DIZIONARIO SINTETICO DI PASTORALE

CASIANO FLORISTAN - JUAN JOSÈ TAMAYO

A

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Aborto. (inizio)

La vita che precede la nascita è uno de campi privilegiati in cui la sensibilità cristiana ha espresso il suo sì alla vita. Le strade con cui la Chiesa ha cercato di difenderla sono state preferibilmente l'educazione delle coscienze, la scomunica ai responsabili diretti dell'aborto e gli sforzi per impedire la sua depenalizzazione. La Chiesa oggi è consapevole che l'aborto non è solo un tema di coscienza nè un problema di legge, ma è anche il risultato di molteplici fattori socioculturali.. Perciò si è ampliato tutto un ventaglio di azioni in difesa dell'embrionefeto. In questo modo, la Chiesa dà una testimonianza più lucida e globale del suo servizio per la vita. Questa testimonianza sarà ancora più credibile se la sensibilità per questa minaccia si coniugherà armonicamente con una sensibilità efficiente di fronte a tante altre minacce contro la vita umana e contro la sua qualità. In questo ampio contesto, trovano le loro giuste proporzioni i temi della moralità dell'aborto e delle leggi in questo campo.

La Chiesa non si limita ad affermare che la vita umana, fin dalla fecondazione, deve, per principio, essere rispettata; ma esige anche per essa un rispetto assoluto: l'aborto provocato non può mai essere una scelta lecita. Questa norma esigente deriva, secondo la Chiesa, in qualche modo dalla sua fede e dalla sua visuale circa lo statuto dell'embrionefeto. Tuttavia alcuni moralisti cattolici, pur condividendo pienamente l'esigenza di rispettare la vita fin dal suo inizio, non ritengono sufficientemente convincenti le giustificazioni addotte per la tesi " ufficiale " e si chiedono se un'altra alternativa, in certi casi, non forse con la frequenza attuale, non potrebbe essere una opzione tragicamente lecita.

Una panoramica con qualcosa di analogo è data nella Chiesa sul tema della moralità delle leggi riguardanti l'aborto. Il criterio del bene comune, determinante su questo punto, è interpretato " ufficialmente " come un'esigenza doverosa di penalizzare l'aborto. Ad alcuni settori, questa interpretazione non sembra così evidente. Comunque, in una società in cui la legge consente di eliminare le vite più indifese, manifesta in sé errori molto gravi di orientamento e tutti siamo chiamati a scoprirli e a correggerli.

Bibl. - Aa.Vv. Aborto, questione aperta, le posizioni dei moralisti italiani, Ed. Gribaudi, Torino, 1973. AA.VV., Sì alla vita, Ed. Dehoniane, Bologna, 1981. C.E.I. (Conferenza episcopale italiana), Aborto e legge di aborto, 7.2.1975. Davanzo G., " Interruzione della gravidanza ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 608-620. Giovanni Paolo II, Enciclica " Evangelium Vitae ", 25.3.1995. Palmaro M., Ma questo è un uomo. Indagine storica, politica, etica, giuridica sul concepito, Ed. Paoline, 1996. Tettamanzi D., Bioetica. Difendere le frontiere della vita, Ed. Piemme, Casale M., .

F.J. Elizari

Adolescenza. (inizio)

L'adolescenza segna la fine dello sviluppo. L'individuo ha da raggiungere la maturità sessuale, psico-sociale e spirituale.

C'è una fase breve di attivazione dopo la pubertà, che avviene per le ragazze tra i 15 e 16 anni, e per i ragazzi, tra i 16 e 17. Dopo di essa, segue una fase di calma: l'adolescenza. Questa fase è tuttavia più difficile da circoscrivere nel tempo che non la pubertà. I suoi limiti variano a seconda del sesso, del clima, della razza, dell'ambiente sociale e del singolo. Possiamo fissare come termine medio per le ragazze tra i 16 e 20 anni, e per i ragazzi tra i 17 e 21.

La problematica fondamentale di questa età è caratterizzata da E.H. Erikson con la polarità " identità confusione di ruolo ". In fondo, consciamente o inconsciamente, soggiace la domanda: Chi sono io realmente? Molti modi di comportarsi dell'adolescenza possono essere intesi come la ricerca di una risposta a questa domanda.

L'adolescente che è ancora insicuro della propria identità ha bisogno come appoggio di identificarsi con le persone della sua età. I distintivi e le caratteristiche dei suoi coetanei, come il vestito, la pettinatura, il gergo, il tipo di musica, i divi, le ideologie, l'impegno sociale o politico gli servono ad un tempo per esprimere la sua appartenenza ad un gruppo e per distanziarsi dal gruppo familiare. Come sostegno di identità, può avere tanta importanza la capigliatura come l'appartenenza ad un partito politico.

Nell'aspetto esterno, c'è un'armonizzazione di sembianze, di volto e di gesti.

Dal punto di vista intellettuale, l'adolescente è distante da una considerazione oggettiva della realtà. Di fronte alla mancanza di realismo della vita, è frequentemente critico con se stesso e con gli altri. La stessa mancanza di esperienza, unita ad una forte carica affettiva, lo lancia sul cammino dei grandi ideali. L'idealismo dell'adolescenza urta inevitabilmente con la tendenza all'immobilismo che caratterizza il mondo degli adulti. Sarebbe questa l'origine di tutti i movimenti giovanili. Nel mondo interiore, si nota una pacificazione dei sentimenti e una cessazione dell'instabilità d'animo che ha contrassegnato la pubertà. La vita affettiva si caratterizza con la tendenza alla malinconia, originata dal vuoto che sente dentro di sé.

Mentre si rafforza la vita affettiva, c'è un orientamento verso il mondo esterno e sorgono nuovi interessi: interessi sociali, interessi personali e interessi di divertimento.

Interessi sociali. L'adolescente dimostra interesse per tutte le attività di gruppo. La conversazione con gli amici è una delle forme preferite di socialità, per la gratificazione affettiva e per il sostegno alla propria identità.

Interessi personali. Si crede facilmente, a quella età, che l'accettazione dipenda fondamentalmente dall'aspetto esterno di una persona. Motivato anche dall'interesse per le persone dell'altro sesso, l'adolescente si preoccupa di curare il proprio aspetto, il vestito, la moda, ecc.

Interessi di divertimento. L'interesse per gli sports che esigono una grande energia fisica giunge al suo vertice negli adolescenti. Le adolescenti cambiano anche i loro modi di divertirsi. Essi ed esse adottano forme di divertimenti più simili a quelli della gioventù e dell'età adulta.

Il clima ottimista di quell'età facilita l'iniziazione progressiva nella vita degli adulti: amore e matrimonio, professione e tempo libero, vita privata e vita pubblica, gruppi informali e associazioni professionali, la società, la politica, lo Stato, la Chiesa. Siamo al punto culminante dell'iniziazione alla vìta.

Bibl. - A. Arto, " Adolescenza ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 33-40; Canestrari R., Psicologia generale e dello sviluppo, Bologna, 1984; Erikson E.H., Gioventù e crisi di identità, Roma, 1974; Lutte G., Psicologia degli adolescenti e dei giovani, Bologna, 1987; Miller P.H., Teorie dello sviluppo psicologico, Bologna, 1987.

F.J. Calvo

Affettività. (inizio)

L'affettività è la realtà psichica con entità propria il cui fondamento poggia sull'esperienza del proprio cambiamento che si rende a noi presente sotto forma di gradevole o sgradevole. Da un punto di vista esistenziale, l'affettività si manifesta come uno stato difficile da delinearsi, impréciso e che dà un'impronta a tutta la coscienza (Kant, Pinillos).

Esistono due modalità principali dell'esperienza affettiva: i sentimenti e le emozioni. La filosofia e la fenomenologia hanno avuto la tendenza a distinguere entrambi gli stati affettivi caratterizzando i sentimeni per la loro maggiore durata, la loro minore intensitàve senza le ripercussioni somatiche violenti delle emozioni. Così, per i sentimenti più che per le emozioni, possiamo applicare il concetto di stato diffuso e impregnante, affezione d'animo che va dal piacere al dolore, la cui specificazione contiene, di solito, norme e valori culturali. I sentimenti sono vividi come gradevoli o sgradevoli, associati ad oggetti vari; persone, situazioni, valori e processi, e dànno luogo con tutto ciò a classificazioni varie: sentimenti elementari di carattere sensoriale molto pronunciato, come le tensioni di pericolo; sentimenti psichici, come la gioia o la tristezza; sentimenti spirituali, come la felicità.

La psicologia scientifica, invece, intende i sentimenti come componenti di esperienza soggettiva delle emozioni, o come un atteggiamento che appartiene alla condotta sociale del soggetto.

Gli antichi filosofi cercarono di spiegare le emozioni contrapponendo l'emozione alla ragione. Ancora oggi, l'emozione è ritenuta certe volte come qualcosa di degradante, disorganizzatore e opposto alla condotta di adattamento. In questo senso, è definita come un'esperienza dagli effetti negativi.

Attualmente, però, l'emozione tende ad essere considerata come una funzione della condotta che varia nell'ordine e nell'intensità delle sue risposte. Così, l'emozione possiede una componente di condotta nell'espressione del volto, della posizione e del movimento, ed una seconda componente conoscitiva di esperienza soggettiva. Tutto ciò poggia su una base di allarme e di attivazione fisiologica.

Bibl. - Ammaniti M. - Dazzi N. (edd.), Affetti, Ed. Laterza, Bari, 1990. Cesa Bianchi M. Bregani P., Psicologia generale dell'età evolutiva, Ed. La Scuola, Brescia, 1980. D'Urso V. - Trentin R., Psicologia delle emozioni, Ed. " Il Mulino ", Bologna, 1988. Mischel W., Lo studio della personalità, Ed. " Il Mulino ", Bologna, 1986. Visconti W., " Affettività ", in: Dizionario di Scienze dell'Educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 33-34.

M. N. Lamarca

Aggiornamento. (inizio)

Il termine aggiornamento fu usato da Giovanni XXIII per determinare il " carattere fondamentalmente pastorale " del Vaticano II. Non significa un semplice adattamento, ma la penetrazione profonda del vangelo nella storia e nella realtà sociale nella Chiesa. Paolo VI, nella sessione pubblica tenutasi per promulgare il decreto sull'apostolato dei laici (18.11.1965) precisò che aggiornamento equivale a " saggio approfondimento dello spirito del Concilio " e a " adattamento fedele delle sue norme ". Comunque, la parola aggiornamento significò, all'inizio del Concilio e durante il suo svolgimento, aprire le finestre della Chiesa al mondo per riconciliarsi con esso, mettersi al suo servizio, e tradurre il messaggio cristiano alla cultura contemporanea.

La parola aggiornamento è tradotta nei testi conciliari coi termini latini accomodatio (accomodamento), adaptatio (adattamento), renovatio (rinnovamento), reformatio (riforma). Non è mai tradotto con restauratio (restaurazione). Ciò significa che il Concilio non fu un ritorno al passato. Aggiornamento è quindi riforma e innovazione mediante la sequela di Cristo.

È chiaro che il Concilio mirò ad una riforma e non ad una semplice restaurazione. La riforma conciliare nacque da un dialogo all'interno della Chiesa e della Chiesa con la società. Lo stesso Concilio chiamò appunto " passaggio dello Spirito " i movimenti di rinnovamento che precedettero il Concilio, soprattutto quello liturgico e quello ecumenico (SC 43; UR 1). Dopo il Vaticano II, Paolo VI si richiamò più volte allo " spirito rinnovatore del Concilio ", che esige qualcosa di diverso e di nuovo affinchè tutto non " ritorni come prima ".

Lo spirito di rinnovamento del Concilio non è una rottura col passato, non è un radioalismo sempre critico verso la gerarchia, non è una contestazione di contenuti fondamentali: esso si fonda su un cambiamento di mentalità, mediante una necessaria successione di persone.

Bibl. - Alberigo G. ed altri, Il Vaticano II e la Chiesa, Ed. Paideia, Brescia, 1985. Cattaneo E. (a cura di), Il Concilio vent'anni dopo. 2 L'ingresso della categoria " storia ", Ed. Ave, Roma, 1985. Galantino N. (a cura di), Il Concilio vent'anni dopo. 3 Il rapporto Chiesa-mondo, Ed. Ave, Roma, 1986. Ghidelli C., Attualità del Vaticano II, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1993. Simone M. (a cura di), Il Concilio vent'anni dopo. 1 Le nuove categorie dell'autocomprensione della Chiesa, Ed. Ave, Roma, 1984.

C. Floristán

Agnosticismo. (inizio)

Il termine agnosticismo fu usato da Th. H. Huxley (1825-1895) per mettere in risalto la sua posizione di fronte alla metafisica, rispetto agli gnostici. Il concetto ha qualcosa di vago. Indica una " mancanza di conoscenza ", o una " impossibilità di conoscere ", almeno per quanto riguarda un certo tipo di conoscere, per esempio, scientifico, razionale o naturale. Può riferirsi al soprasensibile, o al meta-empirico, ma anche alla materia quando non la si sta percependo: è l'idealismo religioso di Berkeley (1685-1753).

Si suole intendere l'agnosticismo in rapporto col problema dell'esistenza di Dio, trascendente infinito. Così, si parla di credenti in contrapposizione agli agnostici. C'è un agnosticismo che non nega ogni conoscenza meta-empirica che illumini l'esperienza e la condizione di possibilità della scienza, ma non ammette una conoscenza razionale, oggettivamente valida e intercomunicabile di Dio. Questo è nella linea di Kant e della concezione del trans-intelligibile di N. Hartmann. Però, Kant concede un primato alla ragione pratica, e in questo modo, è aperto ad una particolare fede razionale nell'esistenza di Dio. Al polo opposto, sta la teologia dialettica. Secondo Barth, la Parola di Dio in cui crediamo e speriamo, e a cui dobbiamo obbedire in vita ed in morte, è Gesù Cristo, così come si manifesta nella Sacra Scrittura. Secondo R. Bultmann, la rivelazione non può essere sottoposta a criteri terreni, ma è una chiamata rivolta all'uomo che gli rivela la sua situazione di peccatore di fronte a Dio, e Dio concede per grazia la sua piustizia. La fede consiste nel comprendere la rivelazione e la propria esistenza come se fossero una stessa cosa. C'è una certa autoevidenza della rivelazione e della fede; però, è necessaria l'indagine storico-critica perché aiuta la comprensione e ricorda costantemente che le basi principali della fede sono storiche.

Non è sempre facile delimitare i concetti di ateismo e di agnosticismo. In un certo modo, il cosiddetto ateismo negativo, quando il problema di Dio non arriva ad impostarsi, ignora completamente la possibilità della trascendenza o dell'infinito, e non sorge nessuna domanda al riguardo: questa sarebbe la forma più rigorosa di agnosticismo. Però, in genere, si intende per agnostico colui che ha, riguardo al problema di Dio, una posizione riflessa che, da una analisi filosofica, conclude che la sua esistenza non si può dimostrare, ma non si può dedurre che non esista. La critica dell'agnostico non è dogmatica in quanto non supera la posizione del " non mi convince ".

La problematica dell'agnostico è distinta da quella dell'ateo. Egli non nega, ma semplicemente non intende, non afferma, e orienta la sua visione del mondo verso altre prospettive. Si potrebbe tentare una fenomenologia del comportamento agnostico come una contrapposizione del comportamento ateo, anche se non tutti gli atei si riconoscerebbero in essa. L'ateo militante vivrebbe una specie di impegno contro Dio, sentendo in sè una larvata necessità di Dio e lottando contro di essa: non vuole che Dio esista. Altri combattono la credenza in Dio per motivi sociali: ritengono che l'idea di Dio sia nociva per le possibilità di emancipazione dell'uomo e per la liberazione degli oppressi. La teologia della liberazione lavora per purificare l'idea di Dio, partendo dalla tradizione biblica e cristiana; cercando di superare questi equivoci.

Ci sono degli agnostici, come M. de Unamuno, che presentano un aspetto agonistico, cioè, di lotta, ma in un senso opposto a quello degli atei militanti. Unamuno è lacerato tra la necessità di credere, sulla base di un anelito ansioso di immortalità, e l'impossibilità di superare un razionalismo che rifiuta il mistero. Altri agnostici, come, per esempio, E. Tierno Galván, coltivano la serenità al massimo grado, valutando positivamente il fatto di adagiarsi in modo consapevole e responsabile nella finitezza. Essi ritengono che l'insoddisfazione di fronte al mondo sia un prodotto culturale umano che può essere superato. Provano, però, un grande rispetto per la fede dei credenti autentici. C'è in parecchi agnostici una dimensione in certo senso religiosa, che tende a collegarsi nella preghiera con il Fondamento, sia pure senza personalizzarlo. Per questa via, sono aperti ad una qualche forma di mistero, ad una profondità ineffabile del finito concreto. Così, in pratica, incontrano tutto ciò che è necessario.

Bibl. - Antiseri D., Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso, Ed. Queriniana, Brescia, . Groth B., " Agosticismo ", in: Dizionario di Teologia Fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 4-6. Kant I., " Dialettica trascendentale ", in: Critica della ragion pura, Brescia, . Panikkar A., Religione e religioni, Ed. Morcelliana, Brescia, 1964. Sciacca M., " Agnosticismo ", in: Enciclopedia Filosofica, I, Venezia-Roma, 1957, pp. 74-78.

J.M. Díez-Alegría

Alleanza. (inizio)

I popoli dell'Antico Oriente coltivavano molto i valori comunitari. Per salvaguardarli, moltiplicavano i patti o contratti (berith) che creavano vincoli molto stretti fra i contraenti.

Gli Israeliti, una volta che fu fissata da Mosè la loro esperienza religiosa (yahvismo), decisero di ratificarla con un patto solenne tra il popolo e la divinità. Lo scenario fu il Sinai (Es 19 e 24), dove i figli dei patriarchi giurarono fedeltà a JHWH in cambio della sua protezione e del suo aiuto. Solo allora il popolo trovò la forza per iniziare la conquista di un territorio che si riteneva era stato promesso da Dio al suo capostipite Abramo (Gen 15). Una volta conquistato il paese dei Cananei, l'alleanza sinaitica fu riaffermata a Sichem (Gs 24). A partire da allora, tutta l'esperienza religiosa d'Israele era destinata a cimentarsi su questa alleanza coo Dio, dando origine con ciò ad una autentica teocrazia, che più di una volta fu messa in pericolo dalla monarchia. Per questo, i profeti non cessavano di richiamarsi all'alleanza ogni volta che il popolo dimenticava i suoi doveri religiosi (Hm 3,3; Os 6,7; 8,1). La preoccupazione per l'alleanza raggiunse il suo vertice con la tradizione deuteronomista (Dt 4,30-32; 7,a-12; 26,17-19). Intanto, il profetismo, ossessionato dalla genesi del regno messianico, invitava a nutrire la speranza di una nuova alleanza con JHWI che avrebbe mandato il Messia atteso per porre fine ad ogni ingiustizia e per instaurare un'èra di pace paradisiaca. Sarebbero allora scomparsi gli abusi che avevano scosso così profondamente la società di quel tempo (Is 40-55; Ger 31,31-34; Ez 16,19-53; 36,25-29...).

Gli scrittori neotestamentari ricordano frequentemente il concetto di alleanza (berith diathèke) e lo collegano con l'opera di Gesù. Soprattutto san Paolo elabora una teologia della nuova alleanza in relazione con il sangue di Cristo (1 Cor 11,25) e la presenta come la liberazione dei credenti (Rm 8,1-4) che vengono trasformati (Gal 6,5; 2 Cor 5,17). Ad essi, viene elargita la dignità di " figli di Dio " (Rm 8,14; Gal 4,6). Così, dunque, con l'atto redentore (morte-risurrezione di Cristo), il mondo viene invitato a contrarre un patto nuouo con Dio, un patto sigillato non su tavole di pietra, ma nel fondo dei cuori (cf 2 Cor 3,3). Questo patto si rese effettivo a Pentecoste, quando la forza del Risorto penetrò nei discepoli ai quali venne infuso una spinta capace di rinnovare la terra. Coloro che rimagono fedeli a questa nuova alleanza costituiscono il nuovo Popolo di Dio (= la Chiesa di Cristo).

Bibl. - Bonora A., " Alleanza ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 21-35. Deissler A., L'annuncio dell'Antico Testamento, Ed. Paideia, Brescia, 1980. Grelot P., Leggere la Bibbia, Ed. Piemme, Casale M., . Lohfink N., La promessa della terra come giuramento, Ed. Paideia, Brescia, 1973. Schoonenberg P., Creazione e Alleanza, Ed. Queriniana, Brescia, 1972.

A. Salas

Amministrazione economica. (inizio)

Il servizio fraterno e l'aiuto ai poveri sono uniti, fin dalla nascita della Chiesa, alla celebrazione dell'Eucaristia. Condividere i beni è un tratto fondamentale della comunità cristiana. I tre sommari degli Atti (2,42-47; 4,32-35; 5,12-16) attestano che i primi cristiani possedevano tutto in comune e distribuivano tutto, non per essere poveri, ma perchè così nessuno tra loro era bisognoso. A motivo della comunione dei fratelli nella fede, si raccoglievano i beni o si facevano " collette " per aiutare i poveri e i cristiani di altre comunità (At 11,28-30; 1 Cor 16,1-4).

La condivisione dei beni e il servizio ai poveri richiedettero presto nella Chiesa una organizzazione. Prima i diaconi e poi i chierici dovettero amministrare i beni della Chiesa che, nei primi tre secoli, erano i beni dei poveri. Però, questo sistema scomparve un pò alla volta, perchè venne meno il senso esatto delle offerte. A partire dal secolo IV, appaiono, con il " costantinismo " della Chiesa, due fenomeni nuovi: un clero libero da lavori civili e mantenuto economicamente dalla comunità dei fedeli (ciò darà luogo alla " classe sacerdotale ", che controllerà il denaro della Chiesa), e l'esistenza di proprietà ecclesiastiche per doni tatti da alcuni fedeli (questo darà luogo ad una grande preoccupazione istituzionale). La Chiesa, sviluppatasi come istituzione potente ai tempi della conversione dell'Impero romano e dei popoli barbari, divenne religione ufficiale, assunse come supplenza un compito di benefattrice e si arricchì notevolmente. Col tempo, vennero favoriti gli " stipendi " per il culto, per un " congruo sostentamento " del clero. Il denaro venne adibito per costruire edifici, alle volte sontuosi e scandalosi, della Chiesa. Già nel secolo V, il papa Gelasio decise di distribuire i beni della Chiesa in quattro parti: vescovi, clero, culto e poveri. Un po' alla volta, il popolo perdette il controllo dei beni della Chiesa amministrati da chi aveva autorità. Ricordiamo che la Chiesa si arricchì notevolmente per donazioni, specialmente di terrene che, nel Mediodevo, le curie amministravano i beni, con forte scontento del popolo, dei mendicanti e di qualsiasi cristiano che fosse anche minimamente evangelico. I beni divennero proprietà di certe istituzioni, sotto il patrocinio di un santo patrono. A poco a poco, queste istituzioni amministrarono il loro patrimonio, acquistarono rendite ed investirono le loro entrate, senza il controllo della comunità dei fedeli, con tutta segretezza e in una prospettiva di pura conservazione del capitale accumulato e di aumento dei benefici. Le lotte sorte nei tempi della " disamortizzazione " dei beni della Chiesa causarono scandali, tensioni e incomprensioni. La Chiesa è tutt'altro che " intendente dei poveri ". Però, a partire dal Concilio, si va verso un nuovo stile di uso dei beni della Chiesa.

I beni della Chiesa sono riscossi oggi fondamentalmente in tre modi: per contributi volontari, imposte religiose, aiuti dello Stato. L'indipendenza della Chiesa rispetto allo Stato significa, dopo il Concilio, un rifiuto netto, da parte della Chiesa, di qualsiasi aiuto finanziario o dell'uso di organismi statali per ottenere " imposte religiose " o esenzioni economiche equivalenti a privilegi. Parlare dei diritti della Chiesa, soprattutto in campo economico, fondandosi su alcuni diritti " particolari ", è una cosa inaccettabile. D'altra parte, le proprietà della Chiesa, per la sua natura missionaria e per la sua vocazione di povertà al servizio dei poveri, non sono degli ecclesiastici, ma del Popolo di Dio le cui frontiere col resto dell'umanità non possono essere ben delineate. Il diritto di proprietà e l'uso dei beni temporali della Chiesa non sono privati a causa della missione cristiana. Sono beni autonomi, ma non indipendenti; sono sussidiari, ma non assoluti.

La proprietà e l'amministrazione dei beni della Chiesa devono stare al servizio del suo ministero, fondamentalmente evangelizzatore, che comprende un servizio pubblico, date le eredità avute e le implicanze sociali che comporta il fatto cristiano. I beni della Chiesa sono strumenti per la sua missione e vanno ripartiti secondo alcune necessità prioritarie: l'assistenza e la promozione della carità verso i poveri o indigenti, il mantenimento di certi locali, il sostentamento di alcuni compiti pastorali e il salario di alcuni responsabili. La Chiesa possiede, per donazioni varie e per il lavoro disinteressato di molti cristiani, una quantità enorme di edifici di ogni indole, il cui patrimonio deve essere profondamente rivisto. Il Nuovo codice di Diritto Canonico indica i " fini propri " che devono avere le offerte o donazioni dei fedeli: " ordinare il culto divino, provvedere ad un onesto sostentamente del clero e degli altri ministri, esercitare opere di apostolato sacro e di carità, specialmente a servizio dei poveri " (c. 1254).

Evidentemente, i credenti sono tutti chiamati a collaborare nei compiti pastorali della Chiesa. Perciò anche quelli che sono semplici beneficiari del culto domenicale hanno l'obbligo di dare il loro contributo per la Chiesa. Però, ci deve essere sempre una vera "co-gestione economica". Il compito di condivisione dei beni deve essere effettivamente evangelico. I poveri vanno ritenuti come l'azione fondamentale di ogni compito ecclesiale.

Bibl. - Aa.Vv., I beni temporali della Chiesa in Italia, Città del Vaticano, 1986. Cappellini E., Norme per il sostentamento del clero. Studi e documenti, Brescia, 1986. " Concilium ", 7 (1978): Le finanze nella Chiesa. Marchesi M., Come amministrare la parrocchia, Ed. Dehoniane, Bologna, 1989. Nuovo accordo tra Santa Sede e la Repubblica Italiana, Le norme circa gli enti e i beni ecclesiastici, Ed. Paoline, 1986.

C. Floristán

Amore. (inizio)

L'amore è un mistero tra l'io e il tu (M. Buber). L'approccio a questo mistero è stato lungo e diffuso attraverso la cultura, ed è anche un processo nella storia personale.

L'Occidente ha vissuto la realtà dell'amore in una continua tensione: tra l'influsso del dualismo greco con la sua sequela di ascetismo negativo, e l'influsso dell'amore nella pienezza della rivelazione e del fatto cristiano a cui si è mescolato, molte volte, il timore e la sfiducia. L'amore cortese ha rivendicato l'amore come passione pura, godimento intenso ed esaltazione, ma svincolato dal matrimonio e dalla procreazione. Nell'epoca vittoriana, l'amore non venne considerato come un'esperienza personale, ma come un patto da realizzare secondo le regole sociali imposte. In seguito a ciò, poteva sorgere l'amore. Oggi, si è tornati all'amore romantico fatto di esperienza personale. Nell'amore, predomina la libertà. Molto vivo in una società di consumi ed in una cultura di compravendita, l'amore è a volte sottoposto all'eccitazione, all'intensità del momento e all'interscambio occasionale. L'amore è sperimentare, non è " permanere ".

La comprensione esatta dell'amore chiede di superare le impostazioni tabù, mitologiche e disumanizzanti per aprirsi ai dati delle nuove scienze che chiariscono l'antropologia e la psicologia umane. Nell'impossibilità di farlo, scegliamo di presentare alcune sue caratteristiche:

L'amore è un dono gratuito (kàris), è gratuità: il mistero dell'amore ci scopre come indigenti e bisognosi. Abbiamo bisogno di ricevere amore e di sentirci amati senza nessun tipo di condizionamenti né di imposizioni: abbiamo bisogno di viverlo partendo dalla libertà e dalla gratuità del dono offerto.

L'amore è totalità, è totalizzante: la libertà e la gratuità dell'amore ricevuto porta alla donazione e alla consegna di sé (agàpe), all'uscita dall'io per incontrarsi con il tu senza escludere o negare gli altri, ma nell'integrazione.

L'amore è coraggio. Erich Fromm, nel suo libro famoso, L'arte di amare, afferma che l'amore è un'arte che esige disciplina, pazienza ed impegno per apprenderla. Ri chiede conoscenza e sforzo Per passare dal sentimentalismo all'impegno di amare. " Se l'amare fosse solo un sentimento, non esisterebbero le basi per amarsi eternamente ".

L'amore è apertura, attività e compito che porta alla crescita. Richiede che vengano superate le tappe di ancoraggio nell'io chiuso: fissazioni, repressioni, regressi, ecc. Occorre anche superare la strumentalizzazione del tu oggetto per incontrarsi come soggetti e aprirsi alla maturazione del noi. Integrazione personale e relazione interpersonale devono portare a vivere l'amore come condotta e linguaggio fecondo.

L'amore non è calcolo, non è scambio economico. Per questo, non ammette di essere costruito sulla relazione mercantilista borghese del do ut des. Ancora meno può essere il risultato della soddisfazione sessuale reciproca, non è lavoro in " équipe " né egoismo a due.

Per il cristiano, l'amore è primo come dono e come fatto di grazia: " Dio è amore… In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio… " (1 Gv 4,8-10). E questa l'esperienza decisiva dell'agire cristiano, e, per ciò stesso, è il perno su cui roteano tutte le sue opzioni e tutti i suoi comportamenti. Questo spiega perchè l'amore verso Dio e verso il prossimo è l'e-sigenza etica fondamentale nell'impegno della sequela: è la risposta vitale al dono gratuito dello Spirito che ci spinge a camminare secon-do lo stesso Spirito (Gal 5,25). Lo Spirito dell'amore viene così ad essere la legge nuova di grazia e di libertà del cristiano: è lo Spirito che ispira, purifica e fortifica " quei generosi propositi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra " (GS 38).

L'amore ci introduce nell'ambito religioso dell'alleanza mediante cui Dio e l'uomo realizzano il loro incontro, e, nello stesso tempo, l'amore ci introduce nell'universo etico concreto perché è la sua categoria fondamentale. Per questo, ci apre all'utopia della creatività: impedisce che la religione diventi alienazione, rito vuoto o pietismo; impedisce pure che l'etica degeneri in legalismo, perché si apre invece all'incontro, all'impegno e alla comunione con il prossimo reale, senza evasioni: il povero, il non amato.

Bibl. - Bernard CH.A., Teologia affettiva, Ed. Paoline, Roma, 1985. Cereti G., " Amore ", in: Dizionario di Pastorale Giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 43-54. From E., L'arte di amare, Ed. " Il Saggiatore ", Milano, 1977. Penna A., Amore nella Bibbia, Ed. " Paideia ", Brescia, 1972. Welte B., Dialettica dell'amore. Fenomenologia dell'amore e amore cristiano nell'èra tecnologica, Ed. Morcelliana, Brescia, 1986.

M. Gómez Ríos

Analisi della realtà. (inizio)

Le nostre percezioni spontanee della realtà si prestano a molti inganni. Perciò è necessario ricorrere ad un metodo di analisi. Esistono due correnti principali: la corrente marxista e quella funzionalista.

Le tre caratteristiche principali del metodo marxista sono le seguenti:

1) È un metodo dialettico che privilegia le contraddizioni che esistono in qualsiasi realtà.

2) Si tratta di una dialettica materialista secondo cui le relazioni economiche generano i valori, i princìpi, ecc., e non viceversa.

3) Proclama il primato della prassi, che diventa il principio ed il fine dell'atto di conoscere. E questo il metodo di coloro che sono interessati al cambiamento sociale.

Il metodo funzionalista, invece, privilegia l'armonia viuttosto che il conflitto. Parte dal presupposto che tutti gli elementi del sistema sociale funzionano insieme con un grado sufficiente di congruenza interna, cioè, senza produrre conflitti persistenti che non si possono risolvere. Il suo concetto chiave è quello di funzione, intendendo con ciò la conseguenza oggettiva che posssiede un fenomeno sociale per il complesso ampio di cui fa parte, e che non sempre coincide con le motivazioni consapevoli dei suoi protagonisti.

Anche se è necessario ricorrere ad un metodo di analisi, nessuno tuttavia può considerarsi neutro. Entrambi rendono possibile la lettura della realtà, ma anche la condizionano. Come diceva Einstein, " è la teoria che decide ciò che possiamo osservare ".

Bibl. - Caramella S., " Analisi ", in: Enciclopedia Filosofica, I, Venezia-Roma, 1957, coll. 185-190. Del Noce A., " Marx ", in: Enciclopedia Filosofica, III, Venezia-Roma, 1957, coll. 345-350. Malizia G., " Funzionalismo ", in: Dizionario di Scienze dell'Educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1897, pp. 452-454. Viglino U., " Analisi ", in: Enciclopedia Cattolica, I, Roma, 1948, call. 1135-1137. Wetter G.A., " Materialismo dialettico ", in: Enciclopedia Filosofica, III, Venezia Roma, 1957, call. 414-418.

L. González-Carvajal

Anno liturgico. (inizio)

L'anno liturgico, anno del Signore o anno cristiano, è la celebrazione ciclica del mistero di Cristo da parte dell'assemblea dei credenti lungo il giorno, la settimana, l'anno. I riferimenti, perciò, sono tre: la comunità cristiana (la Chiesa), il tempo coi suoi eventi (la storia) e il mistero centrale della salvezza (Cristo). La Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II afferma: " La santa Madre Chiesa… nel corso dell'anno distribuisce tutto il mistero di Cristo, dall'Incarnazione e dalla Natività fino all'Ascensione, al giorno di Pentecoste e all'attesa della beata speranza e del ritorno del Signore " (SC n. 102).

Lo sviluppo dell'anno liturgico fino alla sua attuale configurazione fu molto lento. Le comunità primitive celebravano ciclicamente la domenica, giorno del Signore e della sua risurrezione. Con l'introduzione, nel secolo II, della Pasqua annuale (la domenica successiva alla luna piena che segue l'equinozio di primavera), furono poste le basi dell'anno cristiano.

Non dimentichiamo che l'anno inquadra le attività umane fondamentali, sia quelle relative all'agricoltura che quelle attinenti all'allevamento, sia quanto è in rapporto con leggi dell'astronomia che coi ritmi della vegetazione. La settimana e il mese, di origine lunare, seguiti dall'uomo primitivo prima della successione dell'anno solare, finirono per essere parti subordinate all'anno. L'anno fu calcolato dai primitivi partendo dal succedersi delle stagioni.

Per gli Ebrei, la base del loro calendario era costituita dal sabato settimanale e dalla Pasqua annuale. La Pasqua o festa degli azzimi (pane fatto con spighe nuove, senza lievito vecchio), che commemorava la liberazione dalla schiavitù d'Egitto, era al centro dell'anno e la festa principale. Il cinquantesimo giorno, si celebrava la pentecoste, festa delle messi e dell'alleanza del Sinai. La terza grande festa giudaica era connessa con la raccolta dei frutti dell'autunno e si trasformò in festa dei tabernacoli o delle tende.

I Romani, invece, seguivano un calendario di mesi fissati a dodici da Giulio Cesare. Questo calendario si impose in Occidente. In ultima analisi, l'anno liturgico è l'anno civile romano nel cui interno si celebrano i misteri di Cristo con l'influsso ebraico delle grandi feste (quella settimanale e quella pasquale). Verso il secolo VI, fu costituita la struttura fondamentale dell'attuale anno liturgico: la Pasqua annuale è preceduta da una preparazione (la Quaresima); segue un prolungamento (la cinquantena pasquale). Si sviluppa la festa di Natale-Epifania, anche qui con una preparazione adeguata (l'Avvento). L'espressione anno cristiano viene coniato nel secolo XVII, mentre il termine anno liturgico è divulgato dal benedettino Don Guéranger nel secolo XIX.

Hanno contribuito alla formazione e alla concezione dell'anno liturgico anche la riflessione teologica, la catechesi, la celebrazione e la vita delle comunità cristiane. Naturalmente, le teologie dell'anno liturgico sono recenti. La prima e più famosa è la teologia dei misteri per opera del benedettino Oddo Casel. In sintesi, egli afferma che, mediante la celebrazione sacramentale della Chiesa, si rendono presenti oggi la persona e l'opera del Signore e viene comunicata la salvezza, a seconda della dimensione della festa che si sta celebrando. Per mezzo del culto, si commemora e si rende presente il mistero particolare che viene celebrato.

Dal punto di vista ufficiale, il primo documento dottrinale che si riferisce all'anno liturgico è l'enciclica Mediator Dei di Pio XII, nel 1947. L'anno liturgico, dice questa enciclica, non è una semplice " rappresentazione " o " evocazione " di fatti del passato, ma è " contatto " attuale dei cristiani con Cristo. La Costituzione liturgica del Vaticano II afferma chiaramente la presenza del mistero di Cristo nelle celebrazioni.

La salvezza si rende presente con la " sacra commemorazione ". Detto in altro modo già ricordato sopra: " La santa Madre Chiesa… nel corso dell'anno distribuisce tutto il mistero di Cristo " (SC n. 102).

Così come la terra impiega un anno per fare un giro completo attorno al sole, così ogni comunità cristiana e tutta la Chiesa impiega un anno per girare attorno a Gesù Cristo, centro della vita cristiana. Il segno temporale è l'anno civile, diviso in settimane e in quattro stagioni naturali. Però, il calendario liturgico si distingue da quello civile in quanto il suo centro è la Pasqua, il suo inìzio è l'Avvento e il suo termine è la festa di Cristo Re. Quello che è decisivo nell'anno liturgico è la festa, non il giorno feriale; il riposo o la contemplazione, non il lavoro; il Regno di Dio in Cristo, non la semplice società. La domenica è per il calendario pivile un giorno di riposo; per quello liturgico, è il giorno del Signore.

Oltre a questi due calendari, il cattolicesimo popolare ha costruito un altro calendario religioso. Il popolo celebra la sua religiosità popolare secondo questo calendario trasmesso dalla tradizione. Esso varia da un paese ad un altro a seconda dell'influenza del cattolicesimo o cristianesimo primitivo che giunse coi primi missionari. Varia anche secondo certi riti religiosi precristiani e secondo determinate incidenze dell'evoluzione cattolica successiva. Il calendario popolare comprende feste liturgiche (natività e settimana santa che coincidono col calendario liturgico), feste mariane sotto varie denominazioni, feste di santi in relazione con qualche necessità umana, processioni con immagini, pellegrinaggi a santuari e gesti religiosi ciclici uniti all'uso di simboli (albero di Natale, candele, benedizione di animali, ceneri, acqua santa, fiori per i defunti, ecc.). A motivo dell'importanza dell'anno liturgico e del calendario religioso popolare, l'affarismo moderno ha stabilito il calendario commerciale, molto evidente nei giorni che precedono il Natale, nel periodo delle prime Comunioni, in feste concrete per fare regali (festa del padre, della madre, degli innamorati, ecc.), e in cibi speciali per certe feste (veglione di fine d'anno, panettoni, colombe, uova di Pasqua, ecc.).

Insomma, l'anno liturgico è una pedagogia adatta per celebrare ciclicamente il passaggio del Signore: dal Padre al mondo per il Natale e dal mondo al Padre per la Pasqua. Così, si legge, lungo l'anno e in relazione con le feste, la Parola di Dio. Questa è distribuita secondo alcuni lezionari adeguati: ogni tre anni, annualmente, nei tempi forti liturgici, o di settimana in settimana. In questo modo, popolare e naturale, i cristiani rinncvano ciclicamente la fede e la speranza, i segni o sacramenti della fede e l'impegno della carità fino al ritorno del Signore.

Bibl. - Bergamini A., " Anno liturgico ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 65-71. Casel O., Il mistero del culto cristiano, Ed. Borla, Torino, 1966. Della Torre L., Celebrare il Signore. Corso di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1989. Lopez-Martín J., L'anno liturgico, Ed. Paoline, Cinisello B., 1987. Nocent A., Celebrare Gesù Cristo. L'anno liturgico, 7 voll., Ed. Cittadella, Assisi, 1976 ss. Rahner K., L'anno liturgico, Ed. Morcelliana, Brescia, 21964. Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Ed. Paoline, Roma, .

C. Floristán

Ansia. (inizio)

L'ansia è uno stato non specifico di eccitazione che giunge dopo che sono stati interpretati, con esattezza, o meno, certi segnali di paura. L'ansia è un termine usato per designare una serie di risposte molto complesse che sono associate con sentimenti di tensione e che comportano cambiamenti nell'attività fisiologica del sistema nervoso autonomo.

In genere, ogni stato di ansia presenta questi tre aspetti:

Aspetto fisiologico: aumento del ritmo cardiaco, dilatazione dei capillari nelle mani e qelle gambe, aumento del ritmo della respirazione, dilatazione delle pupille, riduzione del volume sanguigno nelle viscere, sudore nelle mani, inibizione della secrezione salivare, aumento di secrezione dell'adrenalina, ecc.

Aspetto conoscitivo: Il soggetto in stato di ansia elabora un complesso di pensieri, giudizi ed interpretazioni generalmente attorno alla situazione percepita e alle proprie reazioni fisiologiche. L'interpretazione data dipende dalla situazione in sé, dalla storia passata dell'individuo, dal livello di attività e dai cambiamenti fisiologici conseguenti.

Aspetto motorio: Succede una serie di reazioni motorie che si possono osservare, come il tartagliare, certi tics, tremiti, movimenti corporei disordinati, e specialmente i cosiddetti comportamenti di fuga e di scampo.

Le situazioni che generano ansia possono essere molte e varie e si manifestano sotto forme di paura e di fobìe.

La paura è una reazione normale e naturale di fronte ad una minaccia, reale o immaginaria. È prodotta dalla componente conoscitiva, da quella motoria e da quella emotiva.

La fobìa è una forma speciale di paura le cui caratteristiche principali sono: l'intensità della reazione assolutamente sproporzionata alla situazione e la mancanza di un rapporto logico tra la situazione e la reazione. La fobìa non si può vincere con ragionamenti di nessun tipo. È totalmente involontaria. Il soggetto capisce che la sua reazione è priva di logica.

Bibl. - Meazzini P., " Ansia ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 65-67. Rycroft Ch., Angoscia e nevrosi, Milano, 1969. Sillamy N., Dizionario di Psicologia, Ed. Gremese, Roma, 1995. Sullivan H.S., La moderna concezione della psichiatria, Milano, 1969.

M. N. Lamarca

Anticlericalismo. (inizio)

L'anticlericalismo è l'atteggiamento di ostilità verso il clero e verso la sua influenza sociale che si ritiene eccessiva. La stessa difficoltà di precisare la natura, la genesi e la proporzione degli atteggiamenti spiega la difficoltà di precisare il concetto di anticlericalismo e di tracciare gli aspetti più salienti della sua tipologia.

Anticlericalismo è il contrario di clericalismo. Per clericalismo, si può intendare la traduzione e l'intromissione della religione come strumento di potere. Nel clericalismo, religione e politica si incrociano. La Chiesa si serve del potere politico per riaffermare un sistema di potere ecclesiastico; il potere politico, a sua volta, si serve della Chiesa per garantire il sistema di governo o le situazioni politico-sociali.

Il multiforme fronte clericale genera molti fronti anticlericali dai vari segni: quelli di destra e quelli di sinistra; i liberali e i totalitari quelli prevalentemente intellettuali, derivati da una filosofia sociale: il laicismo; quelli prevalentemente emotivi, frutto di esperienze negative individuali o sociali rispetto alla Chiesa. Secondo il gruppo sociale in cui si incarna, ci può essere un anticlericalismo elitario eo un anticlericalismo popolare.

Però, la divisione più importante è quella che si stabilisce nei riguardi della religione. Ci può essere un anticlericalismo interno alla credenza: questa non viene esclusa, ma non si accetta l'influsso eccessivo del clero, mentre la religione è ritenuta legittima. Ci può essere un anticlericalismo irreligioso, che a sua volta, offre una diramazione: può essere, per principio, irreligioso (e l'anticlericalismo ne è una conseguenza), oppure quello che era anticlericalismo interno sfocia nella irreligione.

L'anticlericalismo che abbiamo chiamato interno, specialmente nella sua incarnazione popolare, sembra aver costituito una vecchia abitudine medievale e europea. È facilmente documentabile, perfino negli stalli dei cori delle cattedrali. La sua sostanza profonda si sfogava nella satira su alcuni personaggi ? il clero ? visti come incarnazioni deformate e picaresche di una istituzione accettata e che aveva anche figure esemplari, atte ad essere mitizzate nelle immagini popolari. Era sempre una critica dall'interno.

La critica dal di fuori, l'anticlericalismo irreligioso, nasce come forza sociale con l'Illuminismo. E un episodio del conflitto tra la ragione e la religione: esso sta sulla soglia delle trasformazioni sociali che caratterizzano l'Età Moderna. La religione è vista come oscurantismo ed il clero come un nemico del progresso.

L'anticlericalismo è stato logicamente, dato il peso politico della Chiesa spagnola, un importante fattore di conflitto nella storia della Spagna. Inizialmente, esso si presenta come una ripetizione dell'anticlericalismo medievale europeo: critica interna che non fa altro che mettere in rilievo l'inadeguatezza delle debolezza umana di fronte alla purezza simbolica dell'istituzione ecclesiale, mai messa in questione.

Una fitta concatenazione di cause cambiò l'anticlericalismo interiore alla credenza in anticlericalismo irreligioso, popolare e emotivamente denso. Come condizione, almeno, appare anche una lunga decadenza intellettuale da parte della Chiesa, a partire dalla fine del secolo XVII. Si manifesta ancora come critica interna nel secolo XVIII (Torres de Villaroel, il P. Isla). Con alcune eccezioni, tanto più notevoli quanto più chiuso è l'ambiente, la cultura ecclesiale ufficiale perde la sua creatività e tende all'immobilismo. Offre l'immagine di una istituzione nemica del progresso. Però, la breccia massiccia nella credenza delle classi popolari non si aprì mediante la vita intellettuale, ma con quella affettiva dell'anticlericalismo. Il potenziale simbolico della Chiesa, tanto per voler indicare una componente sociale positiva per la totalità pratica del popolo, uscì gravemente danneggiato dopo l'epoca di Ferdinando VII (1833) per l'identificazione della Chiesa tradizionale col regime assolutista e con la sua repressione. Un indicatore cruento può essere quello dell'uccisione di frati da parte del popolo durante la prima guerra carlista, nell'occcasione dell'epidemia del colèra a Madrid. A questo spostamento nel terreno simbolico, c'è da aggiungere nel campo delle istituzioni, gli sforzi dei progressisti isabellini per staccare il governo dall'influenza e dal potere ecclesiastico. I liberali progressisti pensarono che fosse giunta l'ora decisiva (1837) e, mentre liberavano i beni ammortizzati, declericalizzarono la società spagnola. Salustiano de Olozaga, per esempio, governatore di Madrid, distrusse 17 grandi conventi dopo aver esclaustrato i loro inquilini.

Il vecchio filone storico dell'anticlericalismo si caricò di odio religioso lungo il secolo XIX, fino a costituire un problema di convivenza nazionale. L'esempio più cruento si ebbe nel secolo XX con la guerra civile del 1936. Il simbolismo negativo che intaccava l'immagine della Chiesa si tradusse con l'uccisione di migliaia di sacerdoti e di religiose estranei alla violenza politica della contesa. Il risultato fu l'instaurarsi di un nuovo clericalismo. Poi, l'impatto del Concilio Vaticano II e l'evoluzione della Chiesa spagnola posero le basi per una situazione nuova, espressa nella Costituzione del 1978. In essa (art. 16), è affermata la a-confessionalità dello Stato, mentre si riconosce e si garantisce il diritto alla libertà religiosa e alla sua espressione individuale e sociale. Comincia così l'uscita da un conflitto storico.

Le forme attuali di anticlericalismo spagnolo hanno ridotto in modo sostanziale la loro aggressività militante. Sembrano essere il correlato logico della diminuzione del clericalismo. Sono piuttosto forme di cultura secolarista, in cui si manifesta un certo disprezzo per la cultura istituzionale religiosa e per le sue forme di espressione. Similmente, sembrano rinascere modi nuovi di anticlericalismo interno alla credenza, cioè, critici verso la burocrazia ecclesiale da parte di laici credenti. Ciò che acquista caratteri progressivamente crescenti, negli strati giovanili del popolo spagnolo, sono forme a-ecclesiali di esistenza che, senza rinnegare una visione del mondo credente, sono estranee a qualsiasi pratica religiosa istituzionalizzata.

Bibl. - Drago M. - Boroli A. (dir.), Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 60-61. Matteucci B., Cultura religiosa e laicismo, Ed. Paoline, Alba, 1960. Paschini P., " Clericalismo ", in: Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 1859-1860. Rossano P. (a cura di), Dizionario del cattolicesimo nel mondo contemporaneo, Ed. Paoline, Alba, 1964, pp. 107 e 377.

J. Martínez Cortés

Antico Testamento. (inizio)

I cristiani chiamano Antico Testamento (AT) quel complesso di libri ispirati in cui è riportato il processo storico-salvifico dalle origini dell'umanità fino alla venuta del Messia promesso (= Gesù di Nazaret). L'AT è ritenuto la fase preparatoria nella storia della salvezza che si propone l'obiettivo di liberare gli esseri umani dal peccato e dalle sue conseguenze. Oggi, si cerca di vedere l'AT soprattutto come una storia viva, di un popolo che interpretava con categorie religiose i ricordi del suo passato, la sua esperienza del presente e perfino la sua attesa del futuro. Tutto questo procedimento storico- salvifico ebbe per protagonista il popolo israelita i cui rapporti singolari con Dio (JHWH) gli valsero il titolo di popolo eletto.

Gli scritti veterotestamentari rimasero fissati definitivamente nell'epoca del giudaismo, poiché prima dell'esilio babilonese, si accettava il carattere sacro di soli 22 libri, quelli che erano associati con le 22 lettere dell'alfabeto ebraico. Perciò, come un tutt'uno si ammetteva la legge (Pentateuco) e i profeti come espressione del disegno divino. Anche quando il giudaismo tardivo parlò di introdurre gli scritti postesilici (l32 a.C.), mancò l'unanimità quando si trattò di pronunciarsi sul.carattere ispirato di alcuni libri concreti. Questa incertezza rimase anche nei primi secoli del cristianesimo, tanto che non furono inseriti nel canone se non quando il Magistero ecclesiastico lo decise in forma ufficiale. Questi libri, chiamati per questo deuterocanonici, sono i seguenti: Tobia, Giuditta, Baruc, Sapienza, Siracide, 1 e 2 Maccabei, come anche le aggiunte in greco di Ester e di Daniele.

Anche quando tutta la traiettoria del popolo eletto si suppone integrata nel disegno di Dio, la critica di oggi invita a distinguere varie tappe in questo processo salvifico:

1) la tappa preistorica, che comincia coi racconti della creazione per terminare con l'apparire di Abramo (Gen 1-11);

2) la tappa protostorica che include tutte le tradizioni dei patriarchi biblici fino all'arrivo di Mosè;

3) la tappa storica, che inizia con l'alleanza sinaitica per terminare quando, a fondamento dell'opera di Cristo (morte-risurrezione), si instaura la fase di pienezza conosciuta anche come Nuovo Testamento (NT).

Si suppone giustamente che Dio si rivelò al suo popolo nel corso della sua storia, essendo la religione monoteista il segreto della sua sussistenza in un mondo decisamente ostile. Questo è certo. Si deve notare, tuttavia, che Dio si manifesta nel procedimento stesso del suo popolo. Ciò vuol dire: il modo con cui il popolo si apre un varco attraverso la storia permette di scoprire la presenza del Dio che agisce. Molti si chiedono: Dio si è rivelato solo al popolo eletto? Oggi, si parla di una storia generale della salvezza di cui l'esperienza del popolo eletto rappresenta solo un aspetto. Inoltre, noi analizziamo l'esperienza del popolo eletto alla luce del nuouo Israele (= la Chiesa). Ora, la presenza di Gesù, il grande Inviato divino, serve a cónfermare che il procedimento storico del popolo eletto lungo l'AT fa parte in ogni tempo del disegno salvifico di Dio. È certo che qualcosa di simile può essere successo anche con altri popoli dell'antichità. Noi, però, manchiamo di un criterio oggettivo che ci permetta di scoprire nella loro storia la traccia della divinità. Per questo, l'AT acquista un significato così singolare. Solo vedendolo come preparazione, saremo in grado di valorizzare il contributo dell'economia neotestamentaria (= la realizzazione) il cui portavoce indiscusso è Gesù di Nazaret nel quale scopriamo il Dio incarnato.

L'AT riveste un'importanza particolare per tutti quei cristiani che vogliono oggi valorizzare la loro identità religiosa. Questa riceve da Gesù un impulso tale che viene trasformata in un albero frondoso dei cui frutti ci possiamo cibare. Le radici di questo albero vanno, però, cercate nell'AT. Grazie ad esso, è necessario addentrarsi nel suo studio senza nessun pregiudizio e sapendo nello stesso tempo che l'esperienza storico-salvifica fatta dal popolo eletto è stata mediata dallo stampo socio-culturale del suo tempo. Ciò vuol dire che molti insegnamenti, validi al loro tempo, hanno bisogno di essere oggi decantati alla luce del messaggio evangelico fatto vita nella comunità ecclesiale.

Bibl. - Deissler A., L'autorivelazione di Dio nell'AT., in: Feiner J. - Löhrer M. (a cura di), Mysterium Salutis, 3, Ed. Queriniana, Brescia, l969, pp. 285-344. Festorazzi F., " Antico Testamento ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1-12. Soggin J.A., Introduzione all'AT, Ed. Paideia, Brescia, . Rad (von) G., Teologia dell'AT, 2 voll., Ed. Paideia, Brescia, l972-l974. Vaux (De) R., Le istituzioni dell'AT., Ed. Marietti, Torino, l964.

A. Salas

Antropologia. (inizio)

Aristotele fu il primo ad usare la parola anthropòlogos nell'Etica a Nicomaco per parlare dell'uomo (Et. Nic. 4,8). Il termine antropologia fu poi usato per la prima volta sugli inizi del secolo XVI da M. Hundt, maestro a Lipsia, in uno scritto sul corpo. Il terreno in cui si muoveva allora l'antropologia era la fisiologia, la psicologia e la morale, ma un po' alla volta, prevalse una trattazione puramente biologica dell'uomo.

Di grande importanza per il futuro dell'antropologia è stata la distinzione introdotta dal filosofo tedesco W. Dilthey (1833-1911) tra scienze della natura e scienze dello spirito, come anche la necessità di seguire metodi differenti nelle une e nelle altre. Le scienze della natura perseguono una visione generalizzata e rispondono ad un'intento nomotetico. Le scienze dello spirito seguono una tendenza individualista e rispondono ad un intento idiografico. Stando così le cose, le affermazioni delle prime non sono trasferibili alle affermazioni delle seconde.

Tra le scienze dello spirito, va collocata l'antropologia il cui metodo non può essere quello delle scienze della natura, in quanto l'uomo non è un dato oggettivabile, nè può essere analizzato in un modo oggettivante. Certe proprietà specifiche dell'essere umano, come la libertà e la responsabilità sfuggono ai modi della conoscenza esatta e non sono accessibili al sondaggio dell'osservazione empirica. Kant mise già in evidenza nella sua Critica della ragion pratica l'impossibilità di studiare l'uomo come se si trattasse di una cosa. Da Dilthey fino ai nostri giorni, il primo principio dell'antropologia è il seguente: l'uomo non può essere " spiegato " (spiegare qualcosa nel senso di dedurlo causalmente), ma soltanto " conosciuto ".

L'antropologia riflette su tutto quello che si riferisce all'uomo. Perciò, se vogliamo creare una scienza dell'uomo, occorre cercare l'integrazione di molte scienze e non solo della neurologia e della psicologia, come è indicato da E. Fromm.

Gli sforzi attuali di approccio all'uomo possono articolarsi, secondo la felice classificazione di Ruiz de la Peña, attorno a tre hodi di problemi. Il primo può essere formulato in questo modo: l'essere umano è una realtà soggettiva e personale non riducibile al mondo delle cose? O è, invece, una realtà oggettiva onnicomprensiva? Le filosofie esistenzialiste si muovono nel terreno della soggettività e dell'esistenza, mentre lo strutturalismo e il neopositivismo collocano l'uomo nel mondo degli oggetti.

Il secondo punto di discussione è questo: se l'uomo debba essere considerato come una specie zoologica, o se invece, si differenzia qualitativamente dalla specie animale. Certi autori che andavano per la maggiore negli anni Settanta, optavano per una nuova antropologia che si riduceva a biologia. Per esempio: J. Monod e E. Morin. Come reazione a questo riduzionismo biologista o genetico, sorse una nuova corrente (antropobiologia), rappresentata tra gli altri da A. Portmann. Questa non limita il suo interesse alla dimostrazione di alcuni fatti ontogenetici, ma si occupa in profondità del significato antropologico di tali fatti, Si tratta di integrare, e non accontentarsi di considerare isolatamente

l'aspetto biologico e quello storico-spirituale dell'uomo, prendendo coscienza che l'uomo, pure essendo bìos, è un essere che supera il bìos ed è aperto alla storicità. Come fa notare H. Thielicke, l'immagine dell'uomo nella sua totalità, nella pienezza dei suoi rapporti vitali sul piano del corpo e dello spirito, tutto questo, e non i condizionamenti genetici, costituisce " la realtà orientatrice determinante secondo Portmann ".

Il terzo punto del dibattito è quello che si aggira attorno al rapporto mente-cervello. Si può impostare in questi termini: la mente è sottoposta al cervello? Dipende da esso e si riduce ad esso? In altre parole: gli eventi mentali sono prodotti dai fatti neurologici fino al punto che si trova in essi la loro spiegazione? A queste domande, risponde affermativamente il determinismo neurofisiologico. Secando, invece, un'altra tendenza, la mente ed il cervello si differenziano e la mente ha un netto ascendente sul cervello.

Bibl. - Cassirer E., Saggio sull'uomo, Ed. Armando, Roma, 1968. " Communio ", 93(1987): L'anima. " Concilium ", 6(1973): L'umanesimo messo in questione. La crisi dell'umanesimo e l'avvenire della teologia. Clément O., Riflessioni sull'uomo, Milano, 1973. Gehlen A., L'uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, Ed. Feltrinelli, Milano, 1990. Kardiner A., Lo studio dell'uomo, Ed. Bompiani, Milano, 1964. Santinello G., " Uomo ", in: Enciclopedia Filosofica, 6, Ed. Sansoni, Firenze, , pp. 735-747.

J. J. Tamayo

Antropologia teologica. (inizio)

L'antropologia teologica indica il complesso sistematico delle affermazioni teologiche sull'uomo, o la riflessione articolata metodicamente riguardo al mistero dell'uomo alla.luce della fede cristiana, come è stata espressa nelle varie tradizioni bibliche e nella storia della teologia.

La configurazione dell'antropologia teologica come disciplina con identità propria all'interno della teologia è relativamente recente: data dal secolo XIX. Nella Bibbia, per esempio, non troviamo nulla che assomigli all'attuale trattato teologico sull'uomo, quantunque appaiano dati sufficienti che ci permettono di parlare di una concezione biblica sull'uomo che si distingue nettamente da altre concezioni religiose o filosofiche. L'elemento distintivo va cercato nella visuale in cui si muovono gli autori biblici: la fede in JHWH e la fede in Gesù di Nazaret. L'uomo è pensato nel suo rapporto con Dio e nel suo inserimento nella storia di Dio.

Nella pluralità di visuali sull'uomo che emergono o che sono soggiacenti nei testi biblici, ci sono alcune idee che sono condivise da quanti vivono l'esperienza della fede giudeo-cristiana. La prima e più importante è questa: l'uomo è " immagine di Dio ". Ciò comporta il fatto di riconoscere l'uomo come creatura e come con-creatore, come anche la netta distinzione tra Dio e l'uomo e la stretta comunione fra entrambi. La seconda idea, che deriva dalla prima, è la situazione privilegiata dell'uomo nel cosmo. Grazie alla posizione del tutto singolare, l'uomo riceve da Dio il comando di soggiogare la terra (cf Gen 1,28). Ciò vuol dire: liberarsi dal destino fatale di " madre natura " e giungere ad una fruizione umana ed umanizzante della natura liberata dalla sua mitizzazione e dal suo incantesimo. La terza idea si riferisce all'unità psicofisica dell'uomo: questa è attestata ed espressa in forma quasi unanime tanto nell'Antico Testamento che nel Nuovo. Questa idea si scontra frontalmente con l'antropologia dualista greca.

I primi tentativi di sistematizzazione appaiono nella teologia patri-stica, come per esempio, nel trattato De anima di Tertulliano. La riflessione teologica sull'uomo, intesa come discorso strutturato, sorge inizialmente come uno sviluppo del racconto della creazione. Così, il pensiero antropologico sistematico deriva e si nutre di esegesi. Lo sforzo per chiarire l'immagine cristiana dell'uomo si compie, a sua volta, nel dialogo con le grandi antropologie pre-cristiane.

Durante il Medioevo, i contenuti propri dell'antropologia non sono riuniti in un trattato speciale, ma sono piuttosto sparsi nei vari trattati.

L'Età Moderna rappresenta il vertice dell'autocomprensione dell'uomo come soggetto. Ciò nonostante, la teologia cattolice non riesce in questo periodo a sviluppare un'antropologia " sulla base di un principio originale che corrisponda all'autoconoscenza già raggiunta dell'uomo come soggetto " (Rahner). Ciò avviene quando entra nella riflessione cristiana la svolta antropologica che assume dialetticamente i due poli della rivelazione: Dio e l'uomo, superando così tanto la riduzione antropologica (teologia-antropologia), portata avanti con Feuerbach, quanto il radicalismo teologico (Dio come negazione dell'uomo ) sostenuto da Barth.

L'attuale antropologia, la cui sintesi armonica si può trovare nel Vaticano II (cf GS), si svolge in un dialogo critico e fecondo con le varie antropologie, assumendo, da una parte, i nuovi contributi scientifici riguardanti l'uomo, e mettendo in questione, d'altra parte, l'immagine unidimensionale e riduttiva che frequentemente offrono sul dato umano, come anche il carattere chiuso ed assoluto che si suole dare alla concezione " scientifica " dell'uomo.

L'antropologia teologica è oggi specialmente critica con la concezione strumentale dell'uomo presentata dalla tecnologia. Secondo questa, il criterio per valutare l'uomo è la sua utilità nel campo della produzione ed il profitto che rende a servizio della società tecnificata in cui l'homo faber si converte in homo fabricatus. Di fronte ad un simile degrado dell'uomo, l'antropologia teologica, che si ispira alla tradizione biblica e patristica, afferma il valore assoluto ed inalienabile dell'essere umano. Per il fatto stesso, e di fronte ai vari anti-umanesimi, la antropologia teologica afferma l'uomo come soggetto con una propria identità, non riducibile al mondo inanimato, vegetale o animale, e in dialogo personale con Dio alla cui vita egli partecipa e nella cui orbita privilegiata egli si incontra. Questo è il senso profondo soggiacente nella presentazione biblica dell'uomo come " immagine di Dio ".

L'antropologia teologica mette anche in guardia, di fronte al tanto decantato ed esaltato " umanesimo cristiano ", a cui dicono di ispirarsi progetti o programmi politici, sociali o culturali: il più delle volte, ciò che si nasconde dietro di ciò non è altro che una difesa dell'immagine.borghese e classista dell'uomo.

Bibl. - Benzo M., Uomo profano, uomo sacro. Trattato di antropologia teologica, Ed. Cittadella, Assisi, 1980. G. Colzani, Antropologia teologica. L'uomo, paradosso e mistero, Bologna, 1988. J. Comblin, Antropologia cristiana, Ed. Cittadella, Assisi 1987. Flick M. - Alszeghy Z., Fondamenti di un'antropologia teologica, Ed. Fiorentina, Firenze, 1970. Forte B., L'eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale, Ed. Paoline, Cinisello B., 1993. Gozzelino G., Vocazione e destino dell'uomo. Saggio di antropologia teologica fondamentale (Protologia), Ed. Elle Di Ci, Lsumann (Torino), 1985. Ladaria L.F., Antropologia teologica, Casale M., 1986. Rahner K., Saggi di antropologia soprannaturale, Roma, 1969, Ruiz De la Peña J.L., Immagine di Dio. Antropologia teologica fondamentale, Roma, 1992. Sanna I., L'uomo via fondamentale della Chiesa, Roma, 1989.

J.J. Tamayo.

Anzianità. (inizio)

L'anzianità porta con sè una diminuzione delle forze vitali. Calano le capacità motorie e sensorie, specialmente la viàta e l'udito, e declina la sessualità. A cio, corrisponde nel campo psichico una riduzione degli interessi, l'abbandono di capacità oroduttive, una diminuzione generale di rendimento, una minore capacità di fissare il presente ed il passato recente, mentre si afferma un atteggiamento conservatore ed una ostilità verso ciò che è nuovo. Però, la diminuzione delle forze vitali e la riduzione di interessi non devono portare ad una diminuzione del livello di intelligenza e di personalità.

Quantunque l'anzianità cominci inevitabilmente verso i sessant'anni e porti con sé certi processi degenerativi, sia corporali che spirituali, e quantunque le infermità psicosociali siano più frequenti in questa situazione di crisi, tuttavia le manifestazioni dei fenomeni fisici e psichici dell'anzianità sono molto diverse a seconda degli individui e dei gruppi.

Si intende per pre-anzianità (5658 a 6870) quel periodo della vita in cui i processi di invecchiamento cominciati a partire dai 45 anni, sono talmente progrediti che l'aspetto dell'individuo è notevolmente cambiato, anche se, d'altra parte, lo stato delle facoltà psidofisiche permette, generalmente, l'esercizio professionale, eccetto quello che richiede un grande sforzo fisico.

L'età compresa tra i 65 e 70 anni sottopone l'uomo a varie prove, costringendolo, generalmente, a lasciare il lavoro e tante cose amate.

Dopo i 65 anni, aumenta la stanchezza; gli sforzi richiesti dalla vita professionale risultano sempre più pesanti. La diminuzione di vitalità si manifesta specialmente nella sfera sessuale. Nella donna, gene ralmente dopo il climaterio, cessano il desiderio sessuale e la facoltà di godimento sessuale. Nell'uomo, sia il desiderio che la potenza sessuale diminuiscono già verso i 55 anni, ma soprattutto dopo i 60 anni diminuiscono chiaramente la potenza e l'interesse sessuale. Appare uno stato che assomiglia a quello della pubertà, rispuntando desideri sessuali che erano allora più diffusi. L'appetito sessuale ridiventa insicuro e può portare l'anziano a perversioni e a delitti sessuali. La vita dello spirito fa da contrappeso alle tendenze istintive che vogliono rendersi indipendenti.

La vecchiaia (dopo 6870 anni) comporta la definitiva diminuzione e rovina qelle forze fisiche.

L'inizio della vecchiaia come nuova fase dello sviluppo esige un cambiamento essenziale riguardo a se stessi e al mondo. Come ogni fase critica dello sviluppo, può provocare una crisi in cui sta in primo piano il bilancio della vita anteriore. L'uomo che invecchia ha sempre avuto i suoi problemi: infermità, conflitti di generazioni, solitudine, esclusione dal mondo della produzione, preparazione alla morte, ecc. (Queste situa-zioni sono oggi più acute per il progresso moderno. Il carattere dinamico della nostra società coi suoi rapidi cambiamenti culturali supera freauentemente la lenta capacità di adattamento dell'anziano, dando luogo a sintomi depressivi. I conflitti lo portano a vari meccanismi di difesa: la negazione e il regresso della vecchiaia, il ritorno al proprio passato ed anche il ritorno a soddisfazioni istintive più primitive (mancanza di moderazione nel mangiare e nel bere, avarizia, curiosità morbosa, masturbazions, pedanteria).

Per quanto riguarda il corpo, l'anziano deve adattarsi alla nuova situazione di un calo delle capacità corporali come anche della percezione. Per il compito di adattarsi alla nuova situazione sociale, l'anziano ha bisogno di certi aiuti esterni, come una sicurezza economica e sociale per vivere, la possibilità di contatti interpersonali, come anche di una attività conveniente.

Bibl. - Aa.Vv., I problemi spirituali della vecchiaia, Ed. Fiorentina, Firenze, 1962. Auclair M., Verso una vecchiaia felice, Ed. Cittadella, Assisi, 1972. Bernage B., Gioie della terza età, Ed. Cittadella, Assisi, . Davanzo G., " Anziano ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello H., 1985, pp. 30-37. Tettamanzi D., Anche di voi oarla la Bibbia. Agli anziani, Brezzo di Bedero (Varese), 1976.

F.J. Calvo

Apocrifi. (inizio)

Gli apocrifi sono un complesso di scritti giudaici o cristiani che, nonostante il loro contenuto religioso, non furono mai accettati come fonte di rivelazione divina; perciò non sono ritenuti ispirati da Dio. Nei primi secoli del cristianesimo, si diffusero sempre in modo clandestino (apòkryphos = nascosto, segreto) ed erano usati da gruppi minoritari che cadevano spesso in comportamenti ereticali. Siccome la letteratura apocrifa è abbondante, si cerca di classificarla in base alle sue tematiche:

Apocrifi dell'AT (sec. II a.C. - sec. I d.C.). È una letteratura molto abbondante, dove la fantasia serve ad avallare la pietà. Esistono varie categorie di apocrifi veterotestamentari:

a) storici, dove l'autore espone le sue idee collocandole in uno scenario concreto collegato con una data epoca o con un evento storico del passato o del presente. Tra questi scritti, si possono citare: il Libro dei Giubilei, 3 Esdra, 3 Maccabei, l'Apocalisse di Mosè, le Vite di Adamo ed Eva, il Testamento di Adamo, l'Assunzione di Isaia, la storia di Giuseppe e di Asenat, il Testamento di Giobbe, il Testamento di Salomone e la Lettera di Aristea.

b) didattici: cercano di fissare norme di comportamento morale. I più importanti sono: i Testamenti dei Dodici Patriarchi, i Salmi di Salomone, la Preghiera di Manasse, 4 Maccabei e le Appendici a Giobbe.

c) apocalittici: si propongono di svelare il futuro, mescolando idee religiose e politiche riguardo alla venuta del Messia. Tra questi, vanno ricordati: il Libro di Enoc, l'Assunzione di Mosè, 4 Esdra, l'Apocalisse di Baruc, di Abramo, di Elia, di Sofonia, di Ezechiele, il Testamento di Abramo e gli Oracoli Sibillini.

Apocrifi del NT (sec. II-III d.C.). Hanno tutti dei riferimenti con l'attività di Gesù o con qualche personaggio importante dell'epoca neotestamentaria. Alcuni sono stati composti per la pietà popolare; altri sono frutto di riflessioni esoteriche, specialmente di carattere gnostico. Si è soliti distinguere le seguenti categorie:

a) Vangeli, scritti con l'intento di colmare presunte lacune nella vita di Gesù. I più importanti sono: il Vangelo degli Egiziani, degli Ebrei, degli Ebioniti, di Pietro, di Mattia, di Bartolomeo, di Nicodemo, dello Pseudo-Matteo, il Protovangelo di Giacomo, il vangelo arabo dell'infanzia di Gesù, la storia di Giudeppe il falegname, il transito di Maria.

b) Lettere: scritte per valorizzare alcune Chiese locali o per ricuperare l'opera perduta di autori famosi. Si possono ricordare: la Lettera degli Apostoli; la Lettera ai Laodicesi, la Lettera agli Alessandrini, Lettere si Corinzi, la Corrispondenza di Gesù con Abgar, re di Edessa, e la Corrispondenza di Paolo con Seneca.

c) Atti, dove si celebrano le gesta e i portenti di qualche apostolo o discepolo di Gesù. I titoli più noti sono: gli Atti di Pietro, di Paolo, di Andrea, di Giovanni, di Tommaso, di Pietro e Paolo, di Filippo, di Mattia, di Barnaba e la Predicazione di Pietro.

d) Apocalissi, che deplorano il presente auspicando un futuro migliore, e tutto ciò mediante estasi o visioni fantastiche. Le più importanti sono: l'Apocalisse di Pietro, di Paolo, di Tommaso e Stefano, di Giovanni e di Maria.

Bibl. - Aa.Vv., Il messaggio della salvezza, 1, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1973, pp. 284- 294. Bonsirven J., La Bibbia apocrifa, Milano, 1962. Erbetta M., Gli apocrifi del Nuovo Testamento, 3 voll., Torino, 1966-1969. Schmithals W., L'apocalittica, Ed. Queriniana, Brescia, 1976. Vanni A., " Apocalittica ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Biblioa, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 98-106.

A. Salas

Apologetica. (inizio)

Il termine apologetica deriva dalla parola greca apologhìa che significa: risposta, giustificazione, rendere conto di qualcosa. Nella terminologia neotestamentaria, venne a significare: rendere ragione della fede, mostrare la legittimità e la coerenza della fede cristiana. Così, leggiamo in 1 Pt 3,15: Siate " pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza ".

Come ha messo bene in evidenza Metz, le due caratteristiche fondamentali dell'apologetica nel contesto neotestamentario sono:

a) la necessità di giustificare praticamente la speranza; di qui, la sua affinità con la sequela;

b) l'orizzonte escatologico-apocalittico in cui appare.

Si tratta, allora, di un concetto della ragione pratica, poiché la difesa o giustificazione della fede non avviene in un campo puramente teorico o intellettuale, ma in quello della prassi e delle testimonianza. Fu questo l'aspetto che prevalse nei cosiddetti Padri Apologisti, per esempio, in san Giustino che scrisse due apologie sul cristianesimo con l'intento di rendere ragione della fede di fronte ai pagani illustri del suo tempo e le sigillò col martirio.

Nel secolo XVII, sorse la scienza apologetica come sforzo metodico e sistematico per giustificare la fede cristiana. Nel secolo XVIII, i manuali di apologetica s'interessano a difendere la verità della religione cattolica contro i razionalisti e i Riformatori. Questi manuali hanno questa struttura: dimostrazione dell'esistenza di Dio e della religione cristiana; dimostrazione della vera religione; dimostrazione della vera Chiesa. L'apologetica pretese di stabilirsi come scienza oggettiva.

Verso la fine del secolo XVIII e all'interno della tradizione prote-stante, l'apologetica era la disciplina fondamentale della teologia esegetica il cui obiettivo era quello di presentare la verità del cristianesimo fondandosi sull'autorità della Scrittura. Schleiermacher staccò l'apologetica dalla teologia esegetica e la inserì nella teologia filosofica, assegnandole il compito non di dimostrare la verità o certezza del cristianesimo, ma quello di mostrarne il carattere peculiare.

Nel mondo cattolico, dopo un breve periodo brillante, caratterizzato dall'apertura alla filosofia moderna e alle scienze (scuola di Tubinga), l'apologetica neoscolastica si trasformò in una polemica aggressiva di fronte alla concezione moderna delle scienze, specialmente quelle della natura; ricorse alle tradizioni pre-moderne e pre-kantiane e si isolò sempre più dal resto della teologia. Più che dare ragione della fede di fronte alle sfide dell'epoca moderna, l'apologetica pensò ad immunizzarsi contro lo spirito moderno e a rinchiudersi in un ghetto anti-illuminista, guardando al passato.

Fino alla metà del secolo XX, la disciplina teologica dell'apologetica esercitò una funzione riduttiva: la difesa della propria confessione e visione del mondo contro qualsiasi altra concezione ed il rifiuto aprioristico della posizione contraria. Intesa prevalentemente come polemica, l'apologetica vedeva nell'altro solo un nemico, disattendendo i possibili punti comuni e gli interrogativi legittimi che l'altro poteva porre. Era una apologetica contro, un'apologetica di difesa, esageratamente intellettualista, in cui non era difficile avvertire una ristrettezza sospetta di ideologia e un formalismo nel modo di argomentare.

Questa apologetica fu messa in questione nella sua radice dalla prima teologia dialettica e da teologi cattolici del nostro secolo come Karl Adam e Henri de Lubac. Blondel introdusse un cambiamento significativo col porre l'accento sull'elemento soggettivo.

Oggi, l'apologetica è intesa come teologia fondamentale. Ciò significa abbandonare la strada della polemica aggressiva e entrare nel campo del fondamento della fede, dell'analisi dei suoi presupposti e delle condizioni che la rendono possibile.

Più che interrogarsi sul problema della verità della rivelazione, della religione cristiana e della Chiesa, partendo da un'ottica oggettivista ed intellettualista, la teologia fondamentale focalizza oggi la sua attenzione sul senso e sulla vitalità della fede in Gesù, in un atteggiamento di dialogo coi nuovi orizzonti filosofici e culturali, soprattutto con quanti si mostrano più critici verso il cristianesimo. Ciò comporta la rinuncia all'arroganza e all'aggressività dell'apologetica neoscolastica per seguire un movimento di andata e ritorno: dare e ricevere, ascoltare e interrogare. Solo con questo sistema dialogico, risulta pienamente legittimo sia il confronto che la difesa della fede.

La teologia fondamentale deve confrontarsi, a sua volta, nell'orizzonte della ragione pratica come teologia della testimonianza, della prassi e della speranza creativa. Questo aspetto, però, è ancora trascurato.

Bibl. - Caviglia G., Le ragioni della speranza cristiana, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1981. Fisichella R. (ed.), Gesù Rivelatore. Teologia fondamentale, Ed. Piemme, Casale M., 1988. Fries H., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1987. Latourelle R., " Teologia fondamentale ", in: Dizionario di teologia fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 1248-1258. Latourelle R. - O'Collins G. (edd.), Problemi e prospettive di teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1980. Waldenfels H., Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Ed. Paoline, Cinisello B., 1987. Rivista " Concilium " 3(1965) e 6(1969).

J. J. Tamayo

Apostolato. (inizio)

Il termine apostolato deriva dal greco apòstolos che significa etimologicamente inviato. Probabilmente, questo termine fu usato nelle comunità di Antiochia come traduzione del sèliàh ebraico: l'inviato a nome di un altro, con una missione fondata sul principio per cui il mandatario tiene il posto del mandante. Il nome " apostolo " è dato nel Nuovo Testamento ai Dodici e ad altri missionari ed evangelizzatori della Chiesa. In sintesi, possiamo dire che l'apostolo è colui che è investito di autorità per una missione ed è sinonimo di ambasciatore.

Inizialmente, la parola apostolato equivaleva alla missione straordinaria dei Dodici apostoli. Ampliandosi il concetto di apostolo per opera di san Paolo per indicare gli evangelisti e quanti evangelizzavano e fondavano Chiese il termine apostolato divenne sinonimo di ministero ecclesiale destinato a convertire quelli che erano fuori. Divenne l'equivalente di: missione o evangelizzazione. Si distinse dal ministero esercitato all'interno delle comunità. Queste due forme di ministero cristiano derivano dalla natura stessa della Chiesa, che si rivolge a quelli di fuori per convertirli (apostolato) e a quelli dentro per pascerli (sollecitudine pastorale). In sintesi: l'apostolato è la missione ricevuta da Cristo da parte dell'inviato per fondare e far crescere la Chiesa. È perciò un dovere per tutti i credenti.

Inizialmente, l'apostolato fu un compito esclusivo dei vescovi. A partire dal secolo XI, esso fu ristretto al ministero del Papa, ma nel secolo XIX, si estese ai laci, tanto che si cominciò a parlare di " apostolato dei laici ". Ricordiamo la definizione di Azione Cattolica data da Pio XI: " È la collaborazione dei laici all'apostolato gerarchico " (13.11.1928).

Oggi, apostolato e azione pastorale sono sinonimi; rappresentano tutto il complesso del ministero ecclesiale. Di fatto, nel Vaticano II, l'apostolato è alle volte la totalità della missione della Chiesa nel mondo (AA 2); altre volte, è l'opera di conversione mediante l'annuncio della salvezza (AA 3 a s. Alla luce del Concilio, non è esatto parlare di collaborazione dei laici all'apostolato gerarchico, ma " l'apostolato dei laici è… partecipazione alla stessa salvifica missione della Chiesa, e a questo apostolato sono tutti destinati dal Signore stesso per mezzo del battesimo e della confermazione " (LG 33.

Bibl. - Alberich E., " Apostolato ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 47-48. Congar Y., Apostolicità e apostolato, in: Feiner J. - Löhrer M. (a cura di), Mysterium Salutis, VII, Ed. Queriniana, Brescia, 1972, pp. 678-679. De Fiores S., " Apostolato ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 37-56. Floristán C. Samanes, Il catecumenato. Una Chiesa in stato di missione, Ed. Paoline, Alba, . Masson J., La missione continua, Ed. EMI, Bologna, 1975. Paolo VI, Esortazione apostolica " Evangelii nuntiandi ", 8.12.1975. Rahner K., Missione e grazia. Saggi di teologia pastorale, Ed. Paoline, Roma, 1966.

C. Floristán

Apostolicità. (inizio)

Nell'insegnamento della teologia cattolica d'oggi, si intende per apostolicità la proprietà mediante cui la Chiesa conserva, lungo i secoli, la sua identità fondamentale con la Chiesa degli Apostoli. Questa apostolicità consta di due componenti essenziali: l'apostolicità di ministero e l'apostolicità di vita e di dottrina. La prima sta nel fatto della successione ininterrotta di ministri a capo delle comunità; la seconda è costituita dalla conservazione della forma di vita e di dottrina trasmessa dagli Apostoli. Pertanto, affinché ci sia apostolicità, e più specificamente, perché una Chiesa sia ritenuta apostolica, non basta che a capo di questa Chiesa ci sia un vescovo: si richiede inoltre he questo vescovo conservi la forma di vita e di dottrina che ci hanno tramandato gli Apostoli. È importante sottolineare che queste due forme o componenti della apostolicità vanno tenute sempre unite nella teologia dell'apostolicità e della successione apostolica, come è documentato abbondantemente dalla più antica e più ricca tradizione della Chiesa.

D'altra parte, la successione apostolica è necessaria nella Chiesa per mantenere e assicurare l'apostolicità della Chiesa stessa. E questo per un motivo che si comprende subito: la presenza di ministri, stabiliti ufficialmente nella comunità, è necessaria perché il ministero rappresenta l'elemento dall'alto, cioè, che non proviene dalla comunità, per vegliare su di essa, per esortarla e perfino, sé è necessario, correggerla. Però, bisogna sempre tener presente, in tutto questo, che l'autenticità del ministero ecclesiale non può essere garantita dal solo fatto che il ministro abbia ricevuto validamente l'imposizione delle mani. Più importante ancora di questo gesto è quello che si intende esprimere con esso: da una parte, che il ministero non proviene dalla comunità, ma viene dall'alto ed è un dono di Dio; da un'altra parte, che il ministero è ricevuto ed accettato dalla Chiesa, in modo tale che, come sappiamo bene, il ricevimento e l'accettazione ecclesiale sono il criterio determinante ed ultimo dell'autenticità di un dato ministero.

Qui, però, c'è da chiarire un punto importante: il rapporto tra la successione apostolica e la successione episcopale. Da una parte, che i vescovi siano " i successori degli apostoli " è un dato affermato in modo tale dalla tradizione e dal magistero della Chiesa che si impone come un dato di fede. Però, d'altra parte, bisogna dire, con tutta chiarezza, che non è la stessa cosa parlare di successione apostolica e parlare di successione episcopale. Durante il primo e secondo secolo, sappiamo con certezza che c'era la successione apostolica, ma non sappiamo se c'era o se non c'era la successione episcopale in molte comunità cristiane. Dal secolo terzo in poi, sappiamo che la successione episcopale è stata la forma storica e concreta che ha ricevuto e assunto la successione apostolica nella Chiesa.

Conseguentemente, quando diciamo che l'apostolicità appartiene alla struttura della Chiesa, vogliamo dire, tra l'altro, che l'esistenza di ministri, ufficialmente stabiliti in ogni comunità ecclesiale, è un dato che appartiene alla struttura della Chiesa stessa. Pertanto, la presenza di questi ministri, in ogni comunità ecclesiale, è un fatto e un elemento che non deve mancare in nessuna comunità di credenti in Cristo. Perciò, quando diciamo che nelle comunità cristiane ci devono essere ministeri e ministri ufficialmente stabiliti, vogliamo dire che questo fatto è un dato che non appartiene soltanto all'organizzazione della Chiesa e di ogni comunità, ma, prima ancora, si tratta di un elemento essenzialmente costitutivo della struttura stessa della Chiesa. Perciò se una comunità rifiutasse non tanto un dato ministro, ma il fatto stesso del ministero, essa cesserebbe di essere per ciò stesso una vera comunità di credenti, cioè, cesserebbe di essere Chiesa.

Conseguentemente, si deve dire che appartiene alla struttura della Chiesa non solo l'apostolicità della Chiesa stessa, ma anche il fatto della successione apostolica avvenuta storicamente e che continua nella successione episcopale. Invece, all'organizzazione della Chiesa appartiene il fatto storico che la successione episcopale si è concretizzata e realizzata attraverso forme storiche che questi ministeri sono andati acquistando col tempo.

Infine, bisogna osservare che qui intendiamo per struttura quanto c'è di divino e di immutabile nella Chiesa, mentre per organizzazione intendiamo quanto c'è di umano e mutevole nella stessa Chiesa. Pertanto, la struttura è l'elemento che viene dall'alto, mentre l'organizzazione è quello che viene dal basso. Conseguentemente, la struttura è ciò che nella Chiesa deve rimanere intatto lungo i secoli, appunto perchè viene dall'alto, mentre l'organizzazione può, e alle volte deve, essere cambiata, perchè è una realtà umana, cioè, una realtà che viene dal basso. Stando così le cose, la struttura divina e intoccabile della Chiesa consiste nella sua apostolicità, mentre l'organizzazione è il complesso di forme storiche e di realizzazioni concrete che la struttura acquista nello spazio e nel tempo. Pertanto, intendiamo per apostolicità l'elemento divino e intoccabile che Dio stesso ha elargito come dono alla sua Chiesa e che, perciò, deve rimanere intatto fino alla fine dei tempi. Invece, tutto ciò che non è l'apostolicità in se stessa è il complesso di forme storiche e mutevoli che entrano nel concetto di organizzazione. Esse non sono altro che il risultato dell'iniziativa umana lungo la storia, anche se in certi momenti questa iniziativa umana può godere di una speciale assistenza divina, soprattutto in quei casi in cui, come insegna la dottrina ufficiale della Chiesa, il magistero ecclesiastico è infallibile: si tratta allora dell'infallibilità del Papa, del concilio ecumenico o del magistero ordinario.

Bibl. - Congar Y., " La Chiesa è apostolica ", in: Aa.Vv., Mysterium Salutis, vol. 7, Ed. Queriniana, Brescia, 1972, pp. 639-707. Idem, La Santa Chiesa. Saggi…, Ed. Morcelliana, Brescia, 1967. Dianich S., La Chiesa mistero di comunione, Ed. Marietti, Torino, 1975. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Ed. Paoline,Cinisello B., 1995. Fries H., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1987, pp. 561-622. Rahner K., Saggi sulla Chiesa, Ed. Paoline, Roma, 1966. Waldenfels H., Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 402-406.

J.M. Castillo

Apostolo. (inizio)

Questo concetto (apòstolos = inviato) è molto comune presso gli scrittori greci che lo applicano agli inviati, ambasciatori o semplici rappresentanti. La tradizione neotestamentaria insinua che Gesù in un primo tempo riservò questo titolo ai " Dodici " (Mt 10,1-4; Mc 3,3-19; Lc 6,1216). Forse intendeva presentarli come germogli delle dodici tribù d'Israele (Mt 19,28; Lc 22,30).

Dopo la risurrezione di Gesù, si dà molta importanza al fatto di conservare il numero " dodici " tra gli Apostoli (At 1,15-26). Però, molto presto, si cominciò a dargli un senso molto ampio. Probabilmente, è stato Paolo a spezzare il modulo primitivo. Non solo egli si presenta come apostolo, pur non facendo parte dei " dodici " (Rm 11,1; 1 Cor 1,1…), ma associa nel suo ministero i suoi più intimi collaboratori (1 Cor 9,4-6) e perfino certi personaggi secondari all'interno della promulgazione del kèrigma primitivo. È questo il caso di Andronico e di Giunia (Rm 16,7; 2 Cor 8,23; Fil 2,25). Egli insinua che già nella prima generazione cristiana si consideravano apostoli i promulgatori del kèrigma primitivo, i quali, con l'autorizzazione dell'autorità competente, agivano come rappresentanti di Gesù in un mondo bramoso di salvezza. L'apostolato si presenta come un ministero stabile, senza limitazioni di tempo per cui è visto al disopra dei carismi (1 Cor 14,37-38).

La comunità primitiva si servì degli Apostoli per compiere il suo lavoro di evangelizzazione impegnata a penetrare l'umanità con la linfa liberatrice dell'annuncio di Gesù, fatto vita in base alla sua risurrezione gloriosa. Ora, è apostolo autentico soltanto colui che serve con fedeltà il vangelo (2 Cor 11,5.13; 12,1). Lo stesso criterio è valido anche oggi per scoprire i veri apostoli: il loro fine consiste nel cooperare affinchè la forza liberatrice del vangelo diventi vita per coloro che sentono il peso del peccato che si traduce in forme di egoismo, di ingiustizia e di oppressioni laceranti.

Bibl. - Ammassari A., I Dodici. Note esegetiche sulla vocazione dei Dodici, Ed. Città Nuova, Roma, 1982. Leonardi G., " ApostoloDiscepolo ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 106-123. Maggioni B., Il racconto di Matteo, Ed. Citta della, Assisi, . Testa E., La missione e la catechesi nella Bibbia, Brescia, 1981. Wikenhauser A., Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia, 1966.

A. Salas

Apprendimento. (inizio)

L'apprendimento è il procedimento con cui si modifica il comportamento di un organismo in una forma relativamente stabile ed avviene come risultato dell'esperienza.

Usando l'espressione " relativamente stabile " nella definizione che abbiamo dato, si eliminano la fatica e.i fattori motivazionali come cause possibili del cambiamento. Affermando che il cambiamento è dovuto alla " esperienza ", si escludono anche come cause i fattori maturativi. Così, i cambiamenti di comportamento dovuti alla fatica, alla maturità e ad altre varianti, non sono casi di apprendimento.

Il voler specificare quando avviene l'apprendimento porta alla distinzione tra apprendimento e attuazione: di quello, si può solo dedurre la sua presenza e natura. L'attuazione, tuttavia, è l'espressione dell'apprendimento in termini di comportamento.

Le indagini sull'apprendimento sono state influenzate, tra l'altro, dall'associazionismo inglese, secondo il quale la contiguità di due fatti era ritenuta fondamentale per acquisire o apprendere una associazione.

Oggi, gli psicologi dell'apprendimento cercano di delineare i princìpi fondamentali applicabili a tutto il comportamento appreso, mediante osservazioni e studi di risposte semplici, intermedie e complesse. Oggi, si pensa che esistono solo tre modi fondamentali per acquisire i comportamenti per l'apprendimento:

Apprendimento rispondente: chiamato anche condizionamento classico: in esso, certi stimoli neutri, associati ripetutamente a stimoli naturali significativi, finiscono per provocare risposte naturali analoghe.

Apprendimento operante: o condizionamento strumentale. La risposta e messa da un dato organismo conserva un rapporto con l'effetto prodotto da essa. In altre parole: il comportamento degli organismi è modificato dalle loro conseguenze.

Apprendimento di osservazione, o di modello. Si fonda sull'osservazione del comportamento compiuto da un altro organismo che funge da modello.

Bibl. - Aa. Vv., " Apprendimento ", in: Dizionario di Psicologia, Ed.Paoline, 1975, pp. 87-101. Bastien H., La psicologia dell'apprendimento, Brescia, 1954. Hilgard E.R. - Bower G.H., Le teorie dell'apprendimento, Ed. Angeli, Milano, 1970. Ronco A., Introduzione alla psicologia, vol. 2: Conoscenza e apprendimento, LAS, Roma, 1994.

M. N. Lamarca.

Ascesi. (inizio)

Ascesi è una parola classica nel vocabolario della spiritualità. Appunto perchè classica, ha un senso importante. Però, può essere una delle parole e realtà più esposte ad estremismi e a sopravalutazioni.

Ascesi è una parola di origine greca e significa: sforzo metodico per raggiungere qualcosa. Entrame le cose, lo sforzo ed il metodo, sono costitutivi dell'ascesi. Altre parole affini sono: lotta, combattimento, disciplina, mortificazione. Non sono identiche, ma appartengono alla stessa dimensione del cristiano. Parlando di ascesi cristiana, come si intende fare qui, noi cí riferiamo allo sforzo metodico, comunque esso si manifesti necessario per vivere la sequela di Gesù.

Non parliamo di ascesi evangelica, ma di ascesi e vangelo, e intendiamo dire che l'ascesi cristiana può avere, ed ha veramente, un fondamento evangelico.

L'ascesi, anche quella cristiana, suggerisce subito un forte volontarismo, e certamente il volontarismo (è un nome nuovo del pelagianesimo) nega il primato di Dio (alle volte, l'azione di Dio), che è una verità essenziale nel cristianesimo. In questo senso, l'ascesi non è evangelica. Sembra che anche ai nostri giorni si corra il pericolo di valorizzare in questo modo lo sforzo e che si posponga e si dimentichi il primato. Della grazia. Certe volte, non si tratta di un vero pericolo né di una vera caduta, ma soltanto di certi ambienti in cui si sottolineà spontaneamente lo sforzo, per esempio, nei giovani e nei cristiani impegnati. Occorre tenere presente questa distinzione e questi differenti contesti, se non vogliamo confondere le cose.

Ciò nonostante, l'ascesi non solo è compatibile col vangelo, ma lo stesso vangelo esige e dà chiaramente origine ad una ascesi. Le parole di Gesù sulla sequela (Mc 8,34 ss e par.), le parole chiare di Paolo sullo sforzo di chi corre nello stadio (1 Cor 9,24-27), i consigli a Timoteo (2 Tm 2,3) sono fondamenti validi. Il cristiano non li può dimenticare.

La prassi dell'ascesi ha una storia turbolenta e suscita giudizi opposti che vanno dall'ammirazione al disprezzo. Le manifestazioni della ascesi, soprattutto nei Padri del deserto (proposti spesso come eroi), sono alle volte incredibili. Molte di esse provocano, come minimo, un sorriso maligno o spontaneo. Mentre ci sono di quelli che godono nel narrare e ricordare quelle storie di famiglia, altri se ne vergognano e preferiscono sottacerle.

Per parte nostra, basta dire che molte di quelle pratiche ascetiche erano fondate su princìpi sbagliati. Vedremo subito che l'antropologia e l'ascetica vanno di pari passo. Non si tratta, in questa critica, di una manifestazione, quanto piuttosto di un imborghesimeno poltrone che cerca di giustificare la mollezza. È probabile che molti imborghesimenti accusino coloro che non volevano saperne di questa mollezza (il fatto curioso è che in una specie di masochismo strano, ci sono molti borghesi che difendono e sono estasiati di simili manifestazioni!). Già san Giovanni della Croce parlava di penitenze bestiali (epppure san Giovanni della Croce non era certo portato a concedere leggerezze). Santa Teresa d'Avila raccomandava la moderazione alle sue monache in fatto di penitenze esterne. Ricordo questi due rappresentanti della spiritualità cristiana perché sono pacificamente riconosciuti come seri, e nello stesso tempo, soprattutto san Giovanni della Croce, come " duri ".

E innegabile che l'ascesi ha a che fare con l'antropologia che viene professata. Affermare un dualismo a favore dell' "anima " implica abbandonare il corpo alla morte; affermare il dualismo a favore del corpo implica il disattendere l'anima o renderla schiava. Ogni dualismo è dannoso all'ascesi.

Nel cristianesimo, ha dominato un'antropologia neoplatonica che ammetteva solo l'unità accidentale dell'anima e del corpo, considerando questo come la parte peggiore. Il corpo era il " frate asino " di san Francesco, o il " carcere " di santa Teresa, in cui è rinchiusa l'anima.

Forse per questo, l'ascesi ha badato molto al corpo e a quanto appare come corporale: i cibi, il vestito, il clima, i sensi, il sesso…

Il peccato è uno dei punti che dà origine all'ascesi cristiana. In questo senso, i forti cambiamenti nel concetto e nei campi del peccato toccano irrimediabilmente l'ascesi che chiede di adeguarsi ai tempi. Soprattutto i peccati di omissione e il peccato sociale sono destinati a causare una ripercussione importante nell'incarnazione dell'ascesi contemporanea. C'è qui un campo ampio e variegato a seconda delle varie circostanze di luoghi e di tempi.

L'ascesi deve proseguire sulla strada della disponibilità allo Spirito Santo, affermando chiaramente il primato di Dio e il Regno di Dio in un mondo che aspira con forza ad una fraternità effettiva. Il camminare per questa strada non danneggerà l'ascesi, ma le darà un solido fondamento. Non danneggerà nemmeno nessuna ascesi corporale. Infatti, anche il corpo tenderà a dividere il pane, il tempo, il denaro, il sonno, l'alienazione, la lotta. Cadrà invece molto dell'ossessione del passato intorno a certi punti che erano classici per l'ascesi tradizionale. Con questa nuova visuale, l'ascesi contribuirà a fare dell'uomo una nuova creatura.

Bibl. - Ancilli E. (a cura di), Ascesi cristiana, Teresianum, Roma, 1977. Bernard C., Teologia spirituale, Ed. Paoline, Roma, 1982. Bouyer L., Introduzione alla vita spirituale, Ed. Borla, Roma, 1979. Goffi T., " Ascesi ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 65-85. Gozzelino G., Al cospetto di Dio. Elementi di teologia della vita spirituale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino),1989. Rahner K., Saggi di spiritualità, Ed. Paoline, Roma, 1965. Truhlar V., L'esperienza mistica. Saggio di teologia spirituale, Ed. Città Nuova, Roma, 1984.

A. Guerra

Assemblea. (inizio)

L'assemblea liturgica è la comunità cristiana concreta che si riunisce per celebrare il culto. Il termine " assemblea " è stato riscoperto col Vaticano II: prima, si parlava piuttosto di " assistenza " agli uffici. L'assemblea è il segno principale della Chiesa a cui si uniscno i battezzati e formano una unità per l'Eucaristia.

Siccome l'assemblea è un fenomeno umano, essa è studiata da varie scienze umane. In ogni assemblea, c'è in primo luogo un gruppo sociale che si riunisce per uno scambio di comunicazioni con l'intento di giungere ad alcune decisioni secondo un ordine del giorno o di riunione. Di solito, ogni assemblea ha un moderatore o presidente. L'assemblea liturgica deve avere le caratteristiche costitutive di ogni associazione umana: una presidenza ordinata, una comunicazione scorrevole, un'efficacia collaudata, un compi.to educativo, un ritmo adeguato e l'appartenenza o affiliazione dei membri che la compongono. Troppe volte, la liturgia non si celebra sotto forma di assemblea, ma per mezzo di un conglomerato o raggruppamento umano, cioè, un gruppo di persone che non hanno relazioni interpersonali.

L'assemblea liturgica cristiana ha i suoi precedenti nell'assemblea ebraica. Il Popolo di Dio si riuniva in assemblee memorabili per celebrare l'alleanza. Tra le più note ed importanti sono le assemblee del Sinai (Es 19; 24; 34), di Sichem (Gs 24) e di Esdra (Ne 8-9). In tutte queste assemblee, si possono osservare quattro elementi costitutivi:

la riunione del popolo convocato dai suoi rappresentanti (Mosè, Giosuè, ecc.), la proclamazione della Parola di Dio, l'adesione del popolo a questa Parola, un gesto per sigillare il patto di alleanza. Il popolo di Dio si riuniva quindi per rinnovare l'alleanza. Questa riunione era chiamata in ebraico qahal JHWH, ossia, " assemblea del Signore ". La parola qahal comporta l'idea di convocazione. Fu tradotta in greco col termine ekklesìa che significa: convocazione e assemblea. Riunirsi è fare Chiesa.

La finalità dell'assemblea cristiana deriva dall'atteggiamento convocatore di Gesù con l'intento di riunire i figli dispersi (Mt 23,37), da re la sua vita in nome dell'unità e rendere gli uomini partecipi al banchetto del Regno (Lc 14,16 ss). Proprio il giorno di Pentecoste, " si trovavano tutti insieme nello stesso luogo " e ricevettero lo Spirito Santo. Nell'udire il fragore, la folla si radunò. La predicazione di Pietrò convertì molte persone. " Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati " (At 2).

L'assemblea è fondamentale per la celebrazione liturgica. Ogni celebrazione comincia con una riunione dei membri credenti, coi vincoli comuni che provengono dalla fede, l'amore e l'impegno di tutti. Alla riunione o assemblea cristiana partecipano tutti i credenti battezzati. Non è una faccenda che riguarda solo il sacerdote, il chierichetto e alcuni pochi presenti. E un'azione collettiva di tutti i convocati. È un'assemblea aperta o eterogenea, composta di peccatori, organizzata e attiva, in cui tutti sono fondamentalmente " fratelli ".

Nell'assemblea, i cristiani si riuniscono per celebrare. Questo esige accoglienza reciproca come persone e come credenti, preparazione dell'atto e del luogo, ripartizione delle funzioni, parole e simboli adeguati, preghiera in comune. Non dimentichiamo che nell'assemblea liturgica, proprio quando è viva, si verificano certe tensioni fra l'unità e la diversità, tra le esigenze e la passività, tra la purezza liturgica e la tendenza devozionale, tra la missione nel mondo e il ritiro nel santuario, tra l'impegno e la festa, tra l'apertura indiscriminata e le esigenze di scelta e di partecipazione. L'assemblea esige, pertanto, una pastorale adeguata.

Bibl. - Aa.Vv., Nelle vostre assemblee. Teologia pastorale delle 2 celebrazioni liturgiche, I, Ed. Queriniana, Brescia, . Cuva A., " Assemblea ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 118-131. Gelineau J., La liturgia domani. L'evoluzione delle assemblee cristiane, Ed. Queriniana, Brescia, 1978. Martimort A.G. (a cura di), La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, Ed. Desclée, Roma, 21966. Massi P., L'assemblea del Popolo di Dio, I, Nella storia della salvszza, Ascoli Piceno, 1962.

C. Floristán

Assistente ecclesiastico. (inizio)

L'assistente ecclesiastico è un presbitero che svolge il suo ministero nel campo dell'apostolato dei laici, o, più specificamente, nell'Azione Cattolica. Nella Chiesa latino-americana, è chiamato assessore. Il suo compito non è privo di difficoltà. Da una parte, non è un dirigente propriamente detto, poiché non ha la direzione pratica e organizzativa del movimento apostolico. Da un'altra, non è un semplice cappellano, poiche la sua assistenza non si riduce al campo del culto.

In primo luogo, l'assistente ecclesiastico è un rappresentante della gerarchia, che ricorda e fa eseguire la finalità apostolica dell'Azione Cattolica che consiste nella " cooperazione dei laici all'apostolato gerarchico ". Gli statuti dell'A.C. esigono che l'assistente ecclesiastico garantisca l'ortodossia e la moralità, e vigili sulla fedele osservanza delle norme emanate dalla gerarchia.

In secondo luogo, l'assistente ecclesiastico è un assessore cristiano che promuove e dirige il senso religioso del movimento apostolico per quanto concerne l'educazione cristiana, la formazione apostolica e la dimensione spirituale.

In terzo luogo, l'assistente ecclesiastico ha un compito specifico di educatore delle coscienze cristiane. Deve saper fare da ponte tra le dimensioni dello Spirito.e le realtà temporali, partendo da una teologia e da una spiritualità che mantengano il giusto equilibrio tra la trascendenza e l'incarnazione. Infine, l'assistente ecclesiastico deve aiutare i laici a diventare veramente cristiani impegnati, con attività e responsabilità personali.

Bibl. - Bignardi P., " Azione Cattolica Italiana ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 70-71. Braido P. (Ed.), Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, 2 voll., LAS, Roma, 1981. Tonelli R., Gruppi giovanili e esperienze di Chiesa, LAS, Roma, 1983.

A. Floristán

Astinenza. (inizio)

In generale, l'astinenza è la privazione volontaria di qualche tipo di cibo o bevanda, con finalità molto varie. Quando viene fatta con intento penitenziale, l'astinenza costituisce uno degli atti tipici di mortificazione della tradizione ascetica del cristianesimo, soprattutto l'astinenza da cibi a base di carne e di estratti di carne, mentre non è escluso l'uso di uova e di condimenti grassi. Questo tipo di astinenza è stato oggetto per molti secoli di una minuziosa regolamentazione canonica e liturgica. Questa, insieme alle regole sul digiuno, fu modificata per disposizione del Concilio Vaticano II. Secondo le prescrizioni dell'attuale CIC, contenute nei canoni 1249-1253 e valide per la Chiesa Latina, " si osservi l'astinenza dalle carni o da altro cibo, secondo le disposizioni della Conferenza Episcopale, in tutti singoli i venerdì dell'anno...; l'astinenza e il digiuno, invece, il mercoledì delle Ceneri e il venerdì della Passione e Morte del Signore nostro Gesù Cristo " (c. 1251). " Alla legge dell'astinenza sono tenuti coloro che hanno compiuto il 14o anno di età; alla legge del digiuno, invece, tutti i maggiorenni fino al 60o anno iniziato "! (c. 1252). Da parte loro, le Conferenze Episcopali possono determinare con maggiori particolari l'osservanza del digiuno e dell'astinenza e possono indicare altre forme di penitenza, soprattutto opere di carità ed esercizi di pietà che sostituscano in tutto o in parte l'astinenza e il digiuno. L'obbligo dell'astinenza nei venerdì dell'anno obbedisce all'antichissima usanza di dedicare quel giorno della settimana al ricordo della passione e morte di Cristo. Lo stesso motivo spiega ovviamente l'astinenza del venerdì santo, mentre quella del mercoledì delle Ceneri si deve al fatto che quel giorno costituisce l'inizio del tempo penitenziale per eccellenza: la Quaresima. L'astinenza non va vista come una versione cristiana dei tabù religiosi alimentari: infatti, secondo il vangelo, sono " mondi tutti gli alimenti " (Mc 7,19). L'astinenza è un modo di esprimere lo spirito di penitenza e un'occasione per praticare la carità, secondo la massima patristica: " Ciò di cui ci si priva diventi cibo per il povero ".

J. Llopis

Ateismo. (inizio)

L'ateismo è quella concezione del mondo che nega l'esistenza di Dio, sia di un Dio personale, sia, più generalmente, di una realtà distinta da quella cosmica, trascendente. K. Rahner definisce l'ateismo come negazione dell'esistenza di Dio o di ogni possibilità, non solo razionale, di conoscerlo. La differenza tra ateismo e agnosticismo non è sempre chiara; il linguaggio non è sempre preciso.

Alle volte, il buddismo è stato ritenuto come una sapienza o religiosità atea. È vero che Siddharta Gautama (Budda, l'Illuminato, nato verso il 560 a.C.) era una mente pratica, che s'interessò di dare agli uomini un sistema di vita, più che teorie, ma alla luce dell'Assoluto Neutro (Atman). Secondo R. Panikkar, nel buddismo, c'è l'apertura a qualcosa di personale, almeno in un certo modo, in un senso marcatamente non antropomorfico. La suprema esperienza sta nel non divinizzare nulla nell'ambito della nostra esperienza, nel non chiedere se io sono, nel non aff'ermare che c'è un'esperienza suprema.

La religiosità cinese e giapponese tende, secondo Panikkar, alla sistemazione più radicale nell'immanenza. Non si può sfuggire alla condizione umana di fatto. Non si prende in considerazione nessun tipo di trascendenza. Kami in giapponese significa Dio per lo shintoismo, ma anche di sopra, qualcosa come una materia superiore. La religiosità cinese non permette di introdurre nessun altro fattore nella situazione umana, che serva per manipolarla. L'esperienza suprema consiste nel rinunciare a qualsiasi estrapolazione e a sommergersi nella situazione mondana, senza volerla trascendere, neppure negativamente.

Nel mondo greco, Epicuro (342-270 a.C.) negava che gli dèi si occupassero degli uomini per premiarli o punirli: non c'è da temere né gli dèi, né la morte. Il poeta romano Lucrezio (secolo I a.C.) attaccava la religione in quanto incuteva negli uomini il timore di castighi nell'altra vita. Lo stoicismo (a partire dal secolo IV a.C.), nella sua radice essenziale, è un umanesimo che pone nessuna speranza in nessuna trascendenza, ma si rifugia nella coscienza di una dignità morale di fronte alla mancanza di promesse da parte del cosmo.

Al tempo dell'Illuminismo, D. Diderot (1713-1784) si colloca pienamente nell'ateismo con una rivendicazione etica di fronte al credente, mentre sente mortalmente il vuoto di Dio.

Il nichilismo tormentato di A. Schopenhauer (1778-1860) e il positivismo di A. Comte (1798-1857) si accordano con posizioni militanti conservatrici dell'ordine borghese.

Per F. Nietzsche (1844-1900), Dio è morto per liberare l'uomo dall'invidia e dare origine al Super- uomo. Però, in modo contraddittorio, egli postula l' "eterno ritorno ". La sua ostilità furibonda contro il cristianesimo si radica nel fatto che ha intravisto la più profonda esigenza del Dio cristiano, senza che, d'altra parte, nulla nella sua epoca gli permettesse di intravedere quello che ci può essere, nel cristianesimo, di vita e di risurrezione della carne e del mondo (J.M. Valverde).

Nell'esistenzialismo ateo del secolo XX, c'è un elemento di scandalo e di protesta di fronte al problema del male nel mondo. J.P. Sartre considera l'uomo come libertà assoluta incompatibile con l'esistenza di Dio: se l'uomo esiste, è impossibile che esista Dio.

I cristiani, lungo la storia, sono stati molto negativi nel loro atteggiamento di fronte agli atei. Perfino il grande liberale J. Locke, nella sua Lettera sulla tolleranza, scritta nel 1585 e pubblicata nel 1589, non estendeva la tolleranza agli atei perchè li riteneva assolutamente amorali e perchè il privilegio della tolleranza religiosa supponeva la religione.

Questa ostilità fu superata col Concilio Vaticano II: la Chiesa, " consapevole della gravità delle questioni suscitate dall'ateismo e mossa da carità verso tutti gli uomini, ritiene che esse debbano meritare un esame più serio e più profondo " (GS 21). " Il rimedio all'ateismo lo si deve attendere sia dalla esposizione conveniente della dottrina della Chiesa, sia da tutta la vita di essa e dei suoi membri " (GS 21). " La Chiesa, poi, pur respingendo in maniera assoluta l'ateismo, tuttavia riconosce sinceramente che tutti gli uomini, credenti e non credenti, debbano contribuire alla retta edificazione di questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme: il che non puó avvenire certamente senza un sincero e prudente dialogo " (GS 21).

Bibl. - Garaudy R., Dall'anatema al dialogo, Ed. Queriniana, Brescia, 1969. Girardi G. e altri, L'ateismo contemporaneo, 4 voll., Ed. SEI, Torino, 1967-1970. Lubac H. de, Il dramma dell'umanesimo ateo, Ed. Morcelliana, Brescia, . Panikkar R., Religione e religioni, Ed. Morcelliana, Brescia, 1964. Poupard P. (a cura di), La Chiesa davanti alla sfida dell'ateismo contemporaneo, Ed. Piemme, Casale M., 1984.

J. M. Díez-Alegría

Atteggiamento morale. (inizio)

In campo morale, l'atteggiamento indica il modo caratteristico con cui una persona affronta le sue situazioni umane, cioè, morali. È il modo tipico del soggetto di comportarsi dal punto di vista della morale. Si differenzia direttamente dalle azioni morali: queste sono risposte diversificate e risolutive, suscitate da una determinata situazione. L'atteggiamento non è un'azione, ma è la forma tipica, soggiacente a tutte le azioni, di affrontare radicalmente la realtà morale.

Da sempre, l'atteggiamento che comunemente è stato chiamato " abito ", è stato una categoria a parte la cui funzione è quella di disegnare, in forma originale e fondamentale, la figura morale di una persona nella storia, collocandola, nello stesso tempo, in una linea fissa e continua.

L'atteggiamento morale ha due versanti complementari. Primariamente, dice riferimento all'essere stesso della persona a cui dà un profilo storico determinato e intimo. Gli attepgiamenti, anche quelli di passività e di inattività, dànno alla persona col trascorrere della sua vita una configurazione tipica che comunemente è chiamata personalità morale. La personalità morale è quella figura che tende ad essere permanente, una figura di intimità personale disegnata dai suoi atteggiamenti fondamentali.

Il secondo versante riferisce l'atteggiamento alle azioni della vita morale. Gli atteggiamenti sono operativi, sono forme di ciò che è morale, in funzione dell'azione. Gli atteggiamenti fanno sì che la persona morale abbia una biografia che interpreta se stessa negli atti della vita. Questi dànno, inoltre, alla vita dell'uomo che si esprime nelle sue azioni, una linea di continuità che forma l'unità della vita morale di una persona. L'uomo è una realtà morale, perché è l'unico che può dare a se stesso un volto determinato lungo la sua storia.

Il versante dell'atteggiamento verso l'azione è quello più importante. Come essere morale, l'uomo è fattura di se stesso; deve realizzarsi nelle sue azioni come persona, partendo dalle esigenze della situazione storica. Non può impadronirsi delle sue possibilità storiche senza agire. Questa condizione umana si esprime appunto nell'atteggiamento: questo comporta non solo l'impulso della persona verso l'appropriazione delle possibilità che la situazione offre, ma anzi aumenta la qualità dell'azione, la sua energia e la sua facilità.

Mentre l'atteggiamento qualifica la moralità della persona, dando ai suoi orientamenti un vigore ed una stabilità maggiori, l'azione stessa che la concreta rafforza l'atteggiamento.

Questa dinamica di intensificazione della vita morale, che proviene dagli atteggiamenti, è applicata sia agli atteggiamenti buoni che a quelli cattivi. La formazione di atteggiamenti, buoni o cattivi, entra in modo importante nel campo della responsabilità morale della persona.

Non esistono soltanto gli atteggiamenti della persona singola, ma esistono anche gli atteggiamenti morali,sociali, collettivi. Anche i gruppi sociali si autodefiniscono radicalmente mediante i loro atteggiamenti. Essi trasmettono anche una morale concreta di atteggiamenti, di fronte a cui le persone singole tenderanno a definirsi in modo responsabile.

La questione della morale non è soltanto la questione del profilo morale intimo della persona: è anche la questione del profilo di una morale collettiva concreta che delimita le possibilità morali di ogni individuo.

Bibl. - Demmer K., " Opzione fondamentale ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 854-861. Gergen K.J. - Gergen M.M., Psicologia sociale, Ed. Il Mulino, Bologna, 1990. Haering B., Liberi e fedeli in Cristo, 3 voll., Ed. Paoline, 1982. Privitera S., " Etica normativa ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, pp. 374-380. Vidal M., L'atteggiamento morale, 1Morale fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1976.

J. de la Torre

Atteggiamento psicologico. (inizio)

Gli atteggiamenti si acquistano con l'esperienza. Vari fattori contribuiscono alla loro formazione, soprattutto l'influenza dell'ambiente sociale mediante l'educazione, i mezzi di comunicazione sociale, l'appartenenza a qualche gruppo, ecc.

A differenza delle opinioni che sono individuali, gli atteggiamenti sono il retaggio di un gruppo. Gli atteggiamenti determinano non solo il modo e lo stile di pensare di un gruppo, ma anche le varie reazioni dî fronte ad un oggetto, ad una situazione o ad una persona. Gli atteggiamenti esercitano un ruolo importante nella vita quotidiana, specialmente in campo sociale.

Ogni atteggiamento possiede tre componenti; conoscitiva, affettiva e comportamentale. La componente conoscitiva riguarda le opinioni di un individuo circa un determinato oggetto. La componente affettiva si riferisce alle emozioni e ai sentimenti legati ad un determinato oggetto. La componente comportamentale comprende ogni inclinazione ad agire in un determinato modo di fronte ad un oggetto.

L'individuo tende ad accettare come propri gli atteggiamenti che si integrano con la sua personalità. Sebbene le tre componenti tendano ad una coerenza, l'individuo assume alle volte certi atteggiamenti incoerenti o addirittura contraddittori.

Una questione importante e complessa è quella del cambiamento di atteggiamenti. Ciò dipende in parte dal quoziente di intelligenza del soggetto. Le necessità e lo stile conoscitivo di una persona influiscono

sulla facilità nell'accettare il cambiamento. Tra le altre cose, il cambiamento dipende dal grado di ostinazione con cui si mantengono gli atteggiamenti, dalla quantità e qualità di informazioni su cui si fondano e dalla loro connessione con altri atteggiamenti.

Gli atteggiamenti che hanno un appoggio sociale intenso per il fatto che l'individuo appartiene ad un:gruppo, cambiano difficilmente.

Bibl. - Krech D. - Crutchfield R.S. - Ballachey E.L., Manuale di psicologia sociale, Firenze, 1972. Serra A., Le basi genetiche del comportamento umano, in: Ancona L. (a cura di), Nuove questioni di psicologia, 1, Ed. La Scuola, Brescia, 1972, pp. 121-149. Sillamy N., Dizionario di psicologia, Ed. Gremese, Roma, 1995. Wilson G.D., " Atteggiamento ", in: Dizionario di Psicologia, Ed. Paoline, 1975, pp. 117-120.

F.J. Calvo

Audiovisivi. (inizio)

La parola audiovisivo (AV) può applicarsi ai mezzi di comunicazione sociale, o mezzi di massa (stampa, radio, cinema, televisione...), ai mezzi di gruppo (diapositive, dischi, video-cassette...) e all'informatica (utilizzazione di dati, mediante il computer). La catechesi dà una grande importanza al secondo gruppo. Mentre il libro usa lettere convenzionali per rimandare a parole convenzionali, l'audiovisivo è molto più ricco: voci, suoni, immagini, colori...

Nel campo educativo, si possono usare gli audiovisivi in due modi: per accompagnare e completare la pedagogia tradizionale (per esempio: illustrare una conferenza od una lezione con diapositive), o come linguaggio nuovo, rivolto soprattutto alla sensibilità, all'immaginazione e all'affettività: far sentire per far pensare, o passare dall'emozione all'idea, dal vissuto al tema, dal globale allo specifico. Oggi, la catechesi preferisce questa seconda modalità perché è più propria dell'audio visivo moderno e perché contiene più vita, vicinanza e creatività. Ha, però, anche i suoi limiti: meno precisione e meno strutturazione. Conseguentemente, l'audiovisivo va completato per la dottrina e la sistematizzazione.

L'audiovisivo può essere usato per motivare, coscientizzare, informare, analizzare, approfondire, valutare, celebrare, esprimere, ecc. Tuttavia, ciò che importa di più non è cambiare metodi, ma mentalità. La mentalità audiovisiva contemporanea si accosta al vangelo attraverso il vissuto, dell'uomo d'oggi; cerca di trasformare l'uomo e la società; valorizza molto la sensibilità, l'immaginazione, e l'affettività; dà la priorità al gruppo che ha la possibilità di prendere la parola e di condividere. Nel gruppo, le nostre esperienze e conoscenze rimangono umanizzate e socializzate, relativizzate, criticate ed equilibrate, arricchite con la tradizione.

Però, l'elemento chiave è l'animatore cristiano: deve essere un testimone (" è lui il primo audiovisivo "); deve vivere incarnato negli audiovisivi, nel nostro mondo e nel vangelo, e saperli interpretare agli altri.

A poco o a niente servono gli apparecchi e i materiali senza la formazione adeguata. Non basta consumare gli audiovisivi: bisogna anche produrli ed esprimerli.

Bibl. - Babin P., " Audiovisivo ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 58-61. Idem, L'audiovisivo e la fede, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1971. Idem - McLuhan M., Uomo nuovo, cristisno nuovo nell'èra elettronica, Ed. Paoline, Roma, 1979. Galliani I., Educazione ai linguaggi audiovisivi, Ed. SEI, Torino, 1988. McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1971. Idem, La galassia Gutenberg: nascita dell'uomo tipografico, Ed. Armando, Roma, 1976.

P. Maymí

Avvento. (inizio)

L'anno liturgico comincia col tempo di Avvento. Questo termine significa: venuta, o verso la venuta. Deriva dal verbo venire. Nel linguaggio religioso del paganesimo, adventus indicava la venuta periodica di Dio e la sua presenza teofanica nel tempio. Significava, dunque: ritorno, o anniversario. Dal punto di vista cristiano, adventus indica la venuta ultima del Signore, alla fine dei tempi. Quando, però, sorsero le feste del Natale e dell'Epifania, il termine venne anche ad indicare la venuta di Gesù nell'umiltà della carne. Queste due venute (quella di Betlemme e quella ultima) sono considerate come un'unica venuta, sdoppiata in due tappe. Questa duplice dimensione di attesa caratterizza tutto l'Avvento.

L'Avvento è il tempo liturgico che precede, come preparazione, la festa di Natale. Sorse nel secolo IV con una durata di tre settimane, su imitazione della Quaresima, o delle tre settimane di preparazione alla Pasqua, richieste per i catecumeni. La durata dell'Avvento variava, secondo le Chiese, fra tre e sei settimane. In alcuni luoghi, assunse la caratteristica di penitenza (le Gallie); in altri, quella della gioia (Roma). Comunque, la dimensione dell'attesa prevalse su quella della preparazione.

Siccome la venuta di Cristo fu annunciata dai profeti, preparata dal Precursore, e compiuta dalla Vergine Maria, sono tre le figure centrali dell'Avvento: Isaia, Giovanni Battista e Maria. Durante tutto l'Avvento, tempo di speranza e di preparazione, si legge il libro di Isaia. La seconda e la terza domenica sono centrate sulla persona e sull'opera del Battista. Gli ultimi otto giorni di questo tempo sono dedicati a Maria, la Madre di Gesù, che visse intensamente l'Avvento durante i nove mesi in cui portò Gesù nel suo grembo.

Bibl. - Barth K., L'Avvento. Il Natale, Ed. Morcelliana, Brescia, 1992. Bergamini A., " Avvento ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 137-139. Danielou J., Il mistero dell'Avvento, Ed. Morcelliana, Brescia, 1958. Grun S., Il Signore che viene, Ed. Queriniana, Brescia, 1963. Nocent A., Celebrare Gesù Cristo. L'anno liturgico, I, Avvento, Ed. Cittadella, Assisi, 1976.

C. Floristán

Azione Cattolica. (inizio)

L'Azione Cattolica nacque nel 1928, per volere di Pio XI, come " partecipazione dei laici all'apostolato gerarchico ", dando una nuova struttura alle organizzazioni cattoliche di laici già esistenti. Il fine dell'Azione Cattolica si identificò con quello della gerarchia, per proteggere l'apostolato dei laici italiani dalle eventuali rappresaglie del fascismo totalitario. D'altra parte, sulla fine degli anni '20, sorsero in Francia ed in Belgio nuovi movimenti di apostolato specializzati in ambienti sociali, senza le difficoltà politiche della dittatura italiana. Il primo movimento, che fu anche quello più famoso, fu la JOC (Gioventù Operaia Cattolica), fondata nel 1925 da J. Cardijn.

All'inizio del laicato cristiano associato, la Chiesa optò per l'organizzazione e per la mobilitazione dei cattolici per fare fronte alle aggressioni provenienti da alcuni movimenti sociali di emancipazione e dalle correnti laiciste. Il laicato cattolico organizzato fu inteso, al suo inizio, come battaglione d'assalto o come truppa specializzata, sotto il controllo della gerarchia. Al posto di " partecipazione ", Più XII usò il termine " collaborazione ", in quanto l'apostolato dei laici non equivale ad un accesso dei laici nella gerarchia. L'A.C., secondo il discorso di Pio XII nel II Congresso Mondiale del 1957, " riceve il mandato dalla gerarchia, ma non il monopolio dell'apostolato libero ".

L'A.C. spagnola ha percorso, secondo M. Benzo, tre tappe. La prima corrisponde ad una " pastorale di segregazione " (Chiesa ripiegata, mentalità difensiva) ed equivale ad una " lega di laici per difendere i diritti della Chiesa ".

Già nel 1926, il Cardinale Reig stese i Princìpi e Basi dell'Azione cattolica spagnola, con l'intento di fondere in un " organismo nazionale unico " le organizzazioni cattoliche esistenti, sull'esempio italiano dei " quattro rami ", o Azione Cattolica generale (unitaria e ordinata). La Conferenza dei Metropoliti approvò nel 1931 alcune " Nuove Basi per la riorganizzazione dell'Azione cattolica spagnola ", con una Giunta Centrale " e alcune istituzioni collegate (Casa dell'Assistente, Scuola per Propagandisti, ecc.).

La seconda tappa, posteriore alla guerra civile di Spagna (1936-1939), corrisponde ad una " pastorale di autorità ", in un ambiente nazionalcattolico e trionfalista, in sintonia con la vittoria franchista. Il Cardinale Gomà, per mezzo dello Statuto del 1939, riorganizzò in modo generale e completo l'A.C. sul modello fondamentale " parrocchiale e diocesano ".

La terza tappa comincia negli anni'50 e corrisponde ad una " pastorale di testimonianza ". Lo Statuto dell'A.C. spagnola del 1959 si ispira al modello franco-belga, caratterizzato da movimenti apostolici (specializzazione per ambienti), dalla formazione per l'azione, dall'accettazione dei metodi " verificare-agire ", dalla revisione di vita, dall'uso della " inchiesta- campagna ", ecc. La JOC fece parte dell'A.C. spagnola nel 1956. Seguì poi l'HOAC, e più tardi la JEC (studenti), la JIC (industriali) e la JARC (agricoltori). La nascita di questi movimenti produsse un notevole progresso nell'organizzazione e nell'attività dei laici che scoprirono molto presto le ingiustizie della dittatura franchista e svilupparono una nuova concezione dell'impegno cristiano. D'altra parte, era evidente l'opzione per la democrazia in tutte le organizzazioni cattoliche internazionali. Subito sorsero tensioni e difficoltà. L'ecclesiologia e la teologia del laicato, promosse da Congar, Rahner, Schillebeecks, Chenu, Philips, ecc. tra il 1950 e il 1960, sostennero la pastorale dei movimenti apostolici e influirono sul Vaticano II.

L'enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII e il Concilio spinsero i laici verso l'impegno temporale e verso l'accettazione di posizioni politiche più avanzate. Il Vaticano II diede un'attenzione speciale all'A.C. nel documento sull'apostolato dei laici (N.20). L'A.C. sorge per iniziativa della gerarchia; le altre associazioni di laici hanno invece origine dall'iniziativa dei laici stessi, sia pure col consenso dell'autorità ecclesiastica e sono " autonomi ". L'obiettivo dell'A.C. è globale, mentre le altre associazioni hanno fini " parziali ". Nell'A.C., i dirigenti sono eletti con l'intervento della gerarchia, a differenza delle altre associazioni che hanno " elezioni libere ". Infine, l'A.C. è sempre " confessionale ", poiché ha sempre una " struttura ecclesiastica ".

Una quarta tappa inizia con le Giornate Nazionali dell'Escorial (Luglio 1966), da cui inizia la crisi dell'A.C. (1966-1968). I movimenti apostolici vengono accusati, secondo M. Benzo, di non assecondare la pastorale della gerarchia, di avere disertato la parrocchia, di essere eccessivamente terrenisti, nettamente minoritari, di utilizzare certi metodi complicati e di non contribuire alla comunione nella Chiesa. In ultima analisi, non rispondevano al concetto classico di " partecipazione all'apostolato della gerarchia ". Specialmente grave era l'accusa di " terrenismo ". Ricordiamo che in quegli anni la teologia politica europea e la teologia della liberazione latino-americana, con l'appoggio posteriore della Conferenza di Medellín (1968), dell'Assemblea congiunta spagnola (1971) e della Conferenza di Puebla (1979) contribuirono a sviluppare il tema dell'impegno dei cristiani per la trasformazione della società, all'interno di una visuale liberatrice, nella linea dei valori del Regno, partendo dall'opzione per i poveri.

I nuovi statuti dell'A.C. spagnola, approvati dall'episcopato sulla fine del 1967, non contribuirono a rasserenare il clima. Mancò il dialogo e la comprensione. Ci fu da una parte la tutela eccessiva della gerarchia, e dall'altra, l'ansia di autonomia del laicato. Così, s'indebolirono tutti i movimenti apostolici. Nel 1972, la XVII Assemblea Plenaria dell'Episcopato Spagnolo approvò gli Orientamenti pastorali sull'apostolato dei laici, con l'intento di ristabilire la fiducia perduta e iniziare una nuova fase dell'A.C. Questi Orientamenti furono completati da un documento intitolato L'apostolato dei laici in Spagna, edito nel 1974. In seguito, si lavorò per redigere alcune nuove basi dell'A.C. spagnola. In relazione col Sinodo dei Vescovi sui Laici, la Commissione Episcopale dell'apostolato dei laici ha pubblicato un documento dal titolo: Il laico nella Chiesa e nel mondo.

Bibl. - Brugnoli P., La missione dei laici nel mondo d'oggi, Brescia, . Civardi L., Manuale di A.C., Roma, . Congar Y., Per una teologia del laicato, Brescia, 1966. De Rosa G., Storia del movimento cattolico in Italia, 2 voll., Bari, 1966. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica " Christifideles laici (I fedeli laici), 30.12.1988. Koser C., Cooperazione dei laici con la gerarchia nell'apostolato, in: Aa.Vv., La Chiesa del Vaticano II, Firenze, 1965, pp. 994-1011. Lazzati G., Azione cattolica e azione politica, Ed. la Locusta, Vicenza, 1962. Idem, Maturità del laicato, Ed. La Scuola, Brescia, 1962. Muraro G., I laici, in: Aa.Vv., Commento alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Ed. Elle Di Ci, Leamann (Torino), , pp. 759-816.

C. Floristán

Azione pastorale. (inizio)

Per azione pastorale, s'intende la totalità dell'azione della Chiesa e dei cristiani, partendo dal comportamento di Gesù, con l'intento di edificare il Regno di Dio nella società. A seconda di come intendiamo, da una parte, il progetto di Gesù, la realtà della Chiesa e il compito della sua missione nel mondo, e, d'altra parte, a seconda di come interpretiamo il mondo e la società attuale nel suo evolversi, avremo una diversa concezione dell'azione pastorale. Due ermeneutiche si incrociano quando si tratta di definire l'azione pastorale: quella teologica e quella politica. Già il Concilio Vaticano II ci suggerisce due letture imprescindibili che per i cristiani si sovrappongono e che non bisogna né confondere né separare: la lettura della Parola di Dio e la lettura dei segni dei tempi. Per sopprimere una buona volta l'aggettivo pastorale (o il sostantivo: la pastorale), che deriva da pastore, chierico o ecclesiastico, alcuni propongono che si parli piuttosto di prassi ecclesiale. Così, si comprende meglio questa azione come prassi di tutti i cristiani, all'interno di una ecclesiologia integrale di comunione. Ricordiamo che l'espressione teologia pastorale si chiama oggi teologia pratica per gli stessi motivi. Ciò nonostante, dato l'uso comune che hanno queste espressioni, noi le usiamo qui come vengono usate oggi in molti ambienti cristiani.

La prima caratteristica dell'azione pastorale è di essere azione, non puramente pratica. Da una parte, è azione ad intra destinata a edificare la comunità cristiana come ekklesìa; d'altra parte, è azione ad extra in rapporto alla prassi di liberazione della società, il cui soggetto collettivo è senz'altro il gruppo umano. Non si tratta di interpretare la società, ma di trasformare il mondo in regno di Dio. Pertanto, l'azione pastorale o prassi ecclesiale non è prassi del lavoro né politica, ma è prassi simbolica. Cerca di cambiare il mondo delle rappresentazioni e comunicazioni mediante alcuni simboli efficaci ed alcune parole performative che costituiscono una vita umana e credente.

In secondo luogo, l'azione pastorale è l'attualizzazione della prassi di Gesù, prassi di solidarietà coi poveri, connessa con la giustizia del Regno di Dio e con l'obbedienza al Dio del Regno. La pratica messianica di Gesù comporta la proclamazione del kerigma come evangelizzazione del popolo e lo svolgimento della didachè nella catechesi coi suoi discepoli; il servizio o ministero della diakonìa riguardo alla liberazione e alla libertà dei poveri e degli oppressi per edificare la nuova umanità dei figli di Dio; una koinonìa dei discepoli, in comunione con la parola apostolica, l'amore fraterno, i beni e l'Eucaristia; e, infine, la celebrazione della liturgia come banchetto, anticipo del banchetto del Regno.

In terzo luogo, la Chiesa come comunità è il soggetto dell'azione pastorale, comunità locale e universale dei discepoli che seguono Gesù in un modo effettivo, in cui tutti sono fratelli sotto la responsabilità di alcuni servitori. Di fatto, la comunità primitiva era comunità di base con un impulso evangelizzatore, un catecumenato formativo, comunicazione di beni, liturgia domestica e atteggiamento di impegno nella liberazione- salvezza del mondo con la venuta del Regno di Dio. Con la riforma del Vaticano II, la Chiesa ha ricuperato alcuni elementi per cui è divenuta soggetto proprio di azione pastorale, trasformandosi, lentamente ma efficacemente, in comunione di comunità. Essa si basa sul Vangelo; ad essa, aderiscono i credenti liberi e responsabili, mentre si incarna in un luogo concreto.

Infine, l'azione pastorale è al servizio del Regno di Dio, che è immanente e trascendente, sacramentale e storico, centrato sulla giustizia e sul diritto dei poveri, ed esige conversione.

Bibl. - Franchini E., Le due anime della pastorale italiana, Ed. dehoniane, Bologna, 1988. Lanza S., " Pastorale ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1977, p. 541. Tonelli R., " Pastorale ", in: Dizionario di scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 790-794.

C. Floristán

Azioni ecclesiali. (inizio)

Si chiamano azioni ecclesiali le forme con cui agisce la Chiesa. Tradizionalmente, esse derivano dalle funzioni messianiche di Gesù, cioè, quella profetica, quella sacerdotale e quella regale. Sì chiamano anche i tre poteri della Chiesa: quello d'insegnamento, quello di santificazione e quello di governo. Per questo, secondo la teologia pastorale preconciliare ed anche alla luce del Vaticano II, si parla di tre ministeri o di tre pastorali: la pastorale profetica o azione ecclesiale della parola, la pastorale liturgica o azione pastorale del culto, e la pastorale " odegetica " (da: hodòs: cammino), o azione pastorale della carità. Si tratta di tre aspetti della missione della Chiesa, o di tre divisioni della teologia pastorale. Arnold e Liégé sono stati i grandi pastoralisti delle azioni eccelsiali. Secondo i manuali di pastorale, sono inclusi nel ministero della parola: l'evangelizzazione, la catechesi e l'omelia; in quello della liturgia: l'Eucaristia, i sacramenti e la preghiera; in quello caritativo: il servizio cristiano al mondo e la guida della Chiesa. Oggi, si tende a dividere in quattro le azioni ecclesiali partendo dalla Chiesa come Popolo di Dio, sacramento del Regno e comunità di credenti.

La missione profetica (martyrìa) corrisponde all'annuncio e all'avverarsi del vangelo. Sotto questo aspetto, Gesù è visto come profeta. La finalità di questo ministero è quella di suscitare la fede, approfondire il senso di Dio e rivelare l'orizzonte cristiano del progetto umano. Comprende: l'evangelizzazione, la catechesi e l'interpretazione teologica.

La missione della fraternità viva (koinonìa) è il servizio di carità ad intra. Essa svela il mistero della comunione e rivela la paternità di Dio nella fraternità cristiana. Gesù appare come maestro, e i credenti si riuniscono nella comunione mediante lo strumento organizzativo della comunità cristiana. Si radunano in assemblea per conoscere sperimentalmente la sapienza di Dio e poterla confrontare con tutti i problemi del processo umano storico. L'intento è quello di costruire una nuova fraternità.

La missione liturgica (leitourghìa) comprende tutto il complesso di celebrazione dei misteri cristiani. È un servizio di speranza. Rivela la riconoscenza verso Dio e mostra che il mondo non è votato alla catastrofe. Gesù appare qui come sacerdote della nuova alleanza. Questa missione si chiama anche doxologia.

Infine, la missione liberatrice (diakonìa) è una funzione " socio-pastorale ". È il servizio di carità ad extra. Rivela il mistero dell'edificazione del Regno fuori dei confini della Chiesa, mediante una società più umana, cioè, più giusta e più libera. Gesù appare qui come il primogenito della nuova creazione.

Bibl. - Arnold F.X., Storia della teologia pastorale, Ed. Città Nuova, Roma, 1970. Cappellaro J. - Franchini E., Il rinnovamento della pastorale, Ed. dehoniane, Bologna, 1985. Scoppola P., La nuova cristianità perduta. Ed. Studium. Roma. 1985.

C. Floristán