DIZIONARIO SINTETICO DI PASTORALE

CASIANO FLORISTAN - JUAN JOSÈ TAMAYO

C

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Codice. (inizio)

Il termine diritto, preso in senso oggettivo, significa ciò che è dovuto ad un altro come suo, e, pertanto, ciò che è oggetto della giustizia intesa come virtù ( "ordine dell'amore ") all'altro in quanto altro, cioè, in quanto distinto ma in rapporto interpersonale col primo. In senso soggettivo, il diritto è lo stesso rapporto intersoggettivo reciproco e giusto in cui esiste l'inviolabile autonomia della persona tra le altre persone. Pertanto, è la facoltà etica di operare di ciascuna persona di fronte alle altre con cui si trova in un rapporto intersoggettivo.

Per una chiara metonimia, il diritto oggettivo venne a significare anche la regola o norma del diritto, la legge o il complesso di leggi che, quando forma un corpo sistematicamente ordinato e promulgato dalla suprema autorità pubblica, riceve il nome di codice. Questa riunione organica di leggi, se si tratta di leggi ecclesiastiche, riceve il nome di diritto canonico. Questa denominazione è ufficiale e costante a partire dal secolo VIII, quantunque già a partire dal Concilio di Nicea (325), si distinguessero i canoni (kànones, o leggi ecclesiastiche) dalle leggi (nòmoi, o leggi civili).

Il complesso di leggi ecclesiastiche passò attraverso tre fasi storiche per giungere alla sua prima codificazione: " ius antiquum ", fino al Decreto di Graziano (1139-1142); " ius novum " dal Decreto di Graziano fino al Concilio di Trento; e " ius novissimo o diritto tridentino e successivo fino al Codice del 1917.

La fonte più importante prima del Codice è lo stesso Concilio di Trento (1545-1563) con la sua seconda parte De reformatione, frutto delle sessioni XXIV e XXV.

San Pio X annunciò il progetto del primo Codice nell'enciclica Arduum sane munus (festa di san Giuseppe del 1904). Benedetto XV disse nel Concistoro del 4 Dicembre 1916 che il Codice, opera principalmente del cardinale Gasparri, era già terminato. Lo stesso Benedetto XV lo promulgò solennemente il 27 Maggio 1917, festa di Pentecoste. Dopo un anno di vacazione, divenne obbligatorio in tutta la Chiesa latina o occidentale, a partire dalla festa di Pentecoste, il 19 Maggio 1913. Questo Codice comprendeva 2.414 canoni, distribuiti proporzionalmente in cinque libri: norme generali, le persone, le cose, i processi, i delitti e le pene.

Il 25 Gennaio 1959, il Papa Giovanni XXIII annunciò pubblicamente il progetto di un Nuovo Codice di Diritto Canonico. Richiese ventiquattro anni di lavoro intenso compiuto da 341 periti responsabili che presentarono oltre 30.000 emendamenti. Si giunse così al 25 Gennaio 1983 quando Giovanni Paolo II promulgò il Nuovo Codice con la Costituzione Sacrae disciplinae leges. Esso divenne obbligatorio il 27 Novembre 1983, prima domenica di Avvento. Il Nuovo Codice, che traduce in categorie e in termini giuridici la teologia del Vaticano II, consta di 1.752 canoni, distribuiti in sette libri: norme generali, il popolo di Dio, la funzione d'insegnare della Chiesa, la funzione di santificare della Chiesa, i beni temporali della Chiesa, le sanzioni nella Chiesa, i processi.

L'attuale Codice è una sintesi teologico-giuridica della rivelazione e della dottrina della Chiesa per organizzare, secondo giustizia, il popolo di Dio. In questa maniera, contribuisce allo sviluppo organico della vita della Chiesa in quanto comunità di fede, di speranza e di carità, e porge aiuto ad ogni membro per la sua perfezione integrale.

Bibl. - Aa.Vv., Il codice del Vaticano II. Perché un codice nella Chiesa?, Ed. dehoniane, Bologna, 1984. Chiappetta L., Il Codice di Diritto Canonico, Commento giuridico pastorale, 2 voll., Ed. dehoniane, Napoli, 1988. Idem, Dizionario del Nuovo Codice di Diritto Canonico, Ed. dehoniane, Napoli, 1986. Ghirlanda G., Il diritto nella Chiesa, mistero di comunione. Compendio di diritto ecclesiale, Ed. Paoline, 1990. Pinto P. V., Commento al Codice di Diritto Canonico, Roma, 1985.

L. Vela

Collegio episcopale. (inizio)

La teologia della collegialità dei vescovi è stata uno dei grandi temi del Concilio Vaticano II. Il termine è poco frequente nella tradizione, ma lo è il suo contenuto. Esso riflette il carattere corporativo degli apostoli (LG 19, 22), nel senso che tutti i vescovi formano un collegio episcopale il cui presidente è il vescovo di Roma (LG 22). Il concilio ecumenico è stato per la tradizione la forma più piena di collegialità episcopale, ma questa ha una base molto ampia sotto l'aspetto di una ecclesiologia di comunione: la consacrazione dei vescovi da parte di quelli delle chiese vicine, lo scambio di lettere e di misure disciplinari o di scomunica, i sinodi provinciali o regionali, la preoccupazione missionaria universale di ogni vescovo, la struttura dei atriarchi e dei raggruppamenti nazionali sono il riflesso della comunione della Chiesa su cui si fonda la collegialità episcopale.

Attualmente, lo sviluppo della collegialità episcopale costituisce un elemento necessario per equilibrare l'ecclesiologia che si era sviluppata unilateralmente attorno al concetto della monarchia papale e di una giurisdizione o autorità episcopale che veniva dal Papa. I vescovi non sono delegati papali nelle diocesi e nemmeno sudditi del Papa: sono membri di un collegio il cui presidente nato è il primate della Chiesa universale, che è pure fratello nell'episcopato in quanto è vescovo di Roma. Questa teologia della collegialità, che ha il suo fondamento nel sacramento stesso dell'Ordine, rende possibile una nuova ristrutturazione della Chiesa, una maggiore autonomia delle Chiese locali e un maggior protagonismo delle Conferenze episcopali di ogni nazione come espressioni minori e limitate della collegialità.

Bibl. - Bertrams W., La collegialità episcopale, in: " Civiltà Cattolica ", 1964, I, 436-455. Colombo C., Il collegio episcopale e il primato del Romano Pontefice, in: " La Scuola ", 93 (1965), 35-56. D'Ercole G., Communio-Collegialità-Primato e Sollicitudo omnium Ecclesiarum dai Vangeli a Costantino, Roma, 1964. Hertling L., Communio. Chiesa e papato nell'antichità cristiana, Roma, 1961. Rahner K. Ratzinger J., Episcopato e Primato, Brescia, 1966.

J.A. Estrada

Comandamenti. (inizio)

La Bibbia non parla di " dieci comandamenti ", ma di " dieci parole ", che sono intese come parole di salvezza. Assieme al Decalogo, appaiono altre raccolte di leggi che dirigono la vita del popolo eletto. C'è da notare in particolare: " il Codice dell'Alleanza " (Es 21-23); il " Codice della santità " (Lv 17-26); ed il complesso di leggi del Deuteronomio (Dt 17-25).

Il testo del Decalogo, nelle due tradizioni (Es 20,1-17 e Dt 5, 6-22), omincia col ricordare l'azione liberatrice e salvifica di Dio: " Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù " (Es 20,2). In questa autorivelazione di Dio, risiede il fondamento di tutti e di ciascun comandamento. Il significato essenziale del Decalogo è una chiamata universale alla realizzazione della libertà data da Dio, ed è un invito ad agire a favore della liberazione degli uomini.

La formazione del Decalogo è frutto di un processo storico-culturale. In questo senso, non va inteso come una legge promulgata direttamente da Dio. Piuttosto, il popolo di Dio incorporò nella sua fede l'etica ricevuta dalla famiglia, dal clan, dalla tribù. L'opzione per JHWH e l'alleanza costituiscono il principio selettivo di tutta la sua etica. Nel vangelo, Gesù dice: " Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento " (Mt 5,17). Gesù insiste sui due comandamenti principali: l'amore verso Dio e l'amore verso il prossimo. Il discorso della Montagna esige che l'uomo compia l'intenzione più profonda dei comandamenti. Nell'ultima Cena ci ha dato il suo " comandamento nuovo ".

San Paolo proclama la liberazione dalla legge, e pertanto, dai comandamenti del Decalogo, non, però, nei suoi contenuti, ma come via di di salvezza.

Sotto l'influsso di Sant'Agostino, il Decalogo occupa un posto importante nella dottrina cristiana. I comandamenti hanno determinato la struttura dei catechismi e delle guide per li confessioni. Anche la teologia morale ha sistemato la " morale speciale " con lo schema dei comandamenti. Questo orientamento, soprattutto nei manuali di tradizione gesuitico-alfonsiana, ha avuto grandi ripercussioni nella formulazione e nel vissuto della morale cristiana.

Attualmente, sotto la spinta di ricerca di valori fondamentali per la nostra società, si cerca di rivalorizzare il Decalogo. Questo compito richiede uno sforzo per cogliere il suo intento originale; richiede anche discernimento per definire i punti concreti più attuali.

Bibl. - Aa. Vv. I dieci comandamenti, Ed. Cittadella, Assisi, 1978. Aa.Vv., I dieci comandamenti spiegati da dieci cardinali, Ed. Rizzoli, Milano, 1984. Bonora A., " Decalogo ", in: Nuovo Dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 370-384. Exeler A., Vivere nella libertà di Dio, Ed. Paoline, Roma, 1935. Lohfink N., Esegesi biblica in cambiamento, Ed. Queriniana, Brescia, 1973.

M. García Leyva

Commissione diocesana di pastorale. (inizio)

Le commissioni diocesane di pastorale sono organismi esecutivi, di natura permanente quanto a istituzione, mentre i membri e le loro attività possono essere a tempo determinato. Queste commissioni portano avanti l'azione pastorale della Chiesa locale, sotto la direzione del Vescovo e dei consigli diocesani. Il " motu proprio " Ecclesiae sanctae dice:

" Affinchè il consiglio (pastorale) raggiunga veramente il suo scopo, è conveniente che studi preventivi precedano il lavoro in comune, con l'aiuto, se occorre, degli istituti e degli uffici che operano a questo fine " (art. 16 § 4).

Il Nuovo Codice di Diritto Canonico, a sua volta, recita:

Can. 512 § 1. " Il consiglio pastorale è composto da fedeli che siano in piena comunione con la Chiesa cattolica, sia chierici, sia membri di istituti di vita consacrata, sia soprattutto laici; essi vengono designati nel modo determinato dal Vescovo diocesano.

§ 2. " I fedeli designati al consiglio pastorale siano scelti in modo che attraverso di loro sia veramente rappresentata tutta la porzione di popolo di Dio che costituisce la diocesi, tenendo presenti le diverse zone della diocesi stessa, le condizioni sociali, le professioni e inoltre il ruolo che essi hanno nell'apostolato, sia come singoli, sia in quanto associati ".

Le commissioni di pastorale possono essere coordinate da una segreteria tecnica o centro diocesano che, a sua volta, raccoglie le consultazioni del consiglio pastorale. Questo centro diocesano è in realtà un " centro di azione pastorale ", come luogo dove si stabilisce il contatto tra la linea orizzontale delle commissioni e quella verticale del vescovo, del vicario e del consiglio presbiterale.

Il centro diocesano di azione pastorale è, in primo luogo, un organismo di studio e di direzione che studia i problemi reali della diocesi e prepara i progetti pastorali con una visione ampia. Quando questo compito supera le possibilità di una diocesi, sembra conveniente che il centro di pastorale sia regionale. In secondo luogo, è un organismo di azione. Attraverso questo centro, passano tutte le decisioni pastorali. Affinché sia efficace, occorre che sia limitato a personale qualificato. In terzo luogo, è anche un organismo di formazione e di orientamento, non di vigilanza né di controllo, di tutti gli agenti della pastorale.

Bibl. - Aa.Vv., La Chiesa particolare, Bologna, 1985. Aa.Vv., Diaconia della carità nella pastorale della Chiesa locale, Padova, 1986. Cappellini E. - Coccopalmerio F., Temi pastorali del Nuovo Codice, Brescia, 1984. Cappellini E. - Dalla Torre F., Diritto e Pastorale, Ed. Vita Pastorale, Società san Paolo, 1992.

C. Floristán

Comportamento. (inizio)

Il comportamento è l'attività globale di un soggetto in connessione con un mezzo. Questa breve definizione cerca di riassumere in poche parole la grande quantità di definizioni che sono state date dalle varie scuole, posizioni o teorie. Così, il comportamento è definito come "... la reazione fisica ad uno stimolo fisico ", o " il complesso di reazioni che si adattano agli stimoli provenienti da un mezzo esterno, o l'attività osservabile pubblicamente di muscoli o ghiandole ", ecc.

La caratteristica del comportamento è di essere la risposta di un soggetto come un tutto. Questa risposta o attività è suscettibile di essere considerata in funzione dello stimolo, in funzione del soggetto, od anche in funzione delle caratteristiche del tutto.

L'analisi funzionale del comportamento studia gli stimoli e le risposte, analizzando in forza di quali stimoli un comportamento è acquisito, mantenuto ad un livello di probabilità, o incrementato. Questa analisi si limita spesso alle risposte esterne. Eppure, le risposte interne, non osservabili in pubblico e la cui pubblicità è dovuta alle relazioni introspettive del soggetto, acquistano attualmente un'importanza vitale per realizzare terapie e modificazioni di comportamento.

Quando si pone l'accento sull'analisi delle risposte, non tanto in funzione degli stimoli, quanto piuttosto in funzione del soggetto, si parla di un'analisi delle funzioni psichiche. Così, si parla di percezione, di memoria, di soluzione di problemi, e, in un senso differenziale, di intelligenza. Le funzioni psichiche, in questo caso, sono analizzate come varianti intermedie, da situarsi tra gli stimoli e le risposte.

Un ultimo tipo di analisi del comportamento è quello che mette le risposte in relazione col soggetto come un tutto. In questo modo, si fa dipendere il comportamento dalla personalità del soggetto.

Bibl. - Andreoli V., La norma e la scelta, Ed. Mondadori, Milano, 1984. Pancheri P. ed altri, Trattato italiano di psichiatria, Masson, Milano, 1993. Polizzi V., " Comportamento ", in: Dizionario di scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 202-203. Schmitz Ph., Ricerca induttiva della norma morale, Ed. dehoniane, Bologna, 1977. Valsecchi A. - Rossi L., La norma morale, Ed. dehoniane, Bologna, 1971.

M. N. Lamarca

Comunicazione. (inizio)

La comunicazione è il processo di interazione tra emittenti e riceventi mediante messaggi significativi, partendo da un codice e da un contesto comune, e usando i mezzi adeguati.

Un sistema di comunicazione è determinato da quattro componenti fondamentali: gli attori, le espressioni, gli strumenti e le rappresentazioni.

Gli attori sono gli esseri viventi che interagiscono tra di loro, ricorrendo all'informazione. Le espressioni sono le modificazioni realizzate dal soggetto sulla materia espressiva e che le conferisce un uso rilevante nell'interazione comunicativa. Gli strumenti di comunicazione sono gli organi biologici e tecnologici che assicurano la comprensione tra l'emittente e il ricevente. Le rappresentazioni nella comunicazione nascono da processi conoscitivi mediante i quali si associano un repertorio di espressioni e un repertorio di precetti un oggetto di riferimento, a proposito del quale si comunica.

Le modalità di comunicazione possono essere classificate in due grandi categorie: la comunicazione verbale e quella non verbale. La prima caratterizza il linguaggio come sistema di comunicazione; col secondo termine, si indicano tutte quelle risposte umane che non si descrivono come parole esplicitamente manifeste.

I procedimenti di comunicazione non verbale sono virtualmente inesauribili; le modalità più rilevanti per le loro caratteristiche sono: la prossemica, l'uso dello spazio fisico in interazioni con altri, e il suo significato; la cinesica: comprende i gesti, i movimenti del corpo, le espressioni facciali, gli sguardi e gli atteggiamenti. L'espressione facciale e l'interazione dello sguardo sono trattate come casi specifici di cinesica, data l'importanza dei due fenomeni.

La prosodia linguistica ed il paralinguaggio sono fenomeni vocali che accompagnano la produzione di una sequenza linguistica, per esempio, lo schioccare della lingua o il battere dei denti, certi raschiamenti della gola, ecc. Questi fenomeni possiedono, in ogni caso, un valore comunicativo specifico.

Bibl. - Beauvalet C., Dinamica cristiana della comunicazione moderna, Ed. Paoline, Roma, 1971. " Concilium ", 17 (1981), n. 8, numero monografico: Chi ha la parola nella Chiesa?. Lever F., " Comunicazione ", in: Dizionario di catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 19877 pp. 160-163. Salonia G., Comunicazione interpersonale, LAS, Roma, 1979. Santos E., " Comunicazione ", in: Dizionario di Pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 19897 pp. 163-174.

M. Lamarca

Comunione. (inizio)

Nel documento finale del II Sinodo straordinario dei vescovi del 1985, si afferma che " l'ecclesiologia di comunione è un'idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio " (n. 1). Questa idea proviene dal concetto di Chiesa come Popolo di Dio e sacramento di salvezza per il mondo. Il termine comunione traduce la parola greca koinonìa, che significa anche solidarietà. Deriva dal verbo " mettere in comune ". La koinonìa cristiana, secondo il NT e la tradizione della Chiesa, ribadita nel II Sinodo straordinario, è " comunione con Dio, per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo ". È comunione fraterna di beni e di affetti. In ultima analisi, è un modo comunitario di partecipare e di condividere l'unione e la carità di Cristo.

Ciò che caratterizza la comunione cristiana è il " prendere parte attiva ". Da un lato, c'è una comunione mediante la fede e i sacramenti della fede. Da un altro, si manifesta un " vincolo di unione " tra tutti i membri della comunità cristiana. La koibonìa è, dunque, comunione con Dio e comunione della Chiesa e delle Chiese particolari, che si compie mediante la comunione nella testimonianza del vangelo (martyrìa), nel servizio al mondo (diakonìa), nella dossologia resa a Dio (leitourghìa), e nell'essere e vivere insieme (koinonìa).

Perché la Chiesa sia una comunione e viva oggi in una società civile che si considera democratica, occorre che rispetti i diritti di ognuno e sappia ascoltare la voce di tutti, specialmente di coloro che non hanno nemmeno voce. Deve invitare a condividere i beni e ad essere solidali coi poveri e con gli emarginati. Deve promuovere l'unione delle Chiese mediante un ecumenismo attivo ed instancabile. In una parola: la koinonìa è il principio regolatore della Chiesa e di ogni comunità cristiana.

Bibl. - Bori P.C., Koinonìa. L'idea della comunione nell'ecclesiologia recente e nel Nuovo Testamento, Brescia, 1972. Dianich S., La Chiesa, mistero di comunione, Ed. Marietti, Torino, 1975. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995. Franco E., Comunione e partecipazione. La koinonìa nell'epistolario paolino, Brescia, l986. Tillard J.M.R., Chiesa di Chiese. L'ecclesiologia di comunione, Brescia, 1989.

C. Floristán

Comunità. (inizio)

La Chiesa è essenzialmente comunità. In questo senso, il Concilio Vaticano II dice: " Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli sacramento visibile di questa unità salvifica " (LG 9). In questo testo, non c'è la parola comunità, ma è implicita. Si tratta, infatti, della convocazione di tutti i credenti, uniti come un solo popolo, con una stessa fede ed una stessa forma di presenza nel mondo, per essere sacramento di unità tra gli uomini. La comunità è appunto questo.

L'essere comunitario della Chiesa deriva dal messaggio e dall'azione del Gesù storico. Sappiamo, infatti, che la prima cosa che Gesù fece nel suo ministero apostolico fu di riunire una piccola comunità di discepoli che vissero con lui e come lui. Dai membri di questa comunità, Gesù ne scelse dodici che rappresentavano simbolicamente le dodici tribù del popolo d'Israele (Mt 19,28; Ap 21, 14.20). Di qui, l'indole comunitaria dei Dodici. La condizione per essere ammessi in quella comunità fu, fin dall'inizio, la rinuncia al denaro e, in genere, a qualsiasi forma di possedimento (Mt 8,19-20; Lc 9,59; Mt 19,21), per mettere al posto del progetto di possedere, quello di condividere. Il programma di vita della comunità è il programma delle beatitudini (Mt 5,3-12; Lc 6,20). L'atteggiamento fondamentale nella comunità è il servizio agli altri fino alla morte (Mt 20,25-28). In questo modo, Gesù offrì un'alternativa al modello di convivenza e di società in cui viviamo. Di fronte alla convivenza e alla società basate sull'avere, sul potere e sul prestigio, Gesù presenta l'alternativa della comunità cristiana, basata sulla condivisione, sul servizio e sulla solidarietà. Naturalmente, la piccola comunità cristiana non può essere un'alternativa al complesso della società in quanto tale, perché, per questo, manca la mediazione politica. Però, la comunità cristiana deve essere un'alternativa valida ai principi e valori su cui si basa la società ed il sistema vigente.

D'altra parte, il fatto comunitario è fondamentale nella vita della Chiesa primitiva, in maniera tale che lo stesso termine ekklesìa ci rimanda all'idea della comunità riunita in un luogo concreto Così, la Chiesa fu, all'inizio, un complesso di piccole comunità, che si sentivano legate fra di loro dalla stessa fede in Gesù Risorto e dalla presidenza degli apostoli e dagli altri ministeri suscitati dal Signore per la crescita comune dell'unica ekklesìa. La descrizione più idealizzata di ciò che fu la vita di quelle comunità si trova nel libro degli Atti degli Apostoli, dove si legge: " Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno (At 2,44-45). Luca vuol dire che l'ideale utopistico, che non si riuscì a conseguire tra i Greci, si realizzò nella Chiesa, e proprio nel fatto comunitario.

Tutto ciò viene a significare che la cosa prima e più fondamentale nella Chiesa non è il ministero, ma la comunità. E questo in modo tale che il senso e la ragione d'essere del ministero consiste proprio nell'essere un servizio nella comunità e per la comunità dei credenti. In questo senso, è importante tener presente che gli scritti del NT, ad eccezione delle Lettere Pastorali, sono sempre indirizzati alle comunità, non ai loro dirigenti o ministri. In ultima analisi, si tratta di comprendere che la Chiesa è, prima di tutto e soprattutto, il nuovo Popolo di Dio, la comunità dei salvati (LG 9), la comunità sacerdotale (LG 10-11), nel cui interno lo Spirito suscita diversi carismi e ministeri (LG 12). Questo avviene in modo che la gerarchia ed il ministero vanno intesi all'interno del dato previo e fondamentale della comunità (LG 18 ss). D'altra parte, però, quando si parla della comunità cristiana, è fondamentale tenere sempre presente che si tratta di una comunità strutturata, cioè, una comunità in cui, per il suo servizio, esiste un ministero stabilito ufficialmente, in armonia col significato dell'apostolicità della Chiesa.

Stando così le cose, sembra di poter trarre questa conclusione: se il ministero è un elemento essenzialmente costitutivo della comunità cristiana, si deduce logicamente che ogni comunità di credenti ha il diritto di avere i ministeri e i ministri che le sono necessari. Perciò, quando una comunità si trova senza ministri, dovrebbe essere designata una persona idonea per esercitare questa funzione. D'altra parte, le autorità ecclesiastiche non dovrebbero, per l'accesso al ministero, porre condizioni che abbiano come conseguenza la carenza oggettiva di ministri in non poche comunità della Chiesa.

Infine, è importante ricordare che la Chiesa raggiunge il suo punto culminante di realizzazione quando si riunisce come comunità per celebrare l'Eucaristia. Avevano ragione i Padri della Chiesa nell'affermare che la Chiesa fa l'Eucaristia, e, a sua volta, l'Eucaristia fa e rifà la Chiesa.

Negli anni successivi al Concilio Vaticano II, si è svegliata nella Chiesa la coscienza comunitaria. Il risultato più importante di questa nuova coscienza è l'ampio movimento delle comunità ecclesiali di base, soprattutto in America Latina e in alcuni paesi d'Europa. Una comunità di base e " un gruppo ecclesiale di adulti credenti in Gesù di Nazaret. Sono limitate quanto a numero di partecipanti, e questo facilita l'esistenza di rapporti interpersonali profondi ed una comunicazione dinamica. Sono relativamente omogenee quanto all'estrazione sociale dei membri (settori popolari, classe media), alle opzioni politiche e alla comprensione emancipatrice del messaggio evangelico. Coltivano un atteggiamento critico di fronte alla Chiesa istituzionale, come anche una comunione dialettica con la gerarchia ecclesiastica. Seguono un processo catecumenale o neo- catecumenale di educazione alla fede, di riflessione teologica e di conversione al Dio di Gesù Cristo, Dio dei poveri. Celebrano fraternamente la fede, la speranza e la carità in un clima festoso, con la partecipazione attiva di tutti i membri, in una liturgia densa di nuovi simboli. Praticano corresponsabilmente attraverso i loro membri i differenti ministeri e carismi. Orientano verso l'impegno socio-politico di carattere liberatore. Vedono la Chiesa come Popolo di Dio in esodo e come comunità profetica. Cercano un'articolazione teologica si collochi tra l'utopia storica di una società uguaglitaria e la speranza escatologica " (J.J. Tamayo). Naturalmente, queste comunità non sono esente da pericoli, come per esempio, una certa forma di settarismo, soprattutto nelle comunità d'Europa.

Bibl. - Boff L., Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la Chiesa, Roma, 1978. Dianich S., " Comunità ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 148-165. Segundo J.L., Questa comunità chiamata Chiesa, Ed. Morcelliana, Brescia, 1974. Simons E., " Comunità ", in: Sacramentum mundi, 2, Ed. Morcelliana, Brescia, 1974, coll. 511-515.

J.M. Castillo

Comunità di base. (inizio)

Le espressioni comunità (ecclesiali) di base, comunità cristiane popolari, chiesa popolare ed altre simili rimandano ad uno dei fenomeni ecclesiali recenti più significativi, che nasce, si sviluppa e si diffonde qualitativamente e quantitativamente in tutta la Chiesa come un aggregamento creativo dell'ecclesiologia comunitaria partecipativa e paritaria del Vaticano II (LG c. II) e come una realizzazione pratica della rivoluzione ecclesiologica promossa e incoraggiata dai vescovi di tutto il mondo durante il Concilio.

All'interno della eterogeneità presentata dalle comunità di base nel complesso della Chiesa, dovuta soprattutto ai vari contesti culturali e ai loro sistemi teologici, possiamo distinguere i seguenti tratti generali che le identificano: sono gruppi ecclesiali formati da credenti che appartengono alle classi popolari o medie della società, o che hanno fatto un'opzione incondizionata per i poveri. Hanno un numero limitato di membri (generalmente, non più di quaranta), per rendere più facili i rapporti interpersonali stretti, come fondamento per vivere la fratellanza in pienezza. Sono relativamente omogenei nell'interpretazione del vangelo (lettura liberatrice e sovversiva) e nelle loro opzioni socio-politiche (di sinistra). Seguono un processo comunitario di educazione alla fede in tre tappe:

a) la tappa pre-catecumenale o di iniziazione, che tende a suscitare una fede adulta e personalizzata e a provocare una prima conversione ai valori del Regno;

b) la tappa catecumenale, orientata all'approfondimento della fede, tanto sul piano teorico quanto in quello della prassi;

c) la tappa propriamente comunitaria, caratterizzata dalla solidarietà, dalla condivisione e dal vivere in comune l'essere cristiano in tutte le sue dimensioni. Si celebra fraternamente la fede e la vita in un clima festoso e partecipativo, in quanto il protagonismo spetta all'assemblea riunita. Si esercitano in forma corresponsabile i vari ministeri e carismi che lo Spirito elargisce liberamente ai membri della comunità per la crescita della Chiesa e per servire al bene comune. Vengono così superate le rigide opposizioni tuttora vigenti tra chierici e laici, tra Chiesa docente e Chiesa discente, tra gerarchia e popolo. Sono presenti nella società e contribuiscono alla sua trasformazione mediante l'impegno di tutta la comunità e di ognuno dei suoi membri, cominciando così a rendere reale il Regno di Dio nella storia.

Le comunità di base sono in sintonia coi nuovi climi culturali e socio- politici di emancipazione (in Europa) e coi movimenti popolari di liberazione (in America Latina). Possiedono un'enorme importanza etico- politica che le porta ad assumere la causa degli oppressi e degli emarginati dal sistema e a soffrire esse stesse l'emarginazione nella società e nella Chiesa. Ciò spiega come, oltre ad essere un movimento rivoluzionario delle pratiche e credenze religiose utilitariste, esse costituiscono una fonte di delegittimazione dell'ordine stabilito e di erosione dell'ingiustizia strutturale.

Le comunità di base puntano alla nascita di un nuovi paradigma ecclesiale, in cui i credenti cessino di essere oggetti passivi di assistenza religiosa e sociale e diventino soggetti dell'evangelizzazione e protagonisti della storia religiosa e politica (Metz). In questo nuovo paradigma, il centro della Chiesa è la comunità cristiana ed i carismi che vi sono in essa; non è il principio del potere. Le strutture inflessibili di dominazione cedono il passo a strutture di servizio. La rigidezza organizzativa e la non comunicazione sono sostituite da nuovi spazi di comunicazione orizzontale, gratuita e creativa, maggiormente in accordo con la ragione comunicativa e dialogica che non con " l'ordine e il comando ".

Il fenomeno delle comunità di base va inteso come un evento di profonda densità teologica, e non come un semplice fenomeno sociologico. Infatti, come ha messo in chiaro L. Boff, mediante le comunità di base, si scopre la Chiesa tra i poveri con la forza dello Spirito. Queste comunità affondano le loro radici nel movimento di Gesù e nell'esigenza della sua sequela. Intendono collegarsi con le comunità cristiane primitive e sono l'esplicitazione della Chiesa come Popolo di Dio.

Tuttavia, è necessario mettere in chiaro due questioni che sono della massima importanza per il futuro di queste comunità, e, in ultima analisi, della Chiesa stessa. Qui, ci limitiamo ad accennarle. La prima si riferisce al loro inserimento nella Chiesa istituzionale. Esse fanno parte dell'istituzione ecclesiale, della struttura visibile della Chiesa e non possono finire in un movimento non istituzionale ed anarchico. Però, questa istituzionalità non ha come mèta il consolidamento di alcune strutture burocratiche e centraliste, ma è a servizio del Regno e dell'animazione comunitaria. Ciò spiega la funzione critica che hanno da esercitare le comunità di base in questo campo. Devono evitare la creazione di chiese parallele, ma anche di essere fagocitate dall'organizzazione ecclesiastica.

La seconda questione riguarda il rapporto comunità di base-gerarchia. La comunione può spezzarsi da parte della gerarchia, come anche da parte delle comunità. Abbiamo casi da entrambe le parti. Perciò la comunione, per essere feconda e creatrice di fratellanza, deve essere bi-direzionale: delle comunità di base con la gerarchia e di questa con quelle. Ciò esige una nuova impostazione dell'esercizio dei ministeri ordinati e, più concretamente, il riconoscimento del loro carattere funzionale a servizio della comunità, e non superficialmente o al margine di essa. La comunione non può essere intesa come sottomissione ossequiosa, ma come comunione critica, dialettica e interpretante, dove la correzione fraterna possa esistere nelle due direzioni. Inoltre, come è importante la comunione tra la comunità e i pastori, altrettanto importante è la comunione tra le varie comunità ecclesiali. Si deve fuggire sia l'autoritarismo quanto il settarismo.

Bibl. - Boff C., Fisionomia delle Comunità ecclesiali di base, in: " Concilium ", 17 (1981) 4, 99-109 (625-635). Boff L., Ecclesiogenesi. Le comunità ecclesiali di base reinventano la Chiesa, Ed. Borla, Torino, 1978. Gallo L., Comunità di base (America Latina), in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann, Torino, 1987, pp. 164-165. Marins J., Comunità ecclesiali di base in America Latina, in: " Concilium ", 11 (1975), 43-54 (571-582).

J.J. Tamayo

Concilio. (inizio)

Con il Vaticano II, la Chiesa ha raggiunto una nuova consapevolezza circa l'importanza del concilio come espressione di una ecclesiologia di comunione. La sinodalità della Chiesa e la lunga tradizione di concili particolari, nazionali e ecumenici sembravano aver toccato il termine dopo la promulgazione dell'infallibilità pontificia. Però, i concili non sono semplici riunioni di vescovi in cui si definiscono dogmi, ma rappresentano la collegialità e la corresponsabilità di tutti i vescovi nella Chiesa universale, come anche l'interrelazione di tutte le Chiese. Il concilio eucumenico riunisce tutta la Chiesa ed è convocato generalmente dal Papa. Basta, però, che lo indìca e che ne accetti le decisioni perché il concilio sia ecumenico. Secondo la tradizione della Chiesa ortodossa, ci sono soltanto sette grandi concili ecumenici, che sono quelli del primo millennio, prima della divisione. Gli altri concili che dai cattolici sono chiamati ecumenici (compreso il Vaticano II) sono per loro soltanto sinodi generali della Chiesa latina o di occidente, ed esprimono una Chiesa divisa. Oggi, tra i cattolici, cresce il desiderio di un concilio ecumenico che riunisca tutte le Chiese cristiane.

Il concilio mostra l'unità e la pluralità della Chiesa; è l'autorità suprema della Chiesa (che può anche esprimersi personalmente mediante il suo presidente nato che è il Papa) e rispecchia la comunione ecclesiale mediante i vescovi che rappresentano le varie chiese. Nella tradizione, concilio e sinodo sono due concetti intercambiabili, sebbene attualmente esista un Sinodo dei Vescovi come istituzione permanente e che si riunisce regolarmente come forma di cooperazione del collegio episcopale nel governo della Chiesa. Quantunque abbia un carattere puramente consultivo e di aiuto al Papa, il Sinodo dei vescovi potrebbe assumere maggiori responsabilità in futuro e contribuire ad un governo più decentralizzato e più partecipativo.

Bibl. - Favale A., I concili ecumenici, Torino, 1962. Jedin H., " Concilio ", in: Dizionario Teologico, I, Ed. Queriniana, Brescia, , pp. 280-289. Löhrer M., Il concilio ecumenico, in: Aa.Vv., Mysterium Salutis, 2, Ed. Queriniana, Brescia, 1968, pp. 105-114. Medica G.M., " Concilio Vaticano II ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann, Torino, 1987, pp. 165-167. Sullivan F.A., Il magistero nella Chiesa cattolica, Ed. Cittadella, Assisi, 1986.

J.A. Estrada

Concordato. (inizio)

Il termine concordato è usato per indicare qualsiasi tipo di accordo tra la Chiesa e lo Stato. In senso più stretto, la parola " concordato " indica il patto tra uno Stato e la Santa Sede, che riveste la forma più solenne di un trattato internazionale e che ha un contenuto ampio, costituendo, per ciò stesso, un vero statuto giuridico bilaterale. Il concordato è dunque un accordo tra la Chiesa e lo Stato per regolare punti che interessano entrambe le parti.

Gli accordi meno solenni, e che si occupano solo di alcuni aspetti concreti particolari e provvisori, sono chiamati patti, o convenzioni, accordi, protocolli, ecc. Si tratta di accordi parziali. La terminologia non è, però, sempre la stessa.

Il concordato costituisce oggi un vero trattato internazionale di carattere normativo. Si fonda sul Diritto Naturale e su quello delle Nazioni. Le clausole contrattuali creano nelle due parti un obbligo giuridico di attenersi ai patti. Questo causa il diritto soggettivo di esigerne l'adempimento. Le clausole normative stabiliscono alcune norme oggettive di diritto, valide e applicabili agli ordinamenti giuridici di entrambe le parti contraenti.

La norma concordata occupa un rango superiore a quello di qualsiasi norma di diritto interno od esterno, senza che si trasformi in diritto interno, eccetto che il concordato venga pubblicato ufficialmente.

Nella Chiesa, solo la Santa Sede è soggetto capace di concordati. La Santa Sede è l'unica persona giuridica pubblica che esercita, col riconoscimento e con l'accettazione della comunità internazionale, lo ius legationis. Con la Santa Sede, unica persona giuridica internazionale nella Chiesa, e sua rappresentante, gli Stati stipulano concordati. È dunque tutta la comunità politica, costituita in Stato, che rimane vincolata e che è soggetta ai diritti ed obblighi che derivano dall'accordo solennemente stabilito. Pertanto un semplice cambio di governo non fa cessare i concordati.

Normalmente, il concordato adotta la forma di un trattato solenne bilaterale. Storicamente, sono state usate anche altre forme: il documento duplice, la bolla pontificia, ecc.

Sono tre i momenti fondamentali nella elaborazione di un concordato: il negoziato, la firma e la ratifica. Il negoziato suole farsi mediante ministri plenipotenziari. Dopo che è stato raggiunto l'accordo, si procede alla firma. Viene poi la ratifica e l'approvazione definitiva. Questa è competenza esclusiva del Romano Pontefice e del Capo dello Stato. Negli stati democratici, prima della ratifica da parte del Capo dello Stato, è richiesta l'approvazione delle Camere o del Parlamento, che lo fanno per legge. In questa maniera, il concordato passa sotto il controllo del potere legislativo. Nella Chiesa, in cui tutti i poteri convergono nel Romano Pontefice, non è richiesta l'approvazione di altri organi. Per l'entrata in vigore del concordato, si richiede l'interscambio di strumenti di ratifica. Ciò viene compiuto dai ministri plenipotenziari nel luogo e nel tempo prestabiliti. Però, la piena efficacia come legge statale viene conseguita, ordinariamente, quando è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dello Stato.

Il concordato ha bisogno di essere interpretato. La sua interpretazione più piena e più efficace è quella autentica bilaterale. E' quella definitiva. Riguardo al modo, abbiamo un esempio famoso negli Acuerdos tra la Santa Sede e il governo spagnolo, del 3 Gennaio 1979, in cui è stabilito che la Santa Sede ed il governo spagnolo procederanno di comune accordo nel risolvere i dubbi o le difficoltà che potranno sorgere nell'interpretazione o nell'applicazione di qualsiasi clausola, ispirandosi ai princìpi e allo spirito di cui sono animate.

I concordati, come le leggi, tendono ad essere stabili, ma la stabilità non è sinonimo di perpetuità. E' chiaro che un concordato può essere abrogato o trasformato solo col reciproco consenso di entrambe le parti.

Bibl. - Aa.Vv., La revisione del Concordato, Città del Vaticano, 1985. Aa.Vv., I nuovi Accordi concordatari tra Chiesa e Stato in Italia, Ed. dehoniane, Bologna, 1985. Aa.Vv., Concordato e Costituzione, Bologna, 1985. Aa.Vv., Il " nuovo " Concordato, Torino, 1986. De Mattei R., L'Italia cattolica e il nuovo Concordato, Roma, 1985.

L. Vela

Conferenza episcopale. (inizio)

La conferenza episcopale è una nuova figura istituita dal Codice (c. 447). È un'istituzione permanente formata dall'assemblea di tutti i vescovi di una nazione o di un territorio determinato. Essi esercitano insieme alcune funzioni pastorali per promuovere il maggior bene che la Chiesa offre agli uomini, principalmente mediante forme di apostolato, convenientemente adattate alle circostanze di tempo e di luogo.

La conferenza episcopale è, generalmente, di ambito nazionale (c. 448), quantunque la Santa Sede, uditi i vescovi diocesani interessati, possa erigere una conferenza di ambito maggiore o minore.

Solo la Santa Sede, uditi i vescovi interessati, possiede o si riserva la competenza per erigere, sopprimere o modificare una conferenza episcopale. Una volta eretta, la conferenza episcopale gode di personalità giuridica, essendo un'istituzione collegiale (cc. 113-123). Appartengono per diritto proprio a questa istituzione tutti i vescovi diocesani del territorio, quelli che ad essi sono equiparati nel diritto, i vescovi coadiutori e ausiliari, i vescovi titolari con un incarico speciale, affidato loro dalla Santa Sede o dalla conferenza episcopale. Gli altri vescovi titolari senza incarico concreto speciale e il nunzio non sono membri di diritto della conferenza episcopale. Possono essere invitati, ma solo con voto consultivo, gli ordinari di un altro rito, eccetto che gli statuti dispongano altrimenti.

Ogni conferenza episcopale deve elaborare i propri statuti. Questi vanno rivisti dalla Santa Sede e devono regolare normativamente: la commissione permanente, la segreteria generale, le varie commissioni, l'elezione del presidente, del vicepresidente, del segretario, e tutti quei punti di maggiore importanza per cui sia richiesta una vocazione, rigorosamente democratica.

Il Concilio Vaticano II tratta delle conferenze episcopali in vari documenti, ma specialmente nel decreto Christus Dominus (nn. 37 e 38). Parla di questa istituzione interessante, di segno più collegiale, di carattere più democratico. Naturalmente, questa istituzione non interferisce tra la relazione papa-vescovo e non coarta la giurisdizione propria e ordinaria di ogni vescovo diocesano nel suo territorio. Le conferenze episcopali sono soprattutto strumenti preziosi di unione e di comunicazione tra i vescovi e permettono una collaborazione solidale più fraterna e più efficace su faccende di interesse generale.

Bibl. - Cappellini E., Problemi e prospettive di Diritto Canonico, Brescia, 1977. Ruggieri G., L'ecclesiologia conciliare nelle strategie giuridiche, in: " Il Regno ", 481 (1983).

L. Vela

Confermazione. (inizio)

La confermazione è il secondo sacramento dell'iniziazione cristiana. Viene conferita con l'unzione del crisma sulla fronte e con l'imposizione della mano, accompagnata dalle parole prescritte nei libri liturgici. Queste, nel rito romano, in seguito alla riforma del Concilio Vaticano II, sono: " Ricevi il sigillo del dono dello Spirito Santo ". La confermazione imprime il carattere e non si può ripetere. I suoi effetti principali consistono in un arricchimento del dono dello Spirito Santo e in un vincolo più perfetto con la Chiesa. Così, il battezzato-confermato rimane destinato ad essere testimone di Cristo e a diffondere e difendere la fede.

Sorta per l'evoluzione dei riti post-battesimali, la confermazione adottò lineamenti differenti in Oriente, dove non fu mai separata dal battesimo. In Occidente, invece, la sua amministrazione rimase riservata al vescovo. Così, progressivamente venne a distanziarsi dalla celebrazione battesimale in quei casi, sempre più frequenti, in cui la presenza del vescovo non era possibile. L'ordine tradizionale per la recezione dei sacramenti dell'iniziazione cristiana è il seguente: battesimo- confermazione-eucaristia. Però, finì per diventare pratica comune il differire la celebrazione della confermazione, per quelli che erano stati battezzati da bambini, ad un'età più avanzata: alle volte, si amministrava prima della prima comunione, e altre volte, dopo.

Il Vaticano II dispose una riforma del rito della confermazione " perché apparisca più chiaramente la sua intima connessione con tutta l'iniziazione cristiana " (SC 71). Così, le disposizioni liturgiche vigenti stabiliscono la celebrazione continuata del battesimo, della confermazione e della eucaristia nell'iniziazione cristiana degli adolescenti e degili adulti. La legislazione ha reso anche più flessibile l'amministrazione della confermazione riservata al vescovo. Però, egli continua ad essere il ministro originario (LG 26).

La confermazione è caratterizzata dal suo rapporto con il dono dello Spirito Santo. Ciò non significa, però, che solo questo sacramento comunichi lo Spirito Santo. Il cristiano ha già ricevuto il battesimo " con lo Spirito Santo " (Mc 1,7). Il battesimo è, infatti, la nuova nascita " da acqua e da Spirito " (Gv 3,5). Non ci si deve lasciare imprigionare dal seguente dilemma: o lo Spirito Santo interviene nel battesimo o non interviene. Nel primo caso, la confermazione è inutile; nel secondo, è invece assolutamente necessaria. Si deve piuttosto tenere presente che non c'è nessuna opposizione tra i due sacramenti, ma continuità e sviluppo di uno stesso processo di santificazione. Lo Spirito Santo è dato nel battesimo e fa del neo-battezzato un vero cristiano, capace di entrare nel Regno di Dio. Però, lo Spirito Santo, senza che per questo il battesimo risulti insufficiente o abbia solo una efficacia negativa, è dato anche nella confermazione, che fa del battezzato un cristiano perfetto e adulto, da non intendersi in senso psicologico. Tra il battesimo e la confermazione, c'è un legame ed una continuità. Non si tratta di un unico sacramento, poiché la nuova donazione dello Spirito e la grazia propria dello sviluppo e dell'abilitazione per la missione ecclesiale giustificano l'esistenza di un secondo sacramento dell'iniziazione, differente pur esserlo complementare, del battesimo. Qui, come in molti altri aspetti della vita umana e cristiana, sembra necessaria l'espressione della struttura bipolare di ogni processo vitale: nascita-crescita, seme-frutto, inizio-pienezza.

Come complemento del battesimo, la confermazione esprime anche l'incorporazione del cristiano nella comunità dei credenti. Oggi, si insiste sulla necessità dell'intervento della comunità locale tanto nella preparazione dei candidati alla confermazione, quanto nella celebrazione del sacramento. Fino a poco tempo fa, l'amministrazione della confermazione riservata al solo vescovo poteva, sì, aiutare a comprendere l'importanza della chiesa diocesana, ma di fatto, provocava una eccessiva concentrazione di confermanti ? poiché solo di quando in quando il vescovo poteva accudire alle parrocchie ?, o una sensazione di solennità puramente esterna. In questo senso, è molto utile l'allargamento delle facoltà di confermare, quantunque questa facoltà rimanga ancora troppo affidata ai soli " incaricati " ufficiali ed importanti. Converrebbe rivedere questo punto, tenendo presente che è la comunità concreta, coi suoi dirigenti, quella che di fatto e di diritto accoglie gli iniziati nella vita cristiana e celebra con loro i sacramenti. L'amministrazione della confermazione dovrebbe pertanto spettare al responsabile diretto della comunità: ciò renderebbe più evidente il vincolo della confermazione con tutta l'iniziazione cristiana.

L'età più indicata per la confermazione continua a suscitare polemiche dai toni alle volte molto forti. Coloro che sostengono la celebrazione della confermazione in piena adolescenza o all'inizio dell'età giovanile sono mossi soprattutto da preoccupazioni pastorali: così, verrebbe celebrato un rito capace di esprimere e di consacrare la partecipazione pienamente responsabile dell'adolescente o del giovane nella vita della Chiesa. Questo rito potrebbe assicurare certe realtà nella vita della Chiesa, come una presa di coscienza della propria fede, una responsabilizzazione personale, un impegno di perseveranza nella pratica della vita cristiana. Tuttavia, i motivi di tipo teologico-liturgico (invocati affinché non si rompa la sequenza battesimo-confermazione- eucaristia e affinché non si differisca la confermazione dopo la prima comunione) sembrano essere più forti di quelli che sono di tipo puramente psicologico-pastorale. Le preoccupazioni pastorali ricordate sopra potrebbero trovare una soluzione in altri modi, soprattutto mediante una valorizzazione di quelle forme normali di culto che esprimono la fede e l'impegno cristiano. La legislazione attuale stabilisce: " Il sacramento della confermazione venga conferito ai fedeli all'incirca all'età della discrezione, a meno che la Conferenza Episcopale non abbia determinata un'altra età o non vi sia il pericolo di morte, oppure, a giudizio del ministro, non suggerisca diversamente una grave causa " (CIC c. 691). La maggior parte delle Conferenze Episcopali sembrano propendere per l'età della confermazione tra i dodici e i quattordici anni.

Bibl. - Aa.Vv., I Sacramenti dell'iniziazione. Aspetti catechetici e celebrativi, Ed. Vita Pastorale, Alba, 1991. Bouhot J.P., La Confermazione sacramento della comunione ecclesiale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1970. Bulckens J., " Confermazione ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 167-170. Falsini R., " Confermazione ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984 , pp. 269-294. Ferraro G., Dottrina della liturgia sui sacramenti della fede, Ed. dehoniane, Roma, 1990. Gerardi R., Rinati nell'acqua e nello Spirito, battesimo e confermazione, Ed. dehoniane, Napoli, 1982. Ruffini E., Il battesimo nello Spirito, battesimo e confermazione nell'iniziazione cristiana, Ed. Marietti, Torino, 1975. " Rivista di Pastorale Liturgica ", n. 112-113 (1962): questo numero è dedicato all'intera problematica, teologica e pastorale, della Confermazione.

J. Llopis

Conflitto. (inizio)

Una lettura non idealista della storia mostra questa come uno scenario di conflitti, scontri e divisioni. Il conflitto avviene tra gruppi sociali antagonisti (ricchipoveri) e tra popoli e popoli (rapporti di dominazionesubordinazione).

Il conflitto avviene anche tra differenti razze, per la pretesa superiorità di una razza, quella bianca, sulle altre. Questo dà origine al razzismo o discriminazione razziale che esiste anche oggi in situazioni particolarmente disumane, come la discriminazione dei Negri (Sudafrica, Stati Uniti, ecc.), degli Indi (America Latina), degli Zingari, ecc.

Il conflitto ha luogo sul piano della cultura, per la pretesa superiorità di una cultura, quella occidentale, sulle altre. Si pretende che le differenti culture si sottomettano o si adattino al paradigma della cultura occidentale.

Esiste anche un conflitto tra i sessi, per la pretesa superiorità dell'uomo sulla donna. L'uomo si considera dominante e vede la donna come un essere subordinato e dipendente. Si propende ad assegnare ad ogni persona un ruolo e alcune caratteristiche di comportamento in funzione del sesso.

Il conflitto si presenta a noi, in fin dei conti, come un fatto innegabile che caratterizza i rapporti umani. Si tratta di un'evidenza che si impone per se stessa e che costituisce una smentita ad ogni tentativo di presentare la realtà con toni paradisiaci.

Sono due, fondamentalmente, le interpretazioni sociologiche del conflitto: quella funzionalista e quella critica. Secondo la prima, l'armonia, l'integrazione sociale e il funzionamento equilibrato del sistema costituiscono lo stato normale della società. Ogni individuo o istituzione riceve un posto e alcuni compiti all'interno del sistema da cui non deve uscire. Ciò che è normativo è l'ordine. Secondo questo, il conflitto rappresenta uno squilibrio nel sistema o un disguido che bisogna correggere per riacquistare l'armonia.

L'interpretazione critica ritiene che il conflitto sia uno dei fenomeni sociali fondamentali ed il movente della trasformazione sociale. Il cambiamento e il conflitto non si riducono a semplici deviazioni patologiche della norma, come vorrebbe far credere la sociologia funzionalista. Ciò che è veramente patologico è la rigidezza, l'immobilismo, l'uniformità, il conformismo. Ogni società possiede, in forma latente o palese, elementi di tensione e di conflitto che forniscono la dinamica del cambiamento. Lo scontro di valori e interessi, lungi dall'essere sintomo di malattia, diviene, secondo la teoria critica, un fattore di vitalità sociale e di creatività, oltre ad essere un portatore di energie utopiche.

Bibl. - Gestel Van C., La dottrina sociale della Chiesa, Ed. Città Nuova, Roma, 1965. Girardi G., Marxismo e Cristianesimo, Ed. Cittadella, Assisi, 1966. Midali M., " DonnaUomo (nella Chiesa) " in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 241-257. Mounier E., Rivoluzione personalista e comunitaria, Ed. Comunità, Milano, 1955. Rosanna E., " DonnaUomo (nella società) ", in: Diz. di Catechetica, pp. 257- 264.

J.J. Tamayo

Conflitto ecclesiale. (inizio)

I conflitti che esistono nella società nei vari ambiti ? politico, sociale, economico, culturale, razziale, sessuale, ecc. ? non sono mai estranei alla Chiesa. Anzi, incidono direttamente in essa e vi incontrano una risonanza speciale, fino al punto di condizionare significativamente la sua identità, la sua missione, la sua organizzazione e la sua vita. Non può essere diversamente, dal momento che la Chiesa vive in mezzo alla società ? anche quando si impegna a stare al margine in spazi angelici ?; si realizza nella storia ed è formata da uomini e donne inseriti nel mondo che non possono sfuggire, come tutti gli esseri umani, alla conflittualità inerente ai processi storici.

La dinamica stessa della fede comporta l'assunzione del conflitto come momento interno dell'azione salvifica di Dio nella storia mediante Gesù, " uomo in conflitto ". Sarebbe difficile comprendere la Chiesa come segno di contraddizione, mistero di comunione e evento di salvezza, se non si tenesse presente e non si valutasse in tutta la sua ricchezza e complessità la conflittualità che ha caratterizzato il suo cammino lungo la storia, dalle sue origini fino ai giorni nostri ininterrottamente.

Tuttavia, per quella corrente ecclesiologica che invoca una Chiesa uniforme configurata attorno al principio del potere unipersonale assoluto e intesa come " castrorum acies ordinata " (come un esercito schierato a battaglia), il conflitto non dovrebbe avere diritto di cittadinanza nella Chiesa. Anzi, esso è ritenuto un corpo estraneo che urta frontalmente con l'ideale di Gesù: " Tutti siano una cosa sola " (Gv 17,21).

È contrario anche a quanto dice san Paolo nella Lettera agli Efesini: " Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti " (Ef 4,5-ó), e coi ripetuti inviti del Nuovo Testamento ad evitare le divisioni e le discordie tra i cristiani (1 Cor 1,10-31).

Quando si identifica unità con uniformità, il conflitto viene associato al caos e all'anarchia, alla rottura della comunione e alla lacerazione della tunica inconsutile di Cristo. Questo modo di intendere la Chiesa sfocia in pratiche di intolleranza, in scomuniche e anatemi, in una incomunicabilità strutturale e in un autoritarismo più vicino alle forme dittatoriali di esercizio del potere che ad atteggiamenti di dialogo e di fraternità come vuole il vangelo.

Però, il conflitto ecclesiale ammette un'altra lettura teologica e un'altra interpretazione più positive. Il conflitto, anziché apparire come un sintomo di disintegrazione e di decadenza, si manifesta come fonte di dinamismo e di rinnovamento. La storia della Chiesa offre una infinità di esempi che avallano questa visuale del conflitto. Il più paradigmatico di tutti è il confronto aperto e pubblico che ci fu tra Paolo e Pietro ad Antiochia riguardo ad un tema importante per il cristianesimo nascente: la libertà del vangelo messa a rischio per il comportamento di Pietro (Gal 2,11ss).

L'apostolo può entrare in conflitto con un altro apostolo, il profeta con un altro profeta, il teologo con un altro teologo e coi pastori, il popolo credente coi responsabili della Chiesa. Non per questo ne soffrirà l'unità, la comunione e la solidarietà tra gli uni e gli altri, né sarà minacciata la verità del vangelo. Anzi: l'unità trova la sua forza nella pluralità; la comunione esce rafforzata con la critica; la solidarietà giunge alla sua espressione massima mediante la condivisione pluriforme. Come ha mostrato giustamente Hoffmann, riferendosi a san Paolo come esponente del dissenso costruttivo, tanto l'unità della Chiesa quanto la verità del Vangelo si perfezionano " attraverso la lotta di opinioni e il conflitto di interessi ". Il conflitto tra Paolo e Pietro avviene non all'interno di un sistema ermeticamente chiuso e asimmetrico, ma in senso ad un sistema aperto e comunicativo in cui esistono modelli comunitari e teologie differenti.

Lo sviluppo dottrinale all'interno del cristianesimo ha progredito in mezzo a tensioni e confronti. Lo sviluppo dei dogmi non è stato affatto un processo sereno e tranquillo; non è stato un cammino idillico. Anzi: è stato cosparso di discussioni e confronti alle volte molto duri. Si può dire anche di più: la stessa eresia non può ridursi ad uno stadio superfluo ed irrilevante nella chiarificazione dottrinale, ma va vista come un passaggio obbligato e necessario verso la verità che si apre la strada attraverso luci ed ombre. Di qui, l'affermazione paolina: " E' necessario, infatti che avvengano divisioni tra voi " (1 Cor 11,19). Non si dimentichi, a questo riguardo che se alcuni teologi hanno dovuto correggere certe volte le loro ipotesi, anche il Magistero ecclesiastico è stato costretto ad abbandonare certe posizioni che una volta sembravano irrinunciabili per aver capito ad un certo momento che non corrispondevano ai nuovi apporti teologici, storici ed esegetici.

In conclusione: il conflitto fa parte della struttura sociale della Chiesa e non si può eliminare scagliando anatemi; deve invece passare attraverso un clima di libera comunicazione; ci deve essere un flusso nformativo costante, un rapporto simmetrico delle parti in conflitto, con la ferma volontà di vivere la comunione e l'unità nella pluralità.

Bibl. - Aa. Vv., I cattolici del dissenso, Roma, 1969. Balducci E., Carattere ideologico del conflitto tra istituzione e comunità in Italia, in: " Communio ", 8 (1973) pp. 27-32. Falconi C., La contestazione nella Chiesa, Milano, 1969. Favale A., Dissenso cattolico e comunione ecclesiale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1975. Giordani I., La Chiesa della contestazione, Roma, 1970. Lubach H. De, La Chiesa nella crisi attuale, Roma, 1971. Suenens L.G., La crisi nella Chiesa, Milano, 1971.

J.J. Tamayo

Congregazione. (inizio)

Stando strettamente alla nuova terminologia del Codice, il termine congregazione è riservato esclusivamente alle " congregazioni monastiche " sia maschili che femminili (CIC c. 620). Questa esclusività è spiegata, in parte, dal fatto che ormai da molto tempo, i monaci insistevano nel sostenere di non essere sottomessi al diritto comune del Codice. Questo contribuì efficacemente alla nuova concezione tipologica dello stesso Codice per cui il principale criterio di distinzione, come anche la differenza specifica degli istituti, è il carisma peculiare di ognuno, favorendo così il diritto particolare ed una autonomia crescente. Gli abati benedettini, quelli cistercensi ed il priore della Grande Certosa sostennero nel Vaticano II il grandissimo valore della contemplazione e la fedeltà ad essa, corroborando così un'autentica vita monastica anche e specialmente nei paesi di missione. I monaci ebbero da lottare con coraggio per conservare la propria identità ed il loro stile specifico di fronte ai tanti che, per motivi teologici non molto profondi, volevano assimilarli ai religiosi. Questo giusto sforzo dei monaci fu coronato di successo, ed abbiamo così un vero e proprio diritto monastico.

La vita eremitica e la vita cenobitica, considerate in senso stretto, rimasero dunque canonizzate e danno una testimonianza speciale di Cristo e della Chiesa mediante un genere di vita specifico che difficilmente può essere equiparato allo stato religioso, sebbene abbiano anch'esse l'elemento essenziale della consacrazione a Dio mediante l'amore manifestato e vissuto coi tre voti pubblici.

La congregazione monastica è un vero istituto religioso, in senso generale, i cui membri, secondo le tradizioni proprie di ogni istituto, mediante la conversione dei costumi, conducono una vita cenobitica, nella lode di Dio e nel lavoro. Sono consacrati alla ricerca di Dio solo e del suo Regno, per mezzo della contemplazione delle realtà divine e la carità fraterna.

Come si debba intendere la vita comunitaria, elemento essenziale dello stato religioso di vita attivale come affrontare altre difficoltà tipiche dello stato di vita contemplativa, sono punti sui quali non ci possiamo qui soffermare. Basta ricordare che la vita monastica, anche quella più solitaria, tende a piantare e a diffondere nelle anime, comunione efficace di spiriti, il Regno di Dio e a diffonderlo in tutto il mondo. Lo Spirito Santo e la comunione con Cristo nella santissima Eucaristia (c. 897), sono il principio di unità e di crescita armoniosa di tutto il Corpo di Cristo. È significativo il fatto che santa Teresa di Gesù Bambino sia stata proclamata ufficialmente patrona delle missioni cattoliche. È anche significativa e profonda, oltre che meravigliosa, la sua frase: " Nel cuore della Chiesa, io sarò l'amore ".

Bibl. - Aa.Vv., Direttorio canonico per gli Istituti religiosi, secolari e le società di vita apostolica, Ed. Paoline, 1988. Feliciano G., Il Nuovo Codice di Diritto Canonico, Bologna, 1983. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica " Vita consecrata ", 25.3.1996. Pinto P.V., Commento al Codice di Diritto Canonico, Roma, 1985.

L. Vela

Consacrazione. (inizio)

Nella sua accezione liturgica, la consacrazione è la destinazione esclusiva di persone, luoghi o cose al culto divino, con cui queste persone, luoghi o cose diventano sacri. L'atto di consacrazione può assumere varie modalità, ma ha sempre un elemento di separazione dall'uso profano e un altro di dedicazione alla sfera del sacro.

Data la caratteristica particolare della realtà sacra nel cristianesimo, che consiste più nell'atteggiamento interiore di santificazione che non nella sacralizzazione esteriore e rituale, il significato cristiano della consacrazione ha le sue radici nell'orientare la vita verso il compimento della volontà di Dio e nel realizzare gli atti che derivano da questo orientamento. Il cristiano " consacra " la sua vita mediante la pratica delle virtù e il compimento dei suoi obblighi. In questo modo, i cristiani, come dice il Concilio, " in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso " (LG 34).

Tuttavia, anche nel cristianesimo ci sono atti rituali destinati a consacrare persone, luoghi e cose. Così, è lecito parlare di consacrazione dei ministri del culto, delle vergini consacrate a Dio, degli elementi materiali che fanno da segni sacramentali: in un modo speciale, si parla della consacrazione del pane e del vino nella celebrazione eucaristica. Si parla anche della consacrazione di chiese o altari, sebbene in questo caso, la legislazione attuale preferisca parlare di dedicazioni (cf c. 1169). Secondo il canone 1171, " le cose sacre, quelle cioè che sono state destinate al culto divino con la dedicazione o la benedizione, siano trattate con riverenza e non siano adoperate per usi profani o impropri, anche se sono in possesso di privati ". Comunque, la consacrazione nel senso cristiano non trasforma mai le persone, le cose e i luoghi consacrati in una specie di tabù intoccabili.

Bibl. ? Calabuig I.M. ? Barbieri R., " Consacrazione delle vergini ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 294314. Jounel P., " Dedicazione delle chiese e degli altari ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, pp. 352-367.

J. Llopis

Consiglio diocesano di pastorale. (inizio)

Il consiglio diocesano di pastorale è un frutto delle decisioni contenute nel decreto conciliare Christus Dominus (n. 27) e nel " motu proprio " Ecolesiae sanctae (I, art. 16 e 17; II, art. 4 e 19). L'Episcopato spagnolo diede alcune norme orientative (cf. Ecclesia, 10.12.1966). Il consiglio pastorale è collocato all'interno della curia diocesana, con lo scopo di " studiare, esaminare tutto ciò che concerne le attività pastorali, e proporre quindi, conclusioni pratiche, al fine di promuovere la conformità della vita e dell'azione del popolo di Dio con l'Evangelo " (Ecclesiae sanctae, I, art. 16 § 1).

A differenza del consiglio presbiterale che è " prescritto ", quello pastorale è " raccomandato ", sia pure insistentemente. Tuttavia, questi due consigli si differenziano nella loro " giustificazione teologica ": il consiglio pastorale ha il suo fondamento nell'unità del popolo di Dio in forza del battesimo. Il consiglio presbiterale si basa sull'unità dei presbiteri mediante il sacramento dell'Ordine. Anche il fine dei due consigli è distinto. Il consiglio presbiterale aiuta il vescovo, coi suoi consigli, nel governo della diocesi. Il consiglio pastorale è un organismo tecnico-consultivo, la cui attività si limita al lavoro pastorale, mentre è esclusa la sua partecipazione al governo della diocesi. Infine, i due consigli hanno una " struttura " differente: il consiglio presbiterale è più unitario; il consiglio pastorale è più vario nella sua organizzazione.

In primo luogo, il consiglio diocesano di pastorale è formato da persone designate dal vescovo o elette dai vari settori, entità o associazioni apostoliche. Veramente, non fanno parte del consiglio come pura rappresentatività, ma per la loro esperienza e competenza. Il consiglio pastorale è presieduto dal vescovo ed è composto di sacerdoti, religiosi e laici. Il numero di membri deve essere in relazione all'importanza dei compiti pastorali diocesani. Ogni tre anni, si procede ad un rinnovamento dei componenti.

In secondo luogo, il consiglio pastorale è un'entità stabile, con attività " occasionali o permanenti ". Per un miglior funzionamento, si può stabilire una " riunione plenaria ", una " commissione permanente " e un " segretariato generale ". La riunione plenaria è tenuta un paio di volte all'anno; la commissione permanente, più spesso.

In terzo luogo, devono essere rappresentati nel consiglio pastorale le " aree " geografiche e i " settori pastorali " (parrocchie, apostolato biblico, liturgico e ecumenico, apostolato secolare, spiritualità, promozione sociale e caritativa, missioni, emigrazione, turismo, vocazioni, ecc.).

In sintesi: il consiglio diocesano di pastorale, che ha voce consultiva come il consiglio presbiterale, è uno strumento tecnico di lavoro a servizio del vescovo e di tutte le istituzioni pastorali della diocesi. In questa attività, è anche subordinato al senato dei presbiteri che gode di una competenza consultiva più ampia. Comunque, la duplicità dei due consigli (quello presbiterale e quello pastorale) complica l'esercizio del ministero pastorale. Dovrebbe esserci un solo " consiglio diocesano " mediante la fusione dei due consigli attuali.

Bibl. ? Aa.Vv., La Chiesa particolare, Bologna, 1985. Cappellini E. ? Coccopalmerio F., Temi pastorali del Nuovo Codice, Brescia, 1984. Drago M. ? Boroli A. (dir.), Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 180. Morgante M., La Chiesa particolare nel Codice di Diritto Canonico, Ed. Paoline, 1985.

C. Floristán

Consiglio ecumenico delle Chiese. (inizio)

Il Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), nato ad Oxford nel 1938, è frutto degli sforzi destinati a far confluire in un consiglio ecumenico mondiale i molteplici organismi ecumenici dispersi nel mondo. Ne fanno parte più di trecento Chiese cristiane di tutto il mondo. C'è da notare il non inserimento della Chiesa Cattolica nel CEC, anche se partecipa in permanenza ai dialoghi di questo Consiglio. Anche se il CEC non abbraccia tutto il movimento ecumenico, esso è comunque una delle espressioni più importanti del movimento ecumenico attuale.

Il CEC si autodefinisce: " Un'associazione di Chiese che confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le Scritture, e cercano perciò di realizzare insieme la loro comune vocazione per la gloria dell'unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo " (Assemblea Generale di Nuova Delhi, 1961).

Da quando è stato fondato, il CEC ha tenuto sette Assemblee Generali: Amsterdam (1948), Evanston, U.S.A. (1954), Nuova Delhi (1961), Uppsala, Svezia (1968), Nairobi, Kenia (1975), Vancouver, Canada (1983) e Canberra, Australia (1991). In queste Assemblee, è stato messo in evidenza tanto il concetto di unità quanto la posizione del CEC dinanzi alle realtà storiche.

Il CEC intende l'unità dal basso verso l'alto, partendo dalla base. Il processo di unità passa attraverso una fase di " comunità conciliare di Chiese locali " (Assemblea generale di Nairobi) e comporta, a sua volta, il superamento delle divisioni di ogni genere (di dominio e di subordinazione, tra gruppi sociali, divisioni razziali, divisioni per motivi di sesso, ecc.).

Il CEC ha prestato attenzione, fin dall'inizio, ai problemi dell'umanità e ha preso posizione contro i totalitarismi, il razzismo, l'oppressione economica, le guerre, le armi nucleari, il militarismo; ecc. Si è pronunciato, senza equivoci, a favore dei diritti umani, della vita, della partecipazione effettiva del popolo alla vita politica. Ha dato il suo appoggio alla formazione di democrazie pienamente umane in cui libertà e giustizia devono andare di pari passo. Ha espresso, infine, la sua opzione per i poveri, sia mediante programmi orientati alla liberazione dei paesi del Terzo Mondo, sia con una riflessione teologica molto seria sugli emarginati.

Bibl. ? Cassese M. (ed.), Il consiglio ecumenico della Chiese, perché?, Como, 1983. Congar Y., Dizionario ecumenico, Ed. Cittadella, Assisi, 1974. Pattaro G., Corso di teologia dell'ecumenismo, Brescia, 1985. Ricca P., " Consiglio ecumenico della Chiese ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 179-180. Sartori L., Teologia ecumenica. Saggi, Padova, 1987. Vercruysse Jos E., " Consiglio ecumenico delle Chiese ", in: Dizionario di teologia fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 206-209.

J.J. Tamayo

Consiglio parrocchiale. (inizio)

Il consiglio parrocchiale è un gruppo di parrocchiani, eletti come rappresentanti della comunità parrocchiale per aiutare il parroco, come corresponsabili, nel ministero parrocchiale. Di solito, sono parrocchiani impegnati (tra 10 e 25) che si riuniscono periodicamente per analizzare la situazione della parrocchia, favorire la partecipazione di tutti i parrocchiani, e portare avanti la realizzazione del progetto pastorale. Il consiglio parrocchiale è un organismo permanente, rappresentativo, consultivo, di studio e di aiuto al parroco e alla comunità. Le sue principali funzioni stanno nel conoscere la realtà da evangelizzare, programmare l'azione pastorale e verificare quello che è stato programmato e compiuto.

Il consiglio parrocchiale ha, in primo luogo, funzioni di leadership, per evitare il " dirigismo " personalista del parroco (o di chi ne fa le veci), o lo " spontaneismo " di una uguaglianza passiva male intesa. Questa leadership, con il parroco a capo, simboleggia l'obiettivo della comunità, aiuta a prendere decisioni, trasmette informazioni valide ed anima i membri della parrocchia.

In secondo luogo, il consiglio parrocchiale ha funzioni di rappresentanza, in quanto è composto da persone elette dall'assemblea parrocchiale e dai responsabili dei vari comitati o commissioni di pastorale (evangelizzazione, catechesi, liturgia, azione sociale e caritativa, economia, accoglienza, rapporti con le altre comunità, gioventù, ecc.) esistenti nella parrocchia. Fanno parte del consiglio parrocchiale tutti i sacerdoti che ordinariamente lavorano in parrocchia, come anche una rappresentanza delle eventuali religiose che collaborano nei compiti pastorali del luogo. I membri del consiglio devono essere persone dotate di senso critico, di capacità organizzativa, veri rappresentanti dei parrocchiani, vicini ai problemi reali, con una sufficiente preparazione cristiana e sensibili all'evangelizzazione.

In terzo luogo, il consiglio parrocchiale ha funzioni di pianificazione, nel senso di aiutare a rendere concreti gli obiettivi annuali, a distribuire i compiti e a verificare gli incarichi.

Il consiglio si forma quando ci sia in parrocchia un certo spirito comunitario, cioè, quando siano fatti i primi passi per mezzo di alcuni " corsi di sensibilizzazione pastorale " e quando siano sorte alcune commissioni. Comunque, il primo consiglio parrocchiale deve essere transitorio o provvisorio.

Ogni consiglio parrocchiale dovrà elaborare un suo statuto o regolamento, secondo le norme nazionali e diocesane vigenti. Questo statuto dovrà regolare la composizione del consiglio parrocchiale, le nomine, le competenze ed il funzionamento, secondo le dimensioni della parrocchia ed il suo livello di maturità pastorale.

Bibl. ? Aa.Vv., La parrocchia e le sue strutture, Ed. Longhitano Bologna, 1987. Faivre A., I laici alle origini della Chiesa, Ed. Paoline, 1987. Marchesi M., Come amministrare la parrocchia, Ed. dehoniane, Bologna, 1989. Morgante M., La parrocchia nel Codice di Diritto Canonico, Ed. Paoline, 1985. Ruppi C., La parrocchia comunità di fratelli a servizio dell'uomo, Termoli, 1984.

A. Floristán

Consiglio presbiterale. (inizio)

La costituzione ed il funzionamento del consiglio presbiterale si trova nei decreti conciliari Christus Dominus (n. 27) , Presbyterorum ordinis (n. 7) e nel " motu proprio " Ecclesiae sanctae (6.9.1966). Il Concilio stabilisce: " Vi sia nel modo più confacente alle circostanze e ai bisogni di oggi, nella forma e secondo norme giuridiche da stabilire ? una commissione o senato di sacerdoti in rappresentanza del Presbiterio, il quale con i suoi consigli possa aiutare efficacemente il Vescovo nel governo della diocesi " (PO 7).Con questa decisione, il Concilio ha restaurato un'istituzione della Chiesa primitiva, in cui i presbiteri formavano un collegio, a modo di senato, per aiutare il vescovo, primo responsabile del ministero diocesano. La necessità del consiglio presbiterale è ovvia nella nostra situazione attuale, in quanto in ogni diocesi è necessario un gruppo ristretto di presbiteri, rappresentanti di tutto il clero, per collaborare col vescovo " nel governo della diocesi ", mediante un dialogo in comune. Così, vengono evitati i personalismi eccessivi del vescovo o del vicario.

Cinque note fondamentali caratterizzano il consiglio presbiterale. In primo luogo, è una isituzione prescritta. Questa prescrizione obbligatoria per diritto ecclesiastico concorda con la natura sacramentale dell'ufficio dei presbiteri che, in forza dell'ordinazione, sono " necessari collaboratori e consiglieri " dei vescovi (PO 7).

In secondo luogo, il consiglio presbiterale è un organismo rappresentativo istituito con la finalità di essere espressione del presbiterio, non come un semplice strumento personale del vescovo. La rappresentatività deve essere qualitativa, non semplicemente numerica. Devono essere rappresentati i vari ministri (parroci, coadiutori, cappellani, ecc.), le zone pastorali, le istruzioni (il capitolo, il seminario, la curia), le " generazioni " sacerdotali (giovani e vecchi), ed anche le " tendenze " che vi sono nel clero. Il consiglio presbiterale deve rappresentare l'intero presbiterio diocesano in maniera giusta ed efficace. I suoi membri vengono eletti dagli stessi sacerdoti. Il vescovo si riserva di solito la nomina di alcuni componenti.

In terzo luogo, il consiglio presbiterale è un organismo consultivo particolare che promuove il dialogo dei presbiteri con il loro vescovo e dei presbiteri tra di loro. Però, non è un contrappeso democratico alla autorità del vescovo, né una concessione paternalista del vescovo ai presbiteri. La finalità del consiglio presbiterale si compie quando il vescovo ascolta i suoi sacerdoti e consulta il suo consiglio sui " problemi riguardanti le necessità del lavoro pastorale e il bene della diocesi " (PO 7). È con questo senato che viene attualizzata la curia diocesana. Il consiglio presbiterale, tuttavia, non è pienamente democratico, poiché non ha potere legislative né esecutivo, ma agisce come organo consultivo. Però, quando si tratta di fornire informazioni o di pronunciare un parere, tutti i membri devono avere piena libertà di esprimersi.

In quarto luogo, il consiglio presbiterale è cooperatore del vescovo " nel governo della diocesi ". Le competenze di questo senato si riferiscono al campo dell'attività pastorale e al bene della diocesi. A dire il vero, non è facile distinguere il consiglio presbiterale da quello pastorale dal momento che entrambi hanno quasi le stesse finalità. La differenza sta nella loro composizione, poiché nel consiglio pastorale, ci possono essere laici.

Infine, il consiglio presbiterale è un organismo permanente, poiché rappresenta il presbiterio il quale fa parte della struttura costituzionale della diocesi. Questa permanenza è distinta dalla permanenza personale dei membri che la compongono. In " sede vacante ", cessano tutti i membri. Inoltre, possono essere rimossi dal vescovo.

In sintesi: il consiglio presbiterale è un organismo rappresentativo diocesano. Consegue dalla comunione gerarchica tra il vescovo e i presbiteri. È prescritto tassativamente. Ha la funzione consultiva e di dialago con il vescovo " affinché venga promosso nel modo più efficace il bene pastorale della porzione di popolo di Dio a lui (al vescovo) affidata " (CIC 495 § 1).

Bibl. - Aa.Vv., La Chiesa particolare, Bologna, 1985. Aa.Vv., Episcopato, presbiterato, diaconato. Teologia e Diritto Canonico, Ed. Paoline, 1988. Cappellini E. - Coccopalmerio F., Temi pastorali del nuovo Codice, Brescia, 1984. Chiappetta L., Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico pastorale, 2 voll., Ed. dehoniane, Napoli, 1988. Morgante M., La Chiesa particolare nel Codice di Diritto Canonico, Ed. Paoline, 1985.

C. Floristán

Consuetudine. (inizio)

Dal punto di vista del diritto, ma con un chiaro contenuto di morale sociale, la consuetudine è una norma oggettiva di azione aggiunta alla legge scritta. Essa è introdotta dalla stessa comunità con atti ripetuti, e viene legittimata dal legislatore. Se è " ragionevole ", " la consuetudine è ottima interprete delle leggi " (CIC, c. 27).La permanenza delle consuetudini " extra-legali ", cioè, quelle che non toccano l'ambito regolato dalla legge, è ammessa dal Codice di Diritto Canonico come una esigenza, principalmente, del bene sociale dell'uomo.

Nel nostro contesto, ci limitiamo al senso strettamente personale della consuetudine. La consuetudine è una configurazione morale della persona che si aggiunge alle tendenze per cui esse sono indirizzate verso determinate mète morali e rimangono aperte ad un campo sempre più esteso di possibilità storiche della persona. Come principio che fissa la direzione dell'azione, la consuetudine conferisce all'azione una maggiore facilità e duttilità, rendendo la vita morale più facile e più praticabile.

La responsabilità morale non si limita alla sola sfera delle azioni, abbraccia anche la sfera della consuetudine: questa costituisce perfino un livello particolarmente profondo di responsabilità morale.

La genesi della consuetudine dipende strettamente dall'atto, dal fare positivamente qualcosa. Il ripetere continuamente una stessa azione genera nella persona la consuetudine, cioè, la disposizione dinamica che dà alla vita morale nel suo esercizio, in un dato campo, una disinvoltura speciale, una maggiore speditezza e leggerezza. L'agire in un dato modo lascia come sequela un'impronta nella persona. Queste impronte si accumulano ed estendono la loro forza accumulata sul futuro. Compiuto l'atto, qualcosa permane: un'azione chiama un'altra azione. Questa impronta accumulata configura profondamente la personalità morale e l'orienta in forma determinante per l'avvenire. Di qui, procede la responsabilità morale particolarmente profonda che la persona contrae col formarsi delle consuetudini. Nella morale, l'uomo è sempre quello che ha voluto essere.

La consuetudine può essere buona (virtù), o cattiva (vizio). La virtù ed il vizio sono due configurazione reali della persona, ma sono opposte tra di loro; in esse, è compromessa tutta la responsabilità morale del soggetto. Viene così manifestato chiaramente ciò che la persona ha voluto essere, ed è sancita la sua riuscita o la sua sconfitta.

La forza attiva della consuetudine sull'agire morale ha due virtualità contrapposte, tanto nella modalità della virtù quanto in quella del vizio. Può accrescere la moralità degli atti o la può diminuire. C'è uno stimolo della potenza che intensifica la tendenza delle persone, che dà risalto alla loro bontà o cattiveria: " Nessuno merita amore tranne per la virtù che c'è in lui " (San Giovanni della Croce). C'è, però, una forma, generalmente deteriorante, della consuetudine, che inserisce una diminuzione di responsabilità nell'azione morale. Al posto della vivacità e prontezza nell'agire, c'è una specie di letargo morale, di opacità della persona. Questa capacità della consuetudine deriva dalla struttura psico- fisica della persona; mentre diminuisce l'intensità dell'azione libera, diminuisce realmente anche la responsabilità.

Vista sotto l'ottica sociale, la consuetudine è una certa forza di imposizione che tende a dare un determinato grado di omogeneità al gruppo. Però, in nessun modo la morale può essere ridotta, come hanno sostenuto alcuni, alla pressione sociale che subiscono gli individui. La forza di trascinare, elevata al livello morale, propria della società in cui necessariamente vive l'uomo, è un puro equivoco.

Bibl. - Bertola A., " Consuetudine ", in: Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 423-427. Chiavacci E., Teologia morale, 2 voll., Ed. Cittadella, Assisi, 1979. Goffi T. - Piana G., Corso di Morale, 1, Vita nuova in Cristo, Ed. Queriniana, Brescia, 1983. Nanni C., " Costume ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 250-251. Tettamanzi D., Temi di morale fondamentale, Ed. Opera Regalità, Milano, 1975. Valsecchi A. - Rossi L., La norma morale, Ed. Dehoniane, Bologna, 1971.

J. de la Torre

Contemplazione. (inizio)

Questa è una delle parole che creano confusione nel mondo religioso e cristiano. Per facili tergiversazioni, probabilmente involontarie, e per l'unione esteriore che ha con certe forme di vita (vita contemplativa), questa parola viene intesa in modo diverso nei vari ambienti e dalle varie persone. Cercheremo un chiarimento elementare e rifletteremo su qualche punto della sua problematica piuttosto estesa.

La parola " contemplazione " ha vari sensi, tanto nel linguaggio popolare quanto in quello tecnico. Contemplazione non è una parola biblica, ma greca. Quando si trova qualcosa di simile nell'AT (sapienza) e nel NT (gnosi), si tratta in entrambi i casi di parole provenienti dal greco. In questo senso, " contemplazione " si identifica con teoria contrapposta a prassi. È l'attività della mente riguardo alla conoscenza, non riguardo all'esecuzione o all'opera.

In rapporto con questo senso, è il significato di percezione della realtà divina e di quiete delle potenze in questa percezione perfetta dell'oggetto percepito o approfondito.

Sulla stessa linea, pur essendo una cosa distinta, si trova la contemplazione come gradino o fase propria dell'orazione cristiana: alla fase meditativa (cf Meditazione), caratterizzata dal discorrere, segue quella contemplativa, che è la quiete dinanzi alla verità scoperta durante il compito discorsivo. In quest'ultimo senso, si può dire che la contemplazione è la fase centrale dell'orazione, soprattutto, ma non esclusivamente, dell'orazione silenziosa o personale. Per questo, oggi, molti, invece di parlare di orazione, preferiscono la parola " contemplazione ". Si avrebbe qui la denominazione del tutto (orazione) con la parte (contemplazione) più nobile.

I vari sensi della parola " contemplazione " hanno un rapporto interno che si potrebbe difficilmente negare. Per ciò stesso, in qualsiasi dei suoi significati, anche nel gergo popolare, contemplazione e azione (teoria e prassi) continuano ad essere contrapposta in forma quasi irriconciliabile. È un'opposizione che viene da lontano e sempre con forza. Nemmeno i mistici più sereni furono esenti dal vibrare duri, e probabilmente inesatti, correttivi ad uno dei due termini: l'azione.

I Greci antichi sostenevano che " la contemplazione è il piacere puro, e l'azione è la fatica pura " (H.U. von Balthasar). Questo giudizio era basato in fondo su due tipi di vita, in quanto ognuno di essi accentuava l'uno o l'altro estremo. Non è facile negare che l'atteggiamento greco, entrato massicciamente nel cristianesimo, sia diventato un apprezzamento della contemplazione a scapito dell'azione. La vita sembrava quasi divisa in buoni e cattivi: i contemplativi e gli attivi.

Quando sorse la teologia del lavoro (M.D. Chenu), la contemplazione fu riportata nel suo giusto mezzo. Gli eccessi che si paterno commettere e che si commisero nell'esaltare l'azione e nel deprezzare la contemplazione, non furono altro che la reazione all'opposizione che ci fu lungo tutta la storia e, a volte, ai litigi di persone non molto avvezze all'esattezza. In qualsiasi forma, era ormai appparso qualcosa nel cristianesimo che avrebbe chiesto d'ora in poi una maggiore moderazione ai contemplativi.

Questa opposizione, che ha una buona parte di autodifesa orgogliosa, è una lotta di galli che deve cessare per il bene di tutti.

Umanamente, bisogna ammettere che ci sono dei temperamenti psicologicamente più dotati per la contemplazione. Entro certi limiti, che servono da princìpi di discernimento, vanno ammessi per la società, come lo sono anche quelli che hanno un altro tipo di temperamento più portato ad accentuare altri elementi. Cristianamente parlando, non dovrebbero esserci difficoltà ad ammettere carismaticamente il dono della contemplazione come dono dello Spirito per il bene della Chiesa intera. Non per questo la Chiesa, Popolo di Dio, dovrebbe sentirsi sottovalutata nelle sue idee e nella sua forma di vita per la presenza questo carisma.

Abbiamo detto che è una cosa normale che ciò avvenga, purché sia entro certi limiti essenziali. Per esempio: è molto difficile che la vita contemplativa, la quale esige giustamente la contemplazione e ritiene necessarie certe strutture appropriate a questo scopo, possa svolgersi nelle strutture medievali in cui si sta tuttora svolgendo.

Non cesserà l'opposizione se non coopereranno le due parti, quella attiva e quella contemplativa. La prima, accettando senz'altro la natura di questo carisma. La seconda, rendendo credibile il suo genere di vita in questo tempo.

Il carisma della contemplazione non si identifica con l'attitudine contemplativa. Il carisma è particolare di alcune persone; l'attitudine è una componente di ogni cristiano, anzi, di ogni uomo. Il carisma accentua in modo radicale ciò che è normale come elemento nella complessità della vita.

Si sta sviluppando la riscoperta dell'attitudine contemplativa, o del fondo contemplativo della persona e del cristiano. È un bene per tutti, perché le atrofie sono sempre negative. L'attitudine contemplativa è quell'attitudine che potenzia i valori dell'ammirazione e della bellezza in tutti gli ambiti. L'attitudine contemplativa è il senso con cui si colgono i valori della festa, del gioco, dell'umorismo... L'umanità, come anche il cristianesimo, ne avrà sempre bisogno. Senza di essi, si chiude in un volontarismo disperato, che finisce in tragedia.

Ora, se non vogliamo tornare all'antica e dannosa opposizione, dobbiamo stare attenti affinché questa riscoperta non si faccia con l'abbandono o con la trascuratezza della prassi. Se così avvenisse, il guadagno diventerebbe perdita; i beni, come l'ordine, la disciplina, il lavoro, l'impegno, ecc.; declinerebbero sotto la cappa della contemplazione.

Il ricupero dell'attitudine contemplativa deve farsi proprio partendo dalla prassi. Di solito, si pensa che una buona prassi si fa partendo dalla contemplazione (ora et labora). Si pensa molto meno che una buona contemplazione deve essere preceduta da una buona prassi (labora et ora). Eppure, sembra essere questa la strada giusta. È certo che esiste un rapporto reciproco tra i due aspetti, ma all'origine, ci deve essere la prassi.

Sembra che il racconto genesiaco proceda in questo modo: prima, Dio crea. Solo dopo la creazione, viene la contemplazione del creato: " Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona " (Gen 1,31). Anche santa Teresa d'Avila ebbe da affrontare, a modo suo, il problema del rapporto tra contemplazione e azione. Dice alle sue Carmelitane:

" Ma voi mi farete osservare...: che per testimonianza di nostro Signore Gesù Cristo, Maria ha scelto la parte migliore.

Sì, ma ella aveva già fatto l'ufficio di Marta servendo il Signore con lavargli i piedi e asciugarglieli coi suoi capelli " (Settime Mansioni, c. 4, n. 13). Prima Marta, poi Maria. Questo sembra essere il cammino della riconciliazione.

Bibl. - Anonimo, Racconti di un pellegrino russo, Ed. Rusconi, Milano, 1979. Bernard Ch. A., " Contemplazione ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 262-278. Gozzelino G., Al cospetto di Dio. Elementi di teologia spirituale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989. Leclerc E., Cammino di contemplazione, Ed. Paoline, Cinisello B., 1996. Merton Th., Semi di contemplazione, Ed. Garzanti, Milano, 1991. Raguin Y., Pregare oggi, Ed. dehoniane, Bologna, 1980.

A. Guerra

Conversione. (inizio)

Abbiamo qui una parola che appartiene al vocabolario cristiano e che si trova difficilmente in un contesto differente. Il linguaggio cristiano studia fino a che punto è bene conservare certe particolarità linguistiche. Infatti la parola conversione, in quanto realtà, è anche una realtà umana.

L'accezione più comune per indicare la conversione è il cambiamento. Convertirsi vuol dire cambiare, distinguersi e agire in maniera diversa. La tonalità di questo cambiamento dipende dall'aggettivo che vi si aggiunge: per esempio, la conversione cristiana.

La conversione implica sempre come primo passo la conoscenza della realtà da convertire. Possiamo dire che implica la conoscenza personale. E la conoscenza personale comprende la padronanza dei complessi meccanismi della persona. Sono pochissimi coloro che conoscono se stessi, e questo rende la conversione pressoché impossibile.

L'espressione " conversione al futuro " è il titolo di un libro di J. Moltmann. È felice pastoralmente, umanamente e teologicamente parlando. Infatti, una delle remore che intaccano la conversione è l'idea che convertirsi significhi guardare e tornare indietro. Invece, non c'è niente di più diverso. Il motivo è, inoltre, facile da capirsi: per quanto orgoglioso sia colui che pensa a convertirsi, guardando sé e la sua vita passata, il miglior rimedio per lui sarà quello di confessare: se voglio cambiare, non è per essere quello che sono stato, non ne vale la pena, ma per essere quello che profondamente desidero di essere.

Abbiamo qui il futuro come chiamata e mèta della conversione. Dio, futuro dell'uomo (E. Schillebeecks), chiama l'uomo da questo futuro a cui lo invita, " dimentico del passato e proteso verso il futuro " (Fil 3,13). " Nessuno va senza difetti finché si vive in questo corpo mortale ", scriveva santa Teresa d'Avila (Seste Mansioni, c. 7, n. 4). Ci sono sempre limiti e possibilità, e su entrambi poggia l'esistenza della conversione.

La storia parla di varie conversioni, dando un'importanza particolare a questa: il passaggio dalla non fede alla fede, dalla vita pagana a quella cristiana. Senza togliere importanza a questo momento della conversione, è logico che avesse un maggior significato nella Chiesa primitiva di quanto ne abbia oggi: allora, il passaggio dal paganesimo al cristianesimo avveniva da parte di persone adulte, almeno psicologicamente. È comprensibile che oggi ci si presti un'attenzione minore) eccetto che si voglia fare uno studio particolare sulla conversione partendo dalla storia delle conversioni o dei convertiti.

Parlare di conversione permanente significa che siamo sempre in atteggiamento di conversione. D'altra parte, però, per non correre il rischio, sempre possibile, di parlare a vanvera, bisognerà forse intendere la conversione come un passo importante (non è l'unico decisivo, ma non è neanche un passo qualsiasi).

La parola " conversione " è una delle parole che si presta di più ad essere fraintesa, appunto perché è istintivo vederla in rapporto unicamente con la persona chiamata alla conversione.

È evidente che la persona non perde mai la sua personalità. Però, le è essenziale la dimensione comunitaria in quanto animale sociale.

Per questo, non si può dare conversione se non viene implicata questa dimensione comunitaria o sociale.

D'altra parte, anche la comunità in quanto tale è chiamata alla conversione. Il Concilio dice che la Chiesa è " santa insieme e sempre bisognosa di purificazione " (LG 8). Prendere sul serio la conversione significa prendere sul serio la dimensione comunitaria della conversione personale e la conversione della comunità ecclesiale e umana che siamo noi. Senza questa dimensione, qualsiasi conversione rimane essenzialmente lacunosa.

Sottoscrivo queste parole che devono essere lette anche in dimensione sociale: " Crediamo di cambiare tanto, e, in realtà, siamo vicini ai nostri più antichi antenati. Le strutture dell'interno umano sono molto più difficili da cambiare di un regime monarchico, o capitalista, o sovietico. Per questo, non ci si preoccupa di questo compito che esige un tempo indefinito e che non riesce mai " (L. Maldonado).

Questa è un'impressione molto diffusa. Già il profeta Geremia scriveva queste parole quasi incredibili: " Cambia forse un Etiope la sua pelle o un leopardo la sua picchiettatura? Allo stesso modo, potrete fare il bene anche voi abituati a fare il male? " (Ger 13,23). E Ossa non esitò a mettere in bocca a JHWH questo giudizio sulla conversione dell'uomo: " Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all'alba svanisce " (Os 6,4). Si potrebbero con tutta facilità moltiplicare le testimonianze e le esperienze.

Prendere coscienza di questa difficoltà significa vincere l'ingenuità propria e altrui. Significa, d'altra parte, rinunciare a certi schemi moralisti o volontaristi, che generano permanenti e profonde frustrazioni.

Tuttavia, l'AT (Ez 18,32) e il NT (Mc 1,15 e par.), invitano alla conversione in modo chiaro e deciso. D'altra parte, la parte interiore dell'uomo fa lo stesso. Tanto l'esperienza religiosa della rivelazione, come i desideri insoddisfatti dell'uomo sono la miglior prova e garanzia della possibilità di cambiare.

Può darsi che l'uomo cambi poco, molto poco. Però, le possibilità che si presentano all'uomo sono immense. Per questo, una piccola conversione, un leggero cambiamento, sarebbero già molto nelle persone e nelle comunità (della Chiesa e del mondo). Si può aspirare a questo e darsi da fare per questo.

Ciò nonostante, il cristiano dovrà sempre essere convinto che lo sforzo umano, pur imprescindibile, non deve diventare volontarismo: questo è uno dei peggiori nemici della conversione vera e duratura. Deve invece sentirsi ponrato a pregare con l'autore delle Lamentazioni: " Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo " (Lam 5,21).

Bibl. - Bastianel S., " Conversione ", in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 145-159. Goffi T., " Conversione ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 288-294. Mouroux J., Senso cristiano dell'uomo, Ed. Morcelliana, Brescia, 1961. Rabut O.A., Onestà nella fede, Ed. Morcelliana, Brescia, 1968. Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, Ed. Queriniana, Brescia, 1969. Schnackenburg R., Messaggio morale del Nuovo Testamento, Ed. Paoline, Alba, .

A. Guerra

Corpo di Cristo. (inizio)

La grande affermazione di san Paolo riguardo alla Chiesa è che essa è il corpo di Cristo. Partendo da questa metafora del corpo, san Paolo intende la Chieste la vita dei credenti nel corpo ecclesiale. Nella lettera ai cristiani di Roma, Paolo li esorta a conservare l'unità, e nel fare questo, ricorda loro questa idea: " Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo " (Rm 12,4-5). La stessa idea è svolta nella prima lettera ai Corinzi, quando Paolo esorta i cedenti alla solidarietà nella partecipazione all'Eucaristia (1 Cor 10,16-17). L'insegnamento è ancora più chiaro al capitolo 12, dove san Paolo raccomanda ai Corinzi di osservare il buon ordine e l'armonia nelle assemblee (1 Cor 12,12-13; cf 14-20.20-25.27). Nella lettera agli Efesini, san Paolo afferma che Dio ha costituito Cristo " capo della Chiesa, la quale è il suo corpo " (Ef 1,23). C'è, però, da chiedersi: in ordine a che cosa Paolo fa questa affermazione? Lo fa per parlare della riconciliazione tra pagani ed Ebrei " in un solo corpo " (Ef 2,16). Lo fa per parlare della sorte toccata ai pagani, di essere stati " chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo " (Ef 3,6). Lo fa per parlare dell'unità dei cristiani in " un solo corpo, un solo Spirito " (Ef 4,4) e del corretto ordine di tutti i membri della Chiesa " al fine di edificare il corpo di Cristo " (Ef 4, 12-16). Per questo, quando l'autore della lettera agli Efesini esorta i cristiani ad avere buoni rapporti coi familiari, ricorda loro Cristo " capo della Chiesa..., salvatore del suo corpo " (Ef 5,23). Infine, nella lettera ai Colossesi, l'idea di Cristo, " capo del corpo, cioè della Chiesa " (Col 1,16), si pone in relazione stretta con la permanenza dei cristiani in una sola fede (Col 1,23), col patire per gli altri (Col 1,24), con l'unione fra tutti i cristiani, superando pratiche estranee (Col 2,16-19), e con la pace che deve regnare fra tutti , " perché ad essa siete stati chiamat in un solo corpo " (Col 3,15).

Tutto ciò significa che i testi che si riferiscono alla teologia del corpo di Cristo sono testi di esortazione, in cui si ricorda ai cristiani i loro doveri ed obblighi, affinché rimangano nella fede, nell'unità, nell'impegno cristiano. Pertanto, non si tratta di testi puramente dottrinali, in cui si espone una teoria astratta sulla Chiesa.

D'altra parte, sembra abbastanza chiaro che Paolo abbia preso la metafora del corno dalla letteratura del suo tempo, sia latina che greca. Ora, in quella letteratura, si voleva esprimere, con la metafora del corpo, l'unità, l'ordine e l'armonia che dovevano regnare tra tutti i cittadini. Pertanto, la metafora del corpo vuole esprimere Qualcosa di molto concreto. Si riferisce ai rapporti di alcuni credenti con altri. Vuol dire che nella Chiesa, ogni membro ha il suo compito ed il suo carisma, ma in modo che tutti devono guardare al bene degli altri.

La teologia della Chiesa come corpo di Cristo fu svolta soprattutto da Pio XII, nell'enciclica Mystici Corporis (anno 1943). Con questa teologia, si intendeva superare l'idea della Chiesa come pura società esterna e visibile, prescindendo dalla sua natura profonda che è di ordine mistico e spirituale. Nello stesso senso, il Concilio Vaticano II espone anch'esso la ricca teologia ecclesiale del corpo di Cristo (LG 7) per dedurne che la Chiesa è ad un tempo visibile e spirituale, di modo che la sua natura profonda non si può ridurre al solo concetto di società perfetta (LG 8), ma il suo destino nel mondo è lo stesso di quello di Cristo, suo capo: " Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza " (LG 8). In questo modo, si poneva fine al trionfalismo ecclesiale, e veniva aperto il cammino ad una ecclesiologia più evangelica e più radicata nelle realtà terrestri.

Tuttavia, proprio quando Pio XII pubblicava la sua enciclica sul Corpo di Cristo, la teologia cominciava ad orientarsi verso un altro cammino che sembrava più fecondo: quello della Chiesa come Popolo di Dio. Di fatto, fu questa dimensione che prevalse nel Concilio Vaticano II (LG 9 ss).

Bibl. - Congar Y., Un popolo messianico. La Chiesa sacramento di salvezza. La salvezza e la liberazione, Ed. Queriniana, Brescia, 1976. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995. Lubac H. De, Meditazione sulla Chiesa, Ed. Paoline, Milano, , pp. 153-162. Ratzinger J., Il nuovo Popolo di Dio, Brescia, 1971. Schlier H., Corpo di Cristo, in: Aa.Vv., Mysterium Salutis, 7, Ed. Queriniana, Brescia, 1972, pp. 185- 191.

J.M. Castillo

Correnti psicologiche. (inizio)

Se si considera lo sviluppo della psicologia, non si può parlare di una scienza unitaria in continua evoluzione. Si danno piuttosto alcuni livelli in ognuno dei quali permane la tendenza a formare rigidamente delle scuole che respingono qualsiasi evoluzione successiva. Si può parlare di quattro correnti principali, che appaiono oggi sovrapposte.

1. Il behaviorismo (teoria dei comportamenti). Possiamo indicare come data di nascita della psicologia scientifica l'anno 1879, quando W. Wundt fondò a Lipsia il primo Istituto di psicologia sperimentale. Mentre in Germania la psicologia continuava ad essere contrassegnata dalle sue origini filosofiche, in Russia ed in America andava imponendosi una psicologia orientata verso i metodi delle scienze naturali. Con I. P. Pavlov (1849-1936), cominciano in Russia le ricerche sperimentali. Quasi nello stesso tempo, in America, J.B. Watson (1878-1956), fondatore del behaviorismo, giunse a risultati simili. Il behaviorismo vuole essere oggettivo. Ignora i fenomeni interni, perché sono soggettivi e perciò poco affidabili. Egli privilegia il comportamento che si può osservare. L'uomo è prima un foglio di carta in bianco, e, mediante una serie di stimoli, viene formato, condizionato.

Uno sviluppo della teoria classica del condizionamento è la teoria del rinforzo di E.L. Thorndike e di B.F. Skinner. Col rinforzo costante di un comportamento provato (ricompensa per un'azione desiderata o castigo per una non desiderata), si porta un animale ed anche un uomo ad un nuovo comportamento.

Nella prima metà del secolo XX, questa tendenza dominò la psicologia americana.

2. La psicanalisi. Inizialmente, con più dissensi che consensi, si sviluppò una tendenza elaborata da medici e che ebbe per questo uno scarso contatto con gli psicologi. L'inizio della psicanalisi per opera di Freud (1856-1939) suole situarsi nel 1900, data di pubblicazione di Interpretazione dei sogni.

Freud trascura il comportamento. L'interesse sta esclusivamente nel vissuto interiore, partecipato verbalmente. Si osserva che l'uomo è in gran parte determinato da processi inconsci che occorre decifrare e rendere consci. Si ha qui un'immagine dell'uomo tetra e pessimista, in quanto Freud si occupa soprattutto di processi psichici morbosi. L'uomo è visto come un essere distruttivo e aggressivo, mosso da impulsi che vanno indeboliti e canalizzati, affinché sorga una cultura umana e affinché sia possibile la convivenza umana.

Per gli psicanalisti ortodossi, Freud era un'autorità intoccabile. Altri criticarono le sue teorie ed ipotesi e le modificarono notevolmente. Tra i dissidenti, vanno ricordati A. Adler (1870-1937) e C.G. Jung (1876- 1961) che diedero origine a nuovi indirizzi. Negli Stati Uniti, si sono formati numerosi centri di ricerche con l'intento di sviluppare la psicologia dell'Io (H. Hartmann), come anche le implicanze sociali della psicanalisi (E.H. Erikson). È sorta così un'immagine più positiva dell'uomo ed è stata preparata la strada al cambiamento umanista successivo.

3. Psicologia umanista. Ricordiamo gli indirizzi più importanti di questo movimento: la psicologia della Gestalt = forma, configurazione (F. Perls), l'evoluzione della psicanalisi (C.G. Jung, R. Assagioli, W. Reich, K. Horney, E. Fromm, la logoterapia (V. Frankl), come anche una serie di orientamenti e di personalità tra cui spicca C.R. Rogers (1902-1987): questi, negli anni '40, cominciò a sviluppare una psicoterapia orientata in senso psicologico.

Questo orientamento è caratterizzato da un'immagine dell'uomo più positiva, che accentua Libertà umana e la tendenza all'autorealizzazione, alla creatività, alla crescita, al senso... Queste idee incontrarono improvvisamente negli anni '50 una vasta eco e diventarono un movimento. A. Maslow (1908-1970) fu colui che diede al movimento la qualifica di umanista, formando una terza forza, oltre alle due correnti fino allora dominanti.

Sono tecniche importanti lo psicodramma di J.L. Moreno (1889-1974), la terapia gestaltica di F. Perls (1893-1970), e varie terapie creative. Si dà una maggiore importanza alle terapie corporali: M.F. Alexander, I. Rolf, M. Feldenkreis, A. Löven.

4. Psicologia transpersonale. La sua origine può essere fissata al 1966. In essa, si studiano esperienze in cui si dà un ampliamento della coscienza, al di là dei limiti abituali dell'Io e dei limiti di tempo e di spazio. La grande varietà di esperienze appare come una selva confusa, ma in fondo, si ha una linea unitaria.

Una fonte importante è la parapsicologia. Si possono distinguere i seguenti fenomeni: la telepatìa o trasmissione di pensiero senza ricorrere ai mezzi conosciuti; la pre-cognizione, o conoscenza previa di avvenimenti futuri; la chiaroveggenza, o percezione di oggetti o persone distanti; la psicocinesi, o influenza diretta, non meccanica, su sistemi materiali.

Nella tradizione europea, sono fonti importanti vari sistemi esoterici, come l'antroposofia di R. Steiner e Gurdjeff; la psicosintesi di R. Assagioli; la terapia iniziatica di K. Dürckheim.

Il pensiero orientale è un'altra fonte essenziale: il Vedanta indiano, il tantrismo e il buddismo, come anche autori recenti: Aurobindo, Ramakrishna, Krishnamurti, Baghwan Shree Rajneesh, ecc.; il taoismo cinese, il buddismo giapponese e le varie tecniche, come lo Yoga, la meditazione Zen, il Vipasana, la meditazione in movimento (Tai chi), l'autodifesa spirituale (Aikido).

È una corrente che si trova tuttora in fase di sperimentazione.

Bibl. - Aa.Vv., Psicologia, Ed. Zanichelli, Bologna, 21991. Arnold W. - Eysenck H.J. - Meili R. (a cura di), Dizionario di Psicologia, Ed. Paoline, Roma, 1975. DACO P., Che cos'è la psicologia, Ed. Rizzoli, Milano, . Ronco A., Introduzione alla psicologia, I. Psicologia dinamica; II, Conoscenza e apprendimento, LAS, Roma, 1991-1994. Sillamy N., Dizionario di psicologia, Ed. Gremese, Roma, 1995.

F.J. Calvo

Coscienza. (inizio)

La parola coscienza fu inventata dai Greci e fu tradotta in latino da Cicerone, e di qui, passò nelle altre lingue moderne occidentali, ad eccezione del tedesco. Significa: scienza con; è la consapevolezza che uno ha di se e dei suoi atti. Scienza, secondo i Greci, è una conoscenza certa di qualcosa mediante le sui cause. Come esiste una scienza delle cose, esiste anche una scienza di cio che devo fare. I vangeli non usano il termine coscienza. In compenso, Paolo lo usa una cinquantina di volte. Però, per Paolo, il termine non significa, come per i Greci, soltanto quello che devo fare tenendo presente quello che suole accadere a seconda che io faccia questa o quest'altra cosa (fenomeno naturale della ripetizione), ma anello che il Dio attivo della Bibbia, da Abramo fino a Gesù Cristo, vuole che io faccia (volontà storica di Dio).

La coscienza è un giudizio su ciò che devo o non devo fare, qui e adesso. L'uomo tende spontaneamente a fare il bene e a evitare il male. Grazie alla scienza e all'esperienza morale, l'uomo, alle volte con difficoltà gravi, va scoprendo ciò che è bene e ciò che è male, cioè, ciò che favorisce la dignità della persona umana e ciò che la pregiudica. Mediante la casistica morale, l'uomo può, e così ha fatto in determinate epoche, compiere una specie di ginnastica morale, per risolvere certi casi morali ipotetici. Con la coscienza, l'uomo si interroga personalmente ed esistenzialmente su ciò che deve fare in un determinato momento e in circostanze concrete.

La psicologia del profondo ha messo in rilievo che sotto il giudizio della coscienza c'e l'inconscio, che in certo modo può condizionare il giudizio morale, sebbene non lo possa totalmente eliminare. La sociologia ha fatto vedere l'importanza dei condizionamenti sociali della coscienza, che in Alcuni casi può trasformarsi in una semplice eco della società. Comunque, il passaggio dalla coscienza individuale a quella sociale suppone un vero salto di qualità e la comparsa di un vero valore aggiunto, soprattutto se si realizza all'interno di autentiche comunità in cui l'io è rispettato dal gruppo ed in cui si condivide in maniera critica l'esistenza dei valori in questione e il ruolo delle circostanze. Per i credenti, la coscienza morale, oltre ad essere un'interpellazione dell'uomo e dei valori implicati dalla dignità della persona umana, è in un certo modo la voce di Dio che ci parla attraverso la parte migliore di noi stessi, attraverso quanti ci circondano e, specialmente per i cristiani, attraverso la Parola di Dio nella Bibbia.

Bibl. - Caffarra C., Indicazioni per la formazione della coscienza morale, in: " Rivista del Clero italiana ", 57 (1976), 598-603. Giorda L. - Cimmino R., La coscienza nel pensiero moderno e contemporaneo, Roma, 1978. Privitera S. (a cura di), La coscienza, Ed. dehoniane, Bologna, 1986. Schüller B., L'uomo veramente uomo. La dimensione teologica dell'etica nella dimensione etica dell'uomo, Edi Oftes, Palermo, 1987. Valsecchi A. - Privitera S., " Coscienza ", in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., .

A. Hortelano

Cosmovisione. (inizio)

Il termine cosmovisione è un neologismo che traduce letteralmente il vocabolo tedesco Weltanschauung, che si può tradurre anche con l'espressione concezione del mondo. Si tratta di una visuale caratteristica del romanticismo tedesco. Si ha qui un atteggiamento di rottura con un freddo ed escludente razionalismo astratto ed universale. Pensiamo in base al linguaggio (J.G. Herder, W. von Humboldt), e questo è emozionale, originariamente poetico, pregno di un impulso creatore della natura, di segni mitici dallo slancio divino. La fredda ragione analitica non è tutto né la cosa ultima. C'è un modo di conoscere intuitivo (secondo Schelling, l'Assoluto si intuisce " come una pistolettata "), per simpatia (S. Tommaso d'Aquino aveva parlato già di " conoscenza per connaturalità affettiva "). Si tratta di una prospettiva in cui ciò che importa è il valore, la dignità, la creatività, la libertà intesa come possibilità e dovere di essere di più, di compiere un destino divino. La parola " cosmovisione " indica e deve essere riferita a questo mondo di idee, a questo clima spirituale.

Cosmovisione significa, in parte, percezione del mondo nel suo complesso, di tutta la realtà. Pertanto, è riferita anche alle questioni ultime, alle domande radicali, al senso dell'esistenza, al problema della causa o ragione ultima e a quello della mèta finale della nostra realtà e del nostro ambiente. (Dicendo che la cosmovisione è riferita a questi interrogativi, non intendiamo supporre che la risposta sia sempre positiva: l'ateismo ed il fenomenismo sono anch'essi concezioni del mondo).

Ma di che tipo di percezione si tratta? (a cosmovisione può presentarsi (essere vissuta) con pretese filosofico-metafisiche o addirittura su un piano antropologico o con accentuazioni prevalentemente etiche; può avere il carattere di ideologia religiosa, in quanto può rispondere ad una fede e poggiare su di essa.

W. Dilthey distingue (stando al contenuto) tre tipi di concezioni del mondo: il naturalismo (materialista o fenomenico-positivista); l'idealismo della libertà (conflitto morale e percezione dell'attività volitiva); l'idealismo oggettivo (tendenza a trasformare tutta la realtà in essere e in valori trascendentali che si manifestano nelle realtà del mondo). Però, questo sistema non esaurisce il campo delle cosmovisioni che si danno realmente tra gli esseri umani. La cosmovisione teologico- religiosa, che contempla il mondo come creazione di Dio, non si riduce all'idealismo oggettivo, anche se questo, per esempio in Hegel, sembra imparentarsi con essa e pretenda addirittura di superarla.

Secondo Dilthey, di fronte ai vari sistemi perituri, sta l'attitudine radicale dell'uomo che non è permanenza estatica, ma è vita (dialettica di vita e storia che si includono reciprocamente). L'intelligenza esiste come realtà negli atti vitali degli uomini che comprendono anche volontà e sentimenti; esiste all'interno della totalità della natura umana.

Questo ci introduce in un aspetto molto interessante della problematica che si pone attorno al concetto di cosmovisione. Né la scienza empirico-matematica né una filosofia che pretenda equipararsi con tutta rigorosità ad essa (una " filosofia come scienza stretta ", a cui aspirava E. Husserl), possono riuscire a colmare l'ambito di percezione della realtà di cui ha bisogno l'uomo per vivere. Per questo, l'uomo è un essere di credenze e di speranze, di amori e di emozioni, che non devono cedere incondizionatamente di fronte all'imperialismo della " ragione raziocinante ", e tanto meno devono abbandonarsi acriticamente alla mercé di un irrazionalismo tempestoso e caotico. Occorre mantenere una dialettica tra ragione e vita, tra intelletto e spirito. In questo equilibrio, occupa un posto importante il senso etico (lo si chiami intuizione di valori o giudizio nel senso della terza critica di Kant). La vita (anche quella intellettuale) dell'uomo è sempre inquadrata in una cosmovisione che non si può ridurre a pura scienza né a pura filosofia. T.S. Kuhn ha messo in evidenza che nemmeno lo sviluppo delle scienze è questione di pura scienza, ma si opera con " paradigmi " nella cui invenzione e conservazione intervengono elementi di cosmovisione. Per questo, l'avanzata delle scienze non è lineare e ininterrotta.

Bibl. - Aa.Vv., Umanesimo cristiano e umanesimi contemporanei, Ed. Massimo, Milano, 1983. Berghin-Rosé G., Elementi di filosofia, III, Cosmologia, Ed. Marietti, Torino, 1949. Copleston F., Storia della filosofia, VII, Ed. Paideia, Brescia, 1982. Jüngel E., Dio mistero del mondo, Ed. Queriniana, Brescia, 1982. Magnino B., Romanticismo e cristianesimo, 3 voll., Ed. Morcelliana, Brescia, 1962-1963. Panteghini G., Il mondo materiale nel piano della salvezza, Roma, 1968. Vanni- Rovighi S., Istituzioni di filosofia, Ed. La Scuola, Brescia, 1982.

J.M. Díez-Alegría

Costituzione. (inizio)

Possiamo definire la costituzione come il progetto politico fondamentale condiviso da un popolo in un dato tempo della sua storia. Si tratta di un complesso di norme fondamentali, difficilmente riformabile, che regolano l'organizzazione e l'esercizio del potere, come anche i diritti e i doveri dei gruppi e dei singoli.

Quantunque, in linea di principio, qualsiasi Stato possa avere una costituzione, tuttavia, si è soliti riservare il nome di governo costituzionale ai governi democratici. Soprattutto nel passato, molte costituzioni erano una concessione " graziosa " dei monarchi al popolo. Oppure erano frutto di un negoziato fra le due parti. Però, come erano allora, né le costituzioni elargite né le costituzioni patteggiate rispondevano veramente a ciò che è una costituzione, perché non riconoscevano la sovranità popolare. Si può parlare di costituzione solo quando è lo stesso popolo che la stabilisce mediante i suoi legittimi rappresentanti e la sancisce poi con il suo voto in un referendum.

Inizialmente, le costituzioni erano dichiarazioni di carattere programmatico prive di valore giuridico per cui raramente i loro princìpi riuscivano a tradursi in realtà concrete. Loewenstein le chiamava " costituzioni semantiche ". Oggi, invece, è logico ritenere come norme giuridiche i princìpi costituzionali, ed anche della massima importanza, in modo tale che qualsiasi legge contraria ad essi è una legge invalida.

Il procedimento per riformare la costituzione deve essere più complesso di quello che occorre per le leggi ordinarie. Se una costituzione potesse essere modificata con una semplice maggioranza parlamentare, sarebbe esposta alla manipolazione dei partiti che si succedono al governo. Questo sarebbe un mettere la costituzione a servizio dei governanti, mentre sono essi che devono essere sottomessi ad essa. Tuttavia, si deve evitare il pericolo opposto: rendere il cambiamento della costituzione così difficile che questa diventi presto non adattata alle necessità della società. Di fatto, tutte le costituzioni che riescono a durare molti anni ottengono questo risultato appunto perché vengono modificate. Pensiamo, per esempio, alla costituzione degli Stati Uniti e ai suoi numerosi emendamenti.

La Spagna, dopo la Francia, è il paese europeo che ha avuto il maggior numero di costituzioni (undici, dal 1808). La pretesa dei partiti di cambiare in precetti costituzionali vari punti dei loro programmi ebbe per risultato che ogni cambiamento di governo portò con sé un cambiamento di costituzione. Questa instabilità del testo costituzionale e le sbandate che ha subìto hanno contribuito, non c'è dubbio, a far sì che gli Spagnoli non abbiano un grande attaccamento alla loro costituzione, come si può costatare, invece, in altri paesi.

La costituzione attuale, invece, fu il risultato del consenso tra le varie forze politiche. Di fatto, il suo testo fu approvato in un referendum del 6 Dicembre 1978 con l'87,78% di voti. Soltanto il 7,38% votarono contro. Vi fu, tuttavia, una astensione del 32,89% concentrata, soprattutto, nei Paesi Baschi, come aveva chiesto il PNV. Ciò nonostante, il negoziato successivo sullo Statuto di Autonomia indusse il PNV e vasti settori della società basca ad accettare la costituzione.

Naturalmente, la ricerca di consenso tra gruppi le cui posizioni erano molto distanti costrinse all'uso di alcune formulazioni ambigue che non fecero altro che ritardare lo scontro al tempo in cui un punto in questione aveva da essere chiarito per la corrispondente legge organica. Ciò nonostante, fu un metodo indovinato, e riuscirà indubbiamente a dare stabilità al sistema democratico.

D'altra parte, la mancanza di appartenenza della nostra costituzione a una ideologia concreta non significa neutralismo e, meno ancora, indifferenza. La costituzione ha sancito la democrazia politica, con una divisione di poteri non solo organica, ma anche territoriale, e contiene alcune anticipazioni di democrazia sociale. L'elenco di diritti umani proclamati dalla costituzione spagnola, oltre ad essere più numeroso di quelli delle dichiarazioni classiche, arricchisce la sua portata con prospettive economiche. Proclama la non confessionalità dello Stato, la libertà religiosa, ecc.

La Costituzione spagnola, propugnando come " valori superiori del suo ordinamento " la libertà, la giustizia, l'uguaglianza e il pluralismo politico (art. 1.1), come anche riconoscendo l'esistenza di un diritto che non ha la sua origine nella legge (art. 103.1), presuppone l'esistenza di alcuni valori che appartengono ad un piano superiore e che vanno rispettati per il buon andamento legale. Mentre il positivismo giuridico afferma che le leggi sono giuste per il fatto di essere leggi, la Costituzione spagnola afferma che le leggi, per essere tali, devono essere giuste. Il fondamento di questi valori superiori rappresenta, nelle società pluraliste un problema di difficile soluzione per la teoria giuridica. Trattandosi di uno Stato non confessionale, non si può ricorrere alla morale cristiana. La via del diritto naturale non sembra permettere oggi troppi consensi. Così, il cammino più indovinato è forse quello dell'etica civile.

Bibl. - D.D., " Costituzione ", in: Enciclopedia Italiana, Treccani, XI, 1931, pp. 653-656. Mancini P., " Costituzione ", in: Enciclopedia Filosofica, I, Venezia-Roma, 1957, coll. 1297-1298. Zaccaria da san Mauro, " Costituzione ", in: Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, coll. 779-781.

L. González-Carvajal

Creatività. (inizio)

La creatività è quell'attività che consiste in una forma speciale di risolvere i problemi. La sua caratteristica è la novità, la mancanza di convenzionalismo, la costanza e lo sforzo per raggiungere una soluzione.

Nel processo creativo, si è soliti distinguere quattro fasi. Generalmente, queste sono chiamate: preparazione, incubazione o maturazione, illuminazione, verifica. Nella prima fase, il soggetto si tuffa nella conoscenza profonda del problema. L'incubazione è il periodo in cui lavora l'inconscio stimolando associazioni impreviste. In questa fase, avvengono trasferente di ogni genere e strutturazioni flessibili.

Una volta che si è compiuto questo compito di germinazione, emerge l'illuminazione, l'ispirazione che si presenta immediatamente al soggetto e che costituisce la chiave di soluzione del problema. Infine, l'ultimo passo è la verifica in cui viene convalidato il valore di adattamento della soluzione. All'interno della ricerca sulla creatività, sono stati esaminati i rapporti esistenti tra la creatività e la personalità. Sono state riscontrate varie caratteristiche centrali fermamente stabili nei soggetti creativi. Tra queste, spiccano: una forte valorizzazione delle qualità estetiche nell'esperienza, interessi molto vasti, una forte attrattiva per le cose complesse, una buona dose di energia, indipendenza di giudizio, autonomia, intuizione, fiducia di sé, capacità di risolvere le antinomie, di conciliare aspetti a prima vista contrastanti o conflittuali nella propria autoconcezione, e, infine, un forse senso dell'Io come creativo.

In quanto ai rapporti esistenti tra la creatività e l'intelletto, Guilford indica l'indipendenza tra le due realtà, in quanto si riscontra una correlazione debole o moderata nei differenti punteggi ottenuti nei tests di intelletto e di scale creative. I risultati portano alla conclusione che, quantunque i soggetti creativi posseggano generalmente una buona intelligenza, non sempre le persone intelligenti sono creative.

Altre varianti in rapporto con la creatività sono: la motivazione, il funzionamento conoscitivo, l'aggressività, la fiducia di sé, la duttilità.

Bibl. - Beaudot A., Il problema della creatività nella scuola, Ed. SEI, Torino, 1974. Fattori M., Creatività ed educazione, Ed. Laterza, Bari, 1968. Mencarelli M., Creatività, Ed. La Scuola, Brescia, 1976. Pellerey M., " Creatività ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 183-184. Póla_ek K., " Creatività ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 251-253.

M. N. Lamarca

Creazione. (inizio)

La creazione, oltre ad essere un dogma fondamentale della fede cristiana, è anche la risposta più ragionevole alla sempiterna domanda: perché esiste l'essere e non il nulla? Ordinariamente, sono state date due risposte estremiste: il dualismo e il panteismo. Il dualismo ammette due fonti di essere: la fonte buona e la fonte cattiva. L'esistenza sarà sempre un conflitto tra il Bene ed il Male, intesi come due fronti di battaglia agguerriti ed autonomi. Il pantesimo intende la realtà come una cosa unica dal cui seno emergono gli esseri, ora in un modo ciclico, ora in una forma evolutiva.

Il dogma creazionista, di fronte al dualismo, significa: tutto ha origine da Dio; in quanto tale, tutto è buono. Di fronte al panteismo, il dogma afferma: Dio trascende infinitamente il mondo; questo possiede una realtà propria, distinta da quella di Dio. La dignità degli esseri mondani è così al riparo sia dal pessimismo dualista che dall'illusorio ottimismo panteista. Contro il panteismo, si respinge la valorizzazione del mondo come bene assoluto. Contro il dualismo, si rifiuta la svalutazione del mondo materiale come male assoluto. In una parola: secondo la fede nella creazione, il mondo è un valore, ma relativo.

L'originalità della fede giudeo-cristiana si rende evidente quando notiamo che non esiste un termine, fuori dal linguaggio biblico, per esprimere questa realtà. È perché non si tratta soltanto delle origini, ma della natura del reale, della sua essenza ontologica. L'affermazione di fede mette in rilievo che la condizione propria del reale è la sua creaturalità.

Le conseguenze di questa affermazione di fede, sottolinea J.L. Ruiz de la Peña, sono state trascendentali. Così, è pacifico riconoscere un nesso tra la fede nella creazione e la nascita della civiltà tecnicoscientifica. Questa non è sorta nell'area geografica delle grandi culture antiche (India, Cina...) come, in linea di principio, ci si potrebbe aspettare, ma nell'occidente evangelizzato. È stata la fede nella creazione che, opponendosi alla divinizzazione del cosmo (propria delle religioni naturaliste e panteistiche), ha fatto sì che l'uomo perdesse nei riguardi del mondo quel rispetto sacro che gli impediva di manipolarlo e di dominarlo. L'uomo era vissuto in un mondo incantato; aveva sopportato l'attrazione magnetica di forze cosmiche le quali, nella loro grandezza, si rivelavano a lui come teofanie e lo tenevano schiavo. La natura aveva soggiogato l'uomo. La dottrina della creazione rompe questo incanto malsano: la realtà sdivinizzata viene sdemonizzata; il mondo è mondano, non è divino. L'uomo lo può cogliere come maneggiabile e dominabile, non come intangibile e inviolabile.

Però, nell'idea cristiana della creazione, Dio non è soltanto all'inizio, ma anche alla fine. Dio non è solo causa efficiente: è anche la causa finale; è Colui che attrae la creazione e la muove suscitando in essa una dinamica incessante di auto-trascendimento. Questa visuale della creazione supera i limiti fissisti che una certa lettura del dogma giudeo- cristiano aveva messo in contrasto col concetto moderno di evoluzione. Comunque, non si può affermare che evoluzione e creazione siano antagoniste. Nessuno, per esempio, come osserva Brunner, sarà costretto a dichiarare incompatibile l'analisi chimica di una tela dipinta col giudizio estetico del dipinto sulla tela. Ora, come il giudizio estetico non nega l'analisi chimica, così l'affermazione di fede non nega il valore della descrizione scientifica, e questa non può negare legittimamente il valore metafisico di quella. La creazione, scrive Brunner, costituisce il fondo invisibile dell'evoluzione; l'evoluzione appare come il primo piano visibile della creazione.

La grande difficoltà nell'approfondire il dogma della creazione è la libertà di Dio nel creare: Dio ha bisogno di creare altri esseri, dipendenti da lui, per ovviare alla sua solitudine? La risposta cristiana è decisa: in Dio, non c'è solitudine. In Dio, c'è vita: tre persone che comunicano tra di loro, che vivono una vita intensa ed una comunione infinita. E questa triplice personalità non impedisce l'unità e l'unicità di Dio. Per questo, l'atto di creare non è comandato da nessuna necessità vitale di Dio, come accade, invece, nelle teogonie pagane. Giove e Prometeo, il dio e l'uomo della metafisica greca, sono grandezze antinomiche che si affrontano ostilmente. Per Prometeo, il fatto di dipendere da Giove comporta l'alienazione del proprio essere. Il modello biblico del rapporto Dio-uomo non è affatto così. JHWH non è Giove; non è il dio geloso delle sue prerogative, ma è il Dio dell'alleanza. Adamo non è Prometeo; non è il rivale di Dio, ma la sua immagine. La dipendenza dal Creatore non comporta la schiavitù della creatura, ma la sua liberazione. L'attività della creatura non è un attentato contro l'opera del Creatore, ma è un prolungamento di quest'opera, prevista e voluta dallo stesso Creatore. Immaginare, dunque, la creatività umana come una profilassi contro la creatività divina ha come conseguenza una colossale mistificazione di entrambe.

Il nesso tra il dogma della creazione e la dinamica dell'industria e della tecnica è così stretto, che l'ecologia moderna ritiene il cristianesimo la causa ultima del disastro che minaccia la natura con questo soprannaturale che addirittura innalza l'uomo a " immagine di Dio ". Per questo, alcuni scienziati, come J.W. Forrester, hanno affermato che, dal momento che le radici delle nostre difficoltà sono profondamente religiose (il cristianesimo è giunto a dichiarare esplicitamente che è volontà di Dio che l'uomo sfrutti la natura a suo vantaggio), il rimedio non può essere se non essenzialmente religioso.

Comunque, dobbiamo riconoscere che la teologia è arrivata tardi al nocciolo del problema. Il suo atteggiamento credulone di fronte all'accelerazione del progresso, come se con ciò sacralizzasse il nuovo mostro che dominava la scena del mondo, ha impedito che si facesse un giusto uso dei propri freni comportati dal dogma della creazione. Per questo, molti teologi hanno guardato indietro verso la vecchia Scrittura per riscoprire in essa tracce di questi freni. Così, in Lv 25,2-5 la prescrizione di non coltivare la terra ogni sette anni rivelerebbe una tecnica di conservazione del suolo. In Es 23,12 gli animali sarebbero esonerati dalla schiavitù imposta ad essi dall'uomo. In Dt 20,19 ss, si imprecherebbe contro le conseguenze della deforestazione. Infine, Os 4,1-3 anticiperebbe i risultati nefasti del dramma ecologico nella biosfera.

Senza arrivare ad una lettura fondamentalista della Bibbia, bastano questi esempi per capire che la dinamica del progresso non è autonoma, ma va sottoposta a leggi di convivenza e di benestare, superiori a quelle che dominano nell'interiorità del proprio processo. Oggi, gli uomini di scienza sono allarmati per il " boomerang " provocato dai loro " giocattoli " tecnici. Da tutte le parti, si alzano voci che esigono un consenso etico superiore alle ricerche robotiche di una scienza e di una tecnica che si sono rese indipendenti dalla ragione e soprattutto dal cuore umano.

Riflettendo sui primi testi del dogma della creazione, vediamo come il contesto di Gen 1,28 indichi con molta chiarezza che solo Dio è Signore; in quanto tale, ha saldato la creazione sulla base di alcune leggi naturali che sfuggono alla giurisdizione umana e che l'uomo, come il resto delle creature, deve rispettare. Succede invece che l'uomo si atteggia a Dio, cedendo così alla tentazione archetipa, al peccato per antonomasia: quello denunciato dai vecchi testi jahvisti (Gen 2-3 e 11). È dunque la propria fede nella creazione che, ricordando all'uomo la sovranità assoluta del creatore, pone dei limiti alla signoria umana su queste terra.

Bibl. - Auer J. - Ratzinger J., Il mondo come creazione, Ed. Cittadella, Assisi, 1977. Colombo G., " Creazione ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 184-210. Flick M. - Alszeghy Z., Fondamenti di una antropologia teologica, Ed. Fiorentina, Firenze, 1969. Gozzelino G., Vocazione e destino dell'uomo. Saggio di antropologia teologica fondamentale (protologia), Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1985. Ladaria L.F., Antropologia teologica, Ed. Gregoriana, Roma, 1983. Moltmann J., Dio nella creazione, Ed. Queriniana, Brescia, 1986. Ruiz de la Peña, Teologia della creazione, Ed. Borla, Roma, 1988.

J.M. González Ruiz

Credenza. (inizio)

La credenza è una delle componenti fondamentali del comportamento umano. Pertanto è una questione che non si può eludere se vogliamo davvero riuscire a comprendere l'uomo in tutta la sua complessità.

Nel suo fondo, l'uomo è portato a credere, fa notare Ortega y Gasset. Le credenze costituiscono, secondo lui, lo strato più profondo della nostra vita e la terraferma su cui essa si muove È sulla base delle credenze e nelle sue cavità che spuntano le idee. Queste si forgiano quando le credenze cominciano a vacillare.

Il filosofo empirico Hume distingue tra il puro pensare e le credenze, e mostra come queste, e non il pensiero, siano il principio regolatore delle nostre azioni. Questa tesi è condivisa, fino ad un certo punto, da Wittgenstein secondo il quale la funzione della credenza e quella di regolare la vita totale del credente.

Hume considera la credenza religiosa come il paradigma di ogni credenza. Il punto di riferimento obbligato della credenza religiosa è Dio, cioè, una realtà trascendente e distinta dal mondo che, secondo varie religioni, possiede una forma personale più o meno definita.

La credenza religiosa è onnicomprensiva, cioè, risponde ad ogni questione. In altre parole: abbraccia una visione globale della realtà in tutte le sue dimensioni. Questa onnicomprensività, sottolinea Sàdaba, le dà una grande capacità di adattamento.

La credenza religiosa si colloca all'interno della storia e si sente implicata in modo permanente nei vari contesti socio-culturali in cui si dispiega, ma non è possibile spiegarla come il semplice risultato o prodotto di questi contesti, e non si può neanche ridurre ad essi.

La credenza religiosa comporta due elementi: il " credere che ", o elemento noetico, che consiste nel credere il contenuto delle proposizioni di fede, e il " credere in ": questo va molto più in là della semplice adesione intellettuale: comporta la fiducia totale in qualcuno, nell'essere trascendente in cui si crede.

Tanto la teologia quanto la filosofia si sono poste ripetutamente il problema cruciale dei rapporti tra ragione e credenza, tra fede e scienza. Per sant'Anselmo, la fede richiede e cerca costantemente la comprensione, come appare dalla sua massima conosciutissima: " Credo ut intelligam ". Molto diverso è il punto di vista di Tertulliano che, nel conflitto tra fede e ragione, si pronuncia a favore della prima e rinuncia alla seconda, per cui egli afferma: " Credo quia absurdum ".

C'è in Kant un testo su questo punto ed è stato oggetto di interpretazioni a non finire: " Ho dovuto scartare il sapere per cedere il posto alla fede ". Siamo qui di fronte ad una manifestazione di fideismo? Certamente no. Dunque, come fa notare Ferrater Mora, la credenza di cui parla Kant non è la " fede ", ma la ragione pratica. Inoltre, il sapere a cui si riferisce il filosofo, " non è la vera conoscenza o scienza, ma il preteso sapere difeso dai razionalisti, quel sapere che procede per princìpi ritenuti supremi senza un previo esame e senza la critica dei limiti della facoltà conoscitiva " (Ferrater Mora).

Bibl. - Acquaviva S. - Pace E., Sociologia delle religioni. Problemi e prospettive, NIS, Roma, 1992. Bajzek J., " Credenze ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 253-254. Berger P., Il brusìo degli angeli, Ed. Il Mulino, Bologna, 1970. Berzano L., Religiosità del nuovo areopago. Credenze e forme religiose nell'epoca postsecolare, Ed. Angeli, Milano, 1994. Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, Ed. Comunità, Milano, 1963. Eliade M., Storia delle credenze e delle idee religiose, Ed. Sansoni, Firenze, 1990. Lonergan B., Ragione e fede di fronte a Dio, Ed. Queriniana, Brescia, .

J.J. Tamayo

Credo. (inizio)

Il Credo è un testo che permette ai cristiani di riunirsi come comunità credente. Esso esprime un'esperienza di fede, singolare e alle volte individuale, in una formula comune il cui effetto è la confessione ecclesiale nel mistero di Dio, rivelato da Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Il Credo è un testo scritto in prima persona singolare. Però, questa prima persona singolare presuppone una comunità, o meglio, ha sempre una dimensione sociale, come testimoniano le espressioni " Nostro Signore ", " la santa Chiesa cattolica ", " la comunione dei Santi ". Questo suppone il passaggio da una soggetto singolo ad un soggetto credente. Però, questo soggetto non vive indipendentemente dalla società a cui appartiene e dalla quale impara a recitare il Credo. Così, nel nostro testo, l'individuale ed il sociale sono legati inseparabilmente.

La questione sta nell'intendere il rapporto che esiste tra la fede personale e la fede della comunità in cui il Credo compie, per la sua forza aggregativa, un ruolo istituzionale. Non basta sovrapporre i due aspetti.

Le formule del Credo, soprattutto quelle più antiche, non possono essere ritenute un semplice riassunto delle principali verità che si devono credere nella Chiesa. Questa concezione è dovuta, secondo Henri de Lubac, ad una " supposta etimologia ", non sicura: " secondo questa etimologia meno sicura, symbolon, confuso con symbolè, era tradotto in latino con collatio, nel senso di epitome, riassunto ". De Lubac mostra come questa concezione soppiantò a poco a poco il significato originale: " impegno personale e pubblico, vincolo di comunione con tutti i credenti: è questa la duplice realtà significata e realizzata con la confessione di fede nella recita del simbolo ". Di qui, si può concludere che le formule del Credo non si devono ritenere prima di tutto un complesso di conoscenze. Anzi, le comprenderemo meglio se le collocheremo in un ordine pratico, con una dimensione etica e sociale. Prima di essere compendium fidei, sono regula fidei. Questo concetto di regola è sufficiente per vedere che il Credo interessa una comunità che si riunisce in funzione di esso e che lo " comprenderà " dandogli corpo in una pratica che non è frutto del caso.

In questo modo, prima di essere l'adesione ad alcune proposizioni che enunciano alcune credenze, il Credo suppone l'accettazione di un cammino concreto di avvicinamento a Dio. Grazie al dinamismo di una fede personale e comunitaria, il Credo rappresenta un movimento col quale noi ci avviciniamo a Dio per la mediazione storica di Gesù Cristo, presente nella Chiesa mediante il suo Spirito.

Per la loro origine e per il loro uso, i simboli di fede sono in rapporto stretto con la celebrazione liturgica. In concreto, fin dall'inizio, si sentì nella Chiesa la necessità di esigere dai candidati al battesimo una professione di fede, dal contenuto più o meno costante, sia pure variabile nelle sue espressioni. Queste formule di fede battesimali adottarono la struttura trinitaria, proveniente dal comando del Signore in Mt 28,19, prima in forma di domande e risposte, e più tardi, in forma di simbolo spiegato al catecumeno e da lui recitato. Il testo che, a partire dal secolo IV, è stato chiamato simbolo apostolico, è il risultato di una fusione di due confessioni: una trinitaria ed un'altra cristologica. In seguito, il dialogo con gli eretici, per rispondere alle loro teorie, si fece invocando il simbolo battesimale, di modo che la controversia suscitò un uso inedito del Credo: separato dalla fede battesimale, veniva ad essere alla lettera un mezzo per difendere la purezza della fede. Il Credo diventò più un test di ortodossia che una confessione di fede battesimale. Tra questi simboli, quello chiamato niceno-costantinopolitano (promulgato dal I Concilio di Costantinopoli del 381, e recitato oggi nelle celebrazioni eucaristiche delle domeniche), rappresenta il termine di una evoluzione.

La struttura ternaria del Credo non consiste in una semplice divisione, secondo le tre persone divine, del contenuto concettuale del cristianesimo. È una confessione in cui si articola una parola su Dio e una parola sull'uomo, inseparabilmente.

La dimensione religiosa, cristiana, spirituale, del Credo rende ragione del suo contenuto. È religioso, perché si riferisce a Dio. È cristiano, perché si riferisce a Gesù Cristo. È spirituale, perché si riferisce allo Spirito Santo. Queste tre determinazioni illuminano ognuna delle apposizioni che seguono i termini: Dio, Gesù Cristo, Spirito Santo. Si illuminano anche tra di loro. Ognuno dei termini principali non va inteso in modo isolato: va collocato in un movimento che trasforma tutto l'itinerario credente. Non è possibile parlare di Dio senza parlare del cielo e della terra, creati da Lui: la dimensione " mondo " si fa imprescindibile. Non è possibile parlare di Gesù Cristo senza introdurre nel discorso la dimensione della comunità o società che Egli ha inaugurato con la sua storia singolare. E questa storia singolare non potrebbe essere narrata senza ricorrere alla dimensione del corpo. Così, nel parlare dello Spirito Santo, vediamo che Egli è presente nel mondo, nella comunità, nel corpo. Insomma, la fede in Dio, in Gesù Cristo, nello Spirito Santo, colloca il credente nel mondo, in una comunità, in un corpo.

Quanto più si approfondisce il Credo, e tanto meglio si scopre che tra l'onnipotenza del Padre e la possibilità del Figlio che pure è Signore, c'è lo spazio proprio della Chiesa. Il credente si mette di solito in relazione con Dio in questo spazio, nell'interno di questo mondo creato, in mezzo alla società degli uomini, con il suo corpo. Così, viene definito l'ambito del credente.

In questo ambito, il cristiano adotta un atteggiamento originale. Non può continuare a recitare il Credo senza riconoscersi nel tempo stesso legato con tutti coloro che lo recitano, lo hanno recitato o lo reciteranno in futuro. In questo modo, la sua dipendenza religiosa è inseparabile da una dipendenza fraterna. Ciò è come dire che non si può credere senza amare. Questo amore in cui il credente si impegna, non è una cosa acquisita, ma si trascende continuamente: il futuro è la sua legge. Comprende, dunque, la speranza.

Bibl. - Donghi A., " Professione di fede ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984. Evely E., Il credo dell'uomo d'oggi, Ed. Cittadella, Assisi, . Groppo G., " Simboli di fede ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 582-583. Lubac H. De, La fede nel Padre, in Cristo, nello Spirito, Ed. Marietti, Torino, 1970. Hatzinger J., Introduzione al Cristianesimo, Ed. Queriniana, Brescia, 1969.

E. Vilanova

Cristianesimo. (inizio)

Il cristianesimo è la dottrina professata dai cristiani. Ora, questo nome ebbe origine in Antiochia di Siria dove " per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani " (At 11, 26). Questo nome fu dato loro in rapporto col nome di Cristo, forse dalla stessa amministrazione romana che si vide nella necessità di distinguere i cristiani come un gruppo distinto dal giudaismo, dal quale si differenziavano notevolmente. Per questo, il cristianesimo non è altro che il modo di designare quelli che seguono Gesù di Nazaret.

Gesù non ha mai preteso di fondare una nuova religione. Fu un Ebreo completo e si comportò come tale in tutta la sua vita. I racconti evangelici pongono sempre sulle sue labbra riferimenti alla Sacra Scrittura (Antico Testamento) per significare che il messaggio e l'agire di Gesù non sono una novità di fronte ai progetti divini palesi nei libri sacri. Per esempio, l'inizio della vita pubblica di Gesù avviene nella sinagoga di Nazaret, dove si rivolge la prima volta ai suoi compaesani leggendo un testo programmatico del profeta Isaia: " Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore " (Is 61,1-2; 58,6). Dopo la lettura, Gesù ebbe l'ardire di aggiungere: " Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi " (Lc 4,21).

Da questa presentazione fino all'ultimo atto della sua vita, il richiamo di Gesù alla Scrittura fu continuo. Così, nel Getsemani, disse a coloro che erano venuti ad arrestarlo: " Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio, e non mi avete arrestato. Si adempiano dunque le Scritture! " (Mc 14,49).

Dopo la morte e la risurrezione di Gesù, i discepoli seguono la stessa traiettoria. Si rivolgono agli Ebrei partendo dal riferimento comune alle Scritture (At 2,14-36) e presentano Gesù come il compimento di tutta l'alleanza sancita da Dio con il popolo d'Israele. Si spiega anche così come, in un primo tempo, i discepoli (chiamati poi " cristiani ") continuassero a frequentare regolarmente il tempio di Gerusalemme (At 3,1).

Tuttavia, questo indubbio carattere giudaico del cristianesimo non impedisce ad esso di essere una vera novità di fronte al primo. Però, questa innovazione era stata annunciata e proclamata anticipatamente nelle antiche profezie. Ne risulta che il cristianesimo diviene in qualche modo il giudaismo autentico. Ciò è svolto da san Paolo nella sua lettera ai cristiani di Roma (cc. 9-11). Il giudaismo è come l'olivo buono, nel cui tronco è stato innestato l'oleastro. Quest'ultimo è simbolo dei pagani. Dall'olivo buono sono stati tagliati alcuni rami: sono quegli Ebrei che non accettarono il vangelo. Paolo è convinto che, se l'oleastro (i pagani) ha potuto essere innestato nell'olivo buono, ancor più i rami originali potranno un giorno essere innestati nuovamente nell'olivo buono (Rm 11,16- 21).

Così, dunque, il cristianesimo si presenta in mezzo alla cultura ecumenica dell'epoca come una chiamata universale, anche se il suo punto di partenza è l'antica Alleanza che Dio ha contratto con Abramo, e, più tardi, con Mosè. Sul piano dell'impero romano, il cristianesimo fu la prima religione che non si presentò con caratteri etnici. Le altre religioni, quella ebraica compresa, erano in qualche modo legate ad un determinato popolo o gruppo etnico. Per questo, l'impero romano, molto tollerante, formulò questo principio: " Cuius regio, eius et religio ", che significa: " Ogni regione ha la sua religione ". Il vero impulso ecumenico era dato dal culto imperiale al quale dovevano sottomettersi tutti i popoli. Gli stessi Ebrei che, per il loro rigoroso monoteismo, non potevano adorare l'imperatore, patteggiarono un modus vivendi, in forza del anale s'impegnavano a pregare per l'imperatore nelle loro sinagoghe e a pagare un censo speciale, il fiscus judaicus.

A dire il vero, gli Ebrei rinunciarono a qualcosa di essenziale della loro tradizione religiosa: il Regno di Dio. Secondo la concezione biblica autentica, solo Dio doveva essere il re della società umana. Con ciò, si evitava che alcuni individui o gruppi determinati imponessero la loro volontà agli altri, creando così tra gli uomini alcune differenze che non facevano parte del piano primitivo di Dio sulla creazione dell'uomo. Il primo peccato fu commesso da Caino che si arrogò arbitrariamente il potere sulla vita, potere che unicamente spetta a Dio. A partire da allora, gli uomini cominciarono a rifiutare Dio come unico re.

Quando Gesù cominciò la sua vita pubblica, proclamò questo messaggio molto semplice: " Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo " (Mc 1,15).

Perché Dio sia l'unico re, occorre uguaglianza tra gli esseri umani. Per questo, il primo e più grande comandamento di Gesù è quello di " amarsi gli uni gli altri ". Tutta la letteratura del NT sarà basata su questo comandamento.

Logicamente, il cristianesimo, per poter continuare ad influire sulla società, deve essere trasmesso attraverso determinati gruppi umani. Il problema della Chiesa è connaturale al cristianesimo. Gesù stesso convocò un gruppo di discepoli e stabilì un'organizzazione rudimentale, in cui l'essenziale era di ammettere Dio come l'unico re e Gesù come l'unico inviato da Dio per estendere il suo Regno. Questa comunità primitiva andò estendendosi ed ampliandosi come esigevano le circostanze. Così, possiamo dire che non c'è un cristianesimo primitivo da considerare come il nucleo idillico a cui ci si dovrebbe riferire sempre nelle epoche posteriori. Nello stesso NT, appaiono già distinti tipi di comunità, che alle volte sono perfino in conflitto, latente o palese, tra di loro.

Il cristianesimo comporta certamente un complesso di dottrine su Dio, sul suo Regno, e sulla sua missione o invio. Sinteticamente, potremmo dire che si riallaccia con la fede ebraica in un Dio unico e trascendente, ma vi aggiunge la fede in una vita all'interno dell'unicità di Dio: il Padre " genera " il Figlio, e da entrambi " procede " lo Spirito Santo. La tradizione formulò, sempre imperfettamente, questa fede trinitaria, dicendo che " in Dio, c'è una natura e tre persone ". In altre parole: c'è un solo Dio, ma nell'interno di Dio bolle una vita misteriosa e un pluralismo che non rompe questa unicità.

Logicamente, si deduce di qui che Gesù è Figlio di Dio e, pertanto, uomo e Dio nello stesso tempo. Nella tradizione, anche in quella del NT, alle volte si sottolinea una cristologia dall'alto (si parte dal Figlio di Dio per continuare con la sua incarnazione umana), o una cristologia dal basso (si comincia con la sua realtà umana per salire alla sua condizione divina). L'accentuazione eccessiva di uno di questi poli farà perdere molti volte l'equilibrio al cristianesimo di tutti i tempi.

Il cristianesimo, appunto per il suo riferimento stretto alla tradizione profetica d'Israele, si guarda dall'identificare la fede con certe forme culturali o storiche. Si potrebbe dunque dire che il cristianesimo introdusse nel mondo religioso della sua epoca e del suo ambiente il primo inizio di secolarizzazione. La risposta di Gesù ( "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio ": Mc 12,17) segna questo punto culminante.

Dio sarà veramente re del mondo quando non sarà più identificato con persone o simboli immanenti. Il crstianesimo è nato come una critica a qualsiasi usurpazione religiosa da parte di una autorità secolare.

Bibl. - A.P., " Cristianesimo ", in: Enciclopedia Italiana, Treccani, XI, pp. 963-965. Bozzetti G., " Cristianesimo ", in: Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 894-908. Brezzi P., " Cristianesimo ", in: Enciclopedia Filosofica, I, Venezia-Roma, 1957, coll. 1333-1342. Spiazzi R. (a cura di), Somma del Cristianesimo, 2 voll., Ed. Paoline, 1958.

J.M. González-Ruiz

Cristianità. (inizio)

La parola cristianità indica il complesso di una società civile quando questa si identifica giuridicamente e sociologicamente con la Chiesa cristiana e coi suoi schemi. L'inizio della cristianità può essere fissato a partire dal 313, quando l'Imperatore Costantino I, con l'Editto di Milano, ordinò la fine delle persecuzioni alla Chiesa a cui concesse di essere religione lecita. In seguito, l'imperatore Teodosio fece del cristianesimo la religione di Stato. Da allora, per potere essere un cittadino di prima classe nell'impero romano, occorreva professare la fede cristiana.

Questa situazione di privilegio portò la Chiesa a commettere contro il paganesimo superstite, che si concentrava soprattutto nel mondo rurale (nei pagi), errori molto simili a quelli che l'impero aveva commesso nei riguardi del cristianesimo. I pagani furono perseguitati, o perlomeno, emarginati nell'organizzazione dello Stato e nella considerazione sociale. I templi pagani furono rasi al suolo o trasformati in chiese cristiane. L'eresia fu ritenuta delitto di Stato. Per questo, gli imperatori si fecero difensori acerrimi dell'ortodossia e giunsero perfino a convocare concili per stabilire ciò che era ortodosso e ciò che non lo era.

Durante il Medioevo, questa situazione subì qualche parziale modifica, in quanto l'autorità civile, rappresentata dall'imperatore, si scontrò con la società ecclesiastica comandata dal Papa. Però, questo scontro fu relativo, poiché l'autorità civile non poteva ottenere il riconoscimento dei sudditi se non riceveva la consacrazione religiosa dalle mani dell'autorità ecclesiastica. Da parte sua, il Papa non poteva portare avanti la sua politica temporale senza l'appoggio del braccio secolare delle autorità civili. Così, ci fu per parecchi secoli una lotta costante tra il papato e l'impero.

Però, si riteneva sempre che l'armonia delle due potestà fosse necessaria perché il mondo cristiano godesse la pace. Tuttavia, già nel secolo V, le due metà, quella occidentale e quella orientale, dell'Orbis romanus, reagirono in modo molto diverso al fenomeno maggiore rappresentato dalle invasioni germaniche. Si poteva pensare che l'Impero d'Oriente, così presto e così duramente attaccato (l'imperatore Valente perì nella sconfitta di Adrianopoli nel 378), sarebbe caduto inevitabilmente sotto la pressione dei barbari. Invece non fu così: con la sua capitale Costantinopoli, questo impero, chiamato tradizionalmente impero bizantino, riuscì a conservarsi e sopravvisse fino al 1453.

Questa divisione dell'impero in due parti diede origine all'esistenza di due cristianità: una, con capitale a Costantinopoli, o Bisanzio, e l'altra, governata da Roma, divenuta già capitale del nuovo impero che era una mescolanza di romani e di barbari. Questa divisione non riguardava fondamentalmente il credo e la pratica del cristianesimo, ma il suo sistema politico e sociale. La cristianità orientale riconosceva il Papa solo come patriarca d'Occidente, mentre in Oriente, sorsero vari patriarcati che sono giunti fino ai nostri giorni. Essi riconoscono tutti il patriarca di Costantinopoli come primate simbolico, senza nessun potere di giurisdizione. Nella cristianità orientale, si distinsero le Chiese slave, fra cui la principale fu quella russa, seguita da quella bulgara. Fra di esse, c'è un vincolo orizzontale di comunione, ma non di subordinazione.

La cristianità occidentale si sviluppò in modo straordinario , soprattutto con la scoperta dell'America per opera delle due nazioni cattoliche di Spagna e di Portogallo. Però, agli inizi del secolo XVI, la corruzione dell'amministrazione ecclesiastica faceva sentire dovunque la necessità di riforme. Queste si attuarono in due direzioni: una all'interno del cattolicesimo romano (Gesuiti, Carmelitani scalzi, ecc.). L'altra fu uno scontro aperto contro il Papato (Lutero, Zuinglio, Calvino). Questi ultimi passarono alla storia col nome generico di Protestanti.

Nella seconda metà del secolo XVI, gli elementi riformatori del cattolicesimo romano, spronati dalle drastiche rotture dei Protestanti, reagirono convocando il Concilio di Trento nel Nord Italia. A partire da allora, la cristianità si vide praticamente ridotta agli ambiti del cattolicesimo romano che abbracciavano ancora la maggior parte del mondo occidentale tanto europeo quanto americano. Nel secolo XVIII, dopo la Rivoluzione francese, avvenne il movimento dell'Illuminismo che si proponeva di liberare la società civile dalla tutela della Chiesa. La reazione della Chiesa a questi tentativi è quella che si può chiamare Controriforma, poiché il movimento iniziato col Concilio di Trento non cessò di essere un tentativo di riforma ? anche se in ritardo ?, in seno al cattolicesimo romano. Nel secolo XIX, i movimenti sociali, soprattutto il socialismo, principalmente di ispirazione marxista, pretesero non solo di liberarsi dalla tutela della Chiesa, ma di sostituirla pienamente in tutti i campi. Solamente col Concilio Vaticano II, nella seconda metà del secolo XX, la Chiesa cattolica romana rinunciò decisamente alla sua condizione di cristianità per ritornare alla sua condizione primitiva di Chiesa missionaria in una società la cui autonomia di valori fu pienamente riconosciuta.

Bibl. - Aa.Vv., Storia della Chiesa Cattolica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1990. Christophe P., La Chiesa nella storia degli uomini, Ed. SEI, Torino, 1989. Drago M. - Boroli A. (dir.), Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 205.

J.M. González Ruiz

Cristologia. (inizio)

Sembra che la parola cristologia sia apparsa per la prima volta in Germania nel secondo decennio del secolo XIX. Il suo uso andò progressivamente generalizzandosi a partire dalla seconda metà dello stesso secolo, tanto nella teologia cattolica che in quella protestante, per indicare la dottrina riguardante la persona e l'opera di Gesù.

Il punto di partenza della fede cristiana è l'incontro con la storia di Gesù. La cristologia è la risposa dei credenti alla domanda " chi è Gesù ". La professione di fede " Gesù è il Cristo " costituisce, come fa notare Kasper, la sintesi della fede cristiana. La cristologia non è altro che l'esposizione o riflessione sistematica e metodicamente articolata su questa professione, sul significato di Gesù e della fede in Lui.

Questa riflessione possiede i segni di identità propri di ogni contesto storico in cui sorge e si esprime nelle categorie linguistiche proprie di ogni cultura. Bisogna perciò parlare di cristologie al plurale più che di cristologia al singolare, per esprimere la grande ricchezza e la pluralità di modelli o paradigmi cristologici.

Questa pluralità appare già negli scritti del NT, come hanno messo in evidenza i numerosi studiosi esegeti che si sono dedicati ad analizzare i vari ambienti in cui la Chiesa primitiva sviluppò la sua attività. Il biblista Fuller, per esempio, distingue tre strati nei fondamenti della cristologia neotestamentaria: il palestinese primitivo che ha due centri di attenzione: il messaggio e la prassi del Gesù storico da una parte, e la parusìa dall'altra; il giudeo-ellenistico, che pone l'accento sulla glorificazione di Gesù; il pagano-ellenistico, che afferma l'incarnazione del Preesistente nella condizione umana e la sua successiva ascensione. La pluralità di concezioni cristologiche continuo nelle tappe successive della riflessione teologica: i Padri apologisti, la cristologia alessandrina e quella antiochena, la cristologia dei Padri occidentali, la Scolastica con la sua assunzione della filosofia aristotelica, ecc.

I concetti di natura e di persona e la teoria della soddisfazione hanno avuto un'importanza decisiva nello schema di costruzione della cristologia, secondo il modello discendente, e della soteriologia. Questo schema si impose nella riflessione teologica e finì quasi sempre per essere considerato l'unico valido per spiegare il nucleo della fede in Gesù. Oggi, i teologi sono consapevoli che questo schema non è la parola primogenita della cristologia, corrisponde a categorie filosofiche di un'epoca determinata ed è necessario sottoporlo a nuove interpretazioni che siano più in accordo con la nostra situazione culturale. In questa linea, vanno collocati gli sforzi ermeneutici di Rahner, Schillebeecks ed altri a partire dalla seconda metà del secolo XX.

In questo stesso periodo, sorge un nuovo fronte nella riflessione cristologica: il ritorno al Gesù della storia, ma senza cadere nelle ingenuità e nei riduzionismi della teologia liberale del secolo XIX. Questo fronte fu aperto dai discepoli di Bultmann i quali superando lo scetticismo del loro maestro riguardo alle possibilità di conoscere il Gesù storico e distanziandosi da lui nella centralità che egli attribuisce al Cristo della fede, ritengono che sia possibile giungere ad una conoscenza del Gesù della storia, stando ai dati del NT, e che la fede in Gesù abbia un fondamento storico. In questo sforzo per conoscere il Gesù storico, essi non si muovono ingenuamente, ma ricorrono ai metodi storico-critici.

La preoccupazione della scuola post-bultmanniana non era di liberare il cristianesimo dalle catene del dogma, come succedeva nella teologia liberale: era quello di evitare il pericolo di ridurre la fede cristiana a pura idelogia e a speculazione astratta.

Questa nuova impostazione è entrata ampiamente nelle cristologie cattoliche più significative degli ultimi venticinque anni, tanto in quelle elaborate da autori europei, come in quelle di stampo latinoamericano, sia pure con schemi ben precisi, secondo il contesto socio- culturale in cui si compie la riflessione cristologica.

La cristologia è divenuta oggi il centro d'interesse della riflessione teologica. Una prova di ciò sta nella proliferazione di studi cristologici in questi ultimi anni. In mezzo ad una vasta e quasi incontrollabile produzione, si osserva un ampio pluralismo di impostazioni, ma anche importanti punti di confluenza. Risulta pertanto difficile fare una classificazione precisa. Comunque, e con il rischio dello schematismo e della semplificazione, si è soliti parlare di due paradigmi cristologici nel discorso teologico d'oggi: le cristologie " dall'alto ", o discendenti, e le cristologie " dal basso ", o ascendenti.

Le cristologia " dall'alto " partono dalla divinità di Gesù ed hanno come punto centrale l'idea dell'incarnazione. La critica che si muove a questa impostazione è che dà per scontata la divinità di Gesù, mentre il compito della cristologia è quello di esporre i motivi che fondano la confessione di questa divinità e quello che va impostato in primo luogo è come l'evento storico di Gesù (la sua vita, il suo messaggio, la sua prassi, la sua morte...) porti al riconoscere la sua divinità (Pannenberg).

Le cristologie " dal basso " partono dall'umanità storica di Gesù e ritengono come primo riferimento la persona, l'attività, gli atteggiamenti, la processualità, la sorte e la causa di Gesù, cioè, la totalità della storia di Gesù. La globalità di questa impostazione differisce nelle cristologie latino-americane scritte sotto l'ottica della liberazione dei poveri e degli oppressi dalle cristologie europee di stampo progressista che hanno per interlocutore l'uomo " illuminato " e post-cristiano.

Siccome ogni cristologia vuole essere un'esposizione sistematica della professione di fede " Gesù è il Cristo ", bisogna che affermi con uguale intensità la realtà storica di Gesù e la totalità della rivelazione del Padre manifestata singolarmente in Gesù di Nazaret.

Bibl. - Cantalamessa R., Gesù Cristo il Santo di Dio, Ed. Paoline, Cinisello B., 1990. ertosino (un), Il tu del Padre. Cristologia e contemplazione, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1985. Forte B., Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Ed. Paoline, Roma, 1982. González C.I., Cristologia. Tu sei la nostra salvezza, Ed. Piemme, Casale M., 1988. Kasper W., Gesù il Cristo, Ed. Queriniana, Brescia, 1977. Rosa G. De, Gesù di Nazaret. La vita, il messaggio, il mistero, Ed. Elle Di Ci - La Civiltà Cattolica, Roma-Torino, 1996. Serenità M., Gesù Cristo ieri, oggi e sempre. Saggio di Cristologia, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), l991.

J.J. Tamayo

Critica biblica. (inizio)

Come si sa, la Bibbia riporti la rivelazione di Dio fatta all'uomo. Tuttavia, il complesso di onere che la compongono furono redatte più di venti secoli fa. Perfino ogni libro concreto fu scritto in un'epoca determinata, condizionato ovviamente dalla situazione socio-politica, culturale e religiosa del momento. Si aggiunga a ciò il fatto che i testi originali sono stati smarriti e si conservano solo manoscritti composti vari secoli dopo che erano stati composti gli originali. Tutto ciò invita a interrogarsi sulla garanzia che offre oggi la lettura del testo biblico. La critica contemporanea, consapevole di questa problematica, si è preoccupata di darle una soluzione adeguata. Per fare questo, ha cominciato a stabilire quello che si suppone essere il testo biblico originale, per collocarlo poi in un proprio segno ambientale, in modo da intendere non solo quello che il suo autore dice, ma anche quello che realmente vuole dire. Questo compito, arduo e complesso, spetta ad una disciplina ausiliare, conosciuta come " critica biblica ". Questa si muove a sua volta in una duplice direzione: testuale e letteraria.

1. Critica testuale. Si propone di fissare nei limiti del possibile il testo originale. Per questo, si studiano le varianti delle diverse tradizioni manoscritte, le aggiunte, le ripetizioni, ecc. Mediante il confronto di testi paralleli, si cerca di chiarire i punti più oscuri. Le migliori edizioni critiche sono: quella di R. Kittel, per il testo ebraico- aramaico dell'AT; quelle di H.B. Swete e A. Ralfs per la versione greca del, LXX (AT); e quelle di E.F. Wescott-.J.A. Hort, E. Nestle, H.J. Vogels e A. Merk per il testo greco del NT.

2. Critica letteraria. Mediante una minuziosa analisi della situazione religiosa, cultica, etica, giuridica, culturale, sociale e politica chi distinsero la redazione dei testi, si mira a valorizzare meglio il messaggio ed il contenuto. Molti criptici hanno scoperto anche varie fonti e tradizioni orali nei libri dell'AT, per cui non è sempre facile stabilire i nessi tra il messaggio della salvezza e la viva storia. Tuttavia, la metodologia più sistematica si è applicata allo studio del NT, in cui furono accettate le conclusioni del metodo storico-tradizionale che i grandi esegeti applicarono all'AT (H. Gunkel; H. Gressmann, J. Hempel...). In seguito, sorse il metodo storico-formale, intento a collegare con la primitiva comunità cristiana la genesi di molte pericopi evangeliche (R. Bultmann, M. Albertz, K.L. SchmiUt, G. Bertram). Così, furono aperte le porte al metodo storico-redazionale che cerca di entrare nella mente di ogni autore sacro per cogliere meglio la sua visuale religiosa (W. Trilling, W. Marxen, H. Conzelmann...). Si continuano a cercare nuovi metodi che permettano un miglior avvicinamento al contenuto reale dei testi, mediante una conoscenza più profonda del contrassegno ambientale in cui furono redatti.

Bibl. - Corsani B. Esegesi. Come interpretare un testo biblico, Ed. Claudiana, Torino, 1985. Laurentin H., Come riconciliare l'esegesi e la fede, Ed. Queriniana, Brescia, 1986. Maggioni B., " Esegesi biblica ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 497-507. Margerie B. De, Introduzione alla storia dell'esegesi, Ed. Borla, Roma, 1983. Zimmermann H., Metodologia del Nuovo Testamento, Ed. Marietti, Torino, 1971. Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria Ed. Vaticana, 1993. Ufficio Catechistico Nazionale, Incontro alla Bibbia. Breve introduzione alla Sacra Scrittura, Libreria Ed. Vaticana, 1996. C.E.I., " La Parola del Signore si diffonda e sia glorificata ". La Bibbia nella vita della Chiesa, Roma, 1996.

A. Salas

Critica della religione. (inizio)

La critica della religione è antichissima. Può essere fatta contro la religione o all'interno di essa, per purificarla. Può anche avvenire in modo fenomenico, o sociologico, in un atteggiamento neutrale. Alle volte, è stata impostata una critica della religione (prodotto culturale troppo umano) partendo dalla fede (apertura alla rivelazione sovranamente gratuita e incondizionata di Dio: K. Barth).

Abbiamo testi di critica religiosa fatta dai profeti d'Israele già a partire dal secolo VIII a.C. (Amos). I profeti arrivano fino a condannare perfino il culto sacrificale, contemplando idealmente il pellegrinaggio del popolo nell'esodo attraverso il deserto come il momento di fedeltà perfetta (Ger 2,2) e dicendo che in quel periodo non furono offerte né vittime né oblazioni (Am 5,25; Ger 7,21-23). Però, generalmente, quello che viene combattuto è un culto formalista che si concilia con l'ingiustizia: il tempio di Dio non è una spelonca di ladri, e Dio non è cieco (Ger 7,2-11).

Gesù annuncia l'imminenza del Regno di Dio, collocandosi inequivocabilmente nella linea dei profeti. Le Beatitudini concordano con Sofonia. Il vangelo di Matteo contiene elementi sostanziali di critica della religione (5,20; 6,5-6; 9,13; 12,6-8; 15,1-9; 21,12-13; 23,1-11.13- 20; 24,1-2; 25,31-46).

Per quanto riguarda il mondo classico greco, secondo E. Fromm, nella trilogia di Sofocle su Edipo, l'elemento chiave non è l'incesto, ma la ribellione del figlio contro il padre nella famiglia patriarcale. I personaggi essenziali sarebbero Edipo di fronte a Laio (Edipo Re e Edipo a Colono) e Emone di fronte a Creonte e Antigone (Antigone). Sofocle si rivolge verso le antiche tradizioni del popolo, che non vanno nel senso della religione olimpica della nazione e dello Stato (autoritaria, favorevole ad una élite e restrittiva). ma nel senso delle forze del vecchio ordine matriarcale (amore, preoccupazione per gli altri, lutto per i defunti, fraternità universale, democrazia, desiderio di pace).

Nell'epoca moderna, D. Hume (1711-1776) è scettico sia riguardo alla teologia che alla metafisica. Però, afferma il valore morale (non può andare errato quello la cui vita è giusta) e riconosce che la religione umanizza il comportamento degli uomini.

L. Feuerbacch (1804-1872) fa una critica della religione da un punto di vista antropologico-metafisico. Si pensava Dio come creatore dell'uomo; è invece l'uomo che crea Dio, proiettando in Lui quelle perfezioni che vorrebbe realizzare in sé. Così, l'uomo si " aliena " e rinuncia a realizzare la sua pienezza. Il cristianesimo ha compiuto il passo positivo di porre l'umanità come attributo dell'Essere supremo (Dio-Uomo). Adesso, bisogna fare della divinità l'attributo dell'uomo.

K. Marx (nella Introduzione alla critica della Filosofia del Diritto di Hegel, 1844) considera la religione ad un tempo come sintomo di un profondo malessere sociale e come protesta contro di esso. Egli pensa che sia necessario andare oltre alla critica della religione: questa è irreversibile, ma non è la cosa principale. Occorre fare la critica della società umana nel suo aspetto socio-economico. " L'ateismo è una negazione di Dio ed intende affermare con questa negazione l'esistenza dell'uomo. Il socialismo non chiede già questa mediazione: parte dalla coscienza teorica e dalla coscienza pratica sensibile dell'uomo e dalla natura come esseri essenziali " (Manoscritti, 1844). La critica non si risolve nella teoria, ma nella prassi (Tesi su Feuerbach, 1845).

S. Freud (1856-1940) vede una contraddizione tra la pienezza umana e l'atteggiamento religioso che comporterebbe il " complesso di colpa ", e la fissazione della persona in uno stadio infantile.

Il Concilio Vaticano II afferma che è sbagliato ritenere incompatibile la piena responsabilità storico-sociale umana con la vita religiosa. La fede spinge all'impegno per le realtà terrestri. La religione non si riduce ai soli atti di culto e al compimento di alcuni doveri morali. " Il distacco, che si costata in molti tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo " (GS 43). La teologia della liberazione cerca di progredire lungo la strada indicata qui dal Concilio. Vi si oppongono coloro che ritengono che la religione debba servire di sostegno all'ordine stabilito (establishment).

Bibl. - Cantone C. (a cura di), Le scienze della religione oggi, LAS, Roma, . Casale U., L'avventura della fede. Saggio di teologia fondamentale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1988. Chimirri G., Pensare Dio. Introduzione alla religione, Ed. Logos, Roma, 1992. Girardi G., Marxismo e Cristianesimo, Ed. Cittadella, Assisi, 1966. Maritain J., Il significato dell'ateismo contemporaneo, Ed. Morcelliana, Brescia, 1973. Segundo J. L., Il nostro concetto di Dio, Ed. Morcelliana, Brescia, 1974. Weger K. H., " Critica della religione ", in: Dizionario di Teologia Fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 273-278.

J. M. Díez-Alegría

Croce. (inizio)

La croce costituisce, insieme alla risurrezione, il nucleo centrale del mistero pasquale e quindi del cristianesimo. Esso possiede un carattere staurocentrico (stauròs = croce) che non può essere sottovalutato. Però, la croce risulta, nello stesso tempo, una delle realtà più paradossali della nostra fede. Come già ricordava san Paolo ai cristiani di Corinto, predicare un Messia crocifisso era uno scandalo per i Giudei ed una stoltezza per i pagani: la croce, infatti, rappresentava il fallimento massimo e definitivo per chi pretendeva di liberare il popolo dalle catene dell'oppressione.

Appunto per eliminare o almeno per attenuare quanto di scandaloso, tragico e brutale c'era nella croce di Cristo, sorsero molto presto e si susseguirono lungo la storia del cristianesimo, spiegazioni teologiche con lo sforzo di rendere coerente e ragionevole il fatto della croce. Citiamo, tra le altre spiegazioni: la teologia del riscatto, del sacrificio, della soddisfazione vicaria, dell'immolazione e della sostituzione penale. Sono tutte spiegazioni che hanno occupato un grande posto nella riflessione teologica, nella vita cristiana e nella spiritualità. In questo sforzo per rendere comprensibile razionalmente il mistero della croce, si diede uno scarso interesse all'evento storico, eccetto in alcuni particolari più aneddotici. L'intento principale era quello di dimostrare la necessità della morte di Cristo come un passaggio obbligato per giungere alla riconciliazione dell'umanità peccatrice con Dio. In queste teologie, è difficile trovare riferimenti alla liberazione. Per questo, c'è chi ha affermato, e con ragione, che " molte teologie della croce hanno svolto il ruolo di una ideologia " (Duquoc).

Lutero usa l'espressione " teologia della croce " nella disputa di Heidelberg (anno 1518) per definire la sua teologia esistenziale di fronte alla " teologia della gloria " della Scolastica razionalizzante e per mettere in questione il discorso vacuo e superbo della ragione come via di accesso alla conoscenza di Dio. Il criterio formale della conoscenza di Dio non è altro, secondo Lutero, che la croce: " In Cristo crocifisso, si trova la vera teologia e la conoscenza di Dio ".

Il rilievo che si è soliti fare alla teologia luterana della croce è che, nei suoi scritti ai contadini rivoluzionari, calca l'accento sulla mistica del soffrire e dell'umile sottomissione alle autorità. Dimentica la polemica del Dio crocifisso contro la superbia e l'oppressione e passa sopra alla forza critico-liberatrice della croce.

La teologia riformata della croce fu presto abbandonata in seno stesso al protestantesimo e a stento rimasero tracce di essa nel protestantesimo liberale. Il suo recupero avvenne nel secolo XX, dapprima nella teologia dialettica di K. Barth e di Bonhoeffer, e poi in Moltmann.

Secondo Barth e Bonhoeffer, la trascendenza di Dio si esprime nel suo annientamento, nella kènosis. Tutta la Bibbia, osserva Bonhoeffer, " rimanda alla debolezza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio che soffre ci può aiutare ".

Però, è stato Moltmann che, collocandosi nell'orbita paolina e ricollegandosi con la migliore tradizione luterana, è giunto ad una riflessione sulla croce che ha superato le strettezze e i limiti precedenti.

Secondo Moltmann, la croce costituisce il principio ermeneutico e il centro di tutta la teologia cristiana; è la porta aperta ai problemi e alle risposte di questa terra. Alla domanda sul significato della croce di Gesù per Dio stesso, Moltmann risponde che non si tratta di un evento che coinvolge soltanto Gesù, ma che tocca in pieno anche Dio stesso. Nella croce, avviene la rivelazione di Dio per l'uomo; in essa, si completa e giunge alla sua pienezza l'incarnazione di Dio.

La croce rivela un Dio sofferente che muore sulla croce di Cristo, un Dio sensibile al dolore umano e solidale con esso partendo dall'esperienza della propria sofferenza, un Dio che, per usare un'espressione di Whitehead, " soffre in confraternità ". La passione di Dio non si riduce, però, a un sentimento passivo, né ad un esame contemplativo del mondo: è un atteggiamento dinamico, una vicinanza appassionata e impegnata. Dio si duole del dolore del mondo, lo fa suo e si identifica con esso. Non lo fa per mantenere gli uomini nell'amarezza del soffrire, ma per trasformare la passione in liberazione, per ridare il senso della vita a coloro che lo hanno perduto, per procurare la gioia di vivere a quelli che sono immersi nello sconforto più profondo.

Questa immagine di Dio entra in collisione con la visione teista di un Dio impassibile, insensibile al dolore umano, motore immobile.

Anche la Trinità va pensata dalla croce e questa va interpretata come evento trinitario tra il Padre che ama e il Figlio che è amato nello Spirito. In questo modo, la Trinità cessa di essere una semplice riflessione inutile su Dio o un circolo chiuso su se stesso, ma ricupera la sua dimensione salvifico-liberatrice.

A partire da Moltmann, sta avvenendo, tanto nella teologia cattolica quanto in quella protestante, un'accentuazione della croce come evento storico, cioè, come conseguenza del conflitto tra Gesù e le autorità dominanti e come risultato della sua predicazione e prassi sovversive. Così, la memoria passionis Jesu è interpretata come un ricordo pericoloso e sovversivo che stimola ad agire contro la sofferenza nell'orizzonte della libertà (Metz).

Bibl. - Bernardo Fl. Di, Croce e salvezza nella storia della spiritualità cristiana, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1984. Forte B., Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Ed. Paoline, Roma, . Lippi A., Teologia della gloria e teologia della croce, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1982. Moltmann J., Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Ed, Queriniana, Brescia, 1973. Salvati G.M., Teologia trinitaria della croce, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987.

J.J. Tamayo

Crociata. (inizio)

In senso storico stretto, si inende per crociata l'azione militare intrapresa dai cristiani d'Occidente per riconquistare la Terra Santa. Coloro che vi partecipavano portavano come distintivo una croce cucita sui loro vestiti (" prendere la croce "). Per questo, furono chiamati crociati (secolo XI).

In senso analogico, il termine è usato oggi, in linguaggio comune, per designare qualsiasi campagna di tipo aggressivo a favore di una causa con uno zelo quasi religioso.

Nella recente storia spagnola, il termine fu usato dalla gerarchia ecclesiastica per dare un'interpretazione dell'azione militare di una delle fazioni contendenti nella guerra civile (1936-1939).

Quando Gerusalemme fu conquistata dai Turchi Seleucidi nel 1071, i pellegrinaggi dei cristiani, che erano continuati sotto il dominio dell'Islam fin dal 637, diventarono ormai impossibili. Nel 1095, il Papa Urbano II si rivolse alle autorità cristiane esortandole a ricuperare la Terra Santa. A coloro che vi avessero partecipato, erano promesse varie grazie spirituali. La prima crociata ebbe esito positivo e Gerusalemme fu conquistata nel 1099. Si fondò un regno latino finché la città fu ripresa da Saladino nel 1187. Ci furono otto crociate, di cui l'ultima nel 1270. Sei di esse fallirono. La quarta deviò verso Costantinopoli, capitale della cristianità orientale, che fu assalita. Si inserì in essa un imperatore latino, e la Chiesa orientale fu costretta con la forza a riconciliarsi con Roma.

I successi ed i fallimenti delle crociate dimostrarono ad un tempo la forza e i limiti del papato medievale. Contribuirono molto allo sviluppo della cavalleria medievale. Risultato delle crociate fu la creazione degli ordini militari dei Templari e degli Ospedalieri. S'inasprirono anche le differenze che separavano l'Oriente cristiano da Roma. Crebbe l'odio religioso tra l'Islam e la cristianità.

Bibl. - Alphandery P. - Dupont A., La cristianità e l'idea di crociata, Ed. Il Mulino, Bologna, 1974. Cardini F., Il movimento crociato, Ed. Sansoni, Firenze, 1972. Charles N. (ed.), 100 Punti caldi della storia della Chiesa, Ed. Paoline, 1991, pp. 136-138. Palumbo P.F., " Crociate ", in: Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 983-998. Runciman S ., Storia delle crociate, Ed. Einaudi, Torino, 1966. Zambarbieri A., " Crociate ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 213-214.

J. Martínez Cortés

Culto. (inizio)

Le parole di Gesù alla Samaritana: " È giunto il momento ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità " (Gv 4,23), mostrano il culto cristiano come qualcosa di radicalmente nuovo, non solo rispetto al culto religioso naturale, ma anche rispetto a quello ebraico. Se il culto religioso è il complesso di atti coi quali gli uomini, singolarmente e collettivamente, cercano di esprimere il loro rapporto con la divinità, e se il culto del popolo ebraico era destinato soprattutto a commemorare ritualmente gli eventi salvifici della sua storia, il culto cristiano si concentra sull'atteggiamento, penetrato dallo Spirito di verità, con cui Gesù si rivolgeva al Padre, atteggiamento a cui partecipano quanti credono in lui.

Il culto religioso naturale e il culto della legge antica trovano nella persona e nell'opera di Cristo il loro compimento perfetto e il loro superamento definitivo. Gesù assunse un orientamento religioso nella sua vita e osservò le prescrizioni rituali del suo popolo, ma inserì in entrambe le cose uno spirito nuovo: richiese soprattutto la fedeltà allo spirito del culto, poiché, per esempio, senza la purezza di cuore, sono totalmente vane le purificazioni rituali (cf Mt 23,16-27). Inoltre, con la sua morte in croce, istituì un culto nuovo, definitivo e perfetto: " Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca che si sparge su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto piu il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente? " (Eb 9, 13-14).

Il carattere centrale della persona e dell'opera di Cristo perla retta comprensione del culto cristiano fu messa in rilievo dal Concilio Vaticano II: " Dio, il quale "vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità" (1 Tm 2,4), "dopo avere a più riprese e in più modi parlato un tempo ai padri per il tramite dei profeti" (Eb 1,1), quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, Verbo fatto carne, unto di Spirito Santo, ad annunziare la buona novella ai doveri, a risanare i cuori affranti, "medico di carne e di spirito", Mediatore tra Dio e gli uomini. Infatti la sua umanità, nell'unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra salvezza. Per cui in Cristo "avvenne la nostra perfetta riconciliazione con Dio ormai placato e ci fu data la pienezza del culto divino" " (SC 5).

Il culto nuovo inaugurato da Cristo è spirituale, perché consiste essenzialmente nell'oblazione interna di amore e obbedienza compiuta da lui sulla croce, ma non nel senso che non abbia una manifestazione esterna. L'atto cruento della morte in croce fu il segno efficace della sua donazione amorosa al Padre, e fu necessariamente un atto esterno e sensibile. Il culto dei cristiani è anch'esso di indole spirituale: consiste, infatti, nella fede e nella carità con cui si aderisce alla persona e all'opera di Cristo. Però, possiede anche una manifestazione esterna, formata dal complesso di segni liturgici che significano e producono il contenuto salvifico dell'opera di Cristo.

Per istituzione di Cristo stesso, il contenuto spirituale del suo atto perfetto di culto, che si compi nel sacrificio della croce, è suscettibile di ri-attualizzazione mediante il rito esterno della Cena del Signore (cf Lc 22,19 ss). La Chiesa, consapevole del comando di Cristo, fin dai primi tempi fu fedele al carattere spirituale e sensibile del suo culto, cioè, alla qualità " sacramentale " dello stesso. Così, le riunioni cultuali dei cristiani erano accompagnate fin dall'inizio dalla " frazione del pane " (At 2,42). Per partecipare all'Eucaristia, era necessario essere stati incorporati nella Chiesa mediante il rito del battesimo, prescritto anche da Gesù (cf Mt 28,19) come condizione di vita nuova (cf Gv 3,5) e amministrato dagli Apostoli a partire dal giorno di Pentecoste (cf At 3,38- 41). Fin dal principio, gli Apostoli fecero anche uso del gesto dell'imposizione delle mani per comunicare lo Spirito ai battezzati (cf At 8,15 ss). A questi tre riti fondamentali, vennero aggiungendosi a poco a poco altre cerimonie e pratiche cultuali che col tempo costituirono il ricco complesso liturgico della Chiesa.

Un aspetto importante del culto liturgico cristiano è che, mentre il suo fine principale è quello di rendere gloria a Dio, il culto è nello stesso tempo destinato a produrre la santificazione profonda dell'uomo Così, la santificazione è, in ultima analisi, in vista del culto, poiché la salvezza in Cristo, frutto del suo culto al Padre, ha il suo termine nella glorificazione divina, fine supremo di tutta l'opera di Cristo e della Chiesa. È significativo che il CIC del 1983 parli del culto divino nella parte corrispondente alla funzione santificatrice della Chiesa, e afferma che " la Chiesa adempie la funzione di santificare in modo peculiare mediante la sacra liturgia " e " viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle membra, il culto di Dio pubblico integrale " (CIC, c. 834 § 1). " Tale culto allora si realizza quando viene offerto in nome della Chiesa da persone legittimamente incaricate e mediante atti approvati dall'autorità della Chiesa " (CIC, c. 834 § 2).

Il culto dei cristiani, in senso stretto, è quello reso a Dio. Tuttavia, " per favorire la santificazione del popolo di Dio, la Chiesa affida alla speciale e filiale venerazione dei fedeli la Beata Vergine Maria sempre Vergine, la Madre di Dio, che Cristo costituì Madre di tutti gli uomini, e promuove inoltre il vero e autentico culto degli altri Santi, perché i fedeli siano edificati dal loro esempio e sostenuti dalla loro intercessione " (CIC, c. 1186). La venerazione dei fedeli si estende anche alle reliquie dei santi e alle immagini sacre e, in genere, alle cose e luoghi che hanno qualche rapporto con il culto divino. Una menzione speciale merita il culto di adorazione che la Chiesa tributa all'Eucaristia come sacramento permanente della presenza del Signore (cf c. 898).

Bibl. - Aa.Vv., Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia. Introduzione, testo e commento, Ed. Opera Regalità, Milano, . Bergamini A., " Culto ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 333-340. Casel O., Il mistero del culto cristiano, Torino, 1966. Maldonado L., Secolarizzazione della Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1972. Vagaggini C., Il senso teologico della Liturgia, Ed. Paoline, Roma, .

J. Llopis

Cultura. (inizio)

Cultura deriva dal latino colere, che significa: coltivare. Nella sua accezione più primitiva, si riferisce alla coltivazione della terra (agricultura). Però, a partire da Cicerone, il termine si applica anche alla " coltivazione dello spirito ". Quelli che, dedicandosi allo studio, coltivano il loro spirito, sono gli uomini colti, coltivati, mentre gli altri sono gli incolti. Ci troviamo, dunque, davanti ad un senso aristocratico della cultura. A partire da Tylor (1871), si passò ad un secondo significato che potremmo chiamare etnologico. Si parte dalla supposizione che tutti gli esseri umani, anche se non hanno mai letto un libro, coltivano in qualche maniera quel dato previo col quale s'incontrano nella nascita e che chiamiamo natura. In questa accezione, la cultura è l'ambiente artificiale, secondario, che noi uomini costruiamo partendo dal dato originario che è la natura. Ora, non si tratta di parlare di maggiore o minore cultura, ma di culture differenti (la cultura cinese, quella azteca, la cultura moderna, ecc.). La cultura, nel senso etnologico, consta principalmente di quattro elementi: la lingua, le usanze, le tecniche, i valori. Intendendo cultura nella prima accezione, tutti gli esseri umani hanno diritto ad essa: è una esigenza etica che la cultura non sia più riservata solo a pochi privilegiati, ma un " diritto di tutti " (GS 60). Prendendola nel secondo significato, si impone la necessità del dialogo fede-cultura. La fede si esprime sempre in determinate categorie culturali. Potrebbe allora sorgere un grave problema qualora queste categorie non corrispondessero con quelle dei destinatari dell'evangelizzazione. Questo può succedere, o quando si pretende di evangelizzare in una cultura straniera, o quando si verifica un cambiamento di cultura. In entrambi i casi, è necessario inculturare la fede ed evangelizzare la cultura (cf GS 58). Questo compito è stato realizzato molto parzialmente con la cultura che chiamiamo moderna.

Bibl. - Aa.Vv., Evangelizzazione e culture, Università Urbaniana, Roma, 1976. Dondeyne A., La fede in ascolto del mondo, Ed. Cittadella, Assisi, 1968. Mancini I. Ruggieri G., Fede e cultura, Ed. Marietti, Torino, 1979. Montani M., " Cultura ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 259-262.

L. Gonzalez-Cárvajal

Cura d'anime. (inizio)

L'espressione cura d'anime, traduzione del latino cura animarum, equivale all'azione pastorale. Presenta, però, la particolarità di conservare il sapore di spiritualismo platonico, nel senso che si tratta della cura delle anime (non delle persone), di fronte al peccato e alla grazia, nella prospettiva delle realtà ultime: morte, giudizio, inferno e paradiso. Si tratta della salvezza dell'anima. D'altra parte, il primo termine di questa espressione, cioè, la parola cura, è giunto a designare il sacerdote, incaricato come guida o custode delle anime. I mezzi di salvezza di questa concezione pastorale sono stati visti unicamente come mezzi spirituali, all'interno del campo liturgico, devozionale o sacramentale. Si spiega così la quasi ossessione dei sacerdoti per battezzare quanto prima i bambini privi dell'uso di ragione e per amministrare l'unzione degli infermi a moribondi che hanno già perduto i sensi.

La Bibbia ci parla della sollecitudine che Dio ha per l'uomo tutto intero, per la società nella sua totalità e per la natura nella sua pienezza. Nella sua azione pastorale, Cristo non è " re delle anime ", ma signore delle persone; si occupa della guarigione dei corpi e della moltiplicazione dei pani.

Inoltre, " l'anima umana ", venga designata in questo o in un altro modo, è divenuta recentemente un tema centrale, grazie al contributo delle scienze dello spirito e del progresso della psicologia e della psicanalisi, con le loro cure e terapie. Ciò significa che la Chiesa deve aver cura dell'uomo intero (non solo delle anime): è questo un servizio di speranza, che non si oppone alle " speranze ", ma le assume e le trascende.

Infine, l'espressione pastore delle anime, applicata al ministero ordinato, non è esatta. Da una parte, dà l'impressione che solo il sacerdote sia responsabile della comunità dei fedeli, come se i laici fossero oggetto e non soggetto dell'azione della Chiesa. D'altra parte, si può intendere erroneamente il servizio della Chiesa come un'azione transitiva rivolta all'uomo, considerato spesso come un " gregge ". In sintesi: non è accettabile oggi l'espressione cura d'anime come sinonimo di azione pastorale in forza dell'unico soggetto esplicitato (il prete: in spagnolo, cura) e in forza dell'obiettivo manifesto: le anime.

Bibl. - Flick M. - Alszleghy Z., L'uomo nella teologia, Ed. Paoline, Codena, 1972. Moeller Ch., Il rinnovamento della dottrina sull'uomo, in: Aa.Vv., Teologia del rinnovamento, Ed. Cittadella, Assisi, 1969, op. 175214. Molari C., La fede e il suo linguaggio, Ed. Cittadella, Assisi, 1972.

L'osservazione vale solo per la lingua spagnola, in quanto cura in castigliano significa anche: prete, parroco (N.d.T).

C. Floristán

Curia. (inizio)

In questa voce, trattiamo della Curia romana (CIC cc. 360-361) e della Curia diocesana (CIC cc. 469-494).

Riguardo alla Curia romana, il Codice ne accenna soltanto. È, comunque, uno degli organi più importanti e complessi, che costituisce la lunga manus del Romano Pontefice. Si cerca sempre di riformarla, ma di fatto, continua a reggersi con la Lettera Apostolica Regimini Ecclesiae Universae (REU) di Paolo VI (AAS 591967, 885-928). Fu sempre una specie di rompicapo voler sapere quanti e quali erano gli organismi della Curia romana. La REU allungò di molto l'elenco tradizionale. L'Annuario Pontificio offre un elenco quasi interminabile. Il canone 360 lo riduce notevolmente, anche se fornisce un'amplificazione implicita nella frase " e da altri organismi ". Secondo il canone 360, la Curia " è composta dalla Segreteria di Stato o Papale, dal Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, dalle Congregazioni, dai Tribunali, e da altri organismi ". Vogliamo sperare che la tanto desiderata riforma sarà stabile per quanto riguarda gli elementi più fondamentali, e aperta circa gli aspetti più secondari, da adattare secondo il gusto di ogni Papa.

Le Congregazioni, specie di " ministeri ", o organismi amministrativi, sono attualmente sei: la Dottrina della Fede, la Congregazione dei Vescovi, quella dei Sacramenti e del Culto, la Congregazione del Clero, quella per l'Evangelizzazione e quella per le Cause dei Santi. I Tribuinali sono tre: la sacra Romana Rota, la Sacra penitenzieria, la Segnatura Apostolica. Gli " altri organismi " sono, principalmente: segretariati e consigli il cui elenco interminabile e il cui funzionamento si trovano nel " Regolamento Generale " del 22 Febbraio 1968.

Per parlare con esattezza, dobbiamo attenerci al canone 361 importante e storicamente disorientante: " Col nome di Sede Apostolica o Santa Sede si intendono nel Codice non solo il Romano Pontefice, ma anche, se non risulta diversamente dalla natura della questione o dal contesto, la Segreteria di Stato, il Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa e gli altri Organismi della Curia Romana ". Va notata l'imprecisione dell'espressione generica " gli altri Organismi " che ci obbliga a sperare in una riforma concreta e profonda.

La Curia diocesana consta di quegli organismi e persone che collaborano col Vescovo nel governo di tutta la diocesi, specialmente nella direzione dell'attività pastorale, nell'amministrazione della diocesi, come anche nell'esercizio della potestà giudiziaria (c. 469). Questa nuova accentuazione dell'elemento pastorale è molto interessante. Il coordinamento efficace della pastorale diocesana esige una buona scelta e un buon collegamento tra i diversi vicari, siano essi generali come anche episcopali. Il vicario generale gode di una potestà ordinaria e, eccetto che l'estensione della diocesi, il numero di abitanti e altre ragioni pastorali suggeriscano diversamente, deve essere uno solo (c. 475). È interessante la figura del vicario episcopale territoriale (in una parte determinata della diocesi), quello settoriale (per un determinato settore) e quello personale per un determinaito gruppo di persone a causa del rito o per altre ragioni (c. 476). I vicari devono essere sacerdoti. Possono sorgere confusioni e situazioni di conflitto a motivo della coesistenza di vescovi ausiliari coi vicari, sia generali che episcopali, soprattutto se il vicario generale è un presbitero e i vescovi ausiliari sono stati nominati soltanto come vicari episcopali.

Quantunque il legislatore non la imponga (c. 473 & 2), è comunque nuova e interessante la figura del " moderatore di curia ", che in alcune diocesi è diventato la figura efficace del segretario generale di curia.

" In ogni diocesi, venga costituito il consiglio per gli affari economici, presieduto dallo stesso Vescovo diocesano o da un suo delegato; esso è composto da almeno tre fedeli, veramente esperti in economia enel diritto civile ed eminenti per integrità; essi sono nominati dal Vescovo " (c. 492 § 1). Qui, si presenta un'occasione preziosa per la partecipaziorne di laici specializzati.

È obbligatoria l'esistenza in ogni diocesi del consiglio Presbiterale. È questa una figura tipicamente post-conciliare. Il suo spirito ed il suo operare vanno desunti dai documenti conciliari, specialmente dalla Costituzione Lumen Gentium (N. 28), dal decreto Christus Dominus (nn. 17, 27 e 28), dal decreto Presbyterorum Ordinis (nn. 7, 8 e 15) e dal decreto Ad Gentes (nn. 19 e 20). È come il senato del vescovo rappresenta il " presbiterio " ed ha per missione di Coadiuvare il Vescovo nel governo della diocesi, a norma del diritto " (c. 495). Data la grandissima importanza del " presbiterio " il cui andamento fondamentale ha bisogno forse di un nuovo concilio, si deve prendere molto sul serio la formazione ed il corretto funzionamento del Consiglio presbiterale.

All'interno del Consiglio presbiterale, e come erede delle varie funzioni di governo che prima del CIC erano esercitate dal Capitolo della Cattedrale, deve esserci il Consiglio dei Consultori diocesani, " in numero non minore di sei e non maggiore di dodici " e " per un quinquennio ". Sebbene esso sia composto da membri del Consiglio presbiterale, è un organo distinto e indipendente. I suoi compiti specifici sono " determinati dal diritto " (CIC, c. 502).

Nella misura in cui le circostanze pastorali lo permettono, e, pertanto, con chiaro intento pastorale ed evangelizzatore, si costituisca in ogni diocesi un Consiglio pastorale, composto da fedeli (chierici, religiosi e laici) in numero conveniente, non determinato, e che sia veramente rappresentativo del Popolo di Dio nella diocesi. Al vescovo diocesano spetta, secondo gli statuti dello stesso Consiglio, stabilire i punti fondamentali, convocarlo e presiederlo.

Il Capitolo dei Canonici è molto noto. Basta perciò dire che il suo compito specifico è la celebrazione delle funzioni liturgiche più solenni nella Chiesa Cattedrale o nella Collegiata. " Spetta inoltre al capitolo cattedrale adempiere i compiti che gli vengono affidati dal diritto o dal Vescovo diocesano " (c. 503).

Bibl. - Bertone T., " Curia Romana ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 216-217. Cappellini E. - Coccopalmerio F., Temi pastorali del Nuovo Codice, Brescia, 1984. Chiappetta L., Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico-pastorale, 2 voll., Ed. dehoniane, Napoli, 1988.

L. Vela

Cursillos di cristianità. (inizio)

I cursillos di cristianità, secondo i loro promotori e in base ad una serie di Dostulati essenziali, sono un movimento ecclesiale, molto vivo, adatto agli uomini e donne di tutti i paesi, che porta ad un incontro personale con Dio e che favorisce la spiritualità cristiana. Essi sorsero in seno al rinnovamento della gioventù di A.C. spagnola, con una spiritualità di pellegrinaggio modellata sul cammino al santuario del Pilar e noi a san Giacomo di Compostella verso gli anni '40. A Maiorca, dove cominciò a svilupparsi questo movimento, il primo " cursillo " di cristianità si ebbe nel 1946. I primi furono rivolti a giovani e aspiranti, e, a partire dal 1954, si concentrarono sugli uomini sposati. Col 1949, si estero in tutto il mondo. A partire dal 1953, si organizzarono " cursillos " per donne, non senza aver incontrato opposizioni in Spagna, a differenza dell'America Latina che fu subito aperta ai " cursillos " di ambo i sessi.

Fin dall'inizio, si continuò ad affermare che erano un movimento e non una associazione. Però, la cosa più caratteristica di questo movimento è l'importanza che si dà al vissuto e al convissuto, con l'intento

di comunicare l'essere cristiani in un modo esperienziale e gioioso. La comunicazione, mediante i suoi famosi " discorsi ", cerca di essere kerigmatica, anche se agli inizi o nella tappa precedente al Vaticano TI, i contenuti provenivano da una teologia neo-scolastica rinnovata.

Quantunque questo movimento si sia diffuso in tutto il mondo e si rivolga a persone molto eterogenee riguardo a cultura, età, estrazione sociale, ecc., non è ancora inculturato sufficientemente, come è accaduto a tutta la pastorale cristiana, fino ad alcuni anni dopo il Concilio. Ricordiamo che l'universalismo cristiano è stato confuso spesso con l'uniformismo nei contenuti perfino pedagogici. Per questi motivi, il " cursillo " ha insistito più sulla spiritualità " uniformista " della famiglia che sulla problematica " pluralista " dei fattori sociali. Allo stesso modo, si spiega anche uno degli obiettivi fondamentali del " cursillo ", cioè, l'incontro personale col Dio vivo. Ricordiamo che quando sorsero i " cursillos ", tanto il cattolicesimo spagnolo quanto quello latino-americano; Der non parlare del cattolicesimo universale, avevano cristianesimo sociologico, di " routine " e di usanze, devozionale e popolare, senza una sufficiente adesione personale. Il merito dei " cursillos " fu quello di porre l'accento sull'incontro personale con il Dio vivo e in Gesù Cristo come centro. Per questo, i " cursillos " svilupparono una spiritualità cristiana laica tutta particolare. Fu tutt'altro che un semplice adattamento della spiritualità monastica o sacerdotale: fu una spiritualità per laici, già elaborata nell'A.C.

Ciò che sembra essere una pretesa esagerata è che i " cursillos siano sorti da un progetto pastorale. Certo, il vescovo di Maiorca, Mons. Hervas, fu agli inizi un grande promotore. È anche vero che i " cursillos " furono generalmente accettati bene dal clero, in quanto facevano sperare in un aiuto pastorale notevole nell'attività cristiana coi laici.

Dopo il Concilio, i " cursillos " di cristianità si rinnovarono nei contenuti e nei metodi, mediante l'aiuto di incontri internazionali, il primo dei quali si tenne a Bogotà (1968). Comunque, la sostanza più profonda di questo movimento continua ad essere quasi la stessa del suo inizio.

Bibl. - Aa.Vv., Rollos per sacerdoti. I. Grazia, fede, ostacoli alla vita di grazia, Bologna, 1977. Aa.Vv., Guida dei responsabili della Ultreya, Bologna, 1980. Carminati A., Meditazioni per i responsabili, Bologna, 1980.

Cursillo letteralmente, significa: breve corso di studi. Lasciamo in spagnolo questo termine usato per designare un movimento ecclesiale molto noto e molto diffuso (N.d.T.).

A. Floristán