DIZIONARIO SINTETICO DI PASTORALE

CASIANO FLORISTAN - JUAN JOSÈ TAMAYO

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Laicismo. (inizio)

Per laicismo, si intende la dottrina che vuole evitare ogni influsso religioso ed ogni potere temporale di qualsiasi Chiesa, nella vita politica e pubblica della nazione (la religione è vista come una faccenda strettamente privata). Il termine, per la sua storia ricca di conflitti, può prestarsi a confusioni. Come concetto, il laicismo è distinto dall'ateismo (gli atei sono tutti laicisti, ma non tutti i laicisti sono atei). In molte epoche, soprattutto nel secolo XIX e nella prima metà del secolo XX, il laicismo si è trasformato in una specie di mistica, coi suoi grandi patriarchi (per esempio: Victor Hugo). Il laicismo nacque strettamente legato col libero pensiero, con l'anticlericalismo e con gli ideali della sinistra.

Etimologicamente, la parola deriva dal greco " laòs ", che significa: popolo. Essa allude, quindi, al sorgere delle democrazie moderne, come potere del popolo che si auto-governa. Inizialmente, i grandi princìpi che orientarono l'evoluzione delle società moderne verso la laicizzazione delle loro istituzioni (uguaglianza di culto, neutralità dei servizi pubblici, separazione dello Stato dalle Chiese), trovarono nella Chiesa Cattolica un avversario deciso (enciclica Quanta cura e Syllabus di Pio IX). Il papato condensò questi princìpi senza distinguere tra laicismo come filosofia sociale, e laicità come metodo di organizzazione statale. A partire dal 1914, si può percepire una maggiore chiarezza nella controversia. Le cause possono raggrupparsi così:

1) lo sforzo dei cattolici impegnati nell'azione politica e sociale (" cattolicesimo liberale ", contrapposto all'" integralismo cattolico ");

2) l'insegnamento dei Papi a partire da Leone XIII (encicliche: Immortale Dei e Libertas praestantissimum, in cui non è modificata la posizione di fondo dei papi precedenti, ma viene eliminato ciò che non è essenziale per l'integrità dottrinale. Servirono come punti di aggancio per l'evoluzione del magistero). Inizialmente, si stabilì la distinzione tra la " tesi " ? la situazione " ideale " ? e la " ipotesi " ? una situazione di fatto che richiede soluzioni pratiche ammissibili). A partire dal 1945, una dichiarazione dell'episcopato francese invitava i cattolici ad ammettere l'esistenza di una concezione di laicità dello Stato conciliabile con la dottrina della Chiesa. Si riconosceva, dunque, la distinzione tra laicità, come situazione giuridica dello Stato, e laicismo, come sistema di pensiero e filosofia sociale.

3) Un ultimo dato importante è stata l'evoluzione di ciò che potremmo chiamare " mentalità laicista ". Da una parte, nelle democrazie liberali, il laicismo ha perduto molto della sua aggressività, almeno nel campo politico, di modo che la situazione giuridica di laicità si è rivelata non solo meno avversaria della religione di quanto si prevedeva, ma addirittura favorevole. La laicità è stata considerata come la distinzione tra i due poteri, quello spirituale e quello civile, in una collaborazione crescente e senza l'intento confessato di ridurre la religione ad una faccenda strettamente privata. Di fatto, la politica concordataria fortemente attiva, di Pio XI, permise di vedere in che misura il pontificato veniva a patti con la laicità degli Stati di quel tempo, ed anche in che misura guadagnava terreno su questa laicità quando l'occasione si presentava. Indubbiamente, il tipo ideale di concordato per la Santa Sede fu quello ottenuto dall'Italia con gli accordi del Laterano. Un caso simile, molto più tardi, fu il concordato col governo spagnolo del Generale Franco nel 1953, in cui venne conservata la confessionalità dello Stato.

D'altra parte, avvenne un trasferimento del laicismo radicale verso i cosiddetti " paesi dell'Est " (europeo), di ideologia marxista, dove l'ateismo di stato è stato eretto a sistema. C'è, però, una grande differenza tra il laicismo individualista liberale, che perdura ancora in Occidente come forma di anticlericalismo, ed il laicismo autoritario esplicitamente ateo. Col trionfo della Rivoluzione Sovietica (1917), si stabilì nel mondo, in modo stabile e sempre più estesa, la rottura radicale delle collettività umane col sacro, e si affermò la dottrina dell'autosufficienza dell'uomo che era stato il timore della Chiesa già nella Rivoluzione francese del 1789. I casi di collaborazione pratica tra cristiani e marxisti in Occidente (resistenza comune di fronte a regimi totalitari di destra) e i tentativi di avvicinamento teorico a certi livelli (dialoghi cristiani-marxisti) non nascondo il fossato profondo con l'ateismo militante nella sua concezione dell'uomo. Per il cristianesimo, l'uomo non può introdurre una separazione completa tra i fini temporali ed il fine ultimo dell'esistenza. La via di avvicinamento possibile è la distinzione tra il sistema sociale e la filosofia che lo ispira (laicismo ateo). La distinzione è formulata da parte cristiana (" cristiani per il socialismo "); è praticabile a livello teorico ed è utile per ottenere una metodologia di analisi sociale e perfino per ottenere visioni utopiche su una " società del futuro ". Però, non sembra possibile giungere alla pratica in stati dalle strutture totalitarie, in cui l'ateismo è parte dell'insegnamento ufficiale.

Il Concilio Vaticano II ha dichiarato che la libertà religiosa è un diritto fondato sulla dignità stessa della persona umana (DH 2), in modo tale che nessuno può essere costretto ad agire contro la sua coscienza, né impedito di agire secondo essa. Con queste affermazioni, il Concilio ha posto i fon amenti teologici della concezione cristiana circa la laicità dello stato: " Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società " (DH 2). Ciò vuol dire: per tutti e per ognuno, senza alcuna discriminazione religiosa.

Il Concilio afferma anche: " La Chiesa stessa si serve delle cose temporali nella misura che la propria missione richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall'autorità civile. Anzi essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni " (GS 76).

D'altra parte il Concilio riconosce: " La Chiesa... in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico... La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane " (GS 76).

La dottrina cattolica, pertanto, nella sua evoluzione storica, è giunta oggi ad un concetto chiaro di laicità, teologicamente fondato, la cui importanza è sottolineata dallo stesso Concilio Vaticano II: " È di grande importanza, soprattutto in una società pluralistica, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa " (GS 76).

La costituzione spagnola del 1978, all'articolo 16, enuncia la a-confessionalità dello Stato (paragrafo 3) e garantisce la libertà religiosa e di culto per le individui e per le comunità (paragrafo 1).

Bibl. - Goffi T., " Laicismo ", in: Enciclopedia filosofica, III, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 1349-1351. Matteucci B., Cultura religiosa e laicismo, Alba, 1960. N.N., " Laicismo ", in: Enciclopedia Cattolica, VII, Città del Vaticano, 1950, coll. 816-819. Pavan P., Laicismo d'oggi, Roma, 1962. Vergottini M., " Laicità ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 403.

J. Martínez Cortés

Laico. (inizio)

Etimologicamente, il termine laico designa colui che appartiene al popolo (laòs), e questo è il senso dogmatico del Concilio Vaticano II: membro del Popolo di Dio, battezzato, fedele, cristiano, ecc. (LG c. 2). Da una prospettiva descrittiva o fenomenologica, si usa questo termine per designare i cristiani che vivono nel mondo e che non appartengono né alla vita religiosa né al clero (LG 31).

Questa pluralità di contenuti rispecchia l'evoluzione storica e teologica. Il concetto di laico cominciò ad essere usato a partire dal secolo III in contrapposizione a quello di clero (laico è colui che non è chierico, che non appartiene all'ordine sacerdotale). Si accentuano presto gli aspetti negativi (colui che appartiene alla plebe, che è incolto). Si stabiliscono tre ordini nella Chiesa: quello sacerdotale, quello monastico e quello laicale. La progressiva clericalizzazione della Chiesa e la crescente sacerdotalizzazione dei ministri è stata accompagnata da una perdita simultanea del protagonismo dei laici e in genere della comunità cristiana. I ministri ordinati assunsero sempre più numerose funzioni ed emarginarono i laici dall'insegnamento, dalla catechesi e dalla predicazione. Inoltre, ci fu la tendenza a limitare il ministero profetico dei laici a vantaggio dei chierici. Molti uffici carismatici che prima erano esercitati dai laici si trasformarono in ordini minori del clero. La Chiesa si costituì a poco a poco attorno al binomio chiericolaici. A partire dalla riforma gregoriana del secolo XI, fu sempre più forte la tendenza affinché i laici si occupassero delle faccende secolari e i chierici di quanto concerne la vita interna della Chiesa. In questo modo, è avvenuta l'identificazione del concetto di Chiesa con quello di clero.

Anche il movimento monastico, luogo della vita religiosa, ha contribuito indirettamente ad una svalutazione dei laici. Il monachesimo sorse come un movimento laicale, e questa caratteristica rimase in Occidente fino al secolo IX in cui si clericalizzò, mentre in Oriente è immutato fino ad oggi. È un movimento carismatico e profetico che fugge le dignità sacerdotali e che inizialmente cercò di vivere il radicalismo evangelico. Tuttavia, l'evoluzione posteriore lo portò a clericalizzarsi ed ad appartarsi dai laici come una forma distinta di vita. A poco a poco, si distinse tra i consigli evangelici dei religiosi e i comandamenti del Decalogo che riguardano i laici. Così, venne a crearsi un dualismo di cristiani a seconda che aspirino o meno alla perfezione evangelica. La crescente valutazione dei voti religiosi come consacrazione a Dio portò a sottovalutare la consacrazione battesimale, e alcuni religiosi cambiarono il nome di battesimo entrando in un ordine religioso. Così, quello che era cominciato come un movimento evangelico e carismatico laicale divenne uno stato di vita separato, più vicino al clero che non al laicato.

Col Vaticano II, avvenne una costante rivalorizzazione dei laici, sia a livello teologico che nella prassi ecclesiale. Questo movimento innovatore cominciò ancora prima del Concilio. I suoi antecedenti più diretti furono nei movimenti apostolici dell'Azione Cattolica e nella valorizzazione della vocazione missionaria dei laici. In seguito, con Paolo VI, assistiamo ad una promozione dei ministeri laicali, nella vita interna ed esterna della Chiesa. Specialmente le Chiese del terzo Mondo furono quelle che valorizzarono maggiormente il movimento laicale. Ciò fu reso possibile dalla congiuntura della scarsità di vocazioni sacerdotali e di una concezione teologica ed ecclesiale meno clericale di quella delle vecchie cristianità. Sussistono, tuttavia, ostacoli e ricordi della concezione clericale.

Dal punto di vista teologico, il Concilio Vaticano II ha sottolineato la funzione sacerdotale dei laici (LG 34) con un sacerdozio esistenziale che porta a consacrare a Dio tutte le attività. È il sacerdozio che proviene dal sacrificio di Cristo, sacerdote e vittima, che fa della propria vita un'offerta a Dio e che elimina la differenza tra il culto e la vita quotidiana. Questo è l'aspetto più originale e più specifico del saczerdozio cristiano. Il ministero sacerdotale è in questo ambito. Bisogna vivere tutte le realtà umane sacerdotalmente, operando nel mondo come vicari di Cristo.

Il Concilio tratta anche della funzione profetica dei laici (LG 35): devono dare testimonianza di speranza ed evangelizzare la società. Ciò esige il discernimento degli spiriti ed un magistero esperienziale, basato sulla forza dello Spirito. L'età adulta del laicato passa attraverso la partecipazione alla missione e alla vita interna della Chiesa (LG 33). I laici hanno il diritto di esprimere pubblicamente il loro parere su quanto concerne la vita cristiana (LG 37). Questi pronunciamenti conciliari sono tra i grandi compiti del post-Concilio.

È riconosciuto ai laici un posto nella costruzione del Regno (LG 36) ed il protagonismo in una Chiese peregrina che deve osservare i segni dei tempi. Oggi, i grandi compiti del Regno di Dio sono quelli della solidarietà coi poveri e della lotta per l'instaurazione di un mondo più giusto, come anche l'evangelizzazione di una società consumista e secolarizzata che perde sempre più il suo rapporto con Dio. Il momento attuale rappresenta una sfida e una opportunità per i cristiani. La loro risposta dipende in gran parte dai laici. Si può dire che essi sono il futuro della Chiesa quelli che hanno da testimoniare il Dio trascendente nella immanenza della storia.

Bibl. - Balthasar H.U. von, L'impegno del cristiano nel mondo, Ed. Jaca Book, Milano, 1971. Beni A., " Laico ", in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 691-701. Brugnoli P., La spiritualità dei laici, Ed. Morcelliana, Brescia, . Congar Y., Per una teologia del laicato, Ed. Morcelliana, Brescia, 1966. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica " Christifideles Laici ", 30.12.1988.

J.A. Estrada

Lavoro. (inizio)

Il lavoro è un costitutivo dell'essere umano, tanto che molti antropologi ritengono l'invenzione degli attrezzi come l'atto di nascita dell'uomo. In accordo con questa affermazione è il racconto jahvista della creazione in cui si dice che il Signore pose l'uomo " nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse " (Gen 2,15). Dio non aveva fatto ciò con gli animali. Nel racconto sacerdotale, viene detto ancora di più quando si afferma che l'uomo è fatto " ad immagine e somiglianza di Dio ", e che per questo, ha il potere di soggiogare la terra (Gen 1. 27- 28). L'uomo appare come un mikroktìstes (un " piccolo creatore ") che col suo lavoro continua l'attività creatrice di Dio. Viene detto espressamente: " Il farmacista prepara le miscele. Non verranno meno le sue opere " (Sir 38,8). Pertanto non si può affermare come un assoluto che il lavoro è un castigo imposto da Dio all'uomo. Quello che va interpretato come " castigo ", non è il lavoro, ma il suo carattere spesso gravoso (Gen 3,17-19). Però, non dobbiamo pensare che questo aspetto oneroso del lavoro sia un castigo introdotto da Dio dal di fuori: si tratta di un disordine introdotto dal di dentro da colui al quale Dio aveva affidato il mondo perché lo dominasse. È stato introdotto da allora, ma contro il volere di Dio. È importante notare che la magnificenza dei monumenti compiuti in Egitto durante la XIX dinastia non giustifica agli occhi di Dio lo sfruttamento dei lavoratori israeliti che li hanno fatti (Es 1,11-14). JHWH si manifesterà proprio come Colui che libera il popolo da una simile oppressione.

Giovanni Paolo II ha chiamato " lavoro in senso oggettivo " (Laborem exercens 5) le possibilità che vengono offerte per dominare il creato. Non occorre dire che, soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale, la dimensione oggettiva è stata potenziata in modo spettacolare. Nello stesso documento, il Papa ricorda che il lavoro ha anche una " dimensione soggettiva " (Laborem exercens 6). Questa permette all'operaio di autorealizzarsi e di autoesprimersi (Unamuño parlava del ciabattino che era riuscito ad essere così insostituibile per i suoi conterranei che ne avrebbero sentito la mancanza quando fosse loro morto: quando " fosse loro morto ", non solo quando " fosse morto ".). Il papa afferma che, in caso di conflitto tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva del lavoro, si deve dare la precedenza a quest'ultima, perché l'uomo è più importante delle cose. Purtroppo, è spesso accaduto il contrario, e nella nostra civiltà industriale, quanto più si è sviluppata la dimensione oggettiva, e tanto più è andata peggiorando quella soggettiva, come conseguenza, alle volte, della realizzazione di compiti monotoni, ripetitivi e frammentati fino all'assurdo. Oppure, altre volte, si è trattato di lavori spossanti e mal retribuiti. Come diceva un operaio, " quasi tutti abbiamo alcuni compiti che sono troppo piccoli per il nostro spirito ".

Inoltre, se si continua a dare importanza unicamente alla dimensione oggettiva del lavoro, non solo sarà inevitabile l'alienazione degli operai, ma si prescinderà da coloro che non sono necessari (i disoccupati), o che non riescono ad adattarsi ad un certo minimo di produttività (gli handicappati). La rivalorizzazione della dimensione soggettiva mostra che anch'essi hanno il diritto di realizzarsi mediante il lavoro, e non solo, nel migliore dei casi, di godere dei beni che sono stati conseguiti con lo sforzo altrui (Laborem exercens 22). Comunque, non intendiamo dire che si debba vedere nel lavoro l'unica fonte di realizzazione umana. Questa precisazione sembra specialmente importante oggi in cui i progressi tecnici fanno già pensare ad una civiltà dell'ozio.

D'altra parte, una comprensione esatta del significato della dimensione oggettiva deve condurre alla convinzione che non ogni lavoro è lecito. Ci sono dei lavori che, invece di dominare la terra, la distruggono (cf Ecologia). Altri lavori, come avviene con la fabbrica delle armi, minacciano la sopravvivenza della stessa umanità (cf Violenza). Conseguentemente, una corretta spiritualità del lavoro non potrà badare soltanto alle disposizioni soggettive dell'operaio, ma dovrà anche interrogarsi sul valore oggettivo del lavoro. La questione decisiva è se i frutti del lavoro entreranno o meno, in qualche modo, nella costruzione del Regno.

Ci troviamo, difatti, davanti ad un aspetto decisivo. Anche non condividendo l'idea di Charles Péguy, secondo il quale Notre-Dame di Chartres e Notre-Dame di Parigi devono essere eternamente presenti davanti a Dio come testimoni degli esiti umani, che sarebbe di un pittore senza la sua opera? di un musico senza le sue sinfonie? di un poeta senza le sue poesie? Che dire dell'estensione straordinaria dell'industria moderna? degli ingegneri e degli operai? Non rimarrà proprio nulla? Come dobbiamo intendere la frase: " Le loro opere li seguono " (Ap 14,13)? Il Concilio Vaticano II afferma: " Tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno ed universale " (GS 39).

Bibl. - Alfaro J., Teologia del progresso umano, Ed. Cittadella, Assisi, 1972. Bianchi G., Dalla parte di Marta: per una teologia del lavoro, Ed. Morcelliana, Brescia, 1987. Chenu M.D., Per una teologia del lavoro, Ed. Borla, Roma, 1964. Giovanni Paolo II, Enciclica " Laborem exercens ", 14.9.1981. Mattai G., " Lavoro ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 621-634. Noto V., Creazione e lavoro, Coines, Roma, 1972. Pizzuti D. (a cura di), Per una teologia del lavoro nell'epoca attuale, Ed. dehoniane, Bologna, 1985.

L. González-Carvajal

Leadership (funzione di guida). (inizio)

In ogni struttura di gruppo, esiste sempre qualche forma di leadership. La sua caratteristica essenziale sta nel fatto che una persona esercita una certa influenza su qualche altra, più comunemente: una o più persone influiscono su un numero maggiore.

Il " leader " è il membro di un gruppo che influisce sulle attività dei membri ed occupa un posto importante nel gruppo quando si tratta di prendere decisioni e di definire gli obiettivi da raggiungere. Egli influisce sul gruppo e nello stesso tempo risponde alle attese del gruppo.

La psicologia sociale al suo inizio, nei primi decenni di questo secolo, ha studiato la " leadership " in rapporto con le attitudini del " leader " ed ha pensato che i " leaders " fossero personalità che spiccano sugli altri membri del gruppo per una serie di caratteristiche fisiche, psichiche e sociali.

Contrariamente alle teorie del " leader " come personalità superiore, si è poi riconosciuta la " leadership " come un fenomeno interno al gruppo in una situazione determinata. Riesce a diventare " leader " colui che per le sue capacità intellettuali, per la sua esperienza, può, all'interno del gruppo, superare meglio una situazione che costituisce per tutti un problema insolubile. Il " leader " viene determinato da un gruppo e da una situazione. Cartwright e Zander diranno che la " leadership " consiste nella realizzazione di quegli atti che devono aiutare il gruppo a conseguire i risultati desiderati.

Krech e Crutchfield hanno elencato quattordici funzioni che il " leader " può compiere: esecutivo, pianificatore, creatore di una politica, esperto, rappresentante esterno del gruppo, controllore dei rapporti interni, fonte di ricompense e di castighi, arbitro e mediatore, esempio, simbolo del gruppo, sostituto delle responsabilità individuali, ideologo, figura paterna, capro espiatorio.

Nella teoria della " leadership " come funzione di gruppo, emergono due punti:

1) qualsiasi membro del gruppo può essere " leader ", in quanto può agire per rendere servizio alle funzioni del gruppo;

2) molti comportamenti differenti possono servire per la funzione di " leadership ".

Le teorie recenti sono eclettiche: un " leader " avrà successo soltanto se, oltre alle qualità personali necessarie, coinciderà con una condizione sociale favorevole. Le varianti più importanti per intendere la " leadership " sono:

1) la personalità del " leader ";

2) le necessità, attitudini e problemi dei seguaci;

3) il gruppo nella sua struttura e " personalità " in quanto tale;

4) la situazione di accordo con le circostanze fisiche e col compito del gruppo.

Ci sono due tipi di funzioni nel gruppo: alcune sono orientate verso il compito; le altre, verso la conservazione del gruppo. Ciò dà origine a due tipi di " leadership ": il " leader " socio-attivo e il " leader " socio-empatico. Il primo si preoccupa di raggiungere gli obiettivi materiali, stimolando, dirigendo e coordinando il gruppo. Il secondo si preoccupa di creare un clima di gruppo soddisfacente per i rapporti interpersonali dei membri.

Si possono ancora distinguere: i " leaders " autoritari e quelli democratici. Questi ultimi promuovono l'accettazione degli obiettivi da parte del gruppo ed aumentano la coesione nel suo interno. Così, i membri hanno la possibilità di sentirsi soddisfatti. Il " leader " autoritario decide da solo le tattiche del gruppo; lui solo conosce le fasi da attraversare; non permette ai membri di partecipare all'impostazione degli obiettivi comuni.

Non è evidente che ci sia un fattore comune di personalità nei " leaders ". Però, possiamo indicare come favorevoli i seguenti: l'intelligenza, l'adattamento, l'estroversione, l'ascendente. Un altro fattore che favorisce la " leadership " è la somiglianza col gruppo. Il " leader " deve essere uno dei suoi, parlare il suo linguaggio e non essere troppo differente dagli altri. Però, nello stesso tempo, occorre che si distingua dalla massa per essere percepito come " il migliore di noi ".

Bibl. - Badin P., Psicologia dei gruppi, Ed. Armando, Roma, 1972; De Grada E., Elementi di psicologia dei gruppi, Ed. Bulzoni, Roma, 1969; Luft J., Introduzione alla dinamica di gruppo, Ed. La Nuova Italia, Firenze, 1973; Maisonneuve J., La dinamica di gruppo, Ed. Celuc, Milano, 1973; Mucchielli R., La dinamica di gruppo, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1980. Scilligo P., " Psicologia sociale ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 883-884.

F.J. Calvo

Legge nuova. (inizio)

Nella storia della salvezza, la teologia classica distingue una triplice legge: la legge antica (AT), la legge nuova (NT), e la legge naturale (non rivelata). La legge nuova è il regime definitivo di salvezza instaurato da Cristo, annunciato e prefigurato dalla legge antica.

I profeti hanno annunciato una nuova alleanza: Dio sarebbe intervenuto nella storia degli uomini mettendo la legge nei loro cuori e infondendo in loro uno spirito nuovo: " Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro... perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi "( Ez 11,19-20). " Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo " (Ger 31,33).

Gesù Cristo si confronta con la legge in nome di Dio e dell'uomo visto partendo da Dio. La legge nuova nel vangelo è un segno, assieme alle parabole, ai miracoli, alla condotta di Gesù, che il Regno di Dio è già venuto tra gli uomini. Il sermone della Montagna, la Magna Carta della legge nuova, non è un elenco di precetti. Cristo, prima che legislatore, è lui stesso la legge. L'uomo, le necessità, le aspettative, le speranze che si presentano vengono ad essere il libro di base della volontà di Dio.

Per san Paolo, la questione decisiva è: " salvezza nella legge ", o " salvezza in Cristo ". Si tratta dell'autorità definitiva della rivelazione di Dio: la legge o Gesù Cristo. Questo punto di partenza presuppone un cambiamento radicale per determinare il principio o la norma della vita cristiana. San Paolo presenta la legge nuova come " la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù " (Rm 8,2), come " la legge di Cristo " (Gal 6,2), come la " legge della fede " (Rm 3,27), come la legge che ha il suo pieno compimento nella carità (Rm 13,10). San Giacomo la chiama " la legge della libertà " (Gc 1,25). L'autore della Lettera agli Ebrei, richiamando Ger 31,31-34, parla della legge scritta nella mente e nel cuore (Eb 8,10).

La tradizione cristiana, in contesti vari, ha sempre riaffermato lo spirito della legge nuova del cristiano: legge-grazia (Sant'Agostino), legge nuova (san Tommaso d'Aquino), legge-vangelo (Lutero), legge-libertà (Seripando).

Secondo san Tommaso, la legge nuova di Cristo contiene due elementi. L'elemento principale è la grazia dello Spirito Santo, che muove l'uomo dall'interno e lo trasforma interiormente. L'elemento secondario, ma essenziale, è tutto ciò che non è la grazia dello Spirito Santo e, pertanto, non muove né cambia l'uomo. A questo elemento appartengono non solo le leggi, ma anche i libri sacri, la Chiesa, ecc. La legge nuova è l'intima presenza normativa della grazia dello Spirito Santo, espressa nella fede, nella speranza e nella carità.

Bibl. - Potterie de la I.-Lyonnet S., Legge e libertà, evangelo e morale, Ed. Jaca Book, Milano, 1973. Rondet H., Gratia Christi, Ed. Città Nuova, Roma, 1966. Schnackenburg R., Il messaggio morale del Nuovo Testamento, 2 voll., Ed. Paideia, Brescia, 1989. Spicq C., Carità e libertà secondo il Nuovo Testamento, Ed. Coletti, Roma, 1962. Valsecchi A., " Legge nuova ", in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., 1994, pp. 647-658.

M. García Leyva

Liberazione. (inizio)

" Una profonda e ampia aspirazione alla liberazione anima oggi la storia umana ", scrive Gustavo Gutiérrez, sintetizzando quasi in un aforismo i molteplici e vari sforzi degli uomini e dei popoli per spezzare le catene di ogni genere che li opprimono e per giungere ad essere padroni della propria sorte, senza interferenze interne che finiscono con la sottomissione e la schiavitù.

Il termine liberazione, ampiamente usato, abbraccia una grande ricchezza di significati, a seconda dei contesti e degli ambienti a cui si riferisce. Sul piano psicologico, si intende la liberazione interiore, personale, individuale; si riferisce anche all'autodominio e all'autocontrollo di tutte le forze del corpo e dello spirito. Su un altro piano, complementare di quello precedente, si parla della liberazione sessuale per sottolineare il carattere intercomunicativo, gratificante e appagante della sessualità. Si parla anche della liberazione della donna, insistendo sulla necessità di lottare contro le strutture di dominazione imposte dal dominio dell'uomo sulla donna.

Sul piano politico, il termine liberazione si usa per riferirsi alla lotta dei popoli oppressi ed emarginati, con l'intento di conseguire la loro indipendenza nazionale. Così, si parla di movimenti di liberazione nazionale. Sul piano sociale ed economico, la liberazione è intesa come lotta contro le ingiustizie ed oppressioni di carattere strutturale, con l'intento di conseguire una società più giusta, più fraterna e più solidale, senza oppressori né oppressi. Cosi, si parla, specialmente nei taesi del terzo Mondo, dove l'oppressione e la dipendenza economiche e sociali sono più scandalose e drammatiche, di movimenti di liberazione.

Alle volte, si mette l'accento sulla liberazione della soggettività schiavizzata, come è avvenuto nel primo tempo dell'Illuminismo, simboleggiato da Kant. Altre volte, si parla della liberazione dalla miseria della realtà, o dalla oppressione storica, come è avvenuto nel secondo tempo dell'Illuminismo, simboleggiato da Marx e da tutta la tradizione socialista.

Il termine liberazione è penetrato anche nelle varie discipline che si occupano dello studio dei processi sociali e dei comportamenti umani. Questo ha comportato un cambiamento significativo di orizzonte e di tematica. Così, per esempio, abbiamo la filosofia della liberazione, l'etica della liberazione, la sociologia della liberazione, la pedagogia liberatrice, ecc.

Il termine ha avuto un'incidenza speciale nel discorso teologico, dando origine ad un modo nuovo di fare teologia: la teologia della liberazione, nata e sviluppatasi prima di tutto in America Latina, e poi estesasi in Asia ed in Africa. Esiste anche una teologia africana ed una teologia femminista della liberazione, che si articolano come riflessioni critiche, proprio partendo dall'esperienza di emarginazione strutturale degli Africani, la prima, e dall'esperienza di dominazione strutturale delle donne nella società maschilista, la seconda. Nei paesi del " Primo Mondo ", sta nascendo anche in essi una teologia della liberazione partendo da situazioni peculiari di dominazione in cui vivono certi settori sociali.

Qui, ci riferiremo in modo sommario alla teologia latino-americana della liberazione, che è stata la fonte che ha ispirato le altre teologie del genere.

La teologia della liberazione (TL) è sorta in America Latina, un continente povero e formato nella sua maggioranza da cristiani, negli anni Sessanta del nostro secolo. In quel tempo, ci fu una presa di coscienza generalizzata e crescente della situazione di dipendenza economica, politica, culturale, tecnologica e perfino religiosa dei popoli latinoamericani. Questa presa di coscienza fu accompagnata da un impegno per liberare il continente. Questo impegno si espresse nei movimenti popolari di liberazione.

Questo fu anche il tempo in cui importanti settori della comunità cristiana (delle differenti confessioni cristiane) si resero presenti nei vari processi e movimenti di librazione, implicando la loro fede, spesso fino al martirio, nella lotta per trasformare le strutture della realtà latino-americana.

Questo si rifletté nella vita e nell'organizzazione delle Chiese e diede origine alla nascita delle comunità ecclesiali di base, formate dai settori più poveri della popolazione, promosse in motti casi dai vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, e animate da guide laiche. Medellìn diede un forte impulso a queste comunità, considerandole un " fattore primordiale di promozione umana e di sviluppo ", e cellule di strutturazione ecclesiale.

La congiunzione di questi fattori portò ad una riformulazione della fede, dapprima in una forma spontanea e poi in modo sistematico, fino a sfociare nella TL, intesa come " riflessione critica da e sulla prassi storica a confronto con la Parola del Signore viva ed accettata nella fede " (G. Gutiérrez). Questa teologia non è articolata mimeticamente sull'immagine della teologia progressista europea, ma tiene presente l'identità culturale latino-americana e la situazione di oppressione delle masse popolari.

Per la TL, l'atto primo è la prassi e la contemplazione; la riflessione teologica viene dopo, come atto secondo. Parlare di Dio (teo-logìa) è posteriore al silenzio della preghiera e all'impegno per la liberazione. La TL si riconosce integrante della prassi di liberazione, situandosi nel suo interno come momento specifico, con un significato ed un compito propri.

La TL è elaborata dalla prospettiva dei poveri, che sono la chiave per comprendere il senso della liberazione e la rivelazione del Dio liberatore, come anche il luogo teologico per eccellenza. Ciò che importa veramente ed in ultima istanza alla TL è la liberazione integrale dei poveri e degli oppressi.

La TL distingue tre livelli di significato nel concetto di liberazione: " liberazione politica, liberazione dell'uomo lungo la storia, liberazione dal peccato ed ingresso nella comunione con Dio " (G. Gutiérrez). Sono tre livelli distinti che non sé possono confondere, ma nello stesso si interpenetrano reciprocamente.

Bibl. - Assmann H., Teologia della prassi della liberazione, Ed. Cittadella, Assisi, 1974. Boff L., Gesù Cristo Liberatore, Ed. Cittadella, Assisi, 1973. Congregazione per la Dottrina della Fede, (prima) Istruzione sulla teologia della liberazione, 6.8. 1984; (seconda) Istruzione: Libertà cristiana e liberazione, 22.3.1986. Cuminetti M., La teologia della liberazione nell'America Latina, Ed. Borla, Torino, 1975. Girardi G., Educare: per quale società?, Ed. Cittadella, Assisi, 1975. Guriérrez G., Teologia della liberazione. Prospettive, Ed. Queriniana, Brescia, . Molari C., " Liberazione ", in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 726-753.

J.J. Tamayo

Libertà. (inizio)

La libertà nell'AT si esprime nel modo migliore nelle opzioni fondamentali a cui l'uomo deve rispondere come singolo e come membro di un popolo (Gs 24,14 ss; 1 Re 18,21; Sir 15,14-17; Dt 30,15-19; ecc.). La libertà è, prima di tutto, un prendere decisioni. L'individuo deve superare tutti i problemi importanti che gli si presentano e prendere la decisione che gli sembra più pertinente. Il fatto di prendere decisioni consiste, allora, nel valutare i dati che agiscono a favore dell'individuo e che lo rendono capace di fare una scelta indovinata. Il fondamento della libertà non è altro che la razionalità.

In qualsiasi decisione, ognuno si incontra con due classi di premesse condizionanti: le premesse di fatto (che necessitano della verifica empirica per stabilire il loro valore) e le premesse di valore (non soggette a questo tipo di verifica). Le premesse di valore fanno riferimento ai fini trascendentali della persona, mentre le premesse di fatto si riferiscono ai mezzi.

Le premesse non sono date " da sé ". Il soggetto le ha ricevute attraverso trasmissioni orali e non orali dai genitori, dagli educatori, dalla cultura e dalla società a cui appartiene, e tutto questo, all'interno della propria storia personale. Queste premesse sono condizionate dalle capacità, dalle abitudini, dalle motivazioni, dagli emozioni e dai riflessi, più o meno inconsci, che determinano automaticamente l'agire dell'individuo ed il suo atto di libera scelta, oltre al numero di conoscenze e di informazioni fondamentali di cui dispone.

Se guardiamo la libertà dal punto di vista delle decisioni, possiamo dire che la scelta avviene sempre sulla base di un modello limitato, semplificato e approssimativo della libertà. In questo senso, quando uno prende una decisione sulla base di alcune premesse parziali, non può perseguire una decisione ottima, ma soltanto una decisione soddisfacente.

Dal punto di vista della fede, la libertà del cristiano viene arricchita dall'intervento dello Spirito di Gesù, Egli può influire sulle nostre decisioni, portando nuovi dati. Lo Spirito non solo rende possibile una conoscenza più chiara della realtà, ma diventa per il credente una forza psichica agente. Infatti, " dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà " (2 Cor 3,17).

In fondo a tutti i sistemi di morale, da Aristotele, Platone e sant'Agostino, passando per san Tommaso e gli Scolastici, è soggiacente la preoccupazione, più pratica che teorica, circa la responsabilità dell'uomo nel suo agire nel mondo. Però, è soprattutto a partire dal secolo XVIII, come conseguenza della Rivoluzione francese (1789), quando la libertà vuole essere vissuta come un diritto di fronte a tutti, perfino del potere, che la libertà appare centrale nella vita dell'uomo.

La libertà appartiene essenzialmente alla persona. Di più: solo nella libertà si costituisce la persona. Nella libertà come capacità di autodefinirsi e auto-determinarsi, scopriamo una duplice dimensione:

1) quella che si chiama " libertà da ", e

2) quella che si chiama " libertà per ".

La " libertà da " è la libertà per decidere senza ostacoli. Essa coincide con l'autonomia della persona di fronte a qualsiasi specie di coercizione esterna. La " libertà per " si riferisce alla capacità della persona per quanto riguarda lo sviluppo delle proprie potenzialità. Essa viene inquadrata nei coordinamenti storici, nell'appartenenza ad una comunità ad una determinata cultura e nel proprio ambiente vitale.

La " libertà da ", che può essere considerata come libertà naturale, si fonda sulla natura razionale dell'uomo. Consiste nella consapevolezza della propria autonomia di fronte al cosmo e all'ordine naturale, il che rende possibili le decisioni personali partendo dal " libero arbitrio ".

La " libertà per " è vissuta in una comunità con un certo grado di organizzazione. In questo senso, la libertà, in quanto autodeterminazione, si vede limitata, ritagliata dalle altre libertà singole. La mia libertà finisce dove comincia la libertà degli altri. Questa regola generale viene specificata mediante le leggi morali e giuridiche destinate a salvaguardare il bene comune. In questo modo, la libertà singola deve essere soggetta a norme di comportamento per evitare che entri in conflitto con le altre libertà. La libertà individuale si vede limitata tanto dalle norme etiche quanto da quelle giuridiche, ma nello stesso tempo, è rafforzata da esse.

Bibl. - Cambier J.M., La libertà cristiana. Una morale di adulti, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1984. Cerroni U., La libertà dei moderni, Ed. De Donato, Bari, 1973. Lamanna P.E., Il bene per il bene, Ed. Le Monnier, Firenze, 1967. Piana G., " Libertà e responsabilità ", in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 658-674. Poupard P., Dio e la libertà: una proposta per la cultura moderna, Ed. Città Nuova, Roma, 1991.

J. Moya

 

Libri liturgici. (inizio)

Si chiamano libri liturgici quelli che vengono usati nelle celebrazioni liturgiche e che contengono i testi e le rubriche per lo svolgimento corretto della celebrazione. Nei primi tempi del cristianesimo, l'unico libro liturgico era la Bibbia, da cui si leggevano direttamente i brani che venivano proclamati nelle varie riunioni di culto. A poco a poco vennero scritti alcuni libri con indicazioni sullo svolgimento dei riti. Il più influente di tutti fu la Tradizione Apostolica, del presbitero romano Ippolito (secolo III). A partire dal secolo IV, si vennero formando raccolte di testi eucologici usati nelle celebrazioni liturgiche della città di Roma. La raccolta più nota è quella che si chiama Sacramentarium Veronense.

Venne il tempo in cui ogni parte integrante di una celebrazione, affidata regolarmente ad un ministro specifico, godette di un libro proprio. Così, si ebbe il sacramentario, o libro del celebrante, con le formule delle orazioni per l'Eucaristia e per i sacramenti; il lezionario, o libro del lettore, con i brani biblici convenientemente distribuiti; l'antifonario, o libro del cantore e del coro, coi canti della Messa. Quando la liturgia romana fu esportata in altri luoghi, si composero gli ordines, o ordinari, con le rubriche le quali spiegavano lo svolgimento delle varie celebrazioni.

Più avanti, sé sentì la necessità di fondere i vari libri in un volume unico, che contenesse tutti gli elementi necessari per ogni celebrazione. Si formarono così il pontificale, coi testi e i riti necessari per le celebrazioni riservate al vescovo; il messale plenario, con le orazioni, letture, canti e rubriche per l'intera celebrazione dell'eucaristia; il rituale, con gli elementi necessari per i riti sacramentali propri dei presbiteri. Qualcosa di simile è accaduto coi libri destinati alla liturgia delle ore: in un primo tempo, c'erano vari volumi (il salterio coi salmi; l'omiliazio con le letture patristiche; l'innario, con gli inni poetici di composizione ecclesiastica; l'antifonario, con le antifone; l'orazionale, con le orazioni conclusive delle varie ore canoniche. Tutti questo libri sono poi confluiti in uno solo, chiamato breviario, perché, di fatto, era un sunto o compendio dei vari elementi.

Dopo il Concilio di Trento, si è proceduto ad una revisione dei libri liturgici propri del rito romano. Furono così promulgati il Breviario (1568), il Messale (1570), il Pontificale (1595), il Cerimoniale dei vescovi (1600) e il Rituale (1614). Questi libri, assieme al Martirologio (elenco delle feste e dei Santi che vengono celebrati in qualche luogo determinato), sono stati usati in tutta la Chiesa d'Occidente fino alla riforma del Concilio Vaticano II. Questa riforma ebbe il risultato di una revisione profonda di tutti i libri liturgici. In un certo modo, dopo il Vaticano II, si è ritornati ad una situazione simile a quella che ha preceduto la formazione dei volumi plenari: infatti, attualmente, ogni sacramento o sacramentale gode di un libro proprio. Riguardo, poi, alla Messa, c'è il messale dell'altare, il lezionario ed il cantorale, per non parlare di altre possibilità, come, per esempio, il libro della sede, che contiene esclusivamente i testi proferiti dal celebrante stando alla sede presidenziale.

Un cambiamento molto importante è quello della pubblicazione dei libri liturgici nelle varie lingue vive, come anche le molteplici scelte che vengono offerte da ogni libro, oltre agli orientamenti previ di tipo teologico e pastorale contenuti in ogni libro liturgico. Con ciò, il libro liturgico ha cessato di essere un testo fisso ed intoccabile: è diventato un complesso di materiali destinati ad essere adattati secondo le necessità di ogni comunità concreta che celebra la liturgia.

Bibl. - Martimort A.G., La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, Ed. Desclée, Roma-Parigi, . Righetti M., Storia liturgica, Ed. Ancora, Milano, 1964, I, pp. 338-361. Scicolone I., " Libri liturgici ", in: Nuovo Dizionario di liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 701-713.

J. Llopis

Linguaggio. (inizio)

Il linguaggio è un sistema specifico di comunicazione che è dotato di alcuni determinati elementi specifici.

Gli etologi, i linguisti e gli psicologi hanno cercato di stabilire i tratti comuni e quelli differenziali tra il linguaggio naturale umano ed altri sistemi di comunicazione, specialmente animali. La maggioranza è d'accordo nell'indicare come tratti distintivi del linguaggio naturale umano: la riflessività, il suo carattere proporzionale, simbolico, recursivo, la duplice articolazione, la sintatticità, la semantica e la sintassi. La pluridimensionalità è, infatti, il tratto più caratteristico del linguaggio, perché, in un certo qual modo, integra gli altri.

Saussure distingue tra la competenza (conoscenza della lingua, sistema di regole che connettono rappresentazioni foniche con rappresentazioni semantiche e che si articolano in quelle pragmatiche) e l'attuazione (l'uso concreto della competenza da parte di colui che parla).

Clark e i suoi collaboratori, seguendo la linea di indagine maggioritaria, si concentrano su tre aree: la struttura del linguaggio, cioè, il sistema linguistico, la sua funzione e i suoi processi.

Dal punto di vista della struttura, l'unità fondamentale è l'enunciato che presenta due livelli: la struttura superficiale, che consiste nell'ordinamento lineare di clausole, frasi, parole e suoni, e la rappresentazione soggiacente del suo significato.

Sotto l'aspetto di prospettiva funzionale, il linguaggio ha una funzione principale: la comunicazione. Questa esige l'inter-relazione tra uno che parla, uno che ascolta ed un codice comune. Colui che parla decide l'informazione che intende comunicare e la codifica selezionando un segmento del sistema linguistico, per esempio, un enunciato. Colui che ascolta riceve il messaggio, l'enunciato prodotto da colui che parla, e lo decodifica immagazzinandolo nella memoria.

La terza prospettiva tiene presenti i processi mentali implicati dall'uso del linguaggio: la progettazione dell'enunciato, la scelta delle parole, il recupero compiuto dalla memoria, l'ordine delle parole, tenendo presenti le regole del' a sintassi, l'identificazione dei suoni e delle parole da parte di colui che ascolta, la scoperta del significato dell'enunciato, l'interpretazione e la sua valutazione in funzione della situazione, ecc. I processi principali sono quelli di produzione, di comprensione e di acquisizione del linguaggio. In quanto al suo studio, bisogna partire dalle risposte, dalla condotta linguistica.

La condotta linguistica si aggira attorno a due dimensioni classiche: l'attività del soggetto e il discorso prodotto o compreso. Però, ci sono altre due dimensioni estranee a quelle precedenti: sono manipolate dalla prima e sono proiettate nella seconda: il contesto o la situazione ambientale ed il sistema linguistico.

La filosofia analitica, che ha eletto il linguaggio come suo oggetto, è chiamata analisi del linguaggio. Si realizza su tre livelli: quello sintattico, quello semantico e quello pragmatico.

La sintassi è il rapporto dei segni tra di loro. La semantica è il rapporto dei segni del linguaggio con i suoi significati. La pragmatica studia i rapporti tra i segni del linguaggio e colui che parla o la situazione. Questi tre fattori uniti si chiamano semiotica, che è la scienza del processo dei segni linguistici.

La semiotica si rivela sempre più importante per il linguaggio della fede religiosa, per la teologia in genere e specialmente per la teologia pastorale, perché da essa si analizzano le regole, le strutture e le funzioni della fede.

Per la teologia pastorale, sono importanti anche le discipline della sociologia del linguaggio, della psicologia del linguaggio e della psicolinguistica. Da questa disciplina, si analizzano i rapporti tra il linguaggio e la società e tra il linguaggio e la psicologia di colui che parla.

Il linguaggio non è solo il mezzo della comprensione, ma è anche il mezzo per fraintendere, quello della comunicazione perturbata. Questo ha suscitato la ricerca di un linguaggio esatto e chiaro con l'intento di eliminare le perturbazioni della comunicazione.

Bibl. - Chomsky N., Saggi linguistici, 3 voll., Ed. Boringhieri, Torino, 1969-1970. Miotto A., Pensiero e linguaggio, in: Ancona L., (a cura di), Questioni di psicologia, Ed. La Scuola, Brescia, 1964, pp. 265-281. Pizzamiglio L., Lo sviluppo del linguaggio, in: Ancona L. (a cura di), Nuove Questioni di psicologia, 2, Ed. La Scuola, Brescia, 1972, pp. 795-828. Sapon S.M., " Linguaggio ", in: Dizionario di psicologia, Ed. Paoline, 1975, pp. 644-647. Vigtsky, Pensiero e linguaggio, Ed. Universitaria, Firenze, 1964.

M. N. Lamarca

Linguaggio religioso. (inizio)

Nella tematica del linguaggio religioso, sono implicati fattori antropologici, psicologici, storici e sociali, oltre a quelli propriamente religiosi (biblici, liturgici, teologici). Non è possibile parlare del linguaggio religioso senza partire dalla interdisciplinarietà, sia pure elementare.

Il linguaggio religioso non sta al margine dei cambiamenti sociali, filosofici e scientifici. Gli uomini che intendo esprimere le loro esperienze religiose sono gli stessi che vivono questi cambiamenti. L'impegno pastorale obbliga sempre a mettere in risalto questi implicanze.

L'uomo è quello che è grazie al linguaggio: parlare ed essere uomo sono la stessa cosa. Le vicende del linguaggio sono, inevitabilmente, vicende della comunità religiosamente credente (" i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo ": Wittgenstein). La religione nasce nello spirito del credente che si ritiene invalido per una comunicazione del sacro (ierofanìa). Il fenomeno interno gravita a sua volta verso la sua espressione e diffusione. La religione è un fenomeno sociale: non esiste, propriamente parlando, una religione privata. In un modo o in un altro, i credenti colgono il sacro e vogliono realizzare la sua epifania nel gruppo sociale in cui vivono, e questo è possibile solo mediante il linguaggio.

Il linguaggio religioso non è, pertanto, altro che il linguaggio comune con cui le religioni del mondo intendono dire l'" ineffabile " (il divino) che si manifesta, e, nello stesso tempo, generare un'esperienza simile e configurare un comportamento, partendo da questo misterioso incontro col sacro. Per questo, è necessario l'uso della capacità analogica del linguaggio (simboli), con cui viene evocata questa nuova entità (il divino). Si produce una rottura a livello del quotidiano, del profano. L'umano, senza cessare di essere quello che è, costituisce l'unica mediazione che l'uomo possiede per parlare di Dio.

Per quanto riguarda il cristianesimo, fin dai primi secoli, si è fatto uno sforzo per impedire che il linguaggio cristiano si trasformasse in un linguaggio esoterico (solo per gli iniziati). A ciò allude, per esempio, la Lettera a Diogneto, esplicitamente.

Il problema radicale del linguaggio religioso è questo: quando l'uomo, col suo linguaggio, parla di Dio, qual è il suo vero contenuto? La teologia cristiana afferma la inapprensibilità diretta di Dio. Che senso ha dare un linguaggio a qualcosa che è direttamente inafferrabile?

Qualche corrente protestante (Bultmann) sostiene che, quando l'uomo parla di Dio, non solo parla l'uomo, ma in realtà sta parlando dell'uomo. In seguito, la tendenza radicale chiamata " teologia della morte di Dio " ha affermato che il cristianesimo si riferisce fondamentalmente all'uomo: il suo linguaggio su Dio sarebbe un modo, dato storicamente, di dire quello che si pensa sulla vita e sulla storia umana.

Più categoricamente, è stato detto partendo dal pensiero ebraico che la Bibbia è un libro intorno all'uomo: non una teologia dal punto di vista dell'uomo, ma una antropologia dal punto di vista di Dio.

Anche da parte cattolica, si è insistito per de-ontologizzare il linguaggio religioso a favore di una maggiore antropologizzazione. Il contenuto più immediato del linguaggio religioso cristiano è una esperienza esistenziale di salvezza. All'uomo (tanto a quello che parla, quanto a quello che ascolta il linguaggio che, nel contesto cristiano si chiama " Parola di Dio "), si aprono orizzonti di piena auto-realizzazione e gli vengono suggerite prospettive ultimi, in modo tale che il " trascendente " non è mai la rivelazione di un mondo estraneo a lui e senza di lui. Non si nega con ciò l'esistenza dell'ontologico divino, né che la Bibbia contenga una rivelazione, agli occhi dell'uomo, di come Dio è nella sua interiorità impenetrabile. Tuttavia, il linguaggio religioso, per quanto metafisico sia, implica sempre il racconto di una storia viva, di un dramma in cui l'uomo è un protagonista: il fatto teologico cristiano possiede un dinamismo antropocentrico.

Dal punto di vista pastorale, il problema è: Come ottenere che il linguaggio religioso sia veramente significativo? Gli orientamenti attuali avviano verso una metodologia che si potrebbe chiamare di " induzione pastorale ". Ha in comune con l'induzione scientifica il riferimento alla esperienza particolare, la valorizzazione del concreto vissuto, come base per andare verso certezze, capaci di legittimare un'affermazione generica (in questo caso, su Dio). I credenti in Dio e in Gesù, parlando della loro fede, alludono alla loro esperienza concreta come base per rendere possibile l'esperienza di altri.

Bibl. - Aa.Vv. (Associazione teologica italiana), Il linguaggio teologico oggi, Ed. Ancora, Milano, 1970. Antiseri D., Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso, Ed. Queriniana, Brescia, . Bagot J.P., Quale linguaggio per la catechesi?, in: " Catechesi ", 46 (1977) 13, 27-42. Riv. " Credere oggi ", 4(1984) n. 19: I linguaggi della fede. Halbfas H., Linguaggio ed esperienza nell'insegnamento della religione, Herder, Roma, 1970. Molari C., " Linguaggio ", in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 778-814. Idem, La fede e il suo linguaggio, Ed. Cittadella, Assisi, 1972.

J. Martnez Cortés

 

Liturgia. (inizio)

Deriva da una parola greca che significa " opera a favore del popolo ", o, " servizio pubblico ". Oggi, la parola liturgia è applicata al complesso di atti rituali della Chiesa mediante i quali essa continua nel mondo l'esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo, destinato a santificare gli uomini e a rendere gloria a Dio (cf SC 7). Questa stessa realtà, in altre epoche, era chiamata con vari nomi (ufficio divino, opus Dei, uffici ecclesiastici, riti sacri, ecc.). Ancora oggi, nella Chiesa di rito bizantino, la parola " liturgia " è riservata per designare unicamente la celebrazione eucaristica.

La comprensione della vera natura della liturgia della Chiesa è passata attraverso varie fasi e, nonostante che il Concilio Vaticano II abbia presentato una visione profonda e completa della liturgia, sussistono alcuni malintesi circa la sua essenza intima e circa il compito che le spetta nel complesso dell'azione pastorale. Già il Papa Pio XII, nella sua enciclica Mediator Dei (del 20 Novembre 1947) aveva disapprovato due visioni parziali della liturgia: quella " estetica ", che considera la liturgia unicamente come la forma esterna e sensibile del culto; e quella " giuridica " che definisce la liturgia come il culto pubblico cristiano in quanto regolato e ordinato dalla gerarchia.

Con l'intento di superare questi concetti riduttivi della liturgia, sorsero tra i teologi due tendenze: quella cultuale, rappresentata soprattutto dal benedettino Lambert Beauduin, e quella misterica, il cui massimo esponente, anch'egli benedettino, fu Odo Casel. La prima tendenza insisteva nell'affermare che la liturgia è " il culto della Chiesa ", sottolineando il fatto che la Chiesa è il Corpo mistico di Cristo. La seconda tendenza collocava nel primo piano della liturgia il " mistero del culto di Cristo e della Chiesa ", cioè, l'azione divina che opera la salvezza, in continuazione con l'azione salvifica di Cristo sulla terra, presente e operante sotto il velo dei simboli posti dalla Chiesa. In questo modo, la liturgia non è tanto il culto che l'uomo rende a Dio, quanto la manifestazione dell'azione salvifica di Dio.

L'enciclica Mediator Dei sconfessò le concezioni minimiste, ma non si decise ad accettare, anche se rimase influenzata da esse, le acquisizioni di Odo Casel. Di fatto, l'enciclica si collocò nella tendenza che abbiamo chiamato " cultuale ", presentando, però, un concetto vasto e ricco del culto cristiano e insistendo sull'importanza del sacerdozio di Cristo e sulla stretta unione tra Cristo e i membri del suo Corpo nell'opera di glorificazione di Dio. La Costituzione del Concilio Vaticano II sulla liturgia si mise sulla stessa linea dell'enciclica di Pio XII, superandola ampiamente su molti punti, soprattutto circa il nesso intimo che esiste tra il culto divino e la santificazione degli uomini, e sull'importanza attribuita ai riti liturgici come segni efficaci: " Giustamente perciò la Liturgia è ritenuta come l'esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo; in essa, per mezzo di segni sensibili, viene significata e, in modo ad essi proprio, realizzata la santificazione dell'uomo, e viene esercitato dal Corpo Mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale " (SC 7).

Una definizione di liturgia che tenga presenti tutti questi apporti potrebbe essere la seguente: " Il complesso di azioni rituali e simboliche mediante cui l'opera sacerdotale di Cristo per la gloria di Dio e la santificazione degli uomini, compiuta una volta per sempre nel suo mistero pasquale, continua nella Chiesa e per mezzo della Chiesa fino alla pienezza escatologica ". Questa visione ha una serie di vantaggi teologici e pastorali, poiché con essa viene superata la nozione puramente razionale di culto religioso; viene sottolineato che nella liturgia cristiana non si rende solo il culto a Dio, ma si realizza la santificazione profonda degli uomini; si supera anche l'idea della liturgia come culto sociale si insiste nel dire che l'aspetto principale del culto liturgico non è quello sociale, ma è quello " personale " di Cristo. In questo senso, si può dire che la liturgia, prima di essere azione della Chiesa verso Dio, è azione di Cristo verso la Chiesa. Si può anche affermare che la Chiesa si costituisce mediante la liturgia, essendo questa la spiegazione della sua natura essenzialmente cultuale e santificatrice.

Evidentemente, la concezione che presentiamo della liturgia si stacca molto dalla visuale puramente " estetica ": infatti, se i riti esteriori e sensibili hanno una grande importanza nella liturgia, non ce l'hanno come elementi decorativi e con una portata puramente pedagogica. Sono la conseguenza della natura sacramentale della Chiesa, in quanto prolungamento vivente dell'opera stessa di Cristo. Quest'opera fu realizzata visibilmente mediante una umanità concreta, sacramento del Padre. Questa concezione si stacca anche dalla visuale " giuridica ": un atto non è liturgico perché è comandato dalla gerarchia, ma perché contiene la presenza del culto e della santificazione compiuti da Cristo: l'intervento della gerarchia è necessario per potere discernere, tra le varie attività della Chiesa, comprese quelle di tipo religioso e cultuale, quelle che certamente contengono la presenza privilegiata di Cristo. Questo intervento, però, non è la causa ultima del carattere liturgico di queste azioni: è unicamente la condizione per il loro discernimento. Da un'altra prospettiva, c'è da dire che gli atti liturgici devono sottostare a determinate leggi che non sono disposizioni normative di tipo puramente giuridico, ma sono esigenze ineludibili che derivano dalla stessa maniera d'essere del culto liturgico ecclesiale.

Riguardo al posto che la liturgia occupa nel complesso dell'azione pastorale della Chiesa, il Concilio Vaticano II ha dato alcune linee sufficientemente orientatrici, affermando, da una parte, che " la sacra Liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa " (SC 9) e, dall'altra, che " la Liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. Poiché il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore " (SC 10). Non va mai dimenticato il primato assoluto della carità: " La Liturgia spinge i fedeli, nutriti dei "sacramenti pasquali", a vivere "in perfetta unione", e domanda che "esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede". La rinnovazione poi dell'alleanza di Dio con gli uomini nella Eucaristia introduce e accende i fedeli nella pressante carità di Cristo " (SC 10).

Bibl. - Casel O., Il mistero del culto cristiano, Torino, 1966. Guardini R., Lo spirito della liturgia, Ed. Morcelliana, Brescia, 1946. Marsili S., " Liturgia ", in: Nuovo Dizionario di liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 725-742. Righetti M., Storia liturgica, 4 voll., Ed. Ancora, Milano, 1959-1969. Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Ed. Paoline, Roma, .

J. Llopis

Luce. (inizio)

La liturgia cristiana fa un uso abbondante del simbolismo della luce, riferendosi a Cristo che si è autodefinito " la luce del mondo " (Gv 8,12) e alla vita dei cristiani, chiamati anch'essi ad essere " luce del mondo " (Mt 5,14). L'uso più solenne del simbolismo della luce avviene nella veglia pasquale, che inizia con la benedizione del fuoco nuovo, dal quale si accende il cero pasquale, simbolo del Cristo risorto. Il cero pasquale, acclamato come " luce di Cristo ", serve per accendere le candele portate dai fedeli, come un'espressione plastica del contagio vitale che la risurrezione di Cristo produce in coloro che credono in Lui. Durante tutto il tempo pasquale, il cero rimane come un richiamo tangibile del trionfo di Cristo sulla morte, e viene posto anche in mezzo all'assemblea, in occasione delle celebrazioni battesimali e dei funerali. Dalla sua fiamma, si accende il cero che viene consegnato al neo-battezzato, come pegno dell'illuminazione interiore da cui è stato beneficiato col sacramento della fede.

Quando si celebra l'Eucaristia, si collocano sull'altare, o vicino ad esso, due o più candele accese, " a causa della venerazione o della celebrazione festiva " (Istruzione generale del Messale Romano, n. 269). Anche per il vangelo, avviene una processione coi candelieri accesi, in segno di omaggio alla Parola illuminante di Cristo. La lampada che rimane accesa davanti al Santissimo Sacramento ricorda costantemente che Cristo è presente come pane a disposizione dei cristiani.

Il simbolismo della luce ha un ruolo importante nel contenuto delle ore di Lodi e dei Vespri: la luce del nuovo giorno è cantata come simbolo del Cristo risorto; le luci che si accendono al cadere della notte ricordano la luce ininterrotta e senza tramonto, che è lo stesso Cristo. Anticamente, c'era un rito significativo nell'ora dei Vespri: aveva la luce come centro ed era chiamato lucernario. Al tramonto, le comunità cristiane cominciavano la loro preghiera liturgica accendendo ritualmente le lampade. Di fatto, l'inizio della celebrazione della Veglia pasquale è un ricordo dell'antico lucernario.

Non si può dimenticare l'importanza che nella pietà popolare assume il fatto di accendere candele o lampade davanti ad una immagine sacra: esso costituisce un simbolo della vita cristiana che deve trascorrere dando luce e calore, e deve essere una luce sempre accesa, come le vergini prudenti con le loro lampade accese (cf Mt 25,10).

Bibl. - Aldazábal J., Simboli e gesti. Significato antropologico biblico e liturgico, Ed. Elle di Ci, Leumann (Torino), 1988. Dalmais I.H., Iniziazione alla liturgia, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1964.

J. Llopis

Maestro. (inizio)

Nella storia dell'educazione, il maestro ha sempre occupato un posto importante. Luis Vives, Sant'Agostino, san Tommaso d'Aquino dànno alla persona del maestro un contenuto generale che giustifica la sua ragion d'essere. Egli è considerato come la persona chiave e come " l'anima di ogni educazione ". E' questa la fase storica del magistrocentrismo. La psicologia inserisce considerazioni importanti sulla personalità del maestro ed analizza la sua inter-azione che comprende la tipologia dello stesso maestro, accessibile a ricchezze personali e a possibili deviazioni.

Le accezioni della parola maestro sono regolate da tre aspetti complementari: il maestro è un professionista: una persona che ha una preparazione tecnica in fatto di conoscenze e di metodi, capace di trasmettere un insegnamento e di farlo capire ed assimilare. Da questa accezione, si arriva alla moderna didattica, che considera il maestro all'interno di tutta un'azione soggetta alle esigenze della teoria di sistemi.

L'accezione del maestro come educatore lo descrive come persona in relazione. Il concetto classico di " autorità e amore " come caratteristiche del maestro equivaleva a " superiorità e virtù ": il maestro dirige la persona verso un fine, la forma e la plasma come un abile vasaio. Il secolo XIX trasformò questo rapporto introducendo un orientamento pedagogico puerocentrico (Rousseau), disegnato e ampliato sulle pedagogia non orientative, liberatrici, addirittura sulla antipedagogia. Il maestro sarà, dunque, la persona che faciliterà l'educazione, superiore non in autorità, ma nel suo apporto intellettuale e morale.

In terzo luogo, il maestro ha una accezione teologica. Egli è il professionista con la vocazione di educatore: la sua persona è la risposta ad una chiamata mediante l'impellente necessità sociale di cultura e di educazione. Inserito nella comunità educativa, il maestro ha un ministero che lo fa servo degli uomini nella scuola cristiana, luogo di evangelizzazione considerato dalla Chiesa come qualcosa di suo e della massima importanza.

Tanto la visuale del maestro come tecnico, quanto lo studio psicologico della sua persona e della sua azione educativa, ed anche la considerazione ideale e spirituale del maestro, fanno di lui un oggetto di studio e gli dànno l'importanza che deve avere in una società bisognosa di educazione e di ricostruzione continua della propria cultura e della propria vita spirituale.

Bibl. - Catalfamo G., " Maestro ", in: Enciclopedia Filosofica, IV, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 194-195. Cousinet R., Maestro e scolaro nella lezione, Roma, 1962, Maggiali A., " MaestroEducatore ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 862-878. Titone R., " Insegnante-Educatore ", in: Dizionario enciclopedico di pedagogia, II, S.A.I.E., Torino, 1958, pp. 717-724. Wittver J., Per una rivoluzione pedagogica, Ed. dehoniane, Napoli, 1975.

J.M. Martínez Beltrán

Magìa. (inizio)

La magìa è una pratica pseudo-religiosa che pretende di produrre determinati effetti mediante la manipolazione della divinità o delle forze soprannaturali con certe tecniche particolari.

La magìa nasce da una visuale del sacro dominata dal timore: il mondo della " altarità ", in cui si colloca la sfera del sacro e del religioso, appare come una potenza intrusa e minacciosa che bisogna o respingere o dominare. Questo dà origine ad un concetto e ad un modo di vivere il sacro come qualcosa di impuro o tabù, che va circondato da proibizioni. Oppure, si ha un concetto e un modo di vivere il sacro come qualcosa di magico che va maneggiato con tecniche adeguate. Quando l'atteggiamento di fronte al sacro è dominato dal timore di fronte al tabù o dalla temerarietà della magìa, non si può parlare propriamente di religione degna dell'uomo.

Il cristianesimo supera radicalmente entrambe le deviazioni. In primo luogo, nell'atteggiamento religioso cristiano, scompare ogni genere di tabù. Non c'è nulla di cattivo in sé. La manifestazione del sacro non è accompagnata da proibizioni rituali. L'unico male è radicato nella volontà dell'uomo quando, col peccato, si allontana dalla volontà di Dio. In secondo luogo, il cristianesimo è totalmente estraneo alla magìa: il cristiano non si pone di fronte alla divinità con l'intento di appropriarsi della sua forza con fini puramente mondani. Il cristiano vita è soggetta alla provvidenza amorosa del Padre, e che ciò che veramente conta non è l'osservanza meticolosa delle prescrizioni rituali, ma il compimento amoroso della volontà di Dio.

Tuttavia, nella pratica, certi atteggiamenti dei cristiani hanno dato lungo i secoli l'impressione che i sacramenti (e la liturgia in genere) fossero delle realtà circondate da tabùs rituali o suscettibili di un uso magico. Soprattutto, un certo modo di intendere l'efficacia dei sacramenti (chiamata nella teologia scolastica ex opere operato) ha portato a considerarla come un meccanismo quasi magico, per cui, posti alcuni determinati segni e dette alcune determinate parole, avvengono infallibilmente alcuni effetti soprannaturali. La pastorale deve combattere continuamente contro questa comprensione magica dei sacramenti e insistere sulla necessità delle disposizioni interiori per ricevere con frutto la grazia sacramentale.

Bibl. - Abbagnano N., " Magìa ", in: Dizionario di Filosofia, Ed. Utet, Torino, , pp. 553-554. Faggini G., " Magìa ", in: Enciclopedia Filosofica, IV, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 198-200. Mattai G., " Religiosità popolare ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B. , pp. 1316-1331.

J. Llopis

Magistero. (inizio)

La funzione magisteriale spunta nel NT in un duplice ambiente spirituale e di tradizione. Lo Spirito suscita nella Chiesa, assieme agli apostoli, i profeti e i maestri (At 13,1; 1 Cor 12,28-29) nell'ambito di una comunità messianica in cui si compiono le profezie dell'AT secondo cui tutti saranno ammaestrati da Dio (Ger 31,31-34; Ez 11, 19-20; G1 3,1). La Chiesa è consapevole di essere tutta spirituale ed ammaestrata da Dio (Eb 8,10; 10,16; 1 Ts 4,9; 2 Cor 3,1-18; At 2,17-21; t 5,12; 23,9; Gv 6,45; 8,38; 1 Gv 2,27). In questo contesto, sorgono i vari uffici carismatici, tra cui sono annoverati i profeti e i maestri che hanno il compito di interpretare la Scrittura partendo dal punto centrale: la vita, morte e risurrezione di Gesù. Gli apologisti cristiani, nelle discussioni con gli Ebrei e coi pagani, dimostrano che Cristo è il Messia e Figlio di Dio. I profeti appaiono come un ministero distinto da quello degli apostoli, senza che la loro funzione magisteriale lasci pensare che ci sia una parte della Chiesa discente ed un'altra docente: tutta la comunità apprende e nello stesso tempo insegna, secondo il carisma ricevuto e secondo i vari servizi esercitati in essa. Questa funzione magisteriale non ministeriale continuò fino al secolo III con personaggi importanti, come Giustino, Origene, Panteno, ecc. Erano dei laici con grande prestigio nella Chiesa; insegnavano, predicavano, catechizzavano tutti i cristiani.

Tuttavia, già nel NT, esisteva un'altra corrente che accentuava l'importanza della tradizione apostolica.

Secondo questa tradizione, alcuni ministri erano chiamati successori degli apostoli ed esercitavano contemporaneamente funzioni di guida nella comunità, funzioni pastorali e di insegnamento (1 Tm 5,17). La morte degli apostoli, il sorgere delle eresie, gli elenchi di maestri gnostici, il continuo aumento dei ministri istituzionali, portarono ad un controllo crescente sull'attività magisteriale dei laici fino alla sua scomparsa a favore dei vescovi e dei presbiteri. A partire dal secolo III, si succedettero le proibizioni e le limitazioni riguardo alla predicazione, all'insegnamento e alla catechesi come funzione esclusiva dei pastori della Chiesa. Così, la nacessità di garantire le tradizioni apostoliche e il processo di isitituzionalizzazione, già costatabile nelle Lettere Pastorali e negli Atti degli Apostoli, finì per sopprimere qualsiasi magistero che non fosse gerarchico. Di fatto, anche se non di diritto, si è passo da un magistero imprescindibile e necessario ad un monopolio ministeriale. Tuttavia, i maestri e i dottori laici risorsero con le università medievali (secoli XIII-XV). Venne loro riconosciuta un'autorità, diversa, però, dal magistero ufficiale. La cosa continuò così fino alla Riforma. Melchior Cano sostenne che l'opinione dei dottori era vincolante e costituiva un luogo teologico. Poi, nel contesto della Controriforma, e in seguito, con lo sviluppo del magistero pontificio nel secolo XIX, i teologi perdettero influenza ed autorità nella Chiesa; furono strettamente subordinati al suo magistero ufficiale, ed infine (con Pio XII), fu assegnato loro il compito di dimostrare, con la Scrittura e la Tradizione, i pronunciamenti uficiali del Magistero (tanto di quello fallibile quanto di quello infallibile).

Col Vaticano II, cominciò lo sforzo di cercare un nuovo equilibrio nel Magistero della Chiesa: da una parte, viene sottolineato il compito del Papa e dei Vescovi come garanti della Tradizione apostolica, sia nel Magistero ordinario che in quello straordinario (definizioni solenni ed infallibili del Papa, del Collegio episcopale col Papa, o del Concilio ecumenico). Il Magistero gerarchico deve vigilare per l'unità e la comunione dei fedeli, regolare quello che si deve credere, stabilire quello che è vincolante come fede della Chiesa e quello che le è contrario. Da un'altra parte, si cerca di rafforzare il compito dei teologi e di dare loro un campo di libertà e di ricerca nella Chiesa. Questo è tanto più necessario in quanto, negli ultimi due secoli, sono stati frequenti i conflitti fra il Magistero ufficiale e teologi che sono stati esautorati e, alle volte, condannati, mentre, in seguito, le loro teorie si sono imposte e sono divenute dottrina comune nella Chiesa. Il Concilio Vaticano II riconobbe la legittimazione di teologi e di dottrine che prima erano state disapprovate. Si stabilirono princìpi (libertà religiosa e di coscienza, separazione tra Stato e Chiesa, diritti dell'uomo, ecc.) che erano stati esplicitamente respinti dai papi nel secolo XIX. La mancanza di dialogo e di collaborazione tra il Magistero gerarchico e la teologia ha recato danno alle due parti. I conflitti tra i teologi ed il Magistero sono ritornati con nuovo vigore in questo ultimo ventennio e continuano a costituire una difficoltà per una maggiore efficacia evangelica.

Occorre cercare formule per un esercizio più efficace del Magistero. In questi ultimi decenni, teologi insigni hanno invocato una riforma dei procedimento della Congregazione per la Dottrina della Fede ed un suo esercizio che sia molto più rispettosa dei diritti dei teologi e della sensibilità di oggi. D'altra parte, sembra necessaria una maggiore critica e discussione dei teologi tra di loro ed uno spirito di rispetto e di accettazione della gerarchia. Inoltre, Occorre cercare una maggiore flessibilità e pedagogia nella ricerca del consenso (più che la pura sottomissione), ed un maggiore senso ecclesiale, tanto da parte dei pastori quanto dai teologi, per evitare lo sconcerto del popolo cristiano. La vigilanza sulla fede da parte del Magistero e la libertà di ricerca e di diffusione da parte dei teologi continua ad essere uno dei grandi compiti impellenti della Chiesa post-conciliare. C'è il pericolo di ritornare a situazioni del passato pre-conciliare invece di cercare nuovi mezzi di cooperazione.

Bibl. - Congar Y., La Tradizione e le tradizioni, 2 voll., Ed. Paoline, 1964-1965. Congregazione per la Dottrina della fede, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24.5.1990. Rahner K., Corso fondamentale sulla fede, Ed. Paoline, Roma, 1978, pp. 484-493. Sullivan F., " Magistero ", in: Dizionario di teologia fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 653-661. Idem, Il magistero nella Chiesa, Ed. Cittadella, Assisi, 1986.

J.A. Estrada

Maria. (inizio)

La figura di Maria, " madre di Gesù " (Mc 6,8; Mt 13,35; At 1,4) appare nei vangeli e negli altri scritti neotestamentari con sobrietà e misura. Forse il dato chiave, per la sua densità teologica, offerto dagli autori neotestamentari, è la nascita di Gesù da una donna, Maria. Con ciò, essi vogliono dimostrare, contro certe tendenze spiritualiste e a-storiche del cristianesimo nascente, la realtà umana e storica di Gesù.

Però, lungo i secoli, i dati biblici ed il messaggio teologico del NT su Maria vennero distorti fino ad estremismi impensabili. Proliferò un'abbondante letteratura mariana non sempre attendibile e di dubbia qualità teologica e storica.

Non poche opere su Maria, e perfino gli stessi trattati sistematici, caddero in esagerazioni riconosciute oggi dagli specialisti. Possiamo citare, a modo di esempio: la tendenza a trasformare la mariologia in una disciplina autonoma, sganciata dal resto della teologia e, più in concreto, dalla cristologia; la deformazione di alcuni testi della tradizione e del Magistero ordinario, fino al punto di far dire loro più di quanto avevano inteso dire; la scelta unilaterale dei testi ritenuti favorevoli alle tesi proposte, ed il silenzio o la sottovalutazione di altri testi ritenuti contrari; la distorsione di concetti cristologici, come quello di redenzione e di mediazione, applicandoli a Maria senza ulteriori precisazioni; certi eccessi di mariolatria; ecc. Lo zelo eccessivo per salvaguardare l'integrità e la santità di Maria portò frequentemente a trasformarla in un essere quasi divino e a separarla dal resto dell'umanità.

In queste deformazioni teologiche si trova, a mio parere, la radice delle deviazioni che avvennero nella pietà mariana. La deviazione più sconcertante consistette nel sostituire Maria a Cristo, come risulta evidente in certe forme di devozione alla madre di Gesù.

A partire dagli anni cinquanta di questo secolo, un nutrito gruppo di teologi contribuirono, col ritorno alle fonti bibliche e patristiche e con un rigoroso lavoro ermeneutico circa le affermazioni mariologiche del Magistero, a superare le inesattezze teologiche usate e gli eccessi mariolatrici. Furono questi stessi teologi che resero possibile la sintesi serena e ben fondata del Vaticano II circa la figura di Maria.

Il Concilio non intende elaborare una mariologia completa ed esauriente. Si limita piuttosto ad offrire alcuni orientamenti, su cui deve agire la mariologia. Il Concilio rinuncia ad un documento speciale su Maria, nonostante le pressioni di quelli che lo chiedevano a gran voce. Lasciò aperte le questioni discusse tra le varie scuole o correnti di opinioni. Non usò il titolo " Corredentrice ", come non lo aveva usato lo stesso Pio XII. Il termine " mediatrice " fu usato una volta sola, ma affermando chiaramente l'unica mediazione di Cristo.

L'originalità del Concilio e dei teologi post-conciliari che si muovono nell'ottica rinnovatrice del Vaticano II consiste nell'avere integrato le principali affermazioni su Maria in un quadruplice orizzonte: storicosalvifico, cristologico, ecclesiologico, escatologico. La mariologia centra oggi la sua attenzione sul ruolo che Maria occupa nella storia della salvezza. K. Rahner presenta Maria come la prima redenta. È importante anche la sua relazione con Cristo. Müller vede in Maria la massima partecipazione nell'umanità di Cristo; per questo, Lei possiede la maggior pienezza di grazia possibile ad una creatura, anche se non è da mettere a confronto con la pienezza di grazia di Cristo. È in questo contesto che va intesa la santità di Maria, la sua glorificazione corporea sua partecipazione all'opera redentrice di Gesù.

La mariologia d'oggi si occupa, nello stesso tempo, di precisare la relazione di Maria con la Chiesa, sintetizzandola in formule, come: " Maria, prototipo e immagine della Chiesa ", o " Maria, realizzazione perfetta della Chiesa ". Queste espressioni si ispirano a fonti patristiche.

Le varie teologie politiche e della liberazione hanno riscoperto in Maria un tratto frainteso o omesso dai trattati dogmatici: la sua forza liberatrice, la sua opzione radicale per i poveri, la sua denuncia profetica contro i potenti e gli oppressori, come si legge nel Magnificat.

I movimenti di liberazione della donna (femminismo) hanno portato un cambiamento nell'immagine della donna, nella sua identità e nel suo ruolo nella società. Questo cambiamento comincia a incidere sull'immagine di Maria, nella devozione mariana e nella stessa mariologia. L. Boff, per esempio, considera il femminile come la categoria antropologica fondamentale e come la chiave che organizza e articola la riflessione su Maria.

Bibl. - Boff L., Il volto materno di Dio, Ed. Queriniana, Brescia, 1981. Forte B., Maria la donna icona del mistero, Ed. Paoline, Cinisello B., 1989. Melotti L., Maria, la Madre dei Viventi. Compendio di mariologia, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1986. Müller A., La posizione e la cooperazione di Maria nell'evento di Cristo, in: Aa.Vv. Mysterium Salutis, VI, Ed. Queriniana, Brescia, 1971, pp. 495-641. Schillebeecks E., Maria, Madre della Redenzione, Ed. Paoline, Catania, 1965. Thurian M., Maria Madre del Signore, Immagine della Chiesa, Ed. Morcelliana, Brescia, 1964.

J. J. Tamayo

Masse. (inizio)

Il sociologo e lo psicologo intendono per massa una moltitudine di gente in cui si dissolvono le personalità individuali e sorge una specie di " anima collettiva " che li fa sentire, pensare ed agire in una maniera totalmente diversa da come sentirebbe, penserebbe ed agirebbe ognuno di essi preso isolatamente.

Le masse si prestano ad essere manipolate con relativa facilita dal padrone di turno. Sono tremendamente influenzabili e credulone, perché la loro sensibilità viene esaltata allo stesso ritmo con cui diminuiscono i controlli dell'intelletto. Le masse perdono il senso critico: per loro, l'inverosimile è una categoria sconosciuta. Difficilmente possono essere persuase da qualcuno con argomenti logici. In compenso, è efficace rivolgersi ai livelli subconsci con affermazioni decise, con luoghi comuni, miti, ripetizioni insistenti, ecc. Grazie a questa facilità, con cui le masse si lasciano manipolare, un dittatore carismatico può far passare il suo regime come democratico (è stato il caso di Mussolini e di Hitler). Però, non si può neanche dire che la democrazia plebiscitaria o " per acclamazione " sia necessariamente una falsificazione della democrazia.

Conviene far notare che massa non si identifica con popolo. In tutti gli individui, qualunque sia la loro classe sociale, ci può essere questo fenomeno della psicologia collettiva che abbia chiamato masse.

Bibl. - Ardigò A., Crisi di governabilità e mondi vitali, Ed. Cappelli, Bologna, 1980. Bockelmann F., Teoria della comunicazione di massa, ERI, Torino, 1980. Crespi F., Le vie della sociologia, Ed. Il Mulino, Bologna, 1985. Dahrendorf R., Il conflitto sociale nella modernità, Ed. Laterza, Bari, 1988. Mc Quail D., Le comunicazioni di massa, Ed. Il Mulino, Bologna, 1993.

L. González Carvajal

Matrimonio. (inizio)

Il matrimonio poggia fondamentalmente sulla relazione madre-bambino. Il bambino, infatti, ha bisogno per un lungo periodo di tempo delle cure della madre: la gestazione, l'allattamento, la protezione per molti anni. Di qui, il nome di matrimonio, che deriva da " madre ". Il compito del padre appare più discreto e quasi dietro le quinte. È certo che, in quello che si riferisce all'ereditarietà biologica, i compiti del padre e della madre si dividono il cinquanta per cento. Però, il ruolo della madre nella gestazione, nel nutrire e nella prima educazione del figlio è molto più importante di quello del padre. Il padre, appunto perché ha meno impegni biologico-educativi, è più libero per dedicarsi a procurare il sostentamento per la famiglia. Di qui, la parola: patrimonio, con le sue implicanze socio-economiche.

I rapporti coniugali tra il marito e la moglie sono molto complessi, semplicemente perché si basano sull'amore, e questo costituisce una realtà straordinariamente ricca e varia.

Nell'amore coniugale, troviamo innanzitutto una base biologica: la sessualità, un istinto che nasce nell'uomo, come negli altri animali e nelle piante, in un modo automatico e spontaneo, per la sopravvivenza della specie. Grazie alla bisessualità, gli esseri più complessi e per ciò stesso meno numerosi hanno un codice genetico più vario e resistono meglio alle epidemie. Mentre il soddisfare la fame o la sete risponde alla sopravvivenza del singolo, la sessualità biologica è orientata al bene della specie in quanto tale. Per questo, in linea di principio, i singoli, ma non l'umanità, possono rinunciare all'uso della sessualità.

Però, nell'uomo, questo istinto che nasce in lui automaticamente, diventa suo in un modo immediato, convertendosi in espressione di tutto l'uomo. In questo modo, la sessualità umana giunge ad essere espressione libera dell'amore interpersonale tra l'uomo e la donna. Una sessualità puramente istintiva e che l'uomo non fa " propria ", non è corretta e degenera anche biologicamente. Il controllo naturale della sessualità negli animali (epoche di calore e di pausa) è sostituito nell'uomo da regolazioni di tipo culturale, etico e religioso, che possono essere riassunte in questo principio fondamentale: la sessualità umana è l'espressione dell'amore che esiste tra il marito e la moglie. Questo amore è una consegna dell'uno all'altro per sempre e con tutto quello che si ha, con tutto quello che si fa, e con tutto quello che si è, fino al punto di dover formare tra i due un solo essere.

Questo amore interpersonale tra marito e moglie tende intrinsecamente a presentarsi pubblicamente per confrontarsi in quanto tale coi circostanti. Come l'io per essere io deve aprisi al tu, così il noi, per essere pienamente noi deve aprirsi al voi, cioè, alla società in cui ognuno vive. Presso tutti i popoli, il matrimonio è stato sempre una realtà sociale, anche se, ovviamente, questa socializzazione dell'amore ha subìto cambiamenti culturali a seconda delle epoche e dei popoli. Da Roma ai giorni nostri, nel mondo occidentale, il matrimonio ha avuto una indiscutibile strutturazione giuridica che non può essere ignorata nella nostra società. Questo è quello che chiamiamo oggi nel mondo secolarizzato in cui viviamo, il " matrimonio civile ".

Per i credenti, il matrimonio è inoltre una realtà religiosa, con un vincolo particolare verso Dio. Questo si manifesta specialmente nel giudeo-cristianesimo, il cui Dio è un Dio di amore che considera l'umanità come sua sposa e gli uomini come suoi amici personali. In questo senso, il matrimonio è un sacramento, cioè, un segno visibile di una realtà invisibile e misteriosa che è l'amore con cui il Padre e il Figlio si amano nello Spirito Santo, e l'amore che Gesù ha per noi fino a dare la sua vita per noi.

Bibl. - Adnès P., Il matrimonio cristiano, Ed. Desclée, Roma, 1966. Galli N., Educazione dei giovani alla vita matrimoniale e familiare, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1993. Goffi T. (a cura di), Enciclopedia del matrimonio, Ed. Queriniana, Brescia, 1987. Hortelano A., Io-tu, comunità d'amore, Ed. Cittadella, Assisi, 1972. Kasper W., Teologia del matrimonio cristiano, Ed. Queriniana, Brescia, . Pompei A., " Matrimonio ", in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 884-902.

A. Hortelano

Meditazione. (inizio)

Meditazione è una parola che nella spiritualità va diffondendosi progressivamente e costantemente e che, nella cultura contemporanea, acquista dimensioni nuove e reazioni molto varie.

Frequentemente, la meditazione è stata considerata come sinonimo di orazione e contemplazione. Soprattutto in Occidente, per ragioni ovvie, ci fu la tendenza a privilegiare, quasi esclusivamente, il senso discorsivo a danno di altre forme.

In altri ambienti, la meditazione era solo una parte, ben differenziata, all'interno del processo dell'orazione (precedeva la contemplazione). Santa Teresa d'Avila dava questa definizione: " Io chiamo meditazione un discorso fatto con l'intelletto " (Seste Mansioni, VII,10).

Nella cultura contemporanea, o meglio, attuale, si parla della scienza della meditazione (W. Johnston), intendendola come " la scienza della coscienza, della diffusione della mente, dell'ampliamento della coscienza ". Questa penetrazione negli strati più profondi e sconosciuti della persona è accompagnata da un rilassamento profondo e favorita da metodi orientali, come lo yoga, lo zen e la meditazione trascendentale.

Pare che sempre più la parola meditazione significhi quest'ultima tendenza culturale. In questo senso, è un fatto sociologico la cui presenza ed il cui sviluppo nel mondo occidentale ha acquistato un'attualità sorprendente, fino al punto che si parla di " fascino orientale ".

" Ci troviamo di fronte al fatto paradossale di persone che meditano iorno e notte, e ciò nonostante, affermano di non credere in nulla, né in Dio ne in Cristo, né in Krishna né in Budda " (W. Johnston). Il fatto stesso che si tratti forse soprattutto di studenti, professori, impiegati, negozianti, che si dedicano maggiormente alla meditazione, ha dato ad essa un carattere religiosamente asettico, almeno apparentemente. È una corrente secolare all'interno del mondo della meditazione. Eppure, la meditazione ha un'origine religiosa. I più eminenti conoscitori dello yoga e dello zen affermano che questa base presiede nel fondo ed anche inevitabilmente ogni approccio a questi sistemi. Il distacco religioso di alcune modalità, anche se viene affermato consciamente e sinceramente, è ritenuto o una deturpazione o una ignoranza inconscia.

Non ogni religione è cristiana, evidentemente. Il cristiano si incontra con la realtà culturale della meditazione, radicalmente vincolata all'induismo e al buddismo e si interroga sulla compatibilità di queste due realtà: la meditazione e la fede cristiana.

Nel dibattito, ci sono risposte viscerali e fanatiche. Qualcuno si è arrischiato a parlare di un tradimento (H.U. von Balthasar). Altri ritengono questa posizione del teologo svizzero semplicemente " grottesca " (S. Guerra).

Forse la discussione più serena, che accetta la sfida in tutta la sua gravità, affronta due concezioni. Secondo alcuni, la meditazione, sia secondo il metodo yoga, sia secondo il metodo zen, è asettica, al disopra di ogni ideologia. Essa è valida per qualsiasi tipo di religione. Tutti possono trovare in essa il cammino per la propria fede e camminare lungo questo cammino. Secondo altri, invece, la meditazione è un metodo adeguato per vivere e camminare secondo l'induismo e il buddismo: essi hanno una visione del cosmo totalmente differente e divergente dal cristianesimo. Per questo, la meditazione accentua gli aspetti come il viaggio nell'interiorità, mentre il cristianesimo chiama alla comunicazione con gli altri.

Andiamo dal più generale al più particolare nel campo cristiano e spirituale in concreto. Non molti anni fa, qualcuno ha scritto: " Il peso dell'attuale posta in gioco dell'orazione può essere compendiato in questa formula molto semplice: meditazione, sì; orazione, no. Ora, la meditazione, l'esercizio di concentramento, il ricuperare forze per dominare la vita quotidiana, non è un privilegio nella fede cristiana. Tutto questo si può apprendere, e forse anche meglio, dai maestri di meditazione indù " (O.H. Pesch). Questa presa di posizione è importante, ed anche il suo autore. Però, bisogna riconoscere che non è l'unica.

Per molti, la meditazione, che tende ad essere meditazione senza oggetto, è una forma di orazione che cerca di superare il razionalismo orazione mentale, soprattutto con sant'Ignazio, accentuando la dimensione discorsiva (vera bestia nera per lo yoga e lo zen). La meditazione privilegia, secondo questa forte tendenza, l'elemento contemplativo, come esercizio e come atteggiamento.

È difficile analizzare con realismo i rapporti tra meditazione e orazione, soprattutto perché nell'applicare la prima alla seconda, c'è molto dilettantismo, estrapolazione di tecniche e cose simili. Ci sono sufficienti stravaganze battezzate come tecniche orientali per dover stare in guardia. D'altra parte, ci sono anche centri ed attività molto più seri. Con questi, si può essere d'accordo o meno, ma la loro serietà è fuori questione.

Che oggi si faccia uso di teniche di rilassamento, copiate o " imparate " dallo yoga e dallo zen, è un fatto che non va dimenticato. Si usano come preparazione o primi passi, alle volte cronometricamente lunghi, per l'orazione, a volte cronometricamente molto brevi.

Molti pensano che una buona parte del futuro religioso dell'umanità dipenda dal dialogo che saranno capaci di intavolare l'Oriente e l'Occidente. Senza arrivare a questi estremismi, è difficile negare l'importanza che ha per la religione-fede-orazione il dialogo tra questi due mondi. È importante anche per l'umanità, ma qui non consideriamo la cosa direttamente.

Il fanatismo nelle posizioni radicali otterrà ben poco, o niente. Il dialogo è difficile: esige una conoscenza reciproca, che non è a portata di tutti. Oggi sono probabilmente pochi ad averla.

In questo dialogo, hanno una importanza particolare i mistici, soprattutto santa Teresa d'Avila e san Giovanni della Croce. L'Oriente dice che con l'esperienza di questi uomini, ci si può intendere, mentre comincia a sentirsi estraneo e tagliato fuori quando si imbatte con le teorie scolastiche. I mistici sembrano essere il ponte per le due sponde. L'unica mia parola in questo momento, e in questa problematica, vuole essere questa: assieme ad una maggiore captazione del momento contemplativo, i mistici occidentali vengono ad essere mutilati dall'Oriente e dall'orientalismo.

Bibl. - Aa.Vv., Il mistero della preghiera cristiana, Teresianum, Roma, 1960; Bernard Ch. A., " Meditazione ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 947-954. Bortone E., Invito alla meditazione, Roma, 1963. Congregazione per la Dottrina della fede, Alcuni aspetti della meditazione cristiana, 15.10.1939. Lercaro G., Metodi di orazione mentale, Ed. Massimo, Milano, . Stachel G., " Meditazione " in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, n. 679.

A. Guerra

Messianismo. (inizio)

Tradizionalmente, si è inteso per messianismo il complesso di idee e speranze che poggiano sul Messia e sul definitivo Regno di Dio, così come appaiono nell'AT, al tempo di Gesù, e nel cristianesimo primitivo. Secondo esso, il modello di riferimento per definire il messianismo era la religione biblica.

Vari studi sociologici e storici su movimento sociali marginali hanno corretto questa concezione ritenuta troppo ristretta, ed hanno associato il fenomeno messianico alle distorsioni sociali prodotte dal sistema dominante. Secondo questa teoria, il messianismo non è qualcosa di esclusivo della religione biblica e non risponde necessariamente a motivazioni religiose. La storia dell'umanità è invasa da movimenti messianici che appaiono come un mondo migliore per gli emarginati del sistema. Dopo avere ammesso questo fenomeno, cerchiamo qui di soffermarci sul messianismo giudeo-cristiano.

La parola Messia proviene etimologicamente dall'aramaico mesiah e dall'ebraico masiah, tradotto in greco con Kristòs, che vuol dire: unto. Il nome unto viene applicato nell'AT preferibilmente ai re, che, per l'unzione con olio, diventavano i luogotenenti di JHWH in Israele. Uno dei compiti più importanti del re era quello di difendere i diritti degli emarginati: orfani, vedove e stranieri. Il re doveva instaurare la giustizia e il diritto. Unto viene chiamato anche Ciro, re della Persia, che liberò Israele dall'esilio di Babilonia.

Dopo l'esilio e dopo la scomparsa del re, venne unto il sommo sacerdote che veniva consacrato capo e guida della comunità. Anche i profeti erano " uniti di JHWH ", mandati " a portare il lieto annunzio ai miseri…, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri " (Is 61,1).

I profeti erano critici col re unto, a causa delle sue continue infedeltà. Essi orientavano la speranza di Israele verso il Messia futuro, collegando così il messianismo con l'escatologia.

Appunto per la peculiare speranza d'Israele, come fa notare M. Weber, la proiezione verso il futuro ha una intensità sempre più grande, che non si riscontra in altre religioni.

Al tempo ai Gesù, l'oppressione sotto cui si trovava Israele era molto forte. Ciò spiega le intense aspettative di liberazione provate dal popolo. Le visuali messianiche diffuse allora in Israele erano tre:

 il messianismo nazionalei il cui nucleo consisteva nell'attesa della restaurazione della dinastia davidica;

 il messianismo davidico non politico, che si muoveva all'interno delle prospettive universalistiche aperte dal secondo Isaia, ma sotto la mediazione d'Israele;

 infine, il messianismo apocalittico, che si ispirava alla figura del Figlio dell'uomo del profeta Daniele (Dn 7,13 sì).

Quantunque i suoi contemporanei abbiano identificato Gesù col profeta e col Messia, Egli ha optato per il titolo di profeta e ha preso le distanze dalla funzione di messia. La sua attività profetica non quadrava coi modelli vigenti nella società ebraica, e ancor meno col modello della teocrazia davidica. Gesù non ha proposto un messianismo spirituale e mistico come alternativa al messianismo ebraico di stampo nazionale e politico; non ha neanche respinto in forma assoluta la prospettiva messianica ebraica. La predicazione e la prassi di Gesù avevano un forte contenuto politico e quindi scalzava nelle sue fondamenta la supposta legittimità delle istituzioni religiose e socio-politiche e privavano della loro sacralità le regole di gioco che erano in vigore. Gesù assunse in tutta la sua radicalità la causa dei poveri e l'attesa della liberazione degli opppressi.

Però, nello stesso tempo, Gesù criticò quello che Duquoc ha chiamato la " patologia della messianicità ", presente nel messianismo ebraico: questa consisteva nel voler conquistare il potere anziché trasformarlo, nel desiderare proprio quello che era detenuto dall'oppressore e nell'eliminare la violenza con la violenza. In questo modo, Gesù attribuisce al messianismo la sua intrinseca forza profetica e lo presenta nell'orizzonte delle promesse di liberazione fatte da Dio ai poveri e agli oppressi.

Un cristianesimo che sia conseguente a questo messianismo deve muoversi in questa visuale: l'opzione per gli emarginati partendo dalla emarginazione, ma senza cadere nella patologia dell'ideologia messianica. Il messianismo cristiano passa attraverso la croce, non attraverso il potere.

Bibl. - Cazelles H., Il messia della Bibbia, Ed. Borla, Roma, 1981. Cimosa M., " Messianismo ", in: Nuovo dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 937-953. Cremaschi L., " Messianismo ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 463. Forte B., Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Ed. Paoline, Roma, 1982, pp. 67-87. Gelin A., Le idee dominanti del Vecchio Testamento, Ed. Paoline, 1952. Grelot P., La speranza ebraica al tempo di Gesù, Ed. Borla, Roma, 1981.

J.J. Tamayo

Metodo. (inizio)

Se pensiamo a come avviene nella nostra vita l'incontro con Dio, c'imbattiamo necessariamente col concetto di metodo. Esso consiste nel riprodurre nella catechesi questo stesso processo.

Il processo di incontro con Dio è cadenzato in due tappe che hanno una struttura costante: le esperienze fondamentali della vita e la presentazione della parola di Dio. Non si può parlare di un primo e di un secondo. E' un dialogo il cui inizio passa sempre inavvertito: lo scopriamo quando è già da tempo che ci anima e giungiamo alle volte a chiederci se la sua presa non coincida per caso con la nascita della nostra coscienza. Il fatto è che in noi stanno apparendo le esperienze di solitudine, di impegno, di comunione, di emendamento, di sorpresa, di fecondità, di lavoro, di silenzio, di morte, di fedeltà, di gioia, di dolore, di pace… Alla loro luce, notiamo che la nostra lettura del vangelo acquista senso. 0, invece, sono alle volte queste esperienze che acquistano senso alla luce del vangelo?

In questo consiste il metodo: nel rapporto tra la parola di Dio e l'esperienza che si sta vivendo. Guardare questo rapporto è l'anima di ogni processo di educazione dolla fede.

La fede è, infatti, educata a seconda che ci si apre a leggere la rivelazione di Dio come risposta ai nostri interrogativi o come proposta per le nostre necessità. Così, la rivelazione di Dio è il dialogo tra due fedeltà: quella di Dio e la nostra. Fa da veicolo il processo di circostanze che favoriscono la nostra maturità, personale o collettiva. Per questo, è educato nella fede colui che impara questo atteggiamento fondamentale e cammina nella vita cercando la trasparenza religiosa di ogni avvenimento.

Se si osserva tutto ciò con attenzione, appare una questione importante: se questo è il metodo, che cos'è il Contenuto? Per caso, la rivelazione di Dio consiste in qualcosa d'altro che nel mostrarci la vita di Dio incarnata nella nostra stessa vita? Vediamo qual 'è la risposta: essa ci aiuterà a comprendere meglio il metodo stesso.

Nella pratica dell'educazione della fede, dovremo distinguere molte volte tra metodo e contenuti. Questo è vero, ma ciò non toglie che in fondo le due realtà coincidono, cosicché tutto il processo della catechesi va interpretato come il cammino verso il metodo, verso l'atteggiamento di stabilire il rapporto nella fede tra la nostra coscienza di vivere e la manifestazione di Dio. Risulta così che, in fondo, il metodo non è solo il cammino verso qualcosa d'altro, ma è anche il punto finale.

Dobbiamo aggiungere un'osservazione. Il fatto che le cose siano così non significa che l'educazione della fede debba essere organizzata in due momenti di un processo matematico: primo, approfondire la coscienza di vivere; secondo, leggere il vangelo. No.

Il metodo deve riprodurre il processo del nostro incontro con Dio. Questa è la chiave: riprodurre. Però, senza semplificarlo, senza ridurlo a due momenti o fattori. La nostra vita ce lo insegna con sufficiente chiarezza: non sappiamo mai se nelle nostre esperienze fondamentali abbiamo cominciato chiedendo qualcosa di sconosciuto o ricevendo una rispostasorpresa. Il fatto è che tutto consiste nell'interminabile processo di cercare e di incontrare, o di ricevere e rispondere, o di avere e desiderare.

Per questo, il metodo è quasi più una chiave per valutare un processo di catechesi che il criterio per programmarlo. E' alla fine che la veduta del fatto ci potrà assicurare che siamo stati fedeli o meno alla natura dell'educazione della fede. Vedremo allora se, lungo la programmazione, è rimasto o meno, come ritornello, il tema secondo cui il nostro incontro con la vita va unito al nostro incontro con Dio.

La metodologia e, evidentemente, un'altra cosa.

Se nel metodo il concetto chiave è quello di riprodurre, senza semplificarla, la nostra esperienza cristiana, nella metodologia, troviamo quest'altro: il ritmo.

Il ritmo si riferisce al sorgere e al decadere dell'attenzione, al processo dell'interesse e del disinteresse, dell'illusione e della stanchezza. Questo ritmo accompagna ogni situazione di educazione della fede in una serie di unità minori: la sorpresa o la curiosità, l'introspezione, la contemplazione intellettuale, la verbalizzazione, l'orazione, la memorizzazione, l'attività sensoriale, la prospettiva sociologica, il procedimento di visualizzazione, ecc.

Come si vede, la metodologia consiste nel totale di mezzi per garantire la stabilità dell'apprendimento. È un complesso delicato organizzato sulle conoscenze e sul senso comune. Per questo, la metodologia è molto piu che il semplice uso dei mezzi: è il dialogo tra i mezzi, la capacità di attenzione dell'educando, e il contenuto o metodo. Insomma, il ritmo. La sua misura, in ogni caso (il tempo, come dicono i musici) è l'adeguarsi tra l'obiettivo concreto di una data seduta e la capacità di questo educando per raggiungere questo obiettivo. Dal cammino, come luogo in cui confluiscono entrambe le realtà, si ha il procedimento concreto: verbale, visuale, attivo…

Bibl. - Babin P., Metodologia per una catechesi dei giovani, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1967. Grom B., Metodi per l'insegnamento della religione, la pastorale giovanile e la formazione degli adulti, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1982. Idem, " Metodo ", in: Dizionario di catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 428-431. Stachel G., " Pedagogia della religione ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1937, pp. 491-493.

P. M. Gil Larrañaga

Mezzi di comunicazione sociale. (inizio)

La comunicazione sociale è antica quanto l'uomo, ma le sue possibilità sono andate aumentando continuamente. All'inizio, la comunicazione poteva essere soltanto personale e diretta; si limitava a quelli che erano fisicamente presenti. La scoperta della scrittura, tre mila anni fa, ha reso possibile entrare in comunicazione anche con gli assenti, ma i messaggi potevano inviarsi solo uno alla volta. Con l'invenzione della stampa nel 1455, avvenne un salto qualitativo: l'emissione di messaggi in serie. Ciò nonostante, la lettera stampata ebbe una diffusione limitata: nel secolo XVI, si calcolava che le nuove idee raggiungevano al massimo il 2% della popolazione mondiale. Un autentico salto gigantesco è avvenuto nel nostro secolo, coi cosiddetti " mezzi di comunicazione sociale (cinema, radio, televisione…). Oggi, esistono nel mondo più di 26.000 radio trasmittenti e circa 922 milioni di apparecchi riceventi. Le stazioni televisive sono 24.000; i riceventi sono 357 milioni (supponendo una media di tre spettattori al giorno per ogni televisore, possiamo affermare che nel nostro pianeta esistono più di mille milioni di telespettatori.

I mezzi moderni di comunicazione di massa hanno cambiato il mondo in ciò che McLuhan chiama " il villaggio del globo " . Questo paragone ci può aiutare ad intendere ciò che esso suppone: nel secolo XV, ci vollero molti mesi perché la notizia della scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo giungesse ai Re Cattolici. Probabilmente, cento anni dopo, la metà degli Spagnoli non lo sapevano ancora. Invece, quando nel nostro secolo, l'uomo pose i piedi sulla luna, quasi mille milioni di persone assistevano all'avvenimento nello stesso tempo in cui si produceva. Il crescente interscambio tra le varie nazioni e i vari gruppi sociali ha potuto contribuire, indubbiamente, ad unire più intimamente l'intero genere umano. Ciò, però, comporta anche un grosso pericolo: quello di soffocare le particolarità di ogni cultura ed il genio proprio di ogni popolo.

Per i moderni mass-media, lo strumento principale di comunicazione non è la lettera stampata, ma sono le immagini. I libri, i periodici, le riviste fanno un uso abbondante delle illustrazioni grafiche. Nel cinema e nella televisione, l'immagine è praticamente tutto. Ci troviamo perciò di fronte ad un cambiamento culturale molto importante: mentre la comunicazione mediante i caratteri stampati è eminentemente razionale, la cultura audiovisiva si rivolge innanzitutto al sistema sensoriale, e non dà sempre alle difese del giudizio e della riflessione la possibilità di entrare in azione. Questo, unito alla diffusione quasi illimitata dei mezzi moderni di comunicazione, apre un grosso interrogativo circa l'uso che si farà di essi: a servizio di quali scopi saranno messi? Chi è che forma l'opinione pubblica? Quali interessi ci sono dietro?

Generalmente, i mass-media giungono a noi gratuitamente o ad un prezzo molto inferiore al loro costo. Se pensiamo alle spese enormi che occorrono per mantenere un periodico, una radio trasmittente o una rete televisiva, sorge facilmente il sospetto che chi è disposto a sostenerne il costo spera in compenso di ricavarne qualche vantaggio. In molti paesi, lo Stato conserva e controlla i mass-media per metterli a servizio della sua politica; in altri, grossi interessi finanziari stanno dietro ai mezzi di comunicazione. L'esistenza di un pluralismo reale di mezzi potrebbe permettere che alcune informazioni correggessero i difetti di altre e che si completassero reciprocamente. Purtroppo, anche il pluralismo è minacciato dalle grandi agenzie di notizie.

Cinque agenzie di stampa, infatti, controllano circa il 95 % dell'informazione di tutto il pianeta: France-Presse (francese), Reuter (inglese), Tass (sovietica), Associated Press e United Press (statunitensi). Soprattutto le ultime due dominano il mercato internazionale dell'informazione. Praticamente, qualsiasi notizia che non provenga da un corrispondente giunge attraverso queste agenzie. Balzac, riferendosi all'agenzia Havas (oggi, France-Presse), la prima agenzia internazionale d'informazione, scriveva: " Il pubblico può credere che ci siano vari periodici, ma in ultima analisi, ce n'è uno solo (…). Il signor Havas, per un tanto mensile, fornisce ogni giorno a tutti i periodici le notizie dall'estero che poi ognuno tinge in bianco, in verde, in rosso o in azzurro ".

I mezzi di comunicazione sociale offrono anche grandi possibilità pastorali. Di fatto, la Chiesa li adottò con prontezza a mano a mano che sono apparsi: la Tipografia Poliglotta Vaticana fu fondata nel 1587 da Sisto V; il 12 Febbraio del 1931, Pio XI inaugurò l'emittente di Radio Vaticana, che era stata costruita da Marconi, l'inventore della radio. Oggi, è abbondantissimo l'uso che viene fatto dei mezzi audiovisivi nella catechesi. Il Concilio Vaticano II promulgò un breve decreto sui " mass-media " dal titolo Inter mirifica ed incaricò la Pontificia Commissione per i mezzi di comunicazione sociale di pubblicare un'istruzione pastorale più ampia, che apparve nel 1971, sotto il titolo Communio et Progressio.

Bibl. - Baragli E., " Strumenti della comunicazione sociale ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1583-1596. Girardet G., Il vangelo che viene dal video. Le chiese e la tentazione dei mass-media, Ed. Claudiana, Torino, 1980. Lever F., " Mass-Media ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 403-406. Mitali M., La teologia pastorale o pratica: Cammino di una riflessione fondante e scientifica, LAS, Roma, 1985. Unesco, Comunicazione e società oggi e domani. Il rapporto McBride sui problemi della Comunicazione nel mondo, ERI, Torino, 1982.

L. González-Carvajal

Militante. (inizio)

Il termine militante proviene dalla parola latina militia che indica il complesso di attività militari. Di fronte ad un mondo ostile, i cristiani hanno da sostenere una certa lotta ed essere nello stesso tempo " quelli che portano pace " (Mt 5,9), dal momento che Gesù Cristo è " Principe della pace " (Is 9,5). Comunque, il concetto di cristiano come " soldato di Cristo " è antico. Già nella patristica, il catecumenato era paragonato alla formazione di una recluta per trasformarla in soldato. Una certa concezione militaresca fu usata, soprattutto, nella confermazione, più nella corrente ascetica (" robur ad pugnam ": forza per lottare, lotta come crociata) che nella tradizione evangelica.

Il verbo militare, applicato all'azione politica, equivale ad essere attivo in un partito o associazione di persone che lottano per la vittoria di un ideale, molte volte utopico. La militanza politica appare nel secolo XIX coi movimenti sociali di emancipazione o liberazione. Da una parte, il militante politico è un volontario che ritiene possibile cambiare la vita e si decide ad usarne i mezzi perchè ciò avvenga. Egli vuole edificare una società giusta in cui non ci sia la dominazione dell'uomo sull'uomo. D'altra parte, si organizza in forma di associazione regolamentata per poter raggiungere, con strategie e tattiche adeguate, la realizzazione di un programma politico. Proveniente dal linguaggio militare, il concetto di militante, applicato in senso moderno, prima all'ambiente politico e poi a quello religioso, comprende tre dimensioni:

 un quadro organizzativo e disciplinato,

 una belligeranza attiva nella lotta, e

 un ideale, o causa, da servire con assoluta lealtà. Il caso estremo del militante è quello di essere sinceramente disposto a dare la propria vita per la patria, per la religione, o per tutte e due le cose. Il caso di militanza fuori dai limiti è quello del terrorista.

Il militante non si preoccupa eccessivamente del fondamento teorico della sua pratica, ma della pratica stessa, chiamata praxis, cioè, l'azione trasformatrice o rivoluzionaria. Egli è chiaramente consapevole che non è possibile cambiare la società e le sue istituzioni senza una organizzazione o associazione. Il militante è un membro disciplinato, con la tendenza ad esercitare la " leadership ", a comandare e, naturalmente, anche ad ubbidire, anche ciecamente. Ha qualcosa di fanatico e di carismatico. È ardente, costante, efficace. Per lui, la convinzione è più importante della riflessione. Il suo linguaggio è pieno di affermazioni nette, alle volte dogmatiche, quasi mai dimostrate. Studia più o meno profondamente o precipitosamente strategie e tattiche. Sceglie i mezzi più adatti di lotta, senza troppo giustificarli eticamente. Le finalità e le motivazioni si identificano o quasi. In qualsiasi caso, il militante suole essere un volontarista senza ombre di dubbio e trova gusto nell'impegno e nella lotta. I suoi motivi personali non contano molto.

Non tutti i militanti sono uguali. Ci sono militanti politici e militanti religiosi, di partito e di sindacato, dirigenti e obbedienti, attivisti e simpatizzanti, di destra e di sinistra, di genuini e di impostori. Le caratteristiche del militante variano secondo le epoche, i luoghi, l'età, la professione, i talenti personali e la formazione culturale.

Naturalmente, sono militanti prototipici i fondatori di un movimento sociale o religioso importante che risponde ad una necessità vitale del momento, che esercita nella sua prima fase una trasformazione visibile, e che sopravvive lungo il tempo con certi aspetti di vitalità. Ci sono dei militanti intramontabili, incapaci di scoraggiarsi. Però, generalmente, la militanza varia con l'età, si trasforma o si spegne. Per lo più, i primi militanti appartengono a classi sociali medie o borghesi, che sacrificano i propri interessi materiali per il popolo, fino a creare un'avanguardia di militanti oggettivi provenienti dai ceti popolari con la convinzione di essere oppressi.

I militanti cristiani laici appaiono in questo secolo, nell'intervallo delle due grandi guerre mondiali, quando sorse nella Chiesa la figura del laico. Si costatò una grande scristianizzazione in certi ambienti sociali e la Chiesa gerarchica sentì la necessità di organizzare un blocco cristiano ed attivo nella società laica. Fino allora, nonostante che in teologia si parlasse di Chiesa militante, tutti i compiti ministeriali erano riservati al sacerdote. La Chiesa, fino a pochi decenni fa, era composta di preti attivi e di laici pii ed obbedienti.

Bibl. - Lazzati G., Pensare politicamente, 2 voll., Ed. AVE, Roma, 1988. Midali M., Teologia pastorale o pratica. Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, Ed. LAS, Roma, 1985. Régnier G., L'apostolato dei laici, Ed. Dehoniane, Bologna, 1987.

A. Floristán

Ministero. (inizio)

Nella Chiesa esiste, fin dalle sue origini remote, un'importante varietà di servizi, funzioni e compiti che ricevono il nome generico di ministeri (dal latino: ministerium: servizio). Questi ministeri stanno alla base della strutturazione attuale della Chiesa e sono, senza dubbio alcuno, un dato fondamentale per questa strutturazione. In questo senso, già la prima lettera ai Tessalonicesi raccomanda: " Vi preghiamo, fratelli, di avere riguardo per quelli che faticano tra di voi, che vi fanno da guida nel Signore e vi ammoniscono; trattateli con molto rispetto e amore, a motivo del loro lavoro " (1 Ts 5,12-13). Inoltre, in vari passi delle sue lettere, san Paolo elenca i doni, le attività e le varie funzioni che esistono nella Chiesa (Rm 12, 6-8; 1 Cor 12,4-11.28-31; 14,6; Ef 4,11-12). Tra queste varie attività o mansioni, Paolo sottolinea tre ministeri o servizi: gli apostoli, i profeti e i dottori (l Cor 12,28; cf Ef 4,11). Però, vanno ricordati anche quelli che Paolo chiama suoi collaboratori (Rm 16,3; 1 Ts 3,2; 2 Cor 8,23) e in pratica i responsabili delle comunità locali che vengono nominati nel saluto delle sue lettere (1 Ts 1,1; 1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1; Fil 1,1; Fm 1), o nella conclusione (1 Cor 16,19-20; Rm 16,3 ss; Fil 4,21; Fm 23-24). Questi collaboratori sono chiamati con titoli generici di synergoùntes (cooperatori) e kopiòntes (quelli che condividono la cura della comunità (1 Ts 5,12; 1 Cor 16,16). Infine, all'interno del corpus paulinum, è importante la testimonianza della lettera agli Efesini dove vengono elencati, assieme agli apostoli, profeti e dottori, anche gli evangelisti e i pastori (Ef 4,11). Il libro degli Atti degli Apostoli parla, invece, del compito speciale degli Apostoli, i " Dodici " (At 1,26; 2,14.37; 6, 2.6), del ministero dei " Sette " nella comunità di lingua greca (At 6, 1-ó), dell'attività dei profeti (At 11,27-28; 13,1; 15,22.27.32) e degli Anziani (At 14,23; 20,17-38). Anche la prima lettera di Pietro parla degli Anziani (1 Pt 5,1-4). Soprattutto nelle lettere pastorali non appare una distinzione chiara tra anziani (o presbiteri) e vescovi (cf Tt l. 5-7). D'altra parte, il compito dei presbiteri appare intimamente legato all'insegnamento (Tt 1,5-9; 1 Tm 1,12; 4,13; 5,17; 2 Tm 4,5; ecc.).

Però, riguardo a questi dati, bisogna fare tre osservazioni fondamentali:

1) L'esistenza di funzioni di leadership nelle comunità cristiane primitive non va interpretata come un fatto più o meno secondario nella vita di quelle comunità. Meno ancora si deve intendere come il risultato di una decisione presa dai primi cristiani. L'apostolo Paolo afferma che i ministeri sono doni (karìsmata) elargiti da Dio per la crescita della Chiesa (1 Cor 12,4.31). Non solo, ma è stato Dio che " li ha posti nella Chiesa " per esercitare questi ministeri (1 Cor 12,28). In ultima analisi, è stato " Cristo che ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti " (Ef 4,11).

2) È fuori dubbio che il NT riconosce una grande diversità di ministeri nella vita e nel funzionamento delle comunità cristiane. Questa diversità è una ricchezza per la vita della Chiesa. Perciò si deve ritenere che è stato un impoverimento il fatto che i ministeri, a partire dai secoli II e III, siano stati ridotti alla triade di: vescovi, presbiteri e diaconi.

3) Nelle comunità del NT, si nota anche una grande creatività, cioè, le comunità si sentivano libere di produrre, sotto l'azione e l'impulso dello Spirito, i ministeri che nei casi singoli ritenevano necessari o convenienti, come si presentavano le necessità. È stato detto giustamente che i ministeri che pullulavano nella Chiesa antica, comprendendo anche quelli che assunsero la successione degli apostoli, appaiono in larga misura come creazioni funzionali realizzate sotto la pressione degli eventi e al soffio dello Spirito Santo.

Ad ogni modo, è della massima importanza comprendere che la realtà prima e più fondamentale nella Chiesa non è il ministero, ma la comunità. Si vuol dire questo: che il senso e la ragion d'essere del ministero consiste appunto nell'essere un servizio nella comunità e per la comunità dei credenti. Per questo, gli scritti del NT, ad eccezione delle lettere pastorali, sono indirizzati tutti alle comunità, non ai loro ministri. In ultima analisi, si tratta di comprendere che la Chiesa è, prima di tutto e soprattutto, il nuovo Popolo di Dio,la comunità dei salvati, come ha detto esplicitamente il Concilio Vaticano II (LG 9), la comunità sacerdotale (LG 10-11), all'interno della quale lo Spirito di Dio suscita carismi e ministeri (LG 12). In questo modo, la gerarchia ed il ministero vanno intesi all'interno del dato previo e fondamentale della comunità (LG 18 ss). Però, d'altra parte, quando parliamo della comunità cristiana, è fondamentale tenere sempre presente che si tratta di una comunità " strutturata ", cioè, di una comunità in cui, per il suo servizio, esiste un ministero ufficialmente stabilito, in armonia con quanto viene significato dalla successione apostolica e dalla apostolicità della Chiesa.

I tre compiti specifici del ministero ordinato sono: l'annuncio della Parola di Dio, la presidenza nelle celebrazioni sacramentali, il governo o guida pastorale della comunità (LG 25-27; CD 12-16; PO 4-6). Però, questo non vuol dire che i fedeli, in nessun caso, non possano spiegare il vangelo, o esercitare funzioni organizzative. Oltre ai ministeri ordinati, ci devono sempre essere nella Chiesa altri ministeri, non ordinati, che cooperino all'edificazione comune del Corpo di Cristo. Di più: tutti i fedeli devono essere attivi e responsabili nel funzionamento e nell'organizzazione della Chiesa.

Bibl. - Bianchini S., Il sacerdozio cristiano, Ed. Marietti, Torino, 1973. Congar Y., Ministeri e comunione ecclesiale, Ed. Dehoniane, Bologna, 1973. Delorme J. (a cura di), Il ministero e i ministeri secondo il Nuovo Testamento, Ed. Paoline, Roma, 1977. Dianich S., " Ministero ", in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 902-931. Favale A. - Gozzelino G., Il ministero presbiterale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1972. González M., Quali ministeri per quale Chiesa. L'esperienza dell'America Latina, Ed. Borla, Bologna, 1977. Vanhoye A., Cristo è il nostro sacerdote, Ed. Marietti, Torino, 1970.

J.M. Castillo

Minoranza. (inizio)

Il termine minoranza ha due significati principali:

1. Minoranza parlamentare: è il complesso di deputati e senatori che appartengono a partiti politici che non hanno ottenuto la maggioranza sufficiente per governare, per cui, mentre dura la legislatura, esercitano una funzione di critica e di controllo sui partiti che sono al governo.

2. Minoranza etnica: è un gruppo di persone che, per la loro razza, religione, lingua, cultura, ecc., si distingue dagli altri membri della società ed occupano una posizione subordinata di fronte a loro. Questa subordinazione può essere sancita giuridicamente (apartheid), o, semplicemente, esistere di fatto. Sebbene la parola " minoranza " faccia pensare ad un collettivo esiguo, e per lo più è così, non mancano casi in cui la " minoranza " è predominante dal punto di vista numerico. " Minoranza " non si oppone, pertanto, a " maggioranza ", ma a: " gruppo dominante ". Ci furono esempi di " minoranze " in Spagna, durante il Medioevo: gli Ebrei e i Mori. Oggi, ci sono gli zingari. Negli Stati Uniti, i Negri e gli Ispani… In America Latina, gli Indios… Riguardo ai gruppi dominanti, il loro atteggiamento verso le minoranze può andare dallo sterminio (genocidio) e l'espulsione, fino alla protezione legale. Anche nelle minoranze, esistono aspirazioni molto diverse. Per esempio:

a) l'assimilazione con la maggioranza, rinunciando alla loro specificità culturale;

b) il pluralismo, che conserva le sue differenze culturali, ma elimina la subordinazione;

c) la secessione dalla società in cui si trovano subordinate e l'acquisto dell'autonomia politica;

d) l'inversione della situazione: diventare a loro volta il gruppo dominante.

Bibl. - Giannini A., " Minoranze nazionali ", in: Enciclopedia Filosofica, IV, Ed. Sansoni, Firenze, 1967 , coll. 652-653. Messineo A., " Minoranze nazionali ", in: Enciclopedia Cattolica, VIII, Città del Vaticano, 1950, coll. 1046-1050. Pie L., " Minoranza ", in: Enciclopedia Italiana, XXIII, Treccani, pp. 404-405. Secco L. ed altri, Pedagogia interculturale. Problemi e concetti, Ed. La Scuola, Brescia, 1992.

L. Gonzaléz-Carvajal

Miracolo. (inizio)

L'atteggiamento dei cristiani di fronte ai miracoli si muove di solito tra due estremismi difficilmente conciliabili: da una parte, ci sono quei credenti che subordinano la fede ad un " segno del cielo ", cioè, ad un fatto prodigioso e spettacolare che si imponga con la forza del sensazionale e del vistoso; dall'altra, ci sono quelli che, da posizioni decisamente razionaliste, escludono, paradossalmente, dall'ambito della fede tutto quello che supera i limiti della comprensione razionale. Gli estremismi sono, per esprimerli in sintesi, il miracolismo ed il razionalismo.

Questo si riflette nella vita dei credenti, nella predicazione, nella catechesi, nell'azione pastorale e perfino nella teologia favorendo atteggiamenti confinanti alle volte col magico, o, all'opposto, impostazioni demistificatrici, senza che risulti facile collocare i miracoli nei giusti termini.

Secondo i racconti evangelici, i miracoli occupano un posto distinto qualitativamente e quantitativamente nella vita e nella prassi di Gesù. Una cristologia che trascurasse questo aspetto farebbe un'amputazione enorme. Però, non si può da ciò concludere che l'attività di Gesù si sia limitata ad essere soltanto taumaturgica. Non si può neanche affermare che la fede abbia nei miracoli il suo " principio e fondamento ". Gesù rifiuta di concedere il " segno dal cielo " che gli chiedono alcuni scribi e farisei, perché questa sete di prodigi denota la cattiva volontà di credere. Non solo: quelli che gli hanno chiesto questo segno sono da lui chiamati: " generazione perversa e adultera " (Mt 12,39). Gesù teme che i segni straordinari, invece di portare ad un rapporto gratuito con lui e alla sua sequela, conducano invece ad un rapporto interessato: " Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei piani e vi siete saziati " (Gv 6,26). La strada più sicura che porta alla fede non sono i prodigi, ma l'incontro con Gesù.

I racconti di miracoli neotestamentari non sono descrizioni elaborate da testimoni oculari, ma, come fa notare giustamente Metz, sono testimonianze ordinate kerigmaticamente ed elaborate teologicamente. Non sono semplici eventi costatabili in maniera naturale e neutrale, ma sono segni che, per la loro stessa natura,influiscono sull'esistenza umana nel suo orientamento verso un futuro salvifico.

I miracoli non costituiscono una dimostrazione arbitraria dell'onnipotenza di Dio; non si riferiscono al suo intervento trascendente: sono segni che l'intera realtà umana è inserita nell'economia storica di Dio; sono segni della presenza anticipata della salvezza escatologica. Il luogo originario della possibile esperienza dei miracoli non è l'osservazione metodica delle leggi della natura, come avviene nelle scienze naturali: è la storia della promessa, dell'incontro con Dio sempre più grande. Egli è capace di sorprenderci e di superare i nostri determinismi naturali con la sovrabbondanza del suo amore.

L'apologetica classica trascurava il carattere di segno che i miracoli hanno nei vangeli, e si fissava unicamente sul loro carattere prodigioso: " praeter ordinem totìus naturae creatae " (oltre l'ordine di tutta la natura creata), secondo la definizione formulata da san Tommaso d'Aquino e ripetuta in tutti i manuali di teologia. Conviene tenere presente, a questo riguardo, che le espressioni più frequenti dei vangeli per designare le opere di Gesù sono: dynamis (l'atto di potere), èrgon (l'opera) e semèion (il segno). Nessuno di questi termini si riferisce all'aspetto vistoso e sorprendente dell'agire di Gesù. In Giovanni, più che nei Sinottici, viene accentuato il carattere di segno del miracolo che gli dà un significato fondamentale: la venuta del Regno, l'anticipazione dei nuovi cieli e della nuova terra. I miracoli di Gesù che vengono narrati " non intendono essere altro che presentazioni simboliche, corporee e tipiche della salvezza annunciata da Gesù " (J. Blank).

I miracoli di Gesù sono anche messi in stretto rapporto con le promesse messianiche, come si può vedere nella risposta data (Gesù agli inviati di Giovanni Battista (Lc 7,18-23) e nella sinagoga di Nazaret (Lc 4, 18-19). In entrambi i casi, vengono citati testi escatologici di Isaia.

Una corretta comprensione dei miracoli di Gesù obbliga a superare i metodi di verifica delle scienze naturali: non è questo il piano in cui deve svolgersi la riflessione teologica. Bisogna dare la precedenza alla dimensione simbolica e prassica, che è quella che appare in tutta la sua nitidezza nelle varie tradizioni evangeliche. Così, apparirà il suo genuino senso liberatore.

Bibl. - Boublik V., Incontro con Dio, Roma, 1968. Lambiasi F., L'autenticità storica dei vangeli. Studio di criteriologia, Bologna, 1976. Locatelli A., Dio e il miracolo, Venegono Inf., 1963. Latourelle R., " Miracolo ", in: Dizionario di Teologia fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990 pp. 748-771. Léon-Dufour X. (ed.), I miracoli di Gesù, Brescia, 1980. Mussner F., I miracoli di Gesù, Brescia, 1969. Weiser A., I miracoli di Gesù, Bologna, 1980.

J.J. Tamayo

Missione della Chiesa. (inizio)

La missione della Chiesa costituisce la sua stessa identità e si stabilisce in maniera parallela alla sua presa di coscienza ecclesiale. Nello stesso modo con cui Gesù si vede in funzione del Regno di Dio e la sua identità personale si inserisce all'interno della sua missione salvifica, così avviene anche con la Chiesa: essa prende progressivamente coscienza delle sue differenze nei riguardi di Israele e del suo imperativo missionario: il passaggio ai pagani e la rottura con l'ebraismo costituiscono un momento decisivo ecclesiale e missionario. I cristiani vedono in questa rottura una dinamica che si inserisce in quella di Gesù e che li distingue essenzialmente da Israele. Possiamo parlare della ecclesiogenesi come di un'espansione missionaria. La Chiesa si apre pienamente ai popoli pagani senza negare la sua missione tra gli Ebrei. Si pone fine così alla prima fase del cristianesimo in quanto sètta giudaica e nasce un'entità religiosa chiaramente differenziata.

La seconda fase dell'espansione ecclesiale e missionaria è quella della società greco-romana. Sorge la Chiesa cattolica come sintesi della storia biblica e del lògos greco. La missione è vissuta come inculturazione mentre sorgono comunità occidentali ed orientali nell'impero. La Chiesa ritiene di essere il " terzo popolo " di Ebrei e di pagani; la missione è l'evangelizzazione della società e l'integrazione nel dialogo fede- cultura. La missione è inerente alla strutturazione interna. Vengono assimilati molti elementi socio-culturali che si incorporano alla fede.

Questo schema continua nel Medioevo di fronte all'invasione dei Barbari, combinando l'inculturazione e la cristianizzazione in una missione che non cessa di essere evangelizzatrice e civilizzatrice. La Chiesa, nella sua duplice versione latina (occidentale) e bizantina (orientale), comprende le missioni nell'Oriente dell'Europa, nell'Asia Minore e poi nelle nuove terre americane e negli altri continenti, unendo la cristianizzazione con l'incorporazione culturale. Possiamo parlare di colonizzazione ecclesiastica: non si tratta di impiantare il cristianesimo in popoli diversi per far sorgere altre Chiese e potenziare nuove forme di cristianesimo, ma si vogliono soltanto incorporare i nuovi popoli alla propria Chiesa. Non si trasmette il messaggio cristiano affinché ogni popolo lo accolga e ne venga inculturato, ma si impone una liturgia, una disciplina e un modello ecclesiale già esistenti con elementi della cultura colonizzatrice (spesso con la lingua, il diritto e la gerarchia dei colonizzatori). L'unico tentativo moderno di rompere questo schema è stato il conflitto dei riti malabarici, in cui sì cerco di creare un rito cinese e indù autoctoni all'interno dell'unica chiesa cattolica. Questo tentativo fu soffocato da Roma. Sorse così una Chiesa cattolica , cioè, universale per la sua espansione mondiale (sfruttando l'egemonia dei popoli europei), ma che propose il modello occidentale (un modello particolare) come universale.

Una terza fase è quella che ha avuto inizio con il Concilio Vaticano II. Da una parte, si prende coscienza del fatto che le vecchie cristianità europee sono diventate paesi di missione. Si passa così da un cristianesimo tradizionale e da una pastorale di conservazione ad una ristrutturazione missionaria della Chiesa. Si abbandona la teologia del " potere di missione ", propria dell'epoca pre-conciliare, che pone il centro della missione nella gerarchia ed incorpora il laicato subordinato all'apostolato gerarchico (Azione Cattolica). Si sottolinea, invece, la vocazione di tutti fondata sulla consacrazione battesimale (AG 1). La Chiesa si libera a poco a poco dalle teorie riguardanti la potestà diretta e indiretta del Papa nell'ordine temporale e prende le distanze dal modello di cristianità e di stato confessionale.

Sorge così un nuovo progetto evangelizzatore con la partecipazione del clero e del laicato, e con una dinamica di solidarietà coi poveri e di lotta contro l'ingiustizia. La missione è vista come liberazione integrale e promozione dell'uomo, difesa dei diritti umani, e testimonianza evangelica. È una missione meno impositiva e più dialogica, meno spiritualista e più incarnata, meno proselitista e più testimoniante. Però, sussiste anche uno schema missionario più tradizionale e più dogmatico, che preferisce al dialogo la condanna del mondo, che accentua gli aspetti negativi e le calamità invece di aprirsi ai lati positivi della cultura. Questi tali vedono nella cristi attuale una sconfitta del cristianesimo anziché una possibilità storica di evangelizzazione. Essi contrappongono una cultura della credenza a quella della non credenza con un invito alla disciplina e alla omogeneità come nell'epoca pre-conciliare. I due modelli sussistono nel post-concilio, e l'opzione per uno di essi sarà determinante per il futuro.

Nello stesso tempo, si apre una terza fase missionaria: le Chiese della periferia sorgono con grande vitalità e cercano un cristianesimo non europeo, nuove forme di inculturazione non occidentali e un processo pedagogico che permetta loro a poco a poco di fare le proprie esperienze culturali ed evangelizzatrici. Il cristianesimo latino-americano ha già cominciato a far sentire la sua personalità; la Chiesa d'Africa sogna un concilio pan-africano; in Asia, si ripropongono i vecchi problemi affrontati nei riti malabarici. Appare un nuovo modello di Chiesa cattolica più pluralista, in cui l'Europa viene ad essere una regione del cristianesimo, ma non necessariamente il suo centro o il suo unico modello. Si rende possibile una cattolicità realmente universale con diverse liturgie, discipline, teologie e canoni che rispondano alla pluralità dei popoli che la compongono.

Bibl. - Aa.Vv., Missiologia oggi, Roma, 1985. Dianich S., Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1985. Gallo L., Una Chiesa al servizio degli uomini. Contributi per una ecclesiologia nella linea conciliare, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1982.

J.A. Estrada

Missione del cristiano. (inizio)

Il termine missione proviene dalla parola latina missio, o dal verbo mittere, che significa: mandare. Ora, questo verbo comprende due cose: l'atto di inviare e il contenuto dell'invio, o, se si preferisce, il rapporto tra colui che invia e l'inviato. Questi due aspetti vanno inclusi anche nel concetto di missione. La missione è, dunque, un invio; il missionario è un inviato o apostolo (dal verbo greco: apostèllo; inviare). L'apostolato è invio, missione, delega o ambasciata.

L'apostolo è un missionario scelto da Dio per la salvezza degli uomini. In quanto inviato, ciò comporta due relazioni: con colui che che lo manda e con colui per il quale esercita il suo invio. È inviato da qualcuno e per qualcuno; è un mediatore attivo. Nella missione cristiana, Dio è l'unico capace di inviare, poiché è il Creatore nell'ordine naturale e il datore della grazia in quello soprannaturale. " Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stata data dal cielo " (Gv 3,27).

C'è una prima missione all'interno della Trinità. Il Padre, in quanto tale, non è mai chiamato inviato dalla Bibbia, mentre il Figlio e lo Spirito ricevono questa denominazione. Il Figlio è inviato dal Padre; lo Spirito Santo è inviato dal Padre e dal Figlio. L'aspetto missionario della Chiesa, ci dice il Concilio Vaticano II, proviene dal fatto che " è dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo che essa, secondo il Piano di Dio Padre, deriva la propria origine " (AG 2). Così, essa raggiunge il suo obiettivo rispetto a tutti gli uomini molti dei quali sono ancora pagani, e rispetto a tutti quelli che, apparentemente, sono cristiani, ma vivono in realtà un nuovo paganesimo. La missione, di fatto, è diretta specialmente a " gruppi e popoli " che " solo gradatamente essa può raggiungere " (AG 6). D'altra parte, essendo la Chiesa " per sua natura missionaria " (AG 2), incombe a tutti i suoi membri questo dovere.

Il concetto di missione, come è inteso oggi, ha fatto la sua nuova apparizione verso il 1544, per opera di sant'Ignazio di Loyola e di Diego Laínez che l'intesero come sinonimo di cristianizzazione dei pagani nelle terre appena scoperte. A partire dal 1513, con la dominazione spagnola del Nuovo Mondo, il compito delle crociate fu sostituito da quello della missione, sia pure unito in modo eccessivo con l'ideologia della conquista. Sorgono le missioni moderne sotto la protezione diretta dei re di Portogallo e di Spagna, o " patronato regio ", derivato dalla " concessione del diritto di conquista " (1452). La fondazione della Congregazione De propaganda fide da parte di Gregorio XV nel 1622 aveva l'intento di neutralizzare gli effetti negativi di una missione strettamente collegata con la dominazione. La missione cominciò ad essere intesa come " propagazione della fede ", mediante la predicazione del vangelo a tutti i popoli ed in tutte le circostanze storiche, affinché la Chiesa potesse penetrare in tutti gli ambienti dell'umanità. Questa Congregazione, dietro l'impulso dei Papi a partire da Gregorio XVI nel 1831, assunse la direzione missionaria in tutta la cristianità. Fu condannata la schiavitù (1839), fu promossa la creazione del clero indigeno; fu favorito l'impianto di Chiese locali. Comunque, le missioni hanno seguito un cammino parallelo alle colonizzazioni europee alla romanizzazione del cattolicesimo importato nei paesi di oltremare.

Un rinnovato concetto di missione si è sviluppato tra le due ultime guerre mondiali. Questa fu l'età d'oro della missiologia. Le missioni, al plurale, erano sinonimo di apostolato in terre lontane o di lavoro di quanti s'imbarcavano per consacrare la loro vita all'apostolato in paesi di oltremare, chiamati appunto " terre di missione ". Nei paesi di cristianità, si pensava che non fosse necessaria la missione, ma che fosse sufficiente una pastorale sacramentale. Varie encicliche missionarie aiutarono a giustificare questo compito decisivo della Chiesa. Però, al termine della seconda guerra mondiale, appaiono nelle grandi città e perfino in estese zone rurali, ambienti non evangelizzati. Già prima del Concilio, si scopre la necessità della missione in paesi di cristianità. È questo il passaggio da una Chiesa " con missioni " ad una Chiesa " in stato di missione ". Questa costatazione provocò una revisione della teologia missionaria e dell'azione pastorale della Chiesa.

La nuova rotta missionaria prese corpo con il Vaticano II. La missione, prima del Concilio, rimaneva relegata in un secondo piano nella pastorale di cristianità. Perfino le missioni erano attività apostoliche secondarie riservate a specialisti. Il Vaticano II, invece, affermò il carattere essenziale della missione in " terre lontane ", ma contemporaneamente giunse a fare della missione il centro della Chiesa. La concezione missionaria della Chiesa fu una preoccupazione fondamentale del Concilio. Questa appare in quasi tutti i documenti conciliari. Naturalmente, il decreto Ad Gentes costituisce il testo capitale della Chiesa come missione e della missione della Chiesa. Tuttavia, il linguaggio missionario non è del tutto chiaro nel Concilio. Di solito, la parola missione, al singolare, equivale alla missione della Chiesa, mentre l'espressione missioni, al plurale, è sinonimo di " attività missionaria " o evangelizzazione tra i non cristiani.

Bibl. - Masson J., Decreto sull'attività missionaria della Chiesa, Torino, 1966. Giovanni Paolo II, Enciclica " La missione del Redentore ", 7.12.1990. Rahner K., Cristianesimo anonimo e compito missionario della Chiesa, in: Nuovi Saggi, 4, Ed. Paoline, Roma, 1973, pp. 619-642. Wolanin A., Teologia della missione, Ed. Piemme, Casale M., 1989.

A. Floristán

Missioni estere. (inizio)

La parola missioni, al plurale, corrisponde all'evangelizzazione o pastorale missionaria che si svolge nel periodo che va dalla fine del secolo XV o inizio del secolo XVI (scoperta del Nuovo Mondo) fino alla seconda guerra mondiale.

Le missioni erano intese come un apostolato speciale compiuto dai missionari nei cosiddetti paesi di missione, fuori d'Europa, specialmente in Africa e in Asia. Non c'erano missionari nei paesi di cristianità: in essi, si pregava e si raccoglievano soldi per le missioni. Le missioni richiamavano paesi esotici, religioni pagane, costumi primitivi, povertà ancestrale, pericoli e rischi a non finire. I missionari godevano di un prestigio quasi magico per la loro generosità, il loro coraggio ed il loro zelo apostolico.

L'inizio delle missioni moderne va collocato nel 1622, quando Gregorio XV fondò la Congregazione per la propagazione della fede, che oggi si chiama Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli. L'espansione delle missioni avvenne principalmente nel secolo XIX, quando si aprirono alle influenze straniere i paesi dell'Estremo Oriente e fu conquistata l'intera Africa. Tra il 1870 ed il 1914, la colonizzazione imperialista europea raggiunse il suo vertice. Il cristianesimo fu impiantato nei paesi missionari sotto il rigido controllo del Vaticano, mentre contemporaneamente si estendeva la civiltà europea sotto gli impulsi di una conquista sensibilmente violenta. La Chiesa fu un'istanza super-nazionale affinché l'azione missionaria non soccombesse agli interessi commerciali e strategici. In questo modo, le missioni estere dipesero totalmente dalla Santa Sede.

Le missioni furono create sotto il segno del sistema di conquista e perfino con la protezione di sovrani, come a w enne per il Portogallo e la Spagna. Le missioni godevano dell'appoggio del potere politico ed economico dei conquistatori. Era una Chiesa coloniale.

In secondo luogo, le missioni si svilupparono tra popolazioni semplici e povere. Il missionario occidentale, straniero al paese missionario, si imponeva per i suoi valori culturali e religiosi eminenti. Meno influenzate rimanevano le città e le " élites ". Era una Chiesa rurale.

Gli indigeni, in terzo luogo, accettavano passivamente questi valori stranieri. Le missioni dipendevano fondamentalmente dall'Europa (più tardi, anche dagli Stati Uniti e dal Canada), con uno stampo occidentale, un rito latino, una teologia europea e un codice romano. Era una Chiesa importata.

Infine, le missioni, con tutte le loro opere (ospedali, scuole, ecc.) erano in mano a religiosi e religiose. L'incorporazione del clero diocesano, mediante gli " istituti di missioni " fu posteriore. Era una Chiesa clericale.

Appunto per tutti questi motivi che abbiamo ora enunciato, facendo la Chiesa parte della società occidentale, del suo potere e della sua cultura, è logico che la crisi del colonialismo contribuì alla crisi delle missioni. In pochi anni, si passò da una fantastica ambizione missionaria ad una situazione di insicurezza e di perplessità. Si parlò perfino di " de-missione ". Alla fine della seconda guerra mondiale, apparvero nelle grandi città e perfino in vaste zone rurali, ambienti non evangelizzati. È il passaggio da una Chiesa con missioni ad una Chiesa in stato di missione. Una nuova direzione missionaria fu presa dal Concilio Vaticano II. Al posto di missioni, si preferisce ora parlare di Chiese giovani; invece di usare la parola missione, dopo il Concilio, si parla di evangelizzazione.

Bibl. - Colzani G., La missionarietà della Chiesa, Ed. Dehoniane, Bologna, 1975. Dhavamony M. (ed.), Prospettive di missiologia oggi, PUG, Roma, 1982. Friedli R., " MissioneScienza della missione ", in: Enciclopedia teologica, Ed. Queriniana, Brescia, 1989, pp. 586-592.

C. Floristán

Missioni popolari. (inizio)

Le missioni popolari, o parrocchiali, sorsero al tempo della Riforma, si svilupparono nei secoli XVII e XVIII ed influirono sulla cristianità europea del secolo XIX. Il loro fine consisteva nella " rinnovazione radicale e totale della vita religiosa e morale del popolo cattolico con la conversione dei peccatori, lo stimolo allo zelo nei tiepidi e nei trascurati e il consolidamento dei buoni cristiani " (Van Deleft). Tuttavia, questo tipo di missioni non conobbe grandi rinnovamenti né quanto a contenuto né quanto a metodo, fino alla metà del secolo XIX. Sebbene il popolo accorresse in massa, i risultati, alla fine del secolo scorso e agli inizi del secolo XX, non sembravano duraturi.

Dopo la seconda guerra mondiale, le missioni popolari rafforzavano solo le parrocchie di cristianità e si mostravano incapaci di evangelizzare zone e regioni scristianizzate. Prima del Concilio, si scopri nei paesi di cristianità la necessità della missione e si cercò di rivitalizzare l'efficacia delle missioni popolari che si tenevano nelle parrocchie ogni dieci anni, secondo le prescrizioni dell'antico Codice di Diritto Canonico (c. 1349). Il Nuovo Codice stabilisce: " I parroci in tempi determinati, secondo le disposizioni del Vescovo diocesano, organizzino quelle predicazioni, che denominano esercizi spirituali e sacre missioni, o altre forme adattate alle necessità " (CIC c. 770).

La teologia delle missioni al popolo si basava sul binomio salvezza- dannazione. Queste missioni erano necessarie per salvare i pagani infedeli e i peccatori traviati. Presentavano questi temi: peccato, inferno e morte nella prospettiva dell'individuo o dell'anima, di fronte all'aldi là o all'eternità, sotto la minaccia del giudizio finale.

Di fatto, queste missioni consistevano in una pastorale di conversione sacramentale. Non si trattava di suscitare la fede (questa era supposta in tutti con troppa facilità), ma di avvicinare alla Chiesa (alla confessione e alla comunione) tutte quelle persone che ne erano lontane. Alcuni missionari accentuavano la salvezza delle anime; altri si davano a svolgere le opere della Chiesa, necessarie per sentirsi apposto. In qualsiasi caso, si ricorreva a soavi pressioni sulla famiglia, sugli amici o sulle autorità. Questo genere di missioni dava risultati positivi nei bambini, negli adolescenti, nei malati e nelle donne, cioè, nelle persone più sensibili alle pressioni. Era efficace anche con quelli che erano dentro la Chiesa (praticamente con quelli che erano irregolari e che non si sentivano apposto in coscienza). Era, invece, inefficace col mondo degli increduli. Più che missione, era una riproduzione, con un modello uniforme, omogeneo.

La trasformazione di questo tipo di missione nel nuovo modello postconciliare di evangelizzazione ha fatto sì che le attuali missioni parrocchiali hanno oggi ben poco a vedere con quelle del passato.

Bibl. - Gennaro A., " Le missioni interne ", in: Enciclopedia Cattolica, VIII, Città del Vaticano, 1950, coll. 1120-1121. Mazzoni P.A., Le missioni popolari nel pensiero di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, Padova, 1961. T.G., " Missioni popolari ", in: Dizionario di teologia pastorale, 2, Ed. Paoline, Roma, 1962, pp. 1136-1139.

A. Floristán

Mistagogia. (inizio)

La parola mistagogia, che nel contesto religioso significava iniziazione ai misteri, ebbe presso i cristiani un uso particolare: fu riferita specialmente al periodo post-battesimale e ai suoi riti. Il complesso di insegnamenti che aiutavano i neofiti a comprendere meglio la loro partecipazione alla vita divina mediante le realtà sacramentali fu chiamato catechesi mistagogica. Per estensione, mistagogia venne a significare anche il periodo di neofitato in cui si tenevano le catechesi post-battesimali.

Il tempo della mistagogia corrisponde generalmente ai cinquanta giorni che seguono la Pasqua ed ha come finalità di procurare che i nuovi battezzati giungano ad acquistare una comprensione più profonda e un'esperienza più viva della vita cristiana. Per questo, il Rituale dell'iniziazione cristiana degli adulti indica tre mezzi: la meditazione del vangelo, la partecipazione all'eucaristia e l'esercizio della carità (n. 37).

Il primo di questi mezzi aveva una grande importanza presso i primi cristiani. Era favorito dalla predicazione del vescovo, dalla catechesi mistagogica, una specie di commento spirituale circa i riti dell'iniziazione, con una particolare insistenza sulla tipologia biblica su cui questi commenti si appoggiavano, ed anche circa le esigenze di vita che derivavano dall'impegno battesimale. Ciò veniva sviluppato, generalmente, nelle messe delle domeniche di Pasqua.

Una finalità importante della mistagogia era anche quella di procurare ai nuovi battezzati " una integrazione più piena e più consapevole nella comunità " (n. 235), invitandoli ad approfondire l'esperienza comunitaria, per conseguire alcuni rapporti più facili e più fruttuosi coi fedeli e recare ad essi una visione rinnovata delle cose e un nuovo stimolo (n. 39).

L'attualizzazione del neofitato o mistagogia riveste oggi forme varie. Ci incontriamo, pertanto, con esperienze che usano questo periodo come di un tempo di preparazione per la confermazione. Altre vogliono mettere in risalto il clima celebrativo e festoso… Il denominatore comune di tutte queste varie forme dovrebbe essere quello di stabilire la vita cristiana in un progresso continuo.

Bibl. - Daniélou J. - Du Charlat R., La catechesi nei primi secoli, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1969. Sacra Congregazione per i Sacramenti e il culto Divino, Rito dell'iniziazione cristiana degli adulti (RICA), 1976. Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Ed. Paoline, Roma, , 556-584.

S. Movilla

Mistero. (inizio)

Etimologicamente, è probabile che il termine mistero derivi dal greco mýein (chiudere la bocca). Mystèrion verrebbe a significare l'occulto, ciò di cui non si parla. Nella storia delle religioni, c'è tutta una lun ga tra diz ion e. Esso significava:

1. Un rito religioso occulto, a cui potevano prendere parte solo gli iniziati (mýstes), e con esso, cercavano di raggiungere la salvezza. Così, per esempio, nei culti misterici greco-orientali e romani. In questo senso, la parola era usata di solito al plurale.

2. Con Platone, significò una dottrina occulta ed oscura.

3. Nella magìa, voleva dire una formula o un'azione magica.

4. Nella lingua della gnosi, indicava una rivelazione divina occulta.

5. Nella fenomenologia della religione, si tratta di una " realtà " verso cui è ordinato l'atto religioso in quanto tale. Appartiene all'essenza di tutto ciò che è strettamente religioso. E' qualcosa che trascende l'intelletto umano nella sua capacità, ma che si manifesta in modo oscuro e che attira, mentre ispira un rispetto riverenziale (" fascinans et tremendum ").

6. Nell'AT e nell'ebraismo, la parola si trova solo nei libri più tardivi, nella versione dei LXX, alle volte col significato di culto segreto (Sap 14,15-23); altre volte (Sap 6,22), la dottrina sull'origine della sapienza presenta come rivelazione di misteri, cioè, di segreti divini. Questa parola non è mai riservata agli iniziati, come nei culti greco-orientali; queste cose sono invece bandite ai quattro venti, affinché la sapienza si diffonda tra gli uomini. Nel libro di Daniele, si dà il nome di misteri ai sogni coi quali Dio vuole manifestare a Nabucodonosor i suoi occulti disegni circa il futuro. L'apocalittica giudaica si presenta come la rivelazione di misteri che si riferiscono all'origine del cielo e della terra, ma soprattutto al futuro di Israele e alla fine del mondo. Enoc legge su tabelle celesti il mistero, i beni celesti che Dio ha preparato per gli spiriti di coloro che muoiono nella giustizia (Enoc 103,2 ss). Così, il termine riceve un netto senso escatologico che in Daniele era ancora poco chiaro.

7. Nel NT: nei Sinottici, il Regno di Dio è chiamato mistero (Mc 4, 11 e par.): è un segreto divino, rivelato a un " piccolo gregge " di fedeli (Lc 12,32), mentre agli altri, è presentato in parabole, cioè, in immagini.

In san Paolo, mistero significa soprattutto un disegno divino che può essere conosciuto solo mediante la rivelazione. L'oggetto principale del mistero è l'economia divina di salvezza, che si è realizzata con la morte di Cristo in croce e con la sua risurrezione.

Certi elementi del cristianesimo hanno una qualche rassomiglianza formale con le religioni misteriche pagane (l'iniziazione, l'anàmnesi, il pasto sacro, la salvezza dei singoli). Tuttavia, il sottosuolo storico dei riti cristiani (battesimo, eucaristia) si trovai nell'AT e nell'ebraismo del tempo di Gesù, che non conosceva affatto questo tipo di iniziazione misterica.

Nei culti misterici (Eleusi, Attis, Cibele, Dionisio, Iside, Mitra), veniva commemorato (anàmnesi), rappresentato e realizzato il destino mitico del dio. Con la partecipazione ai riti, l'iniziato partecipava personalmente alla salvezza (illuminazione, vita) che questo dio gli offriva. Però, le differenze con la concezione cristiana del mistero sono profonde. Il termine, generalmente al plurale, significa nelle religioni greco-orientalili riti sacri rivelati solo agli iniziati. Non significa, come invece in san Paolo, il disegno di Dio conosciuto per rivelazione. Questo senso appare solo nella letteratura mistico-ermetica, che acquistò la sua redazione attuale non prima del secolo III per cui, come risulta chiaro è più tardiva da san Paolo. Però, l'apostolo conosceva le religioni misteriche da cui prese poche espressioni. Del resto, in nessun culto misterico si parla di una vera risurrezione di un dio morto. La morte della divinità non è mai presentata come un sacrificio volontario. La salvezza spirituale offerta agli iniziati non è una redenzione del peccato, e rare volte esige una trasformazione morale degli uomini.

Oggi, si ammette di avere esagerato nel trovare analogie tra le aspirazioni delle religioni misteriche ed il messaggio cristiano di salvezza. Ci si era basati sull'occasionale comparsa dell'idea di una " rinascita " e su altri termini simili.

La fenomenologia dell'atto religioso ha messo in risalto il concetto di mistero in quanto collegato con una dimensione originaria dell'uomo. Come tutte le dimensioni profonde della persona, non può essere percepita direttamente dal soggetto (Come sarebbe possibile vedere il Grande Veggente?, si chiedevano le Upanishads). Solo attraverso i sentimenti, gli atti o le idee che genera, abbiamo un accesso indiretto a questa dimensione. L'uomo, infatti, non si esaurisce nella conoscenza e nella manipolazione degli oggetti del mondo, e neanche nelle domande che esso pone. La prima piega di questa dimensione originaria si manifesta nel fatto che l'uomo si esperimenta e vive a se stesso come qualcuno che sta alla luce e alla presenza di un al di là di se stesso e del mondo, che può essere identificato come il mistero.

Il fatto di non distinguere tra gli atti, il vissuto e le idee a cui dà origine questa dimensione, le sue mediazioni, dimensione stessa e la sua origine, ha portato le psicologie riduttive del religioso a spiegare la religione e l'idea di Dio come il risultato dell'ignoranza dell'uomo in rapporto con le realtà che lo superano, come il risultato del suo timore di fronte all'ignoto, della sua angoscia di fronte alla morte. È certo che il timore dinanzi alla morte e al futuro imprevedibile intervengono nella costituzione dei simboli, dei miti e delle idee riguardanti la divinità. Però, il punto caratteristico della condizione umana non è questo timore di fronte alla morte, ma il modo di affrontarla come frontiera e il modo di vivere la morte ingiusta che la trasforma in problema e in scandalo. L'esperienza religiosa profonda, l'indizio del mistero, si manifesta come un'attività creativa, capace di configurare le varie culture, tanto nelle loro rappresentazioni non teiste, come in quelle teiste, in una molteplicità sbalorditiva, come viene attestato dalla storia delle religioni.

Bibl. - Allievi L., I misteri pagani e i sacramenti cristiani, in: Aa.Vv., Problemi ed orientamenti di teologia dogmatica, 2, Ed. Marzorati, Milano, 1957, pp. 751-774. Caviglia G., Le ragioni della speranza cristiana, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1981, pp. 113-132. Cerfaux L., Cristo nella teologia di san Paolo, Ed. AVE, Roma, 1969. Eliade M., Trattato di storia delle religioni, Torino, 1966. Otto R., Il sacro, Milano, . Penna R., " Mistero ", in: Nuovo Dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 984-993. Rahner H., Miti greci nell'interpretazione cristiana, Ed. Il Mulino, Bologna, 1971.

J. Martinez Cortés

Mistica. (inizio)

La parola mistica ha un certo rapporto con " mistero ", e forse per questo continua a richiamare l'attenzione e ad eccitare la curiosità. D'altra parte, la mistica ha una tradizione molto ricca ed esercita una attrattiva che oggi è molte volte discutibile, ma sempre interessante.

In un modo o nell'altro, la mistica è conosciuta anche per il suo riferimento all'ascetica, che descrive il cammino spirituale nella fase in cui apparentemente predomina l'azione dell'uomo sull'azione di Dio. Abbiamo detto: apparentemente, perché, per il cristiano, è fuori discussione il primato di Dio in qualsiasi tempo e luogo. Ciò nonostante, questa azione di Dio non è così forte né così evidente come principio delle decisioni vitali della persona. L'ascetica parla della azione della persona.

La mistica, invece, descrive quella fase del cammino spirituale in cui Dio si rende più palese all'uomo. Il primato di Dio sull'iniziativa dell'uomo raggiunge vette molto elevate, e l'uomo si sente molto più recettivo che attivo. Si parla perfino pacificamente di passività invece di parlare di recettività (ci sono notti attive e notti passive, nel linguaggio di san Giovanni della Croce). Il linguaggio della passività non sembra a molti adatto, a causa del quietismo a cui fa pensare (sebbene non esista nella vera mistica). Inoltre, questa azione nell'uomo riesce ad essere percepita con più o meno intensità. L'importanza che si dà a questa percezione dell'azione di Dio non è identica in tutti.

Santa Teresa d'Avila perla della natura dell'ascetica e della mistica attribuendo alla prima quelli che chiama " contenti spirituali " e alla seconda, i " gusti di Dio ". Conviene approfondire la descrizione di questa Santa, perché aiuta a chiarire alcuni concetti che sono stati alterati da discussioni scolastiche oggi poco attraenti. " Supponiamo, per meglio intenderci, di vedere due fontane i cui bacini si vanno riempiendo di acqua. Ignorante e di poco ingegno come sono, non trovo nulla di più adatto per meglio spiegare certe cose di spirito… Dunque, questi due bacini si riempiono d'acqua, ma in modo diverso. In uno, l'acqua viene da lontano per via di acquedotti e di artificio, mentre l'altro, essendo costruito nella stessa sorgente, si riempie senza rumore… senza bisogno di condutture o d'artificio " (Quarte Mansioni, c. II, 2 e 3). L'immagine è suggestiva e dà un'idea abbastanza chiara della differenza tra ascetica e mistica. Dalla differenza, possiamo intravvedere la loro natura.

Il fatto che sia molto difficile misurare lo spirito , oltre all'esperienza provata dai mistici nella loro persona  esternamente, diremmo: nei loro corpi  di certi fenomeni straordinari (locuzioni, visioni, estasi, stimmate, levitazioni…) ha portato in molte epoche della spiritualità ed in vari ambienti, non solo popolari, a considerare questi fenomeni come la manifestazione che chi li sperimentava stava percorrendo la tappa mistica nella propria vita.

D'altra parte, però, la storia meglio conosciuta, e gli studi moderni, attestano che certe forme di vita e certe situazioni producono fenomeni uguali o simili a quelli che si manifestano nella vita mistica. Digiuni, veglie, preghiere, posizioni, droghe… possono causare fenomeni non comuni.

Di fronte a queste costatazioni, è logico che gli studiosi, e i curiosi, s'interroghino sul rapporto tra mistica e fenomeni mistici.

Un certo rapporto tra esperienza religiosa mistica e ripercussioni organiche sembra abbastanza normale. In qualsiasi momento, può succedere qualcosa nella vita di una persona.

Bibl. - Bernard C., Teologia spirituale, Ed. Paoline, Roma, 1982. Gozzelino G., Al cospetto di Dio. Elementi di teologia della vita spirituale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 33-89. Moioli G., " Mistica cristiana ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 985-1001. Secondin B. (ed.), Problemi e prospettive di spiritualità, Ed. Queriniana, Brescia, 1983. Truhlar V., L'esperienza mistica. Saggio di teologia spirituale, Ed. Città Nuova, Roma, 1984.

A. Guerra

Mito. (inizio)

Bisogna cominciare col dire che la parola mito si applica in vari modi. Questa pluralità di significati, che rende tanto difficile una definizione valida per tutti, è dovuta in gran parte alla diffusione del termine denso di valori. Così, da un uso specializzato, si è passati ad un uso più ampio e più impreciso (per esempio: nella stampa o in dichiarazioni politiche). A quanto è favoloso, straordinario, incredibilmente prestigioso, può essere data l'etichetta di mito. Però, riveste anche la nota peggiorativa, nel senso di fittizio, cioè, non vero.

Perfino nella sua accezione più accademica e ristretta la definizione di mito è problematica. Può essere riassunta nella semantica della voce greca: la radice di mýthos significa: ricordarsi, considerare, riflettere. Nei primitivi testi greci, " mýthos " può significare il tenore esatto degli avvenimenti. Col tempo, questo vocabolo acquistò il significato di leggenda o narrazione popolare, in contrapposizione a lògos (Platone). Poi, significò opera poetica creatrice (Aristotele). Più tardi ancora, è stato usato nel senso di " mentire " (Luciano).

Attualmente, le definizioni sono forse tante quanti sono i punti di vista. Tra gli antropologi, sia funzionalisti (Malinowski, M. Eliade), che strutturalisti (Lévi-Strauss), si è pensato di trovare un'unica funzione significativa nei miti: o nel loro significato sociale (i miti spiegano l'ordine del mondo), o nel loro valore come strumento intellettuale per una mentalità arcaica. Questi tentativi sono stati fortemente chiarificatori, ma si continua a dire che non c'è un'unica definizione del mito: i miti differiscono enormemente nella loro morfologia e nella loro funzione sociale.

Ammesso questo, sembra tuttavia necessario giungere ad un nucleo semantico che permetta di distinguere quando si tratta di un tipo di mito e quando no. Per " mito ", si può intendere un racconto tradizionale che riferisce l'attività degna di memoria ed esemplare di alcuni personaggi straordinari, in un tempo prestigioso e lontano.

Qui, sembrano entrare tanto

1) la tesi secondo cui il mito non ha nulla a vedere con la religione. Questa tesi viene appoggiata dall'etimologia e dall'uso più antico del termine: i miti sarebbero racconti eziologici, che intendono spiegare avvenimenti ordinari nelle loro origini (c'è così un mito mesopotamico sul dolore dei molari); come anche

2) la tesi che sembra semplificatrice, secondo cui i miti sono sempre storie di dèi. Da ciò, si dedurrebbe che la mitologia è una parte della religione (De Vries); come anche

3) la tesi eclettica: ammettendo che molti ed importanti miti parlano di dèi, si riconosce che ci sono racconti mitici lontani dall'elemento religioso e più connessi col " racconto popolare ". Potrebbe entrare in questo nucleo semantico anche

4) l'interpretazione psicanalitica del mito, che lo mette in relazione con certe strutture archetipo dell'inconscio (Jung).

Tra le moltissimi classificazioni dei miti, può essere significativa quella che poggia sul rapporto del mito con la storia, o con la natura. Riguardo alla storia, occupano un posto predominante i miti delle origini primordiali: la creazione, il paradiso, e, con minore frequenza, anche una condizione primitiva allo stato selvaggio. Avvenimenti catastrofici, del tempo primordiale: diluvi. Però, il pensiero storico dei popoli raggiunge il suo punto culminante nell'introdurre nel pensiero mitico l'idea del futuro, in particolare, quella della fine dei tempi (miti escatologici).

Riguardo alla natura, i miti personificano fenomeni come il fulmine, la pioggia, il vento, l'aurora. Sono serviti come base ad una teoria naturalista del mito che cerca di spiegare l'origine della religione insistendo sull'impressione molto forte che la violenza degli elementi naturali dovette produrre sulla fantasia dell'uomo primitivo.

Per quello che si riferisce alla valutazione del mito, autori prestigiosi dell'antichità li hanno ritenuti dei racconti allegorici che, sotto un travestimento poetico, nascondevano una perenne sapienza. Questa opinione, molto nota nel Medioevo, trovò nel Rinascimento una accettazione straordinaria. Alla luce del neoplatonismo, gli umanisti scoprirono nei miti molto più di idee morali: una dottrina religiosa e perfino un insegnamento cristiano. L'interpretazione simbolica permise loro, infatti, di decifrare, sotto le finzioni più varie, e quelle apparentemente meno edificanti, la parentela fondamentale di questa sapienza profana con quella della Scrittura.

La teologia moderna delle grandi confessioni cristiane ha provato, in vari modi, di adottare un atteggiamento positivo di fronte al mito. La tematica ha raggiunto il grande pubblico con la controversia suscitata da Bultmann (1941) col suo programma di demitologizzare il messaggio del vangelo, cioè, di interpretare nel suo significato reale le formule " mitologiche " di cui è rivestito. Secondo Bultmann, il mito è una forma di pensiero che cerca di esprimere il divino con un linguaggio umano. Questa espressione umana rimane necessariamente legata al tempo e inquadrata nell'immagine mitica del mondo che si aveva all'epoca del NT. Oggi, però, è incomprensibile per l'uomo contemporaneo, di modo che egli sente la tentazione di respingere anche il messaggio assieme all'elemento mitico. Il programma di Bultmann presenta due versanti. Da una parte, egli vuole sottolineare gli aspetti inesatti delle immagini mitologiche, ritenute per vere. Dall'altra, egli vede anche che non è possibile respingere l'elemento mitologico del NT (che egli contrappone all'elemento storico in modo eccessivamente unilaterale), senza dover penetrare nella totalità del racconto per raggiungere il suo vero intento. La sua insistenza sull'aspetto concreto e soteriologico del cristianesimo mostra che egli ha colto l'aspetto funzionale di ogni mito: la sua attualità operante. Il mito riassume, in una breve narrazione, un intervento divino. Questo intervento rivive nuovamente nel mito. Risulta, dunque, che mito, rito o culto sono intimamente legati tra di loro.

All'interno di questa concezione, appartiene all'essenza propria del mito la convinzione che la narrazione mitica è, nel suo fondo, vera (pensiero simbolico) ossia, è il prodotto della riflessione genuina sulla realtà stessa delle cose e può " tradurre " l'intervento divino (linguaggio religioso). Questa verità del mito può essere un principio astratto (Dio è misericordioso); può essere un fatto concreto perfino un evento storico può costituire un mito (Van der Leeuw). Superato il positivismo, sotto vari aspetti, viene abbozzata oggi una riabilitazione del mito. La sua " assurdità " non è più denunciata come uno scandalo logico: è sentita come una sfida lanciata per comprendere l' "altro "  una rottura di livello epistemologico  ed incorporarlo al sapere antropologico.

Bibl. - Aa.Vv., Capire Bultmann, Ed. Borla, Torino, 1971. Bergson H., Le due fonti della morale e della religione, Ed. Comunità, Milano, . Betori G., " Mito ", in: Nuovo dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 993-1012. Bultmann R., Credere e comprendere, Ed. Queriniana, Brescia, 1977. Cassirer E., Linguaggio e mito, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1968. Dumezil G., Mito e epopea, Ed. Einaudi, Torino, 1982. Eliade M., Il mito dell'eterno ritorno, Ed. Rusconi, Milano, 1974.

J. Martínez Cortés

Modelli di pastorale. (inizio)

Modello o paradigma nell'azione pastorale è un progetto operativo o piano concreto di azione, che mette in relazione in modo dinamico con tutti i compiti che intervengono nel processo della prassi. Naturalmente, siccome il modello è un'impostazione euristica o indagatrice, esso presuppone una rappresentazione o una conoscenza con esigenze ermeneutiche. Però, il modello emerge dalla stessa prassi, quando si confrontano vari compiti e si mettono in rapporto tra di loro. Comunque, sebbene il progetto o modello venga dedotto, in un primo tempo, dalla realtà, esso viene modificato o ritoccato con una serie di conoscenze o interpretazioni, affinché a sua volta torni ad orientare la prassi. Il progetto è fondamentale nel rapporto dialettico che esiste tra la teoria e la prassi. Il termine paradigma significa: esempio, tipo o modello. Secondo T.S. Kuhn, il paradigma o modello operativo è " tutta una costellazione di convinzioni, valori, modi di comportamento, ecc., condivisi dai membri di una data comunità.

I differenti modelli dell'azione pastorale sorgono partendo da determinate interpretazioni bibliche, da concezioni teologiche, da posizioni politiche e da pedagogie di azione. Particolarmente stretto è il rapporto tra i modelli della Chiesa e quelli dell'azione pastorale, in quanto la pastorale è vista come edificazione della Chiesa nella società. I due fattori che influiscono sull'azione pastorale, cioè, la realtà sociale in cui agiscono i credenti, e la teologia come comprensione della fede, sono decisivi nel concepire i modelli pastorali.

A seconda dell'accento posto sul sacramento o sulla evangelizzazione, emergono i modelli di pastorale di cristianità o di pastorale missionaria. Secondo gli accordi che si identificano con lo Stato, o le opzioni per il popolo e per i poveri, si ha una pastorale di autorità o una pastorale popolare. In forza del rifiuto o dell'accettazione della lettera e dello spirito del Concilio Vaticano II, abbiamo una pastorale preconciliare conservatrice, di tipo restauratore, o una pastorale postconciliare progressista, di tipo riformatore.

In ultima analisi, alcuni modelli accentuano la gerarchia, il culto, la disciplina, il potere, l'ordine, ecc., mentre altri badano di più al popolo di Dio, alla parola evangelica, alla libertà, al servizio, alla giustizia, ecc. Con molte varianti, da un lato c'è la pastorale di cristianità o di neocristianità come pastorale di continuità, centrata nella parrocchia, con la prevalenza del fattore sacramentale e amministrativo, di carattere gerarchico ed autoritario, in sintonia con le classi borghesi e coi partiti politici conservatori, sensibile ad un popolo praticante, massificato, che ha in grande stima le pratiche religiose, la dottrina ortodossa, la morale tradizionale, la nostalgia per la sicurezza e per l'ordine. Dall'altro lato, c'è una pastorale rinnovata, con tante varianti, con gruppi comunitari e movimenti apostolici, sensibile ai problemi del popolo, in cerca di autenticità evangelica, con l'opzione per le classi umili, lontana dai discorsi morali della gerarchia, vicina alle lotte liberatrici, militante in movimenti sociali e vicina alle opzioni politiche progressiste.

Ci sono a stento piattaforme di comunicazione e di dialogo tra queste due pastorali. Però, le tensioni ed i conflitti del passato sono diminuiti col calo delle aggressività e delle condanne reciproche. C'è ora un miglior clima democratico e una buona dose interna di valorizzazioni essenziali e di autocritica.

Bibl. - Arnold F.X., Storia della teologia pastorale, Ed. Città Nuova, Roma, 1970. Cappellaro J. - Franchini E., Le due anime della pastorale itailiana, Ed. Dehoniane, Bologna, 1988. Franchini E., " Pastorale in Italia ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 741-750.

A. Floristán

Modernità. (inizio)

Chiamiamo modernizzazione il processo di cambiamento sociale per cui le cosiddette società tradizionali diventano società moderne. Queste ultime sono caratterizzate da una determinata struttura sociale, politica ed economica (una piccola percentuale della popolazione è impiegata nel settore primario; l'urbanizzazione; indici elevati di scolarizzazione; mobilità, sia geografica che sociale; tassi bassi di natalità e di mortalità; ecc.), ma anche da una cultura propria, che si suole chiamare modernità, i cui tratti principali sono: la secolarizzazione, la mentalità tecnico-scientifica, la fede nel progresso, la coscienza paritaria, la tolleranza e la mentalità capitalista-borghese. Fino a non molto tempo fa, si riteneva che il processo di modernizzazione seguito dai paesi sviluppati fosse universalmente valido e dovesse servire di modello a tutti gli altri. Di fatto, per qualsiasi società era come un marchio non godere il titolo di " moderna ". Oggi, invece, sono sempre più numerosi coloro che criticano una simile impostazione come etnocentrica, e, d'altra parte, comincia a manifestarsi un profondo malessere nei riguardi della modernità. Si tratta di un mondo così eccessivamente razionale e pragmatico che appare privo di ogni " mistero ", e risulta difficile raggruppare i distinti saperi e le dimensioni della vita in un tutto dotato di senso. L'uomo non si sente " in casa " né nella società, né nel cosmo, né in ultima istanza con se stesso. È quello che Berger ha chiamato la " mancanza di focolare " (homeless). Alcuni parlano già della fine della modernità (postmodernità).

Bibl. - Goudsblom J., Nichilismo e cultura, Ed. Il Mulino, Bologna, 1982. Ladrière J., I rischi della razionalità. La sfida della scienza e della tecnologia alle culture, Ed. SEI, Torino, 1978. Nanni C., " Modelli antropologici ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 588-603. Ricoeur P., Il conflitto delle interpretazioni, Ed. Jaca Book, Milano, 1977. Vattimo G., La fine della modernità, Ed. Garzanti, Milano, 1985.

L. González-Carvajal

Morte. (inizio)

L'uomo è un essere intaccato dalla finitudine e soggetto all'impotenza. Assomiglia più a Sisifo condannato a spingere sul monte un grande macigno che non a Prometeo autosufficiente che sfida gli dèi. Prometeo è presentato da Marx come il primo santo del calendario laico. Ogni pretesa prometeica si scontra frontalmente con la morte, che è una delle più caparbie ed inevitabili manifestazioni della finitudine e dell'impotenza dell'uomo. Perire è ciò che meglio definisce la finitudine, ricordava il professore Tierno Galvan, secondo la sua ottica agnostica.

Il fenomeno della morte è stato oggetto di riflessione costante nella storia della filosofia e della teologia. È presente anche, direttamente o indirettamente, in quasi tutte le correnti di pensiero del nostro secolo. Se il marxismo classico cerca di raggirarlo e di prestargli una scarsa attenzione, filosoficamente parlando, il marxista umanista e critico di questi ultimi decenni lo ha preso sul serio e lo ha affrontato in tutta la sua crudezza e con una grande onestà intellettuale. Basta consultare, tra le altre, le opere di Garaudy e di Bloch, per costatare l'insoddisfazione che mostrano di fronte alla visione ristretta e soffocata del marxismo ortodosso riguardo alla morte.

Oggi, il problema della morte non si pone solo nell'ambito dell'escatologia, ma anche, e preferibilmente, in quello dell'antropologia. Il problema non viene affrontato unicamente nel suo rapporto con l'al di là, ma, soprattutto, in relazione molto stretta col problema del senso della vita e della storia, con gli imperativi etici scritti nella persona e con l'interrogativo sul futuro dell'uomo, dell'umanità e del cosmo.

La prima cosa che appare nella riflessione sulla morte è che si tratta di un fenomeno universale, che non ammette eccezioni. Non esiste un luogo dove l'uomo possa rifugiarsi per sfuggire alla morte. Et in Arcadia ego, ci ricorda Bloch: la danza della morte raggiunge anche il più bello dei luoghi di questa terra. Nemmeno l'eliminazione totale della povertà, né la comparsa di una società giusta e fraterna, senza dominatori né dominati, riusciranno mai ad eliminare l'ansia per la morte, che si fa sentire con una durezza singolare. Heidegger ha definito l'essere umano un " essere per la morte ". La morte è proprio la più grande certezza della nostra esistenza.

La seconda cosa che si nota è il carattere tragico e terribile della morte: essa appare come la più fredda anti-utopìa, dice Bloch; distrugge ogni felicità e dissolve ogni comunità, secondo Le mille e una notte. È la maggiore di tutte le disgrazie umane, poiché " con essa, si toglie all'uomo ciò che è più degno di essere amato: la vita e l'essere ", diceva san Tommaso d'Aquino.

La morte si presenta a noi, nello stesso tempo, come il più grande enigma della condizione umana ed il più difficile da decifrare. Per quanto si cerchi di approfondire il mistero della morte, non cesserà mai di essere un mistero. Assieme all'enigma, si trova anche la protesta contro il suo apparente non-senso. Nel più profondo dell'essere umano, esiste un'aspirazione irrefrenabile per la pienezza ed il compimento, una dimensione prospettica tesa verso il regno della libertà e verso la patria dell'identità. E questo si spezza con la morte.

Molte sono state le risposte che i pensatori hanno tentato di dare al problema della morte. Molti sono stati gli atteggiamenti adottati dall'umanità di fronte a questo evento così enigmatico, incomprensibile e tragico. Secondo Epicuro e i suoi discepoli, la morte non ha nulla a vedere con l'uomo; non potrà mai esserci fra loro un incontro faccia a faccia. Dove c'è l'uomo, non c'è la morte, e dove c'è la morte, non c'è l'uomo. La tesi epicurea è stata ripresa, con certe sfumature, da Bloch. Secondo lui, la morte appartiene al processo, ma non ai soggetti che rendono possibile il processo. Il nucleo dell'esistenza rimane fuori dal terreno della morte, e perciò non viene intaccato da essa. Il filosofo marxista di Tubinga afferma la sua speranza di non perire interamente. È noto il suo aforisma: " Non omnis confundar ".

Per il dualismo antropologico greco, la morte è il momento della liberazione piena dell'uomo, poiché l'anima ritorna al suo stato originale, che è l'esistenza pura, libera dal corpo. Molto diffusa nelle culture orientali, ed oggi in aumento, è la teoria della reincarnazione o trasmigrazione delle anime, che consiste nella reincarnazione dell'anima nel corpo di un animale o di un altro uomo dopo la morte, fino alla sua purificazione totale.

Arriviamo infine alla visione cristiana della morte. Anche se essa ha dei punti di contatto con altre concezioni filosofiche e religiose, contiene aspetti particolari. Secondo la visuale dell'antropologia biblica e cristiana, la morte è un evento che colpisce tutto l'uomo, il quale è una unità in tensione. Rahner parla con molta precisione filosofico-teologica delle due facce o della " dialettica reale-ontologica " della morte: da un lato, la morte è rottura dall'esterno, ed è lo spossessamento totale dell'uomo. Da un'altra parte, è la consumazione attiva dall'interno, generazione crescente, presa di possesso totale della persona. È proprio nella morte che l'esistenza umana raggiunge la sua perfezione, la sua consumazione, la sua pienezza. Il teologo Boros, proseguendo in questa impostazione, presenta la morte come il momento della decisione finale della vita umana, della decisione fondamentale della vita dell'uomo. Questa teoria, che esercitò un'influenza molto forte nel panorama teologico degli anni '60, è oggi in gran parte abbandonata, perché manca di basi bibliche e non poggia sull'esperienza.

La dialettica di cui parla Rahner appare nella morte di Gesù. Da una parte, Gesù sperimenta la morte come un avvenimento tragico e orribile, a cui vorrebbe sottrarsi. Dall'altra, la sua morte è un atto consapevole di donazione, un atto libero di fede e di amore, di speranza nel compimento del Regno di Dio, una conseguenza dell'impegno liberatore che Gesù assunse in tutta la sua vita. La morte di Gesù sfocia nella risurrezione, nel trionfo della vita. Cosi, egli ricupera l'esistenza piena per sé e per l'umanità. Il cristiano va incontro alla morte con timore e tremore, ma nello stesso tempo, l'accoglie con la speranza gioiosa della risurrezione: infatti, dalla sua fede in Cristo risorto, il cristiano ha la fiducia che l'ultima parola spetterà alla vita. La memoria della passione, della morte e della risurrezione di Gesù, lungi dal portare alla rassegnazione, porta direttamente a lavorare per il Regno di Dio nella storia.

Bibl. - Boros L., Mysterium mortis. L'uomo nella decisione finale, Ed. Queriniana, Brescia, 1969. Gozzelino G., Nell'attesa della beata speranza. Saggio di escatologia cristiana, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1993. Küng H., Vita eterna?, Ed. Mondadori, Milano, 1983. Pozo C., Teologia dell'al di là, Ed. Paoline, Roma, . Rahner K., Su una teologia della morte, in: Rahner K., Nuovi Saggi, V, Ed. Paoline, Roma, 1975, pp. 241-265. Rudoni A., Escatologia, Ed. Marietti, Torino, 1972. Ruiz de la Peña J.L., L'altra dimensione. Escatologia cristiana, Ed. Borla, Roma, 1981.

J.J. Tamayo

Motivazione. (inizio)

Si intende per motivazione quel complesso di determinazioni o fattori interni che stimolano il soggetto all'azione e lo dirigono verso un fine specifico.

Per spiegare le varianti che intervengono nella motivazione, data la sua indole interna, le definizioni vengono fatte in termini di varianti intermedie di tipo ipotetico con una presupposta correlazione fisiologica o mentale. Si agisce anche con varianti stimolanti e di risposta.

Le varianti motivazionali sono raggruppate in tre categorie:

 varianti energetiche, la cui funzione consiste nell'attivare il comportamento. Per esempio: la deprivazione, le pulsioni, le tensioni, le domande, l'attivazione, le necessità;

 varianti direzionali, che regolano ed orientano l'attività. Per esempio: le aspettative, l'ego, il superego, le caratteristiche strumentali, le credenze, i valori, i pensieri, le attitudini;

 varianti miste o vettoriali, che comprendono contemporaneamente i due gruppi precedenti ed esercitano un duplice effetto sul comportamento: intensità e direzione. Per esempio: la curiosità, i motivi, gli atteggiamenti, i sentimenti, i rinforzi, gli stimoli opposti, la potenza di reazione, ecc.

Nello studio della motivazione, c'è stata la tendenza a classificare i motivi in: fondamentali e derivati, primari e secondari, biologici e sociali, ecc. I criteri per collocare un motivo nella categoria biologica si appellano in primo luogo alla loro natura fisiologica. Un secondo criterio è l'universalità di certe norme di comportamento comuni ad ogni tipo di società umana, in quanto possiedono di solito un carattere di sopravvivenza. Le principali necessità primarie sono: la fame, la sete, il sesso, la stanchezza, il sonno, l'allattamento, motivi termici, il timore, la curiosità, ecc.

I motivi secondari o sociali, che, dal punto di vista funzionale, sono superiori a quelli primari, emergono, secondo Maslow, quando sono soddisfatti quelli inferiori, in quanto dipende da essi l'esercizio della vita civile. Tra i motivi citati da vari autori, ci sono: la necessità di sicurezza, di affetto, di appartenenza ad un gruppo, la necessità di informazione e di sapere, di comprensione, di realizzazione, di stima di sé, ecc. La psicologia attuale propone la cosiddetta " motivazione di riuscita " come il motivo principale per raggiungere alti livelli di realizzazione.

Bibl. - Cattonaro E., " Motivazione ", in: Enciclopedia Filosofica, IV, Ed. Sansoni, Forenze, , coll. 829. Maslow A.H., Motivazione e personalità, Ed. Armando, Roma, 1973. Nuttin J., " Motivazione ", in: Dizionario di psicologia, Ed. Paoline, 1975, pp. 726-730. Strologo E., La motivazione: prospettiva teorica, in: Ancona L., Nuove questioni di psicologia, I, Ed. La Scuola, Brescia, 1972, pp. 187-233.

M. N. Lamarca

Movimenti apostolici. (inizio)

Verso la fine degli anni '30, la gerarchia cattolica si rese conto dell'isolamento della Chiesa nel mondo politico, sociale e culturale contemporaneo e costatò che le pie associazioni erano insufficienti. Di fronte ad una militanza laica e perfino laicista, sorse una militanza cattolica. Per questi motivi, nacque l'Azione Cattolica. Di fronte alla scarsità di sacerdoti o per la loro eccessiva segregazione, la Chiesa sentì il bisogno di associazioni di laici che difendessero gli interessi della Chiesa e l'aiutassero nella sua missione.

I militanti laici apparvero, con una teologia ed una spiritualità proprie, nello sviluppo missionario dei movimenti apostolici che sorsero nella Chiesa al termine della seconda guerra mondiale. Il fondamento teologico fu fornito da Y. Congar nel 1953 (Per una teologia del laicato) e da G. Philips nel 1954 (Missione dei laici). Queste due opere ispirarono il capitolo IV della Lumen Gentium e il decreto sull'Apostolato dei laici. Il laico dei movimenti apostolici è il credente che liberamente e consapevolmente assume le virtualità sacramentali dell'iniziazione cristiana (relazione con Cristo), la partecipazione al ministero cristiano (relazione con la Chiesa) e vive impegnato nella società in varie situazioni laicali, dando testimonianza nella società (relazione con il mondo). Solo quando si dà importanza al laicato, sorge la possibilità del militante dei movimenti apostolici come dirigente che si dedica al lavoro apostolico, svincolato alle volte da qualsiasi altro lavoro professionale.

La missione dei movimenti apostolici acquista un nuovo rilievo quando si percepisce l'importanza dell'evangelizzazione, la creazione di comunità e l'impegno per la liberazione. Due tratti fondamentali caratterizzano i militanti dei movimenti apostolici: la loro fede personale ed il loro impegno politico. La fede del militante non si riduce ad una semplice risposta personale a Dio, ma è una dedizione alle esigenze del Regno di Dio. L'impegno del militante per le realtà temporali, nel mondo socio-politico, e in fin dei conti, politico, è qualcosa di più di un lavoro, di un compito o di una faccenda. È l'accettazione deliberata, è un impegno cosciente, è l'esigenza etica di lavorare per gli altri e per la società affinché venga qui e ora il Regno di Dio.

Il Concilio Vaticano II sancì uno stile di militanza già esistente, nel riconoscere il compito dei laici nella Chiesa, il suo carattere secolare nel mondo, la sua autonomia nelle organizzazioni apostoliche. Ha riconosciuto i laici responsabili del Popolo di Dio, con i vescovi, i presbiteri e i religiosi.

Però, poco tempo dopo la celebrazione del Concilio, ci fu la crisi della militanza classica cristiana, derivata dalla crisi dell'Azione Cattolica. Alla luce dei nuovi orientamenti ecclesiologici del Concilio, i movimenti apostolici non ammettevano più una sottomissione totale, senza nessuna autonomia, alla gerarchia ecclesiastica, soprattutto quando questa si mostrava reticente all'impegno politico dei laici, sensibili ai movimenti sociali di liberazione.

I movimenti apostolici sono oggi molto differenti da quelli di vent'anni fa. In primo luogo, c'è stato il passaggio di molti militanti dal campo religioso a quello politico. Nelle prime fasi della militanza, la fede fu per molti la causa o il movente dell'impegno, per il fatto di avere scoperto il messaggio sociale del vangelo, la radicalità di Gesù di Nazaret, il rapporto del Regno di Dio con la società, la situazione ingiusta dovuta alla trasgressione dei diritti umani, l'opzione preferenziale per i poveri.

Il calo dei movimenti apostolici comportò una diminuzione di militanti cristiani. Apparve un nuovo tipo di laico attivo nelle comunità di base. Questi laici, assieme a sacerdoti pienamente solidali col popolo e con religiose impegnate evangelicamente nei rioni poveri, diedero origine ad un altro tipo di militanza cristiana, meno organizzata, maggiormente indipendente dalla gerarchia, più vicina al popolo e in sintonia coi movimenti di liberazione.

Bibl. - Angelini G. - Ambrosio G., Laico e cristiano, Ed. Marietti, Genova, 1987. Cargnel A., Comunità ecclesiali di base e rinnovamento conciliare, Ed. dehoniane, Bologna, 1986. Lazzati G., Pensare politicamente, 2 voll., Ed. AVE, Roma, 1988. Longhitano A. (ed.), Il fedele cristiano. La condizione giuridica dei battezzati, Ed. dehoniane, Bologna, 1989. Secondin B., Segni di profezia nella Chiesa, OR, Milano, 1987.

C. Floristán

Movimenti Modierni di spiritualità. (inizio)

Riunirsi in un gruppo è una tendenza particolare dei nostri giorni. Non è una scoperta di oggi, ma è innegabile che oggi è molto forte. Sono stati valorizzati anche i gruppi o movimenti di spiritualità: essi comprendono un certo numero di persone che hanno una stessa visione del vangelo o che pensano di essere chiamati a rendere attuali alcune sue pagine in particolare. Intendono in questo modo vivere ed offrire un modello concreto di vita evangelica.

Chi osserva i vari movimenti spirituali, soprattutto quelli dotati di un senso evangelico molto forte, ed è a questi che ci riferiamo, noterà subito che un elenco di questi vari movimenti è praticamente impossibile. I movimenti spirituali sono ancora più numerosi dei partiti politici. Sembra che siano molti quelli che si sentono la vocazione di fare da leaders.

D'altra parte, chi osserva può anche vedere che le tendenze in cui possono inquadrarsi i migliori di questi movimenti sono poche. Con notevoli differenze, ma nello stesso tempo con molte somiglianze di cui alcune non percepibili a prima vista, i vari movimenti spirituali possono essere divisi in nuovi militanti e neotomisti (H. Cox). Con tutte le imperfezioni che può contenere questa divisione, non ne ho trovato un'altra che meglio rispecchi, in generale, le varie tendenze. D'altra parte, questa divisione ha il valore incontrastato di essere una attualizzazione innovatrice (qualunque sia il grado di novità che le venga attribuito) di tendenze che percorrono periodicamente la storia religiosa e la storia dell'umanità.

Facciamo una breve ed elementare tipologia di ognuno di questi macromovimenti o tendente in cui sono radicati molti, la maggior parte, dei movimenti odierni di spiritualità.

Cerchiamo di individuare gli elementi più importanti dei nuovi militanti:

I nomi principali con cui i nuovi militanti possono essere identificati e certamente messi in relazione, sono: homo faber, cristiani impegnati, profetici, militanti, gruppi di liberazione, formazioni di sinistra, comunità di base, comunità popolari, cristiani per il socialismo...

Pur non essendo collocati in un luogo determinato escludendo tutti gli altri, sta comunque il fatto che vivono soprattutto in paesi del Terzo Mondo, in via di sviluppo, e dove predomina una visione del vangelo (almeno un impegno dai forti toni sociali e mediazioni socio-politiche).

Cronologicamente, questi movimenti cominciarono a diventare forti nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II e mossi dalla sua spinta rinnovatrice, soprattutto con la Costituzione Gaudium et Spes. Abbiamo cominciato coi nuovi militanti, perché sono certamente anteriori ai neotomisti.

La descrizione che ha dato di loro la Conferenza mondiale delle Chiese riunite a Nairobi (1975) è stata la seguente: sono " cristiani preoccupati primariamente dall'impegno, dall'azione, dai cambiamenti sociali e strutturali ". Queste espressioni suggeriscono uno stampo valido per molti movimenti.

Qualsiasi tendenza che si regge su questi punti ha le basi importanti per giustificare e dirigere tutta una vita. I princìpi dei nuovi militanti possono essere riassunti in questo modo: superare la coscienza naturalista o fatalismo, farla finita col " cristianesimo enunciativo ", superare la neutralità del cristianesimo (perché la neutralità è la canonizzazione di una forza esistente, quella dominante), superare la sacralizzazione della trascendenza e dei suoi mezzi, denunciare il presente in nome del futuro, antropocentrismo versus teocentrismo, amore provocatorio, audacia nelle cose urgenti, incarnazione (parziale?) di Gesù nella storia.

Partendo dalla nota affermazione di Bergson secondo cui la meccanica ha bisogno di una mistica (che la mistica abbia bisogno di una meccanica, è anche questo di Bergson, ma è meno ricordato), vari movimenti pensarono che l'uomo stesse diventando un robot e perdendo le dimensioni di profondità. Si ritenne perciò di dover destare in lui le dimensioni che correvano pericolo. Nacquero così i neotomisti.

I neotomisti sono conosciuti anche come cristiani festivi, contemplativi, evangelici, orientali, conservatori, ecc. Movimenti concreti come carismatici, neocatecumenali, focolarini, Comunione e Liberazione, Opus Dei, orientalismo, ecc. appartengono a questa tendenza. E' forse ingiusto metterli tutti nello stesso sacco. Però, è un fatto che essi sembrano accentuare questi aspetti.

Questi movimenti sono sorti principalmente in paesi del " primo mondo ", e di lì si sono estesi a settori in altri paesi con grandi somiglianze. Quantunque molti di essi siano anteriori al Concilio Vaticano II e agli anni '70 sorse un forte movimento di reazione già verso gli anni '60, o con movimenti nuovi, o assumendo tonalità caratteristiche di quegli anni in movimenti che prima non conoscevano certe caratteristiche. Furono anche accentuati certi aspetti da parte di coloro che fin da principio li avevano ritenuti necessari.

Prendiamo qui la descrizione che ne fa la citata Conferenza mondiale di Nairobi, cercando così di oggettivare i dati: sono cristiani " preoccupati primariamente della salvezza personale, del cambio del cuore e del rapporto diretto con Dio ". Sia qui, come anche nel parlare dei nuovi militanti, si deve prestare un'attenzione particolare all'avverbio " primariamente ", per evitare estremismi ingiusti quando si tratta di darne una descrizione essenziale.

Anche i neotomisti hanno le loro basi teologiche che suscitano ed animano vigorosamente questa tendenza cristiana ed umana. Ricordiamo le seguenti: superare la tragedia (perché non si sopporta né umanamente né cristianamente), superare le ideologie affermando la vita, superare la spersonalizzazione di coloro che cercano prima di tutto i risultati, superare l'antropocentrismo, accentuare la gratuità, celebrare l'amore più che provocare per amore, purificare il cuore (sede di tutti i mali, anche sociali), dare spazio all'utopia, accompagnare il Gesù contemplativo.

È difficile trovare un terzo macro-gruppo discordante, che assuma tutto quello che appare importante nelle due macro-tendenze. Di solito, i movimenti hanno una dinamica che dirige e guida una vita ed alcune strategie. Forse nessuno è in grado di vivere tutta la bontà che esiste come potenzialità in ogni uomo. Può darsi che la limitazione radicale dell'uomo lo spinga a vedere cose buone in tutti e gli faccia credere di viverle, perché ideologicamente non può opporsi ad esse. Però, ciò non prova che nella vita, che è un giusto giudice, le cose stiano così.

Noi siamo portati a pensare che non esista una terza forza sufficientemente configurata e configurante. Però, pensiamo anche che le differenze nell'una e nell'altra delle due grandi tendenze siano notevoli.

Bibl. - Cox H., La festa dei folli, Ed. Bompiani, Milano, 1971. Favale A., Movimenti ecclesiali contemporanei, LAS, Roma, 1980. Godin A., Psicologia delle esperienze religiose. Il desiderio e la realtà, Ed. Queriniana, Brescia, 1983. Secondin B., Movimenti comunitari, in: Goffi T. Secondin B. (ed.), Problemi e prospettive di spiritualità, Ed; Queriniana, Brescia, 1983, pp. 389-408. Vitali M. (ed.), I movimenti nella Chiesa degli anni '80, Ed. Jaca Book, Milano, 1981.

A. Guerra

Movimenti sociali. (inizio)

L'idea matrice dei movimenti sociali fu quella del movimento operaio, intendendo con ciò le organizzazioni, durature o passeggere, che i lavoratori, con la loro coscienza di classe, andavano istituendo per difendere i loro interessi. L'ideologia che ha influito di più sul movimento operaio è stata il marxismo. L'anarchismo acquistò una grande importanza nell'Europa Latina. I movimenti di ispirazione cristiana riuscirono solo ad avere una forza notevole in Francia e nei paesi del Benelux. Giovanni XXIII e poi Paolo VI hanno fatto notare che non si può identificare un movimento con l'ideologia che gli ha dato origine, poiché, nell'evoluzione successiva, possono essere stati abbandonati gli aspetti negativi che l'ideologia poteva avere (cf Pacem in terris, 159; Ocotogesima adveniens, 30).

Il movimento operaio consta di due forme organizzative: partiti e sindacati, come anche associazioni internazionali di questi partiti e sindacati. La I Internazionale, costituita a Londra nel Settembre del 1864, fu costantemente divisa per lo scontro tra la corrente marxista e quella anarchica. Fu sciolta nel 1876. Nel 1889, fu fondata a Parigi la II Internazionale, di tendenza riformista, che venne riorganizzata nel 1923, dopo la crisi della Prima Guerra Mondiale, col nome di " Internazionale Socialista ed Operaia ". Nel 1919, fu fondata a Mosca la III Internazionale, o Internazionale Comunista, che riunì i partiti comunisti dei vari paesi sotto il primato di quello sovietico. Fu sciolta nel 1943. Anni prima, nel 1931, Trotsky aveva fondato a Parigi la IV Internazionale che da allora è scomparsa e riapparsa più volte, come un Guadiana politico, per mano di vari gruppi rivoluzionari estremisti.

Bibl. - Campanini G., Il cristiano fedele alla terra, Ed. dehoniane, Bologna, 1984. Girardi G. (a cura di), Coscienza operaia oggi, Ed. De Donato, Bari, 1980. Novak M., Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, Ed. Studium, Roma, 1987.

C. Floristán

Musica. (inizio)

Sia la musica vocale (cf Canto) che quella strumentale, sono state usate sempre nelle celebrazioni liturgiche dei cristiani, sebbene in alcune epoche certi strumenti (all'inizio, perfino l'organo) fossero ritenuti meno degni. La musica liturgica possiede una lunga storia durante la quale si è formato " un patrimonio di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell'arte " (SC 112). Il Concilio Vaticano II è stato il primo concilio generale che abbia affrontato il tema della musica liturgica o sacra, tenendo presenti gli orientamenti dati lungo il secolo XX dalla Sede Apostolica, dal motu proprio Tra le sollecitudini di Pio X (22 Novembre 1903) fino all'enciclica Musicae sacrae di Pio XII (25 Dicembre 1955) e l'istruzione De musica sacra (3 Settembre 1958). Dopo il Concilio, fu emanata l'istruzione Musicam sacram (15 Marzo 1967).

In tutti questi documenti, è ripetuta l'idea fondamentale del " carattere ministeriale " della musica sacra. Ciò significa che la musica deve essere sempre al servizio dell'azione liturgica, e non viceversa. Viene ricordato che l'indole " sacra " non proviene alla musica dal fatto di avere un determinato stile, ma dal suo legame con la celebrazione liturgica di una determinata comunità. Non c'è uno stile musicale concreto che possa essere ritenuto più sacro di altri, ma " la Chiesa approva e ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotata delle qualità necessarie " (SC 112).

Ciò nonostante, " la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale " (SC 116). Tuttavia, ciò non vuol dire che siano esclusi gli altri tipi di musica e in particolare la polifonia (cf SC 116), né ancor meno che non si debba creare una musica sacra veramente adattata all'epoca attuale e alle sue varie culture e mentalità. In un modo analogo, da una parte, il Concilio raccomanda: " Nella Chiesa latina, si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti " (SC 120). Però, aggiunge subito dopo: " Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli artt. 22 § 2, 37 e 40, purché siano adatti all'uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l'edificazione dei fedeli " (SC 120).

Bibl. - Costa E. jr. " Canto e musica ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 198-219. Della Casa M., La comunicazione musicale e l'educazione, Ed. La Scuola, Brescia, 1974. Frattallone R., Musica e liturgia. Analisi dell'espressione musicale nella celebrazione liturgica, Ed. liturgiche, Roma, 1984.

J. Llopis

Natale. (inizio)

L'anno liturgico, che cominciò a strutturarsi a partire dal secolo IV, iniziava a Roma con la vigilia di Natale. Natale era allora una memoria, più che un mistero: si ricordava la nascita, il Natale di Cristo. Presso i Romani, esisteva già il 25 Dicembre come giorno della nascita del sole, o dio solare, mentre la notte precedente era ritenuta la notte più lunga dell'anno. Il Natale venne fissato quel giorno perché Cristo, secondo la riflessione di alcuni Santi Padri sulla Bibbia, è veramente il " sole di giustizia " (Ml 4,2) e la " luce del mondo " (Gv 8,12; 9,5). Ricordiamo che Costantino aveva decretato che fosse festivo il primo giorno delle settimana, ossia la domenica, giorno del sole e del Signore. Era logico che pochi anni dopo coincidessero anche in un medesimo giorno la nascita del sole e quella di Cristo. Un secolo dopo, questa festa si estese da Roma in tutte le parti. In Oriente, era conosciuta la festa dell'Epifania. Nelle loro origini, Natale e l'Epifania cristianizzarono il culto al dio sole, diffuso dall'Impero romano nel secolo III.

Fin dai suoi inizi, il Natale commemora la nascita storica di Gesù. Questo si manifesta in modo popolare nella tradizione dei presepi o mangiatoie. Così pure, il Natale celebra il mistero di Dio fatto uomo col termine di incarnazione. Dio assume la condizione umana, e, mettendosi in questa situazione di peccato e di " passione ", il Verbo acquista l'esperienza umana della " com-passione " o solidarietà. L'incarnazione è, a sua volta, un " abbassamento " (kènosis), che termina nella morte, inizio del suo ritorno glorioso al Padre. Questo viene rappresentato nel teatro religioso popolare del Natale. Queste rappresentazioni sono chiamate pastorali, a motivo dei pastori che sono chiamati alla grotta di Betlemme. Infine, di fronte alla grandezza del mistero di Dio incarnato, l'atteggiamento della Chiesa è quello di ammirare, lodare, ringraziare e contemplare; Il Natale è occasione di giubilo e di gioia. Nello stile musicale, ciò è messo in evidenza coi canti natalizi.

Il 25 Dicembre è la festa più importante del ciclo natalizio. Ha quattro eucaristie differenti (la vigilia e le tre Messe di Natale), oltre alle ore dell'ufficio divino. L'usanza romana secondo cui il Papa celebrava tre Messe a Natale, stabilita nel secolo VI, si diffuse molto più tardi (verso il secolo XVI) a tutta la cristianità. Va ricordato che il Natale è una festa con data fissa (mentre Pasqua varia di anno in anno). Nell'emisfero Nord, è inverno. Natale è ad un tempo festa liturgica, civile, popolare e commerciale.

A Natale, si riuniscono in famiglia i membri che durante l'anno sono dispersi. Sono giorni di incontro, caratterizzati dall'abbondanza e dalla qualità dei cibi, dai regali, dagli auguri espressi in bigliettini e cartoline dai vari disegni. L'accumularsi di feste, poiché otto giorni dopo si celebra la fine dell'anno (col veglione), la coincidenza con le vacanze scolastiche, trasforma i giorno natalizi in giorni festivi molto intensi. L! massime autorità civili (re e capi di governo) e religiose (il Papa) approfittano di questo periodo natalizio e di fine d'anno per inviare messaggi speciali ai loro sudditi o fedeli.

Due ideologie religiose principali si incrociano a Natale. In primo luogo, quella popolare, centrato sul Bambino Dio del presepe, intimo, sensibile e mite, al quale si rivolgono i canti natalizi. Per il popolo cristiano, il Natale è contrapposto al Venerdì Santo: è tempo di nascita, di vita nuova, di allegria, di regali e di sperpero. La seconda ideologia è quella presentata dai vangeli dell'infanzia e dalla stessa liturgia, di tipo più ascetico, che sottolinea le radici impegnative di Betlemme, cioè; la giustizia, la fraternità, la libertà e la pace.

Bibl. - Barth K., L'Avvento - Il Natale, Ed. Morcelliana, Brescia, 1992. Bergamini A., " NataleEpifania ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 919-922. Jean-Nesmy C., La spiritualità di Natale, Ed. Morcelliana, Brescia, 1964. Lemarié J., La manifestazione del Signore, Ed. Paoline, 1969. Nocent A., Celebrare Gesù Cristo. L'anno liturgico, 2, Natale-Epifania, Ed. Cittadella Assisi, 1976.

C. Floristán

Nazionalcattolicesimo. (inizio)

Quantunque possa essere usato in senso generico (cioè, applicato a qualsiasi nazione), il termine nazionalcattolicesimo è stato forgiato per designare un fenomeno teologico-politico specificamente spagnolo. La sua localizzazione nel tempo va posta tra gli inizi della guerra civile spagnola (1936-1939) e la transizione politica verso la democrazia (1975).

Si potrebbe definire come una specie di teologia politica, quantunque per molti suoi sostenitori si possa dire che è stata praticata inconsciamente come teologia politica (era concepita semplicemente come la teologia).

La teologia del nazionalcattolicesimo è dunque la teologia politica che ha dominato dopo la guerra civile, che

a) spiega e legittima il comportamento della Chiesa cattolica spagnola subito prima e durante la guerra civile;

b) esprime ed interpreta " religiosamente " il risultato della stessa guerra;

c) è uno dei fattori determinanti dello sviluppo ulteriore della società spagnola, in quanto pensiero " autorevole " di uno dei poteri di fatto che configurano la vita pubblica (la gerarchia ecclesiastica). Questa teologia del nazionalcattolicesimo formula già le sue tesi più sostanziali nel 1939; ispira radicalmente il concordato del 1953 tra la Santa Sede ed il governo spagnolo; è il sostrato intellettuale su cui poggia un ampio settore della Chiesa spagnola fino agli anni '70.

Come tratti caratteristici, si possono indicare questi:

1) L'affermazione di una " mediazione nazionalcattolica " della fede. Ciò significava che cattolicesimo e patria erano consostanziali, almeno in Spagna.

2) Il carattere ecclesiocratico nel rapporto della società civile con la Chiesa. Ciò voleva dire che, pur conservando la teoria delle due società perfette, Chiesa e società civile, in pratica si chiedeva una vera subordinazione, almeno culturale, dello stato alla Chiesa cattolica.

3) L'esplicita e militante antimodernità di questa teologia. I1 termine " cattolico " era inteso prevalentemente nel senso della Controriforma. Era, pertanto, profondamente diffidente dell'Europa. Agli occhi suoi, una logica storica ristretta abbracciava tutto il processo che conduce da Lutero e Calvino, passando per Rousseau, fino a Marx e alla rivoluzione russa. Tutti i germogli della modernità erano anticattolici, e conseguentemente, erano di fatto antispagnoli. Coloro che, nella società spagnola, intendevano ammodernarla, non rappresentavano l'idea di un'" altra " Spagna: erano, in realtà, l'anti-Spagna. Veniva così concepito, per la vita religiosa, un manicheismo politico evidentemente poco propenso a qualsiasi tipo di evoluzione.

4) I1 suo carattere di " teologia di riconquista " (così formulato dal cardinale Gomà). Con ciò, si voleva significare un tentativo di risposta, ispanicamente originale, al processo moderno di secolarizzazione delle società. La sua sostanza era questa: è legittimo, perfino con una grave operazione di chirurgia di guerra, ricostruire (riconquistare) in un mondo moderno " apostata dei fondamenti tradizionali e cristiani ", un'atmosfera sociale in cui la fede risulti plausibile.

Evidentemente, un progetto del genere comportava un isolamento della Spagna dal resto dell'Europa. La sua posta in gioco si vide inizialmente favorita dall'ostracismo politico ed economico in cui la Spagna era stata ridotta dalle potenze democratiche, vittoriose della II Guerra Mondiale (1945). Però, culturalmente non era possibile quando le proprie esigenze economiche e politiche portarono alla rottura di questo isolamento (1953). Il progetto nazionalcattolico si rivelò allora un anacronismo, nella sua globalità: il tentativo di conferire, nell'Europa del secolo XX, ad uno stato moderno, una legittimazione direttamente e strettamente religiosa.

J. Martínez Cortés

Nevrosi. (inizio)

La nevrosi è una perturbazione psichica che non è legata ad una causa organica. Le alterazioni nevrotiche sono meno profonde di quelle psichiche e sono qualitativamente differenti. Il comportamento del malato nevrotico può arrivare ad essere strano, ma senza mai raggiungere il grado di incomprensione dei sintomo psicotici.

Il nevrotico non è un demente. Le sue funzioni conoscitive superiori non si trovano alterate, in quanto le perturbazioni si manifestano soprattutto sul piano affettivo e su quello vitale della personalità, agendo o reagendo in forma molesta, col predominio della depressione e dell'ansia, più o meno appariscenti. Il compito crescente che si attribuisce alla personalità dei malati consiglia che si prenda in considerazione il paziente nevrotico più che la nevrosi come malattia.

Alcuni malati sperimentano i loro disagi più attraverso il corpo che attraverso la psiche, in forma di " sintomi vegetativi ", come, per esempio, sudori e palpitazioni, difficoltà respiratorie, nausee, dolori di capo e di spalle, disturbi di digestione, ecce. L'atteggiamento peculiare dei pazienti di fronte ai loro sintomi è l'atteggiamento difensivo.

Attualmente, la nevrosi ha cessato di essere vista come una malattia con sintomi e fattori causali specifici. Oggi, è vista come un sintomo che può essere spiegato come un modello di comportamento disadattato. Il nevroticismo è una dimensione della personalità in cui ogni individuo occupa una determinata posizione in funzione della risposta del suo organismo, della sua storia, della sua tolleranza alla frustrazione, ecc. Le varie forme di nevrosi si possono raggruppare attorno ai seguenti tipi fondamentali.

Nevrosi di ansia. È descritta come una sensazione puramente corporea, localizzata di solito nell'apertura dello stomaco, nella regione precordiale o nella gola. In certi casi, è sperimentata, come un senso di oppressione o di vuoto, come un dolore soprattutto molesto localizzato negli occhi o nella nuca. Queste sensazioni si trasformano in sentimenti di inquietudine, svogliatezza e perfino panico, senza che oggettivamente non ci sia nulla a cui si possano riferire. L'ansia è un sintomo che, in un modo o nell'altro, è sempre presente in qualsiasi tipo di nevrosi.

Nevrosi ossessive. Queste portano il malato obbligatoriamente a pensare o a compiere, contro la sua volontà, idee o atti sempre molesti e spesso ripugnanti per l'indole immorale e dolorosa di tali rappresentazioni o impulsi. Le nevrosi ossessive sono un grande tormento facile ad immaginare. Il malato sa in ogni momento che i suoi pensieri non sono normali, ma non riesce a liberarsi dall'idea che hanno un certo carattere significativo. In certe nevrosi ossessive, c'è la necessità di comprovare ripetutamente l'esecuzione di certi atti, con comportamenti relativamente automatici che il malato sperimenta come incontrollabili. Per esempio, molti malati hanno bisogno di ritornare più volte in cucina per accertarsi che il gas è veramente chiuso, o che un medicinale è al suo posto, ecc.

Nevrosi ipocondriache. Questa è caratterizzata dalla comparsa di molteplici sintomi soggettivi che non possono cadere sotto il controllo medico e che traducono una distorsione da parte del soggetto che interpreta erroneamente ed in forma irreale sensazioni e segni fisici normali come se fossero anormali. L'eccessiva autoosservazione preoccupata conferisce al malato la credenza e la convinzione ansiosa che realmente è affetto da qualche malattia.

Nevrosi di trasformazione. Questa denominazione implica che certi fenomeni psichici si esprimono o si trasformano in alterazioni corporee di carattere funzionale. Un braccio o una gamba rimangono paralizzati e senza sensibilità, senza che ci sia nessun danno fisico. Si perde la vista o la parola in maniera quasi sempre improvvisa, senza che nemmeno un esame medico molto approfondito riesca a trovare alterazioni muscolari o neurologiche.

Nevrosi isterica. Il termine è molto confuso, in quanto ha vari significati: personalità isterica, nevrosi di trasformazione, somatizzazioni, dissociazioni della personalità, crisi, ecc. Di solito, si parla di isteria quando certi conflitti psicologici, depressioni larvate o latenti, catene di problemi irrisolti, specialmente familiari e professionali, agiscono come provocatori di alterazioni organiche funzionali, senza che siano accompagnati da qualche lesione organica. Appaiono molti sintomi somatici di tipo insidioso, imprevedibili e di varia intensità, con la tendenza a diventare cronici e a suscitare l'attenzione del medico. Non c'è nessuna correlazione organica che li giustifichi. Le cosiddette reazioni di trasformazione sono quelle che, nel comportamento alterato, sono solite concentrarsi sul piano motorio. I sintomi più frequenti sono circoscritti alle funzioni sensomotorie. Si manifestano in forma di movimenti anormali grossi o sottili, ritmici o meno. Intaccano le più svariate aree del corpo e possono simulare alla perfezione dai movimenti corèici (ballo di san Vito) fino alle convulsioni epilettiche. Arrivano perfino a presentarsi in forma di paralisi, mentre i riflessi rimangono intatti.

In alcuni casi eccezionali di isteria, può apparire un comportamento allucinatorio, generalmente di tipo rituale e molto complesso (quasi come immagini in una scena), senza che ci sia un disordine comprovante del pensiero: le immagini appaiono vincolate, perfino tematicamente, coi contenuti della situazione conflittuale che le ha suscitate.

I tratti principali che definiscono la personalità isterica sono: la tendenza a drammatizzare, ad esagerare, ad una enfasi emozionale eccessiva in tutto ciò che concerne i suoi sintomi e le sue relazioni interpersonali. L'esibizionismo, il narcisismo, la dipendenza affettiva, il ricatto affettivo sono terribilmente frequenti. La manipolazione dei rapporti interpersonali e l'uso di stratagemmi per sedurre l'altro sono tutt'altro che rari. In realtà, non esiste una personalità isterica unica, ma una moltitudine di tratti isterici che possono presentarsi con maggiore o minore intensità e possono anche essere assenti.

Bibl. - Bless H., Manuale di psichiatria pastorale, Ed. Marietti, Torino, 1953. Canova F., Il medico in famiglia, Ed. Paoline, Roma, 1981. Ccompact, Enciclopedia della medicina, De Agostini, Novara, 1990. Sillamy N., Dizionario di psicologia, Ed. Gremese, Roma, 1991.

M. N. Lamarca

Norma etica. (inizio)

Il concetto di norma ha un uso molteplice. Nei manuali tradizionali, si presenta in connessione col fondamento ultimo della moralità. La norma suprema di moralità è Dio stesso; la norma prossima è l'uomo ad immagine e somiglianza di Dio. Questa esigenza normativa ha la sua configurazione e mediazione oggettiva nei precetti e nei divieti della legge morale e si concretizza soggettivamente col giudizio della coscienza. Nella teologia morale del dopo Concilio, le norme morali occupano un posto speciale. I valori e le norme sostituiscono la tematica classica della legge morale. Questo cambiamento tocca questioni fondamentali dell'etica cristiana: il rapporto tra le fonti teologiche e antropologiche, l'uso delle scienze umane, la concezione personalista od essenzialista dell'uomo, la concezione della legge naturale e della specificità dell'etica cristiana, la competenza del magistero nel campo della morale naturale, il problema dell'applicazione della legge universale ai casi concreti, soprattutto in situazioni di conflitto di beni e di valori.

D'altra parte, i contributi delle scienze umane sono stati decisivi per una comprensione migliore del senso e della funzione delle norme. Gli studi realizzati nel campo dell'antropologia culturale e nella sociologia confermano la struttura normativa di tutte le società. Non solo, ma mostrano che si tratta di una caratteristica necessaria per la prassi umana. La convivenza ha bisogno che gli atti siano retti e fissati da modelli assiologici validi e da imperativi vincolanti che garantiscano un comportamento umano. Però, su questo punto, esiste una grande differenza: le norme morali possono essere intese come dati super-temporali con una validità astratta e assoluta, oppure come frutto di un lungo processo di invenzione, di plasmazione e di evoluzione. Si tratta del problema dell'obbedienza alle norme etiche, ma anche della responsabilità di fronte alla loro configurazione ed evoluzione. La tesi di una morale autonoma si riferisce appunto al carattere creatore e responsabile dell'azione morale.

Da questi presupposti, le norme sono comprese come " direttrici etiche le quali regolano in forma obbligatoria, ma solo generale, l'azione umana concreta ". Le norme sono produzioni dell'uomo, regolatrici delle sue attività di interpretazione, di organizzazione e di strutturazione. La loro funzione " pedagogica " e non la loro validità assoluta ed universale, è ciò che costituisce il loro principale significato.

Supposto il loro carattere vincolante per il comportamento morale, le norme devono essere, in linea di principio, razionali, intelligibili e condizionate. Il fondamento teonomo delle norme o la loro conferma o promulgazione da parte del magistero non invalidano questi princìpi di razionalità e di condizionalità. Tutte le norme etiche le quali si riferiscono al comportamento inter-umano sono fondate su un giudizio di preferenza, cioè, sulla valutazione dei beni e dei valori.

Si può distinguere tra " norme trascendentali ", che regolano la persona- soggetto, e le " norme categoriali ", che regolano gli atti della persona. Le norme categoriali si dividono in norme categoriali di " bontà morale " (essere giusti) e norme categoriali di " correzione morale " (questo comportamento è giusto). Tutta la discussione sulle norme etiche si concentra esclusivamente sulle norme di " correzione morale ".

È ncessario badare anche alla distinzione tra " norme puramente morali " (norme trascendentali e norme categoriali di bontà morale), con validità assoluta ed universale, e " norme morali miste " (norme categoriali di correzione morale) che non godono di questa validità, in quanto non sono formulate indipendentemente da fatti contingenti. Esistono vari tipi su cui fondare le norme. La filosofia morale studia le teorie intuizioniste, emotiviste, decisioniste, prescrittiviste, ecc. Da parte sua, la teologia morale, partendo da basi filosofiche, privilegia il fondamento teleologico e quello deontologico.

Il " fondamento teleologico " afferma che il giudizio morale di tutte le azioni deve fondarsi esclusivamente sulle sue conseguenze.

Il " fondamento deontologico " sostiene che non tutte le azioni sono definite moralmente unicamente dalle loro conseguenze. I suoi sostenitori pensano che ci siano azioni immorali in se stesse, prescindendo dalle possibili circostanze o conseguenze.

Per situare e comprendere esattamente questa forma di argomentazione o formulazione di norme etiche, occorre tener presente quanto segue: queste norme si riferiscono alla sfera inter-umana; sono norme categoriali di " correzione morale "; si tratta di " norme morali miste ".

Questa nuova riflessione sulle norme etiche ha riproposto il senso ed il valore di molti princìpi tradizionali della teologia morale (il principio del duplice effetto, ciò che è " intrinsecamente cattivo ", il rapporto fine-mezzi...). Generalmente, il dibattito si è concentrato sulla dimensione assoluta delle norme morali, sul problema dell'utilitarismo e conseguenzialismo, e, nel complesso, sulla dimensione " oggettiva " della moralità.

Bibl. - Piva P., Teologia morale generale o delle categorie morali fondamentali, Ut unum sint, Roma, 1981. Schüller B., L'uomo veramente uomo. Dimensione teologica dell'etica nella dimensione etica dell'uomo. Edi Oftes, Palermo, 1987. Tettamanzi D., Temi di morale fondamentale, OR, Milano, 1975. Trentin G., " Norma morale ", in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 801-814. Valsecchi A. - Rossi L., La norma morale, Ed. dehoniane, Bologna, 1971.

M. García Leyva

Nunzio. (inizio)

Si chiamano nunzi i delegati del Romano Pontefice con carattere diplomatico, accreditati di fronte ad uno Stato e sono decani del Corpo Diplomatico.

Il " motu proprio " Sollicitudo e il canone 364 elencano una serie di mansioni ecclesiali. La principale è, senza alcuna dubbio, quella " di rendere sempre più saldi ed efficaci i vincoli di unità che intercorrono tra la Sede Apostolica e le Chiese particolari ". Altri compiti importanti sono: " informare la Sede Apostolica sulle condizioni in cui versano le Chiese particolari...; assistere i Vescovi con l'azione e il consiglio, senza pregiudizio per l'esercizio della loro potestà legittima...; per quanto riguarda la nomina dei Vescovi, comunicare o proporre i nomi dei candidati alla Sede Apostolica...; difendere... tutto ciò che riguarda la missione della Chiesa...; cooperare con i Vescovi per favorire opportuni scambi fra la Chiesa cattolica e le altre Chiese o comunità ecclesiali, anzi anche con le religioni non cristiane... " (CIC c. 364).

I nunzi devono osservare il diritto internazionale per cui sono considerati come agenti diplomatici di prima classe, a livello di ambasciatori. In nome della Santa Sede, trattano delle questioni che si riferiscono ai rapporti pubblici tra Chiesa e Stato. Sono di solito incaricati anche dei negoziati per i concordati ed altri accordi e devono vigilare sulla loro osservanza.

La sede del Legato pontificio è esente dalla potestà di governo dell'Ordinario del luogo eccetto per quanto riguarda la celebrazione del matrimonio. Il nunzio, preavvisando il rispettivo Ordinario del luogo, può celebrare in tutte le Chiese della sua nunziatura cerimonie liturgiche, anche quelle pontificali (c. 366). " L'ufficio di Legato pontificio non cessa quando diviene vacante la Sede Apostolica, a meno che non venga stabilito diversamente nella Lettera pontificia " (c. 367). Le altre forme di cessione sono sottoposte all'articolo XLIII dell'Accordo di Vienna del 1961.

Bibl. - Codice di Diritto Canonico, Roma, 1983, canoni 362-367. Bertone T., " Nunziature e delegazioni apostoliche ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 498.

L. Vela

Nuovo Testamento. (inizio)

Si chiama Nuovo Testamento quel complesso di 27 libri ispirati, il cui contenuto è destinato a consegnare il messaggio salvifico e liberatore annunciato da Gesù di Nazaret. La sua presenza ha lo scopo di sigillare un nuovo patto (diathéke) tra Dio ed il nuovo popolo eletto, formato da quanti hanno fatto proprio il progetto di Gesù. La tradizione cristiana è stata per qualche tempo indecisa nel momento di decidere quali scritti specifici riflettevano fedelmente il messaggio di Gesù, e pertanto andavano ritenuti ispirati e a loro volta fonte della rivelazione divina fatta mediante il grande inviato dal Padre (Gesù di Nazaret). Ancora quando nel secolo IV era praticamente chiuso il canone neotestamentario, ci furono alcuni scritti che suscitarono discussioni sulla loro genuinità. Questi libri, sia pure impropriamente, sono conosciuti come deuterocanonici. Sono sette in tutto: la lettera agli Ebrei, quella di san Giacomo, di Giuda, la Seconda di Pietro, la Seconda e Terza di Giovanni, l'Apocalisse. Ogni dubbio al riguardo fu eliminato nel Concilio di Firenze (a. 1441). La ratifica venne poi nel Concilio di Trento (1545-1552; 1562- 1563).

Gli scritti neotestamentari non ci consegnano altro che l'annuncio di Gesù tradotto nella vita partendo dall'esperienza di Pentecoste... Così, dunque, prima di dare inizio ad un'opera, il contenuto di questa fu vissuto da quanti condividevano la stessa fede cristica. Di fatto, Gesù, durante la sua vita pubblica, proclamò un messaggio che, pur rivendicando un carattere universale, fu circoscritto dalle condizioni storico- culturali del tempo. Gesù fu un Ebreo dalla sua nascita fino alla sua morte in croce. Parlò agli Ebrei la cui mentalità era mediata dalle tradizioni religiose dell'AT. Ciò impedì in molti casi l'affermazione della novità del suo messaggio. Per questo, fu necessaria la sua morte- risurrezione. Così, il vero Gesù, penetrando esistenzialmente nei suoi discepoli, permise loro di comprendere dalla stessa vita le implicante di quel messaggio che Egli aveva diffuso nelle città e nei villaggi di Galilea. Però, solo quando i discepoli capirono di essere interpellati dall'interno dalla forza del Risorto, furono capaci di trasmettere un messaggio cui sfida aveva per fondamento non parole o concetti, ma il dinamismo esistenziale.

In questo modo, il NT fu tutto impregnato dell'esperienza vissuta da coloro che desideravano rimanere fedeli alle esigenze divine. Gesù aveva predetto la catastrofe di Gerusalemme perché avevano disatteso il suo messaggio (Lc 19,41-44). Ma Gesù avrebbe potuto essere forse compreso solo a livello di concetti? L'esperienza cristiana non impiegò molto tempo a dimostrare che l'autentica comprensione dell'annuncio di Gesù doveva farsi in categorie di vita. Nel fare ciò, si aprì una fase completamente nuova nel processo storico-salvifico conosciuto come " nuovo eone ", cioè, economia di pienezza.

Il primo autore neotestamentario, di cui si conserva una parte dei suoi scritti, è Paolo di Tarso. Stimolato dalle comunità da lui fondate, doveva rispondere ai problemi concreti che sorgevano nel condividere il progetto di Gesù. Per questo, le sue lettere, più che trattati teologici (la lettera ai Romani fa forse eccezione), sono scritti occasionali in cui l'apostolo cerca di dipanare le incognite poste dalle comunità locali. Anche ammettendo che non tutte le lettere attribuite a san Paolo siano proprio sue  gli scritti della prigionia e le lettere pastorali sembrano più tardive , abbiamo comunque un bagaglio sufficiente (Gal, Rm, 1 e 2 Cor, 1 e 2 Ts) per elaborare un corpo dottrinale in cui affiora il messaggio di Gesù visto dall'esperienza pasquale.

I cosiddetti " vangeli (Mt, Mc, Lc, Gv) sono abbastanza posteriori. Ogni evangelista offre la sua visione personale di Gesù in modo vivo per la comunità cristiana a cui appartiene. È ovvio che i quattro autori sacri non presentano altro che la loro inquadratura personale intorno al messaggio di Gesù che è l'autentico e unico vangelo. Però, le opere scritte aiutarono le comunità locali ad affrontare il futuro con serenità, poiché disponevano di alcuni libri che riportavano tutti il pensiero genuino d. Gesù ed il suo annuncio salvifico-liberatore.

Col passare del tempo, sorsero altri scritti, quasi tutti in forma di lettere che, essendo rivolte al complesso di comunità cristiane, ricevettero il nome di " cattoliche " (1 e 2 Pietro, 1, 2, 3 Giovanni, san Giacomo, Giuda). Per ultimi, apparvero alcuni scritti intenti a sottolineare l'opera redentrice di Gesù (Ebrei) e disporre le comunità alla venuta futura e trionfale di Gesù (Apocalisse). Questo complesso di scritti integra, dunque, il NT il cui obiettivo primordiale è quello di presentare Gesù come il grande inviato divino. Egli, rivendicando chiare prerogative messianiche, instaura nel mondo quel regno di pienezza annunciato per tanti secoli dalla riflessione teologica dell'AT.

Bibl. - Corsani B., Introduzione al Nuovo Testamento, Ed. Claudiana, Torino, 1972. Cullmann O., Il Nuovo Testamento, Ed. Il Mulino, Bologna, 1969. Fabris R., " Nuovo Testamento ", in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 976-993. Leonardi G., Le prime comunità cristiane e i loro scritti, Ed. Paoline, Roma, 1988. Schelkle K.H., Introduzione del Nuovo Testamento, Ed. Queriniana, Brescia, 1967.

A. Salas

 

Obbedienza. (inizio)

Quando il P. Marie-Dominique Chenu si azzardò a dire: " L'obbedienza è una mediocre virtù morale ", c'era probabilmente qualcosa che saltava per aria. Tanto più che disse questa frase in risposta all'importanza che l'autorità ecclesiastica dava all'obbedienza.

D'altra parte, l'obbedienza fu predicata da Gesù con elogi che non si possono ignorare né sottovalutare (Fil 2,8; Eb 5,8). Questo porta a pensare che ci sia un malinteso nei riguardi dell'obbedienza.

Si afferma come un dato pacifico che col Vaticano II la fede ha riscoperto il senso originale Paolino. E lo ha fatto proprio nel ricordare la sua dimensione di obbedienza: " A Dio che rivela è dovuta "l'obbedienza della fede" (cf Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6) " (DV 5). Lo stesso P. Chenu, che sembrava abbassare il valore dell'obbedienza, spiegava così l'atteggiamento che aveva meritato l'elogio delle autorità ecclesiastiche: non fu l'obbedienza, ma la " fede nella parola di Dio, secondo cui gli inciampi e gli incidenti lungo la via non sono nulla ". Queste due testimonianze sono importanti, perché non intendono dire che bisogna mettere fede nell'atto dell'obbedienza: è proprio il contrario: bisogna mettere l'obbedienza nell'area della fede.

La stretta relazione tra obbedienza e fede permette di superare l'idea secondo cui l'obbedienza spetta alla vita religiosa mediante il voto di obbedienza. Il fatto che l'obbedienza non solo sia uno dei tre voti che costituiscono la vita religiosa, ma che sia stata addirittura ritenuta la base della stessa vita religiosa, e che sia stato ricordato spesso che anticamente si faceva solo il voto di obbedienza, ha fatto sì che sono state praticamente identificate obbedienza e vita religiosa. Perciò l'obbedienza, nella vita cristiana, aveva scarsa importanza.

L'obbedienza concerne invece ogni cristiano, semplicemente perché concerne Cristo. Nel decreto Perfectae caritatis, il Concilio ricorda ai religiosi l'obbedienza di Cristo (Gv 4,34; 5,30; Eb 10,7; Sal 39,9; Fil 2,7; Eb 5,8) (PC 14). Questo vale anche per tutti i cristiani: la vita di Gesù, anche l'obbedienza, è il cammino per ogni cristiano. Non si può monopolizzarlo, ma neanche sottrarsi ad esso.

Il problema dell'obbedienza ha le sue radici nelle mediazioni. Presso i cristiani, non c'è difficoltà ad ammettere in teoria l'obbedienza ad una riconosciuta volontà di Dio. La " sostituzione " di Dio da parte di un uomo crea sempre il problema della mancanza di identificazione tra Dio e questi mediatori umani, che dovrebbero rappresentare Dio nell'interpretazione (nel decidere, nel comandare) della coscienza oggettiva.

D'altra parte, tuttavia, il cristianesimo è la religione del mediatore: Gesù, e lo è proprio in quanto uomo: l'uomo Cristo Gesù (1 Tm 2,5). Considerare e porre l'accento nelle mediazioni e, conseguentemente, nei mediatori, sembrano atteggiamenti più cristiani che non la relazione diretta ed immediata con Dio. Questo è importante per un cristiano.

La nostra cultura democratica ha portato spontaneamente ad una umanizzazione dell'obbedienza ecclesiale. Le forme sono cambiate e la persona conta molto più di prima. Non parliamo qui dell'obbedienza religiosa, ma dell'obbedienza cristiana nella Chiesa.

Si può anche dire che quando il Vaticano II parla dell'obbedienza, non menziona l'ossequio dell'intelletto (mentre lo fa quando parla della fede: DV 5) , ma quello della volontà. Si ha con questo l'impressione che l'obbedienza cristiana sia l'accettazione di un modo di comportarsi nelle cose pubbliche di quella componente comunitaria che è la Chiesa, più che qualcosa d'altro. Con ciò, il rispetto per la persona e per la vita privata avrebbero un percorso differente.

Quanto precede può dare l'impressione che si apra una nuova e dannosa dicotomia (privato-pubblico, intelletto-volontà), e che la Chiesa rimanga relegata in una società, un gruppo, un partito, ecc., che esige l'ordine come ogni complesso, ma nulla più.

Le cose non stanno così. La Chiesa è una comunità di fratelli in cui nessuno può farsi padrone e signore di essa. Gesù è l'unico Signore. Ora, in questa comunità riunita nel suo nome, è presente Gesù con un tipo di presenza che sancisce quello che la comunità ha ritenuto più opportuno: " Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro " (Mt 18,20). I1 particolare rimane così accompagnato per evitare i personalismi che possono essere molto fallaci. Il senso della comunità è per il singolo una parola molto forte e un punto di riferimento. Quando uno ha sbagliato, ha come ultimo riferimento la comunità: " Dillo alla comunità " (Mt 18,17). Servirà a qualcosa.

Nella Chiesa, ci sono stati quasi sempre conflitti tra superiori e sudditi (per esprimersi in qualche maniera). Alcune fasi della vita della Chiesa sono state specialmente dure. È meglio dimenticarle e perdonare anziché ricordare ed accusare. Per non ripetere le stesse cose, ricordiamo qui la reazione antimodernista, ancora nel nostro secolo. Anche recentemente, si sono uditi rumori poco graditi. L'obbedienza è vissuta ecclesialmente in frequente conflitto.

È avvenuto per l'obbedienza quello che è avvenuto per l'amore. Prima, si è pensato che l'amore evitasse i problemi; poi, che poteva convivere coi problemi; infine, che poteva provocare i problemi. Sembra che questo stia succedendo all'obbedienza nella Chiesa.

In qualsiasi forma, e senza che necessariamente ci si trovi tutti i giorni di fronte a problemi rumorosi, l'obbedienza è compatibile con una identificazione parziale, e questa identificazione parziale è quella che sostenta una conflitto sordo che potrebbe essere equiparato ad un sano e normale pluralismo.

Bibl. - Aa.Vv., Nuovo stile d'obbedienza, Ed. Ancora, Milano, 1969. Goffi T., " Obbedienza ", in: Nuovo dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinsello B., , pp. 1074-1091. Hayen A., Comunione e obbedienza nella libertà, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1973. Rondet H., L'obbedienza, problema di vita, mistero di fede, Ed. Queriniana, Brescia, 1969. Rueda B., Eccomi, Signore. Considerazioni sull'obbedienza, Ed. Ancora, Milano, 1975.

A. Guerra

Omelia. (inizio)

La parola greca omilìa (in latino: sermo) equivale a conversazione o comunicazione religiosa di tipo familiare, a differenza del sermone, o predica (in latino: oratio) che significa: discorso oratorio. Fin dall'antichità classica, furono distinti due tipi di comunicazione verbale: uno, proprio dell'agorà (piazza o tribuna), di carattere rettorico; l'altro, caratteristico dell'ambiente domestico, di stile familiare. L'omelia, intesa come predicazione liturgica, ha sempre fatto parte del culto cristiano fin dalla più remota antichità, sia nelle riunioni dei catecumeni che nelle assemblee eucaristiche. La tentazione dell'omelia è sempre stata quella di imitare la rettorica, specialmente quando la predicazione venne separata dalla liturgia a partire dal secolo XIII. Con la riforma liturgica instaurata dal Concilio Vaticano II, è stato affermato: " Si raccomanda vivamente l'omelia, che è parte dell'azione liturgica; in essa, nel corso dell'anno liturgico, vengono presentati, dal testo sacro, i misteri della fede e le norme della vita cristiana... " (SC 52).

L'omelia può essere definita, stando ai testi conciliari, come una parte del ministero della parola e della liturgia, rivolta ai membri dell'assemblea, in forma di proclamazione delle meraviglie della storia della salvezza, ossia del mistero di Cristo, ispirata dai testi biblici, che tiene presente il mistero che viene celebrato e le necessità particolari degli ascoltatori. Il modello di ogni omelia si trova nella predicazione di Gesù nella sinagoga di Nazaret, quando afferma: " Oggi questa Scrittura si è compiuta in voi che ascoltate " (Lc 4,21).

L'omelia comprende tre elementi fondamentali: una lettura biblica (per essa, bisogna studiare la Bibbia), un contesto liturgico (esso esige che si conosca la celebrazione liturgica) e un ambiente sociale (si richiede di osservare la realtà umana). In primo luogo, l'omelia, afferma il documento Partir el pan de la palabra (Condividere il pane della Parola), è al servizio della Parola di Dio, elemento centrale della liturgia. Sebbene essa sia rivolta a convertiti (dall'evangelizzazione) e a catechizzati (dalla catechesi), l'omelia ha una dimensione missionaria e una finalità educativa cristiana. In secondo luogo, l'omelia è a servizio del mistero celebrato, deve mettere in rapporto la liturgia della parola con la liturgia sacramentale, la parola col rito. Di qui, la ricchezza dei lezionari biblici nella celebrazione dei sacramenti. Inoltre, l'omelia deve aver presente l'anno liturgico, ossia la successione delle feste durante l'anno solare per vivere la totalità del mistero di Cristo. Infine, l'omelia è a servizio del popolo di Dio, cioè, applica la parola alla vita.

La predicazione liturgica, pur essendo oggi compito del ministro ordinato (presbitero o diacono), o di chi presiede la celebrazione, esige la collaborazione dell'assemblea, almeno nella sua preparazione. La riunione preparatoria dell'omelia comincia con l'esegesi dei testi biblici, specialmente del vangelo. Nello stesso tempo, si tiene presente una realtà umana, con l'intento di illuminare la vita partendo dalla parola. In alcuni casi, l'omelia può essere più induttiva o derivata dalla Scrittura; in altri, può essere più deduttiva o derivata dai fatti umani. In qualsiasi caso, la predicazione liturgica richiede una certa pianificazione.

Non è facile predicare bene. Sono molte le critiche mosse dai laici alle omelie, o perché sono astratte e campate in aria, o perché non implicano una dimensione di fede, o perché non dicono nulla. In alcuni casi, è assente la prospettiva biblica; in altri si osserva vanamente la dimensione sociale. Comunque, il ministero dell'omelia è oggi un ministero cristiano fondamentale.

Bibl. - Aa.Vv., Manuale della predicazione, Ed. dehoniane, Bologna, 1975. Deiss L., Celebrare la Parola, Ed. Paoline, Cinisello B., 1992. Della Torre L., " Omelia ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 923-943. Grasso D., La predicazione alla comunità cristiane, Ed. Paoline, 1969. Maldonado L., La predicazione, Ed. Queriniana, Brescia, 1973.

C. Floristán

Omosessualità. (inizio)

L'atteggiamento pastorale e la sua prassi devono tenere presenti la complessità e la problematica implicate dal fenomeno omosessuale. Di tutti i capitoli della sessuologia umana, l'omosessualità, insieme alla trans-sessualità, costituiscono la sfida principale alla chiarificazione eziologica e al comportamento, e, soprattutto, al discernimento morale e all'orientamento verso una maturità evangelica. L'omosessualità maschile e femminile si presenta in un ventaglio così vasto che è necessario ricordare che le atipie costituiscono la norma comune. " Non esiste l'omosessualità, ma esistono gli omosessuali ". Questo è un principio generale antropologico che va affermato qui con tutta la sua forza.

Solo a titolo di esemplificazione, possiamo elencare: l'omosessualità inconscia, quella sospetta, quella conscia; l'omosessualità non attiva, quella attiva; l'omosessualità per motivi psico-affettivi (autentica), o per interessi estranei all'attrattiva sessuale (inautentica); l'omosessualità sporadica, quella permanente; l'omosessualità concreta o promiscua; ecc. Di fronte a tanta varietà, può essere utile una classificazione semplificata che distingue l'omosessualità primaria e l'omosessualità secondaria. Quella primaria è quella genuina o costitutiva che, in margine alle predisposizioni somatiche, genetiche, endocrine, ecc..., si forma, all'incirca, nei primi due o tre anni di vita. È praticamente irreversibile. L'omosessualità secondaria è la conseguenza di riflessi condizionati o di situazioni ambientali. Può regredire in modo spontaneo, modificandosi l'ambiente sociale, o con tecniche specifiche, come quelle dei comportamenti. Per approfondire e trattare i problemi di omosessualità, è necessario respingere le interpretazioni parziali e conservare un atteggiamento eclettico o comunque aperto alla dimensione somatica, psicologica e sociale.

Nei postulati che ora enunciamo, sono riassunti alcuni punti fondamentali per la pratica pastorale:

a) rendere oggettiva e consapevole la complessità del problema ed avere un'apertura comprensiva ed accogliente;

b) tener presente che la pulsione omosessuale non è equivalente, a parità di circostanze, a quella eterosessuale. Il suo controllo esige molto frequentemente sforzi autenticamente eroici che obbligano al discernimento morale nel valutare fino a che punto esiste il " minimum libertatis " per poter parlare di atto etico;

c) valorizzare nella sua giusta proporzione il dato biblico e la tradizione;

d) non respingere e non accettare senza una valutazione critica la dottrina ufficiale cattolica. L'ultimo documento su questo tema: Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica sull'attenzione pastorale verso gli omosessuali (1o Ottobre 1986), pecca, a mio parere, delle ambiguità proprie del riduzionismo tradizionale dell'etica sessuale cattolica, e, d'altra parte, reca atteggiamenti significativi e stimoli evangelici; e) in sintonia col mondo scientifico, la pastorale deve vivere la tensione di ricerca e di progetto per la chiarezza e la maturità antropologica ed evangelica di quanti vivono ed anche subiscono il condizionamento omosessuale.

Bibl. - Aa.Vv., Fede cristiana e omosessualità, Centro Ecumenico di Agape, Prali, 1981. Aa.Vv., L'omosessualità. Aspetti medici, sociali e pastorali, Ed. Queriniana, Brescia, 1967. Eck M., L'omosessualità, Ed. Borla, Torino, 1967. Neill J.J. Mc, La Chiesa e l'omosessualità, Ed. Mondadori, Milano, 1979. Piana G., " Omosessualità e transsessualità ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 830-838.

A.M. Ruíz Mateos

Opinione pubblica. (inizio)

Si intende per opinione pubblica il complesso di pareri dei membri della società su un fenomeno particolare, od anche il parere che hanno su questo fenomeno la maggior parte dei cittadini. Nel primo significato, diciamo, per esempio: " l'opinione pubblica è divisa sull'energia nucleare "; nel secondo: " l'opinione pubblica è favorevole all'ingresso in Europa ".

L'importanza dell'opinione pubblica è molto grande. Per gli individui, essa è uno dei mezzi principali di controllo sociale. I legislatori sanno che le leggi e le norme che non si addicono all'opinione pubblica sono condante a rimanere lettera morta. I governati la tengono molto presente, perfino nelle dittature, perché, come diceva già Macchiavelli, è più facile governare col benestare del popolo. Per questo, i regimi totalitari e autoritari moltiplicano l'indottrinamento politico e controllano tutti i mass-media.

Le democrazie, col fatto di riconoscere la libertà di espressione, facilitano la formazione di un'opinione pubblica autentica. Però, anche in esse, esistono forti ostacoli per conseguirla. Alcuni sono esterni agli individui, come, per esempio, il controllo dei mezzi di comunicazione sociale e le agenzie di stampa per gruppi di pressione. Altri sono interni, come, per esempio, i pregiudizi e gli stereotipi. Chiunque appartenga ad una ideologia si rende generalmente impermeabile agli argomenti e alle critiche che sembrano decisivi a quelli che non sono impegnati in essa.

Bibl. - Barbano F., " Opinione pubblica ", in: Enciclopedia Filosofica, IV, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 1195. Liener J., " Massa (psicosi e psicologia di), in: Dizionario di catechetica, Ed. Paoline, Roma, 1966, pp. 397-398. Lippmann W., L'opinione pubblica, Milano, 1963. Noelle-Neumann E., " Opinione pubblica ", in: Dizionario di psicologia, Ed. Paoline, 1975, pp. 786-787. P.I., " Opinione pubblica ", in: Dizionario di teologia pastorale, 2, Ed. Paoline, Roma, 1962, pp. 1254-1256.

L. González-Carvajal

Opzione fondamentale. (inizio)

L'opzione fondamentale è una categoria fondamentale nel rinnovamento della morale. Questo concetto esprime la dimensione o scelta fondamentale della persona, il nucleo che dà senso e orientamento ad ogni comportamento morale. Da questa densità personale, l'opzione fondamentale è stata studiata come espressione della responsabilità o come via del dinamismo morale.

Per comprendere il significato dell'opzione fondamentale, è necessario tenere presenti il suo uso e le sue basi.

L'idea di opzione fondamentale è stata usata in teologia per spiegare la grazia partendo dai suoi fondamenti antropologici, per scoprire la radice della prima conversione, per valutare la gravità del peccato o, più in generale, per definire la stessa esistenza cristiana. La filosofia morale parla di " progetto esistenziale ", " senso della vita ", per designare l'opzione fondamentale. Però, è stata la psicologia che ha studiato di più la realtà dell'opzione fondamentale: l'identità personale, l'integrazione, l'intenzione basilare, la maturità, ecc., sono alcuni elementi costitutivi dell'opzione fondamentale. Bisogna anche sottolineare l'importanza che ha avuto nella pedagogia catechetica e morale: l'opzione fondamentale è concepita come " opzione iniziale ", inizio di ogni procedimento di maturità religiosa e morale.

I fondamenti principali dell'opzione fondamentale partono da una riflessione filosofica sulla persona: l'esperienza dell'autocoscienza e dell'autodeterminazione.

La persona riflette su se stessa come soggetto, ha coscienza del proprio essere e del proprio operare. Questo tipo di autocoscienza si riferisce alla totalità della persona più che alle azioni concrete. Di fatto, il soggetto non solo compie azioni particolari, ma nello stesso tempo, realizza se stesso come persona. Però, l'oggetto della coscienza esplicita sono i propri atti, non la persona-soggetto. L'autocoscienza della persona come totalità si chiama " trascendentale ", o " fondamentale "; non è l'autocoscienza oggettiva, ma soggettiva. Questa autocoscienza soggettiva è più ricca e più profonda dell'autocoscienza oggettiva, perché è la sua condizione ed il suo fondamento. Per chiarire la profondità di questa dimensione della persona, la psicologia propone l'immagine di cerchi concentrici o strati: il centro della persona e i circoli periferici; lo strato profondo e gli strati superficiali.

Assieme all'autocoscienza è presente la realtà dell'autodeterminazione, cioè, la libertà " trascendentale " o " fondamentale ". La persona è libertà, capacità di scelta e decisione. La persona è una scelta in atto. Non esiste la persona in sé, anteriore alle sue scelte. L'autocoscienza della persona è sempre conoscenza davanti ad una scelta.

Come la persona autocosciente è fonte degli atti concreti, è presente in essi, ed essi la esprimono come parte e fondamento, così anche la libertà fondamentale è origine e possibilità delle decisioni concrete.

In questi ultimi anni, l'opzione fondamentale è messa in rapporto col fondamento della moralità. Questo orientamento sembra destinato a rivitalizzare la riflessione sull'opzione fondamentale, in quanto abbraccia il fondamento della morale come scienza ed il fondamento del fattore morale come categoria umana. Entrambe le dimensioni vengono arricchite da nuovi presupposti antropologico-filosofici e da nuovi contenuti biblico- teologici. In questo orizzonte, ci sarebbe da parlare di autonomia morale, di moralità trascendentale, di senso dell'esistenza, di essere del Signore, di essere cristiani, ecc., come nucleo dell'opzione fondamentale.

Partendo da questi presupposti dell'opzione fondamentale, appare la necessaria articolazione persona-atti. In questo contesto, sorgono la maggior parte dei problemi di applicazione dell'opzione fondamentale. Bisogna affermare che sono due livelli distinti, ma intimamente connessi. Non si può comprendere il centro della persona senza i suoi atti, né i suoi atti senza la profondità trascendentale della persona. La persona è autocoscienza davanti ad una scelta. Perciò l'opzione fondamentale può essere modificata, approfondita, sostituita durante l'esistenza personale.

Le questioni particolari che vengono studiate attorno all'opzione fondamentale hanno oscurato e limitato l'impostazione fondamentale. Quando appare l'opzione fondamentale? Come è data l'opzione fondamentale? Sono temi specificamente psicologici, ma hanno una grande importanza nel comportamento morale. Lo stesso si deve dire per l'applicazione quasi esclusiva dell'opzione fondamentale alla gravità del peccato. Non molto tempo fa, B. Häring ha affermato che l'opzione fondamentale influisce su quasi tutti gli aspetti della morale. Eppure, i manuali di teologia morale non hanno ancora integrato sufficientemente i risultati di queste riflessioni riguardanti l'opzione fondamentale.

Bibl. - Del Lago G., Dinamismi della personalità e grazia, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1970. Demmer K., " Opzione fondamentale ", in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., 1994, pp. 854-861. Dianich S., L'opzione fondamentale nel pensiero di san Tommaso, Ed. Morcelliana, Brescia, 1968. Flick M. - Alszeghy Z., L'opzione fondamentale della vita morale e la grazia, in: " Gregorianum " 41 (1960), pp. 593-619. Fuchs J., Esiste una morale cristiana?, Herder-Morcelliana, Roma-Brescia, 1970, pp. 113-140.

M. García Leyva

Ordinazione. (inizio)

L'ordinazione è il rito col quale la Chiesa promuove un suo membro, ritenuto idoneo, ad un determinato grado di ministero ecclesiale: diaconato, presbiterato, episcopato. A partire dal Medioevo, questo rito fu ritenuto uno dei sette sacramenti, e quantunque si sia sempre parlato di un solo sacramento dell'Ordine, esso è sempre stato esercitato in vari gradi, che a un dato momento dell'evoluzione storica, furono distinti in ordini maggiori (presbiterato, diaconato, suddiaconato) e minori (ostiariato, lettorato, esorcistato, accolitato). Il legame dell'episcopato con gli altri ordini fu invece poco chiaro e si trasformò in una cerimonia di consacrazione, paragonabile all'incoronazione del re o dell'imperatore. Il Concilio Vaticano II ridiede all'episcopato il suo genuino carattere sacramentale e ristabilì l'Ordine nei suoi gradi originari: vescovo, presbitero, diacono. Gli antichi ordini minori dell'accolitato e del lettorato, che non sono propriamente sacramento, si ricevono ora per mezzo di una istituzione, non di una ordinazione.

Nonostante alcune fluttuazioni (liquidate definitivamente con la Costituzione apostolica Sacramentum ordinis di Pio XII, del 30 Novembre 1947), il segno essenziale che la Chiesa ha usato per celebrare il sacramento dell'Ordine è stato l'imposizione delle mani accompagnata dall'invocazione dello Spirito Santo. Si faceva già così nelle comunità primitive, stando a vari testi del Nuovo Testamento (1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6). Quando vennero distinti i ministeri del vescovo e quelli del presbitero (che all'inizio non appaiono delimitati con precisione), la cerimonia dell'imposizione delle mani vanne compiuta nel modo seguente: nell'ordinazione di un vescovo, questi riceveva l'imposizione delle mani da parte di vari vescovi insieme, come rappresentanti dell'intero collegio episcopale. Il presbitero riceveva l'imposizione delle mani da parte del vescovo e di vari presbiteri, membri dell'ordine sacerdotale. Per l'ordinazione del diacono, il vescovo solo imponeva la mano al candidato. Anche oggi si procede in questo modo, ed il segno dell'imposizione delle mani viene accompagnato da una solenne preghiera di ringraziamento in cui il vescovo celebrante chiede al Padre che mandi il suo Spirito sugli ordinandi affinché siano degni della missione che la Chiesa affida loro. Le ordinazioni si celebrano sempre nel contesto dell'Eucaristia, in un giorno festivo e con la partecipazione di tutta la comunità cristiana. Il fine è quello di sottolineare l'essenziale dimensione comunitaria del sacramento dell'Ordine.

Il nome stesso Ordine indica due cose fondamentali: coloro che lo ricevono entrano a far parte di un collegio di ministri, e rimangono ordinati o destinati ad una funzione comunitaria. Anticamente, la parola ordo significava un corpo sociale organizzato: per esempio, c'era a Roma l'ordine dei senatori, quello dei cavalieri. Nella Chiesa, coloro che sono ordinati vescovi, presbiteri o diaconi non lo sono mai a titolo puramente personale. Per loro, essere ordinati significa entrare nel corpo corrispondente. Così, ogni vescovo è incorporato nel collegio episcopale, formato da tutti i vescovi del mondo e destinato ad essere responsabile dell'andamento di tutta la Chiesa. Ogni presbitero diventa un membro dell'ordine sacerdotale, costituito da tutti i presbiteri di una diocesi con la finalità di collaborare col vescovo nel compito di guidare la Chiesa locale. I diaconi formano anch'essi un gruppo organizzato, stando agli ordini diretti dei vescovi o dei presbiteri. Per molti secoli, nella Chiesa d'Occidente, venivano ordinati diaconi soltanto quelli che intendevano diventare presbiteri e, data la legge del celibato obbligatorio per i presbiteri, dovevano essere celibi anche i diaconi. Oggi, è stato ristabilito il diaconato permanente, al quale possono essere ammessi sia uomini celibi che uomini sposati.

Il secondo motivo per cui questo sacramento si chiama sacramento dell'ordine è dovuto al fatto che questa parola significa anche: destinazione per qualcosa o per qualcuno. L'ordinato non lo è per se stesso, per un suo onore o per una sua dignità propria, e neanche per la sua perfezione spirituale. È ordinato per gli altri, per servire tutti i membri della comunità cristiana: tutta l'autorità e tutti i poteri spirituali che gli ordinati ricevono sono destinati al miglior servizio dei membri del Popolo di Dio. Cosi, viene formulato nella solenne preghiera di ordinazione di un vescovo: " O Padre, che conosci i segreti dei cuori, concedi a questi tuoi servi da te eletti all'episcopato di pascere il tuo santo gregge, e di compiere in modo irreprensibile la missione del sommo sacerdozio. Essi ti servano notte e giorno, per renderti sempre a noi propizio e per offrirti i doni della tua santa Chiesa. Con la forza dello Spirito del sommo sacerdozio abbiano il potere di rimettere i peccati secondo il tuo mandato; dispongano i ministeri della Chiesa secondo la tua volontà; sciolgano ogni vincolo con l'autorità che hai dato agli apostoli. Per la mansuetudine e la purezza di cuore siano offerta viva a te gradita per Cristo tuo Figlio ".

Coloro che ricevono l'episcopato ed il presbiterato sono anche chiamati " sacerdoti " nel linguaggio comune della Chiesa. Però, questo termine deve essere inteso in modo che non venga ad oscurare la verità fondamentale secondo cui Cristo è l'unico sacerdote della Nuova Legge (cf Eb 7,26-27) e tutta la Chiesa costituisce un corpo sacerdotale che continua nel mondo lo stesso sacerdozio di Cristo (cf 1 Pt 2,9). Questa verità è così importante che, nei primi tempi del cristianesimo, Bi evitava di dare il nome di sacerdoti ai ministri della Chiesa e si usavano invece nomi sacri del mondo profano, che indicavano la finalità funzionale di ogni ministero: vescovo, ispettore; presbitero, anziano; diacono, servitore. Più tardi, fu introdotto il vocabolario sacerdotale per indicare il rapporto dei ministeri con l'esercizio del sacerdozio di Cristo e della Chiesa. I ministri ordinati ricevono il nome di sacerdoti perché hanno la missione di rendere possibile l'esercizio del sacerdozio comune di tutti i fedeli, ma non perché essi soli siano sacerdoti. È nella celebrazione dell'Eucaristia che appare con maggiore chiarezza la distinzione e, nello stesso tempo, l'unione tra il sacerdozio ministeriale ed il sacerdozio comune. Sono i fedeli, il popolo radunato in assemblea liturgica, coloro che propriamente celebrano la Messa. Però, il vescovo o il presbitero che presiede hanno alcune potestà specifiche, destinate a rendere possibile l'azione del sacerdozio comune.

Bibl. - Brandolini L., Ministeri e servizi nella Chiesa oggi, Ed. Liturgiche, Roma, 1980. Favale A. - Gozzelino G., Il ministero presbiterale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1972, pp. 169-190. Ferraro G., " OrdineOrdinazione ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 943-960. Rahner K., Parola ed eucaristia, in: Saggi sui sacramenti e sull'escatologia, Ed. Paoline, Roma, 1965, pp. 109-172. Triacca A.M., Per una teologia liturgica del sacramento dell'Ordine in Occidente. Linee metodologiche, in: Il ministero ordinato nel dialogo ecumenico, Ed. Anselmiana, Roma, 1985.

J. Llopis

Ordini religiosi. (inizio)

Nel diritto comune, sta scomparendo la denominazione molto antica e molto ricca di ordine religioso. Tutte le denominazioni tradizionali, trattandosi di religiosi in senso stretto, vengono assorbite da quella nuova: Istituti religiosi. Nel diritto particolare ed in quello proprio, si può continuare a fare uso del nome tradizionale e di tutto ciò che costituisce " il patrimonio dell'istituto " (CIC c. 578). La grande riforma della vita religiosa consiste, in parte nel potenziare " una giusta autonomia di vita " nei singoli istituti (CIC c. 586), e nel favorire i propri carismi e le proprie finalità, il proprio stile di vita, ecc. Su questi punti, il Nuovo Codice di Diritto Canonico ha seguito la ricchissima dottrina del Concilio Vaticano II, contenuta principalmente nella Costituzione Lumen Gentium (n. 45) e nel decreto Perfectae Caritatis (n. 2).

Nell'attuale diritto comune, è scomparsa la distinzione tra voto solenne e voto semplice. Nel diritto particolare, gli ordini religiosi conservano i voti solenni. Prima, questa era la principale differenza specifica tra Ordini e Congregazioni. I voti solenni rendono invalidi gli atti ad essi contrari. Invece, se non consta espressamente il contrario, i voti semplici li rendono solo illeciti. Gli Ordini mendicanti emettono solo il voto di obbedienza secondo la regola in cui sono contenuti i tre voti religiosi come rafforzamento dei consigli evangelici.

I quattro grandi Ordini mendicanti: francescani, domenicani, carmelitani e agostiniani, sono sorti per motivi differenti. Hanno, però, innegabili punti di convergenza, una grande affinità spirituale e una quasi coincidenza cronologica che li rende contemporanei nel tempo e nelle idee fondamentali . Questo li affratella e li unifica.

Bibl. - De Candido L., " Vita consacrata ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1677-1692. Gozzelino G., Seguono Cristo più da vicino. Lineamenti di teologia della vita consacrata, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1997. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica " Vita consecrata ", 25.3.1996. Tillard J.M.R., Davanti a Dio e per il mondo. Il progetto dei religiosi, Ed. Paoline, Alba, .

L. Vela

Ortodossia. (inizio)

L'ortodossia, come punto di partenza, è l'interpretazione del mondo fatta da una determinata religione, che porta con sé un'etica, una prassi, che vuole essere la traduzione, nella vita di ogni giorno, degli enunciati del messaggio corretto. L'ortodossia è, prima di ogni cosa, una dottrina di esclusione. L'ortodossia succede alla credenza. Un credente chiama tutti gli uomini a condividere la sua fede; un ortodosso rifiuta tutti gli uomini che non condividono la sua fede. La fede del primo è, soprattutto, un sentimento; la fede del secondo è, soprattutto, un sistema. Il primo dice: " Lasciate che vengano a me ". Il secondo: " Sia anàtema ". È una legge quasi fatale che questo succeda a quello. Così, dunque, l'ortodossia è una conseguenza fatale di ogni credenza che trionfa, o, comunque, è una tentazione a cui pochi resistono.

Questo non vuol dire che la parola ortodossia non abbia un significato corretto. All'inizio, si chiamava ortodosso chiunque professava una determinata religione secondo i princìpi fondamentali di questa religione. Per esempio, un cristiano che negasse che Gesù è Dio e uomo cesserebbe automaticamente di essere ortodosso. Però, lungo la storia, si è abusato molto del termine ortodossia. Per comprenderlo meglio, potremmo dire che un cattolico ha tutto il diritto di essere tomista, come un socialista ha quello di essere marxista. Però, nessuno dovrebbe esserlo in forma estremista, cioè, escludendo dal cattolicesimo o dal socialismo chiunque non condivida l'interpretazione che l'ortodosso ritiene l'unica possibile.

Tuttavia, il cristianesimo, fin dall'inizio, si preoccupò di conservare intatta la retta dottrina, cioè, l'ortodossia. Questo lo portava a richiamarsi ai grandi punti di riferimento del suo messaggio. Essi vennero condensati, soprattutto, nel canone, o regola scritta, costituita dai ventisette libri che compongono il Nuovo Testamento. Questo, però, non bastava, in quanto era sempre necessaria una corretta interpretazione di questo messaggio scritto. Occorreva, perciò, la presenza dello Spirito Santo all'interno della Chiesa. La Chiesa, poi, era vista come una collettività dotata di carismi o funzioni varie. San Paolo ricorre al paragone del corpo: " Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l'occhio dire alla mano: "Non ho bisogno di te"; oppure la testa ai piedi: "Non ho bisogno di voi". Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno " (1 Cor 12,18-24). Con questo, si vuol dire che l'autentica ortodossia deve essere pienamente solidale, dal momento che nessuna parte del corpo ecclesiale ha il monopolio della retta dottrina.

L'istruzione della Sacra Congregazione per la dottrina della fede " Libertà cristiana e liberazione " (22 Marzo 1986) si esprime così: " I pastori... devono essere pieni di speranza al pensiero che tante risorse straordinarie di santità sono contenute nella fede viva del Popolo di Dio. Bisogna fare in modo che queste ricchezze del sensus fidei possano pienamente sbocciare e dare frutti abbondanti. Aiutare con una meditazione approfondita del disegno della salvezza, così come questo si sviluppa riguardo alla Vergine del Magnificat, la fede del popolo dei poveri ad esprimersi con chiarezza e a tradursi nella vita: è questo un nobile compito ecclesiale, che attende il teologo. Così una teologia della libertà e della liberazione, come eco fedele del Magnificat di Maria conservato nella memoria della Chiesa, costituisce un'esigenza del nostro tempo " (n. 98). Con questo, si intende evitare un grave pericolo per l'ortodossia: la macrocefalia, ossia, l'eccesso di attribuzioni agli organi direttivi ecclesiali nel determinare ciò che è corretto nell'interpretare e nell'applicare il messaggio cristiano.

Questo suppone, inoltre, che l'ortodossia non impedisca il libero svolgersi della ortoprassi, o retto agire, poiché è in questo ambito che cresce e fiorisce la stessa Parola di Dio. La suddetta Istruzione riconosce ciò quando parla della dottrina sociale della Chiesa in cui ci mette in guardia contro il pericolo e la sclerotizzazione delle formule, o, in altre parole, della inflazione ortodossa.

Come si vede, una ortodossia veramente ortodossa (sia lecita questa ridondanza) non può chiudersi in se stessa, come se fosse stata trovata, una volta per sempre, la formulazione della fede. La fede sarà sempre la stessa, ma la sua formulazione varierà costantemente a seconda della prassi del popolo credente e delle sfide dell'umanità non credente o indifferente. Una ortodossia che ha voluto essere sempre uguale a se stessa lungo i secoli è diventata, per ciò stesso, eterodossa, perché si è resa differente (hétera) dell'unica fonte della verità, che è la prassi: l'amore, la liberazione, la giustizia.

Questo ripiegarsi su di sé fa del cristianesimo orientale, separato dalla Chiesa romana, un blocco eccessivamente uguale a se stesso, con poche o nessuna possibilità di evoluzione e di adattamento ai nuovi tempi e alle nuove sfide. È questa, soprattutto, la grande tragedia della ortodoxìa, specialmente di quella che sopravvive nei popoli dell'Unione Sovietica.

Bibl. - Clément O., La Chiesa ortodossa, Ed. Queriniana, Brescia, 1989. Fries H., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1987, specialmente pp. 129-135. Metz G.B. - Schillebeecks E. " Ortodossia ed eterodossia ", in: Concilium, 23(1987). Rahner K., Che cos'è l'eresia?, in: Saggi di spiritualità, Ed. Paoline, Roma, 1965, pp. 517-590. Sala G.B., " Ortodossia ", in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 994-1018.

J.M. González Ruiz