DIZIONARIO SINTETICO DI PASTORALE

CASIANO FLORISTAN - JUAN JOSÈ TAMAYO

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Battesimo. (inizio)

Il battesimo è il primo sacramento dell'iniziazione cristiana. Consiste essenzialmente in un rito di immersione o in un'abluzione con acqua, con alcune parole che, in un modo o nell'altro, costituiscono una professione di fede nel Dio trinitario rivelato da Gesù Cristo. Mediante il battesimo, si esprime e si realizza la rinascita spirituale alla vita di figli di Dio e l'incorporazione nella Chiesa come comunità di credenti. La dottrina attuale della Chiesa sul valore e sul significato del battesimo è sintetizzata molto bene nelle osservazioni generali che precedono il Rito del Battesimo dei Bambini (RBB), promulgato il 15 Maggio 1969:

" Il Battesimo, ingresso alla vita e al regno, è il primo sacramento della nuova legge. Cristo lo ha proposto a tutti perché abbiano la vita eterna (cf Gv 3,5)e lo ha affidato alla sua Chiesa insieme con il Vangelo, dicendo agli Apostoli: " Andate e annunciate il Vangelo a tutti i popoli e battezzateli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo " (Mt 28,19).

Perciò il battesimo è anzitutto il sacramento di quella fede, con la quale gli uomini, illuminati dalla grazia dello Spirito Santo, rispondono al Vangelo di Cristo...

Il Battesimo è il sacramento che incorpora gli uomini alla Chiesa, li edifica come abitazione di Dio nello Spirito (Ef 2,22), li rende regale sacerdozio e popolo santo (1 Pt 2,9), ed è vincolo sacramentale di unità fra tutti quelli che lo ricevono (cf UR 22)...

Il Battesimo, lavacro dell'acqua unito alla parola (Ef 5,26) rende gli uomini partecipi della vita di Dio (1 Pt 2,9) e della adozione a suoi figli (cf Rm 8,15; Gal 4,5)...

Il Battesimo, più efficace di ogni purificazione dell'antica legge, opera questi effetti in forza del mistero della passione e risurrezione del Signore. Infatti coloro che ricevono il Battesimo, segno sacramentale della morte di Cristo, con lui sono sepolti nella morte (Tit 3,5) eton lui vivificati e risuscitati (cf Ef 2,ó). " (Conferenza Episcopale Italiana, Rito del battesimo dei bambini, Libreria Editrice Vaticana, 1970, pp. 16-18).

Inoltre, secondo il Codice di Diritto Canonico, " mediante il battesimo, l'uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in essa è costituito persona, con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri " (CIC 96).

Il rito battesimale è affine alle diverse e numerose abluzioni praticate in tutte le religioni come segno di purificazione interiore. Soprattutto il battesimo è vicino ai riti giudaici dell'acqua che avevano vari significati: purificazione legale, azione con cui si introduceva un proselito pagano nel Popolo di Dio, penitenza. Però, il grande battesimo che ha preceduto quello cristiano è stato quello di Giovanni Battista a cui si sottopose Gesù stesso [cf Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3, 21-22).

Il vangelo di Giovanni ci presenta il gruppo dei primi discepoli di Gesù che amministrano il battesimo. Però, solo a partire dalla risurrezione di Gesù, il battesimo acquista tutto il suo significato cristiano, inseparabile dall'azione dello Spirito Santo. Fin dagli inizi della Chiesa nascente, esiste la pratica del battesimo come anche la consapevolezza di eseguire un comando del Signore. Il rito consisteva in una immersione nell'acqua. In caso di necessità, era ammessa la forma per infusione accompagnata da una formula verbale che forse per un certo tempo fu " Nel nome del Signore Gesù ". Molto presto, però, la formula divenne esplicitamente trinitaria: " Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ". Al battezzando, si chiedeva prima la conversione e la fede. Questa veniva espressa con formule, come: " Credo che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio ". Queste formule di fede costituirono il nucleo dei futuri simboli della fede. L'epoca patristica produsse un arricchimento del rito: il battesimo fu preceduto da un periodo più o meno lungo di preparazione, il cosiddetto catecumenato. La celebrazione battesimale vera e propria consisteva in una veglia notturna, presieduta dal vescovo, in cui avveniva la benedizione dell'acqua battesimale, la rinuncia a Satana, l'esorcismo ed una prima unzione. Seguiva l'atto del battesimo mediante una triplice immersione nell'acqua. Ad ogni immersione, il vescovo chiedeva un atto di fede in ciascuna delle Persone divine. Poi, seguiva l'introduzione nella comunità, l'imposizione delle mani, la preghiera allo Spirito Santo ed una nuova unzione. Si concludeva con la partecipazione dei nuovi cristiani all'Eucaristia.

Anche se non si può affermare con certezza che il battesimo dei bambini sia di origine apostolica, tuttavia esso fu praticato fin dall'antichità più remota. Contestato da alcuni, acquistò diritto di cittadinanza grazie alle riflessioni teologiche di sant'Agostino che legò il battesimo dei bambini alla dottrina del peccato originale e insistette sulla dimensione gratuita e comunitaria della salvezza. La generalizzazione di questo tipo di battesimo portò importanti cambiamenti, tanto nella celebrazione rituale quanto nella comprensione teologica del sacramento: la scomparsa del catecumenato, la concentrazione dei riti, anticamente distribuiti nel tempo, in una sola cerimonia, con la perdita di significato; l'inversione dell'ordine tradizionale dei tre sacramenti dell'iniziazione cristiana; la sottolineatura eccessiva degli aspetti purificatori del battesimo, ecc. Il Concilio Vaticano II decretò la restaurazione del catecumenato degli adulti e la elaborazione di un nuovo rituale per i bambini. La Costituzione Liturgica stabilì: " Sia riveduto il rito del battesimo dei bambini e sia adattato alla loro reale condizione. Nel rito siano messi maggiormente in rilievo il posto e i doveri che hanno i genitori e i padrini " (SC 67). Il battesimo generalizzato dei bambini suscita oggi nuovi problemi in cui si cerca di concordare, da una parte, la convinzione della necessità del battesimo per la salvezza, e, d'altra parte, il carattere imprescindibile della fede per la " verità " del rito. Una Istruzione sul battesimo dei bambini, emanata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (20.10.1980) afferma quanto in sintesi verrà detto dal Codice di Diritto Canonico nel 1983:

" Per battezzare lecitamente un bambino si esige:

1) che i genitori o almeno uno di essi o chi tiene legittimamente il loro posto, vi consentano;

2) che vi sia la fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica; se tale speranza manca del tutto, il battesimo venga differito, secondo le disposizioni del diritto particolare, dandone ragione ai genitori " (CIC 868 & 1).

Bibl. - Caprioli A., Vi laverò con acqua pura, Ed. Ancora, Milano, 1981. Estruch J. - Cardus S., Il battesimo come rito di iniziazione. Attuali mutamenti del suo significato, in: " Concilium ", 2(1979), pp. 144-154. Falsini R., L'iniziazione cristiana e i suoi sacramenti, Ed. Opera Regalità, Milano, 1986. Ferraro G., Dottrina della liturgia sui sacramenti della fede, Ed. dehoniane, Roma, 1990, pp. 23-39. Melotti L., Riconosci, cristiano, la tua dignità. Riflessioni teologico-pastorali sul Battesimo, Libreria Editrice Vaticana, 1995. Ruffini E., Il battesimo nello Spirito, Ed. Marietti, Torino, 1975. Sirboni S., Il battesimo. Rito e catechesi, Ed. Opera regalità, Milano, 1986.

J. Llopis

Beatitudini. (inizio)

È beato (in greco: makàrios) colui che è immune da dolori fisici o morali. Nell' Antico Testamento, i macarismi (aere) diventano un genere letterario per esaltare la felicità di chi si suppone felice, Gesù assicura una sorte identica a chi compie il suo progetto di vita. È così affermato dalla tradizione evangelica (Mt 5,3-12; Lc 6,20-33). Può Gesù chiamare felici i poveri, gli affamati, i perseguitati? Una lettura superficiale del vangelo farebbe pensare ad una cosa impossibile. Eppure, guardando le beatitudini con occhio di semita, esse ci invitano a considerare la felicità non come una meta lontana che si brama di raggiungere, ma piuttosto come il piacere che si prova ogni volta che si lotta per raggiungere quello che si desidera. Così, dunque, la felicità, vista in un'ottica semita, si sta costruendo ad ogni momento. In questo caso, Gesù non dichiara felici senz'altro i poveri, ma li invita a lottare per cessare di esserlo. E tanto più accorderanno la loro lotta al progetto di Gesù e tanto maggiore sarà la loro felicità.

Le beatitudini, viste così, diventano uno stimolo affinché il credente, ogni volta che incontra una situazione difficile, lotti coraggiosamente per superarla. Non è solo, ma è sempre guidato dalla luce del vangelo. Facendo così, ogni essere umano raccoglie felicità nella proporzione in cui la sua vita si regge sul parametro indicato da Gesù. Egli consegnò tutto il suo programma etico nel famoso Discorso della Montagna (Mt 5-7). Perciò chi si adegua al programma di Gesù e compie quanto esige il Discorso, può essere certo che diventerà ogni giorno sempre più felice. E, logicamente, la sua felicità si vedrà colmata quando varcherà la soglia dell'al di là. Non per nulla l'annuncio di Gesù conserva sempre una dimensione escatologica. Una simile impostazione, confermata indubbiamente da un'analisi critica dei vangeli, allontana dal cristianesimo ogni aspetto conformista e negligente per esortare invece ad una lotta intrepida per attuare il messaggio di Gesù , anche quando per questo messaggio, occorra affrontare quelli che si fondano sull'egoismo e non sull'amore.

Bibl. - Dupont J., Le Beatitudini, 2 voll., Ed. Paoline, 1972-1977. Léon-Dufour X., Studi sul Vangelo, Roma, 1968. Maggioni B., Il racconto di Matteo, Ed. Cittadella, Assisi, . Ortensio da S., Matteo, Ed. Cittadella, Assisi, . Pikazon J., Leggere Matteo, Torino, 1977. Vattioni F., Beatitudini, povertà, ricchezza, Ed. Ancora, Milano, 1966.

  1. Salas

Bibbia. (inizio)

I cristiani chiamano Bibbia (biblìa = libri) il complesso di scritti dove si ritiene sia riportata la rivelazione diretta da Dio all'umanità col fine cii liberarla dal caos provocato dal peccato e per guidarla verso il fine per cui fu creata. La Bibbia contiene, in realtà, 72 libri di cui 45 appartengono all 'Antico Testamento e 27 al Nuovo Testamento. Questi scritti furono redatti in un periodo di circa Looo anni (secolo IX a.C. - secolo II d.C.). Gli scritti veterotestamentari furono composti per la maggior parte in ebraico, eccetto alcune espressioni di Genesi, Geremia, Esdra (4,7-6.18; 7,11-28); e Daniele (2,4-7.28), la cui lingua originaria fu l'aramaico. Altri libri (Tobia, Giuditta, Siracide, Sapienza, Baruc, 1-2 Maccabei) furono scritti in greco, in seguito all'influsso ellenista iniziatosi nel secolo IV a.C. La letteratura neotestamentaria è stata invece redatta interamente in greco, anche se la critica si interroga sulla possibilità che alcuni vangeli (Mt-Gv) possano essere stati concepiti originariamente in aramaico.

Tutti gli scritti biblici sono ritenuti l'espressione esplicita dei disegni di Dio, poichè Dio ha ispirato i loro autori affinché li scrivessero secondo il suo progetto storico-salvifico. L'ispirazione divina di questi libri sacri e qualcosa che nessun cristiano oserà mai impugnare. Tuttavia, oggi è sempre più valorizzato l'apporto della comunità, in quanto ognuno degli autori sacri era un membro di qualche comunità. Ora, quando si tratta di mettere nello scritto le sue convinzioni storico- salvifiche, l'autore non pote non essere influenzato dai problemi comunitari che egli stesso doveva in qualche modo condividere. Così, gli scritti biblici riflettono non tanto il pensiero di certe persone concrete quanto quello della comunità in cui vivevaano gli autori e che essi in un certo modo rappresentavano.

Siccome la Bibbia riferisce la rivelazione che Dio rivolse all'uomo per liberarlo dal giogo del suo peccato, tanto la religiosità ebraica (A.T.) quanto quella cristiana (A.T. - N.T.) l'hanno ritenuta come il centro nevralgico di tutta la loro religiosità. Ora, noi cristiano riteniamo che i libri sacri contengono, al di là della lettera, un profondo contenuto spirituale che è fonte di vita personale e comunitaria. È chiaro che la vita non deve mai restare rinchiusa nel semplice stampo di alcune lettere scritte. Pertanto si ammette il carattere sacro della tradizione cristiana il cuo obiettivo è quello di rendere vivo il messaggio biblico e applicarlo alle esigenze di ogni epoca.

Il pensiero della tradizione cristiana è entrato nel Magistero ecclesiastico che, attraverso concili regionali o ecumenici e decisioni pontificie, ha inteso rendere in formule concrete tutto il fiume fecondo della tradizione. Questo criterio fu negato fortemente da Lutero e da tutta la tradizione protestante che si aggrappò alla Bibbia come l'unico portavoce dei disegni divini. Ciò ha fatto sì che la lettura della Bibbia si diffuse ampiamente tra i cristiani riformati (protestanti), mentre i cristiani tradizionali (cattolici) si lasciavano guidare dalle direttive del Magistero che si riteneva sempre collegato con la rivelazione biblica. Tuttavia, al giorno d'oggi, si osserva una netta rifioritura all'interno del cattolicesimo. Stimolato dal Concilio Vaticano II, si mostra di nuovo una chiara preoccupazione affinché ogni credente si accosti personalmente al flusso vitale del messaggio biblico. Il Concilio ha insistito affinché anche i semplici fedeli dimostrino un vivo interesse allo studio della Bibbia perché il suo messaggio deve reggere il comportamento esistenziale di ogni credente. Si osserva felicemente in campo cattolico una crescente preoccupazione per lo studio dei testé biblici e soprattutto per la rivelazione neotestamentaria. Questo interesse appare in molti commenti esegetico-teologici che la critica cattolica aveva praticamente dimenticato. Non osava servirsi del contributo dei progressi tecnici e scientifici respinti dal Magistero per il timore che non si accordassero col senso letterale dei testi biblici. Oggi, si vuole uno studio che stia al disopra della lettera e una vita che stia al disopra della storia. Vista così, la Bibbia esige un senso molto più critico, invitando ad un'analisi in cui tutto l'interesse sia centrato sull'essere umano, la cui ansia di realizzazione esistenziale vede come ostacolo la presenza del peccato nelle sue varie manifestazioni (personali-sociali-economiche-politiche).

Bibl. - Conferenza Episcopale Italiana, " La Parola del Signore si diffonda e sia glorificata ", 18 Novembre 1995. Giavini G., Verso la Bibbia e in ascolto del suo messaggio, Ed. Ancora, Milano, . Iersel van B., La Bibbia come libro del popolo di Dio, in: " Concilium ", (1965), pp. 34-48. Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 15 Aprile 1993. Ufficio Catechistico Nazionale, Incontro alla Bibbia, 19 Marzo 1996.

A. Salas

Burocrazia. (inizio)

Il termine burocrazia fu forgiato nel secolo XVIII da Vincent De Gournay combinando la parola francese bureau (luogo di lavoro degli impiegati di un'amministrazione, di un'impresa, ecc.) con la parola greca kràtos, che significa: potere. Di fronte alle tre forme classiche di governo (democrazia, aristocrazia, monarchia), sorse una quarta forma: il potere dei funzionari.

Infatti, quantunque il fenomeno burocratico esistesse già nelle grandi organizzazioni politiche dell'Antichità (l'antico Egitto, la Roma imperiale, ecc.), esso acquistò grande importanza solo quando, duecento anni fa, le monarchie illustri cominciarono ad aumentare i loro apparati amministrativi fino a raggiungere dimensioni impensabili nel passato. Da allora, la crescita è continuata cosicché nello Stato controllore dei nostri tempi, il settore amministrativo ha potuto raggiungere la quinta parte della popolazione attiva.

È bene notare che, sebbene la burocrazia sia un fenomeno caratteristico dell'amministrazione statale, tuttavia non è un suo patrimonio esclusivo: la si trova anche nei partiti politici, nei sindacati, nelle grandi imprese, nelle chiese, ecc.

Le due caratteristiche principali del sistema burocratico sono:

1) Funzioni e procedimenti accuratamente definiti. Ogni sezione è compepetente solo per quel settore che le è stato assegnato. Le altre faccende hanno le loro sezioni corrispondenti, dove il funzionario competente le risolverà secondo un regolamento meticolosamente determinato. L'esistenza di procedimenti fissi e abituali per situazioni che si ripetono in forma periodica richiede che i problemi vengano risolti " senza accezione di persone ". La burocrazia ideale, per usare le parole di Max Weber, è quella che può eliminare dai problemi ufficiali l'amore, l'odio e tutti quegli elementi che sfuggono al calcolo ".

2) Selezione e promozione del personale basate su considerazioni esclusivamente tecniche. L'assunzione del personale con mezzi oggettivi, generalmente prove o esami, così come una garanzia di permanenza nell'incarico e un sistema di avanzamento regolamentato, chiedono che anche ad intra del sistema, vengano ignorate volutamente le simpatie personali o ideologiche suscitate dai burocrati, in modo che rimangano indipendenti di fronte alle fluttuazioni politiche degli alti incarichi.

Nelle burocrazie, appaiono quasi sempre alcuni effetti non previsti, e, naturalmente, non desiderati, che spiegano la cattiva fama di cui godono:

a) mancanza di duttilità per una accentuazione esagerata delle norme. Queste sono necessarie, come abbiamo visto sopra, per assicurare un comportamento uniforme. Però, quando vengono applicate con rigidezza ed inflessibilità, le regole diventano il letto di Procuste che colpisce tutti i casi.

b) Il conservatorismo, o rifiuto miope di qualsiasi cambiamento sociale per il fatto che non è previsto nei regolamenti. Non c'è posto per gli esperimenti in nessuna organizzazione burocratica.

c) Il primato degli interessi personali del burocrate: questi, vedendosi sicuro nel suo ufficio, diventa facilmente pigro nel lavoro e negligente verso il pubblico. Potrà giungere un tempo in cui l'organizzazione cesserà di essere un valore strumentale per diventare un valore finale che sarà intoccabile per gli interessi che si saranno creati attorno ad essa. Si spiega così perché spesso continuano ad esistere ed anche a svilupparsi istituzioni che hanno perduto la loro ragione d'essere. Questo aspetto negativo fu espresso in modo caricaturale dalla legge di Parkinson: " Lo staff burocratico cresce in proporzione inversa al lavoro che c'è da fare ".

Anche quando alcuni, come Alvin Toffler, pensano che nei prossimi venticinque o cinquant'anni assisteremo alla fine della burocrazia per la sua incapacità di adattarsi ai cambiamenti sempre più rapidi del mondo contemporaneo, altri prevedono invece una ipertrofia della burocrazia come conseguenza dell'informatica. Con la microelettronica, potrà aumentare l'insensibilità della burocrazia di fronte ai casi singoli; potranno diminuire le possibilità di stabilire un contatto diretto con gli operatori; potrà esserci un controllo sociale più stretto per l'apparire di depositi di immagazzinamento massiccio di dati in cui basterà premere un bottone per ottenere una quantità enorme di particolari sugli individui.

Bibl. - Ba F., " Burocrazia ", in: Enciclopedia Italiana, Treccani, VIII, 1930, pp. 148-149. Demarchi F., Organizzazione e burocrazia, in: Aa.Vv., Questioni di sociologia, II, Brescia, 1966, pp. 361-420. " Burocrazia ", in: Grande Enciclopedia, IV, De Agostini, Novara, 1989, 456.

L. González-Carvajal

Cambiamento sociale. (inizio)

Si chiama cambiamento sociale la differenza osservata tra la situazione precedente e quella successiva di un sistema sociale. Di fatto, anche la società più immobilista cambia, con la sola differenza che il suo ritmo sembra lento rispetto a quello delle altre. Nel concetto di cambiamento, a differenza di quello di progresso o di quello di regresso, non esiste un riferimento di valutazione. Si può cambiare verso l'avanti o verso l'indietro, verso il meglio o verso il peggio. Però, tutto ciò potrà essere determinato unicamente da criteri assiologici sui quali la sociologia deve tacere.

Ci sono cambiamenti che avvengono all'interno di una struttura sociale e ce ne sono altri che modificano la stessa struttura. Questa distinzione corrisponde approssimativamente a quella stabilita da Kuhn tra i progressi scientifici realizzati all'interno di un determinato paradigma (teoria copernicana, newtoniana, darwiniana, einsteniana, ecc.) e le " rivoluzioni scientifiche " che fanno passare da un paradigma ad un altro.

Oggi, i cambiamenti sociali continuano ad essere abbastanza imprevedibili, e la sociologia è fallita quasi completamente nei suoi intenti di stabilire criteri di previsione. È difficile stare dietro alla costatazione dei cambiamenti. Al massimo, si possono indicare associazioni o correlazioni tra i vari fenomeni e avanzare timidamente alcune probabili tendenze, sempre, però, a breve termine e con una probabilità precaria.

I sociologi non sono concordi nello stabilire qual è " il primo movente " dei cambiamenti sociali. Alcuni sostengono che sono le varianti culturali (così faceva, per esempio, Max Weber nel sostenere che l'etica calvinista era alle origini del capitalismo). Per altri, invece, sono le varianti economiche (è questa la posizione del marxismo). Quantunque ogni situazione sia distinta, generalmente, tutte le varianti si condizionano reciprocamente e sarebbe arbitrario considerarne alcune come cause e le altre come effetti. Tuttavia, per studiarle, è necessario adottare deliberatamente una semplificazione che consiste nel partire da qualche fattore come se fosse la variante indipendente e disporre così di un filo conduttore per studiare il cambiamento delle altre varianti.

I fattori che provocano il cambiamento possono essere interni o esterni al sistema in questione. Il fatto che, generalmente, cambino molto poco i sistemi sociali che rimangono isolati, geograficamente o mentalmente, indica che gli influssi esterni sono molto importanti. Infatti, quando si osservano le differenze esistenti con altri sistemi, molte cose che fino allora erano ritenute naturali e ineludibili cessano di apparire tali.

Esistono anche fattori che ostacolano il cambiamento. Di fatto, ciò che è normale è la lentezza nel cambiamento, mentre è eccezionale la rapidità che si costata oggi in Occidente. Tutti i riformatori sociali potrebbero attestare quante resistenze ebbero da vincere.

Alcune resistenze al cambiamento sono di origine sociale:

1) Le forme culturali integrano e dànno sicurezza al gruppo, manifestano la sua identità di fronte agli altri gruppi, ecc. Costa meno fatica continuare a fare uso delle forme esistenti che non a crearne di nuove.

Inoltre, gli elevati rischi umani che gli esperimenti sociali comportano favoriscono atteggiamenti conservatori.

2) Ogni sistema sociale dà origine ad una serie di interessi creati: specialmente gli individui che hanno raggiunto più potere dentro il sistema sono soliti ostacolare i cambiamenti.

3) Non poche volte la religione ha sacralizzato l'ordine, o il disordine stabilito (però, le religioni possono anche favorite il cambiamento esercitando la funzione profetica).

Altre resistenze al cambiamento si spiegano con la psicologia del comportamento:

1) gli abiti acquisiti risparmiano energia psicologica, in modo che le risposte agli stimoli tendono a seguire più facilmente una via già nota anziché cercarne una nuova.

2) La pressione sociale è spesso molto forte. Qualsiasi deviazione dal codice esistente di norme è punita con l'ostracismo e con la condanna del gruppo.

3) La memoria selettiva porta a dimenticare, se non tutti gli avvenimenti sgradevoli, almeno quelli il cui ricordo ci fa soffrire. In questo modo, il passato appare migliore di quello che fu realmente e questo ci rende restii a cambiarlo.

4) Esiste, infine, un conservatorismo di temperamento: per gli individui insicuri, per esempio, la stabilità dell'ordine sociale costituisce una base per la propria personalità.

Riguardo alle varie resistenze al cambiamento sperimentate dai numerosi sottosistema della società (economia, politica, cultura, religione, ecc.), non tutti cambiano contemporaneamente o con la stessa rapidità. Mentre alcuni evolvono in fretta, altri rimangono indietro. Questa mancanza di sincronia è stata chiamata da Ogburn " cultural lag " (ritardo culturale). Generalmente, gli elementi materiali (tecnologia, procedimento di produzione, ecc.) cambiano più rapidamente di quelli culturali (usanze, religione, ecc.), dando luogo a tensioni sociali per la mancanza di nuove norme dei codici adattate alla nuova situazione.

Bibl. - Bajzek J., " Cambio sociale ", in: Dizionario di Scienze dell'Educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 152-153. Boggia R., Il tempo dell'incertezza, Sperling & Kupfer, Milano, 1992. Crespi F., Evento e struttura. Per una teoria del mutamento sociale, Ed. Il Mulino, Bologna, 1993. Durkhrim E., La divisione del lavoro sociale, Ed. Comunità, Milano, 1962. Jeffrey C.A., Teoria sociologica e mutamento sociale, Ed. Angeli, Milano, 1990. Toscano M.A. (Ed.), Introduzione alla sociologia, Ed. Angeli, Milano, .

L. González-Carvajal

Canto. (inizio)

L'uso del canto nelle celebrazioni liturgiche risale ai primi tempi del cristianesimo, come appare da vari testi neotestamentari: " ... Cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali " (Col 3,16). " Intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore " (Ef 5,19). " Chi è nella gioia salmeggi " (Gc 5,13). Con questo, la Chiesa primitiva seguiva l'usanza del culto ebraico, in cui il canto occupava un posto di primo piano, tanto negli atti rituali del tempio quanto nelle celebrazioni sinagogali e perfino in quelle domestiche.

Di fronte a quelli che ritengono il canto religioso un semplice ornamento, superficiale e secondario della preghiera, e contro quelli che addirittura pensano che possa essere di ostacolo al raccoglimento richiesto da ogni preghiera, la Chiesa ha sempre incoraggiato il canto liturgico. Il Concilio Vaticano II afferma: " Il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della Liturgia solenne " (SC 112). L'introduzione al libro della Liturgia delle ore dice a sua volta: " Nella celebrazione della Liturgia delle Ore il canto, dunque, non si deve considerare come un certo ornamento che si aggiunge alla preghiera quasi dall'esterno, ma piuttosto come qualcosa che scaturisce dal profondo dell'anima che prega e loda Dio e manifesta in modo pieno e perfetto il carattere comunitario del culto cristiano " (Princìpi e Norme per la Liturgia delle Ore, n. 270).

Il canto, infatti, esprime e realizza gli atteggiamenti interni degli oranti; è un linguaggio universale, uno dei segni usati dagli uomini con la massima naturalezza per manifestare i loro dolori e le loro gioie, le loro sconfitte o i loro successi. Il canto ha una forza di espressione che molte volte arriva dove non può arrivare la parola dasola. Inoltre, il canto dice non solo quello che si sente, ma nutre anche l'atteggiamento spirituale che è la fonte di tutti i sentimenti. Il canto favorisce anche l'unanimità di coloro che cantano e, in questo modo, contribuisce a fare comunità e a rafforzare i vincoli che legano i membri di un gruppo. Il canto crea un'atmosfera di sintonia; è un segno di solidarietà e di comunione che varca le barriere dell'età e delle culture. Il Concilio Vaticano II dice che le finalità della " Musica sacra " sono principalmente due: esprimere più dolcemente la preghiera e favorire l'unanimità dei partecipanti alle azioni liturgiche (cf SC 112).

Quantunque si possa cantare in qualsiasi celebrazione liturgica, è tuttavia nella Messa e nella Liturgia delle Ore che il canto è soprattutto usato. Non tutti i canti hanno la stessa importanza: alcuni hanno un valore in se stessi (il sanctus della Messa, il salmo responsoriale, i salmi e i cantici della Liturgia delle Ore, ecc.); altri canti, invece, servono solo per accompagnare un'azione liturgica (le antifone d'ingresso, di offertorio e di comunione, l'Agnus Dei). Un caso speciale è costituito dal canto delle letture e delle orazioni solenni. Nell'antichità, questo era il modo normale di leggere e di proclamare a voce alta. Oggi, il canto può essere sostituito da una lettura semplice, potenziata, se è il caso, da sistemi di altoparlanti.

Riguardo al testo dei canti, la tradizione attribuisce una grande importanza a quelli che sono tratti direttamente dalla Bibbia (soprattutto i Salmi). Non si escludono, però, altre composizioni (inni, antifone, responsori, ecc.) sia antiche che moderne purché esprimano un vero senso liturgico (cf SC 121). Si possono ritenere forme di canto liturgico anche le brevi acclamazioni con cui l'assemblea risponde al saluto dei ministri o manifesta la sua adesione alla Parola di Dio o ratifica le orazioni del presidente. L'acclamazione più importante è l'Amen che dalla liturgia ebraica passò senza essere tradotta nel Nuovo Testamento e si trova in tutte le liturgie cristiane.

Bibl. - Aa.Vv., La musica nel rinnovamento liturgico, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1966. Costa E. jr. " Canto e musica ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 198-219. Gelineau J., Canto e musica nel culto cristiano, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1963. Idem, Evoluzione verso forme nuove nel canto e nella musica liturgica, in: " Concilium ", 2(1970), pp. 52-64. Stefani G., L'espressione vocale e musicale nella liturgia, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1967.

J. Llopis

Capitalismo. (inizio)

Il capitalismo è un sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, e, pertanto, sulla separazione tra il capitale e il lavoro (alcuni sono i padroni dei mezzi di produzione e gli altri lavorano per loro). Il capitalismo moderno nacque con la rivoluzione industriale. Prima, qualsiasi artigiano poteva essere il proprietario degli arnesi che usava, ma non fu più così quando questi furono sostituiti da macchine costose. Il primo capitalismo riteneva che gli agenti economici dovevano agire in quanto mossi esclusivamente dalla preoccupazione del lucro, perché una " mano invisibile " (Adam Smith: 1723-1790) farebbe confluire i molteplici comportamenti egoistici verso il conseguimento del bene comune. Lo Stato, conseguentemente, non doveva affatto intervenire nell'economia. Il fisiocrate francese Gournay (1712-1759) forgiò la formula famosa: laissez faire, laissez passer (lasciate fare, lasciate passare). Si confidava ciecamente che il mercato, con le leggi dell'offerta e domanda, bastasse per regolare l'economia (legge di Say). Tuttavia, appariva sempre più evidente che la " mano invisibile " di Adam Smith non funzionava, e il laissez faire dei liberali significava in ultima analisi: laissez mourir (lasciate morire). Lo sfruttamento dei lavoratori raggiunse livelli incredibili. I fanciulli di otto anni lavoravano più di undici ore al giorno nelle miniere. Toynbee dimostrò che il salario medio di un operaio inglese nel 1840 era di otto scellini settimanali, mentre per vivere, gliene occorrevano 14. La differenza doveva essere compensata con l'accattonaggio, il furto o la prostituzione.

Leone XIII scrisse nel 1891 che, a causa del " monopolio della produzione..., un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all'infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile " (Enciclica Rerum novarum, n. 2).

Durante la Grande Crisi degli anni '30, il pessimo funzionamento della " mano invisibile " apparve così chiaro che, seguendo i consigli dell'economista inglese John Maynard Keynes (1883-1946), gli Stati decisero di intervenire nell'economia. Ciò avvenne prima mediante le politiche monetarie a cui presto si aggiunsero le leggi sul lavoro, gli investimenti pubblici, le politiche ridistributive dei redditi, ecc. Nacque così il capitalismo avanzato, o " economia sociale di mercato " che produsse, dopo la Seconda Guerra Mondiale, alcuni anni di notevole prosperità (vedi: Società dei consumi). Ciò nonostante, i cosiddetti Stati del benessere si trovano di fronte ad una aporia: da una parte, si continua a dare come scontato che il lucro è il motore dell'economia ma, d'altra parte, lo Stato ha bisogno di colpire i benefici con forti imposte per finanziare il suo crescente interventismo, e così, l'iniziativa privata viene demotivata.

In questi ultimi anni, assistiamo ancora una volta ad un risalire dei cosiddetti neoliberali (Scuola di Chicago con Milton Friedman, la Scuola austriaca con Friedrich Hayek, ecc.) che, con lo slogan che il governo migliore è quello che governa di meno, rivendicano la maggior libertà possibile per i vari agenti economici. È bene ricordare qui, col P. Lacordaire che, " tra il ricco ed il povero, tra il forte ed il debole, la libertà schiavizza, mentre la legge libera ".

Giovanni Paolo II ha criticato fortemente l'essenza stessa del sistema capitalista perché contraddice " il principio della priorità del "lavoro" nei confronti del "capitale"" (Enciclica Laborem exercens, n. 12). Ciò significa: contraddice " il primato dell'uomo di fronte alle cose " (ibidem). Basta osservare, infatti, con quale naturalezza affermiamo che il capitale (le cose) " impiega " il lavoro (le persone). Siamo di fronte ad una novità importante nella dottrina sociale della Chiesa, perché fino adesso non si era mai condannato l'essenza del capitalismo, ma soltanto i suoi eccessi, come fece per esempio, Pio XI nell'enciclica Quadragesimo Anno, in cui, tra l'altro, condannò gli abusi della libera concorrenza e dell'egemonia economica (cf nn. 37-42). Secondo Giovanni Paolo II, " retto, cioè conforme all'essenza stessa del problema; retto, cioè intrinsecamente vero e al tempo stesso moralmente legittimo, può essere quel sistema di lavoro che alle sue stesse basi supera l'antinomia tra lavoro e capitale " (Laborem exercens, n. 13). Ciò sarà possibile solo quando i lavoratori controlleranno i loro mezzi di produzione. Questo non avviene oggi né nel capitalismo, né nel collettivismo.

Il capitalismo, oltre ad essere un sistema di produzione, ha generato un suo stilè di vita che potremmo chiamare capitalista-borghese. Tra le sue caratteristiche, vanno ricordate:

a) la laboriosità: l'attività economica dell'uomo pre-capitalista era caratterizzata da un ritmo lento, e la minima occasione di " riposo " era benevenuta. Benjamin Franklin, invece, forgiò l'espressione: " il tempo è denaro ", con cui va identificato l'uomo moderno.

b) La " mamonificazione " della vita (Werner Sombart): prendendo il lucro come movente dell'economia, la valutazione del denaro nella società borghese, più che in qualsiasi altra, è giunta a rivestire caratteri di idolatria. È superfluo dire che, là dove tutti gli altri ideali si riducono a guadagnare di più, appare un mondo profondamente anti-eroico. Come ha scritto Schumpeter, " la Borsa è un povero sostituto del Santo Graal ".

c) L'individualismo. Di fronte all'economia medievale, basata su uno spirito di collaborazione che operava attraverso le corporazioni, il capitalismo invitò ognuno a cercare esclusivamente i propri interessi, lasciando alla " mano invisibile " il compito di perseguire il bene comune. Questo individualismo si è esteso a macchia d'olio dal campo economico a tutti gli altri (politico, religioso, ecc.).

Bibl. - Dobb M., Economia politica e capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1972. Gatti G., " Capitalismo ", in: Dizionario di Scienze dell'Educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 155- 156. Giovanni Paolo II, Enciclica " Laborem exercens ", 14.9.1981. Schumpeter J.A., Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas-Kompas, Milano, 1967. Sweezy P.M., La teoria dello sviluppo capitalistico, Bollati Boringhieri, Torino, 1970.

L. González-Carvajal

Carisma. (inizio)

Il termine greco kàrisma significa: " dono ", " regalo " (1 Cor 12,27-31); è l'equivalente di " grazia " (Rm 1,5), di " elargizione " (Ef 4,7.11) e di " chiamata ", " vocazione " (Rm 1,1). Praticamente, è sinonimo di " funzioni " e di " attività " (1 Cor 12,4-6). I carismi sono perciò gli effetti dello Spirito di Dio nel credente singolo; l'uomo non li può mai pretendere; non possono essere previsti dagli organi ufficiali della Chiesa; non si possono acquistare con la recezione dei sacramenti. Nel suo senso proprio, il carisma può essere definito come la vocazione continua concreta (abbraccia il tempo e l'eternità) che si attua nella comunità cristiana, la costituisce e la edifica in maniera permanente ed è a servizio del prossimo nell'amore. I principali carismi sono gli apostoli (1 Cor 12,28-29; Ef 4,11; cf Rm 1,1; 1 Cor 1,1), i profeti, che con l'apostolato sono i carismi più importanti (1 Cor 12,28; Ef 2,20; 3,5), i dottori (1 Cor 12,28-29) che erano i teologi della Chiesa primitiva, gli evangelisti (At 21,8; Ef 4,11; 2 Tm 4,5), i pastori (Ef 4,11). Tutto ciò significa che non si deve intendere la Chiesa come una realtà complessa, costituita da due strutture: quella carismatica, da una parte e quella ministeriale o istituzionale dall'altra. Ancor meno si deve pensare che queste due strutture siano in contrasto l'una con l'altra. Tutto nella Chiesa è anche istituzionale, e tutto in essa è carismatico. Cioè, l'istituzione deve essere attenta al carisma, per rispettarlo e favorirlo, perché nel carisma si rende presente l'azione dello Spirito Santo nella Chiesa. Essendo le sue forme imprevedibili, il carisma va scoperto e accettato sempre. Questo richiede un'azione delicata di discernimento e di ascolto dello Spirito nella comunità ecclesiale. Questo, inoltre, vuol dire che la novità di un carisma (per esempio, l'irruzione della Chiesa dei poveri) non deve pretendere di essere un argomento contro l'ecclesialità di questo carisma. Il carisma sorprende quasi sempre e alle volte può sembrare scandaloso. Non per questo, però, dobbiamo negare che provenga dallo Spirito di Dio: Egli, in questo modo, chiama sempre la sua Chiesa ad un continuo rinnovamento.

Bibl. - Hasenhüttl G., Carisma, Principio fondamentale per l'ordinamento della Chiesa, Ed. dehoniane, Bologna, 1973. Léon-Dufour X., " Carismi ", in: Dizionario di teologia biblica, Ed. Marietti, Casale M., 1965, coll. 122-126. Rahner K., " Carisma ", in: Sacramentum mundi, II, Ed. Morcelliana, Brescia, 1974, coll. 45-52. Sartori L., " Carismi ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 79-98. Schnackenburg R., La Chiesa del Nuovo Testamento, Brescia, .

J.M. Castillo

Caritas. (inizio)

I cristiani devono testimoniare la carità della Chiesa, che proviene dalla carità di Cristo, come comunità di amore. I cristiani non fanno ciò unicamente perchè è necessario, ma per il comandamento del Signore.

Lungo i secoli, la Chiesa ha esercitato la sua funzione pastorale caritativa in maniere molto differenti. Il primo aiuto caritativo cristiano nacque insieme all'Eucaristia (AA 8). Gli Apostoli istituirono presto i diaconi come aiutanti del servizio all'altare e ai poveri, cioè, al servizio della doppia mensa. La carità non rimase, però, limitata alla propria comunità, ma per mezzo delle collette, aiutò anche altre Chiese o comunità povere (Rm 15,25 ss; 2 Cor 8,2 ss; 9,1 ss). Questa carità, intesa come un servizio sociale, fondata sulla diaconia del Signore e del suo Regno, e che fa parte della liturgia domenicale, è una testimonianza della Chiesa primitiva e comprende anche i pagani.

Nell'epoca patristica, nacquero le prime case cristiane destinate alla carità verso gli infermi e pellegrini. Nel secolo V, apparve la prima organizzazione caritativa parrocchiale, che decadde nel secolo VIII. I signori feudali, le confraternite e le corporazioni si occuparono del servizio caritativo e, a partire dal secolo XII, accettarono questo compito gli organismi civili, ma aiutati dagli ordini religiosi e dalle comunità cristiane. Nel secolo XVIII, fu decisiva la fondazione delle confraternite della carità per opera di san Vincenzo de' Paoli. La Rivoluzione francese e la secolarizzazione successiva resero difficile il buon andamento delle organizzazioni caritative cristiane, anche se, d'altra parte, diedero l'occasione alla società civile di responsabilizzarsi sui servizi sociali, che premevano col sorgere dell'èra industriale e con l'espansione delle grandi città. La carità isolata e paternalista è decadente nel nostro secolo. È necessario dare alla carità un senso sociale.

Nel mondo d'oggi, la carità si è socializzata: non bastano gli sforzi individuali. Gli aiuti si compiono con le istituzioni permanenti, organizzate, con sovvenzioni varie. Anche il servizio sociale è diventato una professione. gel caso dei cristiani, ci vuole l'amore di Dio e del prossimo, la carità.

A livello strutturale e organizzativo, è necessario che si ristabilisca per tutti un sistema di previdenza sociale. Fondamentalmente, questo spetta all'autorità pubblica. Nello stesso tempo, ci deve essere un servizio sociale. La necessità riguarda la persona intera. Per questo motivo, il servizio dipende dall'immagine di uomo che uno si fa. È questo il senso che la Caritas cerca di approfondire in quanto organizzazione cattolica destinata a praticare l'amore di Dio attraverso l'amore fraterno.

La Caritas spagnola nacque nel 1942 sotto la denominazione di Segretariato nazionale di Carità e fu eretta canonicamente nel 1960 come ente benefico-sociale della Chiesa in Spagna. Inizialmente, l'obiettivo della Caritas era basato sulla beneficenza e sull'assistenza. Oggi, si intende per Caritas l'istituzione che cerca di portare avanti il compito di condividere quello che la comunità cristiana possiede come risposta alla povertà e all'emarginazione d'oggi. Riguardo all'azione sociale, la Caritas è una istituzione di servizio in rapporto con la politica del benessere. Evidentemente, l'azione sociale di fronte alla necessità sociali è competenza degli organismi statali, mediante una pianificazione democratica e partecipata per sradicare l'emarginazione delle persone e delle collettività sociali. Nonostante tutto, sono necessarie certe istituzioni caritative di iniziative sociali, come è il caso della Caritas, a causa della richiesta di aiuti immediati ed urgenti. L'assistenza continua ad essere necessaria, anche se va inserita in un progetto ed in un servizio che vada alla radice del problema e che affronti la situazione collettiva attraverso il caso singolo.

Bibl. - Ranci Ortigosa E., Benessere e sicurezza sociale, in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 94-104. Reisch E., " Carità, pratica della ", in: Sacramentum mundi, 2, Ed. Morcelliana, Brescia, 1974, coll. 52-63. Zanetti C., Dinamismo dell'amore nella relazione di servizio, Milano, 1969.

C. Floristán

Catechesi. (inizio)

Il sostantivo catechesi non si trova nel Nuovo Testamento. È un termine che è stato elaborato più tardi (probabilmente nel secolo II), dal verbo katekèin. Questo verbo si trova nel N.T. col significato di informare, istruire... (cf At 21,21.24; 18,25; 1 Cor 14,19...). È un verbo usato all'interno di un contesto significativo in cui ne appaiono altri, come insegnare (didàskein), trasmettere (paradidònai), conversare (omilèin)... L'alternanza di katekèin con questi verbi ci dà un primo orientamento sul significato cristiano di catechesi. Infatti, tutti questi verbi sono riferiti a persone che hanno aderito al messaggio cristiano. Non si tratta di persone che, per la prima volta, vengono a contatto con la Parola viva di Dio, che è Gesù Cristo. Quando si tratta di questi ultimi destinatari, il N.T. ricorre ad altri verbi, come: evangelizzare, annunciare, proclamare, dare testimonianza...

Lungo i secoli, la Chiesa ha saputo distinguere e rispettare sempre nella teoria e abbastanza spesso anche nella pratica la differenza tra l'annuncio di Gesù Cristo ai non cristiani e la presentazione del Signore ai credenti cristiani.

Similmente, la Chiesa ha cercato in tutti i tempi di distinguere la catechesi da qualsiasi altra attività svolta all'interno della comunità cristiana.

Quali sono le note specifiche della catechesi? Possiamo condensarle in questa formula: la catechesi è l'iniziazione orale congiunta e ordinata a tutti gli aspetti della vita cristiana che deve conoscere il credente che ha aderito a Gesù Cristo.

Le ultime parole ( "che deve conoscere il credente che ha aderito a Gesù Cristo ") segnano la distanza netta che esiste rispetto ai destinatari della prima predicazione (i non cristiani) e la seconda predicazione (i credenti cristiani) a cui è rivolta la catechesi.

Con le parole " a tutti gli aspetti della vita cristiana ", si indica lo schema universale dei campi presi in considerazione dalla catechesi. Mediante la catechesi, il cristiano principiante è introdotto nella conoscenza dei misteri della salvezza, delle celebrazioni liturgiche e dello stile di vita individuale e sociale che deve caratterizzare la comunità dei credenti in Gesù Cristo.

Ricordiamo a questo riguardo la struttura di qualsiasi catechismo. Nei catechismi appaiono sempre, con queste od altre espressioni, queste tre parti: ciò che il cristiano crede (dogma), ciò che spera (culto), e ciò che compie (morale). Come si vede, si tratta di un orizzonte completo, universale, tridimensionale, che abbraccia tutti gli ambiti della vita.

Questa ampiezza integrale di visuali distingue la catechesi da altre attività intraecclesiali che si fissano unicamente in una delle dimensioni dell'esistenza umana, e non nelle tre congiuntamente come fa la catechesi. In questo modo, non si può considerare propriamente come catechesi un corso di teologia fondamentale che cerca prima di tutto di rendere ragione della nostra religione; neanche le riunioni di preghiera che attendono preferibilmente alla dimensione cultica della vita; né la campagna assistenziale contro la fame che risponde direttamente ad una esigenza della vita sociale.

Ampiezza non è, però, sinonimo di approfondimento. Nella catechesi, la cui ampiezza è totale, non si approfondiscono le tre suddette dimensioni (conoscitiva, cultica e prassica) oltre il livello elementare. La catechesi si limita ad iniziare oralmente, a situare fondamentalmente il catechizzando in queste tre dimensioni.

Tenendo conto del grado elementare di approfondimento che la catechesi comporta, non dobbiamo confonderla con altre modalità di educazione della fede che, in maniera globale o unidimensionale, superano di gran lunga le esigenze fondamentali del cristiano. Ecco alcuni esempi di queste modalità che non devono essere identificate con la catechesi: l'insegnamento teologico (dogma), la pratica devozionale del sacramento della riconciliazione (culto), l'impegno missionario (morale)...

Infine, la catechesi è una iniziazione orale congiunta e ordinata. Tutti i catecheti sono d'accordo sul carattere sistematico che deve apparire in campo catechistico. Sono, però, divisi sul criterio che deve guidare l'ordine espositivo del messaggio cristiano.

Ce ne sono che sostengono un ordine articolato seguendo la norma dottrinale. I catechismi costituiscono un ricco campionario di questo tipo di catechesi marcatamente dogmatico, intellettuale.

Altri propendono per una strutturazione catechistica in funzione della realtà simbolica della liturgia. I vari sacramenti diventano così la fonte ed il culmine dell'azione catechistica. Il risultato è una catechesi dal colore cultico, contemplativo, mistico, che si vive in molte nostre parrocchie.

Altri catecheti prendono come criterio ordinatore del processo catechistico la vita di Gesù, i suoi atteggiamenti e le sue azioni.

Questo tipo di catechesi - catechesi testimoniale, storica, prassica trova la sua giustificazione più convincente negli stessi vangeli canonici. In primo luogo, la semplice esistenza dei vangeli ha come causa generante la vita di Gesù. I vangeli riferiscono l'esperienza umana di Gesù di Nazaret. Le confessioni di fede e il culto eucaristico e sacramentale che si trovano nei vangeli sgorgarono dalla vita, morte e risurrezione esistenziali di Gesù. In secondo luogo, da un punto di vista formale, la vita di Gesù è anche il perno ordinatore di quanto Dio ci comunica nei vangeli. Lo schema redazionale dei vangeli si attiene allo schema narrativo della biografia del Figlio di Maria.

Nella catechesi del nostro tempo di netta e progressiva secolarizzazione, si sente più che mai la necessità di sistemare la catechesi partendo dal nucleo testimoniale dell'esperienza umana di Gesù, subordinando ad essa le ineludibili esigenze dottrinali e sacramentali. Si osserva anche al giorno d'oggi più che nel passato che il carattere testimonale cristiano, che abbiamo sottolineato come il massimo criterio ordinatore della catechesi, si affaccia come interpellante negli altri elementi, oltre all'elemento già segnalato della programmazione del piano di studio, che intervengono nel processo catechistico. Così, per esempio, si insiste sull'importanza che hanno per i catechizzandi il riferimento e la partecipazione graduale in comunità che vivono veramente la fede cristiana in pienezza. Similmente, il senso globale della vita ed il comportamento concreto dei catechisti hanno un'incidenza di dimensioni colossali nella formazione dei catechizzandi. Nei riguardi degli stessi catechizzandi, non si parla tanto di insegnamento, di dottrina... quanto piuttosto di iniziazione, di formazione, di educazione, di progressi del cristiano novizio nella fede: sono tutte espressioni che Ci fanno subito pensare ad un rinnovamento totale della persona e della vita dei catechizzandi...

Bibl. - Alberich E., " Catechesi ", in: Dizionario di catechetica, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 104-108. Idem, Catechesi e prassi ecclesiale, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1982. Audinet J, " Catechesi, Catechismo, Catechetica ", in: Sacramentum mundi, 2, Ed. Morcelliana, Brescia, 1974, 71-82. Giovanni Paolo II, Catechesi tradendae, Esortazione Apostolica (16.10.1979). Puccinelli M., La catechesi nel nostro tempo, Ed. AVE, Roma, 1980. Riva S., Corso di catechetica, Ed. Queriniana, Brescia, 1982. Van Caster M., Le strutture della catechesi, Ed. Paoline, Roma, 1971.

E. Malvido

Catechetica. (inizio)

La catechetica è la riflessione rigorosa e sistematica sulla prassi catechetica. È la scienza della catechesi.

Come la catechesi risponde alla dimensione profetica della missione della Chiesa (distinta dalla sua dimensione realizzatrice-caritativa e dalla sua dimensione contemplativa-liturgica), la catechetica si inserisce nel settore profetico della teologia pastorale.

Sullo sfondo della teologia pastorale, è soggiacente la preoccupazione di attualizzare per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi la manifestazione di Dio nella figura e nell'opera di Gesù Cristo. La teologia pastorale aggiunge alla fedeltà al Dio di Gesù Cristo (propria della teologia in genere) la fedeltà all'uomo. Teologia e antropologia sono termini costitutivi e correlativi della teologia pastorale. Entrambi i termini appaiono come essenziali e intimamente intrecciati nella funzione profetica che è portata avanti dalla catechetica.

L'antropologia fenomenologica (il modo di essere e di esprimersi degli uomini lungo i secoli) è, all'interno della catechetica, molto più di un elemento decorativo o di un motivo utile per destare l'interesse di quelli che ascoltano la parola di Dio. È il polo correlativo della rivelazione di Dio avvenuta mediante Gesù Cristo.

Al giorno d'oggi, l'antropologia si è talmente sviluppata e resa autonoma che si ripercuote profondamente nel dialogo teologia- antropologia. Il sorgere recente della cultura secolarizzata ha permesso agli studiosi di impostare gli obiettivi e gli elementi che intervengono nella catechesi (natura, contenuto, metodologia, attori, destinatari...) con la profondità, ampiezza e coerenza che sono specifiche di ogni scienza. Non c'è, perciò, nulla di strano che la catechetica come scienza della catechesi sia spuntata in questo secolo XX, dotata dalla scienza e dalla tecnica di un meraviglioso e progressivo antropocentrismo.

Bibl. - Gevaert J., Studiare catechetica, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1983. Gruppo italiano catecheti, La catechetica: identità e compiti, Udine, 1977. Idem, Teologia e catechesi in dialogo, Ed. dehoniane, Bologna, 1979. Riva S., Corso di catechetica, Ed. Queriniana, Brescia, 1982. Schilling H., Teologia e scienze dell'educazione, Armando, Roma, 1974. Stachel G., " Catechetica ", in: Dizionario di catechetica, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 110-111.

E. Malvido

Catechismo. (inizio)

Il cambiamento storico subìto dalla società europea alla fine del Medieovo, l'ignoranza religiosa della grande maggioranza dei cristiani e i problemi suscitati dalla Riforma protestante hanno costretto la Chiesa Cattolica a rivedere la sua azione nel campo dell'educazione alla fede.

A quel tempo e come frutto di questa situazione va collocata la nascita del catechismo come libro che garantisca l'apprendimento delle " verità che dobbiamo credere, dei comandamenti che dobbiamo praticare e dei mezzi che dobbiamo usare, i sacramenti, per salvarci ". Questi catechismi sono dei " compendi brevi e concisi della dottrina cristiana, composti per i semplici fedeli e per la gioventù ". Il catechismo come istituzione, è il luogo dove le persone ignoranti e semplici (soprattutto i bambini) sono istruite in modo sistematico negli " elementi della fede e nell'obbedienza che devono ai loro genitori ".

Il catechismo come testo e come istituzione, sarà una delle arme principali del cattolicesimo per l'urgente rinnovamento ecclesiale intrapreso dal Concilio di Trento. Siccome la cristianità cattolica si sentiva minacciata nella sua fede, gli sforzi sembravano sempre pochi per difendere la purezza dottrinale e l'ortodossia più rigida. Una catechesi sistematica e dottrinale necessita di un testo in cui si trovi " quanto è necessario sapere per conseguire la salvezza ", Ora, un testo ha bisogno di un ambiente che assicuri alcuni strutture e alcuni metodi per la sua trasmissione. Frutto di questi sforzi sono i catechismi che condizioneranno il " genere letterario catechetico " per i secoli successivi, il XVI e il XVII: Canisio, Bellarmino, Romano, Ripalda, Astete, ecc... L'insegnamento del catechismo verrà impartito specialmente ai bambini da parte di ecclesiastici, all'interno dell'ambito parrocchiale. In quei tempi di intensa preoccupazione, si affaccia il desiderio di un catechismo universale. Rispondono in parte a questo desiderio il catechismo del Canisio e il Catechismo Romano.

I secoli XVIII, XIX e gli inizi del secolo XX sono il periodo dello splendore del catechismo. Predomina il catechismo dottrinale sistematico e apologetico. La neo-scolastica rafforza la struttura e i contenuti dei catechismi dottrinali. La situazione politica, sociale e religiosa del secolo XIX costringe la Chiesa Cattolica a rafforzare le fila offrendo a tutti i suoi membri una formazione solida, senza lacune, che permetta loro di ribattere gli errori del secolo malvagio. Le opere più significative di questa tendenza sono per il secolo XVIII il catechismo di Mons. Casati, vescovo di Mondovì (1765), e, per il secolo XIX, il Grande Catechismo Cattolico di J. Deharbe (1844-1847). In Spagna, seguono la stessa linea i catechismi di García Mazo, Claret e Osso. La linea predominante e vincente è quella precedente. Tuttavia, durante i secoli XVIII e XIX, esistono alcuni tentativi di rinnovamento e di ritorno al carattere storico nel concepire e nel presentare tutto il messaggio rivelato. In questa corrente rinnovatrice, vanno situati il Catechismo storico del Fleury (secolo XVIII), la Catechetica di J.B. Hirscher e la Catechesi biblica di J.M. Sailer (secolo XIX). Questi tentativi vennero, però, dimenticati e scartati con l'avvento, l'appoggio e il trionfo della corrente neo-scolastica. Il Concilio Vaticano I sostenne il desiderio di un catechismo unico ed universale, ma si imposero le esigenze nazionali. Questo Concilio si conformò con l'unificazione dei testi di ogni nazione.

Questa linea tradizionale e neo-scolastica sopravvisse fino alla metà del secolo XX. In Italia, i catechismi di san Pio X (1905 e 1912), di Gasparri (1930) e i catechismi unificati di alcuni paesi stanno ad attestarlo.

Prima del 1930, c'è il terzo tentativo di imporre un catechismo universale e si lavora attorno ad esso dal 1916 al 1929. Il progetto non è, però, accettato e lo si sospende indeterminatamente.

In un primo tempo, anche il movimento catechetico rinnovatore del secolo XX si preoccupa di cambiare i metodi, ma i contenuti rimangono ancorati nel passato. Il metodo di Monaco di Baviera usato in catechesi da H. Stieglitz, Quinet, Boyer, Llorente, ecc., ne è un esempio.

La linea rinnovatrice che si profilava nei secoli XVIII e XIX (Fleury, Hirscher, Sailer) viene a galla con la catechesi kerigmatica (Jungmann, i teologi di Innsbruck, Arnold, Colomb, ecc.). Il kerigma apostolico passa in primo piano nella catechesi. I contenuti sono il motore del rinnovamento kerigmatico. Il Catechismo Cattolico (Germania, 1955) e i catechismi nazionali che sorgono tra queste date e il 1970 sono i suoi frutti più maturi. Un tentativo originale è il Catechismo olandese (1966), in quanto è stato il primo catechismo che si è rivolto direttamente agli adulti.

Oggi, la catechesi ha accettato l'esperienza umana come fatto fondamentale per ogni svolgimento catechistico. L'esperienza dell'uomo non è soltanto una motivazione, ma è il luogo teologico per eccellenza. Tuttavia, non sono apparsi catechismi che seguano questa linea, eccetto il catechismo spagnolo Sta con voi (1976).

Dopo il Sinodo sulla catechesi (1976) e l'esortazione Apostolica Catechesi tradendae (1979), le varie Conferenze Episcopali vanno rifornendo di testi vari gli ambienti tradizionali di evangelizzazione: la parrocchia e la scuola. In Spagna, i catechismi della comunità: Padre nostro, Gesù il Signore (1982), Questa è la nostra fede (1986) e i catechismi per le scuole Religione e morale cattolica (8 catechismi, 1980-1985).

Dopo il Sinodo del 1985, si è dato l'avvio al Catechismo della Chiesa Cattolica, catechismo unico ed universale, edito nel 1993.

Bibl. - Alberich E., " Catechesi ", in: Dizionario di Pastorale giovanile, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 121-129. Babin P., I giovani e la fede, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1967. Grom B., Metodi per l'insegnamento della religione, la pastorale giovanile e la formazione degli adulti, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1981. Jungmann J.A., Catechetica, Ed. Paoline, Alba, . Nosiglia C., Catechismi italiani, in: Dizionario di Catechetica, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 113- 116.

Per la Chiesa in Italia, merita di essere ricordato il recente Catechismo degli Adulti: " La verità vi farà liberi ", Conferenza Episcopale Italiana, 16 Aprile 1995, e Il Catechismo dei giovani2: " Venite e vedrete ", CEI, 30.3.1997 (N.d.T.).

A. Pérez Urros

Catechista. (inizio)

La missione della Chiesa consiste nell'annunciare, vivere e celebrare la Parola di Dio. Tutta la comunità ecclesiale si riconosce mandata e, a sua volta, manda i suoi membri per comunicare al mondo la parola come lieto annuncio di salvezza.

Per compiere questa missione evangelizzatrice, la Chiesa ha un punto di riferimento: Gesù , " che non è venuto per essere servito, ma per servire... " (Mt 20,28).

La catechesi è intimamente legata con la missione evangelizzatrice della Chiesa. Radicata in questa vocazione ecclesiale, la catechesi si identifica come un servizio specifico che la comunità compie tra i suoi membri con l'intento di iniziare, abilitare e consolidare la fede nata dall'ascolto della parola. Mediante questa azione educativa, la catechesi inizia alla vita comunitaria della Chiesa coloro che intendono abbracciare il cristianesimo. Come dice il Concilio: " ... siano convenientemente iniziati al mistero della salvezza ed alla pratica delle norme evangeliche, e mediante dei riti sacri, da celebrare successivamente, siano introdotti nella vita religiosa, liturgica e caritativa del Popolo di Dio " (AG 14). " È altresì necessario che essi imparino a cooperare attivamente all'evangelizzazione ed alla edificazione della Chiesa con la testimonianza della vita e con la professione della fede " (AG 14). La catechesi deve preoccuparsi di non omettere " alcune realtà, quali l'azione dell'uomo per la sua liberazione integrale, la ricerca di una società più solidale e fraterna, le lotte per la giustizia e per la costruzione della pace " (Catechesi tradendae, n. 29). Questo modo di intendere la catechesi permette di delineare i tratti di quelle persone che si accingono ad esercitare questo servizio ecclesiale.

L'identità del catechista esige innanzitutto uno stampo comunitario. Occorre la convinzione ohe la comunità ecclesiale è il soggetto, l'origine e la mèta della catechesi. Essa è la promotrice dei carismi, la prima responsabile dell'educazione dei suoi membri, quella che deve discernere la vocazione di tutti coloro che si sentono chiamati. Spetta ad essa inviare i più idonei ad essere servitori della parola.

Lo stampo comunitario è dunque la base su cui comincia a delinearsi la personalità specifica del catechista.

Personalità credente, perché l'azione catechetica è espressione di una fede assunta e tradotta in atteggiamenti. Essere catechista vuol dire assumere la fede in modo tale che configuri la propria personalità, che dia senso alla sua vita e gli permetta una determinata visione dell'uomo, del mondo e della storia in chiave cristiana.

Questa personalità credente implica un profondo senso ecclesiale che connetta la sua vocazione con la missione evangelizzatrice della Chiesa.

Come educatore, il catechista esprime con la vita che cosa vuol dire credere oggi. Per questo, si esige da lui profondità e sensibilità per assimilare tutto l'umano, sapendo integrare contemplazione e impegno.

I compiti specifici del catechista come servitore della parola. Il catechista conosce a fondo il compito fondamentale della Chiesa e la specificità della catechesi. È anche consapevole di essere inviato e portavoce della comunità ecclesiale. Il suo compito consiste nel trasmettere la fede della Chiesa, nel farla risuonare in modo significativo nella storia del gruppo e di ogni catecumeno. Egli è il testimone della tradizione viva del popolo di Dio: " Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto " (1 Cor 15,2). Questo vincola la sua testimonianza alla fede del popolo di Dio. Il catechista non si limita a trasmettere la sua fede, ma inizia, orienta e arricchisce il dialogo e l'incontro di Dio con il suo popolo.

Il catechista è il portavoce della parola, fatta vita e storia nella comunità concreta. Così, quando attraverso la sua azione educativa, egli introduce nella parola, introduce nella vita della comunità; quando inizia alla fede, inizia ai valori e agli atteggiamenti comunitari.

Il catechista va inteso anche come mediatore tra la fede della Chiesa e i catecumeni. Egli non inventa la fede, ma la riceve gratuitamente da quelli che lo precedono. Il suo compito sta nell'attualizzarla nell'atto stesso della trasmissione. Egli è il rappresentante del noi ecclesiale. Il suo tratto caratteristico è quello comunitario. La sua vocazione dipende dal ministero apostolico. Il suo servizio specifico è quello di ascoltare e accogliere la parola nella sua vita, viverla e trasmetterla attraverso i vari linguaggi che ne permettono la comprensione e l'assimilazione.

Bibl. - Gruppo Italiano Catecheti, La formazione dei catechisti, Ed. dehoniane, Bologna, 1980. RIVA S., Una nuova tipologia del catechista per la catechesi del nostro tempo, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1977. L. Soravito Bissoli C., I catechisti in Italia. Identità e formazione, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1983. Soravito L., " Catechista ", in: Dizionario di catechetica, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 126-130. Wyler A., Il catechista " educatore ", Ed. dehoniane, Bologna, 1980.

J.M. Martínez Beltrán

Catecumenato. (inizio)

I punti di interesse circa il catecumenato sono i seguenti: 1) L'identità del catecumenato; 2) a che cosa deve iniziare propriamente; 3) gli aspetti di pedagogia catecumenale; 4) le fasi o tappe del processo di iniziazione.

1) Quando ebbe origine il catecumenato, esso costituì un'attività pastorale di netto carattere catechetico, con cui si aiutavano quelli che si erano convertiti da poco tempo a passare da una fede iniziale ad una fede adulta. Questo intento evangelico, e non le derivazioni ritualiste che in seguito l'accompagnarono, appare oggi come l'aspetto più originario dell'istituzione catecumenale.

Perciò il catecumenato va inteso oggi come un processo di assimilazione del messaggio cristiano, orientato a trasformare la vita del credente. Il catecumenato è contrassegnato da alcune tappe che stimolano la crescita verso la maturità cristiana e predispongono, a poco a poco a vivere comunitariamente la fede.

Catecumeno al giorno d'oggi può essere colui che si trova in ricerca, colui che decide di rivedere il suo modo passivo di credere e si mostra disponibile ad assumere il fatto cristiano in un modo molto più consapevole e personale, colui che non si chiude nel proprio egoismo o isolamento, ma che cerca il modo di integrarsi in una comunità cristiana che lo stimoli a vivere i valori radicali del vangelo di Gesù.

2) I passi di iniziazione cristiana descritti nel racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) indicano quali debbono essere ancor oggi le esperienze cristiane fondamentali e nucleari a cui si debbano iniziare. Esse sono: " ucire da Gerusalemme " e mettersi " in cammino " (v. 13), come espressione di lasciare le proprie sicurezze, spostarsi e lanciarsi alla ricerca di qualcosa di nuovo e sorprendente; occorre anche il dialogo su Gesù di Nazaret, partendo da quanto è accaduto in quei giorni (vv. 19-24), chiarito ed illustrato con l'aiuto delle Scritture (v. 27), intensificato con l'accoglienza dello sconosciuto (v. 29) e che porta a riconoscerlo chiaramente e ad aderire entusiasticamente alla sua persona nel gesto sacramentale (v. 31). Si deve dire lo stesso della forte esperienza religiosa fatta dai pellegrini, il che li portò a narrare agli altri quello che avevano visto e udito (v.35). Questo viene ad attestare come la maturità della fede suscita inevitabilmente lo spirito di missione. Infine, c'è da sottolineare l'incorporazione alla comunità (punto di riferimento), come risulta dal fatto che quei due viandanti già catechizzati si affrettarono a riunirsi con gli Undici e con gli alri che erano a Gerusalemme (v. 33).

3) La pedagogia catecumenale dovrà essere quella che meglio si addice al dinamismo proprio della fede, quella che meglio favorisce nel soggetto lo sviluppo di atteggiamenti credenti , quella che meglio elargisce agli educatori-catechisti gli orientamenti e i criteri con cui possano spingere e dare dinamicità al processo di maturità della fede.

Stando così le cose, il primo atteggiamento che dovrà essere provocato nei catecumeni sarà un atteggiamento di implicanza personale, con un linguaggio vivente e comunicativo, che sfoci in un apprendimento pratico dei valori evangelici (AG 14), cosicchè la fede e la vita non camminino separatamente, ma siano concordi. Ciò vuol dire che la fede deve riuscire a costituire il principio unificante e totalizzante della esistenza. Tutto ciò mira a raggiungere una formazione cristiana integrale.

Da parte dell'educatore, occorrerà che egli insista sulla pratica di una pedagogia di accoglienza e di accompagnamento, mentre deve sforzarsi di servire da riferimento positivo e attraente della comunità che lo manda e di cui deve considerarsi fedele trasmettitore delle esperienze comunitarie.

4) L'iniziazione cristiana va intesa come un processo che deve rispondere al ritmo di maturità vitale del soggetto credente e alla ricchezza di aspetti in cui la fede ha bisogno di essere compresa e assunta. Come tappe di questo processo, se ne segnalano di solito tre: quella precatecumenale, di preparazione o di convocazione, orientata a suscitare in quelli che sono giunti di recente un atteggiamento di conversione sincera e a destare in essi l'interesse per prendere il cristianesimo veramente sul serio; la tappa di catecumenato propriamente detta, la cui finalità principale è quella di disporre i soggetti ad un'esperienza profonda di fede, in parte come risultato della loro disposizione di ricerca e di apertura al dono di Dio, e in parte anche come frutto della testimonianza di fede trasmessa dai cristiani che accanto ad essi li accompagnano; un'ultima fase, di durata più breve, segnata da momenti decisivi, intende portare i soggetti al riconoscimento esplicito di Gesù come Signore della loro vita, e all'accettazione del messaggio evangelico come perno della loro vita. Sono ormai veri discepoli di Cristo e membri di una comunità cristiana. Questa è la fase delle opzioni: opzione di fede e di appartenenza ad una " comunità concreta ed immediata " (La catequesis de la comunidad, 253).

Bibl. - Alberich E., " Catecumenato moderno ", in: Dizionario di Catechetica, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 136-139. Bourgeois H., Saranno cristiani? Prospettive catecumenali, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1982. Floristán Samanes C., Il catecumenato, Ed. Paolino, Alba, . Groppo G., " Catecumenato antico ", in: Dizionario di Catechetica, pp. 133-136. Lodi E., " Iniziazione-Catecumenato ", in: Dizionario teologico interdisciplinare, II, Ed. Marietti, Torino, 1977, 290-299. Movilla S., Dal catecumenato alla comunità, Ed. Cittadella, Assisi, 1983. Zevini G., Il cammino neocatecumenale, in: A. Favale (ed.), Movimenti ecclesiali contemporanei, LAS, Roma, 1983, pp. 235-265.

S. Movilla

Cattedrale. (inizio)

La cattedrale è la chiesa principale di una diocesi, dove il vescovo ha la sua sede o cattedra. L'importanza liturgica e pastorale della chiesa cattedrale fu messa in risalto dal Concilio Vaticano II che insistette sulla funzione del vescovo come capo di tutte le comunità cristiane che formano la chiesa locale o particolare: " Il Vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al Vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale: convinti che c'è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucarestia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri " (SC 41).

Secondo la legislazione attuale, la chiesa cattedrale deve essere dedicata con rito solenne e l'anniversario della dedicazione va commemorato festivamente in tutte le altre chiese della diocesi (CIC, c. 1217). Si curi che il culto nella cattedrale goda di una speciale solennità, soprattutto per quanto riguarda la musica (cf SC 114). Le ordinazioni sacerdotali si celebrino " generalmente nella chiesa cattedrale " (CIC, c, 1011). Tradizionalmente, il culto nella cattedrale è affidato ad un collegio speciale di sacerdoti chiamati canonici che formano il capitolo della cattedrale. Questa istituzione giunse ad avere molta importanza nel governo della diocesi. Oggi, la sua funzione è praticamente limitata ad assicurare il culto nella cattedrale, e questo spetta quasi esclusivamente ai canonici.

Le cattedrali, soprattutto quelle europee, furono anticamente veri centri di arte e di cultura. Oggi, continuano ad essere centri di attrattiva turistica, e questo, alle volte, rende difficile il loro retto uso pastorale e liturgico.

J. Llopis

Cattolicesimo. (inizio)

I termini cattolico e cattolicesimo derivano dall'avverbio greco cath'òlon, il cui significato è: in generale, universale, riferito al tutto. Con la parola cath'òlon, Aristotele si riferisce alle proposizioni universali. Secondo Zenone, sono cattolici (catholicà) i princìpi universali.

Nel NT, si trova una sola volta l'avverbio cathòlou (At 4,18) col significato di: assolutamente. A dire il vero, il concetto di universalità o cattolicità applicato alla Chiesa appare per la prima volta in Ignazio di Antiochia (Smyrn. 8,2) e si riferisce alla globalità della Chiesa come comunione di chiese locali. È a partire dal secolo III, e specialmente nel secolo IV, quando l'aggettivo catholica acquista un tono polemico e viene a significare chiesa ortodossa, autentica, vera, in contrapposizione ad altri gruppi che si autodefiniscono chiesa e in contrapposizioni alle sètte eretiche , che si diffonde sempre più questo termine.

Il senso di catholica va ampliandosi fino a significare, estesa in tutta la terra (cattolicità geografica) e la più numerosa (cattolicità numerica). È cattolico, affermava Vincenzo di Lérins " ciò che si è creduto dovunque, sempre e da tutti ".

A partire da Teodosio, si diffonde una visuale più giuridica, ortodossa, quantitativa e politica della Chiesa. La Chiesa cattolica è l'unica che conta sulla protezione dell'impero.

Ciò nonostante, ci furono gruppi nell'Età antica, come i donatisti, che sostenevano una concezione qualitativa della cattolicità di fronte alla concezione più diffusa che era quella geografica e numerica. Secondo loro, ciò che definisce la cattolicità della Chiesa è la sua fedeltà alle origini.

Entrambi i significati, quello qualitativo e quello quantitativo, sono coesistiti storicamente, mettendo l'accento sull'uno o sull'altro a seconda degli autori e delle tendenze. Presso i grandi Scolastici (Alberto Magno e Tommaso d'Aquino), il senso qualitativo aveva il primato su quello numerico o quantitativo. Secondo loro, " la cattolicità sta nell'essenza profonda della Chiesa prima ancora di apparire nella sua estensione ", come sottolinea il Congar.

Tuttavia, in Occidente, andò imponendosi poco a poco il senso geografico e numerico, sia teologicamente che nella prassi missionaria della Chiesa. La cosa più importante nella realtà era la sistemazione giuridica del cattolicesimo in tutti gli angoli della terra. Questa visuale riduzionista del concetto cattolico rimase anche per una parte del secolo XX, in cui si ritornò ad una concezione più essenziale e qualitativa, più interiore e cristologica della cattolicità. È quest'ultima concezione che è presente nel Concilio Vaticano II.

Riguardo all'origine e all'essenza del cattolicesimo in quanto contrapposto al cristianesimo, è sorta una lunga polemica, che iniziò col teologo protestante R. Sohm. Costui intendeva la Chiesa vera come un'entità religiosa ed invisibile. Ad essa, egli contrapponeva il cattolicesimo il cui tratto fondamentale è l'identificazione della Chiesa con la sua realtà sociologica, giuridica e visibile. Secondo Sohm ed altri teologi protestanti, il cattolicesimo, con la sua insistenza sull'elemento istituzionale, costituisce un deterioramento e una depravazione del cristianesimo, la cui essenza è l'indole carismatica della Chiesa.

Il cattolicesimo primitivo (Frükathollzismus) sarebbe il passaggio dal cristianesimo primitivo alla Chiesa antica e presenterebbe queste caratteristiche: la sostituzione del messaggio su Gesù col messaggio sulla Chiesa (spostamento dalla cristologia all'ecclesiologia); affievolimento dell'attesa imminente e della tensione escatologica e instaurazione di alcune strutture stabili, fisse e permanenti (sostituzione della coscienza escatologica con la sistemazione nel mondo); perdita dell'essenza carismatica della Chiesa e affermazione del dato istituzionale e giuridico.

Se una volta il passaggio dal cristianesimo carismatico al cattolicesimo organizzato veniva collocato intorno al secolo III, oggi lo si colloca all'interno degli stessi scritti del NT. Di più: se in altri tempi dell'indagine esegetica, si opponeva l'immagine istituzionale della Chiesa fornita dalle Lettere pastorali e dagli scritti di Luca alla concezione carismatica degli scritti paolini, oggi la contrapposizione va cercata nello stesso Paolo. Se il protestantesimo classico contrapponeva il cattolicesimo primitivo o pre-cattolicesimo alla teologia paolina, Käsemann, per esempio, ritiene che Paolo sia stato, direttamente o indirettamente, consciamente o inconsciamente, un precursore del cattolicesimo primitivo e che, col suo concetto di Chiesa, abbia aperto la strada a quello che più tardi sarebbe stato lo sviluppo del cattolicesimo. Il pre-cattolicesimo, nota Käsemann, " era il fine storicamente obbligato di una cristianità primitiva che non aveva visto realizzata la sua attesa apocalittica ".

Il cattolicesimo ha oggi davanti a sé una serie di sfide a cui deve rispondere in modo adeguato se vuole conservare il suo carattere universale nel mondo d'oggi. Siamo passati dal monocentrismo culturale al policentrismo culturale. Ciò significa che non si può continuare a sostenere una Chiesa culturalmente monocentrica o eurocentrica: occorre cedere il posto ad una Chiesa universale che sia culturalmente policentrica, cioè, che si incarni nelle diverse culture e rispetti l'identità di ogni popolo. Il cattolicesimo non è una religione esclusiva di una cultura o di un popolo che debba imporsi con la forza sugli altri popoli o culture, ma deve essere annuncio di salvezza e prassi di liberazione per tutti i popoli.

Fino adesso, il cattolicesimo è stato legato alla capacità espansionistica e dominante della cultura occidentale, ed ha imposto come universale ciò che non era altro che particolarismo europeo, sottomettendo altre culture all'impero culturale occidentale. D'ora in poi, il suo compito deve essere quello di riconoscere le culture non europee nelle loro differenze, senza pretendere di sottometterle al verdetto ultimo della ultimo della teologia, del diritto e della razionalità occidentali; deve favorire e scoprire le loro ricchezze. Deve inoltre promuovere il dialogo e la comunicazione tra le culture, aiutando a superare l'isolamento in cui tende a cadere ogni popolo.

Se il cattolicesimo desidera essere ecumenico, deve promuovere gli incontri con le altre religioni, più che per giungere ad accordi nel campo dottrinale, per costruire un mondo migliore, superare le divisioni ed abbattere le barriere.

Bibl. - K. Adam, L'essenza del cattolicesimo, Ed. Morcelliana, Brescia, . Estrada J.A., Da Chiesa mistero a popolo di Dio, Ed. Cittadella, Assisi, 1991. Gherardini B., La Chiesa nella storia della teologia protestante, Ed. Borla, Torino, 1968. Küng H., Strutture della Chiesa, Ed. Borla, Torino, 1965. Lubac H. De, Cattolicesimo, Ed. Studium, Roma, 1964. Schnackenburg R., La Chiesa nel Nuovo Testamento, Ed. Jaca Book, Milano, 1973.

J.J. Tamayo

Cattolicità. (inizio)

La cattolicità è una proprietà essenziale e caratteristica dell'unica e vera Chiesa di Cristo. Significa due cose: in primo luogo, vuol dire che la Chiesa è aperta e continua ad esserlo a tutti gli uomini senza alcun limite di spazio o di tempo fino alla fine della storia in modo da potersi ritenere necessaria per tutti. In secondo luogo, significa che la Chiesa di Cristo è in possesso della pienezza della rivelazione fatta da Dio agli uomini.

La parola cattolica o cattolicità non si trova nel NT. Il primo autore cristiano che ne fa uso è Ignazio di Antiochia, agli inizi del secolo II, con cui si riferisce non tanto alla Chiesa nel senso universale, quanto piuttosto alla Chiesa vera ed autentica. Nello stesso senso, Clemente di Alessandria parla della Chiesa cattolica per indicare la Chiesa vera, contrapposta alle sètte ereticali. Generalmente, i Padri, a partire dal secolo III, vedono nel carattere universale della comunione nella stessa fede un segno distintivo della vera Chiesa, in contrapposizione a quelle eretiche, sempre particolari. Questo fu un argomento caro ad Agostino contro i donatisti, ma Agostino intende anche la parola cattolica come la caratteristica della Chiesa che si estende in tutto il mondo. Nel Medioevo, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino intendono il termine cattolico non come un valore di ordine quantitativo, numerico, ma come la pienezza del pane di vita che è Cristo e che la Chiesa comunica mediante la fede e i sacramenti della fede. La cattolicità sta nell'essenza profonda della Chiesa ancora prima di apparire nella sua estensione (Y. Congar). Nei secoli XIV e XV, questi temi furono trattati, al seguito di Occam, più sotto l'aspetto dell'epistemologia teologica delle " verità cattoliche " che non come distintivo ecclesiologico: cioè, più sotto l'aspetto delle verità che tutti devono credere e la cui negazione comporterebbe separazione o eresia. Comunque, lungo tutto il Medioevo, e tuttora in quest'ultima epoca di crisi e di dissenso, l'idea di Chiesa universale ha continuato ad essere presente in tutte le menti.

Il concetto di cattolicità si è fatto più strettamente ecclesiologico nell'apologetica anti-protestante e nell'insegnamento scolastico che ne conseguì. Contro le sètte nate dalla Riforma, si sbandierava il vecchio argomento secondo cui la Chiesa vera è quella universale, quella che si trova in tutte le nazioni, contro il particolarismo delle nuove confessioni di tipo riformatore. Tuttavia, a partire dall'inizio del secolo XX, si fa strada una concezione più essenziale e più qualitativa per quanto riguarda la cattolicità. Come ha detto molto bene Congar, si tratta meno di apologetica e si parla di più di cristologia. Non si cerca di dimostrare agli altri che abbiamo ragione e che loro hanno torto, ma si cerca di comprendere e di manifestare il mistero della Chiesa. Seguendo la linea tracciata dal Vaticano II (LG cap. I), da puramente esteriore e sociologica, l'idea di cattolicità propende ad essere sempre più interiore e cristologica.

Le ragioni profonde della cattolicità della Chiesa vanno cercate nel mistero stesso della Santissima Trinità. Dio, e con questo nome la Sacra Scrittura designa il Padre, vuole effettivamente la salvezza di tutti quelli che non rifiutano la sua alleanza. E Dio vuol inoltre il mezzo universale di salvezza che è Cristo. Ad un livello inferiore e subordinata a Cristo, Dio vuole la Chiesa come sacramento universale di salvezza. Per parte sua, Gesù Cristo è stato costituito principio universale di salvezza cosicché la Chiesa, corpo di Cristo, è la comunione degli uomini che, avendo accettato Cristo come loro maestro mediante la fede, si sono uniti al suo corpo pasquale di morte e risurrezione. Infine, lo Spirito Santo, identico in tutti, applica ad ognuno la ricchezza di Cristo e fa sì che i vari doni, le iniziative di tutti e di ognuno collaborino alla unità. Così, mediante lo Spirito Santo, la cattolicità assume le varietà senza distruggerle. La cattolicità è dunque più che l'estensione indefinita di una unità monista: è l'assunzione dei frutti della pluralità dei soggetti personali per il cammino della comunione.

La Chiesa è già cattolica in forza della sua istituzione, nei suoi princìpi formali, in quanto Ecclesia congregans. Non lo è ancora, e deve costantemente sforzasi di diventarlo, nella sua vita storica, in quanto Ecclesia congregata. La cattolicità è dunque una proprietà che è nello stesso tempo attuale e virtuale; è una proprietà dinamica, data e da raggiungere; è un dono e un compito. Ora, nella realizzazione di questo compito, la Chiesa non deve aspirare ad un uniformismo imposto dall'alto, che distrugga le particolarità delle varie chiese. La tradizione autentica della Chiesa non parla in questo senso, ma ha sempre sostenuto che, salvando l'unanimità nella fede, bisogna sempre rispettare un'ampia diversità nelle usanze. Come l'unità, anche la santità e l'apostolicità della Chiesa devono essere cattoliche, " secondo il tutto ". Perciò la sua legge non può essere quella di una uniformità livellatrice che porterebbe all'impoverimento, ma deve essere quella di una comunione in cui ognuno continua ad essere e a portare quello che è.

Infine, conviene ricordare l'importanza della cattolicità nel compito dell'ecumenismo. Il decreto sull'ecumenismo del Concilio Vaticano II dice: " Le divisioni dei cristiani impediscono che la Chiesa stessa attui la pienezza della cattolicità a lei propria in quei figli, che le sono bensì uniti col battesimo, ma sono disgiunti dalla piena comunione con lei. Anzi, alla Chiesa stessa diventa più difficile esprimere sotto ogni aspetto la pienezza della cattolicità nella realtà della vita " (UR 4).

Non è che la cattolicità si perda a causa delle divisioni, ma si perde la realizzazione di questa cattolicità. Le comunità cristiane separate posseggono un certo numero di mezzi di salvezza, il cui complesso come tale, nel suo stato perfetto, appartiene all'unica Chiesa di Cristo. Si ha qui uno dei compiti fondamentali dell'ecumenismo cristiano: ottenere che questa cattolicità, che esiste sempre nella Chiesa, si possa esprimere in tutta la sua pienezza. In questo modo, si potrà ricuperare il profondo significato apologetico di cattolicità, poiché, come si è già detto l'ecumenismo sta in fondo alla vera apologetica.

Bibl. - Congar Y., " La Chiesa è cattolica ", in: Aa.Vv., Mysterium Salutis, 7, Ed. Queriniana, Brescia, 1972, pp. 577-605. Idem, Santa Chiesa. Saggi ecclesiologici, Brescia, 1967. Idem, Un popolo messianico, Brescia, 1976. Lubac H. De, Cattolicesimo, Ed. Studium, Roma, 1964. Rahner K., Saggi sulla Chiesa, Ed. Paoline, Roma, 1966.

J.M. Castillo

Celebrazione. (inizio)

Celebrare deriva da celebre (noto per fama). Equivale a distinguere, mettere in risalto o festeggiare qualcosa della vita ordinaria. La celebrazione è un'azione globale e simbolica che si compie per mezzo di atteggiamenti, gesti e parole per mettere in risalto una realtà invisibile ed importante: un anno nuovo, un anniversario, un evento nazionale, familiare, un fatto religioso.

Nella celebrazione, si condensa il senso della festa, la rottura col quotidiano e l'importanza data a ciò che è fondamentale. Dedicando il tempo a ciò che è importante (la famiglia, l'amicizia, la vita personale, la fede, la patria, ecc.), l'uomo non si accontenta di contemplare queste realtà, ma ne prende consapevolezza. Nella celebrazione, il passato è importante, ma sempre in vista di un futuro. La celebrazione fa appunto esistere ciò che viene celebrato: una realtà invisibile, il senso profondo della vita, un determinato modo di vivere. Se non venissero celebrate, certe realtà finirebbero per non esistere.

Celebrare è, in primo luogo, un atto sociale, cioè, di gruppo e comunitario. Nessuno celebra da solo. Per celebrare, si cerca la riunione della famiglia, degli amici, del partito, del popolo, della confraternita, della comunità. A causa del suo carattere sociale, la celebrazione garantisce le radici, rafforza la comunione, edifica l'unità, alimenta la società. In secondo luogo, la celebrazione è in relazione con la festa, cioè, con la gratuità in un mondo avido di interessi, che fa una sosta in un modo tutto affaccendato, che dà valore al non razionale in un mondo dove domina la tecnica. Per essere rottura del quotidiano, la celebrazione festiva libera atteggiamenti repressi, rende possibili le relazioni in un mondo dove regna l'anonimato, crea la fraternità, manifesta la gioia. In terzo luogo, la celebrazione ha rapporto col raggiungimento di qualcosa di importante: la fine di un corso, la festa di una mietitura, la costruzione di una casa, la nascita di un figlio, un matrimonio, ecc. Infine, la celebrazione risponde a desideri fondamentali: valutare la vita col metterci a contatto con ciò che più ci interessa e di cui abbiamo maggiormente bisogno; rivedere certi atteggiamenti esaminandoci quando cadiamo in balìa delle nostre meschinità, delle nostre invidie, ambizioni, dei nostri rancori; protestare per gli abusi, respingere la falsità e la menzogna dai nostri rapporti pubblici e di lavoro; entrare in comunione, nonostante le difficoltà di convivere in pace e libertà.

La celebrazione cristiana è celebrazione umana in armonia coi disegni di Dio. I credenti celebrano Cristo presente nel cuore della vita. Però, in ogni celebrazione liturgica, in sintonia coi precedenti del culto ebraico, si venera il Dio dei Padri che è il Padre di Gesù Cristo. Ora, questo culto è collegato con l'uscita dall'Egitto: è liberatore. In sintesi: ogni celebrazione cristiana si rivolge al Dio unico e vero, che interviene nella storia con un intento salvifico.

Gesù criticò il culto ebraico che era eccessivamente sacralizzato (fuori della vita concreta), inerte (senza verità interiore), regolato meticolosamente (esterno) e deviato da Dio (idolatrico). La celebrazione secondo il NT, è opera del cuore (luogo veritiero del culto) e frutto della vita (ambito reale della liturgia). Per questo, i primi cristiani celebravano con un nuovo senso e con una grande libertà il Dio unico manifestatosi pienamente in Gesù Cristo.

Celebrare non è solo rendere culto a Dio o adorarlo, ma è anche festeggiare la venuta della salvezza nella nostra vita mediante il Signore morto e risorto. Oggetto della celebrazione cristiana è l'azione di Dio che si realizza attraverso l'azione umana. Ora, per sapere se si celebra come si deve, il criterio fondamentale vuole che si viva ciò che si celebra (autenticità), che si celebri la vita (coerenza), e che si esprima la presenza del Signore nella storia (fede).

La celebrazione liturgica possiede una struttura tradizionale che si è conservata lungo i secoli, in armonia con la natura della festa cristiana e con le leggi fondamentali della comunicazione con Dio. Da una parte, possiamo intendere la celebrazione partendo da una realtà bipolare, cioè, parola e simbolo (struttura verbale-simbolica). La parola che si legge, commenta, recita e canta è il polo uditivo; il simbolo, che si vede, gusta e tocca, è il polo visivo. Queste due parti sono state messe in risalto in tutti i sacramenti con la riforma liturgica conciliare. Si nota già questa duplice polarità nelle descrizioni liturgiche di Giustino e di Ippolito. Alcuni uffici, come quello protestante, privilegiano il polo uditivo (liturgie della parola); gli Orientali, invece, sottolineano il gesto, il movimento del corpo, il simbolo. Perciò fanno uso di immagini, icone, pale, illuminazioni, ecc. La liturgia cattolica cerca di conservare un equilibrio tra questi due elementi. D'altra parte, la celebrazione possiede una struttura dialogica. La liturgia è un dialogo tra Dio e il suo popolo riunito in assemblea. Da tempi immemorabili, la liturgia ebbe in tempi determinati (le vigilie) questo schema: lettura, canto e preghiera (il tutto ratificato con un gesto). Il Concilio Vaticano II afferma che nella liturgia Cristo " è presente nella sua parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. È presente ... quando la Chiesa prega e loda " (SC 7).

Bibl. - Aa.Vv., L'arte del popolo celebrante, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1968. Deiss L., Celebrare la Parola, Ed. Paoline, Cinisello B., 1992. Duchesneau C., La celebrazione nella vita cristiana, Ed. dehoniane, Bologna, 1977. Sodi M., " Celebrazione ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1984, pp. 231-248. Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Ed. Paoline, Roma, .

C. Floristán

Cenere. (inizio)

Nella tradizione biblica, la cenere era usata come segno di afflizione e di penitenza, come si può vedere in vari passi dell'AT: 2 Sam 13, 19; Est 4,1-3; Dn 9,3; 1 Mac 3,47; ecc. Si può ricordare specialmente Giuditta che, prima di liberare il suo popolo, sparse cenere sul suo capo (Gdt 9,1) e i Niniviti che ottennero il perdono di Dio perché fecero penitenza " in sacco e cenere " (Gn 3,6). I cristiani introdussero presto nelle loro espressioni penitenziali il gesto di cospargere cenere sul loro capo o di coricarsi su di essa. In seguito, questo gesto divenne un segno liturgico, usata soprattutto come rito d'ingresso nella penitenza pubblica: l'imposizione della cenere e l'espulsione dalla chiesa implicavano l'ingresso in una categoria speciale di fedeli che, per la gravità dei peccati commessi, avevano bisogno di purificarsi con la penitenza. Il rito veniva ad essere come una imitazione dell'espulsione dei nostri progenitori dal paradiso terrestre.

Nel secolo VI, si anticipò l'inizio della Quaresima il mercoledì precedente alla prima domenica, per assicurare quaranta giorni effettivi di digiuno, dal momento che le domeniche erano esenti da questa pratica. Durante la processione d'ingresso, a Roma si cantava l'antifona Immutemur habitu in cinere et cilicio. Questa antifona, nel secolo X, cominciò ad essere intesa in senso materiale e fu accompagnata dal gesto sensile dell'imposizione della cenere non soltanto sui penitenti pubblici, ma su tutti i fedeli, compresi i sacri ministri. Con ciò, il giorno inaugurale della Quaresima prese il nome di Mercoledì delle Ceneri, ed è chiamato così anche oggi. La riforma del Concilio Vaticano II stabilì che l'imposizione delle ceneri si facesse, non all'inizio della celebrazione della Messa, ma alla fine della liturgia della Parola e che la formula che anticamente accompagnava il gesto (" Ricordati che sei polvere ": Gen 3,19) potesse essere sostituita da queste parole: " Convertitevi e credete al vangelo " (Mc 1,15). Con questo, si vede chiaramente che la Chiesa, nel porre la cenere sul capo, vuole che si riconosca di essere peccatori meritevoli di castigo, ma fiduciosi nel Signore che vuole non la morte dei peccatori, ma la loro conversione.

Bibl. - Aldazábal J., Simboli e gesti. Significato antropologico biblico e liturgico, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1988.

J. Llopis

Chierico. (inizio)

Il termine klèros, da cui provengono: clero e chierico, significa: sorte o parte che si ottiene in sorte. Si trova due volte nel NT. Atti 1,17 lo usa quando parla della sostituzione di Giuda da parte di Mattia col significato di: partecipazione al servizio dell'apostolato. 1 Pt 5,3 indica con la parola klèros le parti della comunità interamente affidate ad alcuni responsabili.

Origene usa il termine per riferirsi ai ministri ecclesiastici distinti dai laici. Sarà questo significato che finirà per imporsi. La parola latina clerus è usata da Tertulliano con questo significato, pur conservando anche il senso originario di sorte (sors).

A metà del secolo III, inizia nella Chiesa un processo di clericalizzazione e si impone una differenza-opposizione tra chierici e laici che, col passare del tempo, acquista tutte le caratteristiche di una struttura giuridica fondamentale. Appare così lo stato clericale come contrapposto allo stato laicale. All'interno di ogni stato, si stabiliscono a loro volta diverse gerarchie. Nello stato clericale, si fissa l'ordine delle varie funzioni che dànno luogo agli ordini maggiori e a quelli minori. Tra i laici, spicca una élite gerarchizzata formata da monaci, vergini e vedove.

Col riconoscimento ufficiale della Chiesa cristiana da parte dell'impero romano, la giurisdizione civile fissa uno statuto speciale per i chierici che, in quanto consacrati al servizio divino, diventano cittadini separati dagli altri ed acquistano una dignità specifica. Ciò comporta il godimento di molti privilegi, come l'esenzione di aggravi fiscali, la dispensa da impegni civili ed una giurisdizione particolare.

La separazione tra i chierici e i semplici fedeli si rafforza ancora di più con l'obbligo fatto ai primi di condurre una vita ascetica, di rinunciare al matrimonio e di vivere secondo una morale speciale che è sulla linea dell'ideale. L'ordinazione conferisce loro un potere quasi assoluto sui fedeli e li trasforma in unici amministratori dei sacramenti (battesimo, penitenza, eucaristia) e in responsabili assoluti della predicazione.

La segregazione dei chierici si riflette sul monopolio del tempio: il luogo del sacrificio eucaristico, il presbiterio, rimane riservato ad essi, ed il suo accesso è vietato ai fedeli.

Però, è nel Decreto di Graziano (anno 1140) che si stabilisce giuridicamente e in forma definitiva la struttura bipolare della Chiesa. Esso parla di due classi di cristiani (duo genera christianorum): i chierici, dediti al servizio divino ed estranei alle realtà temporali, e i laici che vivono nel mondo.

I chierici si appropriano l'ecclesialità fino a identificarsi con la Chiesa e a diventare gli unici portatori e soggetti dell'azione ecclesiale. Non si parla dello Spirito Santo né del popolo di Dio.

Il Codice di Diritto Canonico del 1917 sancisce questa concezione e riconosce i chierici come gli unici soggetti di poteri e di benefici ecclesiastici (canone 118). Nello stesso tempo, impone loro tutta una serie di obblighi e di proibizioni in sintonia col loro stato. Viene così ratificata la classica segregazione, assieme allo strapotere e alla automatizzazione dei ministri ordinati.

Il Concilio Vaticano II ha compiuto un'autentica rivoluzione rispetto all'immagine classica dei chierici. Infatti, il Concilio afferma che chierici e laici condividono la condizione comune di battezzati e possiedono la stessa dignità in quanto membri del Popolo di Dio. Non preme l'accento sulla differenziazione o contrapposizione, ma sull'uguaglianza fondamentale tra gli uni e gli altri membri della comunità ecclesiale. Si mostra moderatamente critico sulla riduzione, fino allora dominante, del ministero sacerdotale alla gestione sacra delle necessità religiose. Accentua, infine, nuovi orizzonti e nuovi ambiti di presenza, come: l'attenzione ai poveri e agli emarginati, il dialogo coi non credenti, l'incarnazione nella realtà.

È innegabile la volontà di riformare lo statuto dei chierici da parte del Vaticano II. Però, questa volontà è rimasta sulla carta e non è riuscita a farsi realtà. Come mai? La ragione ultima del fallimento va cercata nella indecisione e nell'ambiguità del decreto conciliare sui presbiteri, come ha sottolineato molto bene Ch. Duquoc. Il Concilio è rimasto legato alla teologia post-tridentina del sacramento dell'ordine.

La tendenza di non pochi teologi post-conciliari va oggi nella linea di una declericalizzazione della Chiesa e perfino dei ministri ordinati e di un superamento della rigida differenziazione tra chierici e laici, tuttora imperante. L'alternativa proposta è la configurazione della Chiesa attorno al binomio comunitàministeri.

Bibl. - Ancel A., Il sacerdote secondo il Concilio Vaticano II, Ed. La Locusta, Vicenza, 1966. - Bouyer L., Senso della missione sacerdotale, Torino, 1967. Colson J., Sacerdoti e popolo sacerdotale, Ed. dehoniane, Bologna, 1970. Gastgeberg, Vita sacerdotale e nuove situazioni pastorali, in: " Concilium ", 8(1968), pp. 129-141. Meslin M., Istituzioni ecclesiastiche e clericalizzazione nella Chiesa antica (dal II al V secolo), in: " Concilium ", 7(1969), pp. 54-69. Mondin B., La declericalizzazione del prete, Ed. Borla, Torino, 1969. Suhard E., Il prete nella città, Ed. AVE, Roma, 1964.

J.J.Tamayo

Chiesa-Istituzione. (inizio)

Il concetto di istituzione equivale a quello di fondazione o instaurazione e si applica alla Chiesa in quanto è una istituzione che ha Dio per autore. Serve anche per parlare della Chiesa in quanto organizzazione: è questo il significato che hanno le scienze umane quando parlano delle istituzioni, entità necessarie per la sussistenza della società. Teologicamente, è un concetto che si è soliti usare in correlazione, molte volte, in opposizione, a quello di carisma. Questa opposizione poggia su un malinteso storico e teologico. Da una parte, le istituzioni sorgono con l'intento di perpetuare un'esperienza carismatica e far sì che essa possa continuare anche quando non ci sarà più il fondatore carismatico. Così avviene con la Chiesa, che è il risultato di un lungo processo che comincia con l'esperienza di Gesù e dei suoi discepoli. Morti gli apostoli e i primi testimoni, ci fu una grande preoccupazione per continuare l'esperienza di Gesù e degli apostoli che diede origine al movimento cristiano. Questo ha portato a creare istituzioni con valore normativo e tali da consentire il collegamento con Cristo e la sua storia. Sorse così un " canone " delle Scritture, una struttura sacramentale e una ministeriale, che cercarono di continuare i gesti e gli atti decisivi di Gesù, quelli a cui i cristiani riconoscono un valore salvifico permanente. Si trattò pure di conservare un'autorità che, come quella apostolica, si preoccupasse vegliare sulla purezza e sulla diffusione della Chiesa e di mantenere viva l'eredità lasciata da Gesù attraverso gli Apostoli. L, istituzioni sono sorte per prolungare il carisma, non per distruggerlo, e sono al servizio della crescita qualitativa e quantitativa della comunità.

Tanto i carismi quanto le istituzioni sono umani e divini nello stesso tempo (nel senso che provengono da Dio). Il carisma è tanto umano quanto l'istituzione, perché si tratta di un'esperienza soggettiva (individuale e collettiva) secondo cui il carismatico si sente chiamato a fare qualcosa sotto la spinta dello Spirito. In entrambi i casi, è necessario il discernimento per vedere se il carisma e l'istituzione rispondono alla storia di Gesù e se sono ispirati dal suo Spirito. Le istituzioni rispondono non solo ad una necessità sociologica della Chiesa in quanto comunità umana, ma anche al modo di agire di Dio che ispira la Chiesa nel corso della storia, secondo il principio per cui la grazia trasforma la natura e si serve di essa, ma non la distrugge. Dio salva l'uomo adattandosi ai suoi modi di essere e di agire. Incarnandosi, Egli si inserisce nelle leggi della storia, che non conosce un collettivo umano senza istituzioni che configurino l'identità collettiva e personale e consentano la permanenza e la continuità storica.

Il problema dell'istituzionalità della Chiesa poggia sulle implicanze e sulle deviazioni di tutte le istituzioni. La Chiesa non è esente da disfunzioni istituzionali ed ha bisogno di una riforma non solo morale, ma anche strutturale. Alle volte, si confonde l'inevitabile istituzionalità della Chiesa con le sue forme concrete di organizzazioni storiche, le quali sono mutevoli. Si cade allora in un conservatorismo istituzionale che diventa un ostacolo, anziché un aiuto, per la crescita. Del resto, anche nella Chiesa ci sono sintomi istituzionali negativi: la diffidenza verso i carismi con la tendenza ad emarginarli in nome dell'unità; la burocrazia e la crescita endogena del fattore istituzionale; il razionalismo crescente e il legalismo istituzionale; l'autoritarismo formalista; ecc. Le istituzioni sono necessarie, ma vanno controllate ed equilibrate con le esperienze carismatiche e profetiche. Da un giusto equilibrio dipende in gran parte la fecondità della Chiesa e la sua efficacia evangelica.

Bibl. - Latourelle R. - O'Collins G. (edd.), Problemi e prospettive di teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1980, pp. 319432. Fries H., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1987, pp. 546-705. Waldenfels H., Teologia fondamentale nel contesto contemporaneo, Ed. Paoline, Cinisello B., 1987, pp. 441-532.

J.A. Estrada

Chiesa-Mistero. (inizio)

Il concetto di Chiesa significa etimologicamente il popolo riunito in assemblea. In senso teologico, indica la comunità dei fedeli, e, in senso analogico, i templi cristiani. La Chiesa è più che una comunità di persone (non è una semplice istituzione, non è una pura entità giuridica, e neanche si riduce ad una gerarchia). Chiesa è un termine che dice relazione al Popolo di Dio e che si usa frequentemente nel NT per indicare tanto le cristianità locali quanto la loro entità universale. Nel NT, si vede la Chiesa come una comunione di comunità (Chiesa universale) ed in ciascuna di esse (Chiesa locale), si fa presente (si attualizza) quella universale. Le Chiese locali non sono una parte, una provincia, o una regione della Chiesa cattolica, ma sono la sua espressione in un dato luogo e in una data cultura. Si può parlare di una loro autosufficienza che non si rinchiude, però, in un particolarismo localista: si apre alla comunione, superando ogni opposizione tra locale e universale.

Questa visione della Chiesa, comunitaria-assembleare-locale-universale nella comunione, è quella che costituisce il distintivo in cui va collocato il sentimento di appartenenza, di partecipazione e di corresponsabilità ecclesiale. Nello stesso tempo, il suo carattere assembleare permette di parlare di una certa " democratizzazione " della Chiesa, non nel senso che l'autorità sia una semplice delegazione del popolo, ma nel senso che tutta l'assemblea deve partecipare corresponsabilmente nei problemi della Chiesa. Oggi, ci sono alcune tradizioni che riflettono questa dimensione di assemblea: l'importanza dell'accoglienza comunitaria dei pronunciamenti dall'autorità, la teologia del consenso (il " sensus fidei "), la partecipazione del popolo nell'elezione dei ministri, il protagonismo di tutti i cristiani nelle faccende della vita interna ed esterna della Chiesa, ecc. Questa varie tradizioni permettono una " democratizzazione " della vita della Chiesa in quello che concerne l'esercizio dell'autorità e il protagonismo responsabile d. tutti, senza negare il carattere gerarchico della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II ha voluto valorizzare nel capitolo 1 della Costituzione sulla Chiesa il suo carattere misterico. Non si tratta di una definizione, poiché le definizioni cercano appunto di chiarire ed illustrare il carattere misterico, ma di presentarla alla luce del mistero di Cristo e di mettere in risalto la sua dimensione umana e divina. Viene così ricuperata una dimensione importante della Chiesa antica, che era stata piuttosto trascurata nella teologia, in conseguenza delle ecclesiologie istituzionalizzanti e gerarchizzanti che si erano imposte nel secondo millennio, e più specificamente, a partire dalla Controriforma.

Il mistero della Chiesa è quello della sua costituzione divina e umana. È divina, in quanto comunità che ha la sua origine in Cristo ed è guidata e ispirata dallo Spirito Santo, che è Colui che la inserisce nel piano di Dio. Questa dimensione divina ci consente di credere nella Chiesa nel duplice senso di appartenere ad essa e di accettarla come opera dello Spirito Santo. Crediamo in Dio partendo dalla Chiesa che accettiamo come il luogo storico dell'eredità di Gesù, come una creazione dello Spirito che porta avanti l'opera di Cristo. Questa dimensione divina della Chiesa è quella che permette di vederla come comunità relazionale che cerca di servire Dio e gli uomini. In quanto viene da Dio, la Chiesa è un dono; in quanto si rivolge agli uomini, è un compito.

La Chiesa non è fine a se stessa: la missione (come testimonianza, evangelizzazione e trasformazione del mondo) è costitutiva della sua identità collettiva. Questa dimensione trascendente della Chiesa è quella che permette di vederla come una realtà di fede, invisibile e spirituale, accessibile solo al credente che opta per essa in base alla sua opzione per Cristo. Conseguentemente, la preghiera, il rendimento di grazie e il discernimento provengono da un atteggiamento di fede che si apre al mistero ecclesiale.

Al mistero della Chiesa, appartiene anche il suo carattere umano. La Chiesa è una comunità di persone, una realtà storica, empirica e costatabile agli occhi di tutti. Di qui, la validità delle analisi sociologiche, politiche e ideologiche della Chiesa. Esse ci scoprono la sua dimensione incarnata e ci illustrano vari aspetti della sua vita e della sua configurazione. La grazia presuppone la natura, non la distrugge, ma la perfeziona. Per questo, le analisi empiriche della Chiesa non ci rivelano la complessità del suo mistero, ma soltanto le sue forme storiche di comportamenti. Sono analisi incomplete per un cristiano, ma non per questo prive di un loro valore.

Inoltre, il mistero della Chiesa è quello della santità e peccaminosità. La Chiesa è la " casta meretrice ", come spesso la chiamavano i Padri della Chiesa: casta, perché in essa c'è lo Spirito e la Scrittura che la vivificano, l'ispirano e la riformano. Per quanto corrotta possa essere, c'è sempre in essa la possibilità di rigenerazione, purché i suoi membri si aprano all'ispirazione dello Spirito e alla dottrina del vangelo. Però, la Chiesa è anche peccatrice: è sempre minacciata di prostituirsi al potere, al denaro, al prestigio, e rischia di abbandonare il Signore sulla croce. Questo fa parte dello " scandalo " della Chiesa: deve trasformare evangelicamente il mondo ed è minacciata di soccombere al suo influsso rischiando di mondanizzarsi. La sua storia di luci ed ombre riflette questa dialettica di santità e di peccato, di divino e di umano. Questa ambiguità esige la nostra accettazione di fede: credere in questo mistero, che, cioè, Dio si comunica a noi in una comunità peccatrice, con i suoi contrasti e i suoi limiti. Occorre credere nella Chiesa che esiste, e non in una Chiesa ideale, evangelica e pura: questo è sogno e utopia, più che realtà concreta. Lo " scandalo " del mistero della Chiesa è quello che si è detto. La Chiesa ha la sua origine dal Dio-Uomo.

Bibl. - Congar Y., Santa Chiesa. Saggi ecclesiologici, Brescia, 1967. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995. Lubac H. De, Paradosso e mistero della Chiesa, Ed. Queriniana, Brescia, 1969. Idem, Meditazione sulla Chiesa, Ed. Paoline, Milano, .

J.A. Estrada

Chiesa-sacramento. (inizio)

Il Concilio Vaticano II ha affermato ripetutamente che la Chiesa è un sacramento (LG 1; 48; 59; AG 1; 5; GS 45; SC 5; 26). Sono molti i teologi che oggi sono d'accordo nel dire che questa affermazione del Concilio è quanto mai fondamentale per comprendere adeguatamente che cos'è la Chiesa. Dire che la Chiesa è un sacramento equivale ad affermare che la Chiesa prolunga, nel tempo e nello spazio, la presenza salvifica e liberatrice di Gesù tra gli uomini. La Chiesa, infatti, è il Corpo di Cristo. Ora, l'affermare che la Chiesa è il Corpo del Signore indica una relazione molto stretta tra il modo con cui Figlio di Dio si è reso visibile nel mondo, da una parte, e, dall'altra parte, il modo con cui la Chiesa si rende visibile. Questo vuol dire: la persona si rende visibile e presente mediante il corpo e per mezzo del corpo. Così, si è fatto presente nel mondo e nella storia il Figlio Unigenito di Dio. Così, Egli continua a rendersi visibile e presente anche ai giorni nostri, per mezzo del corpo, del suo corpo storico e percettibile, che è la Chiesa. Per questo, allo stesso modo che giustamente si può dire che Cristo è il sacramento originale, si può anche affermare che la Chiesa è un sacramento, il sacramento primordiale o protosacramento.

Però, l'affermazione secondo cui la Chiesa è vero sacramento indica qualcosa di più specifico. Infatti, la Chiesa è spirituale e invisibile, da una parte; è sociale e visibile da un'altra. Di qui, le difficoltà che molti sono soliti incontrare quando si tratta di faccende che sono in relazione con la Chiesa. Infatti, alle volte, la si considera in un modo troppo spiritualizzato o addirittura spiritualista. Questo dà luogo a tanti spiritualismi irresponsabili che sono giustamente deplorevoli. Però, altre volte, si pensa alla Chiesa in un modo troppo umano come ad un semplice fenomeno storico e sociale, e questo produce molti malintesi. Ora, l'affermazione della Chiesa come sacramento supera queste due visuali parziali, donandoci la chiave per interpretare quello che deve essere la Chiesa. In essa, infatti, il mistero di Dio, il suo piano di salvezza per gli uomini, si rende visibile nel corpo sociale ed organizzato che è la Chiesa, in modo tale che né l'elemento spirituale ed invisibile, da una parte, né quello sociale e visibile, dall'altra, possono essere dissociati o sottovalutati in nessun modo. In questo consiste la sacramentalità della Chiesa. Occorre partire da questa sacramentalità per comprendere ed interpretare i simboli concreti che chiamiamo sacramenti. Così, la Chiesa e i sacramenti sono in rapporto reciproco come realtà assolutamente inseparabili, in modo tale che non si può pensare la Chiesa senza la sua proiezione su tutti e su ciascuno dei simboli sacramentali, e non è possibile interpretare e comprendere questi simboli senza vederli radicati nel sacramento primordiale che è la Chiesa.

L'affermazione della Chiesa come sacramento non è propriamente una definizione o descrizione essenziale: è piuttosto funzionale. Ciò vuol dire: considerando la Chiesa come sacramento, noi non riferiamo tanto a quello che la Chiesa è in sé, ma al modo con cui esercita il suo servizio per la salvezza degli uomini. Così, affermiamo, da una parte, che la Chiesa non è semplicemente uno strumento di azione esterna per procurare all'uomo la salvezza; d'altra parte, diciamo che la Chiesa non è essa stessa la salvezza, sebbene questa salvezza sia strettamente legata ad essa.

Da quanto è stato detto, ne consegue che l'elemento esterno e visibile della Chiesa non è qualcosa di assoluto e di inamovibile, ma è relativo e funzionale. Cioè, l'elemento visibile della Chiesa è qualcosa da cui essa non può prescindere, ma nello stesso tempo, è anche qualcosa deve essere sempre in funzione di ciò che è significato e simboleggiato mediante il corpo sociale e visibile della Chiesa. Infatti, proprio in questo consiste la struttura del sacramento in quanto simbolo: qualcosa che è semplicemente visibile e che ci rimanda al di là di se stesso, a ciò che per essenza è invisibile. Ciò vuol dire che nella Chiesa, l'elemento esterno e visibile, quello che si presenta ai nostri occhi, deve essere organizzato in modo tale da portare gli uomini a vedere in esso la salvezza di Dio, la presenza di Gesù nel mondo e nella storia.

Bibl. - Gherardini B., La Chiesa è sacramento, Roma, 1976. Guardini R., La realtà della Chiesa, Brescia, 1967. Rahner K., La Chiesa e i sacramenti, Ed. Morcelliana, Brescia, . Semmelroth 0., La Chiesa sacramento di salvezza, Ed. D'Auria, Napoli, 1970. Idem, La Chiesa come sacramento di salvezza, in: Feiner J.-Löhrer M. (a cura di), Mysterium Salutis, 7, Ed. Queriniana, Brescia, 1972, pp. 377-437. Schillebercks E., Cristo sacramento dell'incontro con Dio, Ed. Paoline, Roma, 1968.

J. M. Castillo

Cimitero. (inizio)

Il cimitero è il luogo dove si seppelliscono i defunti. Lo spazio riservato ai fedeli defunti è considerato sacro dalla Chiesa, come gli edifici destinati al culto (CIC, c. 1205; cf c. 1240 e 1243). L'usanza di destinare un luogo determinato per la sepoltura esiste già in epoche antiche, ma il concetto e il nome di cimitero (proveniente dal greco: koimetèrion = dormitorio), come lo intendiamo: oggi, nacqui con il cristianesimo. A Roma ed in altre città, su usavano cimiteri sotterranei (le catacombe), ma ben presto si diffuse l'usanza di seppellire i defunti vicino alle tombe dei martiri e attorno alle chiese. Questa usanza è rimasta in alcune parti. Il rito di consacrazione o dedicazione dei cimteri cominciò al tempo di Gregorio di Tours (secolo VI). Verso la fine del secolo XVIII, per motivi sanitari e di spazio, le autorità delle città principali ordinarono la costruzione di un cimitero lontano dal centro urbano per la sepoltura dei defunti. A partire dal secolo XIX, i municipi vennero incaricati della loro costruzione e custodia. Si conservò generalmente il carattere confessionale del cimitero e si costruirono cimiteri separati, o recinti speciali, per i non battezzati o per i membri di confessioni differenti. Oggi, i cimiteri acquistano sempre più un carattere civile. La Chiesa desidera tuttora possedere, dove è possibile, cimiteri propri, o almeno alcuni spazi nei cimiteri Civili destinati ai fedeli defunti e benedetti regolarmente. Il canone 1240 del CIC recita:

§ 1. " Dove è possibile, si abbiano cimiteri propri della Chiesa, o almeno degli spazi, nei cimiteri civili, riservati ai fedeli defunti; gli uni e gli altri devono essere benedetti secondo il Mito proprio.

& 2. Ma se non è possibile ottenere ciò, secondo il rito si benedicano di volta in volta i singoli tumuli ".

Quantunque la Chiesa preferisca l'inumazione, oggi non è, però, proibita la cremazione o incinerazione dei cadaveri. Quando sarà molto diffusa questa usanza, i cimiteri subiranno una profonda trasformazione. Dal punto di vista pastorale, è bene favorire la visita regolare ai cimiteri e, in un modo speciale, il 2 Novembre, in cui si commemorano tutti i fedeli defunti. Il contatto regolare dei vivi col luogo dove sono sepolti i defunti può favorire la fede e la speranza nella risurrezione a cui sono chiamati i corpi di coloro che " si addormentarono " nel Signore.

Bibl. - Filthaut Th., I cimiteri, luoghi di predicazione, in: " Concilium ", 2(1968), pp. 78-87. Savioli A., L'ultima dimora dei cristiani defunti, in: " Concilium ", 2(1968), pp. 65-77.

J. Llopis

Classi sociali. (inizio)

Nel parlare di classi sociali, non si può non parlare di Karl Marx. La sua aspirazione fu quella di distinguere nettamente le " classi sociali " dalla " stratificazione economica ". "Solo il rozzo giudizio dell'uomo trasforma la differenza di classi in differenze di formato di portamonete "' scrisse Marx. Infatti, stabilire i confini che separano alcune classi da altre mediante i redditi economici sarà sempre convenzionale. Come si può sostenere che un individuo che guadagna una peseta più di un altro appartiene ad una classe differente? E' puramente casuale che questa peseta sia servita da frontiera tra le classi. Perciò Marx volle caratterizzare le classi con qualche criterio che non ammettesse la stratificazione lungo un continuum, e pensò di trovare il criterio nella situazione degli individui rispetto ai mezzi di produzione. I proprietari dei mezzi di produzione appartengono alla classe capitalista; quelli, invece, che sono sprovvisti di mezzi di produzione e devono vendere la loro forza di lavoro ai padroni, costituiscono la classe dei proletari. A dire il vero, tra queste due classi stava una classe media formata dai piccoli artigiani che erano proprietari dell'officina dove lavoravano. Però, secondo Marx, questa era una classe destinata a scomparire, perché questi piccoli artigiani erano incapaci di sopportare la competenza delle grandi imprese. Perciò avrebbero finito per divenire a poco a poco lavoratori salariati, cioè, sarebbero andati ad ingrossare le file del proletariato.

È difficile oggi sostenere la divisione marxiana della società in due classi antagoniste. Come risultato delle società anonime, non solo il formato del portafoglio, ma anche la proprietà dei mezzi di produzione dispone gli uomini lungo un continuum. Ci sarà sempre qualcuno che avrà un'azione più di un altro. Inoltre, non sono scomparse le antiche classi medie, mentre sono apparse le cosiddette nuove classi medie, o " colletti bianchi ", cioè, i lavoratori salariati di élite. È vero che vari studiosi hanno proposto teorie alternative (Dahrendorf, Poulantzas, ecc.), ma nessuna di esse riesce a rendere reale l'aspirazione marxiana di fissare limiti precisi e non convenzionali alle classi sociali. Naturalmente, ciò non vuol dire che non esistano. Non è neanche facile stabilire il momento preciso in cui il giorno cede il posto alla notte, ma ciò non toglie che esistano entrambi che siano situazioni contrapposte.

Marx affermava che le classi sociali non sono soltanto differenti, ma sono anche radicalmente ostili, cioè, non ci sono classi senza lotta di classi. Conseguentemente, egli osservava che il possesso o la carenza di mezzi di produzione non bastava per costituire una classe sociale, ma era necessario avere anche una coscienza di classe. Ciò voleva dire: avere la coscienza di possedere interessi comuni coi membri della stessa classe e antagonisti con quelli dell'altra. Ci si è posto la questione se la lotta di classi sia compatibile con l'amore cristiano. La risposta di Girardi è divenuta classica: " Il cristiano deve amare tutti, ma non tutti allo stesso modo: si ama l'oppresso difendendolo e liberandolo; l'oppressore, accusandolo e combattendolo. L'amore esige che lottiamo per liberare tutti coloro che vivono in una condizione di peccato oggettivo. La liberazione dei poveri e dei ricchi avviene nello stesso tempo ". In un certo senso, si potrebbe dire che Giovanni Paolo II accetti questa risposta quando scrive: " I sindacati... sono un esponente della lotta per la giustizia sociale... Tuttavia, questa "lotta" deve essere vista come un normale adoperarsi "per" il giusto bene... ma questa non è una lotta "contro" gli altri " (Enciclica Laborem exercens, n. 20). Potremmo perfino dire che già Pio XI aveva anticipato questa posizione (Enciclica Quadragesimo anno, 114).

Bibl. - Fu_ek I, " Marxismo ", in: Dizionario di teologia fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 682-693. Giovanni Paolo II, Enciclica " Laborem exercens, 14-9-1981. Girardi G., Marxismo e Cristianesimo, Ed. Cittadella, Assisi, 1966. Mion R., " Classe sociale ", in: Dizionario di scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 181-182. VITO F., L'Economia a servizio dell'uomo, Ed. Vita e Pensiero, Milano 1961.

L. González-Carvajal