DIZIONARIO SINTETICO DI PASTORALE

CASIANO FLORISTAN - JUAN JOSÈ TAMAYO

P

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Pace. (inizio)

Il concetto di pace ha un significato ricco e complesso. Riferito alla dimensione della persona, si può parlare di essere in pace con se stessi, di essere pacifici in rapporto con gli altri. Nella dimensione politica, il significato di pace viene limitato ad un semplice stato di assenza di guerra.

La coscienza d'oggi cerca di dare al concetto di pace un contenuto più pieno. Si mette allora in evidenza quello che la pace autentica comporta come ideale utopico, che abbraccia tutti gli aspetti esistenziali, generando uno stile di vita dominato dall'impegno per conseguire la pace a tutti i livelli: personale, sociale, politico, ecologico, internazionale, planetario. Indubbiamente questo ideale muove vari movimenti sociali di innegabili connotazioni etiche.

Nella Bibbia, la pace è presentata come un dono di Dio, con un significato che si avvicina a quello di salvezza. Di qui, l'espressione comune: " riposare in pace ". La pace assoluta e definitiva che è la vita vera è Dio: JHWH è il Dio della pace (Gdc 6,24).

I profeti insistono nel collegare la pace con la giustizia: senza la giustizia, non ci può essere la pace vera (Is 32,16-18). Nella vita d'ogni giorno, la pace significa il benessere, la fortuna, la felicità, i buoni rapporti.

Tuttavia, la pace ha una dimensione escatologica: avrà la sua pienezza, come dono di Cristo, negli ultimi tempi. Intanto, è una esigenza etica per il cristiano e per tutte le persone di buona volontà.

Bibl. - Bianchi G. - Diodato R., Per una educazione alla pace, Ed. Piemme, Casale M., 1987. Haering B., Nuove armi per la pace. Ciò che i cristiani possono fare, Ed. Paoline, Roma, 1984. Mattai G., " Pace ", in: Nuovo Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 627-637. Milanesi G. (a cura di), I giovani e la pace, LAS, Roma, 1986. Roveda P., Per educare alla pace, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1982.

A. Moreno Rejón

Padre nostro. (inizio)

La tradizione cristiana ha sempre ritenuto il Padre nostro la preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli affiché si rivolgessero comunitariamente al Padre (Mt 6,9-13; Lc 11,2-4). Da un punto di vista critico, si pensa che si tratti di un adattamento cristiano del famoso qaddisl ebraico che le comunità primitive  tutte quelle di origine aramaica  condividevano nella celebrazione delle loro agapi fraterne (= eucaristie). Però, questa preghiera cristiana ha qualcosa che la tradizione ebraica non ha mai potuto immaginare: chiamare Dio col nome di Padre! Questa sembrava una cosa talmente audace che, nel momento di recitare questa preghiera, quelli che non erano ancora battezzati uscivano dalla sala. Solo i membri della comunità avevano il privilegio di condividere quella filiazione divina che Gesù era venuto a portare loro (Gal 4,3-4).

Il Padre nostro contiene sette domande. Le prime tre, di carattere escatologico, pregano il Padre per l'instaurarsi definitivo del suo Regno, qui in terra, già avviato, dal momento che la comunità cristiana condivide a livello di vita l'annuncio di Gesù. Le altre quattro domande sono suppliche in cui si chiede aiuto al Padre per le necessità materiali, per superare le difficoltà della vita e per essere preservati dalle insidie del Maligno. Certamente la grande domanda del Padre nostro è quella che osa chiedere a Dio che ci perdoni le offese che gli abbiamo recato come noi perdoniamo a quelli che hanno offeso noi. Pertanto, se il cristiano non concede il suo perdono agli altri, non può neanche sperare che Dio perdoni a lui.

Il contenuto del Padre nostro è chiaramente comunitario. È la grande supplica che l'assemblea cristiana osa rivolgere a Dio per chiedere il suo aiuto e la sua protezione per affrontare i problemi che la vita stessa continua a porre. Nella storia del cristianesimo, questa preghiera è stata trasformata in una specie di porta-fortuna dotata di forza per fermare l'ira di Dio. I cristiani recitano forse troppi padre nostri senza preoccuparsi di approfondirne il sublime contenuto. Se lo facessero, vedrebbero che si tratta di una preghiera comunitaria che va recitata solo se si è disposti a praticare quanto si espone in questa preghiera.

Bibl. - Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2759-2865. Jeremias J., Teologia del Nuovo Testamento, I, Brescia, 1971, pp. 222-223. Maggioni B., Il racconto di Matteo, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 84-90. Rouiller G. - Varone C., Il vangelo secondo Luca, Ed. Cittadella, Assisi, 1983, pp. 366-371. Schürman H., Il Padre nostro alla luce della predicazione di Gesù, Roma, 1967.

A. Salas

Padrino. (inizio)

La scela di padrini sorse nella Chiesa prima del catecumenato. I padrini e le madrine apparvero spontaneamente senza che il loro compito fosse ancora precisato. Tutti i cristiani della comunità si sentivano responsabili in forza della maternità della Chiesa. Col tramonto del catecumenato, tramontò anche la figura dei padrini. Questa, a partire dal secolo VI, assunse un carattere individuale e giuridico, con evidente perdita del suo senso ecclesiale.

I padrini e le madrine di battesimo che vengono scelti oggi, o perché sono parenti, o per rapporti sociali, o per prestigio sociale, sono di fatto una semplice finzione. In realtà, i padrini dei bambini sorsero come sostituti dei genitori quando questi bambini erano rimasti orfani o quando i genitori non curavano la loro educazione cristiana. Questo fatto eccezionale e giustificato divenne poi una norma generale. Il nuovo rituale del battesimo per i bambini sottolinea il compito insostituibile dei genitori. L'iniziazione cristiana, afferma il decreto Ad Gentes, " non deve essere soltanto opera dei catechisti o dei sacerdoti, ma di tutta la comunità dei fedeli, e soprattutto dei padrini, sicché i catecumeni avvertano immediatamente di appartenere al Popolo di Dio " (AG 14).

Il fare da padrini è una funzione personale esercitata dalla comunità cristiana e dai fedeli per realizzare un triplice compito: rendere testimonianza al candidato nel suo processo di conversione; garantire il suo eventuale ingresso nella comunità; aiutarlo nella sua crescita cristiana. La dimensione comunitaria del compito del padrino non sopprime la sua dimensione personale. Il padrino e la madrina aiutano il loro figlioccio a maturare nel suo itinerario cristiano.

Bibl. - CIC cann. 872-874; 774 § 2.

C. Floristán

Paganesimo. (inizio)

Verso la fine del secolo II, e probabilmente in Italia, i cristiani cominciarono a chiamare l'antico culto greco-romano (che prevaleva negli ambienti rurali) col nome di " religione dei campagnoli " (religio paganorum). Da qui, proviene il nome di paganesimo che fu ben presto generalizzato. Già l'AT, per designare i non Ebrei, usava il nome colettivo di goyim, badando soprattutto alla differenze religiosa più che a quella etnica o nazionale. In modo simile, nel NT, la parola gentiles indica i non Ebrei e i non cristiani. Quando la diffusione del cristianesimo ridusse i seguaci delle religioni " gentili " quasi esclusivamente agli abitanti dei villaggi (pagus), i cristiani sostituirono il nome di " gentili " con quello di " pagani ".

Dunque, " paganesimo ", in senso generale, significa ogni sistema religioso differente dal cristianesimo. Sono esclusi da questa denominazione l'ebraismo e l'islamismo (le religioni abramiche, provenienti da una rivelazione che inizialmente fu comune).

Il paganesimo comprende pertanto tutte le religioni politeiste, panteiste e perfino quelle monoteiste non ebraiche e non cristiane (Zaratustra).

Il paganesimo già specificamente greco-romano, con cui il cristianesimo venne a contatto, offriva tutti i caratteri delle mitologie politeiste. Concepiva gli dèi come " immortali ", ma soggetti a passioni umane. Abitavano l'Olimpo, ma prendevano parte alle lotte di questa terra con lo stesso interesse dei mortali di quaggiù. La capacità di assimilazione che aveva questo tipo di mitologia gli permise di accettare con facilità dèi eterogenei con le loro tradizioni (culti orientali). Il paganesimo greco-romano era una religione eminentemente rituale, priva di una teologia capace di fondare una certa ortodossia, o almeno una certa concezione del divino. La sua storia manifesta l'estrema mobilità e fluidità dei suoi simboli. Come in tutte le religioni, tra la fede popolare e quella delle menti colte, vi fu sempre una distanza notevole, accresciuta nel mondo greco dalle idee filosofiche, e nell'aristocratico impero romano, dalla profonda separazione degli strati sociali.

Gli dèi del pànteon romano furono, a loro volta, stabiliti dall'impero su un sostrato previo di vecchie divinità indigene, italiche, celtiche e iberiche. Esse furono eclissate dagli dèi della potenza dominatrice  può darsi che siano sopravvissute, ma sfigurate ; rimasero comunque nella religiosità della gente umile e nelle tradizioni campestri.

Su questi strati religiosi, si sviluppò il cristianesimo come religione ufficiale dell'impero romano. I culti orientali furono quelli che opposero la maggiore resistenza negli ultimi tempi del paganesimo classico. Le disposizioni legali di Costantino e dei suoi successori esercitarono un influsso decisivo sulla sorte di questo paganesimo greco-romano.

Oggi, il termine neo-paganesimo appare talvolta nel linguaggio religioso cristiano. Esso può indicare atteggiamenti esistenziali che, almeno nella loro implicita scala di valori, non riconoscono la supremazia di un ultimo valore religioso. Il termine può anche alludere ai tentativi di formulare un tipo di umanesimo che si dichiara " religioso " in quanto attribuisce un valore quasi numinoso a certi elementi dell'esistenza terrena (la libertà, l'estetica, la vita stessa). Però, è " politeista ", perché ritiene che questi valori non si possano ridurre ad una scala unitaria: possono unicamente essere validi come momenti staccati e alle volte contraddittori. Sarebbe dunque un umanesimo " religioso " come protesta di fronte ad uno scientismo; contemporaneo, con una specie di religiosità spontanea, svincolata da dogmi e da moralismo, atea rispetto al dio del monoteismo. Nel monoteismo, come ordinamento di tutti i valori dell'esistenza sotto un principio unitario, questa concezione culturale vede la chiave di tutte le tendenze fanatiche e la matrice storica dei totalitarismi. Questa interpretazione " frammentaria " della vita, anche senza essere formulata esplicitamente, è diffusa in vasi settori di giovani e costituisce una delle sfide più gravi dell'attuale compito pastorale.

Bibl. - Berger P.L., Il brusìo degli angeli, Ed. Il Mulino, Bologna, 1969. Dhamony M., Fenomenologia storica della religione, in: Cantone C. (a cura di), Le scienze della religione oggi, LAS, Roma, , pp. 13-87. Eliade M., Trattato di storia delle religioni, Torino, 1966. Ferrarotti F. - Cipriani R., Sociologia del fenomeno religioso, Ed. Bulzoni, Roma, 1974. Grumelli A., Problematica pastorale, Ed. AVE, Roma, 1966.

J. Martínez Cortés

Papa. (inizio)

Il titolo di Papa è quello che usa il popolo cristiano per indicare il vescovo di Roma in quanto primate della Chiesa Cattolica. È frequente anche quello di vicario di Cristo. Entrambi i titoli sono relativamente recenti per designare il papa: infatti, nel primo millennio, non venivano usati nei suoi riguardi, ma erano applicati a vescovi, sacerdoti e abati. Nel secondo millennio, invece, si impongono come titoli propri del Papa nel contesto di un'ecclesiologia più giuridica e dopo la separazione delle Chiese Orientali. Nella tradizione più antica della Chiesa, che dura per tutto il primo millennio, il titolo proprio del Papa è quello di vicario o successore di Pietro, che rispecchia meglio il significato e le radici bibliche del primato del Papa.

Oggi, c'è una convergenza sempre maggiore nel mettere in risalto il " ministero petrino " del Nuovo Testamento come una funzione di unità; esso serve alla comunione della Chiesa e a superare i conflitti tra la corrente giudaizzante del cristianesimo e i gruppi ellenisti più radicali. La figura di Pietro cresce progressivamente nel NT come quella di un apostolo universale, riconosciuto da tutti i settori cristiani, e che gode di un grande prestigio tanto per la sua " leadership " nella comunità dei discepoli quanto per essere stato il primo testimone della risurrezione. Questo ministero petrino è visto come qualcosa di voluto da Dio, che ha la sua origine nella stessa attività di Gesù e nel suo progetto del Regno.

Cresce anche il consenso circa il suo martirio avvenuto a Roma, anche se non è stato il primo vescovo di Roma, ma un apostolo universale. Il suo significato si estende nell'epoca patristica a tutti i vescovi e a tutte le Chiese che partecipano del suo ministero petrino (tradizione cipriana e agostiniana). Nella Chiesa antica, cresce il significato della Chiesa di Roma per la sua duplice tradizione apostolica- martiriale, per la sua influenza dottrinale e disciplinare garantita dalla sua ortodossia, per la sua apertura alle altre Chiese in un servizio fraterno e per il fatto indiscutibile di essere la capitale dell'impero ed il centro degli interscambi cristiani con tutte le Chiese delle provincie. Durante i primi tre secoli, viene sottolineata l'attività episcopale del Papa come vescovo di Roma. A partire dal secolo III, aumentano le sue competenze ed i suoi interventi nelle Chiese d'Occidente (fino a riconoscerlo come Patriarca dell'Occidente) e già col secolo III sta crescendo la coscienza papale di un nesso speciale tra il ministero petrino e la Chiesa di Roma, rappresentata dal suo vescovo, nel contesto della successione apostolica di tutta la Chiesa. Il secolo IV è quello dello sviluppo esplicito di una teologia del primato e quello di un nesso diretto tra Pietro ed il vescovo di Roma per i papi della fine di questo secolo. Già in quest'epoca, comincia una valutazione diversa delle Chiese orientali e di quelle latine circa la sua funzione: le prime gli riconoscono un primato di onore tra uguali (primato nella comunione fraterna), anche se di fatto accettano alcuni suoi interventi giuridici su certi punti che riguardano le Chiese orientali. Da parte di Roma, si esige di potere intervenire nelle faccende importanti delle altre Chiese in quello che riguarda l'unità universale (" le cause maggiori "), come anche il diritto di veto rispetto ai concili e la competenza come tribunale di appello per tutta la Chiesa. Si accetta, invece, l'autonomia delle Chiese nella loro vita interna.

Questa è la concezione che fondamentalmente rimane nel primo millennio. Nel secondo millennio, invece, avviene la rottura (scomunica) tra le Chiese orientali e quella latina, mentre c'è una grande espansione del ministero papale. Esso si trasforma in movente della riforma della Chiesa (a partire dalla riforma gregoriana) e questo porta all'espandersi delle sue funzioni, al formarsi di una monarchia papale centralizzatrice, alla romanizzazione dell'Occidente nella sua liturgia, disciplina e legislazione, ad un crescente intervento del Papa nelle faccende delle altre Chiese che perdono la loro autonomia rispetto a Roma. In questo contesto, va compreso il modello attuale del papato, la formazione di una Curia con varie Congregazioni, la politica di legati e nunzi, la nomina papale dei vescovi delle altre Chiese, ecc. La Controriforma potenzia questo sviluppo, anche se persiste una coscienza episcopalista che conserva le tradizioni di autonomia del primo millennio. Il Concilio Vaticano I mette il cappello a questo processo col definire il suo primato universale nella Chiesa e l'infallibilità pontificia. Col secolo XIX, cresce la monarchia pontificia e cala l'autonomia dei vescovi delle altre Chiese. Un nuovo capitolo viene inaugurato col Concilio Vaticano II. Esso cerca di ricollocare il primato papale in un contesto di ecclesiologia di comunione, nella collegialità dei vescovi.

Il Vaticano II cerca anche di procedere ad una decentralizzazione e ad una riforma del governo centrale della Chiesa (Paolo VI), come anche ad una internazionalizzazione ed inculturazione che rompa con l'uniformismo romano.

Oggi, c'è una maggiore disponibilità delle altre Chiese per riconoscere il primato romano come servizio verso l'unità universale. Si chiede, però, un ritorno alle tradizioni del primo millennio e ad una limitazione volontaria dell'esercizio della sua autorità da parte del vescovo di Roma, dando una maggiore autonomia alle altre Chiese, applicando il principio di sussidiarietà e potenziando il suo compito come vescovo di Roma (cosa che fu sottolineata da Paolo VI nella riforma delle norme per l'elezione del Papa). Si cerca di differenziare le tre funzioni di vescovo, patriarca e primate, superando l'identificazione e l'equiparazione del secondo millennio.

Bibl. - Fedalto G., San Pietro e la sua Chiesa tra i Padri d'Oriente e d'Occidente dei primi secoli, Roma, 1976. Forte B., La Chiesa della Trinità, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995, pp. 254-276. Sartori L. (cur.), Papato e istanze ecumeniche, Bologna, 1984. Scheffczyk L., Il ministero di Pietro, Ed. Marietti, Torino, 1975. Tillard J.M.R., Il vescovo di Roma, Ed. Queriniana, Brescia, 1985.

J.A. Estrada

Parabola. (inizio)

La parabola (in greco: parabolè = paragone) è un insegnamento usato dagli antichi maestri che ricorrevano ad immagini tolte dalla vita ordinaria. I rabbini abbondavano in questo metodo didattico (masal), e certe volte il loro uditorio stentava a cogliere le loro disquisizioni teoriche. La tradizione evangelica afferma che anche Gesù fece uso di parabole per diffondere il suo messaggio. Ora, la critica ricorda che le parabole evangeliche, come le conosciamo oggi, non conservano tanto l'impronta socio-religiosa in cui si suppone che le abbia formulate Gesù, quanto quella delle comunità cristiane per le quali gli evangelisti scrissero i vangeli. Così, dunque, ogni parabola ha un'impronta vitale (" Sitz im Leben ") di stampo greco. Solo trasformandola in un modulo aramaico, sarà possibile farla accordare col messaggio genuino di Gesù. A questo lavoro si dedica la critica odierna.

Esistono varie categorie di parabole evangeliche. Si possono distinguere in questo modo:

a) le parabole del Regno: si radicano in qualche aspetto concreto del regno messianico-escatologico, che, dopo essere stato annunciato dai profeti, è diventato per Gesù l'asse di tutto il suo messaggio (Mt 13,44-46; 18,12-14; 21,33-43; 22,1-13...).

b) Le parabole di crisi: si dànno soluzioni per i problemi che riguardano la comunità cristiana, ispirandosi a scene della vita ordinaria che Gesù trasforma in grido di denuncia o di ammonimento (Mt 13,33-37; 24, 43-51, 25, 1-13).

c) Le parabole di realizzazione personale: la tesi della crescita serve per segnare un cammino a quei cristiani che desiderano, superando il formalismo legalista, sfruttare i loro valori personali per meritare il premio che Gesù riserva a coloro che gli rimangono fedeli (Mt 4,3-8.26-32; 13,47-48...).

Per cogliere gli insegnamenti delle parabole, conviene tenere presente che ognuna contiene un unico messaggio che va desunto dal suo complesso. Chi cerca di ricavare applicazioni concrete da ogni particolare si ispira alla propria fantasia, perché la parabola evangelica va vista come un tutto armonico e coerente.

Bibl. - Dodd C.H., Le parabole del Regno, Ed. Paideia, Brescia, 1970. Dupont J., Il metodo parabolico di Gesù, Ed. Paideia, Brescia, 1978. Fusco V., " ParabolaParabole ", in: Nuovo Dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1081-1097. Jeremias J., Le parabole di Gesù, Ed. Paideia, Brescia, . Lambrecht J., Parabole di Gesù, Ed. dehoniane, Bologna, 1982.

A. Salas

Parola. (inizio)

La parola umana è uno dei costitutivi fondamentali della relazione inter-personale, purchè si parli la stessa lingua. Nel dialogo, le persone si influenzano nell'atto della loro comunicazione verbale, tanto da parte di chi parla, quanto da parte di chi ascolta. Evidentemente, la parola primaria è quella orale. Però, oltre ad essere parlata, può anche essere scritta, con l'obiettivo di varcare lo spazio ed il tempo. Nasce così la scrittura, parola cristalizzata, finché non è letta da qualcuno. Senza lettori, qualsiasi libro è un documento morto. Quando, invece, viene letto, la parola riacquista vita. In ultima analisi, la capacità umana radicale di parlare viene attualizzata in varie lingue, nell'uso dei singoli, e in un'opera scritta. Mediante segni semplici e schematici, la scrittura registra il linguaggio parlato e la parola sonora. " La scrittura è un sistema di simboli di terzo grado  parola interiore, sonorizzazione, annotazione grafica . La sua funzione primaria è quella di conservare la parola " (L. Alonso Schökel).

Ricordiamo che esistono tre grandi religioni del libro: l'ebraismo, il cristianesimo, l'islamismo. Tutte e tre, infatti, ritengono centrale un libro sacro. Per questo motivo, la trasmissione della parola rivelata è una caratteristica di queste religioni. È comune anche l'esistenza di trasmettitori della parola divina: i profeti che parlano a nome di Dio per denunciare i disordini ed esigere un cambiamento radicale o conversione. Mediante il profeta, Dio esprime la sua volontà. In senso stretto, il cristianesimo è di fatto la Chiesa della parola ispirata. La parola di Dio non si riduce ad un libro. Anzi, la Scrittura si trasforma in parola di Dio per gli uomini in ogni situazione ed in ogni luogo.

Bibl. - Barr J., Semantica del linguaggio biblico, Ed. Il Mulino, Bologna, 1968. Corsani B., " Parola ", in: Nuovo Dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1097-1114. Schökel L.A., La parola ispirata, Ed. Paideia, Brescia, 1967.

C. Floristán

Parola di Dio. (inizio)

Siccome ogni parola è espressione di un desiderio o di un sentimento, la parola di Dio fa conoscere, nella rivelazione veterotestamentaria, i disegni divini verso il popolo di Dio mediante i profeti od altre persone qualificate di fronte alla divinità. È certo che Dio non ha bocca, e quindi non può articolare parole concrete. Queste sono, tuttavia, riflesse nel creato (Sal 33,9) e nella conservazione della natura (Sal 147,15-18), come anche nella provvidenza manifestata da Dio verso il popolo e verso quelli che ne fanno parte (Is 48,13; 50,2; Sap 16,12). La parola di Dio è eterna, santa, provvidente, irrevocabile.

Come molti altri popoli dell'antico Oriente, gli Israeliti consideravano la parola di Dio come una realtà separata e indipendente da Lui (Is 9,7; Sal 147,15-18). Quasi tutti i testi dell'AT presentano la parola come un oggetto concreto, dinamico e potente, il cui intervento nel mondo è interamente nelle mani di JHWH. I rabbini alludono molto spesso alla parola (memrà) per parlare del disegno di Dio e frequentemente intendono con ciò significare il nome stesso di JHWH.

Nel NT, il concetto acquista un significato completamente nuovo, in quanto viene associato con l'annuncio di Gesù (Lc 5,1; 8,11.21), il quale trasmette i disegni di Dio, anche se parla sempre per autorità propria (Mt 15,22-39). Si arriva perfino a identificare Gesù con la parola di Dio incarnata (Gv 1,1-18), perché l'umanità gode già del privilegio di ascoltare la parola di Dio non solo mediante articolazioni concrete proferite da qualche messaggero qualificato, ma mediante la propria divinità abbassatasi nella piccolezza di un essere umano chiamato Gesù. Questa è l'essenza del mistero dell'incarnazione formulato dalla tradizione cristiana con tanto zelo ed impegno. Qui, infatti, sta la forma più espressiva per indicare l'azione di Dio a favore degli uomini bramosi di essere liberati dal giogo del peccato. Occorre per questo una spinta così forte che non bastano le parole divine articolate in forma umana. È necessario che Dio pronunci una parola così esplosiva che questa si faccia un essere umano, incarnandosi in Gesù di Nazaret che noi accettiamo come Figlio di Dio.

Bibl. - Kasper W., Il dogma sotto la parola di Dio, Ed. Queriniana, Brescia, 1968. Schlier H., La parola di Dio, Roma, 1963. Vergès S. - Dalmau J.M., Dio rivelato in Cristo, Ed. Paoline, Roma, 1972.

A. Salas

Parrocchia. (inizio)

Le parrocchie sono le divisioni amministrative, giuridiche e pastorali di ogni Chiesa locale o particolare. La Chiesa locale, retta dal vescovo col collegio presbiterale e coi diaconi, costituisce un'entità singolare. In ognuna, viene attualizzata tutta la Chiesa cattolica, in quanto in essa ci sono le strutture costitutive fondamentali: il canone delle scritture, la pienezza della struttura sacramentale e della successione apostolica ministeriale. Questo non si verifica con le parrocchie che nacquero con l'espansione missionaria della Chiesa nei piccoli abitati che circondavano le città (parrocchie rurali) e che poi si estero alla città di fronte alla crescita della popolazione. Di fronte alle necessità pastorali di queste comunità e l'impossibilità che il vescovo col suo presbiterio potesse accudirle, fu affidata ad alcuni presbiteri la cura di questi gruppi di fedeli (" la cura delle anime " di una parrocchia) all'interno dell'unica chiesa locale.

Oggi, le parrocchie hanno molti problemi pastorali. Ci si interroga sulla mancanza di coscienza comunitaria che si riscontra in esse e sulla necessità di promuoverle come una comunità di comunità. È questa una delle cause del movimento di comunità di base che intendono dar loro vita, specialmente in America Latina. Si sente anche la necessità di trasformarle, di avviarle sulla dinamica missionaria come piattaforma di evangelizzazione. Molte parrocchie conservano una pastorale tradizionale e alle volte tendono a ridursi ad istituzioni di servizi religiosi e all'amministrazione dei sacramenti. Con questo, perdono il loro carattere ecclesiale di comunità vive. Ciò è anche dovuto allo scarso protagonismo dei laici e al clericalismo che sussiste ancora in queste parrocchie. Il rinnovamento ecclesiale dipende in gran parte dalla trasformazione delle parrocchie, e questa è una grande sfida per il futuro.

Bibl. - Bo V., Parrocchia tra passato e futuro, Ed. Cittadella, Assisi, 1977. Bonicelli C., La parrocchia, Ed. dehoniane, Bologna, 1987. Mazzoleni A., L'evangelizzazione nella comunità parrocchiale, Ed. Paoline, Alba, 1975. Scabini P., " Parrocchia ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 654-667.

J.A. Estrada

Parroco. (inizio)

Il termine parroco, della stessa radice etimologica di parrocchia, significa nella Bibbia " straniero residente ", o immigrato, che gode di uno statuto giuridico assimilato a quello degli Ebrei. Questo nome è stato applicato al presbitero responsabile della parrocchia, istituita nel dividere una diocesi. Ricordiamo che, fino al termine del secolo III e agli inizi del secolo IV, quando venivano moltiplicandosi nel mondo rurale le comunità cristiane, il vescovo assumeva col suo presbiterio l'azione pastorale di tutta la città. I presbiteri celebravano l'Eucaristia in " chiese particolari " o comunità funzionali in cui si riunivano i fedeli senza tener conto del luogo della loro residenza. Questi presbiteri, come ausiliari e collaboratori del vescovo, furono i primi parroci. Nei primi scritti ecclesiastici, il parroco era identificato col presbitero o pastore. A partire dal secolo XV, il parroco è il sacerdote incaricato della parrocchia. Col passare del tempo, il rapporto pastorale dei parroci coi vescovi è cambiato molto. Da ausiliare e delegato del vescovo, il parroco venne ad avere, secondo l'antico codice, potestà pastorale e propria ", ma sempre " sotto l'autorità del vescovo ". Il Concilio Vaticano II afferma: " I principali collaboratori dei vescovo sono i parroci, ai quali, come a pastori propri, è commessa la cura delle anime, in una determinata parte della diocesi, sotto l'autorità dello stesso Vescovo " (CD 30). Hanno l'ufficio di insegnare, santificare e governare. " Per quanto riguarda il ministero di insegnare, i parroci devono predicare la parola di Dio a tutti i fedeli... Nel campo del ministero della santificazione, i parroci abbiano cura che la santa Messa diventi il centro ed il culmine di tutta la vita della comunità cristiana... Nel compiere il loro dovere di pastori, i parroci si studino di conoscere il loro gregge. E poiché sono i servitori di tutti i fedeli, si adoperino di sviluppare la vita cristiana " (CD 30).

Il Nuovo codice di Diritto Canonico descrive così il parroco:

" Il parroco è il pastore proprio della parrocchia affidatagli, esercitando la cura pastorale di quella comunità sotto l'autorità del Vescovo diocesano, con il quale è chiamato a partecipare al ministero di Cristo, per compiere al servizio della comunità le funzioni di insegnare, santificare e governare, anche con la collaborazione di altri presbiteri o diaconi e con l'apporto dei fedeli laici, a norma del diritto " (CIC c. 519).

Bibl. - Aa.Vv., Il prete. Tra pastorale, rubriche e vita cristiana, Ed. Paoline, Vita Pastorale, 1995. Cappellini E. - Coccopalmerio F., Temi pastorali del Nuovo Codice, Brescia, 1984. Ruppi C., La parrocchia comunità di fratelli a servizio dell'uomo, Termoli, 1984.

C. Floristán

Pasqua. (inizio)

Il mistero pasquale è il centro del cristianesimo, della Chiesa, dell'attività pastorale e della vita spirituale dei cristiani. Secondo il NT, la fede cristiana è la fede nella morte e risurrezione del Signore, o Pasqua di Cristo. Il battesimo è perciò sacramento della fede o della Pasqua; l'Eucaristia è il memoriale pasquale.

La parola greca pascha (in italiano: pasqua) è la traduzione dell'aramaico phasha e dell'ebraico pesah che significano: " passaggio ", o " transito " (fase). San Giovanni scrive nel suo vangelo: " Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre " (Gv 13,1). Non deriva dal verbo pàskein, che significa: " patire ". D'altra parte, il passaggio pasquale non è un cambiare di luogo, ma è la trasformazione dell'esistenza. Vuol dire: esistere in un modo nuovo. La parola Pasqua è anche il nome della festa più antica di Israele. Dalla fine del secolo II, è anche la festa più importante della Chiesa. La domenica, fin dalle origini cristiane, fu la festa pasquale settimanale.

Il Concilio Vaticano II ha rivalorizzato il senso pasquale del cristianesimo: " Quest'opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio... è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata Passione, Risurrezione da morte e gloriosa Ascensione " (SC 5).

La festa di Pasqua ha un'origine campestre. Mentre per i contadini l'inizio dell'anno era in autunno, per i nomadi era invece la primavera. In primavera, fioriva il deserto e le pecore partorivano. La notte pasquale ha le sue origini nel plenilunio della primavera, tempo in cui i pastori si accomiatavano con un pasto (agnello, erbe amare, pane azzimo), per cambiare posto nei pascoli (coi lombi cinti, sandali e bastone). Secondo una tradizione ebraica, la Pasqua era anche l'anniversario della creazione. Con l'uscita dall'Egitto, la festa si trasformò in memoriale della liberazione, cioè, l'uscita verso la libertà, la fine dell'antica esistenza e il dono di una vita nuova. Celebrata dalle tribù nei luoghi della loro residenza, la Pasqua si restrinse piu tardi a Gerusalemme e nel Tempio, divenendo festa di pellegrinaggio. Ai tempi di Gesù, la Pasqua era la festa più importante per gli Ebrei.

Il rito fondamentale della Pasqua era la cena in famiglia o in gruppo, a base di agnello (segno della compassione di Dio), pane azzimo (la miseria subìta), erbe amare (schiavitù), e salsa rossa (lavori forzati in Egitto). Si commemorava la liberazione dalla schiavitù d'Egitto, la gioia per la libertà acquistata, l'attesa della venuta del Messia salvatore. Le moltitudini si riunivano in Gerusalemme. I padri di famiglia portavano al tempio un agnello che veniva sgozzato nella parasceve (preparazione) da un sacerdote. Era la notte della ribellione o dei lunghi coltelli o spade.

Il vangelo di Giovanni accenna a tre pasque di Cristo: quella che coincise con l'espulsione dei venditori (Gv 2,12-22), quella in cui svolse il tema del pane (Gv 6) e quella dell'accoglienza trionfale di Gesù che coincise col giorno in cui si accoglievano gli agnelli pasquali (Gv 12). Giovanni intende dire con questo che Gesù è il vero " agnello di Dio, Colui che toglie il peccato del mondo " (Gv 1,29). La parola " Pasqua ", nel NT, equivale alla festa di Pasqua o degli azzimi, alla cena pasquale e all'agnello pasquale. La passione di Gesù si svolse in un contesto pasquale, poiché in questo periodo ebbe luogo l'ultima cena di Gesù, la sua cattura, il suo processo e la sua condanna. Secondo i Sinottici, Gesù fu condannato nella notte di Pasqua e crocifisso il giorno dopo. L'ultima cena di Gesù fu pasquale (Mc 14,12-26 e par.). Invece, secondo san Giovanni, tutti questi avvenimenti si verificarono ventiquattro ore prima (Gv 18,28; 19,14), e Gesù morì proprio mentre si sgozzavano gli agnelli pasquali, la sera del 14 di Nisan. I Sinottici mettono in risalto che l'ultima cena è la nuova Pasqua. Giovanni sottolinea che Gesù è il nuovo Agnello pasquale.

Oggi, si ritiene che l'ultima Cena di Gesù fu un banchetto, coi gesti del rituale ebraico del pasto, cioè, la " benedizione " del pane e il " rendimento di grazie " sul vino dopo aver cenato. I racconti dell'Eucaristia omettono la descrizione del rituale ebraico e sottolineano questi due gesti. Fu anche la cena d'addio di Gesù prima di essere consegnato a morte. Tutti i pasti di Gesù erano una " buona novella " che rendevano già presente, anche se non in pienezza, il banchetto escatologico del Regno di Dio. Gesù mangiò coi poveri, riconciliò a mensa vari peccatori, cenò ogni giorno coi suoi discepoli. L'ultima Cena assunse una dimensione speciale. I quattro racconti dell'istituzione sono adattamenti liturgici delle parole e delle azioni di Gesù nell'ultima Cena. In realtà, non narrano tanto quello che Gesù ha fatto quanto piuttosto come lo celebravano i primi cristiani e l'importanza che l'Eucaristia aveva per loro. I quattro racconti coincidono nell'indicare quello che Gesù fece, e differiscono nel precisare quello che disse. Gesù si identifica con il pane (corpo) e col vino (sangue). Secondo l'antropologia semita, l'uomo è " carne "; il sangue era per gli Ebrei la " sostanza della vita ". Il termine " corpo ", in contrapposizione a " spirito ", è usato per riferirsi a tutta la persona. È in connessione col pane; il sangue indica la morte violenta.

I due gesti ebraici di Gesù nell'ultima Cena pasquale manifestano l'aspetto eucaristico della Pasqua cristiana. C'è una benedizione sul pane e sul calice. Il pane ed il vino vengono offerti ai commensali e questa consegna è accompagnata da parole significative ed efficaci. Uno di questi gesti, quello della frazione del pane, darà il nome all'Eucaristia, chiamata da Paolo " la cena del Signore " (1 Cor 11,20).

Bibl. - Cantalamessa R., La pasqua della nostra salvezza. Le tradizioni pasquali della Bibbia e della primitiva Chiesa, Ed. Marietti, Torino, 1971. Fabris R., " Pasqua ", in: Nuovo Dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1114-1122. Fuglister N., Il valore salvifico della Pasqua, Ed. Paideia, Brescia, 1976. Haag H., Pasqua. Storia e teologia della festa di Pasqua, Ed. Queriniana, Brescia, 1976. Jeremias J., Le parole dell'ultima cena, Ed. Paideia, Brescia, 1973.

C. Floristn

Pastorale dei carcerati. (inizio)

Il carcere, o prigione, è una " istituzione totale " (come l'ospedale psichiatrico) creata per assicurare la custodia di individui accusati o colpevoli di avere trasgredito il codice penale. Il carcerato, che perde la sua libertà in quanto rinchiuso, vive separato dal lavoro, dalla famiglia e dagli svaghi. Il carcere per adulti si differenzia dal riformatorio per delinquenti minorenni perché è chiuso, ha dei guardiani o carcerieri e una disciplina rigida. Il riformatorio, invece, è aperto, è sotto la responsabilità di educatori e si fonda sulla fiducia. Però, a dire il vero, nel carcere non vengono rieducati i detenuti e nel riformatorio non vengono educati i giovani delinquenti. Il carcere è difficilmente un'istituzione di trattamento per " raggiungere la rieducazione ed il reinserimento sociale dei condannati a pene e a misure penali che privano della libertà ", come afferma la " Ley orgànica " del 1979 sulle prigioni. D'altra parte, c'è un numero insufficiente di carceri e una inadeguata costruzione di alcune di esse, alle volte molto lontane dall'ambiente familiare dei detenuti. Si aggiungono poi altre difficoltà alla pena di privazione della libertà. Specialmente grave è il sovraffollamento che avviene in molte prigioni. Nella " Declaración de la Cómision Episcopal de Pastoral Social " sulle carceri, si afferma che esse " danno l'impressione di essere un ammasso di esseri spersonalizzati. La prigione distrugge i valori più ricchi della persona umana e si trasforma in un luogo di alienazione quando non è anche di violenza, di solitudine, di ozio, di incomprensione, di amoralità o addirittura di immoralità.

Questa situazione carceraria esige una risposta della Chiesa mediante una pastorale adeguata a questo settore. In primo luogo, bisogna esigere dai poteri pubblici un trattamento più giusto e più umano del problema delle carceri. In secondo luogo, la società deve contribuire, mediante istituzioni adeguate, a raggiungere quello che il potere coattivo non riesce a conseguire: l'aiuto a quelli che sono usciti di carcere, la sensibilità verso le giuste esigenze dei detenuti, la solidarietà con le vittime della delinquenza, la diffusione di un'informazione vera sulle carceri.

Ricordiamo che " la liberazione ai prigionieri " (cf Lc 4,18) fa parte del lieto messaggio, o vangelo di Gesù. Il cristiano deve avere tre atteggiamenti verso i prigionieri: perdono, fiducia e carità. Per rendere concreti questi atteggiamenti fondamentali, è necessario potenziare un adeguato volontariato cristiano per la cura dei prigionieri. Esso deve essere formato da professionisti vicini al mondo carcerario, da assistenti sociali, da visitatori dei prigionieri, ecc., che aiutino nei loro compiti i cappellani e quei religiosi che offrono un servizio permanente in questo campo. All'interno del centro penitenziario, si deve dare importanza al servizio liturgico, all'istruzione catechetica, all'assistenza morale e spirituale. Fuori dal recinto penitenziario, vanno promosse le assistenze di tipo familiare, giuridico e post-carcerario.

Bibl. - Amato N., Diritto, delitto e carcere, Giuffrè, Milano, 1988. Cnos-Fap, Giovani a rischio, Roma, 1989. Di Gennaro G. - Bonomo M. Breda R., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, . Gozzini M., Carcere perché, carcere come. Italia 1975-87, Cultura della Pace, Firenze, 1988. Pieroni V., " Carcere ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 158-159.

C. Floristán

Pastorale degli emigranti. (inizio)

Il fenomeno dell'emigrazione comprende il trasferimento fisico di individui o gruppi da un luogo ad un altro (emigrazione o immigrazione), con assestamento relativamente duraturo e cambiamento di ambiente sociale nel sistema delle inter-azioni. Avviene per espulsione o per attrattiva; di solito, intervengono fattori di discriminazione politica o di ricerca di un livello economico superiore. Generalmente, si emigra dai paesi poveri (senza risorse, con redditi bassi, forte disoccupazione, ecc.) verso quelli sviluppati (con benessere economico, alto livello di redditi, offerta di lavoro, ecc.) per ragioni di lavoro.

Quando l'emigrazione avviene tra grandi distanze o tra due sistemi culturali molto differenti, si verificano spesso autentiche tragedie. Ci sono dei casi in cui l'unico rimedio è quello di emigrare, quando succedono disastri naturali. In altri casi, l'emigrazione può essere forzata per pressioni politiche o religiose. Ci sono anche emigrazioni libere. Comunque, il fenomeno migratorio colpisce di solito le aree sociali meno favorite, come sono gli operai non specializzati, i disoccupati e i contadini senza terra.

Un problema centrale dell'emigrazione è quello dell'integrazione degli emigrati nella nuova realtà culturale, linguistica e religiosa con la conseguente disintegrazione dei valori propri dell'emigrante. Di solito, sorgono anche altri problemi, come quello della segregazione che viene subìta nella società più sviluppata e gli innumerevoli conflitti tanto all'interno del gruppo (tensioni tra nuovi e veterani), quanto con la popolazione del luogo. Non possiamo inoltre dimenticareche cosa comporta il ritorno degli emigranti.

L'emigrazione spagnola è stata di tre tipi: quella transoceanica verso il Sud America (tra il 1900 e il 1950), quella continentale, verso il Centro Europa (tra il 1960 e il 1980) e quella interna spagnola (tra il 1960 e il 1970) dalle provincie più povere verso i centri di sviluppo.

La pastorale degli emigranti spetta agli animatori di pastorale del popolo che emigra, poiché essa va fatta nella lingua materna. Collaborano le Chiese del paese in cui si trovano gli emigranti, con la fondazione di " missioni cattoliche " o strutture pastorali per emigranti. In un primo tempo, questa pastorale va rivolta agli adulti che rischiano di assentarsi. Occorre favorire la loro cultura religiosa e facilitare il contatto con la Chiesa locale. È fondamentale il rinnovamento della liturgia e della catechesi, adattandole alla nuova situazione. Un secondo tempo avviene con la rottura culturale tra la prima e la seconda generazione. Qui deve avvenire l'evangelizzazione dei figli nati nel nuovo paese. Questo esige una pastorale differente da quella che si era avuta con i loro genitori. Infine, la seconda e la terza generazione hanno bisogno di un'azione pastorale secondo l'acculturazione già posseduta e accettata.

Insieme alla fatica imprescindibile dei cappellani, la pastorale degli emigranti richiede l'opera di assistenti sociali, l'aiuto prestato da padri di famiglia e da vari gruppi giovanili per creare comunità cristiane vive. Purtroppo, avviene spesso nell'emigrazione una specie di " chiesa parallela ", per il problema della separazione di due culture, di cui una è quella officiale o dominante. Affinché la chiesa degli emigranti sia una chiesa particolare, ma non una chiesa parallela, credo che si debba evitare l'isolamento (il gruppo sta ai margini della cultura principale) e l'assimilazione (si rinuncia totalmente alla propria cultura). Occorre, invece, procedere mediante l'integrazione. Questa suppone un certo equilibrio, sempre difficile, tra il mantenimento della propria identità e la partecipazione nella vita della Chiesa in cui si vive.

Bibl. - Adam J., " Emigranti (C. degli) ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 241-242. Directorium " Peregrinans in terra (30.4.1969). Motu Proprio " Pastoralis Migratorum Cura " (15.8. 1969). Instructio " De Pastorali Migratorum Cura " (22.8. 1969). " Per una Pastorale dei Migranti ", Roma, 1980.

C. Floristán

Pastorale d'insieme. (inizio)

Nel 1o Congresso internazionale di Pastorale, tenutosi a Friburgo nel 1961, F. Boulard definì la pastorale d'insieme come " uno sforzo paziente per avviare liberamente, di fronte al mondo da salvare, tutti i figli della Chiesa con tutte le loro istituzioni e risorse, sotto l'autorità del vescovo, che ha la missione di coordinarli e dirigerli, e che in questo modo può esercitare il suo compito pastorale ".

La pastorale d'insieme è stata sviluppata poco prima del Concilio Vaticano II in tre tappe.

La prima tappa costatò la rottura tra la vita e la religione. La scristianizzazione che avveniva in Europa non colpiva solo i singoli, ma era anche collettiva. La parrocchia, isolata nella sua azione, si sentiva incapace di affrontare un'evangelizzazione completa. Occorreva un'azione pastorale con una dimensione sociale, ed era necessario contare su un termine minimo di tempo apostolico, che era la generazione. Nell'esortazione di Pio XII, nel 1955, ai quaresimalisti di Roma, il Papa li invitava a " guardarsi dall'individualismo ": nel lavoro apostolico, infatti, si era " troppo isolati, troppo slegati e disuniti ". La consegna del Papa per unire le forze venne un po' più tardi, dallo stesso Pio XII, quando invitò ad " un ragionevole coordinamento dei ministeri in un quadro sufficientemente ampio ".

In una seconda tappa, fu scoperta l'interiorità della pastorale d'insieme. Occorreva collocare il lavoro apostolico del sacerdote e del laico all'interno di una pastorale globale, con l'obiettivo di orientare in modo equilibrato la pastorale delle parrocchie. Fu decisivo il Congresso nazionale della " Union des _uvres " di Francia, nel 1956, il cui tema era " Pastorale, _uvre commune. In questo Congresso, si prese coscienza di dover ampliare la visione pastorale, integrare tutte le forze apostoliche, collocare la parrocchia e la vicaria dentro la zona umana e coordinare i responsabili.

Infine, in un terzo momento, fu scoperta la dimensione episcopale della pastorale, cioè, la base diocesana. Bisognava integrare tutte le forze della Chiesa e delle sue istituzioni e mettere in moto tutti i settori della pastorale. A partire dal 1959, vari vescovi francesi cominciarono a scambiarsi le loro esperienze di pastorale d'insieme. Nel 1962, per decisione dello stesso episcopato, si fondarono in Francia nuove regioni apostoliche.

Quando si riflette sul senso della pastorale d'insieme, si nota che questo senso si identifica teologicamente con quello di pastorale, e sociologicamente con quello di programmazione o progettazione. Non dimentichiamo che i primi programmatori della pastorale d'insieme sono stati dei sociologi, che mancavano alle volte di un vero concetto teologico della pastorale. Questo spiega perché si sono preoccupati p iù delle infrastrutture che delle istituzioni basilari e hanno dato più importanza alle organizzazioni pastorali che ai contenuti e agli obiettivi delle azioni ecclesiali.

Nessuno, però, afferma che la pastorale d'insieme si riduca ad una organizzazione. Si tratta, afferma Houtard, " di scoprire in comune i problemi che vengono posti dall'evangelizzazione di una regione ed i mezzi per risolverli ". Comunque, pare che non sempre sia affermato con forza sufficiente il fondamento teologico che la pastorale d'insieme deve avere.

La pastorale d'insieme non dice soltanto rapporto con la pastorale, ma è specificata propriamente col genitivo " d'insieme ". Ogni insieme, pastoralmente parlando, è in rapporto anche col fatto ecclesiale, poiché si tratta di azioni che sono coordinate, di persone responsabili che agiscono insieme, di strutture pastorali fondamentali che sono in rapporto fra di loro, di destinatari su cui si agisce in quanto formano veri insiemi. Tutti questi aspetti sono costitutivi della pastorale d'insieme.

Bibl. - Cappellaro J. - Franchini E., Le due anime della pastorale italiana, Ed. dehoniane, Bologna, 1988. Franchini E., " Pastorale in Italia ", in: Dizionario di Pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 741-750. Lanza S., " Pastorale ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 541. Riccardi A. (a cura di), Le Chiese di Pio XII, Ed. Laterza, Bari, 1986.

C. Floristán

Pastorale dei malati. (inizio)

La pastorale dei malati è il servizio cristiano della Chiesa al mondo dei malati, siano essi nelle loro case o negli ospedali, con l'intento di aiutarli, poggiando sulla fede, speranza e carità, nella lotta Der ricuperare la salute o guarigione totale, mediante il dialogo, la testimonianza, la carità, la preghiera e l'azione liturgica. Per il fatto di cercare la salute del malato, questa pastorale si chiama anche pastorale sanitaria. Di fronte alla malattia, deve sempre prevalere la ricerca della salute e della guarigione.

Questa diaconìa esige, innanzitutto, la collaborazione dei cristiani vicini al mondo del malato, specialmente degli operatori più idonei in questa pastorale: il presbitero, o cappellano, le religiose dedite ai malati, i laici che vivono e che conoscono l'ambiente sanitario e che prestano servizi nei compiti ospedalieri. Evidentemente, il centro della pastorale dei malati è il malato stesso, cioè, la persona che ordinariamente soffre il dolore o la malattia, alle volte in modo drammatico, e vuole guarire o almeno essere alleviato nei suo dolore. La pastorale dei malati si trova tra due estremi: identificarsi nientemeno che con la medicina (ridursi ad un compito temporale) o trasformarsi in magìa (ridursi ad un puro miracolismo). Non bisogna dimenticare che le frontiere della medicina e della magìa, ossia degli ambiti del medico e del sacerdote sono stati confusi molto spesso.

Come ogni azione pastorale, quella dei malati si basa sulla parola e sulla prassi del Signore, di cui un'attività fondamentale fu la guarigione degli infermi. Gesù curò le infermità e perdono i peccati Der rompere la nefasta relazione tra peccato ed infermità e per manifestare che, con la salvezza, era giunto il Regno di Dio. L'azione sanante di Gesù era in rapporto con la sua funzione profetica (Is 53,4), e Matteo applica questo passo a Gesù: "Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie " (Mt 8,17). Tra i compiti fondamentali che Gesù ha affidato ai suoi discepoli, uno fu questo: " Guarite i malati " (Lc 10,9), e questo, come segno dell'avvicinarsi del Regno di Dio. La cura dei malati comporta una lotta contro la malattia, con un amore squisito verso il malato. Nel NT, c'è già una prima pastorale dei malati (Gc 5,13-16) mediante un'azione solidale della comunità cristiana, l'atteggiamento di fede dell'infermo ed il servizio sanitario dei presbiteri mediante " la preghiera fatta con fede " (Gc 5,15) e l'unzione " con olio nel nome del Signore " (v. 14). In questo modo, il malato sarà sanato, alleviato o salvato.

L'aiuto da dare al malato proviene dal ministero della carità, non dal carisma di guarigione o di risanamento. Quello che si cerca non è il miracolo fisico, ma la salute nel senso pieno della parola, per mezzo della presenza di Cristo. A poco a poco, si è sviluppato nella Chiesa un ministero speciale degli infermi, con la preoccupazione dell'uomo tutto intero, cioè, con l'attenzione corporale e l'assistenza spirituale. Il servizio agli infermi è una diaconia ecclesiale che è una conseguenza evangelica della parola di Gesù: " Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati " (Mt 9,12), come anche: " Ero malato e mi avete visitato " (Mt 25,36).

Il malato è assente dalla comunità e d'altra parte continua ad essere legato ad essa. Egli vi partecipa per mezzo della liturgia degli infermi: penitenza, comunione, unzione e viatico. Però, la pastorale dei malati non si riduce ad una pastorale sacramentale verso i malati.

Deve sempre essere una pastorale sanante, liberante, cioè, evangelizzante mediante parole ed azioni del messaggio di speranza e di gioia cristiana. Evidentemente, l'evangelizzazione deve essere adattata al mondo dei malati, senza esercitare pressioni (con libertà religiosa), con tatto (senza dissimulazioni umilianti), con realismo (la malattia è un male), in forma personale (con attenzione squisita), e comunitaria (con l'amore efficace della comunità o del gruppo apostolico ospedaliero).

Ricordiamo, infine, che nella pastorale dei malati è stato usato troppo spesso un linguaggio dolorista, basato sulla rassegnazione. Questo linguaggio è oggi inaccettabile. Nel parlare ai malati, si cercava prima di tutto di fare accettare la malattia e di offrire a Dio le sofferenze Der espiare le proprie colpe ed i peccati pubblici. La malattia non è un castigo di Dio, ma fa parte della condizione umana. Alla luce della fede, la sofferenza è un mistero, che Gesù ha preso su di sè e vi ha dato un valore redentore, anche se non lo ha svelato interamente. Per questo motivo, il dolore ha un significato salvifico nel mistero totale della salvezza. L'infermità è un'occasione privilegiata, anche se sconcertante, di comunione con Cristo.

Bibl. - Aa.Vv., L'operatore pastorale nel mondo della salute oggi. Alla ricerca di una nuova identità, Ed. Salcom, Brezzo di Bedero, 1981. Alberton M., Solitudine e presenza. Incontro con il malato, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1979. Conferenza Episcopale Italiana, Evangelizzazione e sacramenti della Penitenza e dell'Unzione degli infermi, 12.7.1974. Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica " Salvifici doloris ", 11.2.1984. Spinsanti S., L'etica cristiana della malattia, Ed. Paoline, Roma, 1971.

C. Floristán

Pastorale dei militari. (inizio)

Si tratta dell'attività pastorale svolta tra i militari e professionisti delle forze armate. Si chiama anche apostolato castrense (dal latino: castra: accampameto militare). Il termine fu forgiato nel 1944. Negli Accordi tra la Santa Sede e lo Stato Spagnolo del 3 Gennaio 1979, si parla di " assistenza religiosa alle forze armate ".

I militari costituiscono in ogni nazione un gruppo sociale importante rispetto alla pace, alla guerra, alla sicurezza e ai rapporti internazionali. Il passaggio moderno da una società militare ed autoritaria ad una società industriale e democratica ha portato l'esercito ad essere subordinato al potere politico dei civili. E' oggi inammissibile l'intervento dei militari nel campo della politica. Di qui, si deduce una serie di valori propri dei militari, come la loro neutralità politica, la fedeltà al governo eletto democraticamente dal popolo, la sottomissione all'autorità legittima, ecc. Si può parlare propriamente di un'etica militare. Però, si intendono spesso i valori militari partendo dall'archetipo dell'eroe (valore, sacrificio, lealtà, generosità, austerità, ecc.). Perciò si colgono in questo modo certe virtù differenti dagli ambienti civili.

Nella composizione dell'esercito, si trova un corpo professionale di ufficiali ed una truppa formata da soldati che appartengono alla popolazione e che sono obbligati a servire nell'esercito per un determinato periodo. In certi momenti, possono scontrarsi due mentalità che corrispondono a due modi differenti di vedere la vita. Ricordiamo che l'ideologia militare tradizionale poggia fondamentalmente sulle idee di patria, ordine e autorità, che in molti casi rappresentano le tendenze conservatrici.

Infine, i militari, sia pure non tutti, possono avere un senso militarista, essere, cioè, portati ad esaltare l'autorità, la disciplina, l'ordine, l'obbedienza, il prestigio, l'onore, ecc.

L'apostolato tra i militari abbraccia tutto ciò che riguarda l'ambiente militare, dal soldato semplice al generale, compresi gli allievi delle Accademie dell'esercito e i familiari che vivono assieme ai militari. Per le caratteristiche di questo importante gruppo umano, l'azione pastorale deve basarsi sulla comunità cristiana funzionale e sui gruppi apostolici di tipo evangelizzatore. Non tutto il lavoro deve cadere sui cappellani, né questa pastorale va ridotta ad un puro servizio sacramentale. Un'attenzione speciale va data alla catechesi degli adulti e al catecumenato, soprattutto con le reclute, coi soldati, con gli allievi e coi giovani ufficiali. I cappellani militari, secondo gli Accordi del 1979, esercitano il loro ministero sotto la giurisdizione del Vescovo castrense, chiamato anche " Ordinario militare ". L'apostolato verso l'esercito va compiuto all'interno dell'Ordinariato militare, inteso come una diocesi di persone, non di territorio.

C. Floristán

Pastorale del mondo rurale. (inizio)

L'aggettivo rurale, applicato al sostantivo pastorale o all'azione pastorale, proviene dalla parola latina rus, che significa: campagna. La pastorale del mondo rurale è rivolta dunque alle persone che vivono in campagna o nel mondo rurale e che fanno parte dei contadini.

La campagna è intesa in un duplice senso: come qualcosa di rurale, arretrato rustico, il contrario di urbano o cittadino; o come qualcosa di idillico, equivalente a luogo che si trova in piena natura. Nel primo caso, sono contrapposti due concetti di società: quello tradizionale o contadino (agricoltura, economia domestica, religiosità e cultura popolare); quello industriale e urbano (industria, commercio, politica, scienza e cultura raffinata), sopravvalutando la città come luogo privilegiato nei sogni del contadino, e la campagna come idealizzata in anelli dei cittadini. In qualsiasi caso, si nota che il contadino è passato dall'invidia per la città alla fierezza per il suo paese.

Un tratto importante d'oggi nel mondo contadino, segnalato dai sociologi, è la scomparsa dell' "agire comunitariamente ", a causa dell'influsso sempre più grande e sempre più diffuso del comportamento urbano. Ciò nonostante, l'ambiente contadino stenta a morire, nonostante fattori tanto forti come l'emigrazione in città e all'estero (rimangono gli anziani e i bambini), la mobilità (si va e si viene con facilità), la diffusione dei mass-media (la televisione influisce enormemente), il cooperativismo (crescono le associazioni dei lavoratori), l'uso della tecnica nell'agricoltura (sono scomparse quasi interamente le bestie da soma).

Esistono comunque differenze fondamentali nel mondo rurale da una regione ad un'altra.

Nella pastorale del mondo rurale, il tratto piu importante da tenere presente è Quello della religiosità popolare delle campagne, caratterizzata dal dualismo sacro-profano, dall'universo magico-simbolico, dal senso di colpa, dal gregarismo religioso e dalle norme rigide e tradizionali. Il mondo della campagna continua ad essere religioso, anche se in certi aspetti non è cristiano coerente.

Un secondo tratto del mondo rurale è il senso del pratico e dell'esperienza, del vissuto e del sentito, come si manifesta nel suo folclore, nelle sue tradizioni e nei suoi costumi. Il mondo della campagna è capace di celebrare e alle volte commemora gli interventi di una divinità che benedice o castiga e che risiede lontano ed in alto.

In terzo luogo, il mondo della campagna tende a scomparire o ad essere assorbito da un modo di vita tipicamente urbano. I suoi uomini emigrano e i paesi rimangono deserti. È un mondo spopolato ed invecchiatO e, conseguentemente, emarginato economicamente. Ha la capacità di rassegnarsi e di sopportare, ma anche una fetta di fatalismo e di disfattismo. Il mondo della campagna ha bisogno di una nuova evangelizzazione.

Infine, ci sono stati e ci sono in certe zone di campagna dei lati positivi circa le condizioni della vita di campagna, assieme alle grandi virtù che si nutrono del contatto con la natura. Il mondo della campagna è capace di aiutare per una rigenerazione spirituale.

In ultima analisi, la pastorale del mondo rurale deve tener conto della religiosità popolare, della presenza e della responsabilità dei laici; deve vivere l'equilibrio tra il gruppo e la moltitudine; deve tener presenti certi ritmi della natura e della tradizione e deve cercare il terreno per una nuova iniziazione cristiana.

Bibl. - Mattai G., " Religiosità popolare ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1316-1331. Orlando V., Religione " popolo " e pastorale popolare, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1986. Pizzuti D. - Giannoni P., Fede popolare, Ed. Marietti, Torino, 1979.

C. Floristán

Pastorale della scuola. (inizio)

La scuola pubblica, in non pochi paesi di tradizione cristiana, è stata per molto tempo ritenuta un luogo di catechesi. L'insegnamento del catechismo, o esercizio della catechesi, favorito dallo stato confessionale, era una prassi frequente in quei paesi. Però, la secolarizzazione della società e la a-confessionalità dello Stato hanno prodotto, da una parte, la perdita del carattere catechetico e pastorale della scuola, e, dall'altra, l'accentuazione dell'insegnamento della religione come parte integrante dell'azione educatrice. Le attività pastorali vengono ad essere opzionali e dipendono da un consenso tra le famiglie, l'autorità accademica e la Chiesa.

Quanto si è detto si riferisce, è chiaro, alle scuole cosiddette statali o pubbliche. Un caso diverso è quella delle scuole cristiane. In esse, la presenza della comunità cristiana come origine e come punto di riferimento condiziona tutto l'essere e la faccenda della scuola. La comunità cristiana della scuola offre il suo progetto educativo come una opzione pastorale, centrata su Cristo sul suo messaggio e sui valori evangelici. Essendo centrata sul fattore cristiano, tutta l'azione educativa della scuola diviene un'attività pastorale, i cui obiettivi fondamentali sono la riuscita della sintesi tra fede e vita (questo comporta che la scuola cristiana presenti un clima cristiano che favorisca l'incontro vivo e vitale con la fede) e tra fede e cultura (il che significa che l'attività più frequente nella scuola  lo studio e, l'assimilazione della cultura, delle scienze e dei valori umani - è un esercizio di approccio alla fede). In entrambi i casi, viene realizzata un'azione pastorale situata all'interno dell'ambiente della scuola e caratterizzata, pertanto, da una specificità di scuola. Bisogna aggiungere a ciò l'insegnamento della religione che appartiene, come azione educatrice della fede, all'ambito della pastorale della parola.

Però, il fattore specifico della pastorale della scuola non impedisce, anzi necessita ed esige altre forme di azione pastorale. Queste, senza essere specifiche della scuola, sono tuttavia necessarie per una pastorale della scuola più completa, più integrale. Così, la scuola cristiana, nata, come abbiamo detto, dalla comunità di fede, svolge un processo cetechetico lungo gli anni della maturazione degli alunni. Questo processo tende all'iniziazione progressiva della fede cristiana. Esso è chiamato " di ispirazione catecumenale "; equivale ad un cammino di iniziazione, di scoperta, di coltivazione e di maturazione della fede cristiana. Esso aiuterà i fanciulli, gli adolescenti ed i giovani ad assumere la propria fede con libertà e responsabilità.

Gli ambiti di questa pastorale, che si realizza avendo la scuola come piattaforma fondamentale e specifica, sono quelli di qualsiasi processo di iniziazione cristiana: la chiamata alla fede, la conversione a Cristo e ai valori evangelici, l'esperienza comunitaria della fede e l'integrazione nella comunità cristiana mediante i gruppi di iniziazione cristiana, il vissuto e la celebrazione sacramentale, l'esperienza e la pratica della preghiera, l'esercizio continuo dell'impegno cristiano e della testimonianza di fede.

In questo modo, possiamo affermare che la scuola, lungi dal costituire un ambiente che alcuni hanno chiamato neutro o addirittura negativo per quanto concerne la catechesi e la pastorale, è invece, partendo da un'educazione con radici profondamente cristiane, il luogo proprio per la catechesi e la pastorale. La scuola è l'esercizio dell'educazione cristiana, intesa in un senso pieno e realizzata nell'ambiente scolastico. Va considerata e riconosciuta come un autentico ministero ecclesiale.

Quanto si è detto fin qui è certamente un modo di intendere quella che chiamiamo la pastorale della scuola. Esistono altri modi di impostare l'argomento: per esempio, intendendo la scuola pubblica  e, in genere, tutto il mondo dell'educazione dei giovani e adolescenti  come un " obiettivo pastorale ", come una sfida per la pastorale della Chiesa. In questo senso, certi ambienti scolastici e universitari sono qui come una sfida ad una Chiesa che, pur affermando il valore e la necessità della pastorale delle scuole cristiane, deve assumersi l'impegno di un'azione pastorale creativa e audace nel mondo dell'educazione e della scuola.

Bibl. - C.E.I., Cultura e formazione nell'insegnamento della religione cattolica, Ed. La Scuola, Brescia, 1988. Corradini L., Una scuola per l'uomo. La comunità cristiana si interroga, Ed. Massimo, Milano, 1979. Giannatelli R., " Scuola ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 854-857. Nanni C., L'educazione tra crisi e ricerca di senso. Un approccio filosofico, LAS, Roma, 1986. Pellerey M. (a cura di), Progettare l'educazione nella scuola cattolica, LAS, Roma, 1981. Scurati C. - Causoni P., Nuovi programmi per una scuola nuova, Ed. La Scuola, Brescia, 1985.

T. García Regidor

Pastorale del turismo. (inizio)

Il turismo (dall'inglese: to tour = girare, viaggiare) è un'attività del tempo libero che comporta lo spostamento e lo stabilirsi transitorio in una località diversa da quella in cui si vive di solito. Agli inizi, il turismo è stato un fenomeno di pochi privilegiati. Adesso, è diventato in alcuni paesi un fenomeno di massa. Il tipo di turismo dipende dal livello economico che si possiede e dalle esigenze personali o culturali. Proprio nei tempi liberi, si sviluppano meglio o si rafforzano maggiormente i valori della persona con le sue esigenze socio-culturali in un ventaglio che va dalla distensione o evasione fino alla crescita della propria cultura. La stagione privilegiata per il turismo è l'estate, ma non bisogna dimenticare i fini di settimana.

La pastorale del turismo è sorta con l'attenzione liturgica verso i turisti da parte di alcune parrocchie situate in zone climatiche e di villeggiatura. Con la pubblicazione del Direttorio della pastorale del turismo (1969), è spuntata una prima riflessione, tra il 1970 ed il 1975, dedicata al tempo libero creativo. Si sono tenuti tre Congressi internazionali sulla pastorale del turismo nel 1970, 1979 e 1984. Si possono sottolineare quattro aspetti importanti del turismo rispetto ad una sua pastorale: l'aspetto socializzante, cosmico, antropologico, morale. In primo luogo, il turismo è un fattore di elevazione morale, in quanto favorisce l'unità dei popoli, l'incontro di culture, lo sviluppo dell'ospitalità, ecc. Può essere uno strumento di pace e di fraternità.

In secondo luogo, il turismo è un fattore di solidarietà dell'uomo col cosmo, in quanto valorizza tutto il senso profondo ed essenziale della natura.

In terzo luogo, è un fattore di restaurazione della stessa persona umana, in quanto l'uomo e la donna si riposano nel tempo libero dalla fatica prodotta dal lavoro.

Infine, il turismo è un fattore di sviluppo spirituale, nella dimensione della risurrezione.

Bibl. - Barberis C., Per una sociologia del turismo, Ed. Angeli, Milano, 1979. De Panfilis E., Tempo libero, turismo e sport: la risposta della Chiesa, Ed. Gregoriana, Roma, 1986.

C. Floristán

Pastorale del mondo urbano. (inizio)

L'espansione crescente ed incontenibile delle città è un fatto evidente dopo la seconda guerra mondiale, tanto nei paesi sviluppati nuanto in quelli sottosviluppati, negli stati socialisti ed in quelli capitalisti. Insomma, aumentano nel mondo le città, cresce il numero di abitanti in quelle grandi, è evidente il prestigio dei modelli urbani e in questi grandi centri risiedono i detentori dei poteri. Tutto questo equivale a quello che si chiama urbanesimo.

Le grandi città si sono sviluppate nel secolo scorso per la necessità di abitare vicino alle industrie, educare e preparare meglio i figli godere certi divertimenti, avere una vita piu confortevole e partecipare con più facilita alle comunicazioni sociali. Ci sono sempre state delle città, ma prima del secolo XIX, eccetto Parigi, nessuna città europea contava più di 100.000 abitanti. Si calcola che, in meno di un secolo, l'80% degli abitanti del mondo abiteranno in città.

Le città sono cresciute di solito in parallelismo con lo sviluppo industriale. In una prima tappa, i contadini sono emigrati dalle zone di campagna verso la città e si sono sistemati nelle periferie più povere o nelle zone del centro abbandonate perché ritenute inagibili. Appare il fenomeno dei " baraccati ". In un secondo tempo, la città si struttura, vengono migliorati i trasporti e le vie principali, il centro viene decongestionato, i ricchi si stabiliscono nelle periferie, la città si divide in quartieri ricchi e quartieri poveri. Infine, vengono assorbiti quelli che erano confinanti con la città ed appare la grande città coi suoi agglomerati. Assieme alla concentrazione della popolazione nelle grandi città, avviene la diffusione del fenomeno urbano.

Ci sono tre costruzioni che si trovano invariabilmente nelle città: il tempio (la religione), il palazzo (la forza), il mercato (la ricchezza. Sono situati nel centro come luoghi di potere e con frequenti rapporti conflittuali. La Chiesa si è fatta presente nelle città mediante le parrocchie, come succursali di un centro episcopale, che è stato fino ad oggi il palazzo del vescovo, insieme alla curia, oltre alla cattedrale. Il seminario, situato anch'esso in città, ha influito unicamente sulla formazione del futuro clero.

La creazione post-conciliare dei consigli pastorali a vari livelli, come anche la creazione di vicarie nelle grandi città, ha permesso di sfoltire dal centro episcopale l'azione pastorale. Però, rimane ancora intatto il potere della parrocchia come istituzione primaria dell'azione ecclesiale. La vicaria è canonica e non è sempre efficace. Tra la parrocchia e la diocesi non c'è sempre un'unità pastorale adeguata. I movimenti apostolici non sono bene articolati con la parrocchia e non lo sono mai stati: la parrocchia ha sempre avuto diffidenza per tutto quello che supera la struttura parrocchiale. Il problema delle comunità ecclesiali non parrocchiali chiede anch'esso una soluzione canonica. Nella strutturazione di tutti questi problemi, risiede la sfida di una pastorale urbana, oltre a quello che significa il fenomeno dell'urbanesimo: l'anonimato della popolazione, la specializzazione delle funzioni basilari (familiari, educative, politiche, economiche, ricreative e religiose), la mobilità quotidiana, i fini di settimana, le ferie estive, il contrasto fra quartieri ricchi ed altri poverissimi, la desacralizzazione e la secolarizzazione, la concentrazione di istituzioni culturali, tecniche e di ogni genere, ecc.

La pratica religiosa delle grandi città dipende dalla categoria sociale, ossia dal livello socio-culturale a cui uno appartiene e dal luogo della città in cui uno vive. Di solito, quanto maggiore è l'integrazione socio-culturale e tanto maggiore è la pratica religiosa. È anche più elevato e più palese il grado di non credenza o di agnosticismo in città che non nel mondo della campagna, come anche la disaffezione religiosa. A dire il vero, in città, tendono ad essere credenti quelli che sono intimamente convinti: predominano tra questi le persone della piccola borghesia, i lavoratori autonomi e le persone non attive. In città, si nota anche un forte contrasto tra il contenuto mentale della popolazione urbana e le forme di espressione e di comunicazione della Chiesa. " L'urbanizzazione, affermò Paolo VI, sconvolge i modi di vita e le strutture abituali dell'esistenza: la famiglia, il vicinato, e il quadro stesso della comunità cristiana.

Bibl. - Ardigò A., Crisi di governabilità e mondi vitali, Ed. Cappelli, Bologna, 1980. Comblin J., Teologia della città, Ed. Cittadella, Assisi, 1971. Crespi F., Le vie della sociologia, Ed. Il Mulino, Bologna, 1985.

C. Floristán

Patristica. (inizio)

Nel secolo XVI, si chiamava teologia patristica lo studio delle dottrine dei periodo dei Padri della Chiesa. Oggi, il termine patristica è usato correntemente come sostantivo ed è sinonimo di " patrologia ". Quest'ultimo termine significa lo studio della letteratura cristiana antica, cioè, lo studio della vita, degli scritti e della dottrina dei Padri della Chiesa (questa parola apparve nel secolo XVII).

Secondo alcuni, il concetto di Padre della Chiesa proviene dalla teologia dogmatica e sorse dalla necessità dell'argomento della tradizione, usato dai cattolici. Questa concezione era favorita dal fatto che il titolo di " Padre della Chiesa " era riservato agli scrittori di sicura ortodossia, santi, riconosciuti dalla Chiesa e appartenenti all'antichità cristiana. Questi quattro criteri sono stati impugnati frequentemente. C'è chi rifiuta la valutazione di un autore dal punto di vista di una ortodossia definita un secolo dopo. Come esempio, si cita Origene che in vita fu celebrato come rappresentante della dottrina della Chiesa, e poi fu condannato come eretico, per cui non ha diritto al titolo di " Padre della Chiesa ".

Di solito, si fa una divisione tripartita della patristica:

a) il periodo che va dagli inizi fino al Concilio di Nicea (325);

b) il periodo della massima fioritura fino al Concilio di Calcedonia (451);

c) il periodo del tramonto fino a Isidoro di Siviglia (636) e san Giovanni Damasceno (749?).

Sebbene la patristica sia enormemente pluralista (tra i Padri Greci e i Padri Latini, per esempio, ci sono notevoli differenze), c'è un comun denominatore nel fatto che non comprende solo un aspetto intellettuale e critico, ma anche uno spirituale e sapienziale: la teologia è un dono della grazia che purifica lo spirito. Non si tratta, dunque, di una conoscenza puramente nozionistica, ma di una conoscenza inserita in un contesto umano più ampio, che termina nella beatitudine e nella perfezione globale dell'uomo.

Questa visuale onnicomprensiva tiene presente anche l'elemento concettuale, discorsivo, argomentativo, qualche volta anche polemico. Però, questo elemento (anche se è prevalente in alcuni scritti) viene assunto in un contesto più ampio: quello della teologia come gnosi-sapienza. Grazie ad essa, l'uomo non è solo dotto, ma anche pio, ed il teologo rende testimonianza della sua convinzione esistenziale che viene espressa in forma di confessione, di predicazione, ecc.

L'esito di questo orientamento è dovuto alla fedeltà dei Padri alla Scrittura. Difatti, la teologia dei Padri è sempre alimentata dalla Scrittura, non solo nei commenti e nei sermoni, ma anche nelle opere sistematiche. Il giudizio sulla esegesi dei Padri deve considerare molti aspetti e non può dimenticare la diversità nell'uso dei vari sensi biblici (letterale, tipologico, allegorico, tropologico, anagogico). Nonostante le imperfezioni filoiogiche o critiche dell'esegesi dei Padri, possiamo ammirare la maniera unitaria e teologica con cui leggono la Scrittura alla luce della " economia " divina.

La teologia patristica è una, nella misura in cui non è dissociata nelle varie discipline teologiche. In questo modo, il considerare questa teologia interpella il teologo d'oggi non solo perché si riferisce al problema ermeneutico, ma anche per quanto riguarda l'unità della teologia.

Anche nei Padri, viene posto il problema del rapporto tra fede e ragione, tra autorità e ragione, tra teologia e filosofia. Quest'ultima relazione non suppone la questione di una filosofia cristiana in margine alla teologia, ma esige che si sappia giudicare una filosofia formatasi fuori dell'ambito della rivelazione e le conseguenze dell'assimilazione del pensiero filosofico in teologia. Il modo di pensare dei Padri circa la filosofia è molto vario: non tutti sono disposti a ritenerla una preparazione evangelica. Generalmente, l'uso della filosofia è molto eclettico. Tuttavia, in alcuni, come in sant'Agostino, gli elementi filosofici ricevono una trasformazione originale. Anche se l'eclettismo è imperfetto circa l'aspetto scientifico, esso esercitò comunque una funzione storica in quanto permise l'ingresso della filosofia nella teologia.

Bibl. - Altaner B., Patrologia, Ed. Marietti, Casale M., . Bosio G. - Dal Covolo E. - Maritano M., Introduzione ai Padri della Chiesa, 5 voll., Ed. SEI, Torino, 1990-1996. Quasten J., Patrologia, Ed. Marietti, Torino, 2 voll., 1969. Simonetti M., La letteratura cristiana antica greca e latina, Firenze, 1969.

E. Vilanova

Peccato. (inizio)

Il peccato, alla luce della Bibbia, è rottura con Dio, col fratello bisognoso e con se stessi. Peccare equivale a rompere l'alleanza, a tradire l'amore e ad estraniarsi dalla comunità dei fratelli. Secondo Gesù, pecca chi non vive l'alleanza o secondo le esigenze del Regno di Dio. In ultima istanza, il peccato è l'opposto dell'amore. È un male, un rapporto negativo con Dio (opposizione al Regno) e col fratello (corruzione dell'uomo).

Il peccato è nella radice del comportamento, nel nucleo centrale della persona, in ciò che la Bibbia chiama cuore. Così, l'omicidio inizia con l'odio interno, l'adulterio con lo sguardo impuro, il giuramento falso con la parola mendace. Secondo san Paolo, Adamo rappresenta il ritratto della condizione peccatrice dell'uomo, poiché col primo essere umano, il peccato è entrato nel mondo come una potenza malefica. Cristo è colui che ci libera da ogni peccato. Secondo san Giovanni, il peccato del mondo risiede nell'ostilità verso Dio, manifestata nella menzogna al posto della verità, nell'omicidio al posto della vita, nelle tenebre al posto della luce.

Nella società d'oggi, c'è uno spostamento del peccato più che una perdita del senso del peccato. Ciò è dovuto all'evoluzione dei costumi, alla secolarizzazione generalizzata, all'importanza che hanno oggi le strutture sociali, alla diffusione dei dati psicologici, all'influenza dei mezzi di comunicazione che relativizzano tutto, al discredito di certe pratiche religiose rituali. Viviamo in una società estremamente permissiva. Nello stesso tempo, però, questa situazione contribuisce a respingere un falso concetto di peccato ed aiuta perfino a riscoprirlo con un nuovo senso partendo da una prospettiva personalista e sociale, battesimale ed ecclesiale.

Non dimentichiamo che il peccato ha una natura religiosa, oltre che una dimensione morale. Non è una semplice colpa contro la propria coscienza né una pura colpa contro la legge. E' un debito rispetto alle esigenze di Dio, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo e del vangelo. E' un attentato contro il Regno di Dio, una mutilazione degli impegni battesimali. Abbiamo spesso collocato il peccato in una sfera legalista o morale (non religiosa), su un piano individuale (non comunitario), in un contesto sessuale (non sociale), sotto una morale di atti negativi (non di atteggiamenti positivi).

In breve: il peccato inteso in senso cristiano è una infedeltà, una ingiustizia di fronte agli impegni battesimali, una mancanza di fede nei riguardi del Regno di Dio. Esso è dunque un rifiuto di Dio che è amore, una rottura della solidarietà fraterna, un'autodistruzione personale.

Bibl - Ghidelli C., Peccato dell'uomo e misericordia di Dio, Ed. Paoline, 1963. Grasso C., Confessare il peccato, celebrare il perdono, Ed. Marietti, Torino, 1982. Haering B. , Il peccato in un'epoca di secolarizzazione, Ed. Paoline, 1973. Lafranconi D. , " Peccato ", in: Nuovo dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , op. 895-914. Libano J.B., Peccato e opzione fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1977. Porro C., Peccato e riconciliazione, Ed. Piemme, Casale N., 1983. Vidal M., L'atteggiamento morale: Morale fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1976.

C. Floristán

Pedagogia. (inizio)

L'uomo nasce inerme; deve crescere e perfezionarsi costantemente per non atrofizzarsi (L'uomo è educabile e educando).

Educare vuol dire modellare la plasticità originale secondo una rappresentazione ideale dell'uomo. Però, gli obiettivi concreti sono cambiati a seconda delle visuali vigenti del cosmo. L'educazione deve essere integrale (per aiarto è possibile): deve comprendere anche i valori e gli atteggiamenti, il senso della vita e perfino il trascendente.

Come si raggiunse l'educazione dell'uomo? Bisogna distinguere tra autoeducazione (il protagonista dell'educazione è l'educando) e eteroeducazione (quella che viene dagli altri); questa può essere impartita espressamente (formale) o senza ricercarla esplicitamente (informale).

La pedagogia è la scienza dell'educazione. Essa cerca un'influenza intenzionale, sistematica e duratura, secondo un progetto prefissato.

Si parla anche di Scienze dell'educazione, per sottolineare l'elemento metodico, quello interdisciplinare ed il carattere positivo (fatti, verifiche...).

La pedagogia è teorica e pratica. Pero, la si può intendere prevalentemente come prassi, come dottrina (o conoscenza ordinaria), o come scienza (partecipa della razionalità delle scienze e delle tecniche d'oggi).

La pedagogia ha avuto da conquistare la sua autonomia scientifica (non incompatibile con l'interdisciplinarietà) di fronte alla teologia e alla filosofia. Oggi, rivendica l'autonomia di fronte allo psicologismo, al sociologismo, alla politica e all'economia.

L'educazione informale mette in evidenza che ogni educazione fa carte di qualcosa molto più ampio: il processo sociale. La società dipende dall'educazione, e l'educazione dipende dalla società v una fitta rete di condizionamenti sociopolitici, storici, tensioni di potere, ecc.). La società va criticata e migliorata, non soltanto riprodotta.

Che rapporto esiste tra pedagogia e teologia? Sono state date queste risposte:

a) predominio della teologia. Essa è la norma della pedagogia: fissa i suoi obiettivi e criteri, fino al punto che " non è possibile un'educazione perfetta e completa che non sia cristiana ". Non dimentichiamo, però, che la pedagogia non cerca la salvezza, ma la maturità umana, e che, anche fuori del cristianesimo esplicito, si può avere un'educazione ed una vera maturità, perché l'azione di Dio giunge a tutti gli uomini.

b) Predominio della pedagogia: l'elemento nozionale e quello vissuto della fede rimangono eclissati da quello psicologico, da quello didattico, da quello pedagogico...

c) Separazione totale.

d) Dialogo interdisciplinare: è la cosa migliore, ossia, autonomia di entrambe, ma con un arricchimento reciproco. Infatti, la pedagogia non deve chiudersi in una possibile trascendenza; la teologia deve preoccuparsi del valore cristiano dell'educazione umana.

Si può parlare di una pedagogia cristiana? Le scienze sono autonome, non sono confessionali (non esiste un'astronomia cristiana o una matematica cristiana). Esse si reggono sui propri princìpi intrinseci. Tuttavia, al di là delle scienze, tutti noi ci poniamo questioni a cui non possiamo sfuggire (il senso della vita, il bene, il male...). Non bastano, dunque, i princìpi intrinseci delle scienze. Abbiamo bisogno di idee normative ultime, e queste varieranno a seconda delle credenze. Ciò vuol dire che c'è un uso cristiano delle scienze. I medici e i pedagogiisti cristiani non differiscono in quanto " scienziati ", ma in quanto cristiani. Oggi, c'è una separazione drammatica tra cultura e fede. E' urgente, dunque, un'incarnazione della fede nella cultura (inculturazione) e una cristianizzazione di questa cultura.

Il concetto di pedagogia religiosa varia molto. Alcuni la intendono come una parte della pedagogia (guidata dall'etica, dalla religione naturale e dalla storia delle religioni). Però, per la maggioranza, si tratta di una parte della teologia pastorale, aiutata dalla pedagogia e da altre scienze, per unificare meglio la realtà umana e la fede.

Nel vangelo, Gesù Cristo si offre a noi come maestro e modello (Gv 13,13; 14,6). Già nell'AT, si parla della pedagogia di Dio. Essa non va intesa come un sistema pedagogico completo e scientifico, ma come un processo di salvezza che da importanza alle correzioni, alle tribolazioni e alle fasi della storia che è tutta centrata in Gesù Cristo.

Bibl. - Bissoli C., Bibbia ed educazione, LAS, Roma, 1981. Morando D., " Pedagogia ", in: Enciclopedia Filosofica, IV, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 1426-1434. Schilling H., Teologia e scienze dell'educazione, Ed. Armando, Roma, 1974. Vecchi J.E. - Prellezzo J.M. (edd.), Prassi educativa pastorale e scienze dell'educazione, Ed. SDB Roma, 1988.

P. Maymí

Penitenza. (inizio)

Il Nuovo Codice di Diritto Canonico descrive così il sacramento della Penitenza: " del sacramento della penitenza i fedeli, confessando i peccati al ministro legittimo, essendone contriti ed insieme avendo il proposito di emendarsi, per l'assoluzione impartita dallo stesso ministro ottengono da Dio il perdono dei peccati, che hanno commesso dopo il battesimo e contemporaneamente vengono riconciliati con la Chiesa, che, peccando, hanno ferito " (CIC c. 959). La penitenza è, dunque, il sacramento del perdono dei peccati e della riconciliazione con Dio e con la Chiesa. Bisogna notare, tuttavia, che una cosa è il sacramento della penitenza, ed un'altra è il perdono dei peccati. Questo perdono e una realtà permanente nella Chiesa (questo è uno degli articoli del Credo), e si ottiene fondamentalmente mediante la fede e la conversione. Il sacramento è l'espressione simbolica e celebrativa del perdono dei peccati e della conversione. Bisogna ancora notare che, all'interno dell'area dell'espressione simbolica e celebrativa del perdono dei peccati, il sacramento della penitenza non è l'unica possibilità. Ci sono altri mezzi liturgici dell'annuncio e della realizzazione del perdono: si pensi alla predicazione della parola, al sacramento del battesimo ( "Per il perdono dei peccati ", come dice il Simbolo Niceno-Costantinopolitano), alla celebrazione eucaristica (nella consacrazione nel calice, si dice: " Questo è il calice della nuova ed eterna alleanza che sarà versato per voi e per tutti in remissione dei peccati "), alla preghiera liturgica per i peccatori, alle liturgie penitenziali, all'unzione degli infermi, ai tempi penitenziali dell'anno liturgico, alle pratiche penitenziali, ecc. In un certo senso, il sacramento della penitenza è un mezzo strarordinario, e fu visto come tale per molti secoli della Chiesa, quando veniva concesso solo una volta in vita e nel pericolo imminente di morte.

La storia mostra la relatività delle forme adottate dal sacramento della penitenza lungo i secoli, anche nell'ordine cronologico delle sue varie parti. In un primo tempo, l'ordine normale era: l'accusa dei peccati, la penitenza pubblica e laboriosa, l'assoluzione in forma di riconciliazione da parte del vescovo. Quando venne introdotta come comune la prassi della penitenza privata e reiterabile, l'ordine fu il seguente: l'accusa, l'assoluzione da parte del sacerdote, la penitenza. Oggi, nei casi di celebrazioni con assoluzione collettiva, l'ordine è questo: l'assoluzione, la penitenza, l'accusa tramandata. C'è stato anche una grande varietà di nomi per indicare questo sacramento, a seconda dell'aspetto che ogni epoca ha ritenuto più importante: riconciliazione, penitenza, confessione.

L'essenziale è di tenere ben presenti gli aspetti che necessariamente il segno liturgico di questo sacramento deve esprimere, prescindendo dalla sua materialità in un momento storico determinato. Si possono riassumere in tre punti le realtà che devono essere espresse mediante la celebrazione della penitenza:

 l'azione stessa di Dio che, mediante un giudizio, distrugge il peccato e salva il peccatore;

 la conversione del peccatore, come frutto della fede e non semplicemente come conseguenza di convinzioni morali o di sentimenti psicologici;

 infine, la riconciliazione del peccatore con la comunità cristiana, poiché, se il peccato separa da Dio e dai fratelli, la conversione incorpora nuovamente nella comunità, e, mediante questa, nell'amicizia con Dio.

Le forme esterne della celebrazione del sacramento della penitenza sono state varie nel passato, lo sono anche oggi, e con tutta sicurezza, lo saranno anche nel futuro. Però, le tre dimensioni descritte devono essere sempre presenti nel significato profondo del sacramento. Il Concilio Vaticano II, di fronte alla scarsa espressione manifestata da alcuni aspetti, nel modo abituale di celebrare il sacramento, ha decretato: " Si rivedano il rito e le formule della Penitenza in modo che esprimano più chiaramente la natura e l'effetto del sacramento " (SC 72). Dopo questa revisione, la celebrazione del sacramento riveste tre forme principali:

 la riconciliazione dei penitenti in particolare;

 la riconciliazione di molti penitenti con una confessione ed una assoluzione singole;

 la riconciliazione di molti penitenti con una confessione ed una assoluzione generale. Questa terza forma, che, in linea di principio è offerta come ordinaria, ha subìto molte ristrettezze nella legislazione posteriore, di modo che il CIC l'autorizza solo quando " vi sia imminente pericolo di morte ", e quando " vi sia grave necessità " (c. 961).

Riguardo al posto specifico che la confessione dei peccati occupa nel processo del sacramento della penitenza, occorre tenere presente il n. 6 delle Premesse al Rito della Penitenza, promulgato il 2 Dicembre 1973: " Il discepolo di Cristo che, mosso dallo Spirito Santo, dopo il peccato si accosta al sacramento della Penitenza, deve anzitutto convertirsi di tutto cuore a Dio. Questa intima conversione del cuore, che comprende la contrizione del peccato e il proposito di una vita nuova, il peccatore la esprime mediante la confessione fatta alla Chiesa, la debita soddisfazione, e l'emendamento di vita. E Dio accorda la remissione dei peccati per mezzo della Chiesa, che agisce attraverso il ministero dei sacerdoti ". Secondo questo modo di vedere, " la confessione fatta alla Chiesa " ha tutto il suo valore quando esprime la conversione intima del cuore. Questa si manifesta, anche ad altri livelli, mediante il compimento della " soddisfazione " ed il cambiamento reale di vita. La confessione dei peccati, isolata dalla realtà profonda della conversione e dalle altre manifestazioni di questa conversione, non ha nessuna consistenza sacramentale. Affinché la confessione dei peccati conservi il suo rapporto essenziale con tutti gli altri elementi del sacramento della penitenza, deve cessare di essere una autoaccusa od una autogiustificazione dal punto di vista psicologico; deve diventare semplicemente una espressione simbolica della conversione interiore. Pertanto, l'importante non è la materialità del suo contenuto, ma il rapporto significativo con la sincerità dell'atteggiamento interno. Allora, l'attenzione psicologica non si concentra sui " peccati " per accusarsi o scusarsene, ma sull'atteggiamento profondo di " peccato " che ci può essere dietro gli atti concreti, per manifestare questo atteggiamento con umiltà e semplicità. Ogni penitente deve trovare un suo modo proprio di manifestare con parole la sua condizione di peccatore. Ogni tipo di celebrazione penitenziale deve comportare un suo modo particolare di confessione ": più specifica e più personale nelle celebrazioni con la confessione e l'assoluzione individuale; più generica e più impersonale nelle celebrazioni con la confessione e l'assoluzione generale. In qualsiasi caso, è più importante assicurare l'espressività del segno che insistere sui particolari dell'accusa.

Bibl - Aa.Vv., La Penitenza. Dottrina, storia, catechesi e pastorale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1967. Bommer J., La confessione nella dottrina e nella prassi, Ed. Borla, Torino, 1965. Gasparino A., Il sacramento del perdono, gioia e festa di Dio e dell'uomo, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica " Reconciliatio et paenitentia, 2.12.1984. C.E.I., Rito della penitenza, Roma, 1974. Ramos-Regidor J., Il sacramento della Penitenza. Riflessione teologica, biblico-storico-pastorale alla luce del Vaticano II, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1972.

J. Llopis

Pensiero. (inizio)

Il pensiero è l'attività mentale con varie manifestazioni, come il ragionamento, il discernimento, l'astrazione, la generalizzazione, l'esprimere con immagini desideri, necessità ed esigenze del subconscio, ricordare, immaginare, comandare o dare istruzioni, adottare un atteggiamento o stato mentale, credere o supporre, attaccare o difendere credenze, progettare, riflettere o meditare, ecc. Tutto ciò ha portato a considerare il pensiero come un concetto disgiuntivo e ad un tempo polimorfo.

Nella fase del pensiero, Pfänder distingue cinque fattori: un soggetto pensante da cui parte il pensiero, il pensiero stesso come avvenimento reale, il pensiero determinato che costituisce il contenuto del pensare, l'espressione in forme verbali, il riferimento ad un oggetto in senso generale.

Nell'affrontare lo studio del pensiero, si è visto la necessità di stabilire delle distinzioni. Gober elenca quattro tipi di pensiero: quello immaginativo, basato sui processi dell'immaginazione; quello concettuale, che suppone l'astrazione dalle immagini; quello ipotetico, che implica operazioni astratte per ricombinare i concetti; quello speculativo, che si orienta verso la costruzione di teorie.

Nell'indagine sul pensiero, oltre alle differenti sottolineature, teorie e modelli, tutti concordano nella sperimentazione di un tipo speciale di pensiero: " la soluzione di problemi ". Il comportamento per la soluzione consiste in una ricerca attraverso lo spazio del problema. Esso consta di uno stadio iniziale in cui si rappresentano le soluzioni di partenza, uno stadio-mèta in cui si rappresenta la soluzione desiderata, ed un complesso di elementi, simboli e operatori, (processi e manipolazioni) il cui funzionamento per opera del soggetto permette di modificare i differenti stadi del problema.

Come varie fonti di ricerca attuale, si possono citare, per la loro importanza, l'identificazione e la formazione di concetti, il raziocinio e i rapporti tra il pensiero ed il linguaggio.

Bibl. - Geymonat L., Storia del pensiero filosofico e scientifico, Ed. Garzanti, Milano, 1976. Johnson-Laird P.N., La mente e il computer, Ed. Il Mulino, Bologna, 1990. Kanisza G., Vedere e pensare, Ed. Il Mulino, Bologna, 1991. Neisser U., Psicologia cognitivista, Martello- Giunti, Firenze, 1976. Ortu F. - Dazzi N., " Pensiero ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS SEI, Torino-Roma, 1997) pp. 807-809.

M. N. Lamarca

Pentecoste. (inizio)

La festa di Pasqua dura cinquanta giorni. Questo tempo è chiamato tempo pasquale, o cinquantena pasquale, e termina con la festa di Pentecoste. Presso gli Ebrei, la festa del raccolto era un giorno di rendimento di grazie. Si celebrava sette settimane dopo Pasqua ed era la festa delle " primizie ", o festa delle settimane. A motivo del numero cinquanta, si chiamava Pentecoste. Più tardi, i rabbini commemorarono in quello stesso giorno la consegna della Legge fatta a Mosè sul Sinai e la conclusione dell'alleanza.

I passi del NT che parlano della Pentecoste si riferiscono alla festa ebraica. Tuttavia, la festa cristiana di Pentecoste coincide con quella ebraica solo nel nome, perché celebra il dono escatologico dello Spirito Santo e l'apertura della Chiesa ai pagani. Nelle norme riguardanti l'anno liturgico, si dice che " i cinquanta giorni che vanno dalla domenica di Risurrezione alla domenica di Pentecoste si celebrano con gioia e giubilo, come se si trattasse di un unico giorno festivo, anzi, come una grande domenica ". La cinquantena pasquale è tempo di pienezza, di gioia e di ringraziamento per il raccolto, in cui predomina l'azione dello Spirito Santo. Secondo il simbolismo dei numeri, cinquanta vuol dire pienezza, conclusione e sigillo.

Il cinquantesimo giorno, festa di Pentecoste, è paragonabile a Pasqua. Però, non è festa separata, ma è il coronamento pasquale. La vigilia di Pentecoste assomiglia a quella pasquale: si possono ricordare i

simboli del fuoco (i falò), le fiamme (lampade), la torre maledetta (il muro), le ossa aride (che si rianimano), l'acqua (che si sparge). A pentecoste, si mette in risalto lo Spirito di Dio, simboleggiato nella Bibbia col vento e col soffio: è il respiro del cristiano.

Bibl. - Congar Y., Sulla pentecoste, Ed. Queriniana, Brescia, 1973. Cremaschi L., " Pentecoste ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 548-549.

C. Floristán

Percezione. (inizio)

La percezione è un processo complesso col quale si codificano, si organizzano e si interpretano i dati sensoriali, in rapporto con le esperienze precedenti del soggetto. Ciò indica che nella percezione intervengono il passato, il presente ed il futuro del soggetto, oltre agli stimoli esterni capaci di suscitarla. La percezione è in rapporto con l'affettività, con la motivazione, con le capacità e con le funzioni conoscitive come l'immaginazione e l'intelligenza. Nell'attività percettiva, sono implicate le proprietà fisiche degli stimoli e del sistema nervoso dell'individuo che percepisce, ma anche il suo ambiente e le esperienze precedenti.

Ciò che captiamo è una prospettiva sensoriale del mezzo, quello che chiamiamo " mondo percepito "; non è qualcosa di interamente oggettivo, ne interamente idealizzato: è piuttosto qualcosa di immaginato o di reinventato da noi.

Dalle analisi effettuate sulla percezione come funzione, si distinguono quattro dimensioni fondamentali.

La qualità percettiva: si chiamano così le differenti classi di percezioni che incidono sull'essere umano. Ognuna di esse corrisponde a differenti sistemi anatomofisiologici.

L'intensità percettiva è il maggiore o minore grado di potenza con cui appare la funzione percettiva.

Il tono affettivo della percezione è associato coi vissuti sentimentali che ci vengono richiamati, ottenendo Ccsì che le nostre percezioni siano in qualche modo significative.

Il contenuto senso-percettivo: con la percezione, otteniamo l'informazione, che è la conseguenza dell'elaborazione e della successiva integrazione dei dati sensoriali con l'intervento della coscienza.

Le " leggi della percezione " si riferiscono agli aspetti figurali del tema nella sua modalità visiva. Le più significative sono: l'articolazione della percezione in figura e sfondo; quelle che alludono alle proprietà delle totalità figurali e quelle che precisano le condizioni di raggruppamento degli stimoli in figure.

Bibl. - Abbagnano N., Dizionario di filosofia, UTET, Torino, , pp. 659-663. Canestrari N., " Percezione ", in: Enciclopedia filosofica, IV, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 1470-1483. De Pieri S., " Percezione ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 810-811. Gerbino W., La percezione, Ed. Il Mulino, Bologna, 1983. Jolivet R., Corso di filosofia, Ed. Paoline, Roma, 1966, pp. 140-143. Sillamy N., Dizionario di psicologia, Ed. Gremese, Roma, 1995, p. 204.

M. N. Lamarca

Perdono. (inizio)

Il perdono è un elemento centrale per la comprensione del mistero della salvezza umana. Il perdono viene costituito nel nucleo di intersezione del dialogo tra l'uomo peccatore e Dio che offre il suo perdono. L'uomo è un essere che, anche se creato ad immagine e somiglianza di Dio, è limitato, fragile e soggetto all'errore e all'inganno. Così, il peccato appare nell'orizzonte dell'uomo come qualcosa di inevitabile: " Non c'è nessun giusto, nemmeno uno, dice san Paolo in Rm 3,10, citando il Salmo 14.

Per parte sua, Dio è un Padre misericordioso, ricco di pietà e di clemenza; non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. L'amore di Dio per l'uomo è giunto fino a questo punto: " Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, l'unico, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna " (Gv 3,16). Cristo Gesù, con la sua morte e risurrezione è, senza alcun dubbio, la chiave di ogni riconciliazione tra l'uomo e Dio.

Il perdono, dunque, è il punto di incontro tra l'offerta di un amore incondizionato da parte di Dio e la necessità per l'uomo che la persona amata non tenga conto dei suoi errori. L'uomo sa di essere immondo, spregevole e indegno, ma non vuole rinunciare all'amicizia con Dio; per questo, ritorna sempre a dire al Padre: " Mi dispiace ".

Il perdono che Dio offre è anteriore a qualsiasi iniziativa dell'uomo: " prima che tu ti rivolgessi a me, io ti avevo già perdonato ". Questo supera il sentimento personale dell'uomo rispetto al suo rapporto con Dio: " Davanti a lui (Dio) rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa " (1 Gv 3,19-20). Però, è necessario un cambiamento di vita: " vivere secondo lo Spirito ". Occore inoltre la riconciliazione con gli altri figli di Dio, gli uomini nostri fratelli. Grazie a questa duplice riconciliazione, l'uomo può nuovamente sentirsi riconciliato con se stesso, e può acquistare la fiducia che i suoi sforzi per la pace, la giustizia e l'amore trionferanno un giorno definitivamente sul peccato. Il perdono, in questo modo, è il trionfo dell'amore sull'odio.

Bibl. - Aa.Vv., Pedagogia della confessione, Problemi e soluzioni, Ed. Gregoriana, Padova, 1968. Aa.Vv., Valore e attualità del sacramento della Penitenza, PAS-Verlag, Zurigo, 1974. Aa.Vv., La penitenza. Studi biblici, teologici e pastorali, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1976. Alszeghy Z. - Flick M., Il sacramento della riconciliazione, Ed. Marietti, Torino, 1976. Haering B., Shalom, pace. Il sacramento della riconciliazione, Ed. Paoline, Roma, 1969. Ramos-Regidor J., Il sacramento della Penitenza, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1976. Tilmann K., Verso una rinnovata prassi penitenziale, Ed. Queriniana, Brescia, 1983.

J. Moya

Personalità. (inizio)

Personalità è un termine complesso col quale fondamentalmente si intende la somma di tutte le caratteristiche possedute da un individuo e con cui egli viene definito. Cercando di ridurre la molteplicità e la varietà funzionale che esistono circa il concetto di personalità, e che sono state elaborate da varie correnti psicologiche, si possono individuare queste note comuni:

La personalità abbraccia tanto il comportamento palese (direttamente e pubblicamente osservabile) quanto l'esperienza privata.

Quando si parla di personalità, ci si riferisce a caratteristiche relativamente consistenti e durature, e questo serve come base per prevedere il comportamento dell'individuo. È stato questo un tema ampiamente dibattuto tra impostazioni personaliste e situazioniste.

Il concetto di personalità, in terzo luogo, mette in risalto il carattere unico di ogni individuo definito mediante la strutturazione unica di un complesso di elementi.

La personalità è qualcosa che si ricava partendo dal comportamento; non è qualcosa che abbia un'esistenza reale in e per se stessa: è un'astrazione e non qualcosa che si può osservare direttamente. Quello che si osserva è il comportamento, dal quale si deduce una determinata struttura della personalità dell'individuo.

Infine, il termine personalità, nell'area del pensiero scientifico in psicologia, non implica un giudizio di qualche valore circa le capacità od altri aspetti della persona caratterizzata: è usato fondamentalmente per la sua utilità nel descrivere, spiegare e prevedere il comportamento dell'individuo.

Basandosi sull'ultimo punto, l'indagine sulla personalità si è rivolta principalmente alla identificazione di modelli di differenziazione individuale e ai fattori causali di questi modelli differenziali. I gruppi di indagine coordinati dal professore Eysenck si sono concentrati sulla dimensione estroversione. Questa dimensione della personalità si riferisce al modello di comportamento più frequentemente citato come base di differenziazione individuale. Questa è stata anche la dimensione intorno a cui si è svolto il maggior numero di ricerche.

L'estroversione si riferisce ad un dato dimensionale costante col quale si distinguono certi individui da altri. Da una parte, si ha l'estroversione, mentre al lato opposto, c'è la cosiddetta introversione.

Secondo Eysenck, l' "estroverso tipico " è socievole, gradisce le riunioni, ha molti amici, sente il bisogno di avere gente accanto con cui parlare, non lavora volentieri da solo. Cerca ciò che è esaltante, si assume dei rischi, preferisce l'attività al cambiamento, tende ad essere aggressivo, è generalmente impulsivo e perde facilmente la calma. Generalmente, non possiede un forte controllo sui propri sentimenti e non è una persona pienamente affidabile.

L'" introverso tipico " è una persona tranquilla, ritirata, amica dei libri più che delle persone, riservata e distante, eccetto coi suoi amici intimi. Tende a programmare le cose per tempo e non lasciarsi trasportare dagli impulsi del momento. Non gli piace l'eccitazione, prende le cose con serietà e preferisce uno stile di vita ordinata. È solito controllare i suoi sentimenti; raramente si comporta in modo aggressivo; non perde facilmente la calma. È affidabile, portato al pessimismo; attribuisce molta importanza alle norme etiche.

Stando alla descrizione fatta ora, gli individui differiscono nella misura in cui presentano comportamenti più vicini all'uno o all'altro di questi estremi. In questo senso, si tende a ritenere una persona " introversa " quando mostra, in modo regolare, comportamenti che si avvicinano a quelli indicati per descrivere l'" introverso tipico ". Invece, si dice che una persona è " estroversa " quando il suo comportamento abituale assomiglia a quello descritto per designare l' "estroverso tipico ". Cosi, le previsioni formulate saranno tanto più applicabili quanto più il comportamento del soggetto si avvicinerà alle descrizioni di uno o dell'altro estremo dimensionale.

Bibl. - Bogliolo L., La verità dell'uomo, Ed. Pont. Univ. Later., Roma, 1969. Endres J., Personalismo, esistenzialismo, dialogismo, Ed. Paoline, Roma, 1971. Franta H., " Personalità ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 819-822. Moinier E., Il personalismo, Ed. AVE, Roma, . Pannenberg W., Che cos'è l'uomo?, Ed. Morcelliana, Brescia, 1974. Sillamy N., Dizionario di psicologia, Ed. Gremese, Roma, 1995, pp. 206-207. Wojtyla K., Persona e atto, Ed. Vaticana, 1982.

M. N. Lamarca

Pianificazione pastorale. (inizio)

Pianificare significa letteralmente: tracciare piani, cioè, immagini grafiche, modelli numerici o schemi verbali. Nelle scienze sociali e morali, equivale a progettare un modulo di lavoro, che comprende obiettivi, conoscenza della realtà, inventario di mezzi e formulazione di strategie. In un senso ampio, pianificare significa: tracciare piani o fare una determinata politica. La pianificazione è essenziale per qualsiasi attività.

L'azione pastorale, come ogni azione, ha bisogno di un progetto operativo, o piano concreto di attuazione che riunisca in un modo dinamico tutti i compiti che intervengono nel processo dell'azione. Ogni progetto emerge dalla stessa azione, quando si mettono a confronto i vari compiti e si connettono fra di loro. Tuttavia il progetto, anche se in un primo tempo viene dedotto dalla realtà, viene poi riformato o rimodellato con una serie di conoscenze o interpretazioni per cui, a sua volta, ritorna ad orientare l'azione. Il progetto è fondamentale nel rapporto dialettico tra teoria e prassi.

La pianificazione pastorale comprende varie tappe. La prima si basa sull'analisi dei fatti, permanenti o passeggeri. Esige la conoscenza della storia recente, i condizionamenti economici, le correnti culturali, i movimenti politici, i fattori sociali e le ideologie. L'azione pastorale richiede che si esamini la realtà con uno sguardo cristiano, specialmente evangelizzatore. In secondo luogo, si devono stabilire gli obiettivi o descrivere le finalità, a breve, medio, o lungo termine.

In terzo luogo, bisogna organizzare l'azione all'interno di un modello " partecipativo-gruppale ", in armonia con la comunione, la collegialità e la servizievolezza della Chiesa. Infine, si deve valutare periodicamente e criticamente l'azione.

La cosidetta pastorale d'insieme, o organica, non sorge, naturalmente, da una semplice pianificazione, ma dall'unione delle azioni differenti e complementari che ci sono nella base. Oggi, sono assolutamente necessarie nella Chiesa la partecipazione e la corresponsabilità, in uno stile democratico e con un taglio autocritico. Alle volte, si ha l'impressione che si sta iniziando sempre daccapo perché manca una pianificazione continuata. Altre volte, si avverte la noia in riunioni preparate male di cui, certe volte, non si conosce la finalità. Infine, c'è spesso un'assenza di disciplina , necessaria per smussare le asprezze, per promuovere il dialogo, per accettare il pluralismo, ecc. La riunificazione dell'azione pastorale esige mobilità, creazione di gruppi strutturati, interscambio di esperienze, convivenze revisionate, accettazione di responsabilità personali, solidarietà per superare le opinioni proprie, ecc. Evidentemente, non possiamo dimenticare una serie di obiettivi pastorali, imprescindibili quando si sta per procedere alla pianificazione: sensibilità nei riguardi della situazione, coscientizzazione personale, evangelizzazione e educazione della fede, opzione per i poveri e gli emarginati, formazione di comunità e di gruppi, celebrazioni vive e presenza attiva dei cristiani per trasformare il mondo.

Bibl. - Aa.Vv., Da massa a popolo di Dio, Ed. Cittadella, Assisi, 1981. Birzea C., Gli obiettivi educativi nella programmazione, Ed. Armando, Roma, 1981. Midali M., " Progettazione pastorale ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 785-793.

C. Floristán

Pietà. (inizio)

La parola pietà è frequente nella Scrittura. Anzi, sembra che poche parole abbiano meritato un elogio così universale come quello che si legge in 1 Tm 4,8: " La pietà è utile a tutto " . Tuttavia, è altrettanto certo che sono in calo il nome e la fama della pietà: l'essere pii non sembra oggi una cosa molto lusinghiera. Cerchiamo di individuarne le cause e di rivalutarla cristianamente.

La pietà porta istintivamente a pensare al campo limitato del religioso, cioè, a ciò che dice rapporto con Dio. Gli uomini ed il mondo rimarrebbero al margine della pietà dell'uomo. Se fosse così, sarebbe molto difficile incontrare nel nostro mondo un'accoglienza normale. D'altra parte, la pietà fa pensare subito alle pratiche di pietà, un campo in cui il cristianesimo si è esageratamente aggrappato a formule, gesti e riferimenti. Non poche pratiche di pietà provocano derisione o compassione. Possiamo dire che fanno " pietà ".

Queste due impressioni, che possono essere sufficienti a molti cristiani, rendono difficile la pietà e allontanano da essa non pochi cristiani, che si sentono offesi se vengono chiamati pii.

Sembra che effettivamente la parola pietas latina abbia tenuto presente soltanto la relazione ascendente: il rapporto dell'uomo con la divinità. Era l'uomo che aveva da essere pio. La rivelazione, tanto dell'Antico quanto del Nuovo Testamento, contempla un Dio che è pietoso. Non solo, ma Dio è chiamato: " Dio di pietà " (Sal 86,15). La pietà di Dio è una pietà che si manifesta come atteggiamento di vicinanza all'uomo, di fronte alle necessità concrete. Una serie di parole formano il complesso della pietà di Dio verso gli uomini: amore, clemenza, misericordia, compassione, fedeltà...

Questa consapevolezza della pietà di Dio verso l'uomo suscitava in questi non solo come reazione la risposta di adesione al Dio pietoso, ma lo portava per prima cosa ad invocarlo come tale: " Pietà di me, Signore " (Sal 86,3). La domanda diventa così una preghiera fiduciosa nella pietà di Dio. Tutta l'invocazione dell'AT si concentra nel chiedere la venuta del Salvatore e questi è identificato con " il mistero della pietà (1 Tm 3,16). In questo mistero insondabile di pietà, è racchiuso l'atteggiamento di Dio verso l'uomo. È una descrizione migliore di qualsiasi altra dell'AT, in cui si ha il tipo di quello che ha da venire.

Non solo Cristo è collegato con la pietà di Dio, ma anche lo Spirito Santo. Sappiamo che la teologia insiste oggi più sul dono, che è lo Spirito Santo, che non sui doni dello Spirito Santo. La donazione del dono, dello Spirito, suscita in noi la reazione dinanzi alla pietà di Dio, una reazione che tutti pongono nell'accogliere Dio come padre degli uomini e principio della fraternità universale. È per mezzo dello Spirito che gridiamo: " Abbà! Padre! " (Rm 8,15).

La pietà assume così una dimensione trinitaria che la rende profondamente cristiana: il Padre manifesta la sua pietà soprattutto col mandare il Figlio suo. Lo Spirito del Figlio illumina l'oscurità dell'uomo perché percepisca il senso di questo atto del Padre e di tutto il suo atteggiamento pietoso.

La Chiesa, come anche ogni cristiano, realizza se stessa ad immagine della Trinità in ogni sua dimensione. Per questo, l'uomo non è pio soltanto perché si rivolge a Dio Padre con cuore di figlio nel Figlio, ma anche perché è pio di fronte agli altri, ai suoi fratelli. Probabilmente, non c'è da insistere, come si fa di solito, sul fatto che la pietà è fraterna perchè è paterna (uniti al Padre, siamo uniti anche con gli altri figli dello stesso Padre). Si deve soprattutto insistere sul fatto che la pietà suppone un essere e ha di fronte quello che non è o che non ha. Tutti gli uomini, di fronte agli altri uomini, sono ed hanno quello di cui gli altri hanno bisogno. In questa dimensione di essere e di avere, occorre chinarsi davanti a chi non è e non ha.

Questa dimensione discendente della pietà umana, ad immagine della pietà di Dio, che si incarna in atteggiamenti e doni (fino al punto che Dio Padre ci dona il Figlio suo), cambia profondamente il senso della pietà, relegando la pietà, sinonimo di devozione ad una accezione molto secondaria, che non può assolutamente divenire primaria, e nemmeno unica.

La pietà, come qualsiasi altro atteggiamento umano, deve incarnarsi in realizzazioni umane. Diversamente, cadremmo in un puro idealismo. Però, queste incarnazioni non possono stare al margine di qualsiasi nuova considerazione che venga fatta riguardo alla pietà.

Come si parla, giustamente, di un culto esistenziale (Rm 12,2), assieme ad un culto sacramentale, così dobbiamo parlare di una pietà esistenziale assieme ad una pietà devozionale (non mi arrischio a chiamarla sacramentale, anche se lo è). Dire che nella tradizione si è imposta la pietà rituale o devozionale su quella vitale o esistenziale non è esagerato: è una realtà. Ci deve essere un recupero della pietà esistenziale: ogni esistenza che si presta a condividere quello che è e quello che ha, fino al dono più prezioso, è un'esistenza pia che susciterà negli altri l'avvicinamento ai pii senza paura, ma con fiducia e serenità.

Per vivere la pietà, si può seguire questo duplice cammino: entrare nella pietà di Dio, che suscita la nostra pietà verso di Lui; cominciare con l'essere pii verso gli altri: questo ci porterà istintivamente verso Colui che dimostrò la sua pietà nel " mistero della pietà " (1 Tm 3,16).

Quando ci si è accinti a redimere le pratiche di pietà, non sembra che si sia tenuto conto di questo orientamento. Si è badate quasi unicamente al rapporto esterno con la liturgia. Non c'è stato grande interessse per altre dimensioni. Così è stato un pò dappertutto.

Bibl. - Giovanni Paolo II, Enciclica " Dives in misericordia ", 30.11.1980. Maritain J. e R., Vita di preghiera, liturgia e contemplazione, Ed. Borla, Roma, 1979. Sudbrack J., " PietàSpiritualità ", in: Enciclopedia Teologica, Ed. Queriniana, Brescia, 1989, pp. 725-731.

A. Guerra

Pluralismo. (inizio)

La Chiesa ha vissuto fin dai suoi inizi una continua tensione tra unità e pluralismo, tanto nel suo interno quanto nei suoi rapporti con la società. Da una parte, la società in cui si trova la Chiesa, soprattutto la società contemporanea, è quanto mai pluralista. Da un'altra, si sono moltiplicati i pluralismi teologici e pastorali all'interno del pensiero e della vita della Chiesa. C'è, dunque, un duplice fatto: la Chiesa in una società pluralista ed il pluralismo nella Chiesa.

Il pluralismo della società è caratterizzato da varie visiona del mondo, religiose o filosofiche. Esse circolano liberamente nel mercato delle idee e dei valori, come offerte e come domande, senza che nessuna di queste visioni goda di uno statuto privilegiato. La società pluralista si trova di solito negli stati democratici organizzati secondo l'economia di consumo, la libertà di mercato ed il sistema di partiti politici che cercano di rappresentare la sovranità del popolo. La società pluralista appare nel passaggio dalla società tradizionale alla società liberale. Queste " società aperte " sono caratterizzate dal loro pluralismo in vari ambiti fondamentali della vita: politico, educativo, culturale, economico e religioso. Purtroppo, esistono ancora stati totalitari, con questo o con quest'altro colore politico. Questi sono " società chiuse ", con schemi dottrinali unici, in cui si impone l'uniformità per mezzo della coercizione.

Una cosa sorprendente è che la Chiesa riesce a situarsi con più facilità, in accordo o in opposizione, negli stati totalitari e nei regimi politici autoritari, mentre si trova più sprovvista nelle società tipicamente pluraliste. Grazie ad una lunga tradizione, la Chiesa è vissuta in stretti rapporti con la società tradizionale, caratterizzata dal fattore dell'integrazione sociale proprio della religione, Non dimentichiamo, inoltre, che la Chiesa è stata " apologeticamente " sulla difensiva in tutto il processo redente della modernità. Al posto del dialogo, è stata imposta spesso la condanna; il comando è prevalso sulla responsabilità; la libertà è stata ritenuta pericolosa e si è nutrito diffidenza verso ogni emancipazione.

Tuttavia, gli storici più lucidi riconoscono che la Chiesa fu sempre plurale, tanto nella dottrina quanto nella pastorale. Tutta la Bibbia contiene un messaggio plurale, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento. Nelle prime tensioni sorte tra l'uniformismo ed il pluralismo, prevalse il pluralismo dei carismi, dei ministeri, delle interpretazioni e delle strutture comunitarie. Ricordiamo che la Chiesa primitiva fu fin dagli inizi bilingue e bi-culturale con due tendenze, quella ebraica e quella ellenista (At 6,1-7). Che la Chiesa sia stata plurale nel campo dottrinale, liturgico, disciplinare e ministeriale è un fatto palese.

Di fronte ai problemi sociali, politici, economici e culturali che sorsero a partire dall'età moderna, la Chiesa adottò un atteggiamento anti-pluralista. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che l'unità della Chiesa è una " nota " fondamentale contenuta nella professione di fede. Le sue radici nel NT sono evidenti (Ef 4,1-6; 1 Cor 12; Rm 12,3-8; Gal 3, 27 ss e i " sommari " degli atti). Nello stesso tempo, gli autori neotestamentari parlano della pluralità delle Chiese. L'unità ecclesiale neotestamentaria sta al livello della Chiesa locale, con la condizione di essere in comunione con le altre Chiese locali. La pluralità di concezioni pastorali, esistenti oggi nella Chiesa, produce in realtà più tensioni e conflitti che non i pluralismi teologici. Se questi ultimi sono più visibili, è perché rappresentano, al livello degli enunciati, alcune formulazioni più note e trasmesse meglio dai mezzi di comunicazione. Però, quello che il popolo cristiano percepisce come pluralismo è l'enorme varietà di linee pastorali, spesso antagoniste, che si costatano attraverso le parrocchie e la comunicazione sociale.

Il pluralismo pastorale è senz'altro accettabile, ma a patto che sia fondato su una pratica cristiana della comunione.

Bibl. - Caprioli A. - Vaccaro L. (edd.), Pluralismo nella Chiesa, Ed. Morcelliana, Brescia, 1982. Commissione Teologica Internazionale, Pluralismo. Unità della fede e pluralismo teologico, Ed. dehoniane, Bologna, 1974. Maritain J., Pluralismo e collaborazione nella società democratica, Ed. Cinque Lune, Roma, 1980. Rahner K., Il pluralismo teologico e l'unità della professione di fede nella Chiesa, in: " Concilium ", 6(1969), pp. 125-147. Vagaggini C., " Pluralismo teologico, in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1150-1166.

C. Floristán

Politeismo. (inizio)

Il politeismo è la teoria ed il sistema religioso che riconosce l'esistenza di più divinità. Fenomenologicamente, il politeismo rispecchia 1'esperienza umana di un mondo in cui si manifestano varie forme di potere sovrumano.

Storicamente, sono state date due spiegazioni opposte:

1) il politeismo sarebbe una degenerazione di un monoteismo primitivo;

2) il politeismo sarebbe uno stadio evolutivo verso il monoteismo.

L'antica scienza razionalista della storia delle religioni schematizzava in questo modo la complessità dei processi secondo un ordine evolutivo che andrebbe dal feticismo e dall'animismo al politeismo, e di qui, al monoteismo (ed infine all'ateismo). In questo schema è soggiacente la " legge del tre stadi " dello sviluppo dell'umanità, formulata da A. Comte: lo stadio teologico, più arcaico, avrebbe ceduto il posto a quello metafisico, e questo, allo stadio " positivo " (determinato dalla egemonia delle scienze).

Entrambe le posizioni sono ritenute oggi troppo sempliciste. Riguardo alla prima, è certo che in strati religiosi molto arcaici ci sono germi di monoteismo, ma solo germi. D'altra parte, non si può rifiutare semplicemente qualsiasi idea di evoluzione delle religioni (per esempio, per quanto riguarda le sue ierofanie o manifestazioni del sacro). Quanto alla seconda spiegazione, lo schema eccessivamente lineare risponde fin troppo alla " ideologia " evoluzionista e non riesce ad accordarsi alla complessità dei dati. Cosi, il politeismo è solito essere associato con forme di cultura primitiva, mentre, in realtà, il politeismo autentico appare nelle culture superiori, anche se è vissuto specialmente negli ambienti popolari. (Così, la religiosità popolare in tutti i paesi dell'Estremo Oriente è decisamente politeista).

Uno studio più approfondito di queste due posizioni fa vedere tratti comuni alle religioni politeiste. Esiste, in primo luogo, una figura di grandi dèi, più o meno impallidita; al di sotto, c'è una coppia di divinità: il cielo e la terra; poi, c'è un " re degli dèi " e la sua consorte. Sotto di essi, c'è una molteplicità di dèi che tende a riunirsi in due gruppi che si affrontano alle volte in atteggiamenti ostili, altre volte, amichevoli. In tutte le religioni, c'è anche il dio del tempo atmosferico, con immagini e miti in gran parte uniformi.

Gli dèi protettori delle città sono legati alla cultura urbana. Con lo sviluppo dei grandi imperi, il cambiamento di capitali porta con sè alti e bassi politici dei loro dèi rispettivi: alle volte, sono identificati con il re degli dèi, o con l'antico dio del cielo. L'imprecisione e la fluttuazione delle figure politeiste sono tratti consostanziali della loro natura. D'altra parte, e come movimento contrario, le scuole sacerdotali cercavano di sistemare il pàntheon. Però, continuamente, avvenivano fusioni di due o più dèi in uno, o il contrario, cioè, la scissione di un dio in varie figure.

Politeismo culturale. Questo flusso permanente, irriducibile all'unità, è stato quello che ha portato ad usare il termine politeismo, in senso analogico, nel linguaggio della sociologia. Così, Max Weber ha caratterizzato l'avvento della società moderna col predominio di un tipo di ragione (strumentale) che, essendo incapace di giudicare i fini che ogni gruppo sociale intende raggiungere, verrebbe a produrre come conseguenza un " politeismo di valori ". Le società moderne, dunque, avrebbero cessato di essere " monoteiste " sul piano culturale dei valori e delle finalità che intendono perseguire (pluralismo).

Questo pluralismo, entro certi limiti, implica una maggior libertà per l'individuo (il " monoteismo sociale " sarebbe l'equivalente di totalitarismo). Però, se, radicalizzando le posizioni, questo politeismo di valori si sottrarrà ad ogni tipo di ragionamento razionale, ciò porterà ad un decisionismo cieco nelle sue opzioni e sarà incapace di risolvere i conflitti sociali se non con la forza.

Parimenti, nel campo dell'etica individuale, e nell'ambito culturale spagnolo, è stato usato il termine politeismo da parte di certi filosofi e scrittori che sembrano caratterizzarsi come nietzscheani. Con Nietzsche, si va verso una esaltazione della vita nella sua finitudine, dei valori molteplici e parziali, delle realizzazioni mai piene, con l'invito ad abbandonare l'ambizione di dare alla vita un senso unico e totalizzante ( "monoteista "). Questa posizione incontra oggi una grande simpatia in vasti settori giovanili che, anche senza formularlo, vivono questa forma di umanesimo. Bisogna poi vedere se in queste posizioni non siano soggiacenti forme di rassegnazione sociale di fronte all'attuale crisi della civiltà.

Bibl. - Aa.Vv., Enciclopedia delle religioni, 5 voll., Firenze, 1970. Dellagiacoma V., " Politeismo ", in: Enciclopedia filosofica, V, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 131-132. Dhavamony M., Fenomenologia storica della religione, in: Cantone C. (a cura di), Le scienze della religione oggi, LAS, Roma, , pp. 11-87. Eliade M., Trattato di storia delle religioni, Torino, 1966. Henninger G., " Politeismo ", in: Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 1684-1686. James E.O., Nascita della religione, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1962. Tacchi Venturi P., Storia delle religioni, 2 voll., Torino, .

J. Martínez Cortés

Politica. (inizio)

La parola politica proviene dal greco pòlis, con cui venivano chiamate le antiche città-stati. In senso stretto, chiamiamo " politica " l'esercizio del potere pubblico o la lotta per esercitarlo. L'amore cristiano esige, indubbiamente, che si aiutino tutte le persone concrete. Però, senza volere affatto disprezzare questa " carità artigianale ", conviene ricordare che Pio XI ha parlato anche di una " carità politica " (18.12.1927) che si esercita gestendo correttamente le faccende pubbliche. Si tratta di una delle forme più efficaci di servire gli altri. A questo compito, devono sentirsi chiamati in modo speciale i cristiani laici. Siccome " una stessa fede cristiana può portare ad impegni differenti " (Octogesima adveniens, 50 a; cf GS 43 c), la Chiesa in quanto tale non deve identificarsi con nessun partito politico, ma ha il dovere di denunciare quelli che non sono coerenti col vangelo.

In un senso più ampio, si chiama politica tutto ciò che incide sull'esercizio del potere pubblico. In questo senso ampio, non esistono comportamenti a-politici, perché qualsiasi azione, come anche qualsiasi omissione, ha sempre una ripercussione politica. Questo interessa tutta la Chiesa; di fronte ai problemi socio-politici, può adottare soltanto due atteggiamenti: pronunciarsi, ed allora, fa politica consapevolmente; oppure, tacere. In questo caso, secondo il principio che " chi tace acconsente ", la Chiesa fa inconsciamente politica a favore dello statu quo. Parlando in questo senso ampio, la Chiesa non può scegliere di fare o di non fare politica, ma può solo scegliere a favore di chi la deve fare.

Bibl. - Lazzati G., La città dell'uomo, Ed. AVE, Roma, 1984. Luhmann N. ed altri, Etica e Politica, Ed. Angeli, Milano, 1984. Pintacuda E., Breve corso di politica, Ed. Rizzoli, Milano, 1988. Sorge B., " Politica ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 763-773. Tonini G., La mediazione culturale: l'idea, le fonti, il dibattito, Ed. AVE, Roma, 1985.

L. González-Carvajal

Popolo. (inizio)

Il concetto di popolo è suscettibile di tre usi principali:

1) Il popolo può essere inteso come popolazione che ha una cultura propria e differenziata, sviluppatasi lungo un processo storico integratore. Ogni popolo aspira a darsi una configurazione politica propria. Una volta che questa è ottenuta, popolo significa anche il complesso di cittadini che fanno parte di questo stato o unità politica.

2) I movimenti populisti non hanno mai definito con precisione che cos'è il popolo, ma affermano che esso è il depositario dei valori autentici e che è indipendente dalla condizione sociale (Eva Peron, dopo aver stabilito come modello di popolo il " descamisado ", dichiarava: " Descamisado è tutto quello che si sente popolo "). Il populismo va più in là dei movimenti interclassisti perché, invece di cercare di conciliare le classi sociali, nega che esistano. Per i movimenti populisti, la divisione sta tra popolo e non popolo, intendendo per non popolo quelli che sono estranei alla propria tradizione: questi vanno dagli stranieri ai movimenti sociali portatori di ideologie rivoluzionarie.

3) Infine, per i movimenti popolari, il popolo sono quei gruppi e quelle classi di condizione umile che occupano nella società una posizione subordinata, ma solo nella misura in cui sono consapevoli della loro situazione e si organizzano in qualche modo per poterla riformare. In questo terzo caso, popolo è opposto alla élite dirigente, non agli altri popoli, come sosteneva, invece, il movimento populista.

Bibl. - Abbagnano N., Dizionario di Filosofia, UTET, Torino, , p. 681. Ellena A. (a cura di), Enciclopedia Sociale, Ed. Paoline, Alba, 1959. Groppali A., " Popolo ", in: Enciclopedia Filosofica, V, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 160. G.V.C., " Popolo ", in: Enciclopedia Italiana, XXVIII, Treccani, Roma, 1935, pp. 930-931.

L. González-Carvajal

Popolo di Dio. (inizio)

Il Concilio Vaticano II, dopo aver trattato del carattere misterico della Chiesa nel capitolo 1o della Costituzione Lumen Gentium, ha usato il titolo Popolo di Dio come quello più adatto per definire il mistero della Chiesa e come intestazione dell'intero capitolo 2o di questa Costituzione. Raggiunge così il suo vertice lo sviluppo teologico, tanto protestante quanto cattolico che dagli anni " quaranta si fissava su questo titolo come quello più capace di esprimere l'indole della Chiesa. È inoltre un concetto ecclesiologico con ampie risonanze bibliche, e può, come tale, facilitare un consenso ecumenico.

1) Dio convoca e sceglie un popolo. Il soggetto di questo titolo è Dio e non il popolo. Lungo tutto l'AT, appare il costituirsi di un popolo in forza dell'alleanza e della promessa di salvezza da parte di Dio. Egli è colui che assicura un futuro al popolo. Questo carattere trascendente, escatologico e storico di Israele continua nella Chiesa, che si sente radicata in questa storia di salvezza. Pertanto, il titolo " Popolo di Dio " è quello che esprime meglio le radici della Chiesa, la tradizione che la genera e le dimensioni che la costituiscono. Possiamo parlare di una ecclesiogenesi della comunità cristiana a partire da Israele, sottolineando il suo posto nella storia dell'alleanza tra Dio e l'umanità.

La Chiesa si percepisce come il prolungamento della storia di Gesù, come una comunità universale che supera il particolarismo ebraico e che proclama la salvezza a tutta l'umanità. Questo è per la Chiesa un dono e un compito: da una parte, deve invocare Dio, fare memoria di Gesù Cristo e chiedere allo Spirito Santo che le conceda di vivere questa alleanza. È la comunità che rende grazie per il dono ricevuto e che spera in Dio, non confidando nelle proprie forze. D'altra parte, è per la Chiesa un imperativo quello di vivere come la comunità messianica che sta al vertice della storia di Israele. Deve realizzare nella teoria e nella pratica un universalismo che abbraccia tutte [ culture e tutti i popoli; non deve essere la canonizzazione di un particolarismo che richiami quello veterotestamentario. Per questo, la Chiesa è e deve essere cattolica. È necessaria l'inculturazione: la Chiesa non può rimanere fissa nella strutturazione europea ed occidentale. Deve aprirsi a forme africane, asiatiche o americane, don una fede ed una storia di salvezza comune, ma senza imporre il modello di inculturazione occidentale.

La Chiesa si differenzia da Israele anche come popolo di Dio, perché

è una comunità di peccatori, di oppressi e di poveri. Deve realizzare in essa il progetto messianico di Gesù ed annunciare il Dio della grazia e della buona novella. La figura di Maria che loda Dio è il simbolo della Chiesa che proclama il Dio della grazia (non della legge), del perdono (non della colpa), dei peccatori e dei poveri (non dei giusti, autosufficienti e potenti). La Chiesa è il popolo dei peccatori redenti ed è la Chiesa dei poveri; deve viverlo e testimoniarlo nel suo modo di strutturarsi e nella sua opzione per i peccatori e per i poveri. Solo così, può essere testimone per Israele il quale costituisce per la Chiesa una missione inconclusa e le ricorda ciò che può succedere ad una comunità legalista, prepotente e che s'inorgoglisce per il suo posto nella storia della salvezza.

2) Un popolo in cui Dio è sovrano. Solo Dio regna sul suo popolo. Il Regno di Dio non si identifica con la Chiesa, ma deve esprimersi in essa. La comunità cristiana raccoglie la tradizione profetica, come anche la critica agli idoli nella storia d'Israele per continuare a partire dalla storia di Gesù. In quanto popolo peregrinante nella storia, la Chiesa vive in una provvisorietà che le impedisce di fissarsi io un'epoca storica, adagiarsi in una cultura o di legittimare un dato ordine sociale. In vista della costruzione del Regno di Dio, La Chiesa deve anteporre la missione e la trasformazione per opera del vangelo ai propri interessi e alle dinamiche di una semplice comunità umana. La santità di Dio è incompatibile con qualsiasi forma di dominio o di oppressione in seno ad essa. In quanto fraternità, la Chiesa deve riflettere la comunione trinitaria e il Dio dell'amore. In essa, l'autorità è un servizio alla comunità. È incompatibile con l'essenza della Chiesa qualsiasi forma di dominio, di culto della personalità, di autoritarismo e di prepotenza. Queste manifestazioni danneggiano il carattere sovrano di Dio, poiché, nella Chiesa, non c'è Padre e Signore all'infuori di Dio e del suo Cristo.

In quanto Popolo di Dio, la Chiesa è una fraternità di uguali. Le differenze gerarchiche e carismatiche non possono emarginare la dignità comune, il protagonismo di tutti in forza della consacrazione battesimale, il carattere comunitario che si oppone ad una massa amorfa e passiva. Nella Chiesa, deve regnare la libertà di quelli che sanno di essere figli di Dio nel Figlio, e non il timore dei servi che non si arrischiano ad esteriorizzarsi e a vivere nell'autenticità. Nella Chiesa, non valgono le differenze di classi sociali, di nazionalità, di color della pelle o di sesso. Questo è un programma ed un imperativo per la comunità riflettere alla luce dello Spirito Santo su quanto in essa c'è di mondano, di forme velate di razzismo o di classismo, di maschilismo e di nazionalismi particolarismi. Solo così, la Chiesa può realizzarsi come " il terzo popolo " proclamato dai Padri della Chiesa antica.

Bibl. - Boff L., Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la Chiesa, Roma, 1978. Citrini T., Chiesa dalla Pasqua, Chiesa tra la gente, Milano, 1985. Congar Y., Un popolo messianico, Ed. Queriniana, Brescia, 1976. Estrada J.A., Da Chiesa mistero a popolo di Dio, Ed. Cittadella, Assisi, 1991. Ratzinger J., Il nuovo popolo di Dio, Ed. Queriniana, Brescia, 21972.

J.A. Estrada

Post-modernità. (inizio)

La cultura post-moderna è sorta come reazione alla modernità: essa nega l'idea di progresso, ma non la sostituisce con quella di decadenza. Proclama invece la fine della storia. Gli avvenimenti si incrociano senza una finalità propria. Di fronte alla laboriosità, esaltata dalla mentalità capitalista, viene ora esaltato il principio del piacere, il non differimento del godimento (la società dei consumi di fronte alla società dei risparmio, la liberazione sessuale di fronte alla morale vittoriana, ecc.). Di fronte al razionalismo che portò alla mentalità scientifico-tecnica, il post-moderno rivendica i diritti della sensibilità e della soggettività. Di fronte alla secolarizzazione, esso proclama il ritorno del religioso. Però, si tratta di una religiosità di carattere misterico (spiritismo, orientalismo, ritorno dei maghi...). La complessità del fenomeno dei " nuovi culti " è tale che Roszak ha proposto il bisogno di inventare qualche parola nuova per designarli, come, per esempio, " psico-mistico-parascientifico-spirituale-terapeutico ". Sono forse l'espressione di una società pericolosamente frustrata che diventa sempre più sedotta dalle soluzioni carismatiche, messianiche e fanatiche. Di fronte al desiderio di dominare il mondo e di trasformare la società, si alza ora la bandiera della liberazione interna. Si hanno manifestazioni di ciò in certe forme devozionistiche, nella psicoterapia, nella scomparsa di qualsiasi interesse esterno (menefreghismo). Il ricorso alla droga esprime anche la ricerca di " liberazione interna " in un mondo che non rimane scosso. La post-modernità sembra, in poche parole, una reazione unilaterale di fronte a quelle unilaterali della modernità.

Bibl. - Colletti L., Tramonto dell'ideologia, Ed. Laterza, Roma-Bari, 1980. Goudsblom J., Nichilismo e cultura, Ed. Il Mulino, Bologna, 1982. Ladrière J., I rischi della razionalità. La sfida della scienza e della tecnologia alle culture, Ed. SEI, Torino, 1978. Lyotard J.F., La condizione postmoderna, Ed. Feltrinelli, Milano, 1981. Ricoeur P., Il conflitto delle interpretazioni, Ed. Jaca Book, Milano, 1977. Vattimo G., La fine della modernità, Ed. Garzanti, Milano, 1985.

L. González-Carvajal

Potere. (inizio)

Nel suo significato più ampio, il potere è la capacità di produrre effetti. In questo senso, si parla, per esempio, nella fisica, del " potere calorifico ", del " potere di scioglimento ", ecc. Le scienze sociali si limitano a studiare il potere dell'uomo sull'uomo, e questa è l'unica prospettiva che qui interessa anche noi. Conviene far notare che, anche se si è tante volte identificato il " potere " con il " potere dello Stato ", il potere politico è soltanto una delle molte forme di potere che esistono in qualsiasi società (potere economico, religioso, culturale, ecc.).

Max Weber ha definito il potere come la capacità di un individuo di modificare il comportamento di un altro. Naturalmente, è necessario che comportamento sia modificato nelle direzione voluta dal primo; altrimenti, invece dell'esercizio del potere, non ci sarebbe altro che un tentativo fallito di esercitarlo.

Dobbiamo distinguere tra il potere non legittimo ed il potere legittimo (a quest'ultimo è riservato il termine autorità). Il filosofo ed il teologo potranno elaborare, indubbiamente, un sistema ontologico del potere legittimo. Il sociologo, invece, si accontenterà di affermare che un potere è legittimo quando è obbedito senza che si debba ricorrere alla violenza. Al limite, il sociologo sosterrà che un potere non è ubbidito perché non è legittimo, mentre è legittimo perché si obbedisce. Per O, non è sempre facile tracciare i confini tra potere legittimo e potere non legittimo. Si può perfino dare il caso che la legittimità di un determinato potere sia riconosciuta da alcuni e negata da altri, di modo che nemmeno il potere più legittimo può prescindere totalmente dalla violenza. Secondo Max Weber, esistono tre forme principali di legittimazione:

 quella carismatica (basata sulle qualità personali di chi detiene il potere;

 quella tradizionale (basata sui valori e sui miti di una società);

 quella razionale (basata sugli interessi comuni dei partecipanti).

Per molto tempo, ha dominato una concezione personale del potere. Si vedeva il potere come una qualità posseduta da determinati individui, alla maniera del denaro o delle qualità fisiche. Oggi, invece, si è imposta una concezione relazionale. Il potere dipende, indubbiamente, dalla quantità di risorse suscettibili di essere poste in gioco (che, secondo Etzioni, sono di tre categorie: la coercizione, le ricompense e la persuasione). Però, non basta che un uomo disponga di tali mezzi per avere il potere sugli altri: occorre anche che gli altri siano sensibili a questi mezzi (il multimilionario, per esempio, non ha potere sul povero volontario, né il tiranno sul martire). Occorre inoltre che il potere non dipenda tanto dai mezzi realmente disponibili da parte di un soggetto quanto dalla stima che l'altro ha di questi mezzi. In fondo, vale anche qui il principio sostenuto dal sociologo nordamericano W.I. Thomas: " Quando gli uomini immaginano una situazione come reale, essa è reale nelle sue conseguenze ".

La valutazione del potere oscilla tra la sua esaltazione (Macchiavelli, Nietzsche...) ed il suo rifiuto più categorico (anarchia). I primi corrono il rischio di finire per considerare il potere come un valore in sé e non come un mezzo a servizio di qualche fine, cadendo così nella erotica del potere. Harold D. Lansswell, nella sua opera classica Psicopatologia e Politica (1930), giunse alla conclusione, dopo aver analizzato molte biografie, che pochi politici sono normali agli occhi dello psichiatra. I secondi, invece, corrono il pericolo di difendere posizioni poco realiste. Una società che sia completamente carente di potere è una fantasia ingenua. La frase di Mao secondo cui " ogni potere politico esce dalla canna del fucile " non è un motto cinico, ma è una triste costatazione.

La democrazia è caratterizzata dal considerare il potere come un male necessario. Lo accetta, ma ne riconosce i pericoli (" il potere corrompe, diceva Lord Acton, e il potere assoluto corrompe assolutamente "). Conseguentemente, la democrazia cerca di regolare le condizioni per l'esercizio del potere in modo che gli effetti di oppressione vengano ridotti al minimo e portati al massimo i suoi effetti positivi.

L'atteggiamento cristiano di fronte al potere è uguale: né la forza, né la coazione fanno parte del progetto iniziale di Dio. Sono diventate inevitabili come conseguenze del peccato e scompariranno quanto tutto sarà ricapitolato in Cristo. Conseguentemente, l'uso corretto del potere deve tendere alla sua eliminazione progressiva. L'autentica questione etica deve versare sulla " dose " corretta della coazione e della libertà in una data situazione. Quando non si agisce così, il potere diventa peccato, e proprio nella forma che realizza meglio l'essenza del peccato: voler essere come Dio. O, per essere più esatti, voler essere come quella immagine di Dio che è solo proiezione delle relazioni umane di potere, mentre il Signore dell'universo lava i piedi ai suoi discepoli.

Bibl. - Bobbio N., Il problema del potere, Torino, 1966. Ferrarotti F. (a cura di), La sociologia del potere. Da prerogativa personale a funzione razionale collettiva, Ed. Laterza, Bari, 1972. Fromm E., Fuga dalla libertà, Ed. Comunità, Milano, 1973. Guardini R., Il potere! Ed. Morcelliana, Brescia, . Haering B., Il cristiano e l'autorità, Ed. Borla, Torino, 1964. Lorenzetti L., " Potere ", in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 970-978. Rahner R., Teologia del potere, in: Saggi di spiritualità, Ed. Paoline, Roma, 1965. Ritter G., Il volto demoniaco del potere, Ed. Il Mulino, . Weber M., Economia e società, Ed. Comunità, Milano, 1968.

L. González-Carvajal

Povertà. (inizio)

Intendiamo per povertà la mancanza di qualche bene riconosciuto come tale e desiderato (denaro, cultura, salute, ecc.). Generalmente, tutte queste carenze si nutrono le une con le altre dando luogo al circolo vizioso della povertà da cui è difficile uscire. Tra le cause della povertà, ricordiamone tre:

a) L'arretratezza tecnologica. Prima della rivoluzione industriale  e molti paesi del terzo Mondo non sono ancora arrivati ad essa , esisteva una carenza di beni generalizzata. Nemmeno la più equa distribuzione che si sarebbe potuto immaginare sarebbe bastata per eliminare la povertà.

b) L'oppressione. Come conseguenza dell'appropriazione privata dei mezzi di produzione, i proprietari di questi beni tendono ad impadronirsi anche degli eccedenti economici prodotti dai lavoratori nei loro campi o nelle loro fabbriche, lasciando questi nella povertà. Nei paesi sviluppati, l'intervento dello Stato nell'economia e la capacità di rivendicazione dei lavoratori organizzati in potenti sindacati hanno posto un certo freno all'oppressione.

c) L'emarginazione. Il raggiungimento del massimo rendimento è il motore dell'economia. Conseguentemente, il nostro sistema di produzione tende ad emarginare i cittadini che non sono pienamente funzionali. Come è logico, se non lavorano affatto, non sono neanche struttati, ma questa è la loro rovina perché, emarginati dalla produzione, rimangono emarginati anche dalla distribuzione. Con alto rischio di emarginazione vengono ad essere le persone anziane, gli handicappati fisici, quelli psichici, gli infermi mentali, le minoranze etniche, gli alcoolizzati, i drogati, ecc.

Conseguentemente, la lotta contro la povertà deve avvenire su due grandi fronti:

a) Il fronte tecnico, che cerca di dominare la natura esterna per poter produrre una quantità sufficiente di beni e di servizi.

b) Il fronte etico-politico, che si propone di eliminare lo sfruttamento dei lavoratori e l'emarginazione di quelli che non sono pienamente funzionali, con l'intento di distribuire equamente i beni e i servizi disponibili. I cristiani possono considerare entrambe queste azioni come segni del Regno di Dio. È facile, infatti, stabilire un legame tra il fronte tecnico e il tema dell'abbondanza messianica (cf Is 25,6; 35, 1-7a; Mt 14,20; ecc.), tra il fronte etico-politico e il tema della giustizia messianica. Viene detto espressamente che nel Regno di Dio non ci sarà sfruttamento (cf Is 62,8; 65,21-22), né emarginazione (cf Is 55,1). Per questo, Gesù di Nazaret, facendo sua una tradizione che viene dal Trito-Isaia, affermerà di essere stato inviato " per annunziare il Vangelo ai poveri " (Lc 4,18-19).

Fedeli a questo spirito, i vescovi latino-americani hanno proclamato a Puebla " la necessità di conversione di tutta la Chiesa per una opzione preferenziale per i poveri, mirando alla loro liberazione integrale " (n. 1134). Ciò esige:

a) Che la parte maggiore e migliore degli effettivi umani della Chiesa si metta a servizio dei poveri, condividendo anche la loro vita.

b) Che la minoranza che continua a lavorare tra i ricchi faccia anch'essa l'opzione preferenziale per i poveri, in modo da annunciare loro il vangelo partendo dalla solidarietà con gli oppressi e con gli emarginati, con le loro lotte e con le loro speranze.

c) Che gli uni e gli altri siano disposti ad usare le mediazioni efficaci del loro amore. Queste mediazioni possono essere molto varie e dipendono dalla vocazione di ognuno, ma senza di esse, tutto rimarrà in un romanticismo sterile.

Bibl. - Aa.Vv., La violenza dei poveri, IPL, Milano, 1967. Acerbi A., " Povertà ", in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1187-1198. Brovetto C., " PoveriPovertà ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 568-569. Gelin A., Il povero nella Scrittura, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1957. Gheddo P., I popoli della fame, EMI, Bologna, 1985. Giovanni Paolo II, Enciclica " Sollicitudo rei socialis ", 30.12.1987.

L. González-Carvajal

Predicazione. (inizio)

In senso generico, la predicazione è l'annuncio pubblico della parola di Dio, fatto in forma di discorso dai ministri autorizzati, col fine di portare gli uditori a ricevere in un modo consapevole e libero il messaggio della salvezza e costruire e far crescere la Chiesa. Ci sono vari tipi di predicazione, a seconda principalmente della situazione degli uditori nei riguardi della fede e dell'appartenenza alla comunità cristiana: la predicazione missionaria o evangelizzatrice (chiamata kerigmatica), che si rivolge a coloro che ancora non credono, affinché si convertano ed accettino la fede; la catechetica che espone ai credenti in modo sistematico tutto il contenuto dottrinale e morale della fede già accettata; quella liturgica, o omiletica, che spiega la parola di Dio proclamata nella liturgia e ricava da essa applicazioni concrete per la vita dei membri della comunità; la predicazione parenetica, che esorta continuamente i membri della Chiesa a conservare la fede e a praticare la vita cristiana.

Il Codice di Diritto Canonico dà molta importanza alla predicazione, e dice a questo riguardo: " Dal momento che il popolo di Dio viene radunato in primo luogo dalla parola di Dio vivente, che è del tutto legittimo ricercare dalle labbra dei sacerdoti, i sacri ministri abbiano grande stima della funzione della predicazione, essendo tra i loro principali doveri annunciare a tutti il Vangelo di Dio " (CIC c.762). Dice inoltre: " I laici possono essere ammessi a predicare in una chiesa o in un oratorio, se in determinate circostanze lo richieda la necessità... " (c. 766).

" È diritto dei Vescovi predicare dovunque la parola di Dio, non escluse le chiese e gli oratori degli istituti religiosi di diritto pontificio, a meno che il Vescovo del luogo in casi particolari non lo abbia negato espressamente " (c. 763). " I presbiteri e i diaconi godono della facoltà di predicare dovunque, da esercitare con il consenso almeno presunto del rettore della chiesa:.. " (c. 764). I laici, come abbiamo visto, possono essere ammessi a predicare in una chiesa o oratorio, anche se l'omelia propriamente detta rimane riservata al sacerdote e al diacono (c. 766, 767).

Riguardo al contenuto della predicazione, il CIC segnala, prima di tutto, " ciò che è necessario credere e fare per la gloria di Dio e per la salvezza degli uomini " (c. 768 § 1). Poi, " impartiscano ai fedeli anche la dottrina che il magistero della Chiesa propone sulla dignità e libertà della persona umana, sull'unità e stabilità della famiglia e sui suoi compiti, sugli obblighi che riguardano gli uomini uniti nella società, come pure sul modo di disporre le cose temporali secondo l'ordine stabilito da Dio " (c. 768 § 2). Quindi, la predicazione cristiana può e deve parlare di tutto, purché tutto si riferisca al fine supremo della gloria di Dio e alla salvezza degli uomini. Riguardo poi al modo, il Diritto Canonico dice: " La dottrina cristiana sia proposta in modo conforme alla condizione degli uditori e adattato alle necessità dei tempi " (c. 769). Perciò la Chiesa si preoccupa anche di assicurare la predicazione non solo nelle chiese, ma anche in altri luoghi, e, essenzialmente, attraverso i mezzi moderni di comunicazione sociale come, per esempio, la radio e la televisione (cf CIC c. 772).

Le norme canoniche parlano anche della necessità di organizzare di quando in quando " quelle predicazioni che denominano esercizi spirituali e sacre missioni, o altre forme adattate alle necessità " (CIC c. 770). Inoltre " i pastori delle anime, soprattutto i Vescovi e i parroci, siano solleciti che la parola di Dio venga annunciata anche a quei fedeli, i quali per la loro condizione di vita non usufruiscono a sufficienza della comune e ordinaria cura pastorale o ne sono totalmente privi " (CIC c. 771 § 1). " Provvedano pure che l'annuncio del Vangelo giunga ai non credenti che vivono nel territorio, dal momento che la cura delle anime deve comprendere anche loro, non altrimenti che i fedeli " (c. 771, § 2). La Chiesa deve essere sempre fedele a queste parole di san Paolo: " Come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, se non sono stati inviati?... La fede viene dall'ascolto e l'ascolto viene dalla parola di Cristo " (Rm 10,14-17).

Bibl. - Della Torre L., La predicazione dei laici. Comunicazione della fede e nuovi ministeri della Parola, Ed. Queriniana, Brescia, 1978. Deiss L., Celebrare la Parola, Ed. Paoline, Cinisello B., 1992. Maldonado L., La predicazione, Ed. Queriniana, Brescia, 1973.

J. Llopis

Preghiera. (inizio)

Parlando qui di preghiera, intendiamo riferirci alla preghiera del singolo, cioè, alla preghiera " silenziosa ", o personale. Senza avere una terminologia propria ed inalterata, questa forma di preghiera si distingue dalla preghiera liturgica e dalla preghiera comunitaria non liturgica.

Teoricamente, la preghiera personale gode di una tradizione senza pari. Tanto il NT (Gesù ed il suo insegnamento, come anche la dottrina degli Apostoli) quanto la Tradizione hanno dato a questa preghiera alcune radici profonde. Nella pratica, però, la preghiera personale ha incontrato grossi problemi. Psicologicamente, è sempre stata un'attività costosa.

In questi ultimi cinquant'anni, la preghiera è stata fortemente contestata. Contribuirono per questo la reazione ad un'abitudine meccanica sclerotizzata, l'attivismo, la psicologia del profondo, la prima fase della teologia " secolare ". D'altra parte, in una seconda fase teologica, il cambiamento dell'homo faber in homo festivus, il pullulare di movimenti " spirituali " ed il fascino dell'Oriente hanno rivendicato la presenza della preghiera come senso profondo della fede e della vita, anche di quella a-religiosa.

La diversità di stimoli spirituali e la loro profonda ambiguità hanno portato alla convinzione diffusa, teologica e pastorale, della necessità di una profonda evanglizzazione della preghiera.

Evangelizzare la preghiera: è questo il compito principale di fronte alla preghiera. Ad un cristiano, non deve interessare in primo luogo pregare molto o pregare poco; deve interessare farlo e farlo evangelicamente.

Evangelizzare la preghiera vuol dire inizialmente staccarla un tantino dal mondo dell'ascetica in cui è stata compresa. Non si vuol dire con ciò che l'ascetica non sia necessaria per la preghiera, ma si vuol dire che la preghiera non è un atto ascetico, bensì teologale.

Evangelizzare la preghiera significa fondamentalmente due cose: prima di tutto, bisogna presentare la preghiera come la buona notizia dell'incontro di Dio  il primo orante, perché è Lui che ci prega con l'uomo; seconda cosa: pregare come Cristo ci ha insegnato. Le nostre preghiere possono essere anche buone, ma possono essere non cristiane.

Lavorare teologicamente la preghiera vuol dire fare questo cammino necessario di evangelizzazione. Definire la preghiera come esperienza di gratuità (G. Gutiérrez) significa entrare nel nucleo della teologia della preghiera cristiana.

La parola " gratuità " è una parola recente nel vocabolario teologico, e forse per questo viene fraintesa. Essa esprime la categoria del rapporto di amicizia, in quanto opposto o differente dal rapporto commerciale ed utilitarista. Così, questa parola porta la preghiera alla definizione teresiana: " L'orazione mentale non è altro, secondo me, che un intimo rapporto di amicizia, un frequente intrattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo d'essere amati " (Vita di santa Teresa, c. VIII, n. 5). È un rapporto in cui si cerca la comunicazione e l'effusione, nulla di più e nulla di meno (L. Maldonado). È un rapporto che ha senso in se stesso, che si giustifica da sé, e non per qualcosa che sta al di là della stessa preghiera (J.M. Castillo). È questo il cammino per l'evangelizzazione della preghiera.

La relazione di Dio con l'uomo (abbiamo detto che Dio ci prega) è esposta ai tanti errori e alle tante stravaganze testimoniate dalla storia, anche da quella d'oggi. C'è il rischio che molti oranti ritengano tutto come proveniente da Dio e dicano: "Dio mi ha detto; Dio mi ha risposto". Invece non è così, ma il più delle volte, sono essi che dicono a sé stessi " (San Giovanni della Croce).

Per superare questo rischio, l'orante deve appoggiarsi sull'umanità di Gesù, nel quale il Padre " ci ha detto tutto insieme e in una volta in questa sola Parola, e non ha più niente da dire " (San Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, libro II, c. XXII, n. 3). Gesù è il " libro vivo " (Santa Teresa d'Avila). Tutto il resto: Scrittura, comunità, segni dei tempi, tutto va letto alla luce dell'esperienza di Gesù di Nazaret. Imparando a leggere in Cristo, con la forza dello Spirito, si coglie il senso e la vicinanza di Dio presente in tutto ciò.

Le categorie dell'incontro e del dialogo (adattate alla preghiera) possono essere spesso un alibi per la mancanza di realismo, per la superficialità e per l'intimismo. Per questo, l'orante deve badare al contenuto di questo dialogo di Dio con l'uomo e all'atteggiamento dell'uomo dinanzi a Dio. Il contenuto dovrà essere la vita (questo vuol dire: pregare la vita, cioè, fare della vita il contenuto del dialogo e dell'incontro orante). Quando questo è assente e l'orante vaga come un turista per i " verdi prati del cielo ", vuol dire che la sua preghiera è ancora allo stato adolescenziale. Probabilmente, siamo dinanzi ad una preghiera completamente artificiale ed irreale.

La preghiera è " generatrice di necessità profonde " (G. Gutiérrez). Quando l'incontro orante è autentico, esso stimola in chi prega le sue necessità e le possibilità che offre il Regno di Dio. Gesù fu l'orante del Regno. Il cristiano non ha un'altra sorte. L'orante che nella preghiera è stato con Dio (questa espressione non deve incutere timore), deve confessare con la stessa forza che una preghiera che non desti in lui l'esigenza evangelica per i fratelli non è preghiera cristiana. Stare con Dio è la finalità della preghiera. " Le opere e gli effetti che conseguono " sono la sua istanza critica irremovibile: " non c'è un crogiolo migliore per saggiarla " (Santa Teresa d'Avila).

Qualcuno ha scritto con una certa ironia: sulla preghiera, sappiamo già quasi tutto, meno che pregare (F. Ruiz). È un paradosso, ma significativo.

Una pastorale della preghiera dovrà tenere presenti queste cose (oltre ad una teologia della preghiera, che è essenziale): la formazione di oranti, il processo della preghiera, le difficoltà e le possibilità che si presentano nel dinamismo della preghiera, il discernimento... Sono quattro punti tutt'altro che facili, molto esposti a tergiversazioni, ma sono necessari, anzi, sono elementari.

Sui rapporti tra preghiera cristiana e metodi orientali (che potrebbero entrare nella pastorale), ne parliamo nella voce meditazione. Questa voce e l'altra: contemplazione completano quello che si è detto qui.

Bibl. - Barsotti D., Preghiera cristiana, Ed. Messaggero, Padova, 1970. Besnard A.M., La preghiera come rischio, OR, Milano, 1973. Gozzelino G., Al cospetto di Dio. Elementi di teologia della vita spirituale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 36-89. Guardini R., Preghiera e verità, Ed. Morcelliana, Brescia, 1973. Häring B., " Preghiera ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1260-1271. Magrassi M., Bibbia e preghiera, Ed. Ancora, Milano, 1973. Marcheselli C.C., La preghiera in san Paolo, Ed. D'Auria, Napoli, 1974.

A. Guerra

Presbitero. (inizio)

Nella Chiesa, si chiamano presbiteri i ministri della comunità che, coi vescovi e sotto la loro autorità, predicano al popolo la Parola di Dio, amministrano i sacramenti e governano pastoralmente il Popolo di Dio. La parola presbýteros era applicata, al tempo di Gesù, agli anziani, membri del Sinedrio. Erano laici e provenivano dalle famiglie sacerdotali di Gerusalemme e dalle file degli studiosi. Nel NT, è soprattutto Luca che usa questa parola per designare i membri della comunità cristiana (At 11,26), e specialmente gli uomini della comunità di Gerusalemme che ne avevano la direzione (At 11,30; 21,18). Aiutavano gli Apostoli (At 15,2.4.6.22-23; 16,4). Nelle lettere pastorali, la parola " presbitero " diviene un titolo onorifico per quelli che fanno parte di un collegio che vigila sui membri e sulla vita della comunità (1 Tm 5,17.19; cf 4,14; Tt 1,5). Verso la fine del secolo II e agli inizi del secolo III, i presbiteri appaiono, assieme ai vescovi e ai diaconi, come i ministri fondamentali nella comunità della Chiesa.

La teologia del presbiterato fu elaborata, nei secoli XII e XIII, dalla Grande Scolastica, partendo dal rapporto tra sacerdozio e sacrificio. Perciò la funzione essenziale dei presbiteri era la celebrazione della Eucaristia. Questo concetto fu ribadito nella sessione XXIII del Concilio di Trento. Per questo, nei secoli scorsi, fu ampiamente delineata la figura del sacerdote dedicato fondamentalmente al culto, mentre la dimensione della missione pastorale della Chiesa passava in secondo ordine. Il Concilio Vaticano II ha corretto questa visuale unilaterale del presbiterato: per comprendere che cos'è un presbitero, si parte oggi dalla teologia della missione, che abbraccia contemporaneamente la triplice funzione di predicare la parola di Dio, di celebrare i sacramenti e di reggere il popolo di Dio.

Secondo l'attuale legislazione della Chiesa, possono accedere al presbiterato solo gli uomini che accettano la legge del celibato ecclesiastico. Queste due prescrizioni hanno, però, un valore disuguale. C'è un consenso teologico nel ritenere che il celibato non appartiene alla natura del presbiterato: è una pura norma ecclesiastica per il clero di rito latino (questa norma non esiste per il clero cattolico di rito orientale). Riguardo all'esigenza di essere " uomo " per accedere al presbiterato, esiste oggi una grande discussione teologica se Bi tratti di qualcosa di sostanziale o di una tradizione storica determinatasi socioculturalmente. Questa è oggi una delle questioni più scottanti nella teologia del presbiterato.

Bibl. - Aa.Vv., Aspetti della teologia del sacerdozio dopo il Concilio, Ed. Città Nuova, Roma, 1974. Baroffio B., " Sacerdozio ", in: Nuovo Dizionario di liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 1233-1253. Concetti G. (a cura di), Il prete e gli uomini d'oggi, Ed. AVE, Roma, 1975. Galot J., Teologia del sacerdozio, LEF, Firenze, 1981. Rahner K., Saggi sui sacramenti e sull'escatologia, Ed. Paoline, Roma, .

J.M. Castillo

Prima Comunione. (inizio)

Si chiama prima Comunione la prima partecipazione completa alla celebrazione eucaristica mediante la comunione sacramentale col Corpo e Sangue di Cristo. Nella celebrazione dell'iniziazione cristiana degli adulti, la prima comunione avviene subito dopo il battesimo e la cresima. Generalmente, avviene così in Oriente anche nel caso dell'iniziazione dei bambini. In Occidente, da molto tempo, il battesimo è rimasto svincolato dalla cresima e dall'ammissione alla comunione eucaristica. Quest'ultima venne fissata in età molto diverse a seconda delle usanze di ogni paese, ma con la tendenza a portarla verso l'inizio dell'adolescenza. Grazie all'intervento del Papa Pio X col decreto Quam singulari del 10 Agosto 1910 ritornò ad ammettere i fanciulli in tenera età alla comunione sacramentale. Però, in alcuni paesi, come in Francia, si conservò l'usanza di celebrare la prima comunione " solenne " verso gli undici anni, anche se i fanciulli erano già stati ammessi prima alla comunione.

La legislazione attuale pone queste esigenze: " Per poter amministrare la santissima Eucaristia ai fanciulli, si richiede che essi posseggano una sufficiente conoscenza e una accurata preparazione, così da percepire, secondo la loro capacità, il mistero di Cristo ed essere in grado di assumere con fede e devozione il Corpo del Signore " (CIC c. 913). Si è soliti ritenere che i fanciulli raggiungano il cosiddetto " uso di ragione " o età della discrezione, verso i sette anni, e che perciò possano ricevere a quell'età la prima comunione. Il Codice aggiunge:

" Tuttavia ai fanciulli che si trovino in pericolo di mortella santissima Eucaristia può essere amministrata se possono distinguere il Corpo di Cristo dal cibo comune e ricevere con riverenza la comunione " (CIC c. 913 § 2).

Nell'occasione della prima comunione, si è soliti fare una celebrazione familiare che è paragonabile a certi riti di " passaggio " della religiosità popolare. Dal punto di vista pastorale, occorre sforzarsi affinché l'aspetto della festa familiare o sociale non oscuri il vero senso di pienezza dell'iniziazione cristiana. Le norme del magistero della Chiesa sembrano prescrivere che, prima della prima comunione, i fanciulli facciano anche la loro prima confessione. Oggi, ci sono ragioni teologiche e pedagogiche che non approvano una simile pratica.

Bibl. - Badino L., L'età della Prima Comunione e una esperienza parrocchiale di comunione " privata ", in: " Catechesi ", 35 (1966), fasc. 310, pp. 21-24. Della Torre L. - Gambino V., La Prima Comunione in una visione liturgico-teologica, in: " Rivista Liturgica ", 49 (1962) 4, pp. 151-257. Gianetto U., " Prima Comunione ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 514-516.

J. Llopis

Privatizzazione della religione. (inizio)

Il termine privatizzazione della religione può essere considerato:

a) sul piano ideologico, come l'aspirazione di una determinata filosofia sociale, il laicismo, che ritiene la religione una faccenda strettamente privata, e si sforza di eliminare ogni influenza religiosa sulla vita pubblica (cf Laicismo);

b) sul piano storico e sociologico, come una delle conseguenze della modernizzazione delle società  processo di secolarizzazione (cf Secolarizzazione). Qui, noi ci limitiamo a questo secondo aspetto.

I processi di modernizzazione sociale comportano una progressiva " desacralizzazione del mondo " (Weber). Questa è la conseguenza dello sviluppo di vari tipi specifici di razionalità: razionalità economica, politica, scientifico-tecnologica. Le realtà di questo mondo appaiono come semplici oggetti di manipolazione da parte dell'uomo e sono prive di qualsiasi carattere " sacro ". Mancando queste manifestazioni del sacro, la religione tende a scomparire dalla vita pubblica delle società moderne, che sarebbero essenzialmente secolari.

Però, siccome la religione è un " dato antropologico ", consostanziale all'uomo, essa non scompare totalmente (questa sarebbe la versione estremista delle teorie sulla secolarizzazione), ma rimane confinata nella sfera della vita privata, come una ricerca di senso per l'esistenza: religione privatizzata.

L'espressione si presta a gravi ambiguità. Possiamo distinguere vari sensi;

1. Le istituzioni pubbliche diventano a-confessionali (secolarizzazione istituzionale, o laicità, dello Stato, come principio organizzativo. Questa laicità va distinta dal laicismo come filosofia sociale).

2. I comportamenti sociali pubblici si rendono indipendenti dalle norme religiose (secolarizzazione normativa).

3. La religione tende a disistituzionalizzarsi. Ciò vuol dire: il vincolo del soggetto  credente  con l'istituzione religiosa tende a diminuire, e perfino a sciogliersi (" cristianesimo senza Chiesa "). Rimarrebbe nell'individuo l'aspirazione a dare alla sua vita un senso trascendente, ma sganciato dal fattore istituzionale o dall'aggregamento comunitario.

4. La religione è vista secondo una definizione funzionale: come una ricerca individuale di valori " supremi " (non necessariamente trascendenti) che unifichino e diano senso alla propria esistenza privata (valori etici, estetici, ecc.).

Su queste diverse forme di privatizzazione della religione, c'è da dire:

1. La secolarizzazione delle istituzioni pubbliche è un fatto negli stati moderni dell'Occidente cristiano. Però, questo non implica la scomparsa di qualsiasi tipo di influsso religioso nelle faccende pubbliche. Questo influsso è possibile mediante gli atteggiamenti del credente. A questo riguardo, bisogna distinguere tra sfera pubblica e sfera comunitaria.

In una società pluralista, l'intervento della religione nelle istituzioni pubbliche non è funzionale; però, la religione esercita un'influenza nella sfera comunitaria, come fenomeno sociale, e può configurare l'opinione pubblica che a sua volta influisce sulle istituzioni pubbliche.

2. Riguardo alla secolarizzazione normativa, questa può intendersi:

a) Come la necessità di un'etica civile, in una società pluralista. Questa etica può e deve essere partecipata dai credenti, e può perfino venire rafforzata da motivazioni religiose (anche se, per carenze nella pedagogia religiosa, non è stato così varie volte).

b) Può essere intesa come l'indipendenza, nella pratica, dei comportamenti generali collettivi degli orientamenti religiosi. Questa è una conseguenza ineludibile in una società pluralista, composta di credenti e di non credenti.

c) Ancora: può essere vista come l'indipendenza dei comportamenti collettivi dei credenti riguardo alle norme dell'istituzione religiosa. La sua legittimità sarà allora in funzione della legittimità della norma (che può variare; può essere perfino una indebita estrapolazione: un pronunciamento sull'aborto non è la stessa cosa del " voto cattolico ". Questo fenomeno non può essere considerato specificamente moderno.

3. Riguardo al fenomeno del " cristianesimo senza Chiesa " e dei sostituti funzionali della religione, bisogna dire che sono fenomeni sociali variabili e difficili da quantificare, quando si tratta di precisare l'orientamento globale di una società. Dipendono anche, in gran parte, dall'atteggiamento dell'istituzione religiosa e dalla sua capacità di inculturazione della fede nelle nuove circostanze.

Questo complesso di osservazioni limita la capacità interpretativa della " privatizzazione della religione ", come teoria sociologica generale, per rendere conto della complessità del cambiamento religioso in una società che diventa moderna. Comunque, la sua esistenza è indiscutibile come fenomeno parziale, nei paesi europei. Nel continente americano, anche all'interno della civiltà occidentale in strati culturali diversi, l'impostazione è notevolmente differente.

Bibl. - Acquaviva S.S., L'eclissi del sacro nella civiltà industriale, Ed. Comunità, Milano, . Acquaviva S.S. - Guizzardi G., La secolarizzazione, Ed. Il Mulino, Bologna, 1973. Burgalassi S., Il comportamento religioso degli Italiani, Ed. Vallecchi, Firenze, 1969. Luckmann TH., La religione invisibile, Ed. Il Mulino, Bologna, 1969. Rosanna E., Secolarizzazione o transfunzionalizzazione della religione, PAS, Verlag, Zurigo, 1973.

J. Martínez Cortés

Processione. (inizio)

La processione è una supplica solenne fatta dai fedeli sotto la guida dei ministri, andando ordinatamente da un luogo ad un altro. Essa è destinata a stimolare la pietà o a ricordare le benedizioni di Dio e ringraziarlo , o ad implorare l'aiuto divino. Ci sono vari tipi di processioni: liturgiche e non liturgiche, festose e penitenziali, commemorative di qualche mistero o semplicemente funzionali. Le più importanti sono quella della Domenica delle Palme, in cui si ricorda l'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme; quella della Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, in cui si onora pubblicamente Cristo presente nell'Eucaristia; quella delle Rogazioni; quella della festa della Presentazione del Signore, chiamata anche Candelora.

Sono significative anche le processioni che vengono organizzate in varie regioni durante la Settimana Santa: si portano in processione lungo le vie varie statue che rappresentano i misteri della Passione del Signore. Così anche le processioni con immagini di Maria o di qualche Santo a motivo delle feste patronali. La Via Crucis è anch'essa una forma di processione. Nel rito delle esequie, hanno un ruolo ed un senso speciale le processioni dalla casa del defunto fino alla chiesa e dalla chiesa al cimitero.

Le processioni esprimono un aspetto fondamentale del popolo cristiano: non è un popolo " stabilito " in un luogo, ma è un popolo peregrinante, un popolo in cammino. Questa era già una caratteristica del popolo di Dio dell'AT. Dall'Egitto alla Terra Promessa, Israele dovette camminare quarant'anni attraverso il deserto. Più tardi, fu costretto a rifare il cammino di ritorno a Gerusalemme provenendo dall'esilio di Babilonia. Tutti gli anni, andavano alla Città Santa e questo ricordava agli Ebrei la loro condizione di nomadi. Il popolo d'Israele era immagine del nuovo popolo di Dio, la Chiesa di Cristo. Anche i cristiani sono nomadi, perché sanno di non avere quaggiù una dimora stabile. Gesù passò dal mondo al Padre. La Chiesa deve proseguire compiendo lo stesso percorso, in ogni suo membro ed in tutta la comunità. È la Chiesa intera che cammina, attraverso il deserto di questo mondo, verso la vera Terra Promessa.

Le processioni manifestano tutte queste realtà purché siano veramente il cammino ordinato e pio di una comunità, e non unicamente una successione di individui o un pretesto per l'arte o per il folclore.

Bibl. - Aldazábal J., Simboli e gesti. Significato antropologico, biblico e liturgico, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1988, pp. 236-245. Eisenhofer L. - Lechner J., Compendio di liturgia, Ed. Marietti, Torino, . Martimort A.G., La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, Ed. Desclée, Roma-Parigi-Tournai, , pp. 705-715. Rosso S., " Processione ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 1111-1119. Sottocornola Fr., I segni del passaggio di Dio: gli avvenimenti umani, in: Gelineau J, (a cura di), Nelle vostre assemblee, II, Ed. Queriniana, Brescia, 1976, pp. 383-386.

J. Llopis

Profetismo. (inizio)

Tutte le religioni dell'antico Oriente parlano della presenza di alcuni predicatori ufficiali che ritengono di parlare a nome della divinità. È questa la missione dei profeti (in greco: prophétes = chi parla a nome di un altro, di Dio). La tradizione biblica li presenta come portavoce di JWHW per trasmettere al popolo la sua volontà. Già col costituirsi della monarchia, appare la figura del profeta (nabì) di corte, a cui spetta consigliare e, eventualmente, ammonire il re (2 Sam 7,1; 1 Re 1,1-14.22-27.32-34). Questi profeti di corte erano un po' come i cappellani di palazzo. Erano soliti intervenire non solo nelle faccende religiose, ma anche in quelle politiche. A poco poco, la funzione profetica venne istituzionalizzata, formando un blocco di tensione di fronte al sacerdozio che era assorbito dall'idea del culto. I profeti erano araldi decisi della parola e proferivano oracoli, moniti e denunce a seconda di quanto ritenevano essere la volontà di JHWN. Nel secolo IX a.C., la proclamazione profetica assunse una grande forza quando venne incarnata da due grandi eroi nazionali: Elia ed Eliseo. Entrami ebbero l'ardire di opporsi alla potente dinastia di Omri (Acab) per rimproverare ai suoi sovrani l'infedeltà verso JHWH. Il prestigio dei profeti divenne tale che molti trasformarono questa missione in una professione e così nessun profeta moriva di fame.

I profeti erano carismatici tenaci e, pur senza disprezzare il culto ufficiale tanto caro ai sacerdoti, patrocinavano senza tregua una maggior fedeltà agli impegni assunti con JHWH, il quale riprovava ovviamente tutti quei fatti di ingiustizia e di oppressione che potevano disorientare il popolo. Tuttavia, non tutti i profeti erano autentici. Abbondavano i " falsi profeti " che cercavano di far passare le loro bugie per oracoli di JHWH (Ger 5,31; 23,25-26; Ez 13,22-23), riferendo visioni fantastiche e fallaci (Is 9,14). Contro di loro, i veri profeti scagliarono le loro aspre denunce, consapevoli che la loro presenza causava una grande confusione tra il popolo, il cui caos era in continuo aumento (Sof 3,4). I profeti di JNWH, invece, servivano solo gli interessi di Dio e non si lasciavano mai corrompere dal lucro o dagli onori. Molti morirono in modo tragico, poiché la loro fedeltà esigeva da loro comportamenti intransigenti di fronte a persone od istituzioni il cui potere era a servizio dell'ingiustizia.

Nel secolo VIII, cominciano i cosiddetti " profeti scrittori ", le cui opere sono giunte fino a noi. Il loro apporto fu decisivo per fissare le basi della religiosità jahvista e per adattarla secolo il ritmo dei tempi. Questi profeti stabilirono una religiosità molto vicina ai problemi socio- economici e politici del loro tempo. Per questo, non cessarono mai di difendere i diritti calpestati dei poveri e degli inermi, denunciando i soprusi di quelli che praticavano ingiustizie, fosse anche il re. Tra questa pleiade di profeti, la cui presenza si fece sentire per circa quattro secoli, conviene ricordare i nomi più importanti, ognuno dei quali sottolineò una virtù od una qualità che riteneva carente: Amos (la giustizia), Osea (la fedeltà), Isaia (la fiducia), Michea (il giudizio), Sofonia (la gioia), Naum (la solidarietà), Abacuc (la ponderatezza), Geremia (la tenerezza), Ezechiele (la speranza), il Deutero-Isaia (la liberazione), il Trito-Isaia (l'ottimismo), Aggeo (la purificazione del culto), Zaccaria (l'ansia messianica), Abdìa (lo stimolo), Malachia (la denuncia).

I profeti ebbero il coraggio di affrontare senza esitazioni le situazione più conflittuali. Si attirarono così l'odio dei potenti che cercarono più volte, ed anche con successo, di ucciderli. Tuttavia, l'operato dei profeti portò i suoi frutti, tanto che senza di loro il popolo non sarebbe stato in grado di mantenersi fedele ai suoi impegni religiosi. L'incessante cambiamento di panorami politici esigeva una drastica revisione della fede jahvistica, ancorata sull'alleanza sinaitica, con il tempio come catalizzatore di ogni religiosità. Ora, il tempio fu distrutto da Nabucodonosor (587 a.C.) a cui segui l'esilio babilonese. Fu allora necessario dare una spinta quasi titanica affinché il " Resto fedele " non cadesse nella disperazione. I profeti seppero sostenerli durante l'esilio e guidarli poi verso il cammino della liberazione, anche se le vicende politiche continuavano a porre intralci. Quando scomparvero i profeti, il popolo eletto si sentì disorientato, e desidero ardentemente la presenza di nuovi portavoce di Dio capaci di trasmettere i suoi disegni.

Questo desiderio e questa speranza durarono fino a quando l'ideale profetico fu assunto da un inviato divino eccezionale: Gesù di Nazaret. Egli si situa sulla stessa loro linea (Lc 4,24) e proclama un messaggio di denuncia e di liberazione (Lc 4,18-21). La sua opera fu stroncata dalla morte  cosa spiegabile per un profeta impegnato , ma poi continuarono coloro che, investiti dalla forza della sua risurrezione, erano anelanti di intronizzare nel mondo il suo regno di giustizia, di pace e di amore mediante una conversione alla fede cristiana (1 Cor 14,24-25). I profeti esercitarono un compito decisivo nel NT ed hanno continuato ad agire in tutta la storia della Chiesa. Sono molti anche oggi i profeti. Come distinguere i veri profeti dai falsi? Solo i primi impegnano interamente la loro vita per instaurare nel mondo il regno messianico annunciato senza tregua dal profetismo veterotestamentario che Gesù, poi, ha trasformato nel suo messaggio. Ci sono sempre stati dei profeti che hanno mantenuto pura l'inquietudine religiosa dandole alle volte un forte impulso vitale per inserirla nelle inquietudini pragmatiche di tutti gli esseri umani che lottano per essere felici.

Bibl. - Alonso Schoekel L. - Siche Diaz J.L., I profeti, Ed. Borla Roma, 1984. Ballarini T. (a cura di), Introduzione alla Bibbia, II2: Profetismo e Profeti, Ed. Marietti, Torino, 1971. Buber M., La fede dei profeti, Ed. Marietti, Casale M., 1983. Heschel A.J., L'uomo non è solo, Milano, 1970. Neher A., L'essenza del profetismo, Ed. Marietti, Casale M., 1984. Ravasi O.F., I Profeti, Ed. Ancora, Milano, 1987. Savoca G., " Profezia ", in: Nuovo Dizionario della Bibbia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1232-1247.

A. Salas

Promessa. (inizio)

La riflessione neotestamentaria parla frequentemente delle promesse fatte da Dio ad Abramo e alla sua discendenza (Gal 3,15-29; Rm 4,13-17). Essa si riferisce indubbiamente alle garanzie offerte da Dio al patriarca Abramo (Gen 13,14-17), che vengono sottolineate da tutte le tradizioni del libro della Genesi (Gen 15,18; 17,3-8; 22,15-18) e sono estese a Isacco (Gen 26,3) e a Giacobbe (Gen 28,13-14). Le promesse divine si riducono a tre punti concreti: una discendenza numerosa come le stelle del cielo (Ne 9,23; 1 Cr 27,23), un paese come residenza di JHWH tra il sio popolo (Dt 31,20-23) ed infine la prosperità ed i beni necessari alla vita del popolo (Lv 26,3-13; Dt 11,13-17).

Come si sa, la tradizione dell'AT diede scarsa importanza al tema della promessa, soprattutto da quando radicò la sua religiosità sulla legge data da Dio a Mosè. Tuttavia, affiora ripetute volte la tesi della promessa, ed ogni volta, essa coglie nuovi particolari. Così, a Davide viene garantita una discendenza eccezionale che instaurerà un regno di pace, di concordia e di amore (2 Sam 7,12-29). Questo discendente  il grande Messia (Unto) di JHWH  eliminerà ogni imperfezione dal suo regno (Is 11,1-9); sarà un condottiero eccezionale la cui sorte sarà di dare la vita per il suo popolo (Is 40-55). La tradizione profetica accentuò sempre più l'attesa di questo discendente (Messia), in cui sarebbero andate a convergere tutte le promesse fatte da Dio ai patriarchi, e con lui, il popolo avrebbe raggiunto l'acme del suo benessere.

Gli autori del NT vedono realizzata in Gesù ogni aspettativa messianica, fino al punto che in Lui culmina il processo della promessa. Non solo, ma realizzandosi, diventa forza di salvezza (Gal 3,14; Rm 15,8). Ciò permette a san Paolo di elaborare la sua tesi sul concetto di salvezza che la tradizione ebraica vincolava con l'osservanza della legge. Secondo l'apostolo, la legge fu aggiunta alla promessa affinché il popolo avviasse il suo cammino verso la pienezza che sgorga da Cristo. Pertanto, chi cerca di salvarsi con il semplice adempimento della legge, annulla il valore della promessa (Rm 4,13-14). Solo questa, compiuta in Cristo, è capace di stimolare l'essere umano affinché, accettando il freno del suo peccato, si riconosca incapace di salvarsi se non si aggrapperà con forza alla fede, perché questa lo colloca nella linea della promessa (Gal 3,15-29). Così, dunque, la promessa divina, fattasi realtà in Cristo, è il cammino sicuro per la salvezza.

Gli attacchi che il cristianesimo nascente rivolsero all'ebraismo non potevano essere più netti. Mentre il popolo ebraico si affannava invano a fare della legge mosaica il veicolo di salvezza, cadendo perfino in una esaltazione assurda della legge (nomismo), gli scrittori neotestamentari (specialmente Paolo) smontavano questa impostazione perchè la vedevano contraria al progetto di Gesù. La loro argomentazione non poteva essere più chiara: l'osservanza della legge attribuisce la salvezza al semplice sforzo umano. Invece, l'accettazione della promessa, mediante un atteggiamento profondo di fede, lascia a Dio, che agisce mediante Cristo, tutta l'iniziativa nel processo salvifico. L'essere umano deve solo adattare la sua esistenza sul modulo tracciato da Gesù. Questi non cessa di chiedere una fiducia totale in questo Dio d'amore che offre ad ogni individuo la possibilità di condividere la filiazione divina (Gal 4,4), in modo tale da sfruttare tutta la dinamica della fede. San Paolo insegna che solo la fede, espressa in opere di amore, (Gal 5,6), permette all'essere umano di spezzare il vincolo del peccato, e di entrare con passo sicuro nel cammino della sua realizzazione esistenziale, e questa sfocia ovviamente nella salvezza definitiva.

Bibl. - Aa.Vv., Il messianismo (Atti della XVIII Settimana Biblica Italiana), Brescia, 1966. Bonora A., La promessa-impegno di Dio con il mondo (Gen 9,8-17), in: " Teologia " (1982), pp. 37-45. De Vaux R., Le istituzioni dell'Antico Testamento, Ed. Marietti, Torino, 1964. Scharbert J., " Promessa ", in: Dizionario Teologico, II, Ed. Queriniana, Brescia, 1967, , pp. 752-761. Soggin J.A., Introduzione all'Antico Testamento, Ed. Paideia, Brescia, . Von Rad G., Teologia dell'Antico Testamento, 2 voll., Ed. Paideia, Brescia, 1972-1874. Zedda S., Prima lettura di san Paolo, Tecnograph-Torino, 1964.

A. Salas

Progresso. (inizio)

Durante il secolo XIX, come conseguenza, da una parte, dei progressi sbalorditivi della scienza e, dall'altra, dei progetti di riforma sociale, sorse un'autentica fede nel progresso. L'idea di progresso non afferma soltanto che l'umanità ha continuato a migliorare fino ad oggi, ma continuerà a migliorare illimitatamente anche in futuro. Questa fede nel progresso è diventata molto presto un'autentica escatologia secolare, e la speranza nel mondo futuro venne insensibilmente sostituita dalla speranza nel futuro del mondo. Con una logica simile, Gesù fu a poco a poco accantonato perché ritenuto non necessario per una umanità che si credeva capace di salvarsi con le proprie forze (Bernard Shaw rispondeva a chi diceva che Gesù Cristo era il Dio fatto uomo per salvarci: " Un cavaliere non può accettare la salvezza che un altro gli offre: deve salvarsi da sé "). Dal punto di vista intellettuale e sociale, politico ed economico, il secolo XIX e la sua fede nel progresso finirono nel 1914. Tutto ciò fu sostituito da un'epoca di grandi delusioni: guerre mondiali, crisi economiche, ecc. L'umanità passò dall'ottimismo assoluto al pessimismo assoluto; l'esistenzialismo del dopo-guerra fu l'espressione del nuovo clima mentale. La teologia cristiana della storia, con una visione più sfumata della realtà nel suo complesso, sostiene che quanto avviene lungo i secoli è una crescita contemporanea del bene e del male, come insegna la parabola del buon grano e della zizzania, e la salvezza piena, come anche la perdizione piena, non si avrà mai nella storia: ciò avverrà soltanto quando la storia sarà finita.

Bibl. - Abbagnano N., Dizionario di Filosofia, UTET, Torino, , pp. 702-703. Angelini G., " Progresso ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1213-1234. Flick M. - Alszeghy Z., Per una teologia dello sviluppo, Ed. Queriniana, Brescia, 1970. Petruzzellis N., " Progresso ", in: Enciclopedia Filosofica, V, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 318-320. Scoppola P., La nuova cristianità perduta, Ed. Studium, Roma, 1985.

L. González-Carvajal

Proselitismo. (inizio)

Il proselitismo è stato ritenuto dal Consiglio Ecumenico delle Chiese come " la corruzione della testimonianza cristiana ". Il Vaticano II raccomanda di evitare " spinte coercitive o sollecitazioni disoneste o stimoli meno retti " (DH 4; cf AG 13) nel diffondere la fede religiosa. Il proselitismo si ha quando l'evangelizzazione viene deformata usando mezzi non retti, o facendo una pressione indebita, o non rispettando le esigenze della libertà religiosa.

Alcuni distinguono due classi di proselitismo: quello sostantivo, che deriva dalla corruzione del contenuto e della finalità dell'evangelizzazione; quello modale, che si ha quando si usano mezzi corrotti. Di solito, il proselitismo nasce dalla deviazione della missione evangelizzatrice della Chiesa, da un atteggiamento scarsamente ecumenico, da una violazione della libertà religiosa. Perciò il proselitismo è una azione antievangelica, antiecumenica e ingiusta.

In primo luogo, il proselitismo è una corruzione dell'evangelizzazione, o perchè si deforma il contenuto cristologico, o perché si fa uso di una propaganda nettamente antievangelica. Secondo il Consiglio Ecumenico delle Chiese, si ha il proselitismo quando si cerca di " far prevalere il successo della propria Chiesa sull'onore di Cristo ".

In secondo luogo, l'evangelizzazione si trasforma in proselitismo quando l'azione evangelica diventa un'attività aggressiva che tende a distruggere la coscienza ecclesiale dei fedeli che professano la loro fede in altre confessioni, suscitando la rivalità delle Chiese nel campo della concorrenza evangelica.

In terzo luogo, l'evangelizzazione diventa proselitismo quando vengono violate le condizioni di libera adesione delle persone, o diffamando le altre confessioni, o usando mezzi economici che distruggono la conversione cristiana genuina. La libertà religiosa implica una esigenza di rispetto per il " diritto degli altri ". " Tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza, né sia impedito entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata " (DH 2).

In sintesi: il proselitismo è una contro testimonianza cristiana di primo ordine. È una manifestazione delle forze del male che si oppongono all'opera di salvezza nel mondo. Di fronte all'evangelizzazione, che è testimonianza e missione costruttrice, il proselitismo è invece il tentativo ed il peccato distruttore della costruzione della Chiesa.

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C.Floristán

Protestantesimo. (inizio)

Attualmente, la parola protestantesimo designa quell'insieme di Chiese e di comunità che provengono dalla Riforma del secolo XVI. Formano un complesso abbastanza eterogeneo e con grandi differenze di dottrina, di sacramenti e di strutturazione ecclesiale. Queste divergenze confessionali sono espresse nella diversità di associazioni di Chiese e nella mancanza di comunione piena tra alcune di esse che non riconoscono i ministeri delle altre. Non c'è una Chiesa luterana, ma una Confederazione mondiale di Chiese luterane, fondata nel 1947, a cui non tutte appartengono. Le basi dottrinali sono costituite dalla Confessione di Augusta e dal piccolo Catechismo di Lutero. La struttura fondamentale della Confederazione è quella sinodale ed assembleare con un presidente ed un comitato esecutivo.

Assieme al luteranesimo, le Chiese riformate di origine calvinista e le Chiese anglicane costituiscono gli altri due grandi rami protestanti. Il movimento anglicano è quello più vicino al cattolicesimo; uno dei grandi problemi che esso pone è quello del riconoscimento cattolico delle ordinazioni anglicane. Le Chiese calviniste, invece, si sono sviluppate in un modo più distante dalla Chiesa cattolica e manifestano una maggiore eterogeneità dottrinale, sacramentale e strutturale. Il luteranesimo occupa il posto intermedio. Oggi, è in atto un processo di dialogo e di avvicinamento interconfessionale, tanto delle Chiese protestanti tra di loro quanto nei riguardi della Chiesa cattolica e di quella ortodossa. Ci sono stati avvicinamenti significativi in quello che riguarda la dottrina della giustificazione, il rapporto tra la Scrittura e la Tradizione, e alcuni sacramenti come il battesimo e l'Eucaristia. Però, sui sacramenti e sulla valutazione circa la ministerialità della Chiesa, ci sono ancora forti divergenze, come anche su quella che concerne la funzione ecclesiale del papa.

Bibl. - Aa.Vv., Dizionario del pensiero protestante, Ed. Morcelliana, Brescia, 1970. Bouchard-Turinetto, L'altra Chiesa in Italia: gli evangelici, Ed. Claudiana, Torino, 1976. Congar Y., Dizionario ecumenico, Ed. Cittadella, Assisi, 1974. Ricca P., " Protestantesimo ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 578-580. Sbaffi M., " Protestantesimo ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1282-1296. Vinay V., La riforma protestante, Ed. Paideia, Brescia, 1970.

J.A. Estrada

Psicologia della religione. (inizio)

La psicologia della religione è una scienza positiva, che studia tutto il comportamento religioso dell'uomo, dalla sua dimensione empirica ed osservabile. La religione è intesa come un rapporto con ciò che l'uomo crede essere il " sopra-umano ". Indaga su tutte le esperienze, su tutti i comportamenti, atteggiamenti e manifestazioni religiose dell'uomo, secondo i metodi propri della psicologia. Si interessa anche dello studio delle funzioni psichiche che intervengono negli aspetti psichici della religiosità, come la volontà, il pensiero, l'affettività, il desiderio, l'immaginazione, ecc. Come scienza empirica, non può dire nulla sulla verità religiosa in sé.

Quantunque ci siano analisi valide di processi psichici nella letteratura omiletica, ascetica e mistica dei secoli scorsi, una trattazione metodica basata sull'osservazione empirica appare solo nella seconda metà del secolo XIX. Da allora, si notano tre orientamenti.

1. Gli studi di psicologia del profondo sull'origine della religione e dei fenomeni religiosi, soprattutto da parte di S. Freud con le sue opere Totèm e tabù (1913), L'avvenire di un'illusione (1927) e Mosè ed il monoteismo (1939), e da parte di C. Jung con Psicologia e Religione (1940).

2. L'orientamento sperimentale a partire dall'opera di W. James, Le varietà dell'esperienza religiosa (1902). Questo orientamento appare nelle opere di psicologia di studiosi cattolici come D. Mercier, A. Gemelli, J. Lindworsky e J. Fröbes, tra i tanti.

3. L'orientamento fenomenologico rappresentato in particolare da R. Otto con la sua opera Il sacro (1917) e da E. Spranger in Forme di vita. Psicologia e Etica della personalità (1950).

Hanno un valore pastorale le conoscenze psicologiche sui fenomeni religiosi come la preghiera, la meditazione, la colpa, il peccato, ecc., come anche la conoscenza delle caratteristiche e della struttura psicologica della religiosità nelle varie tappe della vita.

Bibl. - Bellet M., Fede e psicanalisi, Ed. Cittadella, Assisi, 1975. Milanesi G.C. - Aletti M., Psicologia della religione, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1973. Vergote A., Psicologia religiosa, Ed. Borla, Torino, 1967. Zavalloni R., Psicologia della religione, in: Cantone C. (a cara di), Le scienze della religione oggi, LAS, Roma, , pp. 91-140. Zunini G. Homo religiosus. Capitoli di psicologia della religiosità, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1966.

F.J. Calvo

Psicosi. (inizio)

La psicosi è un'infermità mentale con una modificazione profonda della personalità, a differenza della nevrosi che presenta solo reazioni anormali di fronte al vissuto. Lo psicotico non è di solito conscio del suo stato; il nevrotico, invece, se ne rende conto.

Le psicosi organiche sono quelle che hanno un fondamento corporeo: che si può verificare. Generalmente, non sono ereditarie, ma Aacquisite durante la vita. Sono compresi qui gli stati di coscienza diminuita, come la perdita della coscienza nei grandi attacchi epilettici, la paralisi generale progressiva e la demenza senile.

Le psicosi endogene o funzionali sono quelle deviazioni della coscienza attuale e della personalità in persone in cui fino adesso non si è trovata nessuna base organica. Le principali sono la schizofrenia e le psicosi maniaco-depressive.

La schizofrenia è la psicosi più frequente. Il termine schizofrenia, mente divisa, connota uno sdoppiamento. C'è una deviazione della coscienza attuale e dell'Io, in cui si attribuisce il vissuto proprio ad un altro. Questo appare in forma di sonorizzazione del pensiero, nell'udire voci che accompagnano con osservazioni i propri atti, con sensazioni di influssi o corporeo. Lo schizofrenico può essere nello stesso tempo se stesso ed un altro.

Le cause della schizofrenia sono sconosciute, ma esiste una predisposizione costituzionale, ereditaria, che può diventare attiva per incidenti organici o per perturbazioni psicologiche.

Si dà il nome di schizofrenia semplice a quei casi che hanno pochi sintomi psicopatologici, con diminuzione del rendimento, difficoltà sociali di adattamento e con perturbazioni nel pensiero e nella concentrazione.

La ebefrenia, pazzia giovanile, si presenta nell'adolescenza, alle volte in un modo che assomiglia ad una crisi di pubertà. Ci sono fenomeni di perplessità, di cambiamento e di stranezze.

Nella catatonìa, pazzia di tensione, c'è una marcata perturbazione della psicomotricità: posizioni corporee stereotipate, fasi di eccitazione furiosa, fasi di stupore e di inibizione abulica: sono fasi che si possono alternare fra di loro con rapidità.

La psicosi maniaco depressiva, o ciclotimia, è una perturbazione mentale che si manifesta in un alternarsi di fasi di eccitazione maniacale e di depressione malinconica. Queste fasi si succedono e si alternano con una frequenza varia che va da settimane ed anche da anni, con cicli più o meno regolari, intercalati con periodi lucidi, che possono durare anni, in cui non appaiono disordini né della coscienza né della personalità.

Nella fase maniacale, c'è una esaltazione dell'umore con una vitalità straripante, un pensiero rapido con mancanza di coesione ed una attività eccessiva e sterile. All'inizio, i familiari non si rendono conto di questo stato patologico, e questo può portare a danni notevoli nell'aspetto sociale.

Lo stato depressivo è caratterizzato da una tristezza senza motivo e persistente. C'è un senso di colpa ed un pessimismo assoluto. Questo può portare al suicidio per la mancanza assoluta di speranza, anche se ci può essere un atteggiamento religioso. Nella depressione endogena, ci sono disturbi vitali sotto forma di perturbazioni del sonno, mancanza di appetito, stitichezza, mancanza di desiderio sessuale. Ci possono essere anche sensi di autobiasimo e di inutilità, assieme a pensieri di morte e di suicidio. Ci sono oscillazioni quotidiane: si sta peggio al mattino che non alla sera, per cui il pericolo di suicidio è più forte al mattino.

Nelle psicosi maniaco-depressive, non c'è un unico fattore determinante. Quando questa psicosi appare, come anche nella schizofrenia, c'è tutta una costellazione di fattori: costituzionali, sociali e individuali. Dopo i cinquant'anni, cresce il pericolo delle psicosi.

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F.J. Calvo

Pubertà. (inizio)

Generalmente, si considera pubertà il periodo di tempo che va dagli undici ai quindici anni. È chiamato anche prima adolescenza ed è il più complicato di tutto il processo dello sviluppo, poiché è pieno di contraddizioni dialettiche difficili da armonizzare e di cambiamenti biologici.

In questa fase, si stabilisce la capacità di riproduzione sessuale. La sua prima manifestazione avviene in forma di irruzione ormonale, di secrezione endocrina massiccia e di sorpresa. D'altra parte, di fronte al sistema nervoso centrale, che è il coordinatore delle impressioni, è mobilitato il sistema vegetativo od autonomo, non controllato dalla volontà, ma che risponde ad incentivi organici. Data l'importanza del sistema nervoso, il suo brusco risveglio produce uno scardinamento delle abitudini, qualcosa di paragonabile ad un cataclisma psicologico.

I cambiamenti puberali in rapporto con la crescita si manifestano con un aumento della statura e del peso, nell'evoluzione e nella conformazione nella struttura del volto, del tronco e delle estremità, nell'allungamento delle ossa e dei muscoli.

Si possono notare: l'attivazione delle ghiandole ipofisi e gonadi, l'aumento di formato nei testicoli e nelle ovaie; la comparsa dei caratteri sessuali secondari derivati dalla maturità ormonale e dalle ghiandole sessuali. Questi caratteri producono una struttura corporea e anatomica differente negli uomini e nelle donne.

L'emergenza del sistema autonomo e di quello endocrino portano con sé l'esacerbazione emozionale in tutto il comportamento e nel perturbamento che consegue di gran parte dagli schemi senso-percettivi e motori prodotti fino allora. Contrariamente a quanto vorrebbe l'educazione, il ragazzo si dimostra male educato, grossolano, sporco, negligente, passivo... Questa è una transizione e conflittuale, poiché affronta manifestazioni di pensiero disorganizzato di fronte a comportamenti sensati ed equilibrati. Le principali manifestazioni sono:

Il gregarismo o comportamento sociale di gruppo. È una tendenza a riunirsi in gruppo con quelli del proprio sesso e cercando di eludere una disciplina adulta, adottando invece quella del gruppo a cui si appartiene. Ci sono tante manifestazioni nei vari livelli del comportamento.

Sul piano individuale, una caratteristica è un marcato edonismo: piace godere in concreto la sensazione che la maturità sessuale fornisce. Nel lavoro di scuola, c'è la tendenza ad anticipare l'azione alla conseguenza organizzata del pensiero. Sul piano scolastico, è una fase conflittuale: c'è l'improvvisazione nei compiti e nel modo di studiare, con segni di non adattamento alla scuola e di frustrazione.

L'affettività è instabile, molto emotiva, con una gamma di reazioni che va da una grande sensibilità ad una facile aggressività. Rompe molte amicizie precedenti; non vuole uscire coi genitori, ma preferisce i suoi nuovi amici per lo svago e i tempi liberi. Gli piace la vita in comune, come quella degli accampamenti. Si rende insociabile nel gruppo familiare; protesta e critica i difetti dei suoi genitori, specialmente quelli della madre. Manifesta opposizione quando gli si comanda qualcosa che non gli va; non sempre osserva le norme e le usanze che gli erano abituali. Protesta su tutto; qualsiasi cosa è occasione per iniziare una conversazione polemica, una discussione. Non è capace di controllarsi né di dominarsi. I genitori devono comprendere questi germi di indipendenza e i maggiori margini di libertà che i ragazzi esigono a quella età. Sono manifestazioni necessarie per la loro futura autonomia e per conseguire una personalità consapevole e formata.

Intellettualemnte, la pubertà è un periodo di apprendimento: c'è un affanno palese di sapere, di imparare e di acquisire nuove capacità. Il pensiero è logico; assimila i processi della realtà ed avviene un equilibrio tra la forma di comportarsi e l'informazione su quello che dovrebbe fare. Al termine della pubertà, appare un comportamento sensato ed oggettivo che tende ad un equilibrio tra le componenti endocrine, di comportamento e di adattamento sociale, anche se è ancora presente l'instabilità emozionale.

Bibl. - Colombo A., " Età evolutiva ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 254-257. Erikson H.h., I cicli della vita. Continuità e mutamento, Ed. Armando, Roma, 1984. Piaget J., Dalla logica del bambino alla logica dell'adolescente, Giunti e Barbera, Firenze, 1973. Rimaud G., L'educazione, guida dello sviluppo giovanile, Ed. SEI, Torino, 1956. Sillamy N., Dizionario di psicologia, Ed. Gremese, Roma, 1995, pp. 224-225.

M. N. Lamarca