DIZIONARIO SINTETICO DI PASTORALE

CASIANO FLORISTAN - JUAN JOSÈ TAMAYO

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Famiglia. (inizio)

La famiglia è costituita da una gruppo di persone che condividono la loro vita in un modo più o meno stabile. Tutto ciò avviene partendo da un fatto basilare e fondamentale che è il rapporto genitori-figli.

La famiglia esiste fin da tempi remotissimi per i vincoli di consanguineità, quando nei clans primitivi tutti erano più o meno parenti e consaguinei. Più tardi, con la rivoluzione agricola, con l'aumento della popolazione, in seguito al miglioramento dell'alimentazione e con la comparsa dell'urbanesimo, ci furono matrimoni non consanguinei e sorse il fatto della famiglia politica. Si impose la famiglia monogamica, sebbene in alcuni ambienti ci siano state distinte forme di poligamia, ma sempre integrando il matrimonio nel clan familiare e sottoponendolo ad esso.

Con Roma, il matrimonio, compresa la moglie, guadagnò in libertà (non fu così per il matrimonio degli schiavi), ma rimasero i legami con la gens, ossia col clan familiare. Nel secolo XIII, con la rivoluzione borghese, la coppia acquistò la sua definitiva autonomia rispetto al clan, anche se continuò ad esistere fra le due realtà un forte legame affettivo (culto alla Sacra Famiglia).

Fino alla rivoluzione industriale dei nostri giorni, la famiglia è stata patriarcale rurale, cioè, una famiglia numerosa e con molte competenze. I figli ricevevano dai genitori la vita, la cultura (lingua materna) e la capacità di lavorare (eredità paterna). L'autorità del padre era molto forte (patria potestà) ed influiva in campo religioso, nell'ideologia politica e nello stile di vita. Si avevano molti figli per colmare l'alto tasso di mortalità infantile. In famiglia, vivevano tante volte anche i nonni, le zie celibi e i domestici (famigli).

Con la rivoluzione industriale, la famiglia patriarcale rurale si trasformò in nucleo urbano. Si abbandonavano i campi per abitare in città, acquistando così una grande mobilità. I genitori si ridussero ad avere due o tre figli, perdettero certe competenze delegate alla società. I 25 anni di vita matrimoniale passarono a 50 come termine medio. Crebbe la libertà, il dialogo, l'intimità e la tenerezza. Fu promossa la dignità della donna e la sua promozione culturale e professionale. Fu accettata la paternità responsabile quando venne a diminuire fortemente la mortalità infantile. Grazie alla scienza e alla tecnica, divenne possibile regolare il processo di procreazione e porlo in maniera responsabile al servizio dell'uomo.

Tutto questo ha grandi vantaggi e suppone un grande progresso, ma presenta anche degli inconvenienti. Cresce la instabilità coniugale; aumentano numericamente i divorzi; la rivoluzione tocca più la sfera sessuale che non il dialogo e la tenerezza; non c'è posto in casa per gli anziani; i malati mentali e gli infermi cronici, soprattutto le persone usate e consumate secondo la società dei consumi, si sentono condannate alla solitudine.

Per uscire da queste difficoltà, e pensando già all'èra post-industriale, si sta promuovendo un nuovo tipo di famiglia capace di superare la famiglia dal nucleo urbano. Si tratta di gruppi di famiglie o comunità familiari che formano una autentica super-famiglia, integrate con vari matrimoni, con figli e amici di questi, che vogliono condividere per sempre le loro vite, e cioè, quello che pensano, che decidono, che fanno e che sono, sulla base di un amore forte e rispettoso. Se sono credenti, lo fanno nel nome del Signore. Queste esperienze sembrano avere un grande futuro.

Bibl. - Campanini G., " Famiglia ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 407-413. Galli N., Educazione dei coniugi alla famiglia, Ed. Vita e pensiero, Milano, 1986. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Familiaris consortio, 22.11.1981. Lazzati G., La carta dei diritti della famiglia, Città del Vaticano, 1985. Piana G., Famiglia comunità di fede, Ed. AVE, Roma, 1970.

A. Hortelano

Fanatismo. (inizio)

Etimologicamente, fanatismo proviene dal latino fanum (tempio, luogo sacro). Di qui, fanaticus passò a significare: " sacro, appartenente alla divinità ", applicando ciò ai sacerdoti di Baal, di Cibele e di altre divinità. Alcuni dei tratti che emersero in essi saranno caratteristici dei fanatici di tutti tempi: l'esaltazione corporale e dell'animo, il furore, la suggestibilità, la pretesa di possedere l'ispirazione divina, lo sviluppo di un comportamento distruttore.

La parola non ha mai avuto un senso neutro. Fin dai suoi primi usi, ha avuto connotati negativi, usata come arma per screditare l'avversario. Esiste, pertanto, un certo relativismo nel suo uso: quello che alcuni qualificano come fanatico può essere ritenuto da altri un atto di eroismo. Il termine, già nell'epoca moderna, cercò una riabilitazione da parte di movimenti di orientamento totalitario.

Il concetto è stato coniato sullo stampo della nostra cultura occidentale, probabilmente perché solo in essa c'è stata una transizione storica, piuttosto brusca, dal dogmatismo al criticismo. I liberi pensatori, che diffusero questo termine nel secolo XVIII, portavano come modello l'intolleranza dell'Inquisizione e l'entusiasmo insensato di certi settari.

Le definizioni moderne iniziano partendo dalla identificazione di elementi conoscitivi (il fanatico manifesta un'attenzione selettiva), motivazionali (il fanatico possiede una reazione molto forte, che sta alla radice della sua dedizione incondizionata e ostinata), e emozionali (passione ed esaltazione). Tutto ciò si traduce in un comportamento di intolleranza verso l'avversario, di ansia combattiva per imporre le proprie idee, di violenza pre-giustificata e di proselitismo entusiasta.

Stando così le cose, si può definire il fanatismo come un'intensa adesione affettiva ad un'idea, socialmente condivisa, a cui si concede un valore assoluto. Per realizzare questa idea, si è decisi a distruggere in suo nome qualsiasi ostacolo che vi si opponga.

Si possono fare varie classificazioni del fanatismo, a seconda del criterio che si adoperi. Secondo il suo oggetto, si può parlare di fanatismo religioso, politico, etnico, morale, scientifico, artistico, o di altri aspetti concreti (" tifoserie " sportive). Per la componente attitudinale prevalente, si può distinguere tra fanatismo intellettuale, emozionale e comportamentale. Per l'identità del soggetto fanatico, ci può essere un fanatismo individuale, o di gruppo (una sètta estremista), perfino massiccio (le grandi concentrazioni popolari del nazismo), o istituzionale (le pratiche inquisitorie). Infine, il fanatismo può essere il risultato di una situazione concreta, o un tratto isolato della personalità, ma può anche essere una struttura permanente del carattere. È possibile ancora distinguere un fanatismo originario (ha la sua radice nell'individuo stesso) da un fanatismo derivato (dalla personalità del leader).

Nella storia dell'evoluzione del concetto, bisogna segnalare due grandi tappe che si incontrano nel secolo XVIII. La prima iniziò con la proclamazione del carattere assoluto dell'autorità degli imperatori romani, dopo che l'ebbero legittimata attribuendosi un'origine divina. Il fanatismo istituzionale conseguente fu continuato, con modi analoghi, dagli imperatori cristiani e da altre autorità religiose e politiche (" guerre sante ", pratiche dell'Inquisizione...). I cosiddetti " movimenti cristiani estremisti " (Mühlmann) opposero al fanatismo ufficiale un altro di segno opposto, in cui si univa la tendenza millenarista del cristianesimo con il dualismo gnostico-manicheo (questo fatto costituisce una costante storica: il fanatismo istituzionale provoca la fanatizzazione dei gruppi che vi oppongono resistenza).

La Rivoluzione francese, che segna l'inizio della seconda tappa, è un modello di fanatismo moderno. La tendenza ad assolutizzare un valore si sposta verso cause di tipo secolare (la patria, il popolo, la libertà). Il fenomeno non è semplicemente secolarizzatore, ma sacralizzatore del secolare. Appaiono nuove forme di " guerra santa " in nome di ideali assoluti (rivoluzione, patria, senso della storia): ciò che viene razionalizzato sono unicamente i procedimenti, per renderli più efficaci (per esempio: i campi di concentramento). È verosimile l'ipotesi secondo cui i movimenti radicali socio-rivoluzionari, le correnti che stanno all'origine del terrorismo, i totalitarismi politici, non sarebbero altre che prolungamenti storici del millenaria di influsso dualista, che caratterizza i movimenti eretici radicali della prima tappa del fanatismo. Tra l'intolleranza dei primi tempi e quella dei tempi moderni, la visione di un mondo nettamente diviso tra il bene ed il male (visione metafisico-religiosa, impazienza storica nel voler distruggere il male, propria dei millenarismi, costituiscono il filo conduttore.

Come tutte le " grandezze " psico-sociali, il fanatismo ammette ovviamente delle graduatorie. Oltre alle forme più " pure ", si possono osservare nella nostra società forme attenuate che possono provenire dalla insicurezza propria di tutte le epoche di cambiamenti sociali accelerati. La anomìa (assenza di norme dei comportamenti) provoca la polarizzazione nel valore " sicurezza " (attenzione selettiva), l'emozionalità nel giudizio, l'intolleranza indiscriminata nella condanna. Modalità variabili e miste di fanatismo sono solite apparire in momenti di crisi sociale, come accompagnamento " logico ", per il loro carattere semplificante, di una problematica che oltrepassa gli orizzonti soliti.

Bibl. Aa.Vv., Le sètte religiose, Ed. Ancora, Milano, 1996. Adorno Th., Lezioni di sociologia, Torino, 1968. Palazzini P., " Fanatismo ", in: Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, coll. 1009-1010. Ricca P., " Fondamentalismo ", in: Enciclopedia del Cristianesimo? Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 314.

J. Martínez-Cortés

Fede. (inizio)

La fede, come tante altre realtà che si muovono nell'ambito del mistero, non si spiega partendo da una definizione chiara e distinta, sempre limitata, ma partendo da varie prospettive. La fede è l'apertura dell'uomo a Dio; in campo cristiano, è la risposta alla Parola di Dio, con l'accettazione del Padre in Gesù Cristo, e radicati nel mondo, in funzione della realtà nuova che ci trasforma. La fede è una conversione agli interessi del Regno; è percezione della presenza di Dio; è offerta di grazia; è percezione affettiva e personale; è comunione espressa in una obbedienza fedele; è un ridesto interiore; è sequela di Gesù.

Tutte queste prospettive, anziché rendere difficile o complicato il vissuto della fede, tendono a portarci verso quanto è essenziale ed originale, percepito qui ed ora. Qui ed ora, quando gli interrogativi principali sono posti sul vivo: di quale fede di tratta? di quale Dio? di quale uomo?... di quale Chiesa? Si impone un nuovo esame di coscienza: al di là del mistero occulto di Dio, sappiamo meglio di ieri che dobbiamo purificare le immagini in cui ci muoviamo rispetto a Dio, quel Dio che non ha altro volto se non quello di Gesù Cristo.

In questa impostazione, esiste la tentazione di pensare che la fede, suscitata da Dio, viene data in noi senza essere di noi. Non c'è nulla di più inesatto. Cominciamo con l'affermare che la fede, dono di Dio, chiede di solito una preparazione per potere essere comunicata. È il seme della parola che ha bisogno di un terreno adatto, un campo concimato.

Questa preparazione è l'atteggiamento di ricerca, quello che Karl Rahner chiama lo " sforzo per sviluppare la fede esistente ". Si tratta di una ricerca rinnovata per interpretare noi stessi mentre destiamo le nostre dimensioni più profonde. In secondo luogo, si tratta di una ricerca che permetta di rispondere alla rivelazione considerata come portatrice di una comprensione più ricca di quello che siamo.

Dono e ricerca sono i due poli che spiegano la fede nella sua costituzione, nelle sue decisioni, nelle sue implicanze, al di là delle varianti personali o locali. La fede comporta simultaneamente il dono gratuito e generoso di Dio e l'aspirazione ad accettarlo. Così, si stabilisce un dialogo tra Dio e l'uomo, non di parole, ma di esistenze, verso una comunione amorosa. Questa dottrina ha un valore perenne, certamente, ma ai giorni nostri, e per una serie di motivi che il sociologo delle religioni può analizzare, incontriamo nella sensibilità attuale un'attenzione speciale al lavoro di ricerca.

Nel leggere l'abbondante letteratura su questo argomento, troviamo che questa duplice polarità, dono e ricerca, è compresa piuttosto male e dà origine a malintesi. A molti, sembra che questo dono e questa ricerca stiano in proporzione inversa e che, al punto limite, il dono elimini la ricerca, o viceversa. Veramente, secondo l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino, la fede comporta, consostanzialmente, dono gratuito e interrogazione. Quanto maggiore è la consapevolezza che si ha del dono, e tanto maggiore è la domanda, inquietudine, la tensione, l'insoddisfazione nel punto più intimo del nostro cuore di credenti.

Non si tratta di vedere in questo atteggiamento una insurrezione dello spirito, l'effetto di un dubbio, o, come dicevano i vecchi catechismi, una tentazione con pericolo di peccato.

È invece un atteggiamento necessario per poter orientare la fede verso un registro distinto degli " oggetti " in cui credere. Se l'ordine delle verità ci porta ad un sapere impossibile, non è perché cediamo ad uno scetticismo (che è sempre intellettualista), ma a quanto ce ne preserva: il giudizio sul modo di vivere. Le parabole evangeliche, come anche i racconti veterotestamentari, non ci dànno molto " sapere " su Dio o sull'uomo. Ci danno, invece, un giudizio. Ci spingono a lasciarci afferrare dalle consuetudini di Dio. Dio dice. Dio fa. Non il bene. Dio fa e quello che Dio fa si trasforma in bene. Fate come me, e lo vedrete.

Ciò che è importante, essenziale, è un modo di vivere, non un complesso di verità in cui credere, non una adesione esplicita a questo o a quest'altro sistema di proposizioni coordinate, sia esso religioso o ateo. Questo modo di vivere, come complesso, non esiste (dato che la vita evangelica non si identifica con quella di Gesù, quell'Ebreo del secolo I), ma esiste in ogni luogo dove lo spirito di Gesù ha modellato le esistenze. La vita evangelica non si definisce. Ricorda. Opera. Quello che conta non è l'essere consapevoli di appartenere al popolo di coloro che vogliono seguire Gesù: quello che conta è seguirlo.

Queste riflessioni collocano la fede al di là dell'ordine della conoscenza: la pongono in quello del rapporto con una persona, con Dio manifestatosi nella persona di Gesù Cristo. Questo fatto spiega che non solo la ragione interviene nell'atto di fede. Infatti, questo atto è frutto della " grazia ": la fede è un dono di Dio-della " volontà "; la fede è una decisione libera, della " ragione "; naturalmente, è chiaro che il credente può rendere ragione a chiunque lo chieda per la speranza che è la sostanza della sua fede, e della " autorità "; la fede è adesione a un messaggio non inventato, ma ricevuto da fuori e con la mediazione di testimoni qualificati: i profeti, Cristo soprattutto, gli Apostoli e la stessa Chiesa.

Questi quattro elementi, che intervengono nell'atto di fede, possono dare luogo a quattro deformazioni che meritano la nostra attenzione, non solo perché sono frequenti, ma perché risultano dalla perversione dei princìpi più autentici della fede cristiana. Succede, infatti (non parliamo di malintesi né di difetti ingannevoli che sono una caricatura del contenuto della fede, rendendola infantile, odiosa o ridicola) che serpeggino idee false sulla fede in se stessa che, fin dall'inizio, a livello degli atteggiamenti previ, è già squalificata e, conseguentemente, impedita a nascere.

Secondo la teologia cattolica, formulata nel Concilio Vaticano I, si deve affermare che la soprannaturalità, la ragionevolezza e la libertà sono caratteristiche essenziali della fede. È anche ritenuta certa e sicura. Queste qualità non escludono il dubbio psicologico e la stessa crisi, persino come elemento di progresso, necessario per arrivare ad una maturità credente.

Bibl. - Fries H., La fede tra esperienza e impegno, Ed. Paoline, Cinisello B., 1990. Kasper W., Introduzione alla fede, Ed, Queriniana, Brescia, . Lonergan B., Ragione e fede di fronte a Dio, Ed. Queriniana, Brescia, . Metz J.B., La fede, nella storia e nella società, Brescia, 1978. Pannenberg W., Il credo e la fede dell'uomo d'oggi, Brescia, 1973. Rahner K., Corso fondamentale sulla fede, Ed. Paoline, Alba, . Ratzinger J., Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Brescia, 1969.

E. Vilanova

Femminismo. (inizio)

Che cos'è il maschile e che cos'è il femminile? Ciquant'anni fa, forse avremmo risposto a questa domanda senza tentennamenti. Oggi, pochi si arrischiano a farlo perché, anche se è vero che esistono differenze bio-psicologiche tra l'uomo e la donna, la loro importanza non è così grande come in altri tempi si pensava. Inoltre, risulta difficile distinguerle dalle diversità socialmente condizionate che, invece, sono molto maggiori di quanto si riteneva nel passato. " Non si nasce donna, scriveva Simone de Beauvoir: lo si diventa ".

Per molti secoli, si ritenne che il contributo della donna alla società si riducesse al suo ruolo di sposa e di madre. Inoltre, si dava per scontato che a lei spettassero i lavori domestici. La donna a stento aveva adito al sistema educativo e i suoi diritti legali furono sempre inferiori a quelli dell'uomo. Questa discriminazione si conciliava spesso con una esaltazione rettorica della sublimità della sua missione. " La donna, scriveva Honoré De Balzac, è una schiava che bisogna saper porre su di un trono ".

Spesso gli atteggiamenti antifemministi furono interiorizzati dalle donne stesse. Ricordiamo, per esempio, che santa Teresa d'Avila non si riteneva degna della contemplazione perché era " donna e non buona, ma vile ". Però, aggiungeva, Dio le dava " forze da uomo ". Qui, si potrebbe dimostrare che il discorso dell'oppresso suole essere il discorso dell'altro.

Sebbene Olimpia De Gouges abbia proclamato già durante la Rivoluzione francese del 1789 la " Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina ", quello che noi chiamiamo il movimento femminista sorse verso il 1830-1840 negli Stati Uniti e in Inghilterra. In Spagna, passarono quasi altri cent'anni prima che apparissero i primi gruppi organizzati e, di fatto, la Spagna non fu rappresentata in nessuno dei congressi internazionali di donne che furono celebrati verso la fine del secolo XIX. Quel primo femminismo si concentrò talmente sul voto alle donne che le promotrici erano conosciute come " suffragiste ".

Nel movimento femminista d'oggi, ci sono due tendenze principali: il femminismo radicale (rappresentato in Spagna dal Partito Femminista), secondo cui l'antagonismo decisivo non è quello che esiste tra capitale e lavoro, o tra le razze, ma quello che esiste tra l'uomo e la donna, o, in altre parole; l'autentico sistema oppressore non è il capitalismo , né il razzismo, ma il patriarcato. Invece, il femminismo socialista, fedele alla tradizione marxista, ritiene che il principale beneficiario del lavoro domestico della donna non è l'uomo, ma il sistema capitalista: la donna, infatti, garantisce la riproduzione delle forze di lavoro, come anche il suo ricupero quotidiano, e permette agli altri membri della famiglia di scaricare in casa le loro frustrazioni di lavoro. Conseguentemente, questa forma di femminismo non attacca in primo luogo la struttura sessuale gerarchica, ma il sistema capitalista. Esiste, però, una corrente revisionista all'interno del femminismo socialista che cerca di elaborare una sintesi tra la teoria marxista del potere e la teoria del femminismo radicale sul patriarcato. Questa è la teoria del patriarcato capitalista.

Sebbene ci sia ancora molto cammino da fare, i progressi realizzati fino ad oggi non possono essere sottovalutati. Fino a pochi anni fa, le leggi spagnole consideravano la donna, e soprattutto la donna sposata, come una minorenne il cui tutore era il marito: era obbligata a seguirlo dovunque egli fissasse la sua residenza e a obbedirlo; non aveva la patria potestà sui figli, in quanto il padre poteva perfino darli in adozione senza che lei si intromettesse; aveva bisogno del permesso del marito per lavorare; inoltre, questi aveva il diritto di riscuotere il salario di sua moglie; ecc. In conformità all'articolo 14 della Costituzione spagnola, sono scomparse oggi tutte le discriminazione giuridiche dannose alla donna, ma purtroppo non è ancora affermata in assoluto l'uguaglianza di fatto. Anche l'accesso ai livelli più alti del sistema educativo è migliorato notevolmente: durante il 1961 1962, le donne rappresentavano nell'Università il 23,4% di studenti; nel 1980-1981, erano già il 42,5%. Sono tuttavia peggiori le opportunità di lavoro offerte alla donna, sia in quantità che in qualità.

La situazione della donna non è migliorata troppo neanche nella Chiesa. Questa, nel mondo occidentale, è probabilmente la più maschilista delle istituzioni. Il non prendere consapevolezza di questo problema potrebbe avere conseguenze gravi. La Chiesa ha perduto nel secolo XVIII gli intellettuali; nel secolo XIX, gli operai. Potrebbe perdere nel secolo XX le donne, se non sarà in grado di comprendere le loro istanze legittime.

Bibl. - Aa.Vv., La donna nella Chiesa e nel mondo, Ed. dehoniane, Napoli, 1988. Aubert J.M., La donna. Antifemminismo e cristianesimo, Ed. Cittadella, Assisi, 1976. Beauvoir S. De, Il secondo sesso, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1961. Friedan B., La mistica della femminilità, Ed. Comunità, Milano, 1976. Giovanni Paolo II II, Lettera Apostolica Mulieris dignitatem, 15.8.1988. Quéré F., Le donne nel vangelo, Ed. Rusconi, Milano, 1983. Riva A., " Femminismo ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 638-655. Spagnoletti R., I movimenti femministi in Italia, Ed. Savelli, Roma, 1975.

L. González-Carvajal

Festa. (inizio)

La festa è il tempo dedicato a celebrare un evento vitale per manifestare uno stato di gioia e di allegria. In primo luogo, la festa è affermazione della vita, dalla durata così breve e destinata alla morte. La festa afferma anche la bontà della creazione che pure ha tanti mali e tante infermità. Nella festa, si dà un senso al mondo e un orientamento alla storia.

La festa è, in secondo luogo, abbondanza ed esuberanza, cioè, eccesso in quantità (sperpero di cibo), o in qualità (vestiti fantastici o stravaganti); comporta un permesso ampio di fare o dire quello che non è permesso nella vita ordinaria. Perciò la festa equivale a libertà totale, poiché in essa i suoi partecipanti non sono sottoposti a regole, orari o coazioni. Nella festa, tutto sa di fantastico e tutto è sproporzionato.

In terzo luogo, la festa è in contrasto col tempo ordinario; è rottura col lavoro, poiché è tempo di gratuità; nella festa, non si è schiavi dell'orologio e degli orari.

In quarto luogo, la festa è simbolo di pienezza di desideri, poiché in essa si esprimono le aspirazioni più radicali del cuore umano. Nella festa, ci trasferiamo nel mondo della fantasia, del sogno, insomma, in un altro mondo. Per questo, nella festa, ci avviciniamo al sacro, ci mettiamo in relazione con la trascendenza umana. Infine, nella festa, le persone vengono poste allo stesso livello, poiché si condivide tutto, specialmente l'allegria. Per questo, nella festa, si canta, e nel canto affiorano i sentimenti comuni. A dire il vero, la musica è già una festa. Come conseguenza del clima festivo, nella festa, si danza e si balla. Così, l'allegria si manifesta nella sua intensità.

Alla festa, si oppone il lavoro quando questo è alienante e distruttore, incapace di sviluppare in molti casi certe potenzialità umane. Ricordiamo che il lavoro ha due facce: lo sforzo e il piacere, il sudore e la soddisfazione. La festa, evidentemente, non è puro riposo. Molti spettacoli moderni hanno cercato di sostituire la festa con luoghi o tempi di divertimenti; inoltre, essendo questi commercializzati, non siamo qui attori, ma spettatori. Mentre la festa è affermazione della vita, il divertimento è evasione, desiderio di dimenticare, qualcosa di transitorio. Nella festa, si condivide e ci si va con gioia. Il divertimento è individualista e cerca il puro spasso. Si oppone alla festa anche una vita superficiale, sterile, senza prospettive. La festa, naturalmente, non è puro ozio. Di fatto, la festa riunisce, mentre l'ozio disperde. Senza alcun dubbio, la società moderna, piena di evasioni e di diversivi, è meno festosa dell'antica società rurale, in quanto oggi abbiamo troppa fretta, sospettiamo di ciò che è intuitivo ed emozionale, valorizziamo la tecnica e la scienza, mentre cresce lo scetticismo.

La festa cristiana ha i suoi precedenti nella festa ebraica. Il popolo ebraico accettò le feste dei popoli vicini, che originariamente erano feste di natura (agricole o relative al bestiame) e vi mise un rapporto con la storia della salvezza. Veramente, la festa cristiana nasce dal ricordo di Gesù proclamato Signore nella sua risurrezione. Fin dagli inizi del cristianesimo, i credenti si riunivano in un giorno fisso, il primo della settimana secondo il calendario ebraico, il giorno romano del sole, domenica (dies dominica) o giorno del Signore, perché in quel giorno, Gesù risuscitò. È il memoriale pasquale di Gesù, glorificato e costituito Signore.

Nel secolo II, apparve la Pasqua annuale, o domenica delle domeniche. La risurrezione veniva celebrata la domenica che seguiva l'equinozio di primavera (equilibrio, armonia) e la luna piena (pienezza del giorno illuminato nella sua totalità). Questo ciclo festivo si completò col Natale, nel solstizio d'inverno, per celebrare la nascita di Cristo nel giorno del " sole non vinto ". Attorno a queste due feste di Natale e di Pasqua, si celebrano altre feste di Maria, degli apostoli, dei martiri, dei confessori e delle vergini, fino a completare il ciclo annuale che è come una circonferenza o un principio senza fine.

La festa cristiana è in rapporto col mistero di Cristo e con la vita umana. In essa, si celebra il trionfo di Gesù e la sua presenza, sotto il velo dei simboli. La presenza del Signore è causa di gioia. Però, il mistero cristiano celebrato non viene separato dalla vita ordinaria, creazione di Dio e spazio di incarnazione di Cristo. I cristiani celebrano con materiale del creato e mediante gesti desunti dalla vita.

Bibl. - Aa.Vv., La liturgia è festa, Ed. Marietti, Torino, 1980. Aa.Vv., Per noi la festa del Signore, Ed. Messaggero, Padova, 1980. Cox H., La festa dei folli, Ed. Bompiani, Milano, 1971. Maggiani S., " FestaFeste ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 555-581. Moltmann J., Sul gioco. Saggi sulla gioia della libertà e sul piacere del gioco, Ed. Queriniana, Brescia, 1971. Rizzi A., Il segreto del tempo, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1993.

C. Floristán

Fondamentalismo. (inizio)

Il fenomeno del fondamentalismo si riscontra in non pochi sistemi religiosi di credenze, soprattutto in quelli che poggiano su testi rivelati (per esempio: il cristianesimo e l'islamismo).

Col termine fondamentalismo, ci riferiamo qui specialmente ad una corrente religiosa molto estesa in varie chiese protestanti, sorta verso la fine del secolo XIX come reazione di fronte alle tendenze ritenute " eretiche " della teologia moderna e ai presunti " errori " del mondo moderno al quale il cristianesimo intendeva adattarsi.

Questa denominazione deriva dal titolo (" I Fondamentali ") di alcuni volantini usciti negli Stati Uniti tra il 1910 e il 1915, dove erano enunciati i punti irrinunciabili del cristianesimo, accentuando come fondamento di questi punti, l'ispirazione verbale e l'inerranza della Bibbia in tutti i campi del sapere. Jerry Falwell, uno dei pastori battisti più rappresentativi del fondamentalismo attuale, è giunto ad affermare che " la Bibbia è assolutamente infallibile, senza errori, in qualsiasi argomento che sia in rapporto con la fede e la pratica, come anche in aree come la geografia, la scienza, la storia, ecc. ".

Un tratto caratteristico del fondamentalismo è il letteralismo biblico, che porta alla codificazione della Parola di Dio e ad una specie di bibliolatria. La Bibbia è, per i fondamentalisti, un oggetto che non ammette il ricorso alla mediazione ermeneutica.

Un'altra nota caratteristica è la sua tendenza alle materializzazioni tangibili del mistero divino e dei rapporti dei credenti con esso.

" La bellezza di Dio, fa notare Assmann, buon conoscitore del fondamentalismo, viene ad essere un atto bancario di assicurazione sulla vita (salvezza sacra) e di assegni speciali (saldo assicurato) ". Quando parla della grazia, della salvezza e dei simboli religiosi, il fondamentalismo è solito ricorrere al linguaggio dei banchieri e giunge ad associare Dio col denaro.

Il suo concetto di salvezza è nettamente individualista ed è collegato con l'esito individuale nel campo professionale e con la difesa della libera impresa.

Sostiene i valori tradizionali e l'esaltazione del patriottismo, con una forte componente di integralismo politico, come si è potuto notare quando i fondamentalisti nord-americani hanno appoggiato Reagan nelle due elezioni presidenziali in cui si presentò come candidato.

Il fondamentalismo ha una visuale negativa del mondo, come si può dedurre dalle sue condanne irate e apocalittiche contro il modernismo e l'umanesimo secolare.

Per fare fronte al flagello della modernità, il fondamentalismo ricorre ai mezzi di comunicazione sociale, specialmente alla radio e alla televisione. Possiede giganteschi imperi elettronici che gli consentono di potere far arrivare i suoi messaggi in vasti settori della popolazione. Ciò avviene, soprattutto, nel movimento fondamentalista degli Stati Uniti. Per questo motivo, le Chiese fondamentaliste statunitensi sono state soprannominate " Chiesa elettronica ".

Bibl. - Cox H., La città secolare, Ed. Vallecchi, Firenze, 1968. Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano, 1993. Ricca P., " Fondamentalismo ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 314. Wicks Jared, " Fondamentalismo ", in: Dizionario di Teologia Fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 444-445.

J. J. Tamayo

Fraternità. (inizio)

In molte culture e religioni, il termine fratello, oltre a designare coloro che hanno gli stessi genitori per il vincolo " del sangue ", equivale ad amico, compagno, in un vincolo di " elezione ". La fraternità è l'affratellamento tra persone strettamente unite per mezzo di una comunanza di affetto, di propositi D di ideali. Ricordiamo la fraternità universale riconosciuta nel proclama della Rivoluzione francese: " Libertà, uguaglianza, fraternità ". Quello che si mette in risalto con la fraternità è l'uguaglianza di tutti gli esseri umani.

Fratello significava nell'ebraismo del tempo di Gesù colui che professava la stessa religione ebraica. Si chiamava fratello anche il proselito e colui che faceva parte di uno stesso gruppo rabbinico. Invece, prossimo era chiunque viveva in Israele senza essere israelita. Per Gesù, fratelli sono i suoi discepoli, quelli che fanno la volontà del Padre, i poveri e i bisognosi. La nuova fraternità cristiana deriva, evidentemente, dalla paternità di Dio, comunicata da Cristo nello Spirito. I cristiani sono tutti fratelli nella fede, perché Gesù si è fatto nostro fratello. In sintesi: i rapporti dei cristiani, fin dalla più remota antichità, sono rapporti di fratelli in forza di una fraternità spirituale che supera la fraternità naturale: " Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli " (Mt 23,8).

Il nome di fratello fu comune tra i cristiani fino al secolo III e si riferiva a quanti professavano la stessa fede. Dopo il battesimo, il neofita entrava nella fraternità, o comunità. I battezzati, diceva san Giustino, si chiamano fratelli. La stessa affermazione si trova in san Clemente romano, sant'Ignazio di Antiochia, ecc. La fraternità è lo stile di vita della comunità. Dopo il secolo III, il termine fratello viene ristretto ai chierici (gerarchia) e ai monaci (monachesimo). Col fenomeno dei movimenti apostolici e delle comunità di base, si riprende a chiamare fratello chi fa parte dello stesso movimento e partecipa allo stesso impegno.

In primo luogo, la base della fraternità è la persona. Ogni movimento personalista è un movimento di fraternità. In secondo luogo, la fraternità si fonda sulla stessa paternità che, per i cristiani, è quella di Dio. Egli si comunica con tutti i fratelli per mezzo della sua parola. In terzo luogo, i fratelli diventano una fraternità spirituale nell'asssemblea liturgica, specialmente nella celebrazione dell'eucaristia e della penitenza. Ricordiamo che la " correzione fraterna " è una esigenza indispensabile della fraternità. Infine, la fraternità si manifesta attraverso la carità e le opere di giustizia.

La ricerca attuale di comunità, in tanti ambiti ed ambienti, mostra la necessità di vivere in fraternità. Senza alcun dubbio, l'èthos di uguaglianza e di fraternità, a servizio della fraternità universale di tutti gli uomini, deve essere l'èthos dei cristiani.

Bibl. - Adam K., Cristo nostro fratello, Ed. Morcelliana, Brescia, 1968. De Candido L., " Fraternità ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 674-688. Ratzinger J., Fraternità cristiana, Ed. Paoline, Roma, 1962. Tillard J.M.R., Eucaristia e fraternità, Ed. Opera Regalità, Milano, 1969. Voillaume R., Esigenze di fraternità, Ed. Cittadella, Assisi, 1971.

C. Floristán

Gerarchia. (inizio)

Il concetto di gerarchia significa etimologicamente: " dominio sacro ". Nel linguaggio corrente, questo termine è usato per designare l'ordine verticale, strettamente a gradi, dell'autorità sacerdotale nella Chiesa. Esso è penetrato massicciamente nella teologia del secondo millennio per designare l'ordine ecclesiale voluto da Dio, nel contesto di una ecclesiologia piramidale. Oggi, si parla di " Chiesa gerarchica ". Questa espressione è stata resa popolare da sant'Ignazio e dai Gesuiti al tempo della Controriforma, in senso analogico a " Chiesa istituzionale ", o a " autorità ecclesiastica ". Il termine è rimasto, sia nella teologia che nel diritto canonico, per sottolineare le competenze dei vari gradi ecclesiali. L'identificazione di gerarchia con la Chiesa ha portato alle volte a fare della ecclesiologia una " gerarcologia ".

A partire dal Vaticano II, il termine viene sostituito con quello di autorità nella Chiesa. Ciò corrisponde ad una nuova visuale ecclesiologica più comunitaria e più orizzontale. Si passa da una Chiesa gerarchica e clericale, contrapposta al laicato, ad una ecclesiologia di comunione da cui si hanno i ministri che esercitano i vari servizi. Questo porta ad evitare in teologia il concetto di " potere " gerarchico e a preferire quello di servizio o ufficio ecclesiastico (munus). È sottolineata l'integrazione dei ministeri in una comunità (contro l'isolamento e l'individualismo del passato, carente di una dimensione pastorale). Viene potenziata l'ecclesialità (contro gli ordini assolutisti e i benefici ecclesiastici). Cambiando l'ecclesiologia, viene trasformato il concetto di Chiesa gerarchica: si ha una prospettiva piu ministeriale e più pastorale. È questo uno dei compiti fondamentali ereditati dal Vaticano II che ha posto nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa il capitolo della gerarchia dopo quello del Popolo di Dio e ha respinto un concetto di gerarchia come una classe che sta sopra la Chiesa (e non in essa).

Bibl. - Congar Y., Un nuovo volto alla Chiesa, Ed. Ancora, Milano, 1964. Formigoni G., " Autorità ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, D. 82. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995. Rahner K., Saggi sulla Chiesa, Ed. Paoline, Roma, 1966.

J.A. Estrada

Gesù Cristo. (inizio)

La domanda che Gesù rivolse ai suoi primi discepoli: " Voi, chi dite che io sia? " (Mt 16,15), continua ad essere attuale e viva oggi come lo era allora. Non solo tra coloro che confessano di credere in Lui, ma anche tra coloro che non condividono il credo cristiano. Gesù, infatti, non appartiene esclusivamente ai cristiani, come se si trattasse di un'eredità familiare da custodire gelosamente: è " patrimonio comune ", a cui hanno e possono avere accesso tutti gli uomini, qualunque sia la loro visione del mondo o la loro ideologia.

Una buona dimostrazione di ciò è data dalle numerose opere di pensatori umanisti che si sono accostati alla persona di Gesù cercando di rispondere alla domanda riportata sopra e con la ferma volontà di penetrare nella profondità inesauribile di un personaggio così singolare.

Questi approcci, lungi dall'essere un ostacolo per i credenti nel loro accesso a Gesù, costituiscono una sorgente importante di dinamismo, in quanto aiutano a correggere immagini distorte, mentre permettono un confronto critico cha va ben oltre la vecchia apologetica. Soprattutto, ci aiutano a tenere presente che bisogna rivolgersi al Gesù storico, non tanto per ricostruire nei minimi particolari la sua biografia, come pretendeva di farlo nel secolo scorso la teologia liberale, ma per liberarlo dalle molteplici astrazioni che lo hanno manipolato e che continuano a farlo.

La confessione cristiana rimanda ad una realtà complessa e pluridimensionale quando dice: Gesù Cristo. Del resto, ciò è tradotto in varie espressioni teologiche, come: " Gesù, il Cristo "; " Gesù è il Cristo di Dio "; " Gesù è il Signore ". È necessario dunque esprimersi correttamente se vogliamo dare ragione della nostra fede agli uomini del nostro tempo, senza cadere in dualismi dissocianti.

I trattati su Gesù Cristo (le cristologie) hanno nel passato dissociato e contrapposto, con troppa frequenza, l'umanità e la divinità di Gesù Cristo. La divinità è stata alle volte intesa come qualcosa di sopra, il soggetto di salvezza, l'elemento attivo, l'unico veramente importante e decisivo. L'umanità di Gesù, invece, era vista come qualcosa che stava in basso, un oggetto sottoposto ai comandi e ai disegni di Dio, qualcosa di insignificante e di irrilevante. La condizione umana di Gesù sembrava essere una " parodia di umanità ". La sua coscienza umana e storica era negata, fino al punto da escludere da Gesù il dubbio, l'ambiguità, la tentazione, l'apprendimento, ecc. Con ciò, si sopprimeva quanto la coscienza umana possiede di personalità.

In non pochi settori cristiani imbevuti di questa comprensione riduttiva, si era giunti fino a sentire " una netta ripugnanza, talvolta aspra e poco cristiana, per il nome "Gesù" (di Nazaret), come se si credesse non in una persona concreta, ma in un mistero gnostico " (Schillebeecks). Cristo era divenuto un mito senza un rapporto con Gesù di Nazaret, un idolo a cui si ricorreva per legittimare gli idoli storici seminatori di morte e di schiavitù. Ciò che è soggiacente in questo modo di vedere non è altro che un puro monofisismo.

L'unilateralità di questa impostazione è stata corretta recentemente, tanto negli studi cristologici quanto nella prassi dei cristiani, attraverso una nuova via di approccio e di accesso a Gesù Cristo: partire da Gesù. L'incarnazione di Dio nella storia, sottolinea Sobrino, può essere colta in tutta la sua densità solo quando si scopre il contenuto storico concreto di Dio: Gesù di Nazaret. Non solo: la pratica di Gesù costituisce il fattore più storico del Gesù storico, il momento privilegiato della sua totalità, il luogo di maggiore densità metafisica della sua persona e la chiave di accesso alla persona di Gesù Cristo (Sobrino). Questa pratica si orienta ad operare in forma attiva e sovversiva nell'ambiente sociale, economico, politico e religioso, con l'intento di una trasformazione radicale nell'orizzonte dei valori del Regno. È una pratica di liberazione dei poveri e degli oppressi, che ha la sua origine e la sua conferma nel rapporto singolare di Gesù con il Padre di tutti gli uomini, col Dio dei poveri.

Le cristologie attuali sottolineano il carattere relazionale, e non assoluto di Gesù. Che cosa intendono con ciò? Che Gesù, pur avendo avuto una coscienza eccezionale di sé, come appare chiaro nell'autorità (exousìa) con cui insegnava e nell'affermarsi superiore alla legge mosaica, non intendeva se stesso come l'assolutamente ultimo, ma come colui che riferiva la sua persona a qualcuno che non era lui: al Padre, maggiore di lui, al Regno di Dio come utopia della liberazione totale, e questo Regno viene anticipato coi segni da lui compiuti.

Un dato centrale sottolineato dagli esegeti del NT e che ha resistito a tutte le analisi critiche della letteratura neotestamentaria è quello della coscienza storica che Gesù aveva della sua filiazione divina, come appare nel modo di colloquio, intimo, familiare e spontaneo con cui si rivolgeva al Padre. La parola usata da Gesù nella preghiera era abbà (papà): ciò suppone una novità assoluta se la confrontiamo con le espressioni formali e compassate usate dagli Ebrei per parlare con JHWH.

Questa esperienza profonda di filiazione di Gesù " si riflette in tutta la sua vita umana; costituisce il centro della sua esistenza; non é una realtà isolata dalla sua esperienza umana, ma è il modo più umano e più religioso di vivere la vita " (M. Bordoni). Emana da essa ed in essa si alimenta la sua libertà di fronte al tempio, di fronte alla legge e al sacerdozio, libertà che non conosce limiti. Da questa esperienza, nasce la critica verso ogni potere terreno, assoluto e, più in concreto, la denuncia dei poteri politici e religiosi del suo tempo.

Questa libertà che lo accompagnò in tutta la sua vita, gli procurò l'emarginazione e l'accusa di bestemmia. Per essa, dovette pagare il prezzo più caro: la morte violenta per mano delle autorità politiche e religiose, equiparato ai sediziosi e ai condannati della terra. La morte di Gesù appare, anziché un atto di sottomissione passiva ad una volontà divina tirannica e sanguinaria, il risultato della sua pratica liberatrice a favore dei diseredati del sistema dominante e contro i " signori " del mondo che si appellavano a Dio per legittimare il loro potere distruttore. La morte di Gesù illumina e dà senso alla sua vita.

Però, la morte sfocia, paradossalmente, nella risurrezione, come afferma il kèrigma primitivo e come attestarono, con fatti e con parole, i suoi discepoli. La vittima trionfa finalmente sui suoi carnefici. La vita vince la morte. L'ultimo nemico è sconfitto in Gesù, e questa sconfitta è la garanzia della risurrezione dei morti. Così, il Dio che risuscita Gesù si rivela come il Dio della vita e della giustizia (At 2, 23 ss; Rm 4,17.24).

In sintesi: la fede cristiana afferma che Gesù è il Cristo e che il Cristo è Gesù.

Bibl. - Boff L., Gesù Cristo liberatore, Ed. Cittadella, Assisi, 1974. Cremona C., Vita di Cristo, Ed. Rusconi, Milano, 1994. De Rosa G., Gesù di Nazaret. La vita, il messaggio, il mistero, Elle Di Ci, La Civiltà Cattolica, Torino-Roma, 1996. Duquoc Ch., Cristologia, Ed. Queriniana, Brescia, 1972. Forte B., Gesù di Nazareth, storia di Dio, Dio della storia, Ed. Paoline, Roma, . Kasper W., Gesù il Cristo, Ed. Queriniana, Brescia, . Pacomio L., Gesù. I 37 anni che venti secoli fa cambiarono il senso della storia e i nostri destini, Ed. Piemme, Casale M., 1996. Schillebeecks E., Gesù, la storia di un vivente, Ed. Queriniana, Brescia, 1976.

J.J. Tamayo

Gioventù. (inizio)

Il concetto di gioventù può essere considerato da diversi punti di vista. Intendiamo qui per gioventù, all'interno della cultura occidentale, una tappa di transizione dalla condizione sociale di fanciullo a quella di adulto.

Come periodo di tempo, va dalla pubertà fino al matrimonio o fino all'esercizio sociale di funzioni di adulto nella famiglia, nella politica o nella professione. Include, pertanto, non solo l'adolescenza fino ai 20 anni, ma anche l'età dai 20 ai 30 anni, chiamata età adulta precoce o età dell'adulto giovane.

Nell'età dell'adulto giovane, è finita la crescita, propria dell'adulto, ma non si è ancora compiuta la maturità della personalità. L'attività professionale e la costituzione di una famiglia renderanno più stabile la condotta dell'uomo. Questa età è caratterizzata da una grande vitalità e da una forte accentuazione dell'individualità. La tendenza ad imporsi spicca particolarmente nell'uomo. Desidera riuscire, salire socialmente, essere apprezzato ed influente.

A partire dai 20 anni, la vita è sentita con maggior realismo; i sentimenti perdono un po' del loro ardore. È questo un periodo molto positivo con molte possibilità di realizzazione.

La gioventù di oggi è molto sensibile al fenomeno del potere e rimane molto impressionata dal suo abuso. Questo spiega la condanna radicale della guerra e della corsa agli armamenti; sono approvati, invece, i movimenti pacifisti e l'obiezione di coscienza.

Anche l'autorità costituisce un problema: non è che venga respinta, ma è sperimentata in un modo diverso da come se la immaginano.

Esiste inoltre una insicurezza in questioni di etica sessuale. Essa ha un rapporto con l'insicurezza degli adulti e con la molteplicità di opinioni che la società pluralista suggerisce ai giovani.

Bibl. - Cavalli A. (ed altri), Giovani oggi, Ed. Il Mulino, Bologna, 1984. Milanesi G., " Giovanni ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 384-403. Idem, I giovani nella società complessa, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989. Scabini E. - Donati P. (edd.), La famiglia " lunga " del giovane adulto. Verso nuovi compiti evolutivi, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1988.

F.J. Calvo

Giurisdizione. (inizio)

Per Giurisdizione, si intende il potere pubblico concesso da Gesù alla Chiesa per reggere in fedeli affinché raggiungano il fine soprannaturale. Il Codice di Diritto Canonico lo chiama " potestà di governo ", ed anche " potestà di giurisdizione " (CIC, c. 129). " La potestà di governo si distingue in legislativa, esecutiva e giudiziale " (c. 135). Si puo ancora meglio parlare dell' "ufficio di santificare, di insegnare e di governare " secondo i tre poteri di Cristo: sacerdote, maestro e pastore (cf LG 21 e CIC, c. 204). Essendo Cristo uno, unico e indivisibile, la potestà pubblica, come partecipazione del suo potere, non può non essere, in fondo, unica e " sacra ", in quanto propria di un popolo sacerdotale, di una comunità di culto. Questa unica potestà sacra è di radice sacramentale e, praticamente, parte dai caratteri sacramentali, come una vera incorporazione attiva e impegnativa a Cristo, È una configurazione definitiva con lui e una partecipazione attiva ai suoi poteri. Se i caratteri sacramentali sono tre, in quanto sono tre i sacramenti che li imprimono, sono anche tre le specie giuridico-pastorali di potestà, tenendo presente, inoltre, il profondo vincolo intrinseco che esiste tra il battesimo e la confermazione e, d'altra parte, i tre gradi del sacramento dell'ordine, il diaconato, il presbiterato e l'episcopato.

La giurisdizione in quanto iuris-dictio appare storicamente vincolata in forma speciale alla potestà giudiziale, in quanto sono i giudici che dicono o dettano il diritto. Però, come i giudici devono attenersi alla legge e osservare tutto il principio della legalità, la giurisdizione applicata suppone una giurisdizione più ampia e fondamentale, che si svolge specialmente nel potere legislativo.

Tenendo presenti le chiarissime e desiderate conquiste del Vaticano II circa la sacramentalità specifica dell'episcopato e la collegialità episcopale, troviamo, partendo dai dati chiaramente rivelati, che la suprema potestà di giurisdizione, la pienezza di potestà pubblica, il massimo di costituzione pubblica, si trova, per volere di Cristo, nel Romano Pontefice in quanto successore di Pietro e in quanto capo visibile del collegio episcopale, successore del collegio apostolico. La tipizzazione chiara dei poteri del Romano Pontefice e dei vescovi in comunione reale e visibile con lui, manifesta il grado supremo di potestà giurisdizionale nella Chiesa (sul suo svolgimento concreto, cf Romano Pontefice e Collegialità episcopale). È bene, tuttavia, far notare chiaramente che la potestà radicale dei vescovi viene loro dalla stessa consacrazione, dal carattere sacramentale specifico, e che dal Romano Pontefice deriva solo l'esercizio ordinato e immediato di questa potestà in una parte determinata della Chiesa, data la divisione territoriale della Chiesa una ed unica. Il grado supremo di potestà del Romano Pontefice e del collegio episcopale spiega la forma pubblica tipica ed esclusiva di fare leggi, di insegnare e di stabilire i mezzi di santificazione, ricordando, però, che in ultima analisi, è lo Spirito Santo che santifica. Un grado inferiore, in quanto subordinato e tuttavia coordinato, è posseduto dai presbiteri: di qui, l'importanza fondamentale del presbitero, senza cui non è possibile praticamente cogliere la funzione episcopale nelle Chiese particolari. La potestà radicale di cui, per il loro carattere sacerdotale, sono potenzialmente rivestiti i presbiteri, è enorme. Però, riguardo al suo esercizio pratico e ordinato, appare un tantino limitata, a motivo del suo giusto coordinamente con il suo capo immediato, il vescovo. L'ordinamento giuridico di tutta la potestà sacra pastorale esige tutto il sistema di partecipazioni delegate, ecc., ed una vera precisazione teologico-giuridica. Questo è un tema importante e noi desideriamo che venga trattato dal prossimo concilio.

Le potestà delegate suppongono una capacità recettiva, una potestà radicale nei delegati. Questo comprende un invito prezioso affinché vengano tipizzate in concreto le potestà che derivano dal carattere del battesimo e della confermazione, per cogliere le potestà sacre dei laici, il loro straordinario ampliamento da parte del nuovo Codice, e le molte possibilità future, soprattutto per quanto concerne le donne, radicalmente sacerdoti e membri attivi del popolo sacerdotale, almeno a livello del battesimo e della confermazioni, tanto quanto gli uomini.

Se è chiara la funzione giurisdizionale nel sistema legislativo e perfino nei gradi maggiori dell'amministrazione pubblica, lo è anche nella potestà di santificare mediante i sacramenti come segni pubblici; e lo è anche nella potestà di insegnare nei suoi vari gradi.

La comprensione del difficile tema della giurisdizione esile che si parta dalla Chiesa come comunità sacerdotale di culto, come Popolo di Dio e Corpo di Cristo, per contemplare la sua vera organicità e per evitare il pericolo di una atomizzazione bizzarra ed oscura. Esige, inoltre, che si parta dall'uguaglianza fondamentale di tutti in quanto fedeli, in quanto laici, dal conseguimento di tutti i diritti fondamentali radicati nel carattere battesimale, e dalla funzione essenziale di servizio esercitato nelle potestà più dirette e radicate funzionalmente nella grazia capitale di Cristo mediante i caratteri dell'Ordine. Solo così è possibile giungere ad una vera armonizzazione dei vari ministeri, funzioni e carismi; solo così vengono rispettati i vari ambiti di libertà che provengono dallo Spirito " qui non alligatur " (che non è vincolato); solo così si coopera efficacemente, come vuole il vero diritto, al bene comune. Non c'è dubbio che il passo compiuto dal Vaticano II è stato molto grande, come anche dal Nuovo Codice. È altrettanto certo, però, che, a poco a poco, sotto la guida dello Spirito Santo, sotto la direzione e la garanzia del Romano Pontefice e del Collegio episcopale, si faranno in futuro ancora molti altri passi.

Bibl. - Chiappetta L., Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico pastorale, 2 voll., Ed. dehoniane, Napoli, 1988. Pinto P.V., Commento al Codice di Diritto Canonico, Roma, 1985.

L. Vela

Giustificazione. (inizio)

Nel suo significato teologico, la giustificazione è il procedimento con cui Dio, con l'opera del suo amore, ci rende " giusti ", il che vuol dire: ci rende partecipi della natura divina. In san Paolo, questo concetto viene particolarmente illustrato nella lettera ai Romani e in quella ai Galati. In queste lettere, san Paolo contrapppone la giustificazione annunciata e compiuta dal vangelo all'idea di una giustificazione di cui l'uomo stesso sarebbe autore, con le sue opere, grazie all'osservanza della legge. La giustificazione evangelica è gratuita, poiché proviene dalla giustizia di Dio; essa avviene in noi mediante la fede nel Dio giusto e giustificante. Tutto il capitolo 5 della Lettera ai Romani dimostra come la croce di Cristo sia il principio della nostra giustificazione, così come il peccato di Adamo è stato il principio del nostro peccato. Nel capitolo seguente, san Paolo espone il compito del battesimo e della fede nell'opera della giustificazione, in un contesto in cui risulta evidente che la grazia di Dio in Cristo, lungi dal dispensarci di vivere nella santità, la esige invece, poiché ci rende capaci di essa.

Dobbiamo credere, tuttavia, che una incomprensione di questa dottrina non fu una cosa da poco nella Chiesa primitiva: infatti, la lettera di san Giacomo insisterà sul fatto che una fede in cui uno pensasse di essere giustificato senza che ne seguissero opere buone, sarebbe una fede illusoria. Prendendo l'esempio di Abramo, già invocato da san Paolo, san Giacomo trae la conclusione che lo stesso Abramo, e tutti gli uomini, fu giustificato per le opere. Quantunque questa affermazione sembri contraddire la dottrina paolina, bisogna notare che:

1) le opere di cui parla san Giacomo sono proprio quelle che provengono dalla fede;

2) egli ne parla come di un " test " della fede veramente viva, opposta ad una fede morta, che sarebbe solo una credenza astratta e verbale.

Si comprende come la teologia posteriore, ed in particolare san Tommaso d'Aquino, non abbia dubitato a conservare, nonostante le espressioni di san Giacomo, l'affermazione per cui si può e si deve dire non solo che siamo giustificati mediante la fede, ma che lo siamo mediante la sola fede. Tuttavia, i protestanti, seguendo Lutero, per reazione contro le deviazioni reali della pietà del tempo che mettevano in pericolo, con la moltiplicazione di pratiche esteriori, il primato della fede, cominciarono ad interpretare erroneamente il compito unico della fede. Pensarono che per la giustificazione, non solo erano inutili le opere esteriori, ma che la giustificazione non aveva nulla a vedere col ristabilimento in noi di una santità effettiva. Specialmente sotto l'influsso del pensiero nominalista in cui era stato formato, Lutero separò il concetto secondo cui la grazia accettata mediante la fede è sovrana nell'opera della nostra salvezza, dal concetto, indubbiamente differente, secondo cui nessun cambio soggettivo è essenziale al giustificato per la giustificazione. Si tratta, allora, di una giustificazione estrinseca, come se il manto dei meriti di Cristo venisse a ricoprirci senza trasformarci. La grazia della giustificazione viene così ridotta ad una dichiarazione forense, che assolve il peccatore, ma non lo rigenera. Calvino si rese conto che quello non era il pensiero autentico di Paolo e, conservando in linea di principio la teoria luterana, dichiarò tuttavia inseparabile, quantunque distinta, una santificazione effettiva e l'intera vita del cristiano. Con questa divisione, corse il rischio di combinare un concetto puramente giuridico della giustificazione con un concetto almeno semipelagiano della santificazione, in cui l'attività dell'uomo sembra avere l'iniziativa in un modo più o meno autonomo. Lo stesso Calvino non accettò le conseguenze del suo sistema, che sfociò nelle varie forme di puritanesimo che si succedettero.

Contro queste posizioni protestanti, già sviluppate o comunque in germe, il Concilio di Trento, nella sesta sessione, espose una dottrina molto particolareggiata e precisa dei vari aspetti inerenti alla giustificazione. Fu respinta la dottrina della duplice giustificazione proposta da Seripando. Secondo questa teoria, una giustificazione estrinseca, per i soli meriti di Gesù Cristo, potrebbe accordarsi, come un complemento interiore, con una giustificazione soggettiva. Secondo una concezione più paolina, il Concilio di Trento affermò che c'è un'unica giustificazione, e che questa proviene tutta intera dai soli meriti di Cristo. Però, essa si realizza nella giustificazione effettiva che la grazia produce in noi, principio delle buone opere che saranno frutto di essa e, immediatamente, principio della carità, inseparabile dallo stato di grazia. Per illustrare questa sintesi, il Concilio si servì della distinzione, comune nelle scuole, tra i differenti tipi di causalità che agiscono in questo complesso. La giustificazione, concluse il Concilio, non è una semplice remissione dei peccati, ma una trasformazione profonda con cui l'uomo, arricchito dal dono di Dio e con una libera accettazione della grazia e del suo corteo di doni, è reso giusto, amico di Dio ed erede della vita eterna. Viene giustificato non con una semplice imputazione estrinseca dei meriti di Cristo, ma con una giustizia che gli è propria e che lo Spirito Santo infonde nei cuori secondo il suo volere e la libera cooperazione di ognuno.

Bibl. - Cereti G., " Giustificazione ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 368. Gozzelino G., Vocazione e destino dell'uomo. Saggio di antropologia teologica fondamentale (protologia), Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1985. Küng H., La giustificazione, Ed. Queriniana, Brescia, . Rondet H., La grazia di Cristo. Saggio di storia del dogma e di teologia dogmatica, Ed. Città Nuova, Roma, 1966.

E. Vilanova

Giustizia. (inizio)

Giustizia è un concetto centrale dell'etica e della filosofia del diritto, della vita politica e sociale e, oggi, anche della teologia e della vita cristiana. Consideriamo qui il rapporto che c'è fra giustizia e fede cristiana. Questo ci porta ad affrontare subito il suo significato nella Bibbia.

Nell'AT, i termini mispàt e sedaqà vengono tradotti comunemente con giustizia, ma non hanno un senso puramente legalista. I profeti di Israele fanno vedere come il ridurre la giustizia sul piano puramente legale porta diritti a favorire l'ingiustizia. Di qui, le loro continue denunce contro l'apparato giuridico-legale di cui si servono i potenti e le classi dominanti per opprimere i poveri e spogliarli dei loro diritti.

I profeti biblici non intendono la giustizia nel senso che assunse in seguito nella filosofia greco-romana, cioè, come la ferma e costante volontà di dare il suo ad ognuno (giustizia distributiva). I profeti insistono piuttosto sulla giustizia sociale considerata come difesa dei diritti di tutti gli esseri umani, e specialmente dei diritti dei più deboli della società (I. Mattuck).

Il fondamento di questo concetto di giustizia è radicato nella giustizia di Dio, cioè, nella sua fedeltà all'alleanza. Dio è giusto ed agisce nella storia con giustizia. L'Ebreo credente è convinto che Dio sorge a difendere quelli che sono oppressi dall'ingiustizia. Per questo egli si rivolge a Dio per chiedere giustizia. La conoscenza di Dio ha la sua traduzione più esatta nella pratica della giustizia. La giustizia di Dio significa anche la salvezza.

L'AT si riferisce anche alla giustizia dell'uomo, che non si riduce ad una sola dimensione della persona, ma abbraccia la totalità dell'essere umano e si riferisce all'atteggiamento etico fondamentale.

Nel NT, convertono i due significati veterotestamentari del termine giustizia: quello di salvezza concessa da Dio, che è il concetto teologico fondamentale, ampiamente svolto da san Paolo, e quello di condotta eticamente retta e buona.

San Paolo ricorre alla parola dikaiosýne per parlare della giustizia come giustificazione di fronte a Dio. Partendo da questo concetto, egli critica la sicurezza con cui gli Ebrei pretendevano di conseguire la giustizia mediante l'adempimento della lettera della Legge. È la fede che giustifica e che rende giusti gli uomini; non sono le opere della Legge, afferma san Paolo in un testo che è stato molto controverso nella storia della esegesi.

Gesù si colloca sulla scia dei profeti e smaschera l'immagine legalista che i farisei presentavano sulla giustizia, perché dietro a quella immagine si nascondevano menzogne e falsità.

Col passare dei secoli, il cristianesimo fece suo il concetto greco-romano sulla giustizia (dare ad ognuno il suo), cadde in una visuale legalista e travisò i punti fondamentali della tradizione biblica, soprattutto il concetto di giustizia come difesa dei diritti di quelli che ne vengono privati.

Oggi, è stato riscoperto il nesso indissolubile che unisce la fede con la giustizia. La lotta per la giustizia costituisce un'esigenza assoluta della fede. La conversione al Dio di Gesù comporta l'opzione per la giustizia. L'annuncio del vangelo, per essere credibile, deve essere accompagnato da gesti di solidarietà e di giustizia. La lotta per la giustizia è, in fin dei conti, il luogo privilegiato della rivelazione, l'elemento identificatore dell'essere di Dio ed il criterio di discernimento della vera esperienza di fede.

Bibl. - Alfaro J., Teologia della giustizia, Roma, 1973. Bonora A., " Giustizia ", in: Nuovo Dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 713-726. Fu_ek I., Giustizia alla luce della fece e dell'esperienza, Roma, 1989. Giovanni Paolo II, Enciclica Laborem exercens, 1981. Vella J., La giustizia forense di Dio, Ed. Paideia, Brescia, 1964.

J.J. Tamayo

Governo ecclesiastico. (inizio)

Si tratta qui di quella parte dell'azione pastorale della Chiesa che riguarda la direzione e il governo dei fedeli. Si distingue, pertanto, dagli altri due grandi settori del ministero ecclesiale: quello profetico, o comunicazione della Parola di Dio a tutti i livelli, e quello liturgico, o celebrazione dei misteri cristiani. Però, anche l'ufficio di governo è intimamente legato agli altri due, poiché, tutto sommato, esso non si propone altro che rendere più operative le due grandi missioni della Chiesa (insegnare e santificare) con l'intento di portare i fedeli al raggiungimento del fine ultimo della vita cristiana: la pratica effettiva della carità, come amore di Dio e servizio ai fratelli.

Il governo ecclesiastico comprende tutto ciò che si riferisce a quanto in termini giuridici si chiama anche potere ecclesiastico di giurisdizione, o potestà di governo (cf CIC c. 129 ss), ma non si esaurisce in esso. Si estende anche a tutte le attività pastorali (anche quelle che non sono strettamente giuridiche né esercitate da quanti hanno il potere di giurisdizione) che mirano ad organizzare meglio le comunità cristiane, a stabilire meccanismi operativi che ne aiutano il funzionamento, a costruire ponti di dialogo con la società umana per partecipare all'edificazione di un mondo più giusto e più umano... Non solo, ma l'esercizio puramente giuridico o potestà di governo, se non è penetrato da un profondo spirito pastorale, rischia di trasformarsi in dominio spirituale di tipo dispotico, contro il comando espresso del Signore: " Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi esercitano su di esse il potere. Tra voi non deve essere così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo " (Mt 20,25-27).

Un aspetto importante del governo ecclesiastico è quello di ammettere i laici ad esercitare funzioni veramente direttrici nel governo della Chiesa. Su questo punto, il nuovo CIC ha timidamente aperto le porte, ma si dovrebbe procedere con maggior celerità.

Bibl. - Acerbi A., Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella LG, Ed. dehoniane, Bologna, 1975. Congar Y., Ministeri e comunione ecclesiale, Ed. dehoniane, Bologna, 1973. Sartori L. (a cura di), (I) ministeri ecclesiali oggi, Ed. Borla, Roma, 1977.

J. Llopis

Grazia. (inizio)

La teologia della grazia è un esempio importante dello sviluppo dottrinale nella Chiesa: giunse piuttosto tardi a questo termine, anche se ha espresso fin dai suoi inizi realtà consapevolmente vissute. La parola gratia è la traduzione latina del greco kàris, termine già usato nella versione biblica dei LXX per tradurre l'ebraico hèn che significa esattamente il favore verso qualcuno. Generalmente, nell'AT, il favore di Dio verso i suoi eletti è accompagnato da una compassione quasi materna, e si manifesta nel suo amore misericordioso e poi nella sua fedeltà. Nel NT, il termine kàris, denso di tutti questi significati, è usato soprattutto da san Paolo per indicare il complesso della " economia " nuova instaurata da Cristo, sulla base del perdono elargito all'umanità peccatrice con la sua morte. Però, questo aspetto negativo è completato con un aspetto positivo inseparabile da esso: l'adozione che ci fa figli di Dio, in Cristo risorto, nello Spirito Santo.

Pochi temi teologici come quello della grazia hanno subito tanti danni per la zavorra delle dottrine eterodosse nel corso dei secoli. Infatti, in nessun altro tema troviamo tante dispute, condanne, eresie. Già questo manifesta l'importanza che per l'esperienza cristiana ha avuto la riflessione sulla grazia. Si pretese e si cercò di penetrare nel mistero con grande impegno personale. In fondo, si trattava della realtà più decisiva per l'esistenza umana, della sua salvezza o rovina.

Lo studio di queste dispute non può e non deve rimanere un campo esclusivo degli storici. È necessario scoprire e ricuperare la dimensione esistenziale soggiacente alle articolazioni teoriche, spesso astratte e di comprensione difficile per la mentalità di oggi. Per questo motivo, i teologi contemporanei non concentrano tanto la loro riflessione sul già conosciuto e meditato quanto sul riflettere e dire quello che, fondamentalmente, era in causa in ciò che era già pensato, saputo e detto dalla tradizione teologica. Quello che ieri era messo in questione, come lo è oggi e lo sarà sempre, è la presenza di Dio ed il suo amore nel mondo e la corrispondente esperienza di tutto ciò.

Il risultato dell'incontro di Dio con l'uomo è la bellezza, la gratuità e la bontà che si riflettono in tutta la creazione e, in un modo speciale, nel complesso della vita umana e della storia. La grazia significa la presenza di Dio nel mondo e nella storia.

Grazia significa anche apertura dell'uomo a Dio, capacità di entrare in rapporto con l'infinito e di stabilire un dialogo che conquista progressivamente l'umanità e la premia con la deificazione.

La grazia è sempre un incontro, in una autocomunicazione di Dio che si dà all'uomo, e dell'uomo che si dà a Dio. La grazia è, per sua natura, rottura di mondi chiusi su se stessi; è relazione, esodo, comunione, incontro e dialogo, apertura e uscita, storia di due libertà e incrocio di due amori.

Per questo, la grazia parla di riconciliazione tra il cielo e la terra, tra Dio e l'uomo, tra il tempo e l'eternità. La grazia è più che il tempo, più che l'uomo, più che la storia. È sempre questo più che ha luogo, in una gratitudine inattesa e insospettata.

Dio Padre si autorealizza incessantemente e per tutta l'eternità come mistero che si autocomunica come Figlio e come Spirito Santo. Creando il mondo, Dio prolunga la sua comunicazione e donazione in forme mondane. Dopo avere creato il mondo, Dio penetra più profondamente in esso con la sua inattesa sovrabbondanza di amore e di autodonazione, con l'incarnazione di Cristo Gesù: " Apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini " (Tt 3,4). Dio stesso può essere definito come " grazia ", perché è sempre comunicazione, amore e simpatia per quanti sono differenti da Lui. Non si tratta di una qualità di Dio, ma dell'essenza di Dio stesso. Dio non ha la grazia: è la grazia (L. Boff).

Bibl. - Beni A., " Grazia ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 593-606. Flick M. - Alszeghy Z., Il vangelo della grazia, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1964. Forte B., L'eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale, Ed. Paoline, Cinisello B., 1993. Rahner K., Saggi di antropologia sacramentale, Ed. Paoline, Roma, 1965. Sanna I., L'uomo via fondamentale della Chiesa, Ed. dehoniane, Bologna, .

E. Vilanova

Gruppo. (inizio)

Esistono molte definizioni di gruppo, quasi tante quanti sono gli studiosi che trattano questo tema. Qui, intendiamo per gruppo due o più persone che sono in interazione fra di loro. Questa interazione è rivolta ad un oggetto determinato che si vuole raggiungere con determinati mezzi, con il riconoscimento di determinate norme e con una divisione di ruoli. Si possono considerare vari gradi di intensità nell'interazione, da un grado di intensità massima nel matrimonio, fino al grado di intensità di un gruppo i cui membri si incontrano raramente. All'essenza del gruppo, corrisponde la coscienza del " noi ". Nella misura in cui questo è sentito, i membri del gruppo sono portati non solo a condividere le norme e gli obiettivi del gruppo, ma anche i suoi atteggiamenti, cioè, si pensa, si sente e si agisce al modo proprio del gruppo. Generalmente, l'individuo non conserva rigidamente nel gruppo le sue opinioni e i suoi comportamenti, ma cerca di adattarsi alle norme che in esso sono in vigore.

Però, non si deve esagerare su questo influsso del gruppo nel senso di un conformismo. Il gruppo può essere considerato come un mezzo di manipolare gli altri, ma può essere anche una salvaguardia contro l'influsso costante verso il conformismo a cui da tutte le parti è sottoposto l'individuo.

L'appartenenza ad un gruppo ci fa adottare modelli stereotipi, cioè, immagini tipo " cliché " che riassumono i sentimenti di un gruppo su un altro gruppo sotto la forma di un'opinione semplicista per nulla oggettiva.

Il gruppo mostra la tendenza alla coesione e alla interdipendenza, alla istituzionalizzazione e alla durata. Questa tendenza si scontra con forze opposte che generano le tensioni di gruppi. L'individuo diviene spesso dipendente dal gruppo per la necessità di essere riconosciuto, per essere accettato, o perché teme di rimanere isolato. Nei gruppi ideali, c'è un equilibrio tra la sociabilità (noi) e l'individualità (io).

I gruppi possono dividersi in primari e secondari. I gruppi primari sono sempre ridotti e si caratterizzano per i legami personali, affettivi, che si stabiliscono tra i membri. I gruppi secondari o organizzazioni, sono sistemi sociali che funzionano in quanto sono retti da istituzioni all'interno di un pezzo di realtà sociale. I rapporti fra gli individui sono spesso freddi, impersonali e formali.

È conveniente distinguere tra gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento. Un gruppo di appartenenza è quello in cui un individuo si trova fisicamente in un tempo determinato. Si chiama, invece, gruppo di riferimento quello con cui uno si sente identificato per i suoi valori e le sue norme, e questo in un modo più o meno consapevole, senza che sia necessaria la sua presenza fisica. Evidentemente, il gruppo di appartenenza può coincidere con quello di riferimento. Il fatto di orientarsi verso gruppi di riferimento estranei può dar luogo a frequenti conflitti all'interno del gruppo di appartenenza.

I gruppi religiosi, secondo A. Godin, presentano due pericoli:

Il primo è l'esaltazione affettiva che trasforma il gruppo in una sètta, con le sue caratteristiche di esoterismo del linguaggio, con un fervore poco discreto e con l'esigenza latente e tirannica di conformismo. Si fa del gruppo un idolo, in una esperienza accattivante, a cui si sacrifica spesso la libertà.

Il secondo pericolo è la dipendenza passiva, in cui l'idolo è il capo del gruppo. Tutti i metodi basati sull'ascendente personale del capo, nella dipendenza passiva dei membri, nel culto della personalità, non portano alla maturità delle forze psichiche dei membri del gruppo, allo sviluppo della libertà, condizione per una maturità religiosa.

Bibl. - De Vita R., Piccoli gruppi e società in trasformazione, Ed. Angeli, Milano, 1978. Fallico A., Gruppi ecclesiali e impegno politico, Ed. Marietti, Torino, 1976. Godin A., La vita di gruppo nella Chiesa, Pubblicazioni Religiose, Trento, 1971. Olmsted M., I gruppi sociali elementari, Ed. Il Mulino, Bologna, 1970. Tonelli R., " Gruppo ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 319-322.

F.J. Calvo

Icona. (inizio)

L'icona è una rappresentazione dipinta su legno, di Cristo, o di qualche suo mistero, di Maria o dei Santi, come si usa nella tradizione del cristianesimo orientale. L'arte delle icone sorse in tempi molto antichi, ma nei secoli VIII e IX fu combattuta dagli iconoclasti: questi ritenevano empia qualsiasi rappresentazione artistica di Dio o dei santi. Dopo il trionfo dell'ortodossia contro l'iconoclastia, la pittura delle icone raggiunse un grande splendore. Costantinopoli fu il centro più importante dell'arte iconografica fino al 1453, quando cadde l'impero bizantino. Dopo, l'importanza passò in altre scuole, come quella di Creta, e, fuori dalla Grecia, quella di Venezia e quella italo-bizantina. In quanto alle icone dipinte in territori slavi, spiccano le scuole di Kiev e di Novograd, come piu antiche, seguite dalle scuole di Suzdal, Pskov, Rostov, ecc. Verso la fine del secolo XIV, acquistò una grande importanza la scuola di Mosca, grazie all'impulso di Teofane il Greco e soprattutto di Andrea Roublev.

Nella tradizione orientale, l'icona è un oggetto liturgico che viene venerato, incensato e portato in processione durante le celebrazioni. La teologia ortodossa contempla l'icona in una prospettiva sacramentale: non solo è una immagine visibile di una realtà sacra, ma anche contiene sacramentalmente una presenza di questa stessa realtà. L'icona è una presenza dell'invisibile che scorga dalla stessa materialità dell'immagine. L'arte delle icone è sottoposta ad alcune regole precise che ubbidiscono a criteri più teologici che estetici, di modo che le forme, le proporzioni, i colori, sono impregnati di un simbolismo che orienta verso il mistero della fede. San Giovanni Damasceno, il teologo difensore delle icone, affermava che l'icona è una partecipazione del suo modello o prototipo. Non è però, una partecipazione puramente poetica o metaforica, ma propriamente ontologica e reale. C'è infine da notare che in Occidente, c'è da vario tempo un grande interesse, tanto artistico, quanto religioso, per le icone orientali.

Bibl. - Evdokimov P., La teologia della bellezza. L'arte dell'icona, Ed. Paoline, Roma, . Florenskij P., Le porte regali, saggio sull'icona, Ed. Adelphi, Milano, 1977. Gharib G., " Icone ", in: Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1985, pp. 670-679.

J. Llopis

Identità cristiana.

Identità cristiana è l'espressione con cui si cerca di determinare gli elementi che definiscono che cosa è cristiano e che cosa non lo è. Questa domanda è posta oggi più fortemente che in altre epoche. I motivi e le circostanze di questa attualità stanno nella situazione di pluralismo religioso, morale e ideologico che sono una caratteristica del nostro tempo. Connesso con questo motivo piuttosto esterno al cristianesimo, ce n'è un altro che tocca dall'interno la comunità cristiana e che nasce dalla crisi di un sistema di ortodossia e di ortoprassi. La confluenza delle due circostanze dà come risultato che l'identità costituisce per i credenti un vero problema.

Ciò non impedisce che ancor oggi numerosi settori cristiani, e principalmente le Chiese ufficiali, continuino ad autoidentificarsi secondo quella ortodossia che in peggio o in meglio si è voluta rinnovare in neo- ortodossia. Alla questione attuale dell'identità, si risponde, dunque, in primo luogo, con un tipo di soluzione ereditata dal passato. In particolare, la gerarchia ecclesiastica pensa di poter far fronte alla crisi di identità dei cristiani mediante il puro e semplice ricordo che questa identità è da sempre definita in alcuni dogmi, in alcuni sacramenti, in una moralità tipicamente cristiana. Rispondono, insomma, attribuendo la questione ad una perdita della fede vera e ortodossa.

D'altra parte, al di fuori dai circoli più ufficiali, il sistema di ortodossia è oggetto di critica, perché lo si ritiene imbevuto di essenzialismo, e si pensa che possa avere qualcosa come una sostanza specifica del cristianesimo immutabilmente soggiacente a tutti i suoi cambiamenti storici. La negazione di ogni essenza del cristianesimo e di ogni specificità autenticamente sua, indipendentemente dallo spazio e dal tempo, dà luogo ad altri tipi di risposta. Per questi non si tratta tanto di indicare una oggettività delimitata, come quella di dire che nella " sequela " di Gesù e nel " conformarsi " a Lui, sta il cammino per conseguire l'identità cristiana.

In questo modo, l'identità non è definita semplicemente in funzione di norme esterne, come il battesimo ricevuto, o l'ortodossia accettata (che determinano l'appartenenza alla Chiesa), ma in forza di un intuito di fede in stato di ricerca. Cessa di essere una realtà statica, per essere qualcosa di dinamico. In ultima analisi, il credente che vive di fede può servirsi della mediazione di Cristo e della Chiesa in un modo diverso, a seconda dell'esigenza del suo incontro con Cristo, mai raggiunto in pienezza. Il tema sfocia in quello dell'unità e del pluralismo: riconoscere l'identità cristiana chiede che si riconoscano varie identità.

La diversità di vocazioni umane non impedisce all'uomo di obbedire ad una definizione unica; la diversità di percezioni di Cristo non impedisce a Cristo di essere unico. Però, che cos'è l'uomo? che cos'è Cristo? C'è una definizione astratta, atemporale, a cui ci si debba legare? O invece ogni generazione nella storia, ogni gruppo nello spazio, è invitato a dire qualcosa di più sull'uomo, a far conoscere un nuovo aspetto di Cristo? Siamo condannati alla passività dinanzi una forma verbale del Credo, o siamo cellule che arricchiscono il tessuto di questo Credo che si svolge nel tempo? Questi sono problemi che si pongono quei credenti che cercano l'originalità della fede cristiana, per definire la propria identità. Col desiderio di illustrare un po' questi interrogativi, si può concludere con queste osservazioni:

a) La rivelazione teorica sulla sorte dell'uomo fonda l'aspetto pratico di questa rivelazione, poiché, secondo Cristo, il cammino del Regno è l'amore liberamente vissuto, in quanto è amore.

b) In questo amore, si manifesta l'essenziale del messaggio di Cristo: il cammino della trascendenza è un cammino terrestre; l'amore che realizza il comandamento del Padre e che conduce al Regno è l'amore per l'uomo.

c) Questa complementarietà tra l'amore di Dio e l'amore del prossimo, tra l'aspetto teorico e quello pratico della rivelazione, dà realmente alla coscienza del credente lo statuto di " figlio di Dio ". Di qui, consegue l'esistenza stessa, sempre plurale, percepita come liberata dalla rivelazione dell'amore.

Nessuna meraviglia, dunque, che l'identità cristiana conosca molte espressioni e ammetta un ritmo progressivo e tendenziale verso una configurazione, ogni giorno più matura, alla persona di Cristo.

Bibl. - Balthasar H.U. von, Chi è il cristiano?, Ed. Queriniana, Brescia, 1965. Boros L., Esistenza redenta, Ed. Queriniana, Brescia, l966. De Dietrich S., Il piano di Dio, Ed. Borla, Torino, 1963. Rey B., Creati in Cristo, Ed. AVE, Roma, 1970. Mongillo D., " Esistenza cristiana ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 411-447.

E. Vilanova

Ideologia. (inizio)

Il termine ideologia fu usato per la prima volta dal filosofo francese sensista Antoine Destutt de Tracy, nei suoi Eléments d'idéologie (5 voll.), 1801-1807. Egli intendeva per ideologia la scienza delle idee che intende cogliere il suo aspetto, veritiero o falso, analizzando il processo reale della mente. La parola non tardò a divenire popolare. Però, abbandonò il suo significato originale e venne a designare il complesso strutturato di idee sulla società, sul mondo e sull'uomo, che caratterizzano un individuo o un gruppo. In questa accezione, ideologia è praticamente sinonimo di visione del cosmo.

Mezzo secolo fa, i positivisti che appartenevano al Circolo di Vienna, negavano, come si sa, qualsiasi valore alle affermazioni che non potevano essere verificate empiricamente sullo stile delle scienze fisiche. Ora, essi attaccarono senza pietà e in blocco tutte le ideologie. Secondo loro, un'ideologia non è né vera né falsa, ma è ancora peggiore: è qualcosa che manca di senso. Oggi, dopo che gli stessi filosofi della scienza hanno riconosciuto che la razionalità scientifica è solo in grado di cogliere una dimensione della realtà, e non la più importante per l'essere umano, possiamo dire che le ideologie si muovono in questa ampia zona del razionale, del difendibile, e, tuttavia, non dimostrabile.

Ultimamente, le ideologie sono state attaccate da un altro gruppo di studiosi i quali affermano che è tramontato il tempo delle ideologie.

Il dibattito iniziò con Daniel Bell nel 1960 col suo libro La fine delle ideologie. Questi studiosi sostengono che i problemi del secolo XX sono puramente tecnici e non hanno bisogno di ideologi, ma di esperti. A nostro parere, essi confondono quello che potrebbe essere una tendenza verso la omogeneizzazione ideologica nelle società industriali avanzate con la assenza di ideologia. Quello che è sorto, e che essi difendono, è una ideologia ufficiale del pragmatismo che celebra lo status quo.

Nella tradizione marxista, la parola ideologia ha un significato peggiorativo che equivale a coscienza erronea e deformata della realtà. Secondo Marx, gli uomini credono ingenuamente che la società sia apposto perché risponde al loro modo di pensare, e non si rendono conto che proprio il loro modo di pensare è alimentato da ciò che di fatto è la società. Come scrisse nel 1859, " non è la coscienza degli uomini che determina la società: è invece la realtà sociale che determina la loro coscienza ". Così, dunque, in qualsiasi società, c'è una " nebbia ideologica " (Paul Baran) che non permette di vedere le ingiustizie. Nel sistema di Marx, la missione della scienza è di trafiggere la " nebbia ideologica " e mettere allo scoperto la realtà. " L'oppressione, diceva, va resa ancora più pesante aggiungendole la coscienza di questa oppressione ".

Il cristianesimo è una ideologia? Se intendiamo ideologia come sinonimo di visione del mondo, possiamo rispondere di sì. Se invece la intendiamo nel senso che le dava Marx, dobbiamo dire che il cristianesimo autentico non è ideologico, ma che non poche manifestazioni storiche hanno funzionato e continuano a funzionare come ideologie.

Bibl. - Mancini I., Teologia ideologia utopia, Ed. Queriniana, Brescia, 1974. Marx K., Opere giovanili, Ed. Riuniti, Roma, 1963. Metz J.B., La fede, nella storia e nella società, Ed. Queriniana, Brescia, 1978. Montani M., " Ideologia ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 442-450. Mounier E., Rivoluzione personalista e comunitaria, Ed. Comunità, Milano, 1955. Ricoeur P., Tradizione o alternativa, Ed. Morcelliana, Brescia, 1980. Topitsch E., A che serve l'ideologia, Ed. Laterza, Bari, 1975.

L. González-Carvajal

Idolatria. (inizio)

L'idolatria può essere intesa in due modi:

1) l'adorazione di un essere creato (angelo, uomo, pianta, pietra);

2) o la venerazione di queste realtà in quanto sedi o simboli della divinità.

Nell'AT, il popolo d'Israele è caduto raramente nella prima forma di idolatria, mentre ciò è avvenuto spesso con la seconda. Così, per esempio, l'AT ci parla di certe immagini che appaiono nella decorazione delle pareti interne del tempio di Gerusalemme. Il libro dei Re ci dà solo alcuni particolari, mentre Ezechiele, nella sua visione, è più esplicito e descrive accuratamente questa decorazione. Più tardi, però, la religione d'Israele giunse ad un livello tale di purificazione da proibire qualsiasi tipo di immagini, non solo di animali, piante e cose, ma dello stesso Dio unico: " Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti mostrerai davanti a loro e non li servirai " (Es 20,4-5).

Dell'" immagine di Dio " ci parla solo Gn 1,26-27. Gli altri due passi (Gn 5,1; 9,6) dipendono strettamente da Gn 1,26-27. Il racconto sacerdotale della creazione è l'unico il quale ci dice che Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza. In nessun'altra parte dell'AT troviamo questa affermazione, ma gli scrittori ebrei posteriori hanno scritto molto per chiarire la portata dell'espressione. Gli autori cristiani sono andati ancora più avanti. Presa nel senso che le dà il Genesi, l'espessione intende sottolineare l'analogia fisica tra la divinità e l'uomo, ma sottolinea anche l'opposizione radicale che esiste tra l'uomo e gli animali. E questo è in contrasto formale con molte altre religioni che, come in Egitto, davano alla divinità una forma animalesca o semianimalesca. Inoltre, se viene sottolineata l'analogia tra l'uomo e Dio, viene anche affermata la distanza che li separa. L'uomo non è come Dio: è soltanto " a sua immagine e somiglianza ". Tra l'uomo e Dio, c'è una gradazione di divinità. Solo Dio è da una parte; l'uomo è dall'altra.

Gesù, seguendo rigorosamente la tradizione ebraica, condannò radicalmente l'idolatria. Però, dalla dottrina evangelica si ricava che la tentazione di idolatria per il cristiano di oggi non si manifesta nel culto a statue di pietra, di legno o di oro (quantunque la devozione popolare per le immagini si possa prestare facilmente al rimprovero di idolatria), ma in forme più sottili. Il famoso " Documento di Puebla " (p. 491) parla, a questo riguardo, della ricchezza, del potere, del sesso, considerati come valori assoluti per l'uomo d'oggi. A questi nuovi dèi, viene tributato un vero culto: per loro, si sacrifica tutto, perfino la stessa persona umana, la propria dignità, i propri diritti fondamentali. Il dominio di questi nuovi dèi sembra allargarsi sempre di più, rendendo schiavi gli uomini del nostro tempo. Bisogna liberare radicalmente l'uomo d'oggi da ogni forma di idolatria, " perché l'adorazione di ciò che non è adorabile e l'assolutizzazione del relativo porta alla violazione di quello che c'è di più intimo nella persona umana: le sue relazioni con Dio e la sua relazione personale " (Doc. Puebla, p. 491). Sono due specie di culto incompatibili tra di loro: o Dio, o gli idoli, che in molti casi sono i beni, la ricchezza, il potere e lo sfruttamento dell'uomo da parte di un altro uomo.

Un agnostico come Erich Fromm riconosce espressamente che se l'idolo è la manifestazione alienata dei propri poteri dell'uomo, e se il modo con cui è in contatto con questi poteri è una adesione di sottomissione all'idolo, ne consegue che l'idolatria è necessariamente incompatibile con la libertà e con l'indipendenza. Ripetutamente i profeti caratterizzano l'idolatria come un autocastigo e una autoumiliazione, mentre l'adorazione di Dio è una autoliberazione e una liberazione di altri.

Così si spiega come, nonostante il motto di Bakunìn (" Né Dio né padroni "), oggi è più che mai urgente smascherare l'idolologia. La " scienza degli idoli " deve mostrare la natura degli idoli e dell'idolatria e deve identificare i vari idoli così come sono stati adorati dall'uomo lungo la storia, fino al giorno d'oggi. Oggi, gli idoli si chiamano: onore, bandiera, Stato, moda, fama, produzione, consumo e molti altri nomi. Però, siccome l'oggetto ufficiale della venerazione è Dio, gli idoli di oggi non si riconoscono per quello che sono: oggetti reali della venerazione dell'uomo. Per questo, abbiamo bisogno di una " idolologia " che si proponga di esaminare gli idoli effettivi di qualsiasi tempo, il tipo di venerazione che è stato loro tributato, i sacrifici che l'uomo ha offerto ad essi, in che modo si sono sincretizzati con la venerazione di Dio, in che modo Dio stesso è stato trasformato in uno degli idoli (di fatto, ciò è frequente): nell'idolo supremo che impartisce la sua benedizione sugli altri idoli. Esiste proprio una grande differenza, come pensiamo, tra i sacrifici umani che gli Aztechi offrivano ai loro dèi e quelli che gli uomini d'oggi offrono, nella guerra, agli idoli del nazionalismo e dello Stato sovrano?

Infine, non possiamo dimenticare che la cosiddetta " religiosità popolare " è spesso aggrappata ad una sequela di immagini di Cristo, di Maria e dei Santi che facilmente può essere intaccata di idolatria, considerando il comportamento dei suoi fedeli.

Bibl. - Beni A., " Idolatria ", in: Enciclopedia Filosofica, II, Venezia-Roma, 1957, coll. 1225. Fries H., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1987, pp. 227 ss. Haag H. Dizionario biblico, Ed. SEI Torino, 1960, pp. 499-500. Sette G., " Idolatria ", in: Enciclopedia Cattolica, VI, Città del Vaticano, 1950, coll. 1578-1580. Wiéner C., " Idoli ", in: X. Léon-Dufour (dir.), Dizionario di teologia biblica, Ed. Marietti, Casale M., , coll. 531-534.

J.M. González Ruiz

Immagine. (inizio)

L'immagine è una rappresentazione, specialmente scultoria, di Gesù Cristo, di Maria o dei Santi, destinata a ricevere un culto di venerazione speciale da parte dei fedeli.

Il culto delle immagini non ha avuto in tutti i tempi lo stesso significato e la stessa importanza. Non si sa con certezza quando cominciò nella Chiesa l'uso delle immagini sacre. Comunque, nei secoli VIII e IX ci fu una lotta contro questo culto da parte degli " iconoclasti ". Questi, appellandosi a norme dell'AT, condannavano le immagini per il pericolo che comportavano di cadere nell'idolatria. Tuttavia, si impose la convinzione della legittimità di venerare le immagini. Questo proviene, in ultima analisi, da una caratteristica irrinunciabile del cristianesimo: l'incarnazione dell'invisibile nel visibile, posta nel massimo rilievo nell'umanità di Cristo, " immagine " del Padre. La Riforma protestante fu anch'essa reticente sull'uso delle immagini. Il Concilio di Trento (sessione XXV) stabilì: " Si conservino, specialmente nei templi, le immagini di Cristo, della Beata Vergine Maria e degli altri Santi. Venga tributato ad essi il dovuto onore e la venerazione, non perché si creda che ci sia in esse una qualche divinità o potenza, non perché si chieda qualcosa ad esse, o si riponga in esse una fiducia, come facevano una volta i pagani che riponevano la loro fiducia negli idoli (cf Sal 134,151ss). L'onore che si dà alle immagini si riferisce a coloro che esse rappresentano. Così, per mezzo delle immagini che baciamo e davanti alle quali ci scopriamo il capo e ci prostriamo, adoriamo Cristo e veneriamo i santi la cui effigie è rappresentata sulle immagini " (DS 9861823).

Non sempre il popolo cristiano ha saputo conservare un atteggiamento corretto circa la venerazione delle immagini: è caduto in deviazioni a cui allude il Concilio di Trento. Per parte sua, il Concilio Vaticano II ha dato alcuni orientamenti che sono stati riportati alla lettera dal CIC: " Sia mantenuta la prassi di esporre nelle chiese le sacre immagini alla venerazione dei fedeli; tuttavia siano esposte in numero moderato e con un conveniente ordine, affinché non suscitino la meraviglia del popolo cristiano e non diano ansa a devozione meno retta " (c. 1188; cf SC 125).

Bibl. - Aldazábal J., Simboli e gesti. Significato antropologico biblico e liturgico, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1988. Evdokimov P.N., Teologia della bellezza. L'arte dell'icona, Ed. Paoline, Roma, 1981; Lazzati G., Immagini e ragione nell'età dei mass-media, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1983. Lever F., " Immagine ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 337-339.

J. Llopis

Immanenza. (inizio)

I concetti di immanenza e di trascendenza sono correlativi. Quando non si ammette una certa dualità tra il pensiero e il pensato (immanentismo gnoseologico) o tra il cosmo e Dio (immanentismo agnostico, se si misconosce, o ateo se si nega la realtà trascendente), allora l'immanenza si assolutizza ed il mondo viene concepito come un tutto chiuso. La filosofia moderna, specialmente quella cosiddetta filosofia analitica, tede a negare tutto ciò che è fuori dall'esperienza possibile (in senso kantiano, significa: spazio-temporale, riducibile a comprensione fisico-matematica). Ciò che non è osservabile, sperimentabile con metodo empirico-positivo, non è reale. Questo riduzionismo non è un dato scientifico, ma un presupposto dell'ordine delle " credenze ". Non appartiene alla " scienza ", ma alla " visione del cosmo ". La discussione tra il credente e l'agnostico non si può risolvere sul piano della scienza in senso stretto. C'è qui un invito alla comprensione e al rispetto reciproco che ci viene dalla stessa realtà.

La concezione evoluzionista del cosmo comporta una visione immanente dello stesso cosmo, a differenza della concezione " creazionista ", che fa intervenire l'azione creatrice di Dio all'origine e nella diversificazione delle specie. Questo immanentismo è " storico ", non " metafisico ". P. Teilhard de Chardin lavorò per costruire una teologia che partisse positivamente dalla concezione evolutiva della realtà cosmica. Inserita in essa, c'è una mistica cristologica che contempla Cristo come il " punto Omèga ", verso cui si dirige dinamicamente il cosmo. C'è una analogia tra l'intuizione teologica di Teilhard e quella di Origene, con la sua speranza di una promozione finale di tutto l'universo nella sua pienezza (apokatàstasis). Anche sant 'Agostino, ispirandosi agli Stoici, compresi di un senso profondo della radicalità dell'agire divino, concepiva una immanenza dei prototipi germinali (rationes seminales, lòghoi spèrmatikoi) che si sviluppavano per l'evoluzione cosmica. Nel sorgere dell'universo immanente, c'è già genotipicamente tutta la sua fecondità. Dio è all'origine e al termine, ma anche nel processo stesso. La sua trascendenza non è aliena né estranea, ma è nel centro più profondo dell'immanenza. Creaturalità e immanenza non si oppongono, ma si coniugano, perché Dio non " agisce " in modo artificioso o tecnico, ma è il fondamento per una creatività senza frontiere.

Diverso dall'immanentismo " metafisico ", è il metodo di immanenza, propugnato a suo tempo da Maurice Blondel (L'action, 1891; Parigi, ) con un intento apologetico, ma di ampio respiro. Questo metodo intendeva svelare tutti i dinamismi dell'esistenza umana, per comprendere ciò che in profondità essa rinchiude e discopre. Se, nel lato immanente dell'uomo, non ci fosse qualcosa del lato trascendente di Dio, la trascendenza non potrebbe significare nulla per l'uomo. Dio è nell'uomo; è " altro " ma, rimanendo in se stesso, si trova all'interno di un essere differente. Il trascendente divino è qualcosa che corrisponde significativamente a quello che l'essere umano porta in sé e manifesta nella sua " azione " (intesa e analizzata da Blondel in un senso molto comprensivo, in cui si esprime ed è impegnato tutto l'uomo). Blondel fu accusato di negare la gratuità soprannaturale del dono di Dio, ma da una teologia essenzialista che non teneva presenti gli aspetti esistenziali della realtà umana storicamente costituita. Il punto di vista di Blondel era dinamico: la realtà trascendente di Dio corrisponde ad una chiamata interiore dell'uomo, come complemento di un dono iniziale e stimolante; l'abbraccio di Dio è la soddisfazione di una necessità infusa, esistenziale. K. Rahner riuscì a chiarire questi temi.

La religiosità cinese rappresenta, invece, secondo R. Panikkar, la massima autocoscienza di una " immanenza immanente ", secolare, di accettazione della condizione umana e di servizio all'ordine mondiale. La suprema esperienza è quella del saggio che conosce pienamente gli angoli e le profondità del cuore umano e si immerge nella situazione mondana senza trascenderla nemmeno in modo negativo.

La spiritualità secolare moderna, in alcune sue forme, potrebbe essere addotta come esempio di un atteggiamento del genere. Nel concreto, trova l'universale e l'immanente; nel dato di fatto, tutto ciò che è necessario.

Bibl. - Jolivet R., Corso di filosofia, Ed. Paoline, Roma, 1966. Metz J.B., Sulla teologia del mondo, Ed. Queriniana, Brescia, 1969. Rahner K., Saggi teologici, Ed. Paoline, Roma, 1965. Teilhard de Chardin P., L'inno dell'universo, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1972. Verweyen H., Immanenza (metodo di), in: Dizionario di Teologia Fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 570-575.

J.M. Díez-Alegría

Immortalità. (inizio)

La vita oltre la morte costituisce, senza alcun dubbio, uno dei problemi più complessi e più controversi, non solo per i teologi, ma anche per i pensatori e per i filosofi. Autori come Camus, Rilke e Kazantzakis hanno attaccato con forza e durezza la credenza cristiana nella vita dopo la morte, sostenendo che non è altro che un tradimento alla fedeltà che ogni uomo deve alla terra. Nietzsche faceva notare che tutti i mondi futuri erano una creazione della sofferenza e dell'incapacità. Altri autori, come Garaudy e Bloch, sembrano invece muoversi nel polo opposto, in quanto affermano la possibilità di un trionfo dell'uomo sulla morte.

Per i cristiani, la vita dopo la morte è un dato incontestabile, ampiamente presente nella rivelazione e nella tradizione. Però, quando si ammette questo, si pone la domanda: qual è la forma precisa della speranza cristiana dopo la morte? Oppure, concentrandoci direttamente sul tema che ci occupa qui: la credenza nell'immortalità dell'anima è parte genuina della speranza cristiana? Ciò infatti su cui non c'è alcun dubbio è il fatto che questa credenza è riuscita ad occupare un posto molto importante nella teologia, nella catechesi, nella predicazione e nella vita cristiana. Lo ricordava molto bene il teologo protestante O. Cullmann all'inizio del suo libro polemico: " Immortalità dell'anima o risurrezione dei morti? ": " Rivolgete ad un cristiano, protestante o cattolico, intellettuale o meno, la seguente domanda: Che cosa insegna il Nuovo Testamento sulla sorte singola dell'uomo dopo la morte? Fatta qualche rara eccezione, riceverete sempre la stessa risposta: l'immortalità dell'anima ".

E tuttavia, la dottrina dell'immortalità dell'anima disincarnata non sembra rispondere all'antropologia propriamente biblica, né alla concezione escatologica vetero e neotestamentaria: è piuttosto affine all'antropologia dualista di Platone e al concetto che questi ha della sorte dell'uomo dopo la morte.

La visuale giudeo-cristiana dell'uomo è unitaria, non dicotomica. L'essere umano è visto nel pensiero ebraico veterotestamentario e negli scritti del NT come una unità di potenza vitale, in cui non è possibile stabilire differenze essenziali tra i processi dell'anima e quelli del corpo. Non c'è posto per il disprezzo del corpo, né per la supervalutazione dell'anima. Secondo questa visuale, la salvezza escatologica non consiste nella salvezza dell'anima, ma nella risurrezione dei morti.

Platone, seguendo la tradizione pitagorica, distingue nell'uomo due elementi o princìpi contrapposti: l'anima, che è spirituale e, pertanto, immortale e imperitura per natura; il corpo, che proviene dalla terra e che è perituro. In questa antropologia, viene stabilita una superiorità dell'anima rispetto al corpo. Questo appare come una specie di prigione o di sepolcro (soma-sema, cioè, corpo = tomba, secondo la scuola pitagorica) in cui vive l'anima imprigionata. Il corpo è la causa dell'errore e del male; è la sede dei bassi appetiti. Gli organi dei sensi sono inferriate e carceri in cui l'anima si trova rinchiusa. Essa è chiamata a vivere in un mondo puro. Di qui, l'aspirazione del filosofo, e di ogni uomo, a liberarsi totalmente dalla prigione del corpo. Questo succede nell'istante stesso della morte, che è il momento più felice dell'essere umano.

L'esempio più chiaro e lampante che conferma la dottrina platonica dualista è l'atteggiamento di Socrate di fronte alla morte. Il filosofo e pedagogo greco andò incontro alla morte, la " grande amica dell'anima ", gioiosamente e con grande serenità d'animo: egli sapeva che, dopo la morte, l'anima ritorna al suo stato naturale, che è il mondo delle idee pure, e lì, trova la sua felicità.

Questa dottrina penetrò, lentamente ma fermamente, nel giudaismo durante il periodo ellenista, nello stesso tempo in cui cominciava a prendere forma e ad affermarsi tra gli Ebrei la fede nella risurrezione. Mentre il libro di Daniele, che si muove nella prospettiva dell'antropologia semita, afferma per la prima volta ed in modo esplicito la risurrezione dei morti, il libro della Sapienza, scritto nello stesso tempo, propone la dottrina dell'immortalità come risposta al problema della sopravvivenza post mortem, sotto l'influsso platonico. Leggiamo in Sap 9,15: " Perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla grava la mente dai molti pensieri ". Questo testo ha una grande somiglianza ideologica col seguente paragrafo del Fedone di Platone: " Ah, caro amico, bisogna convincersi che questo elemento carnale è plumbeo, greve, terrigno, visibile: averlo in sé, per un'anima di quel genere, significa farsi di piombo, affondare nuovamente nello spazio visibile... " (XXIX).

Tuttavia, anche quando il libro della Sapienza parla dell'immortalità dell'anima, non lo fa sullo stile della filosofia greca, cioè, non la ritiene una conseguenza naturale della sua immaterialità. L'autore non sostiene l'idea di un'anima immortale per natura, perché, fedele al messaggio veterotestamentario, egli sa che l'immortalità va ritenuta un dono di Dio.

L'antropologia dicotomica greca, col suo concetto di immortalità, guadagnò terreno anche nel cristianesimo, fino a relegare in secondo piano la risposta genuinamente cristiana al problema della morte: la risurrezione dei morti. Ciò ha dato luogo ad una visione a-storica, a-cosmica, a-corporea e puramente spiritualista della salvezza, e ad una concezione peggiorativa del corpo e del mondo. Questa mentalità si era radicata così profondamente che i seguaci di Gesù di Nazaret hanno adottato spesso un atteggiamento cinico di disinteresse per le realtà temporali. Ora, un atteggiamento del genere è agli antipodi dell'antropologia cristiana e della concezione biblica circa la salvezza. L'uomo è una unità, e la salvezza raggiunge tutto l'uomo, come ricorda bene il Concilio Vaticano I nella Costituzione Gaudium et Spes. D'altra parte, questi concetti dell'uomo e della salvezza ci sono già presentati da san Tommaso d'Aquino. Purtroppo, col passare del tempo, si sono deteriorati fino a cadere in un larvato manicheismo.

Se è vero che il Concilio Lateranense V definì l'immortalità del principio spirituale dell'essere umano, questa immortalità non appare, però, come la forma definitiva dell'esistenza umana, come era invece nel pensiero platonico: è soltanto " la condizione per rendere possibile la risurrezione " (Ruiz de la Peña).

Bibl. - Bof G., " Immortalità ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 607-621. Cullmann O., Immortalità dell'anima o resurrezione dei morti?, Ed. Paideia, Brescia, . Gozzelino G., Nell'attesa della beata speranza. Saggio di escatologia cristiana, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1993. Panteghini G., L'orizzonte speranza. Lineamenti di escatologia cristiana, Ed. Messaggero, Padova, 1991. Pozo C., Teologia dell'aldilà, Ed. Paoline, . Rudoni A., Escatologia, Ed. Marietti, Torino, 1972. Ruiz de la Peña J.L., L'altra dimensione. Escatologia cristiana, Ed. Borla, Roma, 1981.

J.J. Tamayo

Impegno. (inizio)

Si intende qui la sollecitudine che uno mette per svolgere un determinato compito. Si parla, per esempio, di impegno cristiano o di cristiani impegnati quando si valuta in un modo nuovo la presenza dei credenti nella società e si mettono in risalto le esigenze sociali della fede. Si trova questo termine anche nel campo dell'apostolato dei laici che assumono la consapevolezza di essere membri attivi della Chiesa. Si usa, inoltre, per parlare dei cristiani impegnati nel settore della politica. Di fatto, si comincia col parlare di impegno temporale, poi, di impegno nel campo socio- politico, ed infine, di impegno politico senza altra specificazione.

L'impegno non è il semplice lavoro professionale, ma comporta doveri personali o collettivi, liberamente accettati, dopo seria riflessione, partendo da alcuni imperativi etici, per aiutare gli altri, soprattutto i bisognosi, quando la società è carente di qualcosa di fondamentale rispetto alla giustizia o alla libertà. Impegnarsi equivale a lottare per un cambiamento politico o religioso importante, in una situazione di dipendenza o di oppressione. Di solito, chi si impegna difende i diritti umani e opta a favore dei poveri e degli oppressi; sta dalla parte dei deboli. Non basta impegnarsi a parole, ma è necessario agire, in modo concreto e vincolante, disciplinato e organizzato, inseriti in un progetto o piano.

L'impegno dei cristiani è giustificato teologicamente dalla concezione biblica del " Dio con noi ", che si impegna per la liberazione e la salvezza del suo popolo, e questo popolo comprende tutta l'umanità.

Questa concezione di Dio si fa presenza e realtà totale in Gesù Cristo, che si è impegnato fino a dare la sua vita. La comunità dei credenti è il gruppo dei cristiani impegnati per la causa di Gesù: il Regno di Dio. È un impegno che comporta la fratellanza di tutti, il servizio ai bisognosi, la responsabilità e la solidarietà.

Purtroppo, alle volte, la fede è stata intesa senza alcun impegno (come qualcosa di rituale). Oggi, la fede è accettata generosamente come causa o movente dell'impegno. Naturalmente, esiste anche l'impegno senza la fede. Occorre che la fede sia intesa come impegno perché è conversione. L'impegno dei cristiani deve essere una dimensione esplicita della fede. In ultima analisi, l'impegno, inteso in senso cristiano, è una esigenza ineluttabile della fede.

Bibl. - Borghino G., I laici nella Chiesa, esigenza storica del loro impegno apostolico, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1966. Flick M., Costruttori del mondo e pellegrini nel mondo, in: " La Civilità Cattolica ", 116 (1965), I, 218-227. Frosini G., Teologia delle realtà terrestri, Ed. Marietti, Torino, 1971. Rahner K., Misssione e grazia, Ed. Paoline, Roma, 1964. Thils G., Teologia delle realtà terrestri, 2 voll., Roma, 1951.

C. Floristán

Incarnazione. (inizio)

La parola incarnazione è un'espressione teologica che proviene da Gv 1,14: " E il Verbo si è fatto uomo (greco: sàrx eghèneto: si è fatto carne, si è incarnato)ed è venuto ad abitare in mezzo a noi ". Nel linguaggio biblico, carne equivale alla nostra espressione di oggi: condizione umana, ossia, la natura umana, ma sottolineando quello che essa ha di fragile e addirittura di peccaminoso. In Eb 4,15, si legge: " Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli e stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato ". D'altra parte, san Paolo afferma: " Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo costituì peccato in nostro favore, perché per mezzo di lui noi potessimo diventare giustizia di Dio " (2 Cor 5,21). Ciò vuol dire: non si tratta minimamente di intaccare la santità originale di Gesù, ma il suo " annientamento " (kènosis: Fil 2,7) lo porto ad assumere su di sé le conseguenze dello stesso peccato.

L'incarnazione deriva da due dati previ ed irrinunciabili: Gesù è un uomo completo e reale, ma, nello stesso tempo, è il Figlio di Dio nella pienezza della divinità. Per conservare questo paradosso, bisogna evitare due estremismi: 1) accentuare eccessivamente la sua divinità, a scapito della sua umanità; oppure 2) sottolineare eccessivamente la sua umanità in modo da ridurre la sua divinità ad una semplice adozione divina.

La storia delle prime eresie segnala già quasi tutte le deviazioni, che continuano a ripetersi. In un primo tempo, la difficoltà maggiore stava nell'ammettere la perfetta divinità di Cristo. Ciò si spiegava col fatto inaudito, soprattutto in un ambiente come quello ebraico, dove regnava il più rigido monoteismo. L'eresia di Ario che tanto si diffuse in tutte le aree del cristianesimo, negava che Cristo fosse Dio, uguale al Padre. Comunque, sarebbe un deùteros Theòs, un dio di seconda classe. Questa eresia fu condannata dal Concilio di Nicea nel 325.

Però, un influsso maggiore è stato esercitato dall'errore contrario: quello che negava l'integrità della natura umana in Cristo. Secondo i seguaci del presbitero Apollinare, il Verbo, o Seconda Persona della Trinità, serviva da anima per animare il corpo umano di Gesù. Molti altri cristiani, per non cadere nell'eresia ariana, che era potente anche nella politica, si rifugiavano nella divinità di Gesù, sublimando la dimensione umana e storica di Lui. La pietà cristiana, lungo i secoli, ha peccato più di apollinarismo che di arianesimo.

Però, tutta la cristologia del NT insiste fortemente sul carattere assolutamente umano di Gesù. I racconti evangelici non fanno di Lui un super-uomo, ma lo presentano con tutte le caratteristiche di una determinata psicologia. Gesù sperimentava ogni specie di sentimenti: si rallegrava del bene dei suoi amici fino a partecipare ad un banchetto di nozze; piangeva per la morte di un amico, come nel caso di Lazzaro; provava sdegno in difesa del vero culto di Dio, come quando scacciò i venditori dal tempio; fuggiva i suoi avversari quando questi volevano tendergli un tranello; e soprattutto, sentì un'agonia mortale quando vide che era giunta l'ora di essere coerente con la sua attività di profeta e fu arrestato nell'orto di Getsèmani.

Però, accanto a questa presentazione così profondamente umana della figura di Gesù, gli autori neotestamentari lo trattano come Dio. Il vangelo più antico, quello attribuito a Marco, anche senza chiamarlo espressamente Dio, gli da continuamente lo stesso trattamento che l'AT dava a JHWH, cosa impensabile in un ambiente ebraico, se non fosse perché la fede nella divinità di Gesù era un fatto pienamente acquisito.

Nell'ultimo libro del NT, l'Apocalisse di Giovanni, Gesù appare nella sua piena umanità, sotto l'immmagine di un agnello immolato, ma che si mantiene ritto in segno di risurrezione. Ora, continuamente a questo Gesù- Agnello, si intonano gli stessi inni di gloria ed esultanza che abitualmente sono rivolti a Dio. Nell'Apocalisse, per quanto riguarda il tratto della divinità, Dio e Gesù-Agnello sono perfettamente interscambiabili.

Oggi, sono risorte le vecchie eresie del cristianesimo primitivo. Da una parte, c'è la tendenza a considerare Gesù come un uomo celeste, collocato nel punto piu elevato delle alture, e con il quale si hanno soltanto rapporti spiritualisti. Per questo, si fa una lettura evasiva dei vangeli, sottolineando ciò che in essi ci può essere di intimismo e di individualismo. Certi tipi di devozioni cristologiche rinchiudono i devoti in un ghetto spiritualista lontano dai rumori mondani, dove si sviluppa quel mondo di cui parla abitualmente Giovanni: " Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno " (Gv 17,15).

D'altra parte, ci sono gruppi che fanno dei vangeli una lettura puramente umana, materialista e immediatista. Gesù sarebbe un super-uomo, un rivoluzionario modello di tutte le liberazioni temporali. L'ortodossia deve stare a equa distanza dai due estremismi, ma è innegabile che lo spiritualismo è più dannoso del temporalismo, poichè quest'ultimo porta implicitamente in sé l'incontro col Gesù totale dei vangeli, mentre l'altro può prescindere da questa pienezza.

Bibl. - Bordoni M., " Incarnazione ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 621-643. Forte B., Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Ed. Paoline, Roma, 1982. Grillmeier A., Ermeneutica moderna e cristologia antica, Brescia, 1973. Kasper W., Gesù il Cristo, Ed. Queriniana, Brescia, 1977. Schnackenburg R., Cristologia di Giovanni: l'incarnazione del Lògos, in: Aa.Vv., Mysterium Salutis, 5, Ed. Queriniana, Brescia, 1971, pp. 425-442.

J.M. González Ruiz

Incredulità. (inizio)

Il termine incredulità (o non credenza) essendo un termine molto ampio, si può distinguere da quello dell'ateismo, che rimanda generalmente ad un sistema di pensiero sistematico senza alcun riferimento al divino (o con un riferimento negativo). Incredulità indica un atteggiamento globale del soggetto. Questo atteggiamento non si identifica necessariamente con l'ateismo, così come l'atteggiamento religioso può non identificarsi col teismo. Certi sistemi teisti, accolti come eredità culturale, possono nascondere certi atteggiamenti non credenti; e certi atteggiamenti credenti possono esprimersi in sistemi di pensiero non teisti (certi mistici che sostengono una teologia radicalmente negativa; il buddismo).

L'incredulità, ovviamente, è definita di solito in confronto con una credenza. Ogni uomo è simultaneamente credente (in qualcosa) e non credente (in molte altre cose). Ci sono credenze non solo religiose, ma anche politiche, sociali, filosofiche... Qui, prenderemo il termine " incredulità " come il referente negativo della credenza religiosa. Non dobbiamo neanche dimenticare che la situazione attuale del credente rende impossibile considerare l'incredulità come qualcosa di esterno ed estraneo totalmente per lo stesso credente. L'identità del credente ha ogni giorno da confrontarsi col fenomeno massiccio e sempre più diffuso dell'incredulità.

Nelle sue forme più rifinite, l'incredulità consiste in un atteggiamento in cui l'uomo rifiuta di porsi la domanda sul senso ultimo della vita; oppure, la risolve rifiutando la trascendenza. Però, prima di giungere a queste forme estreme, esistono zone intermedie in cui gli atteggiamenti di credenza e di non credenza convivono nell'ambiguità di alcune situazioni che possono finire per sfociare tanto nella fede quanto nell'incredulità. Entrambe, in ultima istanza, non sono altro che processi dinamici che vanno modellando l'interpretazione data all'esistenza.

Questi processi che portano all'incredulità ? o che la confermano, se esiste già ?, sono composti da molteplici elementi. La priorità acquisita da alcuni di essi permette di stabilire alcuni campioni:

1. Incredulità per sostituzione: questo fenomeno è abbastanza noto: quando il processo della secolarizzazione sembrava strappare alla nostra cultura tutte le manifestazioni del sacro, ritornò proprio nelle società più " razionalizzate " il culto del meraviglioso. Non era un ritorno alla religione istituzionalizzata: si cercavano nuove forme di credenza sincretista nel mondo extra-razionale. Nella misura in cui l'uso di tali mezzi supplisce (o si combina con) atteggiamenti religiosi superficiali, si può parlare di incredulità " per sostituzione ", ossia, di forme di incredulità sincretista.

2. Forme a-credenti di vita: sarebbero tutte quelle in cui nemmeno appaiono i problemi di un senso ultimo dell'esistenza. La varietà è molto grande. Una di queste è quella che colloca, più nella pratica che nella teoria, il concetto di uomo al disotto del livello autenticamente spirituale. Nella cosiddetta " civiltà dei consumi ", l'atteggiamento caratteristico è questo: l'" avere " assorbe o si identifica con l'" essere ": o per affanno di possesso (materialismo pratico), o per ostentare una immagine sociale, o per l'interesse che esclude ciò che non ha valore immediato (pragmatismo), o per la ricerca individualista del piacere (edonismo). Un'altra forma possibile è quella che, secondo l'espressione che Max Weber applicava a se stesso, " è priva di udito per quanto è religioso ". Consapevoli dei limiti che la condizione umana comporta, gli increduli di questo tipo si adattano ad essa. Questo atteggiamento può essere semplicemente pratico e sgorgare da una specie di rassegnazione di fronte a ciò che non si può evitare: abbiamo qui gli indifferenti. Può anche essere elaborato con una riflessione, a livello epistemologico: l'unico tipo di ragionamento a cui concedono validità di spiegazione è quello scientifico-positivo; pertanto, rifiutano di pronunciarsi su quanto supera questo ragionamento: sono gli agnostici che si vedono ridotti a " sistemarsi nella finitudine " (senza che questo significhi di per sé nessuna rinuncia etica a ideali umani).

3. Incredulità positive: sono gli atteggiamenti in cui l'uomo, dopo di essersi posto esplicitamente il problema della sua sorte, si sforza di dare una risposta unicamente umana ad esso. Qui, entrano tutte le forme di umanesimo ateo: politico (marxismo), o semplicemente filosofico (esistenzialista, neo-nietzscheano), o addirittura senza nessuna ulteriore denominazione: l'uomo è riconosciuto come valore assoluto in sé. Quello che hanno in comune è sospetto dell'elemento religioso come una alienazione o evasione dell'uomo dai suoi autentici compiti umani.

La diffusione dell'incredulità, nelle sue varie forme, è oggi un fenomeno massiccio. È inevitabile chiedersi quali sono le sue radici sociali (che sono anche molte e complesse). Così ha fatto il Concilio Vaticano II (GS 19) riguardo all'ateismo. Dal punto di vista sociologico, le credenze si conservano o decadono perché questo avviene con le proprie rispettive " strutture di plausibilità ". Con questa espressione, si intende il complesso di processi sociali (di ogni genere, non semplicemente conoscitivi) che contribuiscono a far sì che una credenza appaia degna di credibilità, plausibile, in una data cultura e in un dato momento storico. La questione sociologica, pertanto, è questa: quali fatti, nella cultura moderna, minacciano la struttura di plausibilità della credenza religiosa? Dato che le culture moderne sono sottoposte a continui processi di variazione accelerata, si tratta di una questione che deve essere continuamente approfondita. Qui, alludiamo ad alcune sue radici più evidenti. Però, conviene prima far notare che anche l'incredulità ? come tutte le visuali sul mondo, religiose o meno ? ha una sua struttura di plausibilità. Il suo consolidarsi può contribuire alla diffusione dell'incredulità più di un attacco diretto alla religione.

Sotto questo punto di vista, i processi sociali che favoriscono l'incredulità sono:

a) Il tipo di produzione tecnologica e lo stile di pensiero che l'accompagna: l'homo faber risulta al primo piano. Egli ha creato un mondo dove le cose funzionano secondo un piano regolatore, per produrre alcuni effetti e conseguire qualcosa di stabile e utile. Questo predominio di una razionalità strumentale tende ad eliminare la domanda sull'assoluto, Dio. A livello di cultura di massa, l'interesse del dominio si confonde con quello del possesso. La produzioneconsumo , che all'inizio dell'èra moderna spostò la religione dal suo posto sociale centrale, si erge ora a buona notizia, a " vangelo ".

b) La situazione di pluralismo circa le visuali del mondo e quella di " mercato ideologico ", in cui le ideologie vanno a gara per attirare i " consumatori ", porta alla frammentazione del senso e scava il sottosuolo della credenza in Dio.

c) A queste radici ambientali, c'è da aggiungere l'atteggiamento degli stessi credenti " in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione " (GS 19).

d) Tutto questo riguarda il sottosuolo culturale di critica alla religione e proviene dall'illuminismo, specialmente dai " maestri del sospetto ": Marx, Nietzsche, Freud.

Bibl. - Chenu M.D. - Six J.F., In ascolto di chi non crede. Testimonianze ed esperienze del Segretariato per i non credenti, Ed. Vita e pensiero, Milano, 1981. Chiettini E., " Incredulità, in: Enciclopedia Cattolica, VI, Città del Vaticano, 1950, coll. 1788-1790. Dal Covolo A., Increduli. Appunti per una tipologia dell'incredulità, IPAG, Rovigo, 1984. Editoriale della " Civiltà Cattolica ": Gli inquietanti problemi della non credenza, 137 (1986) 3275, pp. 417-428.

J. Martínez Cortés

Inculturazione della fede. (inizio)

L'espressione inculturazione della fede si riferisce ad una relazione di carattere strutturale tra la fede e la cultura. La fede è sempre fede di uomini concreti, nello spazio e nel tempo della storia, cioè, nella cultura. Questo vale per ogni esperienza religiosa. Vale specialmente per l'esperienza biblica e cristiana, pienamente inserita nella storia.

Anche se oggi ci sembra una cosa ovvia, la coscienza teologica non ha riflettuto su questa relazione fede-cultura fino all'Illuminismo. Credere voleva dire accettare la Parola di Dio così come si presentava nella Scrittura che, essendo ispirata, era ritenuta indipendente e al disopra di ogni cultura.

La situazione cambiò radicalmente con l'età moderna. La rottura della cristianità infranse l'evidenza della fede. La critica biblica mise allo scoperto il carattere mediato del suo rapporto con la cultura. Nonostante le reazioni del fondamentalismo biblico (che cercava di identificare la rivelazione con la lettera della Bibbia), il lento processo degli studi biblici mostrò l'indissolubile implicanza dei libri della Scrittura nella cultura del loro tempo. La Bibbia è sempre parola di Dio nella parola umana (Vaticano II, DV). La fede, in quanto risposta alla rivelazione, è nello stesso tempo la sua " incarnazione " nell'esperienza umana.

È questo il senso fondamentale dell'inculturazione. Questa struttura interna dell'appropriazione umana della fede la trasforma in qualcosa di essenzialmente dinamico, che ha dato origine ai seguenti problemi:

1. Già nella stessa Bibbia avviene la prima inculturazione. L'Illuminismo lo aveva scoperto, e la Storia delle Forme mise in risalto la sua profondità ed importanza. Il tema delle varie teologie nella Scrittura, specialmente nel NT, è oggi centrale nella riflessione sulla fede, e nell'azione pastorale: appunto per salvaguardare, rendendolo significativo (re-inculturandolo), l'assoluto dell'esperienza della fede.

2. Il tema della ellenizzazione del cristianesimo (Harnack) ha perduto oggi molto della sua forza, ma ha guadagnato in profondità nel trasformarsi in un caso di incontro fede-cultura. La fede semitica fu formulata, attraverso processi di conflitti (lotte per l'ortodossia) in categorie greche. Oggi, il pensiero moderno ha rotto con l'oggettivismo della filosofia greca: con ciò, si apre una questione profonda per la comprensione di una fede cristiana vissuta con un'altra sensibilità culturale.

3. La questione dello sviluppo del dogma è intimamente connessa con le questioni precedenti. Fondata su una dimensione della coscienza moderna, la storicità, è un modello del carattere inculturato della fede.

4. Infine, il grande tema della missione universale del vangelo implica pure la necessità del suo incontro con diverse culture. Di fatto, l'ellenizzazione costituì già il primo di questi incontri. Poi, la situazione preponderante della Chiesa nella cristianità fece apparire come " naturali " i processi profondi di inculturazione che comportava l'evangelizzazione dell'Occidente a cui l'impero romano contribuì in maniera decisiva.

È stato l'urto con culture radicalmente differenti a far emergere la coscienza del problema. A partire dal secolo XVI, con le grandi scoperte, il compito missionario acquistò una dimensione insospettata: la differenza tra fede e cultura si fece sentire. In America, la fede cristiana venne con la conquista, fra notevole processi di distruzione e di trasformazione della cultura indigena. Nelle due grandi culture eterogenee, quella indiana e quella cinese, le iniziative di inculturazione della fede da parte di De Nobili e di Ricci furono sconfessate da Roma. Lo sforzo missionario proseguì confondendo in pratica l'evangelizzazione e l'occidentalizzazione.

Soltanto con lo sviluppo dell'antropologia culturale del secolo XX, fu spezzata la mentalità etnocentrista occidentale: venne elaborato concettualmente ed assimilato dalla Chiesa il diritto di ogni cultura alla propria identità. Nello stesso tempo, la differenza tra fede e cultura, stabilita con l'illuminismo, confluì col processo anteriore. Il risultato fu uno sforzo del pensiero teologico per esplicitare il movimento dalla fede alla cultura.

È chiaro e indiscusso il " principio di incarnazione ": ciò vuol dire l'assunzione delle varie culture come corpo-concreto dove si realizza la fede. Appare anche sempre più ovvia la necessità di comprendere la cultura in tutta la sua densità antropologica: cultura è tutto ciò che non è natura; comprende tanto l'attività teorica dell'uomo quanto la pratica, la credenza e l'" èthos ", la produzione simbolica e quella del lavoro. Questa comprensione è importante perché esclude un'idea " clericale " di inculturazione della fede che si limitasse alle aree della teologia, della liturgia e della vita religiosa... Anche le condizioni socio-economiche di un popolo formano un campo importante di inculturazione. All'interno di questo contesto globale, si deve realizzare un dialogo della fede coi vari elementi culturali. Questo richiede ad un tempo assunzione e giudizio. La fede non può perdere la sua specificità; non può diluirsi nella cultura, ma deve essere assunta dall'interno della propria cultura, in modo da farsi congeniale e autenticamente incarnata.

La coscienza di questa dinamica della fede pone nuovi parametri alla attività missionaria della Chiesa. Da una parte, il processo di " planetizzazione " accelerata che l'umanità sta sperimentando è l'altro aspetto del riconoscimento dell'individualità delle culture. L'universalità della fede potrà realizzarsi solo mediante un compito evangelizzatore che sappia conciliare l'unità con la pluralità; rispettando le diversità, " e così a poco a poco si prepara una forma più universale di cultura umana, che tanto più promuove ed esprime l'unità del genere umano, quanto meglio rispetta le particolarità delle diverse culture " (GS 54).

D'altra parte, questa prospettiva dell'inculturazione della fede invita a rivedere la prassi pastorale mentre la teologia deve compiere un nuovo sforzo di fronte ai problemi del mondo d'oggi, di fronte alla cultura occidentale che si è allontanata e che continua ad allontanarsi dalle sue origini cristiane. Qui, si potrebbero segnalare le classi sociali che spiccano di più: la gioventù coi suoi, problemi specifici, gli emigranti, il " quarto mondo " dei nuovi poveri delle società industriali. I campi sociali che tendono a produrre sottoculture dove la fede è assente e che richiedono il compito, irrinunciabile e sempre incompiuto, dell'inculturazione del vangelo.

Bibl. - Butturini G. (ed), Le nuove vie del Vangelo. I vescovi africani parlano a tutta la Chiesa, EMI, Bologna, 1975. Carrier H., Vangelo e culture: da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Città del Vaticano, 1987. Commissione Teologica Internazionale, " Fede e inculturazione ", in: Civ. Catt. 140(1989), 158-177. Gevaert J., Inculturazione, in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 339-340. Luzbetak L., Un solo vangelo nelle diverse culture. Antropologia applicata alla pastorale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1971. Shorter A., Culture africane e cristianesimo, EMI, Bologna, 1974. Tentori T., Antropologia culturale. Percorsi della conoscenza della cultura, Ed. Studium, Roma, 1990.

J. Martínez Cortés

Infallibilità. (inizio)

Infallibilità è il termine che significa la preservazione dall'errore, preservazione propria della Chiesa in materia di fede proposta come assolutamente vincolante. Siccome la Chiesa è depositaria del messaggio rivelato da Dio per gli uomini, è necessario che essa sia preservata dall'errore, almeno in quei punti che sono ritenuti vitali e decisivi affinché gli uomini trovino la verità e il volere di Dio. Per comprendere il significato di infallibilità, occorre distinguerla dall'ispirazione. L'ispirazione è l'intervento positivo di Dio sullo scrittore sacro, in modo che la parola che ne risulta sia non solo parola umana, ma prima ancora vera " parola di Dio ". Per l'infallibilità, si tratta soltanto dell'intervento di Dio per preservare dall'errore la parola umana. Il soggetto primario e fondamentale dell'infallibilità è la Chiesa nella sua totalità, perché, come insegna il Concilio Vaticano II, " l'universalità dei fedeli che tengono l'unzione dello Spirito Santo (cf 1 Gv 2,20.27), non può sbagliarsi nel credere " (LG 12).

Questa infallibilità è personalizzata nel magistero ecclesiastico, sia nel Magistero ordinario, quando tutti i vescovi, nella loro predicazione ordinaria al popolo, insegnano una verità come assolutamente vincolante; sia nel Magistero straordinario. Questo può avvenire nel concilio ecumenico, o quando il Papa parla ex cathedra, cioè, quando agisce come supremo pastore della Chiesa ed intende imporre una verità come vincolante da dover essere creduta. L'oggetto dell'infallibilità è costituito da tutte le verità rivelate da Dio alla Chiesa (materia di fede e di costumi). È oggetto ulteriore dell'infallibilità anche ciò che è necessario per preservare dagli errori e dalle deviazioni questa verità della rivelazione. Pertanto, il Magistero non è infallibile in questioni scientifiche né in temi prettamente filosofici. C'è da notare che l'infallibilità del concilio universale o del papa avviene in casi piuttosto rari. Nella sua condotta particolare e nelle sue opinioni personali, il Papa non è mai infallibile.

Bibl. - Küng H., Infallibile? Una domanda, Ed. Queriniana, Brescia, 1970; O' Collins G., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1982, pp. 263-280. Sala G.B., Infallibile? Una risposta, Ed. Paoline, Roma, 1971.

J.M. Castillo

Infanzia. (inizio)

Si intende per infanzia quel periodo che va dalla nascita fino all'inizio della pubertà. Possiamo dividerla in tre fasi: l'allattamento, che abbraccia il primo anno di vita; la prima infanzia, dai due ai cinque anni; e la seconda infanzia o età scolastica, dai cinque anni fino alla pubertà.

Il periodo dell'allattamento è il periodo che precede il vero sviluppo umano dell'infanzia, in quanto il lattante è privo della facoltà di pensare e di parlare, ed il sistema motorio è ancora molto immaturo. Per questo, il bambino si trova nella dipendenza assoluta rispetto a sua madre. Nel secondo mese, appare il primo sorriso, provocato dalla voce e dall'immagine della madre il più delle volte.

Nel passaggio dal primo al secondo anno, il bambino impara a camminare. Questo progresso, unito a quello del parlare, fa sì che si stacchi dal periodo precedente. Il linguaggio del bambino comincia con monologhi e balbettìi fino a giungere ad una autentica formazione di parole durante il secondo anno di vita, e ciò diviene ancora più ricco e differenziato nel terzo anno.

Si parla della prima età della cocciutaggine, per designare un cambiamento nel comportamento dei bambini. Questo periodo va in media dai due anni e mezzo fino ai tre e mezzo; nelle bambine, appare anche prima. È una mescolanza di ribellione, opposizione e resistenza, che può passare rapidamente ad un atteggiamento di tenerezza, rivolta preferibilmente alla madre.

In questo tempo, col contributo sfavorevole della disposizione e dell'ambiente, si sviluppano le nevrosi infantili, originate da deviazioni dei rapporti affettivi del bambino, soprattutto in quelli che nutre verso la madre. La necessità di un buon rapporto affettivo coi genitori è essenziale tanto quanto il cibo.

Si chiama età del gioco fatto sul serio quello che va dai tre anni e mezzo fino ai cinque e mezzo. I bambini sono ragionevoli; si può conversare con loro; essi si lasciano dirigere con facilità; sono affettuosi e costanti nei loro affetti. Questa è l'età più incantevole dell'infanzia.

Dopo un periodo di crescita nel peso (dal secondo al quarto anno), succede un periodo di crescita in statura (dal quinto al settimo anno). Le estremità si allargano e si irrobustiscono; la muscolatura si accentua. C'è un cambiamento non solo nella forma totale del corpo, ma anche nella proporzione delle differenti sue parti, dando l'impressione di snellezza. Col cambiamento dell'aspetto, avviene anche un'alterazione psichica con aumento dell'emotività.

Al periodo della crescita rapida, succede nel corpo un secondo ingrossamento, mentre nella psiche si stabilisce una nuova calma, in quanto l'emotività non è più così determinante. La fanciullezza media va dai sette ai nove anni. Si ha in essa una minore esaltazione del sentimento e della fantasia, a favore di un predominio sempre maggiore della ragione.

Il periodo tra la fine del cambiamento di aspetto, verso i nove anni, e la pubertà, è chiamato infanzia tardiva. La sua caratteristica è uno sviluppo continuo ed omogeneo. Riguardo al corpo, le caratteristiche si delineano molto di più, come anche il volto, e si ha una maggiore scioltezza di movimenti. Riguardo alla psiche, il bambino giunge alla sua piena compiutezza. Il tratto più caratteristico che lo differenzia dalla prima infanzia è il suo destarsi alla realtà. La capacita di apprendimento del bambino cresce rapidamente durante il periodo scolastico. È evidente che questo fatto si trova in rapporto con la grande capacita di memoria dei bambini.

Aumentano sempre più le differenze tra i due sessi. L'interesse dei bambini è rivolto verso il dominio tecnico del mondo esterno, mentre quello delle bambine è più attratto dai rapporti interpersonali. Le bambine hanno una maggiore ricchezza di linguaggio verbale e mimico, ed una sensibilità estetica piu spiccata.

Bibl. - Jersild A.T., La psicologia del bambino, Ed. SEI, Torino, 1971. Macchietti S.S., " Infanzia ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 523-524. Mencarelli M., Infanzia, progetto pedagogico, Ed. La Scuola, Brescia, 1987. Paparella N., Lo sviluppo del bambino e la crescita della persona, Ed. La Scuola, Brescia, 1984. Perdoncini G. Yvon Y., Compendio di psiciologia e di rieducazione infantile, Ed. SEI, Torino, 1967. Rimaud G., L'educazione, guida dello sviluppo giovanile, Ed. SEI, Torino, 1956.

F.J. Calvo

Infermità. (inizio)

La riflessione (e la pratica pastorale) cristiana, di fronte alla sofferenza e alla infermità nel mondo, deve sempre partire dall'atteggiamento adottato da Gesù di fronte a queste realtà negative. Secondo la testimonianza dei vangeli, la posizione di Gesù di fronte all'infermità e alla sofferenza non fu mai quella di una semplice rassegnazione passiva, come se fossero una specie di fatalità, e nemmeno quella di un'esaltazione di alcuni presunti valori redentivi che il dolore avrebbe in se stesso. Gesù, invece, combatte con tutte le sue forze l'oscuro dominio delle infermità umane, mediante molte guarigioni che compì durante la sua vita pubblica e che costituirono un elemento importantissimo della sua missione. Gesù non rifiutò certamente il dolore personale e accetto volontariamente una morte terribilmente dolorosa. Pero, il valore redentore profondo di questa accettazione non stava nella sofferenza fine a se stessa, ma nell'obbedienza amorosa alla volontà del Padre suo, come appare chiaramente nella preghiera nell'orto: Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu " (Mt 26,39).

La Chiesa continua l'opera di Gesù nel lottare contro il male, consapevole della grande verità contenuta nelle parole di san Paolo: " Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento nella mia carne a ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa " (Col 1,24).

La lotta della Chiesa contro l'infermità e contro la sofferenza degli uomini si realizza su tre fronti distinti, reciprocamente intrecciati: quello caritativo, quello carismatico e quello liturgico. Il primo è costituito da tutti gli sforzi che i cristiani, sia a livello individuale che comunitario, compiono per aiutare i loro fratelli a vincere l'impero dell'infermità e della sofferenza. In intimo rapporto con l'aspetto caritativo, ci sono alcuni cristiani che possiedono il carisma della guarigione degli infermi, inteso non necessariamente come miracoloso, ma come una grazia speciale che li abilita per la cura amorosa e sollecita degli infermi. Infine, la Chiesa lotta anche contro l'infermità per mezzo di alcune armi liturgiche e sacramentali, tra cui la più significativa è il sacramento dell'unzione degli infermi. La liturgia degli infermi comprende parecchi elementi: la preghiera pubblica per i sofferenti e gli infermi; la visita liturgica per opera del responsabile della comunità; la comunione portata agli infermi come mezzo per mantenere il contatto dei malati con l'assemblea eucaristica; la benedizione col Santissimo agli infermi riuniti in luoghi di pellegrinaggio; infine, come culmine di tutta questa liturgia degli infermi, c'è il sacramento dell'unzione degli infermi.

La Chiesa, di fronte alla sofferenza degli uomini, assume lo stesso comportamento di compassione e di efficacia mostrato dal buon samaritano nella famosa parabola evangelica (cf Lc 10,30-37). Commentando questa parabola, il Papa Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Salvifici doloris dell'11 Febbraio 1984 (uno dei pochi documenti pontifici dedicati al tema della sofferenza), afferma che questa parabola " testimonia che la rivelazione da parte di Cristo del senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un atteggiamento di passività. È tutto il contrario. Il vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in questo campo è soprattutto attivo. In questo modo, egli realizza il programma messianico della sua missione, secondo le parole del profeta: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore" (Lc 4,18-19; cf Is 61,1-2) " (n. 30).

Bibl. - Aa.Vv., L'operatore pastorale nel mondo della salute oggi. Alle ricerca di una nuova identità, Ed. Salcom; Brezzo di Bedero, 1981. Alberton M., Solitudine e presenza. Incontro con il malato, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1979. Davanzo G., " Sofferentemalato ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1494-1504. Fedrizzi P., L'unzione degli infermi e la sofferenza, Ed. Messaggero, Padova, 1972. Spinsanti S., L'etica cristiana della malattia, Ed. Paoline, Roma, 1971.

J. Llopis

Insegnamento della religione (IR). (inizio)

L'insegnamento della religione acquista oggi un significato particolarmente di scuola, come affermazione della presenza del fattore religioso nella scuola e come azione differenziata della catechesi che si porta avanti nella comunità cristiana. Questo significato scolastico non implica una svalutazione dell'insegnamento della religione riguardo ad altre forme di educazione della fede.

All'interno dell'educazione integrale della persona promossa dalla scuola, l'insegnamento della religione cerca, da una parte, di completare e di svolgere l'azione educatrice della scuola, e, d'altra parte, cerca di aiutare l'alunno ad assumere con maggiore lucidità la sua tradizione culturale, ad inserirsi criticamente nella società e a dare risposte alle questioni radicali sul senso ultimo della vita, dell'uomo e del mondo.

Una presenza religiosa nella scuola sentita in questo modo deve affrontare necessariamente il problema della confessionalità: o per raggirarlo: si afferma allora la presenza di un insegnamento della religione non esplicitamente confessionale (il caso della cosiddetta cultura religiosa), o per affermarlo: in questo caso, l'insegnamento della religione verrà inteso come parte di un processo più ampio ? l'educazione integrale della fede cristiana, nel nostro caso ? che, assunto dalla scuola, dovrà attenersi a questi criteri:

a) l'insegnamento della religione, quantunque formi una parte integrante di questo processo di educazione nella fede, non equivale ad una catechizzazione esplicita: si differenzia da essa non solo per quanto concerne l'iniziativa e l'intenzionalità dei destinatari, ma anche nel riferimento agli obiettivi. Comunque, è necessario sottolineare la complementarietà delle due azioni.

b) Per il fatto che appartiene alla scuola, l'insegnamento della religione assume il suo carattere scolastico a tutti gli effetti e si presenta come una materia propria e rigorosamente scolastica nei suoi obiettivi, contenuti e metodi.

c) Si dovrà sempre rispettare la libertà di coscienza dei genitori e degli alunni, per cui, questo insegnamento si configura come una materia opzionale.

Affermando il carattere scolastico dell'insegnamento della religione, è necessario sottolineare quello che gli è specifico all'interno della confluenza della fede cristiana e della scuola come luogo culturale. L'insegnamento della religione deve rendere possibile l'integrazione tra le conoscenze e i valori delle varie discipline scolastiche e della fede. La scuola di religione è un ambito imprescindibile e ad un tempo privilegiato per iniziare i fanciulli e gli adolescenti cristiani in quello che deve essere un compito della loro vita di credenti: il dialogo tra la cultura e la fede.

Bibl. - CEI, L'insegnamento della religione cattolica nelle scuole di Stato, in: " L'Osservatore Romano ", 23.9.1984. Gevaert J., La dimensione esperienziale della catechesi, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1984. Halbfas H., Linguaggio ed esperienza nell'insegnamento della religione, Ed. Herder, Roma, 1970. Istituto di Catechetica (a cura di), Scuola e religione. 1. Una ricerca internazionale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1971. Marenco A.M. Vigli M., Religione e scuola, Ed. La Nuova Italia, Firenze, 1984. Pajer Fl., " Insegnamento della religione ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 349-352. UCN, Nota sull'insegnamento della religione nelle scuole secondarie superiori, Roma, 1971.

T. García Regidor

Integralismo. (inizio)

L'integralismo è un fenomeno politico-religioso che ha queste caratteristiche:

1) l'immobilismo: opposizione sistematica a qualsiasi cambiamento, anche di forma, ritenendo sia le strutture che le formulazioni di fede tramandate dal passato transculturali e sopra-storiche;

2) intolleranza: per l'integralista, il nemico è dentro ed è necessario cacciare fuori dalla Chiesa (o dalla società) chi non è allineato con lui. Invece del compelle intrare, gli integralisti praticano il compelle exire;

3) nostalgia della cristianità, cioè, di un ordine sociale unitario basato su un'alleanza stretta del potere civile con quello religioso.

Generalmente, gli integralisti hanno una psicologia insicura ed hanno bisogno di avvolgersi di certezze. Ciò spiega la loro ossessione per le formule precise, sia nelle questioni dottrinali che in quelle disciplinari: secondo loro, la catechesi deve esigere la ripetizione mnemonica di formule " sicure "; l'obbedienza deve essere cieca, escludendo qualsiasi processo di ricerca e di iniziativa personale, ecc. Per loro, l'unità esige l'assoluta uniformità. Circa la famosa norma della Chiesa, " unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità " (GS 92), essi sopprimono gli ultimi due membri: per loro, tutto è necessario.

L'integralismo è potenzialmente totalitario e ha dato luogo ad autentiche società segrete, come accadde al tempo di Pio X, con La Sapinière, uno degli episodi più tristi della storia della Chiesa. I metodi tipici sono gli intrighi, il segreto e la delazione.

Bibl. - Drago M. - Boroli A. (dir.), Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 392. Mancini I., Teologia ideologia utopia, Ed. Queriniana, Brescia, 1974. Ricoeur P., Tradizione o alternativa, Ed. Morcelliana, Brescia, 1980. Topitsch E., A che serve l'ideologia, Ed. Laterza, Bari, 1975.

L. González-Carvajal

Intelligenza. (inizio)

Per intelligenza, si intende qui il complesso di abilità o capacità che permettono l'adattamento del soggetto alle esigenze dell'ambiente, considerando le differenze di intelligenza come differenze individuali nel grado di sviluppo di tali capacità.

All'interno dell'approssimazione differenziale in cui si trova la definizione data sopra, si possono segnalare due concezioni diverse. La prima di esse è la concezione degli psicologi clinici, il cui rappresentante più importante è probabilmente Wechsler. Secondo lui, che è l'autore delle scalette o tests di intelligenza generale per adulti e bambini, piu usati e più completi, il costrutto " intelligenza " fa riferimento ad un aspetto della personalità totale, per cui, nel misurare l'intelligenza per mezzo di un test, quello che si spera è di conoscere la capacità del soggetto nel comprendere il mondo che lo circonda ed i mezzi che possiede per affrontare le sue esigenze e le sue sfide.

In armonia con la concezione precedente, l'agire in modo intelligente implica un certo grado di autodisciplina per essere in grado di pensare prima di agire, per essere critici col proprio metodo di azione, per conservare l'attenzione richiesta per raggiungere la mèta, per perseverare nel compito, ecc. Tutte queste caratteristiche possono confondersi come tratti di personalità, ma nella concezione di " intelligenza " di Wechsler come personalità totale dell'individuo, l'autore distingue : esecuzione, tratti e capacità.

All'interno della concezione clinica differenziale, il secondo approccio allo studio dell'intelligenza si è rivolto all'identificazione delle sue componenti mediante l'analisi fattoriale. Spearman, dopo molte ricerche e dopo vari calcoli di correlazioni, scoprì che di fatto i soggetti più intelligenti in certi tipi di tests, soprattutto di tipo matematico e verbale, tendevano a distinguersi anche nelle altre prove, anche se non ugualmente in tutte. Assieme ad un fattore generale di intelligenza (G), agirebbero fattori specifici, indipendenti tra di loro.

Attualmente, grazie alle analisi effettuate sul fattore G e sui tests mentali, Cattell, sostenuto da varie linee di evidenza, realizza una distinzione tra " intelligenza generale fluida " e " intelligenza generale cristallizzata ".

Ciò che caratterizza l'" intelligenza fluida " sta in questo: essa è determinata soprattutto da fattori ereditari e da influenze fisiologiche, presentando una certa fluttuazione quotidiana a causa di queste ultime.

Aumenta in modo costante ma rapido, raggiungendo un massimo verso i 18, 20 anni. Questo è il momento a partire dal quale decresce gradatamente. La perdita si accelera a partire dai 55, 60 anni.

Si misura mediante tests di materiale nuovo, in quelli in cui gioca un ruolo importante la rapidità nel trovare la soluzione e che hanno uno scarso contenuto informativo, ma che esigono la capacità di percepire relazioni, spesso complesse, tra elementi relativamente semplici collegandoli in modo alto con la rapidità nell'apprendimento di aree nuove.

L'" intelligenza cristallizzata " è caratterizzata dal fatto che è parzialmente determinata dagli influssi culturali; presenta poca fluttuazione quotidiana; sembra essere costituita da sistemi di abitudini acquisite.

Non fa molta correlazione con la rapidità nell'apprendimento di nuove aree.

Aumenta in modo graduale dall'infanzia alla maturità e non sembra declinare prima dei 60 o 70 anni, sebbene il tasso di crescita sia negativamente accelerato tra i 13 e i 20 anni.

Si misura mediante tests il cui contenuto è altamente informativo. Essi richiedono che il soggetto faccia uso di tutta una serie di conoscenze e di capacità già acquisite.

Riassumendo: l'" intelligenza fluida " è concepita in termini di potenzialità genetica. L'" intelligenza cristallizzata " e considerata come la sua attualizzazione esistenziale, cioè, dovuta all'esperienza.

Bibl. - Melli R., " Intelligenza ", in: Dizionario di Psicologia, Ed. Paoline, 1975, pp. 568-571. Piaget G., La psicologia dell'intelligenza, Firenze, 1952. Scabini E., " L'intelligenza ", in: Ancona L. (a cura di), Nuove questioni di psicologia, I, Ed. La Scuola, Brescia, 1972, pp. 429-478. Trentini G., " I metodi di indagine in psicologia ", in: Ancona L. (a cura di), Questioni di psicologia, Ed. La Scuola, Brescia, 1964, pp. 73-116.

M.N. Lamarca

Istituti secolari. (inizio)

Ci sono oggi circa 117 Istituti secolari, di cui 10 con approvazione pontificia definitiva, 19 con la prima approvazione pontificia e 88 con approvazione diocesana. I due documenti principali per comprendere questo non facile settore sono la Provida Mater e il decreto Perfectae caritatis. Questo decreto conciliare dice: " Gli istituti secolari, pur non essendo istituti religiosi, tuttavia comportano una vera e completa professione dei consigli evangelici nel secolo, riconosciuta dalla Chiesa " (PC n. 11). La loro indole propria e peculiare è la " secolarità ", intesa come una vera e completa professione secolare dei consigli evangelici riconosciuta dalla Chiesa. I voti sono secolari, non religiosi. Non sono neanche voti pubblici, e, in alcuni casi, sono sostituiti con la consacrazione, con una promessa o un giuramento. Altri istituti parlano di " voti privati ", in foro conscientiae. Questo, oltre ad altri motivi, costringe ad equipararli a semplici associazioni di fedeli. D'altra parte, se questi voti sono fatti secondo gli statuti approvati dalla Chiesa, è dubbio e discutibile il loro carattere puramente privato.

In quanto ai sacerdoti, membri di un istituto secolare con vincoli distinti, il loro apostolato non è propriamente diocesano, in quanto manca una incardinazione vera e impegnativa; sono soltanto " associati ".

Non è neanche sempre chiaro in che senso gli " affari secolari " siano conciliabili con una autentica " consacrazione del mondo ": non si vede, cioè, come questi affari possano consacrare un mondo che per san Giovanni non è per nulla consacrato ed in cui regnano anzi le tre concupiscenze. Tutte le difficoltà pratiche e occasionali sono comunque ben lungi dall'impedire l'immensa e arricchente pluralità di carismi che lo Spirito Santo fornisce alla sua Chiesa e con cui distribuisce queste vocazioni come un autentico " fermento " evangelico nel mondo.

Bibl. - Balthasar H.U. von, Sponsa Verbi, Ed. Morcelliana, 1969, pp. 409-444. Brasca G.C., " Istituti secolari ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 781-786. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica " Vita consecrata ", 25.3.1996, n. 10. Secondin B., " Istituti religiosi e secolari ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 398-399.

L. Vela

Istituzione. (inizio)

Etimologicamente, istituzione deriva dal latino stare (stare). È una struttura sociale, relativamente stabile, che regola le attività degli individui secondo alcuni modelli di organizzazione, in funzione di alcuni ruoli e di un fine. In realtà, nessuna società può sussistere senza qualche forma di istituzione, specialmente i gruppi sociali che intendono durare per la loro finalità. Mediante l'istituzione, viene garantita la continuità, l'identità e la coesione, ma nello stesso tempo, può anche succedere il non adattamento ed il conservatorismo. Per secoli, il fattore istituzionale fu accettato come qualcosa di benefico e di indiscutibile, mentre oggi viene criticato.

L'istituzionalizzazione sorge col passaggio dagli usi e costumi popolari (feste, banchetti, educazione, cerimonie, ecc.) a quello che è propriamente stabilito come permanente, o quando determinate regole di comportamento sociale si cristallizzano e rimangono solidificate. Alcuni sociologi intendono l'istituzione come un gruppo organizzato, mentre altri la vedono come un gruppo di persone e cose stabilitosi con un carattere permanente.

In sociologia, si parla di quattro tipi di istituzioni: politiche, economiche, morali e familiari. Tra le istituzioni morali, c'è la Chiesa, caratterizzata dal suo senso globalizzante e finalista. L'applicazione alla Chiesa del termine istituzione deriva dai sociologi moderni, specialmente da Duckheim, secondo il quale la religione è un elemento fondamentale di socializzazione. Tradizionalmente, è stato affermato che Gesù Cristo ha istituito la Chiesa e che la Chiesa è una " società perfetta " con istituzioni. Istituzione ecclesiale è, secondo Liégé, " tutto ciò che dà all'essere della Chiesa una visibilità sociale e che si esprime con un complesso di strutture, norme e leggi che dànno autorità ". A dire il vero, la Chiesa dei primi tre secoli fu un movimento religioso più che una istituzione. L'unità era garantita dalla leitourghìa come servizio a Dio, dalla diakonìa come servizio ai fratelli, dalla koinonìa come comunione e solidarietà, e dalla martyrìa come servizio di testimonianza. Lo scontro con le eresie costrinse a definire il canone del NT e la successione apostolica, elementi basilari istituzionali. Possiamo anche dire che il cristianesimo possiede quattro istituzioni fondamentali: la Parola di Dio, l'Eucaristia, la comunità e i ministeri. Attorno a queste istituzioni fondamentali, ci sono le istituzioni ecclesiali, molto necessarie, ma che possono variare lungo i secoli, come, per esempio, i seminari, gli Ordini religiosi, ecc. Infine, esistono le istituzioni temporali cristiane, accidentali e transitorie, sebbene in certi momenti storici occupino un grande ruolo.

Bibl. - Balthasar H.U. von, Gli stati di vita del cristiano, Ed. Jaca Book, Milano, 1985. Gallino L., La società. Perché cambia, come funziona, Ed. Paravia, Torino, 1980. Garelli F., " Istituzioni ", in: Dizionario di Pastorale Giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 468-474.

  1. Floristán

Istituzioni temporali cristiane. (inizio)

Le istituzioni temporali cristiane sono caratterizzate dal fatto che hanno un fine temporale sul piano della civilità, del progresso o della liberazione. Sono dirette da un gruppo di cristiani o da una associazione confessionale che impegna in qualche modo la Chiesa nella sfera pubblica. L'intento è quello di servire alla missione della Chiesa, specialmente di prolungare nella vita pubblica gli organi di azione e di presenza. Desiderano un riconoscimento più o meno grande da parte della gerarchia che interviene, almeno per quanto si riferisce ai contenuti di fede e di costumi. Evidentemente, la gamma di queste istituzioni è molto varia, come è evidente l'evoluzione che alcune di esse hanno avuto dopo il Concilio.

Queste istituzioni sono state strumenti caratteristici della pastorale cristiana, giustificate come supplenza in una società non sviluppata: protezione dei fedeli, specialmente di quelli giovani, in ambienti secolarizzati, estranei o addirittura ostili alla Chiesa; difesa dei diritti della Chiesa, minacciati o non riconosciuti; influenza per sviluppare più adeguatamente la dimensione cristiana e l'evangelizzazione.

In realtà, esse non sono essenziali alla Chiesa: infatti, non si riferiscono al suo essere stesso, ma al suo agire. Non sono Chiesa, ma mondo. D'altra parte, sono confessionali " ab extrinseco ", nella misura in cui si rendono responsabili alcuni organismi della Chiesa. In altre parole: queste istituzioni ricevono il " nulla osta " in via negativa, nella misura in cui non intaccano il dogma né la morale. Evidentemente, non sono garantiti " a priori " i loro contenuti ed i loro atti. Perciò non si possono obbligare i cristiani ad appoggiarle. La loro comprensione è molto cambiata dopo il Vaticano II che ha riconosciuto esplicitamente l'autonomia delle realtà temporali.

Alcuni sogliono distinguere tre tipi di isituzioni temporali cristiane: caritative (per esempio: la " Charitas "), educative (per esempio, le scuole della Chiesa e le università cattoliche), facoltative (per esempio: i sindacati cattolici e i partiti politici cristiani).

All'interno di questo campo svariato di istituzioni, quelle più importanti nella Chiesa sono le istituzioni educative. La loro finalità consiste nell'educare dall'interno della persona umana, con una ispirazione antropologica cristiana, per facilitare lo sviluppo della fede personale e di una visione credente del mondo. Nello stesso tempo in cui si difende tenacemente la loro esistenza da parte di un grande settore della Chiesa, sono palesi i conflitti provocati da queste istituzioni educative. I pericoli e le tentazioni delle scuole e delle università della Chiesa sono evidenti: educare con schemi culturali identificati eccessivamente con un'unica norma cattolica (scarsa libertà religiosa); rinchiudere gli alunni in rifugi o ghetti (fede immatura); violentare le coscienze di insegnanti che hanno ideologie politiche le quali non coincidono con la tendenza dell'istituzione (tensioni tra la direzione e i professori); polemiche con lo Stato a causa dei controlli e dei contributi economici (conflitti col governo); ecc.

Affinché queste istituzioni compiano la loro missione, occorre, prima di tutto, che siano veramente educative, poiché sono state istituite proprio per educare, prima ancora che per impartire un insegnamento religioso. Ciò esige che esse conservino un senso profondo dell'umano, che stiano a servizio della verità, che promuovano la libertà, che difendano i diritti umani e che educhino le coscienze in un modo personale e sociale. In secondo luogo, bisogna evitare le polemiche con le altre istituzioni educative laiche o non cristiane, per cui va bandito ogni settarismo ed ogni intolleranza, mentre va favorito il pluralismo senza privilegi. In terzo luogo, devono ritenersi contingenti, cioè, devono avere la capacità di adattarsi a nuove circostanze e, se è necessario, scomparire quando la finalità per cui sono sorte non esiste più. In quarto luogo, nel loro interno, deve essere possibile lo sviluppo di una certa evangelizzazione, con libertà religiosa, presentazione della Buona Novella, ma senza obblighi di culto. Infine, le istituzioni devono essere vicine al popolo o alle classi meno favorite. In ultima analisi, per poterle valutare con equità cristiana, devono raggiungere alcuni risultati pastorali proporzionati ai mezzi ed al personale di cui fanno uso.

Bibl. - Garelli F., " Istituzioni ", in: Dizionario di Pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 468-474. Girod R., Politiche dell'educazione, Ed. Armando, Roma, 1983. Nanni C., " Istituzioni educative ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1977, op. 562-565.

A. Floristán

Kèrigma. (inizio)

Con questo termine (in greco: Kerýsso = annuncio), si intende l'annuncio apostolico nei primi tempi del cristianesimo. La critica pone oggi un'attenzione speciale nel considerare la sua incidenza ed il suo contenuto. Si sa, infatti, che, dopo l'esperienza della Pentecoste, i primi discepoli cominciarono col proclamare semplicemente le loro esperienze personali infervorate dal loro incontro col Risorto. Il nucleo della loro predicazione non poteva essere più semplice: " Gesù è risorto! " Questa convinzione ebbe la forza non solo di sostenere il cristianesimo, ma anche di introdurlo negli ambienti più ostili: infatti, andava crescendo il numero dei credenti. L'unico dogma kerigmatico era la risurrezione di Gesù (1 Cor 15,14.17). Su di essa, la nuova fede pose la sua base. Di fatto, gli apostoli acquisirono un impegno esistenziale con Gesù solo quando questi, dopo la sua risurrezione, penetrò nel loro intimo, porgendo loro una convinzione ancorata nella vita e non limitata a puri concetti. Per vari anni, i predicatori kerigmatici si limitarono a presentare agli altri questa esperienza vitale che il Risorto aveva infuso in loro.

Molti si meravigliano nel vedere come, all'inizio del cristianesimo, bastava accettare la risurrezione di Gesù per essere membri attivi della comunità. Era così facile essere cristiani? Così sembra. Però, in realtà, la cosa era più complessa. Di fatto, la risurrezione di Gesù doveva essere accettata non solo con l'adesione mentale, ma con tutta la vita. Per questo, era richiesto di condurre l'esistenza personale su parametri " resurrezionisti " e questi esigevano il primato dell'amore, la pace, la giustizia e la concordia tra gli esseri umani. Vivere secondo questo programma era l'equivalente di vivere secondo il vangelo. Chi si comportava così era già un credente di cuore. Quando poi ciò era ammesso in forma ufficiale, ricevendo il battesimo come rito di appartenenza, si passava alla fase dell'istruzione catechetica (didakè). Il kèrigma aveva la finalità di sfidare i non credenti affinché, accordandosi al ritmo della risurrezione, adeguassero la loro esistenza al progetto di Gesù, e questo permetteva loro di condividere la nuova fede cristica.

Bibl. - Forte B., Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Ed. Paoline, Roma, 1982, pp. 133-156. Grasso D., L'annuncio della salvezza, Napoli, 1965. Latourelle R., " KèrigmaCatechesiParenesi ", in: Dizionario di Teologia fondamentale, Ed; Cittadella, Assisi, 1990, pp. 627-629. Rahner K., La salvezza nella Chiesa, Roma-Brescia, 1969. Serenthà M., Gesù Cristo ieri oggi e sempre. Saggio di cristologia, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1991, pp. 23-53.

A. Salas