano osservare. Bisogna, tuttavia, ammettere che le collettività preindustriali avevano progressivamente inventato un'arte sociale che era il frutto di una esperienza secolare la quale rappresentava ciò che oggi chiameremmo un modello urbano a misura umana.

Urbanizzazione e cultura moderna. La cultura della città moderna, in paragone, offre un forte contrasto che permette di misurare i cambiamenti culturali provocati dalla rivoluzione industriale. I sociologi sono d'accordo nel distinguere due fasi principali dell'urbanizzazione del mondo moderno.

La prima fase corrisponde alla rivoluzione industriale del secolo XIX che ha provocato soprattutto una concentrazione rapida delle popolazioni. In molti casi questa urbanizzazione è stata disordinata ed è sembrata più un ammasso umano che un'urbanizzazione strutturalmente sviluppata.

Una seconda fase d'urbanizzazione inizia a configurarsi dopo la prima guerra mondiale e si accentua fortemente dopo il 1950. Questo processo d'urbanizzazione, sotto la spinta della motorizzazione e dei trasporti rapidi, fa sopravanzare lo spazio urbano verso zone sempre più vaste chiamate suburbane. E il fenomeno dell'estraurbanesimo e dall'inurbamento, cioè della penetrazione dei modi di vita della città nell'insieme del territorio nazionale. L. Wirth (1938) ha efficacemente descritto questo tipo di urbanizzazione come contagio di un modo di vita: " Urbanization as a way of life ".

La diffusione moderna della cultura urbana impedisce di tracciare limiti precisi tra la città e l'ambiente rurale. Il fenomeno urbano assomiglia ad una nebulosa in crescita. Questo processo di urbanizzazione continua il suo corso nei paesi industrializzati e progressivamente tende a guadagnare le nuove nazioni. Per la prima volta, nella storia, i cittadini diventano maggioritari in molti paesi ed esistono oggi nazioni interamente urbanizzate, cioè che contano più di due-terzi della propria popolazione nelle città.

La cultura urbana comporta innegabili aspetti positivi: concentrazione delle competenze, dei servizi, delle istituzioni sanitarie, dell'insegnamento, della cultura e dei media. Lo psicologo William James diceva di Londra ch'essa è uno dei più alti centri di concentrazione della cultura, una specie di compendio universale di civiltà. I vantaggi della vita urbana fanno inconsciamente parte integrante della cultura moderna ed anche nei paesi più poveri si nota un'aspirazione generale dei rurali a trasferirsi in città. E infatti la città, soprattutto la grande città, ad apparire come l'incarnazione dei sogni di libertà, di progresso, di arricchimento. Le osservazioni correnti dimostrano, tuttavia, la parte d'illusione che riserva l'esodo rurale verso le città, poiché queste, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, accolgono masse che difficilmente riescono ad integrarsi nella vita sociale ed economica urbana. Gli immigrati interni vengono ad aggiungersi al numero di coloro che si chiamano i " cittadini abusivi " e non è esagerato, in questo caso, parlare di falsa urbanizzazione, ciò che ricorda gli ammassi inumani avvenuti nei primi tempi della rivoluzione industriale.

Anche nelle città razionalmente costituite ed efficacemente gestite, si possono osservare forti condizionamenti culturali. La grande città industriale rende difficile la sopravvivenza delle comunità primarie tradizionali, con tutte le conseguenze che ne risultano per la stabilità e la sicurezza dei cittadini. La stabilità di un tempo, geografica, culturale e psicologica, è scossa dall'incessante mobilità e dai rapidi cambiamenti che caratterizzano la cultura urbana. Il cittadino può essere paragonato ad un nomade, ad un emigrante, che deve imparare a vivere, a lavorare, a riposarsi, a ricrearsi in spazi spesso molto diversificati. Questi mutamenti si accompagnano ad un sentimento di esodo, di nomadismo, di sradicamento. Nella grande città moderna, l'accelerazione del ritmo di vita, l'onda costante dei rumori, delle immagini, delle informazioni, obbligano il cittadino ad una vigilanza sensoriale permanente. Le relazioni sociali tra individui possono ancora rimanere intime, ma in un settore sempre più ridotto. Nel lavoro, nelle relazioni commerciali, nei trasporti, l'individuo deve coltivare una specie di anonimato, di silenzio che lo protegge contro la molteplicità dei contatti con una massa di estranei. Da ciò quel tipo di " comportamento disincantato " del cittadino, secondo alcuni sociologi. Questa situazione provoca un sentimento di solitudine, di spersonalizzazione dei rapporti, un isolamento dell'individuo in una massa anonima e spesso anche un senso di alienazione.

La città come sfida etica. La città moderna rappresenta un nuovo fenomeno morale, nel senso che l'uomo vi si trova in una nuova condizione di vita. La coabitazione di tanti individui e gruppi, con idee e ideologie contrastanti, favorisce un pluralismo di giudizi, di opinioni, di credenze. L'urbanizzazione moderna è accompagnata da un pluralismo culturale molto diverso dall'unanimità culturale della città d'un tempo. La città, tuttavia, i cui vantaggi economici e culturali poggiano sulla specializzazione delle funzioni e la complementarità dei compiti, accentua nei cittadini il sentimento di un'interdipendenza di tutti e di ciascuno. Poiché i rapporti sociali si moltiplicano, attraverso l'offerta e la richiesta dei servizi, questi tendono a divenire sempre più obbiettivati e giustificati, cioè oggetto di un calcolo freddo, impersonale, simboleggiato dallo scambio monetario.

Contrariamente alle città tradizionali, la città moderna porta alla regressione delle comunità a misura umana. La famiglia, in particolare, raramente costituisce oggetto prioritario della pianificazione urbana, perché molto spesso questa obbedisce a considerazioni di ordine economico dell'habitat e dello spazio. Il ruolo della famiglia si è progressivamente ristretto, tanto più che molti dei coniugi, uomini e donne, lavorano fuori casa. E nelle città, soprattutto nelle grandi città, che le conseguenze di questa regressione delle famiglie, si fanno sentire, particolarmente nel fenomeno della crescita della delinquenza giovanile e in quello del moltiplicarsi delle malattie nervose e psicologiche. Altre forme di comunità primarie subiscono analoghe regressioni: il vicinato, la parrocchia, i gruppi artigiani.

Urbanizzazione intenzionale. La sociologia urbana pone in rilievo che l'urbanizzazione, anche nei paesi più industrializzati, comporta spesso ancora una larga parte di irrazionalità. Occorre fare un nuovo sforzo per ridefinire il ruolo delle comunità primarie nella città, in particolare quello della famiglia, delle relazioni tra parenti e tra amici. La difficile situazione dei lavoratori immigrati nelle città dell'Europa e dell'America del Nord ha attirato l'attenzione sull'importanza dei gruppi primari nella vita delle comunità urbane in crescita. Questo esige il favorire l'ambiente familiare come pure le relazioni etniche, linguistiche, religiose degli immigrati per facilitare l'integrazione culturale di questi nuovi cittadini nella città industriale. Gli studi sulla cultura urbana orientano dunque la riflessione dei sociologi e dei pianificatori, verso ciò che oggi si chiama un'urbanizzazione intenzionale, che permette di superare un tipo di urbanizzazione fondata troppo esclusivamente su criteri di rendimento economico e di speculazione sullo spazio urbano. La posta in gioco più importante è di saper conciliare due esigenze fondamentali: quella volta a godere della mobilità, della libertà, delle possibilità straordinarie che offre un ambiente urbano, e quella che esige sicurezza, radicamento e integrazione dei cittadini in un ambiente umanizzato.

Quale urbanizzazione per il Terzo Mondo? L'urbanizzazione dei paesi in via di sviluppo trarrà profitto dall'esperienza dei due ultimi secoli d'urbanizzazione nei paesi occidentali? Molti sono gli errori da evitare. Sarà possibile, in partenza, avere consapevolezza degli obbiettivi culturali ed umani che ogni pianificazione urbana deve fissarsi? Il pericolo è di andare verso una falsa urbanizzazione e verso collettività disumanizzanti.

Il problema riveste una gravità che non può essere minimizzata. Le statistiche delle Nazioni Unite lasciano prevedere, per la fine del secolo, un gigantesco movimento di urbanizzazione che interesserà l'insieme del globo, e soprattutto riguarderà il terzo mondo. Si prevede che, alle soglie del 2000, circa il cinquantadue per cento della popolazione mondiale vivrà in zone urbane, mentre nel 1950 la proporzione era del ventinove per cento. Il terzo mondo, da solo, conterà quarantacinque città la cui popolazione supererà i cinque milioni di abitanti e diciotto città avranno più di dieci milioni di abitanti. Nel 1950, nel mondo c'erano solo sei città che contavano cinque milioni di abitanti. Nel 2000 ce ne saranno dieci volte di più, cioè sessanta, di cui quarantacinque saranno situate nei paesi in via di sviluppo. L'Asia da sola ne conterà ventinove.

E la famiglia umana, nel suo insieme, che dovrà, nel corso degli anni futuri, affrontare un fenomeno di mutamenti culturali dalle proporzioni mai conosciute nella storia.

Vedi: Civiltà. Industrializzazione. Lavoro. Modernità. Città-campagna.

Bibl.: Y. Barel 1975. H. Carrier 1982, 1990a. D. Fauvel-Rouif 1989. A. García Bellido 1985. J. Gutwirth et al. 1991. D. Judd e M. Parkinson 1991. W. Meeks 1983. L. Mumford 1938, 1964. G. Sjoberg 1960. L. Wirth 1938. J. P. Lebreton 1993. J. D. Kasarda et al. 1993. M. Tonsignant 1992.