DIZIONARIO SINTETICO DI PASTORALE

CASIANO FLORISTAN - JUAN JOSÈ TAMAYO

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Quaresima. (inizio)

La festa di Pasqua è il vertice o momento cruciale dell'anno liturgico. Esige pertanto una preparazione (la Quaresima) e un prolungamento (la cinquantena pasquale). La Quaresima, come preparazione alla Pasqua cristiana, si stabilì un pò alla volta; fu il risultato di un processo in cui intervennero tre componenti: la preparazione dei catecumeni al battesimo nella veglia pasquale, la riconciliazione dei penitenti pubblici perché potessero vivere con la comunità il triduo pasquale, e la preparazione di tutta la comunità alla grande festa di Pasqua.

Nella metà del secolo II, fu fissata una domenica per celebrare la Pasqua annuale, anniversario della passione di Cristo. La si tenne in relazione con la Pasqua ebraica, ma non coincideva nello stesso giorno. Infatti, il Papa Vittore (189-198), dopo una forte controversia, fissò la Pasqua cristiana la domenica successiva al 14 di Nisan, festa della Pasqua ebraica. Il senso della Pasqua cristiana è dato da san Giovanni (Gv 13,1). È il passaggio della comunità con Cristo da questo mondo al Padre, passaggio dalle tenebre alla luce, dal digiuno alla gioia, dalla morte alla vita.

La Quaresima cominciò con un digiuno comunitario della durata di due giorni; esso diede luogo al triduo pasquale: venerdì e sabato (giorni di digiuno) e domenica. Questo digiuno è più sacramentale che ascetico, cioè, ha un senso pasquale (partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo) e escatologico (attesa del ritorno dello sposo trattenuto momentaneamente dalla morte). A metà del secolo III, il digiuno si estese alle tre settimane antecedenti: questo tempo coincideva con la preparazione dei catecumeni al battesimo nella notte pasquale. Una caratteristica di queste tre settimane erano gli scrutini (esami dei candidati al battesimo), e le catechesi fondamentali di Giovanni per il catecumenato, come apertura dei sensi cristiani: la samaritana (fame e sete), il cieco nato (la vista), Lazzaro (il tatto). Queste letture venivano completate con la guarigione del sordomuto (udito e bocca).

Verso la fine del secolo IV, il triduo primitivo si estese al giovedì, giorno di riconciliazione dei penitenti (a cui in seguito fu aggiunta la celebrazione eucaristica) e si contarono quaranta giorni di digiuno. Si aveva l'inizio con la domenica della quadragesima, o quaresima. Siccome la riconciliazione dei penitenti si faceva il giovedì santo, allora, per poter contare quaranta giorni di digiuno, si cominciò la quaresima il mercoledì delle ceneri. Alla fine del secolo XI, con la scomparsa della penitenza pubblica, si estese in tutta la cristianità l'usanza di imporre le ceneri come segno di penitenza.

Come conseguenza della scomparsa del catecumenato (o del battesimo degli adulti), e del cammino penitenziale (o della conversione dei peccatori pubblici), la quaresima ha deviato dal suo spirito sacramentale e comunitario. È sostituita da innumerevoli devozioni; diventa l'occasione per " missioni al popolo " o di prediche per adempiere al precetto pasquale, ponendo l'accento sul digiuno e sull'astinenza, in un'atmosfera resa triste dalle rinunce e dai sacrifici. La riforma liturgica conciliare della quaresima (SC 109-110) fa risaltare tempo il suo senso battesimale e penitenziale mediante un nuovo legionario biblico, secondo " l'antica tradizione ". Possiamo dire che oggi la quaresima è:

1) una quarantena di preparazione, di rinnovamento o ritiro;

2) di tutta la Chiesa, cioè, delle comunità ecclesiali e di tutti i cristiani;

3) in vista del mistero pasquale, ossia del passaggio da questo mondo al Padre;

4) per mezzo di celebrazioni, gruppi di lavoro e pratiche cristiane.

I quaranta giorni santi corrispondono ad un mistero particolare di Gesù: quello del suo ritiro nel deserto per quaranta giorni. Quaranta è un numero simbolico che equivale a tempo di decisione e di prova e al periodo della condizione terrena dell'uomo peccatore attorniato da mille affanni. La quaresima è dunque preparazione al battesimo (dei catecumeni), alla riconciliazione (dei peccatori) e all'identificazione (di tutta la Chiesa) con la Pasqua di Cristo. La quaresima è pertanto un periodo intenso di iniziazione o di ri-iniziazione cristiana; è un tempo adatto per celebrare comunitariamente la penitenza; è un'occasione propizia per fare certe opzioni e determinazioni liberatrici; è un tempo di revisione pastorale.

Bibl. - Adam A., L'anno liturgico, Ed. Marietti, Casale M., 1983. Bergamini A., " Quaresima ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 1158-1161. Della Torre L., Catechesi e prassi dell'anno liturgico, Ed. Queriniana, Brescia, 1985. Nocent A., Celebrare Gesù Cristo. L'anno liturgico, 3. Quaresima, Ed. Cittadella, Assisi, 1977. Poelman R., Il segno biblico dei quaranta giorni, Ed. Queriniana, Brescia, 1964.

C. Floristán

Redenzione. (inizio)

La parola redenzione deriva dal latino: redimere che significa il riscatto di uno schiavo per assicurargli la libertà. L'uso biblico di questo termine, che vuole indicare l'azione salvifica di Dio, ne ha fatto la parola per eccellenza per esprimere il senso della croce di Cristo.

Il concetto riscatto è oggi un concetto polemico, poiché se il nostro mondo è ben lontano dall'aver abolito ogni forma di schiavitù, le nuove servitù non si esprimono né si combattono nelle forme giuridiche greco-romane.

Nell'AT, Dio si era presentato come il redentore del suo popolo quando lo liberò dalla schiavitù di Egitto. Questo evento veniva celebrato con la Pasqua ebraica. L'applicazione di questa immagine del riscatto alla croce avvenne partendo dal riferimento fatto da Gesù stesso al testo di Is 53, riguardo al Servo innocente e sofferente. Il termine riscatto non si trova nel testo di Isaia, ma l'allusione più espressiva di Cristo a questo testo (Mt 20,28; cf Mc 10,45) introduce espressamente il termine. Di qui risulta il collegamento, costante nella teologia cristiana, delle due idee di sacrificio e di redenzione o riscatto, fino al punto di tendere ad identificarle.

Ciò nonostante, gli autori del NT non si dilungano mai sull'idea di riscatto per spiegare la croce, ma insistono piuttosto sulla liberazione dalla schiavitù operata dalla croce, e sottolineano l'idea di riconciliazione. Nel pensiero di Paolo, il sangue di Gesù è innanzitutto una dichiarazione di pace (Col 1,10). È la distruzione di ogni muro di separazione, cioè, di tutto ciò che impedisce all'uomo di accedere a Dio e di tutto ciò che ci separa tra di noi.

Nella storia della teologia, c'è stato il tentativo di razionalizzare l'immagine di riscatto, elaborando così una vera mitologia. Due risposte dominano la tradizione. La prima (quella della maggioranza degli antichi) ritiene che il riscatto si dovesse pagare al diavolo che ci teneva prigionieri. La seconda, a partire da sant'Anselmo, afferma che il riscatto doveva essere pagato a Dio. Le due risposte sono due metafore, nel senso che il diavolo non può avere nessun diritto, strettamente parlando. Per quello, poi, che riguarda Dio, essendo Egli stesso l'autore della nostra redenzione, il concetto di un debito che si paga a Dio manca di logicità.

Di fronte alle molte difficoltà accumulate dalla teologia " classica " della redenzione, si percorrono oggi altre strade che sono più sensibili allo stesso linguaggio di Paolo: in lui, il termine " redenzione " riscontra i sinonimi di liberazione, o semplicemente, di salvezza.

Bibl. - Alszeghy Z. - Flick M., Il mistero della croce. Saggio di teologia sistematica, Ed. Queriniana, Brescia, 1978. Galot J., Gesù liberatore. Cristologia, II, LEF, Firenze, 1978. Iammarrone G., Gesù il Cristo salvezza dell'uomo, Ed. Borla, Roma, 1981. Kessler H., " RedenzioneSoteriologia ", in: Enciclopedia Teologica, Ed. Queriniana, Brescia, 1989. pp. 827-837. Willems B.A., La redenzione nella Chiesa e nel mondo, Ed. Morcelliana, Brescia, 1969.

E. Vilanova

Regno di Dio. (inizio)

Il centro della predicazione di Gesù è il suo insegnamento sul Regno di Dio (Mc 1,14-15). La buona novella, il vangelo di Gesù, è il suo messaggio sul Regno. Il termine Regno (in ebraico: malkut) ha un senso dinamico, per cui dire che Dio regna è lo stesso che dire: Dio è re. Pertanto, si realizza il disegno di Dio, si compie la volontà di Dio, perché questa è la caratteristica del re, secondo il concetto antico di regalità. Però, questo in che cosa consiste più specificamente? Secondo i concetti dell'AT, esisteva in Israele una corrente di pensiero secondo cui si aspettava la venuta di un re che avrebbe stabilito qui in terra l'ideale della vera giustizia (Sal 44; 72; Is 11,3-5; 32,1-3.15-18). Ma di quale giustizia si trattava? Non si trattava della giustizia nel senso del diritto romano: dare ad ognuno il suo. La giustizia del re, secondo il concetto di Israele, consisteva nel difendere efficacemente ciò che non può difendersi da sé. Quindi, la giustizia consisteva, per Israele, nella protezione che il re dava, o doveva dare, agli inermi, ai deboli e ai poveri, alle vedove e agli orfani (Sal 72,1-4.12-14). Per questo, quando Gesù dice nella sua predicazione che il Regno di Dio è vicino, Egli vuol dire che finalmente si sta affermando la condizione bramata da tutti gli scontenti della terra: la situazione in cui si realizzerà la giustizia, cioè, la protezione e l'aiuto per chiunque non è capace di difendersi, per tutti i diseredati delle terra, per i poveri, gli oppressi, i deboli, gli emarginati e gli indifesi. Per questo, si comprende come, nella predicazione di Gesù, è detto che il Regno è per i poveri (Lc 6,20), per i fanciulli (Mc 10,14), per i piccoli (Mt 5,19), e, in genere, per tutti coloro che la società emargina e disprezza.

Infine, che cosa significa tutto ciò? È chiaro che qui è descritto quello che potremmo chiamare l'ideale di una nuova società. Una società degna dell'uomo, in cui finalmente si stabiliscono la fraternità, l'uguaglianza e la solidarietà fra tutti. Una società, inoltre, in cui se c'è qualche privilegiato, questo è proprio il debole e l'emarginato, colui che non può difendersi da sé.

Però, non si deve pensare che il Regno di Dio si riduca ad un semplice progetto di giustizia sociale. Esso va molto più in là di tutto questo, poiché raggiungerà la sua pienezza solo nell'al di là, quando Dio sarà tutto in tutte le cose. Inoltre, il Regno di Dio suppone ed esige la conversione, il cambiamento di mentalità e di comportamenti (Mc 1,15 e par.), l'adesione incondizionata al messaggio di Gesù (Mc 4,3-20 e par.), e, in questo senso, l'interiorità.

Allora, da quanto si è detto fin qui, si deducono alcune conseguenze:

1) Il Regno di Dio non si riferisce all'idea nazionalista che avevano gli Ebrei, soprattutto i più fanatici, come gli zeloti e i sicari. Il Regno di Dio non si identifica con nessun nazionalismo politico.

2) Il Regno di Dio non consiste nemmeno in una situazione imposta con la forza delle armi o col potere dell'esercito.

3) Il Regno di Dio non può essere il risultato di un'applicazione letterale della legge religiosa: su questo punto, Gesù deluse i suoi uditori Ebrei.

4) Il Regno di Dio non è nemmeno il risultato di una pratica fedele ed osservante delle opere religiose: il culto, la pietà, i sacrifici. Gesù non intende questo nella sua predicazione. Appunto perché non è nulla di tutto questo, il Regno di Dio è, in ultima istanza, la " buona novella " per i poveri, per coloro che soffrono, per i perseguitati e per gli emarginati.

Da quanto si è detto, si può vedere come il Regno di Dio sia più ampio della Chiesa: esso, cioè, non coincide coi limiti sociologici della Chiesa- istituzione, ma li oltrepassa. Il Regno di Dio si realizza in tutti gli uomini e in tutte le donne che cercano sinceramente l'ideale di società voluta da Gesù, sia essa dentro o fuori della Chiesa. La Chiesa ha la missione e il compito fondamentale di predicare il Regno e di renderlo presente mediante comunità di credenti che si mettano sul serio a realizzare il progetto di Gesù.

Bibl. - Filthaut T., Il Regno di Dio nell'insegnamento catechistico, Ed. Paoline, Alba, 1963. Fusco V., Parola e Regno, Ed. Morcelliana, Brescia, 1980. Jeremias J., Teologia del Nuovo Testamento, Ed. Paideia, Brescia, 1971. Panimolle S.A., " Regno di Dio ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1296-1322. Schnackemburg R., Signorìa e Regno di Dio. Uno studio di Teologia biblica, Ed. Il Mulino, Bologna, 1976.

J.M. Castillo

Re-iniziazione. (inizio)

La re-iniziazione cristiana è l'iniziazione di battezzati che sono stati ri-convertiti con una seconda evangelizzazione, o perché vivevano ai margini della vita cristiana, o perché la loro fede mancava di fondamenti (la fede del " carbonaio ") o aveva fondamenti inadeguati (fede magica, infantile, o pre-conciliare). Ricordiamo che il processo di iniziazione cerca di far maturare la fede, di orientare la conversione, di far vivere la liturgia, di far scoprire la comunità, di destare e orientare l'impegno.

Il termine ri-evangelizzazione (nuova evangelizzazione) appare ufficialmente per la prima volta a Medellin (1968) quando, nel tracciare i criteri teologici della pastorale popolare, viene proposta una " pedagogia pastorale che assicuri una seria ri-evangelizzazione delle varie aree del continente " (cap. 6, n. 2). Il Direttorio generale di pastorale catechetica del 1971 usa lo stesso termine nel costatare che la fede cristiana " ha attraversato una grave crisi " a causa dell'identificazione della religione con le classi sociali benestanti, a causa di abitudini religiose superficiali, a causa dell'uniformità cristiana imposta senza rispetto della libertà e a causa del continuo aumento dei non credenti. È necessario, afferma questo documento, " fomentare una adeguata rievangelizzazione degli uomini, ottenere la loro ri-conversione, impartire loro una più profonda e più matura educazione della fede " (n. 6).

La ri-evangelizzazione è dunque una seconda evangelizzazione ai battezzati perché rendano personale la loro fede ed accettino la conversione cristiana. Questo concetto si ritrova nel Sinodo dei Vescovi del 1974.

Fu proprio l'allora Cardinale Wojtyla che parlò della " nuova cristianizzazione " dei battezzati, ossia, di evangelizzazione " ad intra ", distinta dalla evangelizzazione " ad extra ", rivolta ai pagani nei paesi di missione. A Puebla, si parlò di una " nuova evangelizzazione " (n. 366), nel costatare la necessità di " badare a situazioni più bisognose di evangelizzazione ". Il 21 Maggio 1985, nell'occasione della visita di Giovanni Paolo II nel Belgio, egli parlò di una " nuova evangelizzazione " delle mentalità d'oggi. Nell'ottobre dello stesso anno, il VI Simposio dei vescovi d'Europa trattò il tema Evangelizzare l'Europa secolarizzata. Il Sinodo straordinario del 1985 affermò che " l'evangelizzazione è il primo dovere, non solo dei vescovi, ma anche dei sacerdoti, dei diaconi e di tutti i cristiani ".

Evidentemente, la seconda evangelizzazione non va intesa come una specie di crociata o come uno sforzo per riconquistare la società secolarizzata. Il termine equivale a evangelizzazione permanente. È nuova, perché l'Occidente si è scristianizzato. È diretta ai battezzati, per cui equivale, in fondo, alla re-iniziazione della fede e di tutta la vita cristiana.

È stato ricordato abbastanza ampiamente il fatto della presenza numerosa, in alcune azioni ecclesiali, di battezzati che non credono e non praticano più, di praticanti occasionali che non credono (assistono a battesimi, a prime comunioni, nozze e funerali), di credenti che praticano con una certa regolarità ma non sono evangelizzati, ed anche di cattolici assidui all'eucaristia domenicale ma che hanno una evangelizzazione ed una catechesi carenti. Perciò, il termine evangelizzazione è un concetto analogico. A differenza di una prima evangelizzazione, la nuova evangelizzazione è rivolta al popolo dei battezzati in paesi di tradizione cristiana. Si può dire altrettanto per la re-iniziazione rispetto all'iniziazione. La re-iniziazione è quella del neocatecumenato; l'iniziazione è quella del catecumenato.

Bibl. - Aa.Vv., Evangelizzare nel mondo d'oggi, in: " Concilium ", (1978) n. 4. Aa.Vv., L'annuncio del Vangelo oggi. Commento all'Esortazione Apostolica di Paolo VI " Evangelii Nuntiandi ", Pont. Univ. Urbaniana, Roma, 1977. Zevini G., " Neocatecumenato ", in: Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., 1989, pp. 1056-1073.

C. Floristán

Religione. (inizio)

Col termine religione, ci si riferisce genericamente al problema del rapporto tra l'uomo e il trascendente. Questo rapporto ha avuto una molteplicità di manifestazioni storiche, alle volte così contrastanti che rimane difficile giungere ad una accezione comune.

Tuttavia, lungo la storia dell'umanità, fino ad oggi, si è riscontrato un tipo di fenomeni sociali sufficientemente caratteristici che chiamiamo religioni. Non è facile precisare il loro nucleo comune, ma si possono stabilire dei limiti. Uno serve a separare la religione dalla magìa; un altro è utile per delimitare il fenomeno religioso di fronte ad altri fenomeni culturali (morale, filosofia, arte) che hanno in comune la preoccupazione per il senso dell'esistenza.

C'è un termine generalmente ammesso per veicolare un tratto caratteristico della sfera religiosa: il sacro (o santo), opposto a profano. Si costruisce così il polarismo sacroprofano come strutturante del campo religioso (anche se da solo non è sufficiente). Il sacro allude primariamente al carattere di ciò che è " estraneo ", " altro ". Indica una rottura del livello dell'esperienza: rottura rispetto a che cosa? Rispetto a questo mondo " profano " (pro-fanum: etimologicamente, ciò che sta davanti al tempo). Esso, però, o rinchiude un carattere circolare  profano è ciò che non è sacro , o costringe a definire il profano come il quotidiano, il " normale ". È una definizione vaga: la magìa, la parapsicologia possono entrare in questa categoria ampia del sacro in quanto non-normale.

Per questo, oltre al sacro in senso largo, occorre elaborare la categoria del sacro in senso stretto (sacro religioso), che si differenzia dalla magìa. All'inizio di questo secolo, era in voga la teoria secondo; cui la religione deriverebbe dalla magìa: l'umanità avrebbe cercato in un primo tempo di dominare mediante gli scongiuri (magìa) il potere occulto che sfuggiva agli sforzi iniziali della sua tecnica rudimentale. Solo più tardi, immaginando un mondo di dèi, avrebbe cercato di renderseli propizi mediante la preghiera (religione). Però, l'antropologia culturale moderna mostra che presso i popoli primitivi coesistono la magìa e la religione, insieme ad una tecnica e ad una scienza più o meno evolute.

È valido, pertanto, elaborare due categorie differenti: il sacro magico rivela un atteggiamento utilitarista, come la tecnica, ma è rivolto a ciò che è " estraneo ", là dove si pensa che la tecnica non arriva. Il sacro religioso esprime un atteggiamento differente: celebra la vita e i suoi enigmi, e non è primariamente utilitario.

Tuttavia, in realtà, un certo " fattore magico " sembra accompagnare spesso certi atteggiamenti religiosi (di qui, il compito pastorale di una costante purificazione dell'elemento religioso). L'esperienza profondamente religiosa è accompagnata da altri due tratti:

a) il riconoscimento del totalmentè " altro " (il divino), che si traduce in adorazione, atteggiamento in cui l'uomo si sente ad un tempo attratto e pieno di rispetto riverenziale per quello che lo supera assolutamente  mysterium fascinans et tremendum  e

b) la ricerca della " salvezza ", che può essere intesa in molti modi, ed in cui, certamente, è espresso un interesse, non specifico ed utilitario, ma ultimo e capace di dare senso alla propria esistenza. La " salvezza " propriamente religiosa mira ad una realizzazione umana totalizzante.

Questi tratti generici del fattore religioso si presentano, come attestano la storia e l'antropologia, con una enorme varietà di forme concrete. Nelle varie religioni, il sacro religioso appare sotto molteplici aspetti materiali (ierofanìe). Tutto può diventare ierofanico per l'atteggiamento religioso. Alle volte, si può distinguere una eventuale linea evolutiva in queste manifestazioni del sacro religioso: dalle mediazioni ierofaniche più opache, nelle culture primitive, fino a ierofanìe più " trasparenti " del totalmente altro. Ciò che oggi non sembra esatto è la prospettiva evoluzionista rigida che era in voga all'inizio del secolo: secondo questa ipotesi, l'ordine evolutivo andrebbe dall'animismo al politeismo, e di qui, al monoteismo. Ora, già in strati religiosi molto antichi, è stata costatata l'esistenza di un certo germe di monoteismo. Ogni ierofanìa orienta verso il polo del mistero, come riferimento ultimo ed irraggiungibile dell'atteggiamento religioso. Questa mediazione ierofanica si muove sempre sul piano del simbolo. Per questo, in tutte le religioni, acquistano un'importanza fondamentale le azioni simboliche, e i riti, mentre il tipo dominante di linguaggio è quello simbolico, spesso nella forma del mito.

Religioni universali: si chiamano così quelle religioni in cui l'esperienza religiosa che sta alla base è rivolta primariamente alla persona, in quanto tale, prescindendo dai suoi legami etnici. Suppongono una personalizzazione del rapporto religioso. Invece, le religioni " nazionali " (in senso largo: nazione, tribù, clan...) sono esclusive del gruppo: esso è il vero soggetto religioso; l'individuo lo è soltanto in quanto è membro di questo gruppo.

C'è una soprendente coincidenza cronologica nella nascita delle religioni universali. Il fatto ha portato a parlare di un " tempo cardine ", cruciale, per l'evoluzione dell'umanità. Così, tra il 700 e il 500 a.C., vengono redatte in India le Upanishad. Verso il 600 a.C., vivono in Cina Lao Tze, e nell'Iran, Zaratustra. A partire dal 500 a.C., Gautama Buddha in India fonda la sua religione, e Confucio dà origine alla sua in Cina. Riguardo a Israele, Isaia vive verso il 770 a.C.; Geremia ed Ezechiele all'inizio dell'esilio di Babilonia (538 a.C.). Queste grandi religioni, coi loro personaggi religiosi eccezionali, dimostrano che il fenomeno religioso, senza cessare di essere un fenomeno eminentemente sociale, è nello stesso tempo, nei suoi strati più profondi, un fattore di personalizzazione. Ci sarebbe qui da parlare della distinzione tra una religione più dinamica (che produrrebbe un tipo di morale " aperta ") ed una religione più statica (che darebbe una morale più " chiusa ").

Però, la distinzione generalmente più accettata è quella di religioni mistiche e religioni profetiche. Le religioni mistiche implicherebbero una forte svalutazione della personalità e delle azioni umane: la salvezza è concepita come una dissoluzione del soggetto religioso, che è solo una comparsa nella realtà del Tutto (induismo, buddismo). Nelle religioni profetiche (mazdeismo, jahvismo, cristianesimo, islamismo), l'orientamento verso il mistero non escluda e la valorizzazione della storia umana come luogo salvifico; il simbolismo è più antropologico che cosmico; è data la massima importanza al rapporto interpersonale, e lo stesso mistero è rappresentato come " personale ".

Bibl. - Aa.Vv., Enciclopedia delle religioni, 5 voll., Firenze, 1970; Bianchi U., La storia delle religioni, Torino, 1970. Cantone C. (a cura di), Le scienze della religione oggi, LAS, Roma, . Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, Ed. Comunità, Milano, 1963. Eliade M., Trattato di storia delle religioni, Torino, 1966. Leeuw van der G., Fenomenologia della religione, Torino, 1960. Vergote A., Psicologia religiosa, Ed. Borla, Torino, 1968.

J. Martínez Cortés

Religiosi. (inizio)

Lo stato canonico religioso, " quantunque non riguardi la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia alla sua vita e alla sua santità " (CIC c. 207 § 2). " La vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici è una forma stabile di vita con la quale i fedeli, seguendo Cristo più da vicino per l'azione dello Spirito Santo, si dànno totalmente a Dio amato sopra ogni cosa. In tal modo, dedicandosi con nuovo e speciale titolo al suo onore, alla edificazione della Chiesa e alla salvezza del mondo, sono in grado di tendere alla perfezione della carità nel servizio del Regno di Dio e, divenuti nella Chiesa segno luminoso, preannunciano la gloria celeste " (CIC c. 573 § 1). La vita è consacrata per una donazione totale a Dio amato sopra tutte le cose. È Dio stesso che, chiamando, consacra. A questa chiamata concreta e singolarerisponde in modo libero e responsabile il fedele unito a Cristo, e, sotto l'azione dello Spirito Santo, si consacra. Questa consacrazione è possibile solo in Cristo. Viene fatta in unione col suo sacrificio e, proprio per questo, viene consigliato di farla durante la celebrazione eucaristica. La consacrazione è fatta nella e per la Chiesa. È la Chiesa che riconosce, protegge e difende la vita consacrata a Dio. La Chiesa è il Corpo risorto e pneumatico di Cristo con tutti i suoi membri. Per questo, il canone 897, straordinariamente ricco, insegna: " Il Sacrificio eucaristico... è culmine e fonte di tutto il culto e della vita cristiana, mediante il quale è significata e prodotta l'unità del popolo di Dio e si compie l'edificazione del Corpo di Cristo. Gli altri sacramenti infatti e tutte le opere ecclesiastiche di apostolato sono strettamente uniti alla santissima eucaristia e ad essa sono ordinati ".

Questa consacrazione, fatta a Dio in Cristo e per Cristo, è frutto ed espressione dell'amore: amore verso Dio e verso gli uomini. Per questo, ogni donazione religiosa è eminentemente apostolica.

I consigli evangelici sono di diritto divino, in quanto sono fondati sull'esempio di Cristo e sono la sequela di Cristo vergine, povero e obbediente.

Questi consigli evangelici " maggiori " sono assunti e compiuti mediante i voti od altri " vincoli sacri ", " secondo il diritto proprio dell'istituto ". Le Costituzioni devono precisare e regolare lo spirito caratteristico di ogni istituto (cf c. 598). Questi doni carismatici costituiscono una sequela più stretta di Cristo: " Gli istituti di vita consacrata... infatti seguono più da vicino Cristo che prega, che annuncia il Regno di Dio, che fa del bene agli uomini o ne condivide la vita nel mondo, ma sempre compie la volontà del Padre " (c. 577).

Tutte queste vocazioni specifiche costituiscono lo stato canonico di vita consacrata, il quale " per natura sua, non è né clericale né laicale " (c. 588 § 1).

Lo specifico del religioso è significato dal fatto di essere un segno comunitario speciale del Regno di Dio in questo mondo: è " segno della vita futura " (c. 607 § 1).

La fedeltà alla propria identità può dare luogo - al principio, che non sempre è inteso bene, della esenzione, di cui parla la Lumen Gentium al n. 45 e che viene ribadito nel Codice di Diritto Canonico, c. 591. Si cerca sempre l'utilità comune mediante forme speciali che impediscano di identificare l'unità armonica con l'unità insulsa.

" La testimonianza pubblica che i religiosi sono tenuti a rendere a Cristo e alla Chiesa comporta quella separazione dal mondo che è propria dell'indole e delle finalità di ciascun istituto " (CIC c. 607 § 3). Questa separazione assume vari gradi e varie forme, ed è una conseguenza logica del seguire " Cristo più da vicino " (CIC c. 573 § 1), l'unico veramente libero e liberato. È anche la conseguenza del fatto di porre tutta la libertà sotto la libertà infinita dello Spirito Santo. È questa libertà feconda che spiega il cambiamento introdotto dal nuovo Codice a vantaggio del diritto particolare di ciascun istituto.

L'aggiornamento, tanto chiaramente predicato dall'indimenticabile Papa Giovanni XXIII, esige una grande amore fiducioso e, in quanto " aggiornamento giusto ", esige una valida e rispettosa fedeltà ai diversi ritmi dei tempi vivi della salvezza. La fedeltà alla tradizione viva esige uno spirito duttile e rettamente adattabile alle diverse condizioni ed esigenze della Chiesa e di ciascun istituto religioso.

Vanno sottolineati due punti nel Nuovo Codice. Essi sono: l'uguaglianza fondamentale che viene stabilita tra gli uomini e le donne, assieme all'insistenza sui diritti fondamentali di ogni fedele. L'altro punto è la stretta collaborazione coi vescovi nell'apostolato diocesano.

I 163 canoni dedicati dal Codice agli Istituti di vita consacrata e alle società di vita apostolica esprimono molto bene il nuovo spirito fecondo del Vaticano II.

Bibl. - Aubry J., Religiose e religiosi in cammino, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987. Balthasar H.U. von, Gli stati di vita del cristiano, Ed. Jaca Book, Milano, 1985. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica " Vita consecrata ", 25.3.1996. Gozzelino G., Seguono Cristo più da vicino. Lineamenti di teologia della vita consacrata, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1997. Tillard J.M.R., Davanti a Dio e per il mondo. Il progetto dei religiosi, Ed. Paoline, Roma, 1975.

L. Vela

Religiosità popolare. (inizio)

Il fenomeno della religiosità popolare è stato una costante nella storia delle religioni. Il cattolicesimo non fa eccezione: il cattolicesimo popolare ha circondato la vita del cattolicesimo istituzionalizzato come un orizzonte avvolgente. Tuttavia, è stato assente dal campo della riflessione teologica, pastorale e perfino sociologica. I pionieri della teologia della liberazione  e, in genere, la Chiesa latino-americana , sono coloro che hanno posto questo tema al centro delle loro riflessioni.

Come primo approccio, si può dire che la religiosità popolare non è altro che una forma, con profonde radici, di cultura popolare. Questo ci rimanda ai concetti di cultura e di popolo.

Per cultura, si intende qui il suo senso antropologico. Ciò implica, pertanto, come componenti fondamentali, tra le altre:

a) il complesso di sistemi simbolici di un popolo: credenze, miti, archetipi, tradizioni, leggende, emblemi, e

b) il complesso di regole sociali: sistemi di parentela, di matrimonio, di autorità, di proprietà...

Popolo, secondo il vocabolario, si riferisce a due significati: uno globalizzante e l'altro, differenziatore:

a) quello globalizzante: il popolo è un complesso di persone che appartengono ad uno stesso paese e vivono sotto le stesse leggi; possono avere in comune la lingua, la religione...

b) Il significato differenziatore: il popolo è una parte della popolazione che si ritiene contrapposta agli strati sociali che hanno i più grandi beni. la maggiore istruzione, il maggior potere.

Questa oscillazione di significato è entrata nel linguaggio pastorale, creando così varie ambiguità. Questo si può vedere, per esempio, nei testi pastorali della Chiesa latino-americana (documenti di Puebla).

Conseguentemente, l'espressione cultura popolare potrebbe designare:

a) o la cultura di un popolo nella sua totalità;

b) o la cultura di quella parte della popolazione che possiede meno beni, meno istruzione, meno potere, ecc.

Qui, nel nostro contesto, prenderemo cultura popolare nel senso differenziatore: la cultura propria di quegli strati della popolazione che hanno meno istruzione, meno potere, ecc.

Una di queste forme di cultura è la religiosità. Per religiosità, si intende quell'atteggiamento fondamentale che cerca i rapporti col divino. La religiosità popolare sarebbe quell'atteggiamento che dà origine a forme di cultura popolare (dei poveri e dei semplici) che cercano rapporti col divino 1) più semplici; 2) più diretti; 3) più fruttuosi.

Per più semplici, si intende il tentativo di superare una pratica religiosa troppo intellettualista ed astratta; e di concedere una maggiore partecipazione al sentimento e all'immaginazione.

Per più diretti, si intende il rifiuto di alcune mediazioni clericali, viste più come ostacolo che come mediazione.

Per più fruttuosi, si allude al compimento di desideri utilitari. Qui, si può entrare in un campo vicino alla magìa e alla superstizione (che possono spesso intaccare la religiosità popolare).

Contro questa definizione di religiosità popolare, si obietta che essa è vista come un fenomeno di reazione: come se sorgesse dopo e di fronte alla religione istituzionalizzata. C'è chi pensa, invece, che la realtà sia proprio l'opposto: prima, ci sarebbe il fattore popolare; poi, quello derivato, cioè, il fattore istituzionalizzato (in quanto non popolare). Di fatto, è difficile dimostrare, dal punto di vista storico-temporale, qual è il primo. Ciò che si può dire è che esiste un rapporto dialettico tra l'elemento popolare e quello ufficiale istituzionalizzato. Soprattutto si può distinguere tra il popolare e il popolarizzato, cioè, tra ciò che è originario del popolo e ciò che vi si intromette per varie vie.

La situazione attuale. La religiosità popolare, come atteggiamento del popolo non illuminato nei suoi rapporti col divino, dà origine a varie forme di religione popolare (oggettivazioni in forme culturali di questa religiosità). Esse possono sovrapporsi ed interferire in una rete complessa di rapporti. Riassumendo la situazione di oggi, possiamo dire:

1. Esistono residui di religioni pre-cristiane, arcaiche, rurali in genere, che sopravvivono in forme più o meno vicine alla magìa e alla superstizione. Possono essere avanzi di una protesta culturale di fronte all'imposizione del cristianesimo con la forza da parte del potere politico, in altri tempi.

Secondo una certa interpretazione marxista, sarebbe una reazione " di classe ": gli oppressi e gli sfruttati di fronte alle classi dominanti, alleate molto spesso con la gerarchia ecclesiastica. Non sarebbero puri residui di un conflitto culturale superato, ma l'espressione di una protesta con radici economiche.

2. C'è anche una rinascita di certe tradizioni religiose cristiano- popolari (pellegrinaggi, feste patronali, forme di culto mariano molto legate ad atteggiamenti emozionali). Ciò risponderebbe al tentativo di superare le contraddizioni inerenti alla civiltà industriale (sradicamento, emigrazione, anonimato, massificazione).

Su questa linea, si possono collocare i gruppi carismatici- pentecostali, oggi in continuo aumento. I loro appartenenti possono essere contadini, operai, borghesi... Qui, emerge la nostalgia per una vita ed una religiosità più partecipativa, più spontanea e più esperienziale, per reagire all'automazione e alla standardizzazione della società tecnologica.

3. Sono numerosi i gruppi e i rapporti quasi-religiosi in cerca di salute, guarigione; ecc., ricalcati su modelli ecclesiastici. Il leader guaritore è come il santo: imita le estasi, le visioni, i miracoli terapeutici... Partecipa in qualche modo alla sfera del sacro-magico. Si potrebbe dire altrettanto dei veggenti e di coloro che predicono il futuro. Come spiegazione sociologica, si può pensare anche qui alla nostalgia di ciò che è personalizzato e meraviglioso in seno ad una società di massa, burocratica e razionalizzata.

4. Si deve almeno accennare ai culti afrocattolici e amerindi nel continente americano. Essi cercano di esprimere un'identità culturale repressa dalla società coloniale e dalla società capitalista-tecnologica.

5. Infine, nonostante le loro particolarità, c'è da ricordare le comunità ecclesiali di base. Esse rispondono ad una coscienza critica del popolo di fronte all'istituzione religiosa alleata coi potenti.

Bibl. - Bo V., La religiosità popolare, Ed. Cittadella, Assisi, 1979. Cox H., La seduzione dello spirito. Uso e abuso della religiosità popolare, Ed. Queriniana, Brescia, 1975. Mattai G., " Religiosità popolare ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1316-1331. Milanesi G.C., Sociologia della religione, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1973. Pizzuti D. - Giannoni P., Fede popolare, Torino, 1979. Rossi A., Le feste dei poveri, Ed. Laterza, Bari, 1971. Weber M., Sociologia delle religioni, 2 voll., UTET, Torino, 1976.

J. Martínez Cortés

Reliquie. (inizio)

Si chiamano reliquie quello che rimane del corpo di un santo, degli strumenti di martirio, dei suoi vestiti, ecc. Tutto ciò riceve la venerazione dei fedeli. Il culto delle reliquie esiste in tutte le religioni, sia in quelle primitive che in quelle più evolute. Sono la conseguenza dell'importanza che possiede in ogni società religiosa la testimonianza concreta dei personaggi esemplari. Nel cristianesimo, si cominciò a venerare i corpi e i luoghi dei martiri e, soprattutto a partire dal secolo IV, si diede importanza anche agli strumenti del loro martirio. In Palestina, oltre al culto per la Croce (soprattutto dopo il supposto ritrovamento della reliquia della vera Croce su cui morì Gesù Cristo) e alla venerazione per il Santo Sepolcro, si cominciarono a visitare e a onorare anche i luoghi che avevano qualche rapporto con la vita di Cristo e che erano testimoni muti della sua attività.

Nel Medioevo, il culto delle reliquie (vere o false, storiche o leggendarie) di martiri, di altri santi e beati proliferò in modo straordinario, raggiungendo alle volte estremismi quasi ridicoli. Il protestantesimo respinse come idolatrico e superstizioso il culto delle reliquie. Il Concilio di Trento espresse la dottrina cattolica intorno ad esso (sessione XXV) collegando la venerazione delle reliquie con la fede nella risurrezione, ma mise anche in guardia contro il pericolo di certe esagerazioni e sostenne la necessità di evitare qualsiasi falsificazione. La legislazione attuale stabilisce:

" È assolutamente illecito vendere le sacre reliquie " (CIC c. 1190 § 1).

" Le reliquie insigni, come pure quelle onorate da grande pietà popolare, non possono essere alienate validamente in nessun modo né essere trasferite in modo definitivo senza la licenza della Sede Apostolica " (CIC c. 1190 § 2).

Reliquie insigni sono, per esempio, il corpo intero o la testa o un altro membro importante di un martire o di un santo. Vanno quindi conservate nel luogo tradizionale del loro culto.

Anticamente, si usava celebrare l'Eucaristia presso le tombe dei martiri. Come ricordo di questa usanza, le norme liturgiche dicono:

" L'uso di inserire nell'altare consacrato, o di disporre sotto l'altare, le reliquie dei Santi, anche se non martiri, sia opportunamente conservato. Si abbia cura tuttavia che la verità storica delle reliquie sia accertata " (Istruzione generale del Messale Romano, n. 266).

È questo un modo di collegare la morte sacrificale di Cristo, riattualizzata nella celebrazione eucaristica, col sacrificio dei suoi discepoli.

Bibl. - Martimort A.G., La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, Ed. Desclée, Roma-Parigi-Tournai, . Righetti M., Manuale di storia liturgica, 4 voll., -1969. Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Ed Paoline, Roma .

J. Llopis

Rendimento di grazie. (inizio)

Il rendimento di grazie è una forma di preghiera che accentua l'espressione della gratitudine degli uomini per i favori elargiti da Dio. L'orientamento può essere egocentrico (gratitudine per i benefici ricevuti) o altruista (gioia per la perfezione e la bontà di Dio). Intimamente unito alla preghiera di lode, il rendimento di grazie non è in contrasto con la preghiera di domanda: anzi, ne è un complemento necessario in quanto manifesta la valorizzazione ammirativa del credente per i doni ricevuti dal Signore. Presente in un modo o nell'altro in tutte le religioni, la preghiera di ringraziamento, chiamata anche di benedizione, costituisce una caratteristica importante della fede d'Israele e rappresenta il punto culminante della preghiera cristiana. Infatti, senza dimenticare la necessità della preghiera di domanda e di intercessione, il popolo d'Israele amava la preghiera di rendimento di grazie con cui proclamava le meraviglie operate da Dio, ed esprimeva la sua fiducia nella continuità della protezione divina e la riconoscenza che ne derivava. Molti salmi cantati così spesso dagli Israeliti, sono inni di ringraziamento che ricordano i grandi interventi salvifici di Dio nella storia ed invitano tutti i popoli a riconoscere la potenza di Dio. Il popolo d'Israele usava in certe occasioni, ma soprattutto nei pasti e in determinate riunioni di culto, le cosiddette benedizioni (berakot) in cui si proclamava benedetto (cioè, degno di lode e di gratitudine) il Signore per la sua bontà e per i suoi doni, come, per esempio, nella formula che accompagnava il primo calice e la frazione del pane nei pasti solenni: " Benedetto sei tu, Signore Dio nostro, re dell'universo, che ci dài il frutto della vite. Benedetto... che fai produrre alla terra il pane ". C'è da notare che di solito la benedizione si conclude con una supplica affinché l'opera ricordata giunga a suo compimento.

La preghiera cristiana si colloca in questa linea in cui prevale la dimensione di rendimento di grazie, propria della preghiera ebraica. Così, per esempio, il " Padre nostro " contiene già, sotto forma di supplica, un orientamento fondamentale verso il rendimento di grazie. Però, è nella preghiera cristiana per eccellenza, la cosiddetta preghiera eucaristica (eucaristia significa appunto: rendimento di grazie) della Messa dove con la massima chiarezza si nota questo carattere. La sua sintesi strutturale è questa: " Rendiamo grazie a Dio, perché ha compiuto meraviglie per noi, tra cui la principale è stata quella di consegnare il proprio Figlio per la nostra salvezza. Noi, ricordando questo prodigio, chiediamo al Padre che mandi il suo Spirito sulle nostre offerte perché le trasformi nel Corpo e Sangue di Cristo, ed in questo modo, possiamo fare l'offerta santa a beneficio nostro e per la gloria di Dio ". Tutte le altre preghiere cristiane di benedizione e di consacrazione contengono anche questo aspetto eucaristico. A loro volta, tutte le preghiere di domanda hanno pure un orientamento verso il rendimento di grazie.

Praticamente, dagli inizi del secolo VII, la Chiesa romana fece uso di un testo unico per la preghiera eucaristica che si impose presto in tutto l'Occidente. Questa antichissima tradizione non rispecchiava, però, la prassi della Chiesa primitiva né delle liturgie orientali che fino ai nostri giorni hanno conservato una maggior ricchezza e varietà di preghiere eucaristiche o anafore (parola greca che significa: preghiera che accompagna l'oblazione o offerta e che in Oriente indica quello che nella Messa romana è chiamato canone). Il Concilio Vaticano II dispose l'introduzione nella liturgia romana di nuovi testi per la preghiera eucaristica. Questi, con una struttura e con un contenuto sostanzialmente identici, mettono in evidenza modelli molto ricchi di rendimento di grazie.

Bibl. - L. Bouyer, Eucaristia. Teologia e spiritualità della preghiera eucaristica, Elle Di Ci, Leumann (Torino), ; L. Deiss, La Cena del Signore, Ed. dehoniane, Bologna, 1977; L. Donghi, La spiritualità della celebrazione eucaristica, Opera Regalità, Milano, 1988; J.A. Jungmann, Missarum sollemnia, Ed. Marietti, Casale M., ; M. Magrassi, Vivere l'Eucaristia, Ed. La Scala, Noci, ; I. Schuster, Liber Sacramentorum, 3 voll., Ed. Marietti, Casale M., 1963-1967; C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia, Ed. Paoline, Roma, .

J. Llopis

Revisione di vita. (inizio)

La revisione di vita è un metodo spirituale che è sorto nella JOC (Gioventù operaia cristiana) e si è sviluppato nei movimenti specializzati di A.C., nella decade degli anni " 50 e agli inizi degli anni " 60, per formare dei militanti valorizzando l'azione, col triplice programma di vedere la realtà, giudicarla alla luce del vangelo, e agire di fronte alle persone e alla società. In questo modo si reagiva contro la dissociazione tra fede e impegno. La revisione di vita corrisponde alla spiritualità dell'avvenimento (M. Quoist) o dell'impegno (Th. Suavet), specialmente dei laici. Sottolinea il valore della persona, l'importanza dei rapporti umani e la mediazione evangelica dell'impegno.

Nella revisione di vita, si tratta, prima di tutto, di rivedere fatti umani (avvenimenti o situazioni) che rivelano il comportamento delle persone. Nella revisione, bisogna esaminare la realtà temporale, le persone implicate in questa realtà e l'interdipendenza che esiste tra queste persone. Affinché sia revisione di vita cristiana, è necessario collocarsi sul piano di Dio. Lo sguardo della revisione di vita deve essere ad un tempo umano e cristiano.

In secondo luogo, la revisione si fa in gruppo, cioè all'interno di un gruppo che ha un impegno comune. I componenti del gruppo si riuniscono per rivedere la loro vita partendo dal vissuto cristiano dei fatti, contemplandoli alla luce del progetto di Dio sul mondo.

La revisione di vita non si identifica con la discussione di un tema, e non consiste in un semplice esame di coscienza. La revisione di vita è la ricerca in comune del senso generale che va impresso a tutta la vita affinché sia veramente cristiana.

Non dimentichiamo che la parola di Dio ci viene comunicata mediante eventi e che Dio si rivela attraverso le persone. Di qui, si deve cogliere ogni fatto come inserito in un complesso. In questa pratica spirituale, la vita va rivista " in un modo diverso da quanto la possono cogliere i sensi e l'intelletto: va vista con gli occhi della fede " (M. Quoist).

La revisione è fatta in gruppo, con un responsabile che aiuta il cammino del gruppo ed evita le possibili deviazioni; un segretario che nota la revisione dei fatti e ricorda nella riunione successiva gli impegni presi; un gruppo da cinque a otto componenti che siano sufficientemente omogenei in quanto a età e ambiente di vita. La riunione dura da un'ora ad un'ora e mezza. Dopo una preghiera, ogni membro presenta un fatto concreto, nel suo aspetto esterno ed interno, senza emettere un giudizio. Il gruppo sceglie quel fatto che gli sembra più rappresentativo. Questo avviene con la decisione della maggioranza. Questo fatto viene approfondito. Si esaminano gli atteggiamenti personali del protagonista o dei protagonisti del fatto e le cause che hanno influito. In un secondo momento, si pronuncia il giudizio naturale o umano ed il giudizio evangelico. Si termina con l'attività dei singoli e del gruppo.

Bibl. - Barrau P., Revisione di vita: presupposti teologici, GIAC, Treviso, 1960. Bonduelle J., La revisione di vita, Ed. AVE, Roma, 1967. Maréchal A., La revisione di vita, Nuova Favilla, Milano, 1963. Perani C., La revisione di vita strumento di evangelizzazione, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1969. Spinsanti S., " Revisione di vita ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1331-1343.

C. Floristán

Riforma. (inizio)

In modo generico, la parola riforma indica ogni cambiamento realizzato nella Chiesa con l'intento di un miglioramento. Per molto tempo, la parola è stata vista con sospetto a causa della rottura a wenuta nel secolo XVI. Questo ha impedito di cogliere la forza nascosta di cui periodicamente era densa per promuovere un vigoroso risveglio nella Chiesa. Riforma è un termine di carattere filosofico che esprime il ritorno alla propria " forma ", cioè, il ritrovare la propria consistenza interiore, la propria stabilità naturale, il ritornare ad essere se stessi senza alcuna dissomiglianza. Per valutare la sua densità e le sue forme, è necessario osservare il termine nei suoi contesti sociologici. Infatti, non si tratta semplicemente di perfezione individuale, ma di una crescita collettiva, le cui leggi specifiche non sono state poste sufficientemente in evidenza da storici o studiosi di spiritualità, imbevuti inconsciamente dall'errore di credere che la perfezione di una società non sia altro che la somma di santità individuali.

La storia presenta i vari tipi di riforma, nel tempo e nello spazio, che ci sono stati in senso all'unica Chiesa. Per limitarci al Medioevo, e agli inizi dell'Età Moderna, ciclo privilegiato da questo punto di vista, possiamo discernere tra le altre, e senza pregiudicare realizzazioni particolari - negli Ordini monastici, per esempio - o locali, sei grandi riforme. Queste, tra i secoli VIII e XVI, cercarono di rianimare la società cristiane decadente: la riforma carolingia (secoli VIII-IX), la riforma gregoriana (secolo XI), il risveglio prodotto dalla nascita degli Ordini Mendicanti (secolo XIII), la riforma dei canonici iniziata nei Paesi Bassi (all'inizio del secolo XVI), infine la riforma cattolica, divenuta poi la contro-riforma (secolo XVI) e la riforma protestante (secolo XVI) che divise la Chiesa, col provocare la dislocazione parziale delle condizioni di salvezza nella comunità.

Con questo semplice richiamo, è possibile rendere ragione delle varianti profonde di queste diverse riforme. Indubbiamente, hanno denominatori comuni, nei princìpi, nei metodi, e nello slancio spirituale che le animò, ma nelle loro condizioni concrete furono molto differenti. Non ci riferiamo soltanto al loro contesto amministrativo e ai loro fervori religiosi, ma soprattutto alle concezioni generali delle politiche rinnovatrici e delle loro strategie effettive.

Possiamo dire che la riforma carolingia, quella di Gregorio VII e quella dei canonici regolari sono piuttosto " riforme morali ", riforme di una società che ha fiducia nel comportamento effettivo delle sue istituzioni e del suo apostolato, che rivendica i suoi diritti e privilegi, per continuare ad esercitarli, di fronte ai poteri che le minacciano o le frenano, mediante una riforma interna sul piano dei costumi.

La riforma dei Mendicanti e la cosiddetta riforma cattolica e protestante sono piuttosto " riforme istituzionali ". Le prime due ebbero un grande successo; l'altra provocò una dolorosa rottura. In esse, grazie al movimento dello stesso suolo cristiano e sotto la pressione di aspirazioni generalizzate nel popolo (alle volte, in forme di insurrezione), le istituzioni, e non solo i costumi, avevano bisogno di rinnovamento con un ritorno al vangelo, alla vita genuina degli apostoli, ai carismi ispirati, al potere creatore dello Spirito. Queste riforme " istituzionali " sono borse chiamate più esattamente " apostoliche ", perchè il risveglio della " vita apostolica " com'era alle sue origini è l'immagine quasi rivoluzionaria che influisce sulla mente e che determina l'azione.

Questi due tipi di riforma, con certi aspetti di eccesso, non sono sistematizzati alla leggera: si potrebbe divertirsi a compilare uno per uno gli elementi identici, cominciando dalla santità, elemento determinante per entrambi i tipi di riforma. È chiaro che queste due tecniche riformatrici non si escludono a vicenda, ma sono complementarie. In questo modo, le riforme non sono soltanto purificazioni morali o riparazioni indovinate: sono l'avvento, per mezzo di un ritorno al vangelo, di una nuova " cristianità ", sia nell'unità cattolica, sia nella sua problematica rottura.

Bibl. - Congar Y., Vera e falsa riforma nella Chiesa, Ed. Jaca Book, Milano, 1972. Delumeau J., La Riforma. Origini e affermazione, Ed. Mursia, Milano, 1975. Iserloh E., Storia della Riforma, Ed. Il Mulino, Bologna, 1974. Marcocchi M., La riforma cattolica, 2 voll., Ed. Morcelliana, Brescia, 1967. Vinay V., La riforma protestante, Ed. Paideia, Brescia, 1982.

E. Vilanova

Rinnovamento carismatico. (inizio)

Il movimento neopentecostale cattolico nacque al principio del 1967, in ambienti universitari del Nord degli Stati Uniti, nel contesto nordatlantico di una profonda crisi sociale, durante la fase della prima euforia del rinnovamento conciliare. Di qui, il nome di rinnovamento carismatico. Nel 1973, arrivò in Spagna. Questo movimento ritiene fondamentale e normale l'esperienza dello Spirito che avviene col battesimo di questo dono e con cui si ricevono tre carismi o frutti: il dono delle lingue, quello di profezia e quello di guarigione. I carismatici considerano il " battesimo dello spirito " o " effusione dello Spirito " una unione con Cristo, sperimentata come dono, con frutti duraturi in forma di carismi. È sottolineato l'intervento amorevole di Dio mediante la sua grazia, gustata nel gaudio dello Spirito e resa presente nella trasformazione dell'uomo.

Il rinnovamento carismatico è, in realtà, un movimento di rinnovamento cristiano che riscopre una tradizione primitiva che si era quasi perduta nella Chiesa: la preghiera in gruppo, pubblica e spontanea. La preghiera si era sclerotizzata nella liturgia ufficiale (fissa e in latino), vocalizzata in formule ripetitive popolari (rosario e giaculatorie), o trasformata in meditazione attraverso la contemplazione (in silenzio e individuale.

Predomina in questi gruppi l'emotività religiosa, con un linguaggio meta-culturale, all'interno di un netto regresso orale. I carismatici si basano sulla forza dello Spirito. La loro cristologia e la loro ecclesiologia sono decisamente pneumatiche. Possiedono una mistica propria, contagiosa ed entusiasta che proviene dalla preghiera e dalla parola di Dio. Quello che viene perseguito è la trasformazione interiore dell'individuo, in un rapporto quasi immediato ed esperienziale con l'Assoluto.

Lo strumento principale del rinnovamento carismatico è l'assemblea di preghiera: è una riunione settimanale che dura alcune ore in cui si loda Dio. Questa assemblea ha una struttura di liturgia libera (i suoi responsabili sono laici), con un diretto riferimento sacramentale (i sacramenti dell'iniziazione) ed un forte accento pneumatologico (l'esperienza nello Spirito è fondamentale). Però, succede spesso che il carisma è più valorizzato del sacramento; l'individualismo, più della comunità; l'emozione religiosa, più dell'impegno di carità.

Sebbene questo movimento non provochi direttamente una fuga ed una rottura col mondo, tuttavia non si adatta nemmeno alla realtà sociale: infatti, il suo modo di esprimersi e la sua testimonianza hanno poco a vedere coi segni del tempo. La sua preoccupazione è l'esperienza di fede in un modo vissuto, attestato e diretto, senza grandi mediazioni e raziocini. Le comunità carismatiche sono, in realtà, assemblee di preghiera contagiosa e spontanea, ritmica e semplice.

Bibl. - Aa.Vv., L'esperienza dello Spirito, Ed. Queriniana, Brescia, 1974. Barruffo A., Il rinnovamento carismatico: un'esperienza di preghiera, in: " Rassegna di Teologia ", 16 (1975), pp. 37-52. Borriello L. - Della Croce G. Secondin B., La spiritualità cristiana nell'età contemporanea, Ed. Borla, Roma, 1985. Favale A. (ed.), Movimenti ecclesiali contemporanei, LAS, Roma, 1980. Martini C.M., Parola di Dio vita dell'uomo, Ed. Comunità Vita Cristiana, Roma, 1977. Sullivan F.A., Carismi e rinnovamenti carismatico, Ed. Ancora, Milano, 1982. Tardif E. - Prado J.H., Cristo Gesù è vivo, Ed. dehoniane, Napoli, 1984.

C. Floristán

Risurrezione. (inizio)

In confronto con le numerose dottrine di risurrezione che caratterizzavano le antiche religioni dei Medio Oriente (Osiride in Egitto, Tamuz in Babilonia, Attis nell'Asia Minore), l'AT è della massima discrezione a questo riguardo. Qui, Dio non è inteso come una divinità della fecondità che deve rinascere al ritmo delle varie stagioni dell'anno. Tuttavia, insiste sulla successione lineare della storia che un giorno arriverà al suo termine e coinciderà con un giudizio finale di Dio. Di una risurrezione, sia individuale che collettiva, non riusciamo a trovare una trac cia esplicita negli scritti dell'AT. Soltanto l'apocalittica giudaica (Esd 26,19; Dn 12,1) orienta verso l'idea di una duplice risurrezione dei giusti e dei malvagi, accompagnata da un giudizio finale dopo una restaurazione completa dell'umanità (4 Esd, Apoc, Bar). Al tempo di Gesù, il parere dei dottori ebrei non era unanime su questo punto: i Sadducei negavano l'idea stessa di risurrezione, a differenza dei Farisei (Me 12,18 se; At 23,6-8).

Nel NT, l'idea di risurrezione diviene centrale. L'intuizione fondamentale è tolta indubbiamente dall'AT: la vittoria di Gesù e dei morti non è vista come una vittoria ciclica (al ritmo delle stagioni) e cosmica della vita sulla morte, ma come un atto escatologico e gratuito di Dio che pone un termine definitivo al regno della morte. Quest'ultima non è, dunque, considerata come un'eclissi provvisoria della vita, ma come un annichilamento totale dell'uomo da cui solo la potenza di Dio lo può fare risalire. Sopratutto il NT ha questo di particolare: tutto quello che afferma circa la risurrezione è messo in relazione con un fatto storico molto vicino: la morte e la risurrezione di Gesù. Alla luce di questa triplice prospettiva che costituisce l'originalità del pensiero cristiano primitivo a questo riguardo, possiamo precisare i punti seguenti:

a) Le testimonianze più antiche sul fatto stesso della risurrezione di Gesù non sono nei vangeli, ma nelle lettere ed in certi testi antichi. Ciò che fa più impressione in questi testi è che la risurrezione di Gesù è affermata, ma non descritta. Questa è sempre vista come un atto della potenza di Dio che nulla poteva far prevedere prima e nulla poteva spiegare dopo che era accaduto. Gli apostoli non dimostrano la risurrezione di Gesù: per loro, è oggetto di fede (1 Cor 15,12).

b) Nonostante il disordine che si nota nei testi neotestamentari circa le apparizioni di Cristo risorto (specialmente sul luogo e sul numero dí queste apparizioni, come anche circa l'ubicazione temporale rispetto all'ascensione di Gesù), c'è da sottolineare che il Risorto non è descritto come un puro spirito, ma come una persona viva, rivestita di un " corpo ". Ciò che il NT intende mettere in chiaro con tutto ciò è soprattutto l'identità personale tra Colui che " soffrì " e Colui che dopo fu " innalzato ". Questa sofferenza e questa gloria ricevono, l'una dall'altra, il loro significato. Per rimanere fedeli al NT, non bisogna né confonderle né separarle.

c) Di fatto, la risurrezione di Gesù, secondo il NT, non è soltanto un fatto storico nel senso che è stato visto, ma è, inoltre, un giudizio di Dio che concerne ora ogni persona umana. Nessun formula neotestamentaria esprime questo più chiaramente di Rm 4,25: Gesù è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione ". Quello che Dio ha fatto risuscitando Gesù, lo ha fatto per noi, per la nostra salvezza La risurrezione di Gesù esprime, dunque, questa volontà particolare di Dio che, dopo aver annientato l'uomo peccatore, lo chiama miracolosamente ad una vita nuova. Con la sua risurrezione, siamo ritornati in vita, e questo fin d'ora, sebbene ancora in maniera nascosta.

d) Pertanto, solo nei tempi ultimi, si manifesteranno pienamente gli effetti della risurrezione di Gesù a vantaggio dei credenti e dell'intera umanità. Di questa risurrezione ultima e definitiva, le risurrezioni singole narrate dai vangeli sono segni precursori: rendono testimonianza che " i tempi sono compiuti ", che Gesù ha inaugurato il Regno e che al dominio della morte sottentrerà la vittoria della vita.

Da tutto ciò si deduce che la " buona novella ", costituita dal vangelo, abbraccia e comprende l'uomo tutto intero. Secondo il concetto biblico, la morte, come abbiamo visto, è di per sé l'annichilamento, la scomparsa totale dell'essere umano e del suo ambiente cosmico. Per questo, la risurrezione è contrapposta alla creazione: è la " nuova creazione " (2 Cor 3,17; Gal 6,15). " Per mezzo del battesimo... siamo stati completamente uniti a lui (a Cristo) a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione " (Rm 6,4-5). Si tratta di un atto che proviene esclusivamente dalla potenza di Dio e che si può accogliere ed assimilare solo con la fede.

C'è di più: la risurrezione non concerne soltanto gli individui isolati, ma anche tutto il contesto cosmico. In Rm 8, san Paolo paragona il creato, la " storia umana ", ad una donna che soffre le doglie del parto. Questa visione del cosmo obbliga i cristiani ad assumere ogni movimento che vada nel senso della vita e a lottare contro ogni tendenza che vada nel senso della morte. Il fatto che la creazione, secondo l'espressione paolina, sia in attesa di " entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio " (Rm 8,21), obbliga i credenti ad intensificare la loro attività affinché questo parto finale che tutti attendiamo sia il più glorioso possibile.

In altre parole: la risurrezione elimina dal contesto della fede cristiana un tipo di cristologia dolorista: secondo questa concezione, il dolore e la sofferenza sarebbero in sé, in quanto hanno di negativo, redentori e salvifici. È vero il contrario: la morte di Cristo, che nel NT è sempre presentata come un assassinio commesso dagli empi, ha un valore soltanto perché è stata superata nella risurrezione.

Per questo, l'ascetica cristiana, pur assumendo le ingiustizie di un mondo crudele e peccatore, non si rassegna a ciò, ma tenta di inserirvi la dinamica di risurrezione che viene dalla potenza dello " Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti " (Rm 8,11). Una mistica della pura e semplice rassegnazione è contraria al principio fondamentale della fede cristiana: la risurrezione di Gesù e la conseguente risurrezione di tutti i credenti, di tutta l'umanità e dello stesso creato.

Quando Karl Marx proclamò che " la religione è l'oppio del popolo ", egli aveva davanti agli occhi un tipo di cristianesimo rassegnato e dolorista, che era stato manipolato dalle classi dominanti per legittimare lo sfruttamento e l'oppressione delle classi dominate. Per questo, quando al nostro tempo la mistica della risurrezione invade le nuove teologie, soprattutto del Terzo Mondo, la famosa frase del filosofo di Treviri ha cessato di avere un senso per divenire qualcosa di opposto: il cristianesimo di risurrezione è il grande stimolo dei popoli umiliati di oggi affinché lottino per la loro liberazione immediata e preparino in questo modo una fine gloriosa della storia negli ultimi tempi.

Bibl. - Alfaro J., Speranza cristiana e liberazione dell'uomo, Ed. Queriniana, Brescia, 1972. Bof G., " Risurrezione ", in: Nuovo Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1307-1332. Boff L., Vita oltre la morte, Ed. Cittadella, Assisi, 1974. Brambilla F.G., " Risurrezione ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 603-604. Gutierrez G., Teologia della liberazione, Ed. Queriniana, Brescia, 1972. Moltmann J., Teologia della speranza, Ed. Queriniana, Brescia, 1970.

J.M. González Ruiz

Rito. (inizio)

In senso molto largo, si intende per rito qualsiasi azione realizzata secondo alcune norme, ripetuta secondo alcuni determinati ritmi e dotata di un'intenzione significativa che va oltre alla finalità che appare. Osservanza, ripetizione, senso: ecco le tre componenti di ogni rito. Un rito non è un'azione qualsiasi. C'è il rito quando l'uomo vuole esprimere aspetti profondi della sua esistenza; questi aspetti superano la comprensione concettuale e l'utilità immediata. Si trovano riti che riguardano gli atti più fondamentali della vita: la nascita, la morte, il pasto, i rapporti sessuali. Altri riguardano le attività costitutive dell'ordine sociale: patti, alleanze, guerra, pace, investitura delle autorità.

La fede cristiana, nella misura in cui è una realtà veramente incarnata nell'uomo, non può rinunciare ad avere una sua espressione rituale. Per questo, il cristianesimo comporta, fin dalle sue origini, l'uso di riti sacri, tra cui i più importanti sono i sacramenti. Per essere autentico, il rito liturgico cristiano deve soddisfare tre esigenze: essere indissolubilmente legato con la parola di Dio, poiché la fede che vuole esprimere può esserlo soltanto col contatto con questa parola; essere più azione di Cristo che dell'uomo, poiché l'efficacia santificatrice del rito non ha nulla a vedere con meccanismi di tipo magico. Però, deve essere anche in armonia con la condotta morale, poiché l'essenziale è la disposizione del cuore; altrimenti, si corre il rischio di cadere nel ritualismo.

I riti cristiani, pur conservando lungo la storia un'identità fondamentale, hanno tuttavia subìto molte varianti. Occorre distinguere tra il rito in sé ed il senso profondo che gli si attribuisce. Ci può essere una triplice fedeltà: fedeltà al rito e nello stesso tempo al suo senso; fedeltà al senso indipendentemente dal rito; fedeltà al rito senza tener presente il senso.

C'è fedeltà al rito e nello stesso tempo al senso in quei riti che furono certamente istituiti da Cristo : si tratta, praticamente, del battesimo e dell'eucaristia. C'è fedeltà al senso indipendentemente dal rito in molte istituzioni rituali che sono state stabilite dalla Chiesa secondo una tradizione che risale agli Apostoli. Infine, c'è fedeltà al rito senza tener presente il senso in una serie di riti minori che, introdotti in un tempo determinato con un significato preciso, hanno perduto più tardi il loro significato pur continuando ad essere praticati: questi hanno bisogno, periodicamente, di una profonda revisione.

Le cause principali dei cambiamenti rituali sono: l'ambiente culturale in cui si svolge la liturgia; la peculiare tradizione religiosa di ciascuno dei popoli che abbracciano il cristianesimo; la mentalità delle diverse epoche (per esempio, una mentalità più portata all'allegoria ha la tendenza ad ampliare e a complicare i riti; invece, una mentalità più razionalista li riduce e li semplifica); il differente accento posto su un dato punto degli aspetti dottrinali della fede (per esempio, l'introduzione del rito dell'elevazione dell'Ostia, e, più tardi, tutto il complesso rituale elaborato attorno alla devozione eucaristica, furono dovuti all'importanza dottrinale data alla presenza reale di Cristo nell'Eucaristia). Si può affermare che il principio conduttore dei cambiamenti è stato la necessità di adattamento per le comunità concrete, sia che con questo il senso dei riti liturgici sia migliorato, sia che abbia subìto un peggioramento.

Il Concilio Vaticano II ha dato queste norme: " I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni " (SC 34).

Bibl. - Aa.Vv., Liturgia soglia dell'esperienza di Dio?, Ed. Messaggero, Padova, 1982. Aldazábal J., Simboli e gesti. Significato antropologico, biblico e liturgico, Ed. Elle Di, Ci, Leumann (Torino), 1988. Bouyer L., Il rito e l'uomo, Ed. Morcelliana, Brescia, 1964. Dalmais I.H., Iniziazione alla liturgia, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1964 Firth R., I simboli e le mode, Ed. Laterza, Bari, 1977. Maggiani S., " RitoRiti ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 1223-1232. Reik Th., Il rito religioso, Ed. Boringhieri, Torino, 1969.

J. Llopis

Rivelazione. (inizio)

Nell'AT, il rapporto conoscitivo tra pio e gli uomini non è mai presentato attraverso il raziocinio o la filosofia, poiché è sempre attribuita a Dio l'iniziativa in questi rapporti' Per questo, si parla sempre di Dio che si rivela agli uomini. Questa rivelazione divina si realizza in molte maniere.

Dio può apparire personalmente: chiude la porta dell'arca di Noè (Gen 7,16), visita Abramo e Lot e compie alla loro presenza le azioni normali di un essere umano (Gen 18-19). Lotta con Giacobbe (Gen 32,22 ss). Si presenta a Mosè e cerca di farlo morire (Es 4,24). Dio stesso sconfigge l'esercito egiziano (Gen c. 14).

Però, più comunemente, Dio si manifesta con la parola. La parola riveste la forma di legge, di oracolo profetico o di massima di sapienza.

Forse, però, il segno caratteristico della religione d'Israele è la rivelazione di Dio nella storia. Certi eventi più importanti diedero a coloro che ne furono testimoni l'occasione per cogliere sul vivo l'azione di Dio. Alcuni prodigi, come quello dell'esodo, quello della fuga degli eserciti assiri di fronte a Gerusalemme nell'anno 701 furono segni dell'intervento diretto di Dio. Però, l'intervento di Dio nella storia non si limita ad alcuni prodigi spettacolari. L'azione di Dio nella storia si esercita in modo continuo e consiste nel dirigere gli avvenimenti secondo un piano prestabilito in vista di un obiettivo determinato: instaurare su questa terra il Regno di Dio. Dio porta avanti questo suo piano secondo la sua sapienza, in cui si appianano anche le cose contrarie (cf la parabola dell'agricoltore: Is 28,23 ss) ed in cui edificare e distruggere, giudicare e salvare sono le vie normali per stabilire il suo Regno.

Altri eventi insistono parimenti sul piano di Dio. La grande opera storica dell'autore jahvista presenta la storia dell'umanità e quella del popolo eletto fino al suo ingresso in Palestina come l'azione di Dio verso quelli che per la loro disobbedienza incorrono nel castigo, ma per la grazia di Dio ricevono la salvezza. Il libro più recente dell'AT, il libro di Daniele, offre nella visione della statua un riassunto impressionante della storia universale che culmina nel Regno di Dio (Dn 2,26 ss).

Però, la storia diviene rivelazione per mezzo della parola: Dio fa conoscere il piano segreto della sua azione ai profeti, suoi servi (Am 3,7). La successione, quasi ininterrotta, dei profeti costituisce la garanzia della presenza permanente della parola. La redazione deuteronomista della storia d'Israele si propone di dimostrare che la storia è l'adempimento delle profezie. La parola, infatti, non ha solo il compito di interpretare gli eventi, ma anche li crea.

Tuttavia nell'AT la rivelazione non è mai vincolata in una forma particolare alla parola scritta. Però, molto presto il rispetto alla parola di Dio è espresso mettendola per scritto. La riforma del re Giosia nel 621 segna il punto di partenza del concetto di Sacra Scrittura (Dt 30,11-14) e gli scritti post-esilici si riferiscono spesso alle opere più antiche le quali erano, ai loro occhi, considerate come dotate di valore normativo. Però, nonostante ciò, l'argomento scritturistico ( "è scritto "), che implica il carattere fisso ed intangibile della lettera, non fu usato nell'AT.

Nel NT, la rivelazione è l'evento col quale Dio si fa conoscere agli uomini. Questo evento è la venuta di Gesù Cristo in questo mondo.

È soprattutto san paolo che sviluppa pienamente il concetto e il valore della rivelazione, soprattutto nei primi tre capitoli della Lettera ai Romani. Per san Paolo, come del resto per tutta la Bibbia, " tutto è grazia ", ossia, i rapporti che l'uomo, fin dal suo apparire su questa terra, ha avuto con Dio, erano avvolti nell'atmosfera della grazia, del dono di Dio. I teologi hanno espresso, in una formula drastica, questa dottrina biblica e l'hanno condensata in questa tesi: " Non esiste lo stato di natura pura; è una pura ipotesi ". Tuttavia, san Paolo fa una classica distinzione tra la manifestazione divina al mondo pagano e quella al popolo ebreo. Fa uso per questo di una duplice terminologia coerente: manifestazione (phanèrosis) e rivelazione (apokálypsis). La prima è per così dire di primo grado. Comunque, l'iniziativa è sempre di Dio. Per questo, gli è bastato interpellare gli uomini nel vasto ambito del creato: " Le sue (di Dio) perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalle creature del mondo attraverso le opere da lui compiute " (Rm 1,20).

Ora, questa presenza di Dio nel mondo puramente umano non è intesa da Paolo come una pura relazione filosofica o conoscitiva da soggetto a oggetto, ma come un atto di un Dio personale che interpella l'uomo: " Poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro (ai pagani) manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro " (Rm 1,19). È sempre il Dio vivo di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; non è il Dio-idea, puro oggetto di una riflessione filosofica. Come vediamo, l'uomo pagano non ha avuto un Sinai né il messaggio specifico dei profeti.

Bibl. - Barth K., L'Epistola ai Romani, Ed. Feltrinelli, Milano, 1962. Fisichella R., La Rivelazione: evento e credibilità, Ed. dehoniane, Bologna, 1985. Latourelle R., Teologia della Rivelazione, Ed. Cittadella, Assisi, 1967. O'Collins G., Il ricupero della teologia fondamentale. I tre stili della teologia contemporanea, Ed. Vaticana, 1996. Pannenberg W. e altri, Rivelazione come storia, Ed. dehoniane, Bologna, 1969. Ruggieri G., " Rivelazione ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1332-1352. Ruiz Arenas O., Teologia della Rivelazione. Gesù epifania dell'amore del Padre, Ed. Piemme, Casale M., 1989.

J.M. González Ruiz

Rivoluzione. (inizio)

La rivoluzione è un tipo speciale di cambiamento sociale caratterizzato dalla trasformazione profonda delle istituzioni sociali, politiche ed economiche di una società. Questa trasformazione avviene in modo brusca per opera di chi fino allora era privo di potere. La rivoluzione si distingue facilmente da altri fenomeni simili: dal golpe di stato: la rivoluzione non si accontenta della sostituzione dei governanti, ma procede anche a cambiamenti profondi di tipo strutturale. Si distingue dalle riforme: queste sono fatte dai governanti che modificano solo alcuni aspetti secondari. Si distingue dalle rivolte: queste costituiscono un fenomeno viscerale che di solito manca di un programma e di una ideologia elaborata.

Perché avvenga una rivoluzione, è necessario che esista una grave frustrazione sociale che il sistema stabilito non è in grado di correggere. Però, deve avere anche alcuni elementi catalizzatori, come, per esempio, un'avanguardia rivoluzionaria bene organizzata che si dimostri attiva, tanto nella produzione ideologica quanto nella propaganda. Generalmente, è necessario ricorrere alla violenza perché i governanti non sono soliti rinunciare spontaneamente al potere, e d'altra parte non riescono a portare a termine i cambiamenti strutturali a causa delle resistenze dei collettivi che si sentono danneggiati da questi cambiamenti. Inoltre, quasi tutte le rivoluzioni vincenti devono poi affrontare il fenomeno contro-rivoluzionario che, approfittando delle inevitabili tensioni che sorgono dopo i cambiamenti rapidi, cerca di ristabilire il regime precedente (restaurazione), o almeno un miscuglio dell'antico e del nuovo.

Bibl. - Abbagnano N., Dizionario di filosofia, UTET, Torino, , p. 758. CR.E., " Rivoluzione ", in: Enciclopedia Italiana, XXIX, Treccani, 1936, pp. 498-499. MESSINEO A., " Rivoluzione ", in: Enciclopedia Cattolica, X, Città del Vaticano, 1953, Coll. 1031-1035. Moschetti A.M., " Rivoluzione ", in: Enciclopedia Filosofica, V, Ed. Sansoni, Firenze, , coll. 827-829.

L. González-Carvajal

Rosario. (inizio)

Il rosario è un esercizio di pietà popolare, che ha avuto origine nel secolo XII ed è stato diffuso dai Cistercensi. Esso consiste nella recita di 150 Ave, Maria, corrispondenti ai 150 Salmi. Per questo; è chiamato anche il " salterio di Maria ". Nel secolo XIII, San Domenico di Guzman ristrutturò la preghiera del rosario, aggiungendovi la contemplazione dei misteri o episodi della vita di Cristo e di Maria. Attualmente, il rosario consta di tre parti, ognuna delle quali comprende cinque decine di Ave, Maria. Esse iniziano con un Padre nostro e si concludono con un Gloria al Padre... La prima parte è dedicata ai misteri gaudiosi (annunciazione, visitazione, nascita di Gesù, presentazione al Tempio, ritrovamento di Gesù nel Tempio). La seconda contempla i misteri dolorosi (la preghiera di Gesù nell'orto, la flagellazione, la coronazione di spine, il viaggio al calvario, la crocifissione e morte di Gesù). Infine, la terza parte concerne i misteri gloriosi (la risurrezione di Gesù, la sua ascensione, la Pentecoste, l'Assunzione di Maria, la sua incoronazione in cielo). Alle volte, si aggiungono le litanie di Maria e alcune preghiere complementarie. Per contare con facilità le Ave, Maria, si usa una corona di grani che si chiama appunto la " corona del rosario ".

Dopo essere stato enormemente popolare, il rosario sta passando ora una certa crisi. Però, il magistero della Chiesa non cessa di raccomandarlo. L'eccellenza di questa pratica proviene, in gran parte, dalla sua somiglianza con la preghiera liturgica. È una preghiera essenzialmente comunitaria, sia nel contenuto delle formule che nel modo di recita che richiede la risposta alternata di due cori. È una preghiera che si ispira alla Sacra Scrittura: l'enunciato dei misteri, il Padre nostro e la prima parte dell'Ave, Maria vengono direttamente dalla Bibbia. La seconda parte dell'Ave, Maria e le litanie sono composizioni popolari che stanno sulla linea dei testi biblici. Infine, è una preghiera che collega la vita del cristiano coi " misteri " di Cristo. Questi, infatti, non si presentano come verità astratte ed incomprensibili, ma come eventi della vita di Cristo, pieni di contenuto salvifico.

Bibl. - Balthasar H.U. von, Il rosario, la salvezza del mondo nella preghiera mariana, Ed. Jaca Book, 1978. Borzi A., Il segreto di una corona. Maria e il rosario nella vita dei santi, Ed. Immacolata, Borgonova (Bologna), 1976. Guardini R., Il rosario della Madonna, Ed. Morcelliana, Brescia, . Paolo VI, Esortazione apostolica " Marialis Cultus ", 2.2.1974, nn. 42-55. Staid E.D., " Rosario ", in: Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1985, pp. 1207-1215.

J. Llopis

Ruolo. (inizio)

Il ruolo o compito sociale, è il comportamento che ci si attende da parte di una persona che occupa una determinata posizione. Esso comprende gli atteggiamenti, la valutazione e i comportamenti che la società attribuisce ad ogni persona che abbia una situazione speciale. Pertanto, ci sono, nel ruolo, due aspetti importanti: le attese dei membri del gruppo e il comportamento della persona a cui si affida un posto particolare. D'altra parte, il ruolo è anche un metodo per identificarsi con un modello e per nascondere la propria personalità.

La posizione occupata da un individuo in un sistema costituisce il suo statuto. Il ruolo è quel complesso di comportamenti ritenuti normali per chi ha questa situazione.

I ruoli possono differenziarsi a seconda delle loro funzioni nel mondo sociale. Da questo punto di vista, ai possono determinare certe categorie di ruoli: familiari ed etnici, rituali o religiosi, politici, economici e ricreativi. Mentre nelle società primitive, non c'era una grande differenziazione di ruoli, nelle società contemporanea, essi sono in continuo aumento.

Alcuni dei criteri più importanti per l'assegnazione dei ruoli sono: il sesso, l'età, la parentela, la residenza comune.

Possiamo dividere i ruoli in: fondamentali, generali e indipendenti. Le distinzioni di sesso e di età si identificano coi ruoli fondamentali che sono attribuiti alla nascita della gente, si applicano a tutti i membri del gruppo e sono esclusivi in quanto uno appartiene ad una categoria o all'altra: uomo o donna, fanciullo o adulto.

I ruoli generali sono più differenziati dei ruoli fondamentali e hanno implicanze che si estendono ad altri ruoli: sacerdote, medico, poliziotto. Ognuno di questi ruoli ha un significato più ampio della maggioranza dei ruoli occupazionali. I ruoli generali sono spesso associati con attività importanti nell'ordine morale della società, come il campo politico o religioso.

I ruoli indipendenti hanno scarse implicanze per altri ruoli. La maggior parte dei ruoli ricreativi ed alcuni occupazionali sono esempi di questa categoria.

La scelta e l'integrazione dei molteplici ruoli che l'uomo deve disimpegnare nella società contemporanea sono ampiamente determinati dalla struttura della sua personalità. D'altra parte, i ruoli assunti segnano anche la personalità di un individuo. Essa viene modellata dal ruolo occupazionale che uno compie, dando luogo alla deformazione professionale quando non si adatta alle esigenze del suo ruolo occupazionale. A sua volta, il ruolo professionale viene modellato dalla personalità dell'individuo.

La discrepanza tra la struttura della personalità e i ruoli assunti porta a conflitti. Anche il fatto che ogni individuo disimpegni molteplici ruoli, che sono intimamente mescolati, lascia la porta aperta a vari conflitti tra di loro. I conflitti di ruoli non sono rari nella vita quotidiana. Si possono trovare anche nei gruppi di lavoro o di discussione. Avvengono quando un individuo partecipa a diversi gruppi e i compiti sociali sono incompatibili.

La forma con cui un individuo risolve i conflitti di ruoli dipende dalla relativa importanza che egli attribuisce alla legittimità delle esigenze dei suoi pari e dalle sanzioni sociali che possono essere imposte a chi non si adatta a queste esigenze.

Imparare ad assumere i ruoli necessari e ad avere la duttilità necessaria per cambiare di ruolo e così far fronte alle esigenze di una nuova situazione è sinonimo di adattamento della personalità sociale. Da questo punto di vista sociologico, la nostra personalità sociale è il complesso di ruoli che siamo capaci di disimpegnare, come anche l'atteggiamento da assumere di fronte al ruolo adeguato ad ogni situazione.

Bibl. - Allport G.W., Psicologia della personalità, PAS-Verlag, Zurigo, 1969. Ferrarotti F., Manuale di sociologia, Ed. Laterza, Bari, 1986. Fichter J.H., Sociologia, strutture e funzioni sociali, Onarmo, Roma, 1969. Orlando V., " Ruolo ", in: Dizionario di Scienze dell'Educazione, Elle Di Ci-LAS-SEI, Torino-Roma 1997, pp. 956-957. Parsons T., Il sistema sociale, Ed. Il Mulino, Bologna, 1965.

F.J. Calvo

Sacramenti. (inizio)

La teologia d'oggi ha ricuperato il senso largo della parola sacramento, intesa come qualsiasi manifestazione sensibile del mistero della salvezza. Così, il sacramento originale è l'umanità di Cristo, poiché costituisce la rivelazione definitiva del Padre e del suo disegno salvifico. Per derivazione da questa umanità di Cristo, è sacramento anche tutto ciò che è in contatto con essa. In primo luogo, tutti gli uomini, di cui Cristo è il capo. In secondo luogo, tutti quegli uomini e donne che, in modo esplicito, aderiscono al vangelo mediante la fede e la conversione. Per questo, dopo il sacramento originale che è Cristo, esiste il sacramento primordiale, che è la comunità dei credenti in Cristo, ossia, la Chiesa. Questa Chiesa possiede un ricco complesso di seghi mediante i quali compie la sua missione. Sono anch'essi sacramenti. Tra questi, occorre distinguere i segni evangelizzatori (le opere sensibili che accompagnano la predicazione del vangelo: miracoli, martirio, testimonianza della carità) e i segni liturgici. Questi sono le azioni simboliche e rituali, mediante cui la comunità dei credenti esprime la sua fede ed il suo amore a Cristo, ed esercita il culto.

Tra i vari segni liturgici della Chiesa, alcuni sono chiamati per antonomasia sacramenti, perché costituiscono l'espressione massima della visibilità della grazia e della salvezza ed il punto culminante della vita della Chiesa. Però, questi sacramenti hanno senso ed efficacia solo quando sono armonicamente collegati con le altre maniere sacramentali della presenza di Dio attraverso; Cristo mediante la forza dello Spirito Santo, e sono orientati in ultima analisi alla carità. Una buona descrizione della finalità dei sacramenti è data dalla Costituzione Liturgica del Concilio Vaticano II: " I Sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del Corpo di Cristo, e, infine, a rendere culto a Dio; in quanto segni, hanno poi anche la funzione di istruire. Non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati "Sacramenti della fede". Conferiscono la grazia, ma la loro stessa celebrazione dispone molto bene i fedeli a riceverla con frutto, ad onorare Dio in modo debito e ad esercitare la carità " (SC 59).

Conviene ricordare che il mistero o sacramento di salvezza è uno solo: Gesù risorto dai morti il cui Spirito è dato ad un gruppo di convocati e credenti che diventano la Chiesa. Se Cristo è il sacramento del Padre grazie all'unzione dello Spirito, la Chiesa continua la sacramentalità di Cristo perché ha ricevuto il dono dello stesso Spirito di Gesù. Ora, la Chiesa significa ed attesta il dono dello Spirito per mezzo li alcune azioni e forme proprie, tra cui la più importante è la riunione ecclesiale in cui si fa memoria della Cena del Signore, o Eucaristia. Come importanza, segue l'azione con cui vengono incorporati nuovi membri nella comunità di testimoni che hanno creduto per la parola del vangelo. Quest'azione si chiama: il battesimo. Fin dai suoi inizi, la Chiesa ha avuto come azioni o segni sacramentali altre celebrazioni che, lungo la storia, sono state progressivamente riconosciute come sacramenti (l'unzione post-battesimale o confermazione, l'Ordine, la riconciliazione dei penitenti, l'unzione degli infermi, la celebrazione del matrimonio).

Così, radicalmente, tutti i sacramenti provengono dal sacramento originale che è Cristo stesso, perché egli istituì la Chiesa e le diede la spinta iniziale perché facesse sgorgare dal suo interno i vari segni sacramentali. Ci sono alcuni sacramenti di cui consta storicamente che furono istituiti da Gesù Cristo; il battesimo e l'eucaristia. Ce ne sono altri, di cui storicamente consta soltanto che ricevettero da Cristo il loro senso profondo: l'Ordine e la penitenza. Cristo stabilì che ci fosse una trasmissione della missione apostolica, come anche la remissione dei peccati, ma il modo concreto di realizzare ciò è stato determinato dalla Chiesa stessa. Ci sono altri sacramenti (la confermazione, l'unzione degli infermi, il matrimonio) della cui esistenza la Chiesa si è resa consapevole a poco a poco. Cia significa che piuttosto tardi è stato precisato nella Chiesa il numero di sette sacramenti.

I sette sacramenti sono importanti per la vita della Chiesa. In una certa misura, tutti godono della stessa dignità fondamentale. Però, non tutti sono ugualmente necessari per ogni cristiano. Possiamo perfino parlare di certi sacramenti più importanti nella struttura della Chiesa stessa. I sette sacramenti non formano una specie di successione lineare, in cui ognuno sia collocato sullo stesso piano degli altri: la loro situazione assomiglia piuttosto ad una costellazione di tipo circolare, il cui centro è occupato dall'Eucaristia, che è la massima realizzazione della Chiesa ed il polo verso cui convergono tutti gli altri sacramenti.

Tenendo presente questa dimensione centrale dell'eucaristia, possiamo

classificare in questo modo gli altri sacramenti:

1) costitutivi: sono il battesimo ed il suo complemento, la confermazione. Essi costituiscono il cristiano nella sua realtà fondamentale di figlio di Dio e membro del corpo mistico di Cristo;

2) strutturanti: è il sacramento dell'Ordine. I cristiani che lo ricevono rimangono " ordinati " al servizio della comunità, e, nei suoi vari gradi, l'Ordine struttura la comunità come un corpo organizzato e gerarchico;

3) riparatori: sono quei sacramenti che sono destinati a " riparare ", o rifare il vincolo con la comunità, spezzato a causa del peccato e delle sue conseguenze. Il più fondamentale è il sacramento della penitenza, o rientato a rendere visibile sacramentalmente il perdono dei peccati e la riconciliazione del peccatore pentito con la comunità. Per parte sua, l'unzione degli infermi cerca di superare le conseguenze negative del l'infermità grave del cristiano e provvede a fornirgli i mezzi necessari per santificarlo in questa situazione particolare.

4) Santificatore di stato: il matrimonio. È un sacramento molto speciale, poiché tutta la sua realtà come segno dipende dalla realtà umana dell'amore e dalla donazione reciproca degli sposi.

I sacramenti, pertanto, abbracciano molte situazioni vitali dei cristiani. Però, ci sono altri ambiti della vita il cui legame con la salvezza viene espresso coi cosiddetti sacramentali. " Questi sono segni sacri per mezzo dei quali, ad imitazione dei sacramenti, sono significati e, per impetrazione della Chiesa, vengono ottenuti effetti soprattutto spirituali. Per mezzo di essi, gli uomini vengono disposti a ricevere l'effetto principale dei Sacramenti, e vengono santificate le varie circostanze della vita " (SC 60).

Bibl. - Ferraro G., Dottrina della liturgia sui sacramenti della fede, Ed. Dehoniane, Roma, 1990. Rahner K., Saggi sui sacramenti e sull'escatologia, Ed. Paoline, Roma, 1965. Ratzinger J., Il fondamento sacramentale dell'esistenza, Brescia, 1971. Ruffini E., " Sacramenti ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1375- 1397. Schillebeecks E., Cristo sacramento dell'incontro con Dio, Ed. Paoline, Roma, .

J. Llopis

Sacrificio. (inizio)

In tutte le religioni, il sacrificio è il rito più importante. Esso consiste in un'azione simbolica in forza della quale gli uomini riconoscono la sovranità della divinità su tutte le cose. Presso molte religioni, il sacrificio possiede una grande complessità rituale: da una parte, acquistano importanza i riti di distruzione di una vittima come segno di rinuncia; dall'altra, i riti sono interpretati come azioni efficaci affinché il dono passi dalla sfera profana a quella sacra.

La religione di Israele possedeva una grande quantità di sacrifici, mentre il popolo era continuamente minacciato dalla tentazione di dare più importanza al rito sacrificale che non al suo significato profondo. I profeti non condannano il sacrificio in quanto tale, ma le sue deviazioni, poiché senza la disposizione interna del cuore, il sacrificio è un gesto vano ed ipocrita (Am 4,4; Is 1,11-16). Gesù ribadisce il concetto profetico del primato dello spirito sul rito esterno (Mt 5,23 ss; Mc 12,33). Però, presenta una realtà nuova, che è il suo scrificio. Tra i due Testamenti, c'è continuità e rottura: la continuità si manifesta nell'applicare alla morte di Cristo la terminologia sacrificale dell'AT; il superamento sta nella originalità assoluta dell'offerta di Gesù.

Gesù predice la sua passione usando, parola per parola, i temi che caratterizzano il sacrificio espiatorio del Servo di JHWJ (Mc 10,45; Lc 22,37; cf Is 53,10 ss). L'ambiente in cui si svolge la Cena d'addio stabilisce un rapporto voluto tra la morte di Cristo ed il sacrificio dell'agnello pasquale. Infine, Gesù si riferisce a ES 24,8 nell'applicare a sé la formula di Mosè, ''il sangue dell'alleanza " (Mc 14,24). Ciò che dà valore sacrificale alla morte di Cristo è, in ultima analisi, la sua sottomissione amorosa al Padre, come si può vedere in Eb 10,4-10. L'offerta di Gesù ricapitola l'economia dell AT: è ad un tempo olocausto, offerta espiatoria, sacrificio di comunione. Però, al di là della terminologia antica, ha un contenuto totalmente nuovo.

In maniera generale, nel NT sono applicati termini sacrificali a tutta la vita cristiana (cf Rm 12,1; 6,13-19; 7,5). Non solo la croce di Cristo, ma anche tutta l'esistenza del cristiano è presentata come un sacrificio spirituale, in contrapposizione ai sacrifici rituali. In questo senso, i Padri della Chiesa dicono sovente che " noi non abbiamo sacrifici ", mentre nello stesso tempo affermano che la vita del cristiano è un sacrificio che riproduce l'offerta spirituale di Cristo sulla croce.

La spiritualizzazione del senso del sacrificio non deve portare ad un'idea sbagliata, come se nel cristianesimo non ci fosse nessuna specie di sacrificio visibile e liturgico. " Spirituale ", nel vocabolario cristiano, non si oppone a corporale né a visibile. La liturgia cristiana possiede un sacrificio visibile, che è l'Eucaristia, Questa è contemporaneamente espressione sacramentale dell'unico sacrificio di Cristo e del sacrificio spirituale dei fedeli. Conviene sottolineare che, secondo la dottrina del Concilio di Trento (sess. XXII, cap. 1), l'Eucaristia non costituisce un nuovo sacrificio, ma è il " memoriale " sacramentale dell'unico sacrificio di Cristo. " Il Signore nostro Gesù Cristo... nell'ultima Cena, in quella notte del tradimento, per lasciare alla Chiesa sua sposa un sacrificio visibile, come esige la natura dell'uomo, che rappresentasse il cruento sacrificio della croce e ne perpetuasse la memoria sino alla fine del mondo (1 Cor 11,23 ss) e ne applicasse la salutare virtù ai peccati che si commettono quotidianamente, dichiaradosi costituito per sempre sacerdote secondo l'ordine di Melchisedech (Sal 109,4), offrì al Padre il suo corpo e il suo sangue sotto le Specie del pane e del vino, e sotto gli stessi simboli si offrì in cibo agli Apostoli, che costituiva in quel momento sacerdoti del Nuovo Patto, comandando ad essi ed ai loro successori di offrire il sacrificio, come appare da queste parole: "Fate questo in memoria di me" (Lc 22,19; Cor 11,24) " (D. 938).

Bibl. - Neunheuser B., " Sacrificio ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 1285-1303. Quarello E., Il sacrificio di Cristo e della sua Chiesa, Ed. Queriniana, Brescia, 1970. Rahner K. Häussling A., Le molte messe e l'unico sacrificio, Ed. Morcelliana, Brescia, 1971. Ratzinger J., L'Eucaristia è un sacrificio?, in: " Concilium " (1967), pp. 83- 96. Thurian M., L'Eucaristia, memoriale del Signore, sacrificio di azione di grazie e d'intercessione, Ed AVE, Roma, 1967.

J. Llopis

Sacro. (inizio)

Il termine sacro esprime una categoria decisiva per comprendere l'elemento religioso (anche se da solo non basta). Esso è concepito come il polo opposto a profano (pro-fanum: spazio davanti a, fuori dal tempio). Pertanto, il termine rimanda ad una definizione previa del profano.

In un primo approccio, il profano può essere inteso come ciò che è normale, quotidiano, disponibile per l'uomo. Conseguentemente, il sacro:

1) In una accezione larga, manifesta il non-quotidiano, lo straordinario, il non-disponibile per l'uomo. Di fronte ad esso, si prova un senso complesso di fascino (l'uomo si sente attratto) e di timore (l'attrattiva porta con sé un rispetto riverenziale per ciò che si manifesta come " altro ").

In questa accezione larga, il sacro può abbracciare forme di magìa e di stregoneria (sia quella primitiva che quella contemporanea). Può comprendere anche i simboli e i valori della vita civile per i quali è rivendicato un assoluto rispetto pubblico (il sacro civile). Su questo sacro civile, si può costruire ciò che R. Bellah, in un contesto nordamericano, ha chiamato " religione civile ". Esso viene a tradurre, a livelli secolari, la forza coesiva del religioso, rendendo così possibile, in tempi di pluralismo, la convivenza su una base comune, sufficientemente estesa, di simboli e di valori condivisi. Implica una rottura di livello col disponibile.

2) In una accezione stretta, il sacro religioso appare come una manifestazione del " totalmente altro " (il divino, mysterium tremendum et fascinans: R. Otto). Avviene così la " ierofanìa "(Mircea Eliade): il divino si lascia intravedere attraverso le cose. Nella storia delle religioni, si può costatare come quasi qualsiasi oggetto è suscettibile di manifestare questa trasparenza del divino. La ierofanìa costituisce un paradosso: un oggetto si trasforma in un'" altra cosa " senza cessare di essere lo stesso. La questione della distinzione tra il sacro e il profano riguarda, in ultima analisi, due diverse situazioni esistenziali; vengono dati, a seconda del modo di situarsi di fronte al mondo, due tipi di esperienza del mondo stesso: l'esperienza dell' "homo religiosus " e quella dell'uomo radicalmente profano.

Con l'industrializzazione e la modernizzazione della società, si sono prodotti processi simultanei di de-sacralizzazione nella concezione del mondo: ciò fu dovuto alla diffusione di un determinato tipo di razionalità (razionalità strumentale), come fece notare Max Weber. Si pone così la questione se l'esperienza dell'uomo nella società contemporanea sia una esperienza necessariamente profana, almeno nelle sue forme culturali predominanti. il sacro religioso sarebbe destinato a scomparire praticamente, o rimarrebbe relegato nella sfera della vita privata, senza nessuna influenza sulla vita pubblica; oppure verrebbe sostituito da forme di " religione civile ". Così, con sfumature diverse, è stato affermato fino agli anni '70 dalle varie tesi sociologiche circa la secolarizzazione delle società moderne. Queste tesi, però, sono ambigue: da una parte, riguardo alla loro interpretazione sul processo (secolarizzazione come tramonto e scomparsa del religioso, o come privatizzazione, o come sostituzione con altri fattori sociali che adempirebbero le funzioni del religioso, ecc.); d'altra parte, riguardo alla validità delle loro generalizzazioni nel tempo e nello spazio (siamo troppo immersi nel processo per poter ottenere una prospettiva storica). Così, la sorprendente moltiplicazione di sètte nelle società industriali contemporanee ha permesso di parlare (un po' affrettatamente) di un " ritorno del sacro ", non solo del sacro religioso, ma anche del sacro magico.

Ciò che sembra potersi dedurre da tutto questo è:

a) una smentita empirica alle forme più radicali delle tesi sulla secolarizzazione (per esempio, la scomparsa del sacro);

b) una certa logica del cambiamento sociale, che concerne anche le manifestazioni del sacro. Questo subisce spostamenti in seno alla società che all'inizio sono percepiti come eclissi delle sue forme più istituzionalizzate. Così, nelle chiese cristiane (partendo dalle quali si elabora il modello sociologico), certi aspetti tradizionali del sacro  tempo, spazi, riti, oggetti  vengono sottoposti ad un'azione razionalizzante che ri-organizza i contesti sociali e che, in buona parte, reprime aspetti emozionali della vita collettiva. Il " ritorno del sacro " potrebbe pertanto essere inteso come un " ritorno del represso ";

c) lo spostamento cristiano del sacro sembra tendere a concentrarsi sulla persona umana e sulla difesa dei suoi diritti. Con questo, verrebbe ad appoggiare certe forme eticamente più apprezzate del Diritto Internazionale e ad alimentare nuovamente l'utopia di una " società più giusta ". Tuttavia, la vicinanza storica e le contraddizioni inerenti ad ogni processo sociologico permettono di vedere in questa tendenza solo una ipotesi. In qualsiasi caso, se la persona umana non deve essere strumentalizzata, e se la difesa dei suoi diritti va vista come un fine in sé e non un mezzo per qualcosa, è evidente che essa va inclusa nella sfera del sacro, del non- disponibile per l'uomo. Viene così recuperato l'elemento del sacro, non come un residuo storico di altri tempi, ma come un fattore essenziale in un progetto utopico concreto di liberazione umana.

Alla critica politica della religione, caratteristica del secolo XIX, succede, pertanto, una critica religiosa della politica, come processo culturale. Si possono già cogliere vari indizi sociali di questo processo: la teologia della liberazione non è altro che una delle sue formulazioni più note e più conflittuali, anche all'interno della Chiesa cattolica.

Il progetto emancipatorio dell' "Illuminismo insoddisfatto " viene ad essere, in certi aspetti sostanziali, appoggiato religiosamente da questo spostamento del sacro, questo, nel realizzare questa tendenza alla personalizzazione e all'umanizzazione del sacro religioso, colloca questa forma di vivere il fattore religioso (e non altre forme possibili) nel nucleo stesso dei rapporti conflittuali economici, politici e internazionali con cui viene configurato il mondo d'oggi. Il sacro non si trova quindi ai margini delle società contemporanee, come pensavano le teorie sociologiche della secolarizzazione.

Bibl. - Aa.Vv., Il sacro e la cultura. Orientamenti per vivere il sacro nella contemporaneità, Il Cerchio, Rimini, 1985. Eliade M., Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino, 1973. Otto R., Il sacro, Milano, . Ries J., Il sacro nella storia religiosa dell'umanità, Ed. Jaca Book, Milano, 1982. Stockmeier P., " SantoSacro ", in: Enciclopedia Teologica, Ed. Queriniana, Brescia, 1989, pp. 932-937. Vergote A., Psicologia religiosa, Ed. Borla, Torino, 1967.

J. Martínez Cortés

Salmi. (inizio)

Si dà il nome di salterio ai 150 (151,, secondo la versione dei LXX), inni e cantici in cui il popolo aletto esprime la sua religiosità e la sua bramosìa di rendere il culto a JHWJ. Nel classificare tutto questo materiale lirico, la critica è solita distinguere cinque grandi gruppi: 1) Sal 1-41; 2) Sal 42-72; 3) Sal 73-89; 4) Sal 90-106; 5) Sal 107-150.

Anticamente, Davide era ritenuto l'autore del salterio. Tuttavia, la critica ha dimostrato che quest'opera è frutto di vari secoli, tanto che alcuni salmi sono addirittura dell'epoca post-esilica. Quello che è certo è che dietro ad ogni salmo, c'è l'anima di un poeta. Questi autori sono nella maggioranza anonimi e trasmettono con le loro vicende la fede della comunità. Solo nel tardo giudaismo, si giunse ad una raccolta definitiva dei salmi. Alcuni di essi sono attribuiti ad un determinato autore, anche se si tratta spesso di un ricorso letterario e non di un dato storico. Tra gli autori, sono elencati: Davide, Asaf, i figli di Core, Heman, Etan, Mosè e Salomone.

Più importante che indagare sul problema dei presunti autori, è indubbiamente quello di chiarirne il messaggio religioso. Per questo, è necessario ricordare che il salterio fu composto nel giro di vari secoli. Quindi, non in tutti i salmi è identico l'afflato religioso. Questo era mediato dalla situazione socio-politica o religiosa che il popolo stava attraversando al tempo in cui avveniva la redazione. Così, in molti salmi, si sottolinea il carattere regale di JHWH per presentarlo superiore a qualsiasi altra divinità; altri cercato di rafforzare la liturgia cultica centrata attorno al Tempio di Gerusalemme; non mancano neanche quelli che infondono timore e tremore, come anche quelli che traboccano di ottimismo e di entusiasmo. Questo è logico, poiché in tutta questa letteratura lirica si esprime tutta l'esperienza religiosa di un popolo, di cui si cerca di sfumare le crisi e i dispiaceri adottando posizioni più concordi con l'impegno dell'alleanza. La religiosità dei salmi invita normalmente a ravvivare la speranza, poiché la sua prospettiva escatologica instaurazione del regno messianico, in cui si metterà fine all'impero del male per vivere nell'armonia la felicità che sgorgherà dalla pace e dall'amore.

I critici sono molto discordi nello stabilire le categorie dei salmi. Ciò è comprensibile, data la loro complessità. Si tratta di un insieme di preghiere, cantici, inni e poemi da cui traspare l'angoscia, la gioia, il timore, l'illusione, l'entusiasmo, la rassegnazione e la speranza. Esistono comunque certi parametri che sono accettati senza difficoltà. Ci ispiriamo ad essi per presentare le varie categorie di salmi:

1. Salmi di lode: inni. Sono composizioni di stampo liturgico in cui appare la spontaneità di chi esprime la sua riconoscenza a JHWH per i favori ricevuti. Anche quando non è facile determinato le unità concrete che presentano questa forma ionica, si è soliti elencare i seguenti: 8, 19, 29, 33, 100, 103, 104, 105, 111, 113, 114, 117, 135, 136, 146, 147, 149, 150. Molto affine alla struttura ionica, si presenta un altro complesso di poemi conosciuti come Salmi del Regno di Dio. Sono i seguenti: 47, 93, 96, 97, 98. Così pure un altro piccolo gruppo costituisce i cosiddetti Canti di Sion, dove si esaltano i pregi della Città Santa, dimora indiscussa della divinità: 46, 48, 76, 84, 87, 122, 137.

2. Salmi di suppliche. Esprimono le sofferenze e i lamenti di coloro che cercano nella religione jahvista sollievo ai propri dolori. La supplica, più che proclamare le grandezze di JHWH, si rivolge a Lui per chiedere il suo aiuto in alcune situazioni di disagio. In tutti questi salmi, domina una nota di fiducia, poiché il credente sa di essere sostenuto dalla bontà di JHWH la cui misericordia supera perfino la sua giustizia. Alcune di queste suppliche sono collettive, mentre altre sono individuali. Tra le prime, c'è da ricordare i Salmi: 12, 44, 58, 60, 74, 77, 79, 80, 82, 83, 90, 94, 106, 108, 123, 126. Le supplice individuali sono molto numerose ed il loro contenuto è molto vario: c'è il malato che chiede la protezione divina dinanzi al pericolo della morte; c'è chi invoca aiuto di fronte alla persecuzione, all'esilio, alla solitudine, al dolore, alla calunnia, al peccato. I salmi di suppliche individuali sono: 5, 6, 7, 9, 10, 13, 17, 22, 25, 26, 28, 31, 35, 36, 38, 39, 42, 43, 51, 54, 55, 56, 57, 59, 61, 63, 64, 69, 70, 71, 86, 88, 102, 109, 120, 130, 140, 141, 142, 143.

3. Salmi regali. Non hanno una struttura uniforme nel trattare delle situazioni pittoresche, pur conservando qualche nesso con la vita reale. Hanno come comune denominatore quello di gravitare attorno alla figura del re che all'inizio esercitava funzioni sacre, come era richiesto dallo spirito teocratico del popolo eletto. Per parte sua, il concetto di " personalità corporativa ", così frequente tra gli antichi popoli orientali, faceva del monarca il rappresentante qualificato del popolo, in modo tale che ogni suddito era senz'altro solidale con lui in tutte le sue decisioni o vicende. I Salmi di regalità sono: 2, 18, 20, 21, 45, 72, 110, 132, 144.

4. Salmi cultuali. Erano in relazione col santuario in cui l'arca simboleggiava la presenza di JHWH tra il suo popolo. Non per nulla, fin dall'antichità, gli israeliti si radunavano attorno al santuario e poi al tempio, per festeggiare la divinità col fine di ottenere perdono e aiuto. Alcuni di questi salmi erano in relazione con la liturgia professionale che era solita accompagnare le grandi solennità. In quelle circostanze, questi salmi erano cantati in forma dialogata tra il sacerdote o il levita da una parte, ed il popolo dall'altra. Sono salmi cultuali i seguenti: 15, 24, 46, 68, 81, 84, 87, 95, 100, 118, 121, 136. Quasi tutti vedono nel santuario (tempio) la figura della liberazione escatologica che JHWH realizzerà nel suo regno messianico. Allora, i giusti saranno finalmente liberi da quanto li impedisce di godere in pienezza.

5. Salmi sapienziali. Hanno un tono di riflessione come suggerisce la sana filosofia religiosa a chi desidera avere soluzioni pratiche. Evitano di solito le allegorie e le metafore astratte per tracciare piuttosto criteri concreti di comportamento. Il loro stampo sapienziale è molto affine a quello del maestro desideroso di arricchire i suoi discepoli con i suoi insegnamenti, avvisi, consigli e moniti. Abbondano le domande e risposte di carattere retorico, adattate ad uno schema stereotipo che si ripete con una certa frequenza. Sono molti i salmi che si adattano a questo modulo, ma la critica cerca di inserirne vari in un'altra delle categorie, riservando questa a quei salmi che mostrano una chiara dinamica sapienziale. Sono i seguenti: 1, 14, 15, 19, 32, 34, 39, 47, 49, 50, 52, 73, 92, 94, 101, 105, 106, 110, 112, 113, 119, 127, 133, 135, 136, 138.

Anche quando il contenuto religioso ed il timbro morale di alcuni salmi (odio per il nemico, rancore, ira, vendetta...) possono provocare una certa meraviglia nel credente di oggi, non si deve mai dimenticare che sono il prodotto di un'altra epoca. Il popolo eletto era in una fase di evoluzione religiosa, dove non era ancora spuntato il messaggio sublime di Gesù in cui predomina l'amore. Tuttavia, la letteratura salmica ebbe la forza per nutrire la pietà di un popolo peregrinante che aspirava alla pienezza dei tempi. Questi tempi sono cominciati con la venuta di Gesù e la comunità cristiana deve leggere oggi i salmi alla luce del suo messaggio. Cosi facendo, vedrà come cambia completamente la prospettiva di questi scritti religiosi.

Bibl. - Cremaschi L., " Salmi ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 613-614. Deissler A., I Salmi, Ed. Città Nuova, Roma, 1986. Lancellotti A., Salmi, Ed. Paoline, 1984. Masini M., I Salmi, preghiera di un popolo in cammino, Ed. Queriniana, Brescia, 1982. Mortari L., Il salterio della Tradizione, Ed. Gribaudi, Torino, 1983. Ravasi G., " Salmi ", in: Nuovo Dizionario di Teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1399-1412. Rinaudo S., I Salmi. Preghiera di Cristo e della Chiesa, Elle Di Ci, Leumann (Torino), .

A. Salas

Salvezza. (inizio)

Nell'AT, il verbo più frequentemente usato per salvare è yacha. Nel senso primitivo, questa radice contiene un'idea di spazio e di ampiezza: stare a suo agio, essere comodo. Dal senso primitivo, si è passati ad un senso divenuto più comune che si riferisce a una liberazione di qualsiasi genere: da un'infermità, da un pericolo, da una guerra, dalla morte, dalla schiavitù ecc. La parola assume allora, a seconda delle circostanze, un significato particolare: guarire, essere felice, riportare una vittoria, vivere, essere riscattato da una schiavitù. Poi, può passare su un piano più generale e riferirsi alla salvezza del singolo o del popolo, nel grande giudizio finale di Dio alla fine dei tempi. Qui, è già connesso con le concezioni escatologiche e messianiche.

Nel NT, il verbo salvare (in greco: sòzein) appare tre volte in cui appare che il NT non è tanto preoccupato dell'idea di salvezza in quanto tale, ma piuttosto di una salvezza storica realizzata in Gesù Cristo e che un giorno sarà manifestata.

Però, il NT usa primariamente questo termine in un senso più semplice, già comune nel greco classico. Salvare (sòzein) deriva da saòo (contratto: sòo) che significa: salvare qualcuno che è minacciato da un pericolo, liberare dalla morte uno che sta per morire. In tutti questi testi, Gesù appare spesso come l'autore di questa salvezza o guarigione immediata e concreta. Egli salva i discepoli dalla tempesta, Pietro dal pericolo di affogare. Parallelamente, non salva se stesso dal supplizio delia croce. Il NT non distingue tra una salvezza spirituale, dell'anima, ed una salvezza ritenuta meno decisiva, del corpo. Nella bibbia, si guarda alla persona tutta intera e si ritiene che un uomo infermo o travolto dalle onde e totalmente minacciato. Non si esita perciò a chiamare Gesù in aiuto (in molti passi del NT, salvare significa semplicemente aiutare.

D'altra parte, se Gesù e venuto per aiutare l'uomo, minacciato da ogni sorta di pericoli immediati, questo aiuto assume, nel NT, un carattere particolare: annuncia e realizza gia, in un determinato settore della vita, la salvezza definitiva ed universale attesa; attesta che i tempi della salvezza escatologica sono giunti e che Dio viene ora a soccorrere l'umanita come non aveva fatto fino allora. A questo riguardo, si trova spesso nei vangeli un'espressione caratteristica per la sua ambivalenza: " La tua fede ti ha salvata " (Mc 5,34). I1 contesto dimostra qui che la salvezza è, in primo luogo, la guargione fisica della donna a cui si rivolge Gesù. Perciò si potrebbe anche tradurre: " la tua fede ti ha guarita ". Però, d'altra parte, la stessa espressione si trova in racconti che non sono di guarigione (Lc 7,50, dove la salvezza è esplicitamente il perdono dei peccati; cf anche Lc 17,19, dove si vede che la salvezza non si riduce alla sola guargione fisica).

Da tutto cio, si deduce che la salvezza nel NT e vista come una liberazione e non come un accesso ad una vita più alta o più spirituale. Non c'è una evoluzione o spiritualizzazione dalla situazione dell'uomo perduto o schiavo a quella dell'uomo salvato: c'è una rottura, una morte attraverso cui avviene la salvezza. Questa rivoluzione nella condizione dell'uomo è descritta spesso con verbi al passivo; l'uomo e salvato (sottinteso: da Dio). Ma da che cosa è salvato l'uomo? Principalmente dai peccati e dalla morte. Non solo, ma questi due tipi di salvezza sono intimamente legati. San Paolo in Rm 5 afferma che la morte è frutto del peccato. Perciò, per superare la morte, bisogna superare il peccato. Entrambe le operazioni sono esclusive di Dio. La risurrezione, intesa nel suo pieno significato, è la grande vittoria sul peccato.

Traducendo questa profonda dottrina biblica nella pastorale quotidiana, possiamo dire che bisogna evitare due pericolosi riduzionismi. Uno, il più frequente ed il più pericoloso, è quello di ridurre la salvezza all'ambito puramente spirituale, come se si trattasse soltanto di vincere i peccati, intendendo questi come mancanze individuali. L'altro riduzionismo sottolinea eccessivamente l'aspetto corporale della salvezza, trascurando l'aspetto morale che essa implica necessariamente. Tuttavia, auesto ultimo riduzionismo difficilmente si conserva a lungo, poiché l'esercizio d'amore verso il prossimo, che porta con sé, aiuta facilmente a riconoscere in questo prossimo il volto nascosto di Dio. Invece il riduzionismo spiritualista può congelarsi nel proprio orgoglio e nella propria vanità fino a convincersi che Dio è soddisfatto delle opere spirituali che sono compiute in suo onore.

Un paradigma di questi due riduzionismi è evidente nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14): il primo si fissò nel suo riduzionismo spiritualista, mentre il pubblicano uscì dal tempio giustificato a causa della sua umiltà e del suo amore.

Bibl. - Aa.Vv., Salvezza cristiana, Ed. Cittadella, Assisi, 1975. Cremaschi L., " Salvezza ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, p. 615. Cullmann O., Il mistero della redenzione nella storia, Ed. Il Mulino, Bologna, 1966. Molari C., " Salvezza ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1397- 1438. Rahner K., Uditori della parola, Ed. Borla, 1967. Schillebeecks E., Rivelazione e teologia, Ed. Paoline, 1966.

J.M. González Ruiz

Salvezza fuori della Chiesa. (inizio)

Per molto tempo, è esistito nella Chiesa l'assioma secondo cui " fuori della Chiesa, non c'è salvezza ". Questo assioma fu formulato a partire dal secolo III da numerosi autori cristiani ed anche da vari concili (Lateranense IV, Concilio di Firenze). Per intendere il senso di questa espressione, bisogna tener presente il contesto geografico e storico in cui venne formulata. A quel tempo, il mondo era praticamente identificato col mondo cristiano. Molto ingenuamente si credeva che il vangelo fosse già arrivato a tutto il mondo e che chi non si faceva cristiano lo faceva chiudendo volontariamente gli occhi alla luce, e colui che lasciava la Chiesa cattolica era sempre ritenuto colpevole. Evidentemente, oggi le cose sono cambiate: non è più possibile vedere il mondo e la Chiesa in questa maniera. Però, soprattutto, occorre tenere presente l'affermazione molto chiara del NT secondo cui: Dio " vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità " (1 Tm 2,4). Inoltre, Cristo è venuto nel mondo a dare la sua vita per tutti, in riscatto per l'umanità (cf Mc 10,45 e par.). Pertanto non si può pensare che questa volontà divina sia talmente condizionata da un mezzo (la Chiesa) che a molti uomini riesce praticamente impossibile conoscere ed amare. Se fosse così, Dio non vorrebbe effettivamente la salvezza di tutti. Per questo, oggi, i teologi preferiscono parlare di questo problema in un senso positivo. Vuol dire questo: la Chiesa è stata istituita da Cristo al centro della storia come il segno manifestativo della sua volontà salvifica. Però, la sua fedeltà e la sua veracità trasformano ogni segno manifestativo istituito da Lui pegno della realizzazione del significato. Perciò la Chiesa è pegno di salvezza per chi vive in essa. Così, l'appartenere alla Chiesa è per i suoi membri il segno genuino della loro appartenenza a Dio. Questo vuol dire che la salvezza dipende, in ultima istanza, dall'onestà e sincerità della propria coscienza. Questo, a sua volta, significa che chi vive fuori della Chiesa con rettitudine di coscienza può salvarsi, come afferma espressamente il Concilio Vaticano II (LG 16).

Bibl. - Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995, pp. 112-116. Fries H., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1987, pp. 685-705. Ratzinger J., Il nuovo popolo di Dio, Brescia, 1971. Semmelroth 0., La Chiesa come sacramento di salvezza, in: J. Feiner M. Löhrer (a cura di), Mysterium Salutis, 7, Ed. Queriniana, Brescia, 1972, pp. 377-437. Waldenfels H., Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 516-524.

J.M. Castillo

Santità. (inizio)

Il termine santità è continuamente ripetuto lungo la storia come incarnazione della volontà di Dio nei riguardi dell'uomo (1 Ts 4,3). Il Concilio Vaticano II l'ha richiamata ed esaltata ricordando la sua universalità (LG V). Ciò nonostante, la santità è vista spesso in un alone di irrealismo che non le reca giovamento. Cercheremo di presentare la santità insistendo proprio sul realismo che essa deve avere se vuole rispondere alla sua origine. Questa origine è la Trinità, la cui dimensione salvifica deve entrare nella vita cristiana.

Nell'AT, è conservato un concetto di santità essenzialmente interiore molto riservato: le persone e le cose sante rimangono riservate a Dio totalmente Altro e non entrano a contatto con altre realtà. Di più: rimangono separate dalle altre realtà per non venire contaminate. Questo concetto e questa prassi, che contengono aspetti importanti, nascondono, però, altri aspetti del Dio totalmente. Altro che non possono essere dimenticati.

Ricordiamo solo questo: può una persona, e perfino una cosa, rimanere riservata a Dio senza avere a che fare con la storia di un popolo in cui Dio stesso si è inserito? Che tipo di appartenenza, di riserva o di vicinanza è questa? La santità, nell'AT, è una santità " incoerente " e deve superare questa " incoerenza ". Chiamiamola, se vogliamo, " imperfezione ": non suona troppo male.

Per il cristiano, non c'è altro Dio all'infuori del Dio di nostro Signore Gesù Cristo. Per questo, una santità che ha la sua origine in Dio non può non manifestarsi splendidamente in Gesù. È a Lui, il Santo di Dio, che bisogna rivolgersi per sapere chi è cristianamente santo. Di fatto, la santità ha superato oggi l'inquadratura ecclesiologica, come definitiva e radicale, ed è rivolta alla cristologia.

Ora, la cristologia d'oggi, enormemente ricca, e forse per questo sempre più complessa, ha rivalutato alcune dimensioni che, appunto per la loro attualità, vanno ricordate ed introdotte nel concetto e nel vissuto della santità. Una di queste, essenziale per la metodologia che ci siamo proposto, è la dimensione storica e sociale di Gesù. La teologia e la pastorale dell'impegno e della liberazione si soffermano a considerare la vita pubblica di Gesù, luogo delle sue azioni e reazioni concrete, con persone e situazioni. Sono riuscite in questo modo a superare l'incarnatus-passus greco-romano del Credo, che per tanto tempo ha monopolizzato la cristologia, tenendola lontana dalla vita reale.

Questa nuova riflessione sulla vita di Cristo ha portato ad un nuovo tipo di santità: la santità " politica ". Questa forma di santità  o meglio, questa concezione della santità  richiama l'attenzione su certi aspetti comuni che prima erano dimenticati, ed esige rispetto verso coloro che si sentono particolarmente attratti da queste particolarità. La presenza critico-sociale, la sua attuazione attraverso i meccanismi o le mediazioni normali nel nostro contesto storico, la preferenza che viene data alle necessità più imperiose del momento, la preoccupazione e la lotta per il cambiamento, non solo personale, ma anche, e preferibilmente, strutturale, ecc., indicano alcuni moduli e modelli di santità che non sono stati comuni. D'altra parte, le virtù passive  chiamiamole così, anche se, effettivamente, non è forse corretto , la coscienza naturalista  nel senso di fatalismo: c'è chi nasce (di qui: naturalista) predestinato , la rassegnazione e l'accettazione dello statu quo, ecc., non hanno più quel primato che avevano una volta.

Lo Spirito non ha bisogno di un appellativo particolare. È santo di nome. Con Lui, si chiude il cerchio dei santificatori. La santità è vita e opera della Trinità. Il santo segue la vita del Santo di Dio nella forza dello Spirito. Lo Spirito rende possibile all'uomo di non spaventarsi per la lotta da sostenere contro il mondo. Lo Spirito è presente per illuminare, fortificare, profetizzare, ecc.

Desidero insistere, per rimanere fedele alla metodologia scelta, sul fatto che lo Spirito non è presente soltanto negli aspetti che possiamo chiamare interiori. Lo Spirito si libra sul mondo fin dal momento stesso della creazione (Gen 1, 2), e continuerà fino al termine della storia terrena (Ap 22,17). Tutto questo arco di tempo, fatto di storia concreta poco o tanto arrossata, è coronato dallo Spirito. Il Concilio Vaticano II ricorda la presenza e l'azione dello Spirito in questo mondo concreto ed in evoluzione. Dice tra l'altro: " Lo Spirito di Dio, che, con mirabile provvidenza, dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra, è presente a questa evoluzione " (GS 26: il Concilio sta parlando dell'evoluzione socio-economica). Volere la santità, o pensarla, senza entrare nell'azione dello Spirito, sarebbe assurdo per un credente. La dimensione di presenza e di attività storica è un dato già posseduto dalla santità, anche se non in tutte le sue parti.

La santità trinitaria ha il suo correlativo espresso nella vita teologale. Però, anche ciò è stato verticalizzato in modo esclusivo, mentre le cose non stanno così.

Seguendo la linea di riflessione che abbiamo scelto, possiamo dire che non esiste altro che l'amore, come non esiste altro che Dio. E Dio è amore. Però, come Dio "ha bisogno " del Figlio e dello Spirito che gli danno un timbro nuovo, così l'amore ha bisogno della fede e della speranza per renderlo reale.

Nel Concilio Vaticano II, parlando della santità, è stato proposto all'inizio l'amore come cammino di santità. Gli interventi dei Padri conciliari insistevano, giustamente, sulla necessità di unire la fede e la speranza con la carità. I motivi erano due: senza la fede e la speranza, l'amore perde il senso di peregrinazione. Potrebbe sembrare che siamo già in cielo, dove rimane solo l'amore. D'altra parte, e conseguentemente, senza la fede e la speranza, l'amore non è reale.

La santità acquista con questi cammini un realismo che le è mancato troppo spesso. E lo acquista come una dimensione fondamentale della fede cristiana. Non è necessario ricorrere ad altre sorgenti che verrebbero respinte a priori. Quelle che abbiamo ricordato ed esaminato brevemente sono adeguate come fondamento della fede.

Bibl. - Aa.Vv., Santità nella costituzione conciliare sulla Chiesa, Ed. Teresianum, Roma, 1966. Aa.Vv., La santità nel popolo di Dio, Ed. dehoniane, Bologna, 1967. Aa.Vv., Santità cristiana: dono di Dio e impegno dell'uomo, Ed. Teresianum, Roma, 1980; Molinari P., " Santo ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1369-1386. Rahner K., Cristianesimo esemplare, in: Nuovi Saggi, II, Ed. Paoline, Roma, 1968, pp. 357-889.

a. Guerra

Santità della Chiesa. (inizio)

La santità è una delle " note " della Chiesa, cioè, una delle caratteristiche con cui si distingue la vera Chiesa di Cristo da qualsiasi altra confessione. Bisogna distinguere la santità oggettiva dalla santità soggettiva della Chiesa. La santità oggettiva significa che la Chiesa è il mezzo della grazia e della salvezza nel mondo. Questo indica che la Chiesa è santa prima di tutto nei suoi princìpi formali, cioè, in ciò che ha ricevuto e riceve da Dio per essere Chiesa, sacramento universale di salvezza. Questi principi formali sono: il deposito della fede, i sacramenti e i ministeri corrispondenti. Queste realtà sono sante perché provengono da Dio e portano alla santità. In tutto ciò, si tratta di realtà sante perché sono strumenti coi quali Dio santifica. Però, la santità della Chiesa indica qualcosa di più. Soggettivamente, la Chiesa è santa anche perché non mancherà mai in essa la santità dei suoi membri, cioè, ci sono sempre state e sempre ci saranno nella Chiesa persone dotate di santità. Questo non vuol dire che solo i santi appartengono alla Chiesa. Appartengono ad essa anche i peccatori e ce ne saranno sempre in essa. La Chiesa ha sostenuto più volte, con grande fermezza, che anche i peccatori fanno parte della Chiesa. Lo ha affermato contro il montanismo, il novazianismo, il donatismo, gli Albigesi, Wicleff, Huss ed il giansenismo. Questo vuol dire che, non solo nella Chiesa ci sono sempre stati e sempre ci saranno dei peccatori, ma significa anche che la Chiesa stessa è peccatrice, in quanto i suoi membri, anche i suoi rappresentanti ufficiali, sono e continueranno ad essere peccatori. Conseguentemente, quando parliamo della santità della Chiesa, intendiamo dire che il corpo della Chiesa, macchiato dal peccato, non è tuttavia sfigurato in modo tale che scompaia da lui lo Spirito di Dio e la grazia onnipotente di Dio per il bene degli uomini.

Bibl. - Congar Y., La Chiesa è santa, in: Aa.Vv., Mysterium Salutis, 7, Ed. Queriniana, Brescia, 1972, pp. 553-575. Cotugno N., La testimonianza della vita del popolo di Dio, segno di rivelazione alla luce del Concilio Vaticano II, in: Fisichella R. (ed.), Gesù Rivelatore. Teologia fondamentale, Ed. Piemme, Casale M., 1988, pp. 227-240. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995, pp. 356-363. Lubac H. De, Paradosso e mistero della Chiesa, Milano, 1979. Smulders P., La Chiesa sacramento di salvezza, in: G. Baraúna (ed.), La Chiesa del Vaticano II, Firenze, , pp. 363-386.

J.M. Castillo

Santuario. (inizio)

Il termine santuario, nella fenomenologia religiosa, è usato per indicare un luogo naturale sacro  una grotta, un monte, una fonte  sacralizzato da una teofania ed in cui viene costruito un altare, o viene collocata una pietra sacra, un'immagine, ecc., ed in seguito viene edificato un tempio. Alle volte, la parola " santuario " indica la parte più santa di un tempio, come il cosiddetto santo dei santi del Tempio di Gerusalemme. Anche nelle chiese cristiane, si è soliti chiamare santuario il presbiterio, soprattutto, come succede presso gli 0rientali, se è separato dalla navata.

Il CIC considera santuario " la chiesa o altro luogo sacro ove i fedeli, per un peculiare motivo di pietà, si recano numerosi in pellegrinaggio con l'approvazione dell'Ordinario del luogo " (CIC c. 1230). L'origine dei santuari può essere molto varia, ma ha sempre qualcosa a vedere con la devozione verso un santo o verso Maria e, più raramente, con qualche mistero della vita di Gesù. Spesso i santuari sono collegati con apparizioni di Maria o col ritrovamento di immagini che si ritengono miracolose.

La fede cristiana può fare a meno dell'uso dei santuari come luoghi necessari per dare il culto a Dio. Infatti, con parole decise, Gesù ha detto alla samaritana: " È giunto il momento in cui né su questo monte, né a Gerusalemme adorerete il Padre " (Gv 4,21). Il culto cristiano non è legato a nessun luogo speciale, per quanto sacro possa essere: è un culto " in spirito e verità (Gv 4,23). Tuttavia, la Chiesa non è contraria al pellegrinaggio nei santuari. Difatti il CIC stabilisce: " Nei santuari si offrano ai fedeli con maggior abbondanza i mezzi della salvezza, annunziando con diligenza la parola di Dio, incrementando opportunamente la vita liturgica soprattutto con la celebrazione dell'Eucaristia e della penitenza, come pure coltivando le sane norme della pietà popolare " (CIC c. 1234).

La pastorale attuale cerca di fomentare in coloro che vanno nei santuari il senso di appartenenza alla Chiesa universale. Il CIC raccomanda inoltre: " Le testimonianze votive dell'arte e della pietà popolari siano conservate in modo visibile e custodite con sicurezza nei santuari o in luoghi adiacenti " (CIC c. 1234 § 2).

Bibl. - Besutti G., " Santuari ", in: Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1985, pp. 1253-1272. Martimort A.G., La Chiesa in preghiera. Introduzione alla Liturgia, Ed. Desclée, Roma-Parigi-Tournai, 1966, pp. 195-204. Righetti M., Manuale di Storia liturgica, I, Ed. Ancora, Milano, 1964, pp. 416-489.

J. Llopis

Scienza. (inizio)

Viviamo nell'èra della scienza e della tecnica. La rivoluzione scientifica e tecnologica ha accresciuto enormemente le possibilità dell'uomo, tanto per fare il bene quanto per fare il male. Però, ha anche modificato la sua forma di pensiero e i suoi valori. È sorta, infatti, una nuova razionalità. Nel passato, si accettavano come fonti di conoscenza le elucubrazioni mentali e le opinioni degli antichi senza sentire la necessità di confrontarle con la realtà. Di fronte a ciò, la scienza fondava le sue conoscenze sull'esigenza della prova empirica. Questo è ovviamente corretto per l'ambito studiato dalla scienza, e di fatto, il Concilio Vaticano II riconobbe la legittima autonomia delle scienze (cf GS 36; 56). Il pericolo sta nel dimenticare che esistono molte realtà, e proprio le più importanti perché la vita abbia senso, che richiedono altre vie di accesso, come l'arte, la filosofia, la teologia. Come dice Berger; " Bisogna essere un barbaro intellettuale per affermare che la realtà è unicamente ciò che si può vedere con metodi scientifici ". D'altra parte, la scienza ha fatto sorgere anche una mentalità pragmatica. Oggi, la scienza cerca di conoscere quel tanto che basta per poter fare le cose, e la validità di una teoria si misura, prima di tutto, dalla sua efficacia. Esiste un certo pericolo che il pragmatismo finisca per invadere anche il campo dei rapporti umani, cioè, che finiamo per valutare gli esseri umani alla pari delle macchine, a seconda della loro maggiore o minore utilità, e perfino nel campo dei rapporti con Dio (riduzionismo etico della religione).

Bibl. - Agazzi E., " Scienza ", in: Dizionario di spiritualità dei laici, Ed. Opera Regalità, Milano, 1981, II, 268-272. Idem (a cura di), Storia delle scienze, 2 voll., Ed. Città Nuova, Roma, 1984. Ladrière J., I rischi della razionalità. La sfida della scienza e della tecnologia alle culture, Ed. SEI, Torino, 1977. Liebig R., Fede e scienza in dialogo. La scienza rivelatrice di Dio, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1972. Montani M., " Scienza e fede ", in: Dizionario di catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 562-563.

L. González-Carvajal

Scristianizzazione. (inizio)

Il termine scristianizzazione, frequentemente usato nel linguaggio religioso, per caratterizzare fenomeni sociali, comprende notevoli ambiguità. Il suo significato immediato si riferisce a tendenze, in una società o in una cultura, che comportano una diminuzione dei contenuti cristiani che c'erano prima. Va collegato con altri processi, come quelli della desacralizzazione, della secolarizzazione, della laicizzazione, che si riscontrano nelle società d'oggi. Però, non si identifica con questi processi. Di qui provengono, in parte, le sue ambiguità.

Come tutti i termini negativi, la sua comprensione rimanda all'idea previa che si ha del termine positivo: il cristianesimo. Riguardo ad esso, tre aspetti fondamentali vanno sottolineati:

1) Originariamente, il cristianesimo nasce da una fede. Per la Bibbia, la fede è il principio di tutta la vita religiosa. Quelli che rimasero convinti che in Gesù era venuta la salvezza definitiva, proclamarono questa fede e formarono le prime comunità cristiane (At 4,12).

2) Però, cristianesimo non è soltanto fede, ma è anche religione (in campo sociologico, non è possibile la distinzione federeligione propugnata da alcuni teologi contemporanei). Ciò significa che il cristianesimo comporta una serie di riti e di cerimonie con cui i cristiani celebrano comunitariamente la loro fede.

3) La comunità cristiana non va intesa come una setta religiosa. È segno del Regno di Dio, proclama la fratellanza universale, entrando nel dinamismo di ogni cultura ed epoca. La presenza pubblica è un postulato per la sua autocomprensione. Il Regno di Dio non solo esige una conversione personale, ma anche la trasformazione della vita sociale.

La scristianizzazione:

a) non va confusa con la desacralizzazione del mondo, frutto dell'inventiva e del lavoro degli uomini. La religione cristiana ha la sua peculiarità. Il Dio rivelato in Gesù fa sua la causa dell'uomo che è immagine del Creatore e responsabile del mondo. La desacralizzazione e la demitizzazione di false divinità è un imperativo della rivelazione biblica e cristiana.

b) È ancor meno un effetto inevitabile della secolarizzazione, intendendo questa come un processo in cui la società raggiunge la sua legittima autonomia e indipendenza dal religioso nei suoi meccanismi e nelle sue regole di funzionamento. Secondo la fede cristiana, il Creatore ha posto il mondo nelle mani dell'uomo. Questi deve assummere le sue responsabilità e svolgere i suoi dinamismi secolari, secondo il progetto della creazione (Gen 1,28). Solo quando la secolarizzazione diventa secolarismo, cioè, quando afferma che " le cose create non dipendono da Dio, e che l'uomo può adoperarle così da non riferirle al Creatore " (GS 36), diventa incompatibile con la fede cristiana. Invece, " nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana società, tale progressso è di grande importanza per il regno di Dio " (GS 39).

c) La scristianizzazione non è la stessa cosa della laicizzazione. Questa comporta una organizzazione laica (cioè, indipendente da criteri confessionali) dello Stato e degli organismi pubblici. Riconoscere la libertà di coscienza e il diritto individuale e sociale alla professione pubblica della propria fede, è ammesso dalla fede cristiana ed è un'esigenza delle società pluraliste moderne. Il Concilio Vaticano II, nella sua dichiarazione Dignitatis humanae, ha elaborato la dottrina della Chiesa Cattolica su questo punto. Solo quando la laicità degenera in laicismo (filosofia sociale che pretende di ridurre la religione alla stretta sfera del privato), essa diventa un elemento scristianizzante.

Fatte queste distinzioni, e tenendo presenti i tre elementi sottolineati nel cristianesimo, c'è ancora da dire che la scristianizzazione può avvenire da tre angolature:

1. Perché si perde o si altera la fede cristiana. E questo può succedere in vari modi:

 per un miscuglio di pragmatismo e di edonismo, a cui si presta la cosiddetta società dei consumi, che può essere un'ideologia più che una realtà. Il criterio di utilità si impone, in pratica, come base dei rapporti umani. La fede nell'amore gratuito di Dio e la pratica della gratuità nei riguardi del prossimo perdono allora la loro importanza sociale e si degradano in retorica religiosa.

 La fede cristiana si può perdere o alterare con la pratica di una religione evasiva, in cui il riferimento al soprannaturale nasconde la mancanza di sforzo evangelico per trasformare le relazioni sociali tanto sul piano individuale quanto su quello strutturale.

 Per la prevalenza assoluta, nella pratica, dei fini immediati dell'esistenza su qualsiasi finalità ultima, in cui intervenga Dio come orientatore del comportamento. La realizzazione dell'uomo viene concepita senza alcun riferimento al Creatore. La secolarizzazione della società si avvia verso il secolarismo.

2. Perché si nega praticamente la qualità religiosa del cristianesimo. Anche qui, le deformazioni possono provenire da varie parti:

 Dallo svuotamento del rituale cristiano dei suoi aspetti esperienziali (il vissuto religioso) e della sequela di Cristo (trasformazione della propria vita e delle relazioni sociali). I sacramenti e il culto sono usati come giustificazione della propria coscienza. La sicurezza sostituisce la fiducia in Cristo.

 Da una accentuazione dell'impegno umano nel trasformare i rapporti sociali fino a dimenticare o sottovalutare gli aspetti celebrativi e liturgici della fede, come dono gratuito di Dio e comunione con Lui.

3. Perché si rende impossibile la funzione pubblica evangelica della Chiesa come comunità credente, portatrice di una concezione di solidarietà dei rapporti tra gli uomini. E ciò può avvenire:

 Quando, mediante un riconoscimento statale, si usa l'organizzazione ecclesiastica a vantaggio di fini politici e puramente secolari, svilendo la capacità critica dell'annuncio evangelico.

 Quando, all'estremo opposto, si pretende di relegare la religione a un fatto puramente privato e interno alla coscienza, senza riconoscerle il diritto alla espressione pubblica e alla configurazione dei rapporti sociali che derivano dalla proclamazione del Regno di Dio. La laicità dello Stato come principio organizzativo si trasforma in laicismo come filosofia sociale.

Le strade della scristianizzazione sono pertanto molte e complesse. Ciò rende più difficili i giudizi sommari e i confronti storici tra le varie epoche: possono spesso ingannare (Quando c'è stata l'età d'oro del cristianesimo?). Eppure, la sua complessità è uno stimolo alla permanente necessità pastorale di sottoporre ad una analisi rinnovata (sociologica e teologica) i processi di scristianizzazione  come anche quelli di ricristianizzazione, prodotti dal fermento evangelico  che operano nella società.

Bibl. - Aa.Vv., In lotta con l'angelo, Ed. SEI, Torino, 1991. Bouyer L., Cattolicesimo in decomposizione, Ed. Morcelliana, Brescia, 1969. Delumeau J., Storia vissuta del popolo cristiano, ED. SEI, Torino, 1985. Poulat E., L'èra post-cristiana. Un mondo uscita da Dio, Ed. SEI, Torino, 1996.

J. Martnez Cortés

Secolarizzazione. (inizio)

Il termine secolarizzazione indica il processo con cui qualcosa diventa secolare (dal latino: saeculum). Saeculum può significare un periodo di tempo, cento anni, o un'epoca in genere, o la mentalità di quel tempo. Nella Bibbia, la parola secolo ha alle volte il senso, religiosamente neutro, di un grande spazio di tempo: " Al Re dei secoli... " (1 Tm 1,17). Altre volte, ha un significato religiosamente negativo: " Non conformatevi a questo mondo (greco: aiòni = secolo)... " (Rm 12,2): a questo mondo soggetto al male. Nel Medioevo, il concetto di secolare come mondano acquistò una certa neutralità in confronto col religioso (clero secolare, braccio secolare).

Il termine secolarizzazione, come tale, appare nel trattato di Vestfalia (1648) per indicare il trasferimento di terre e di proprietà dalla Chiesa allo Stato. Nel secolo XIX, appare una società secolare, come organizzazione di carattere militante che intende interpretare e strutturare la vita senza ricorrere al soprannaturale. Nel secolo XX, col nascere della sociologia come disciplina, secolarizzazione comincia ad essere un termine puramente descrittivo e neutro ed entra così nel lessico degli storici. In teologia, tuttavia, continua ad indicare un fenomeno religiosamente negativo, cioè, la perdita di influenza sociale, culturale e politica da parte delle Chiese. Un cambiamento notevole si produce dopo la Seconda Guerra Mondiale. Vari teologi, all'inizio protestanti (Gogarten, Bonhoeffer) e poi anche cattolici, ritengono la secolarizzazione non solo come il risultato, in parte dell'impatto culturale della fede biblica, ma anche come l'esigenza propria della libertà e della responsabilità dell'uomo giunto alla sua maturità. Così, tende a diffondersi, in ambienti religiosi, un apprezzamento più o meno grande per una società secolare che avrebbe sostituito la società sacra del Medioevo. Secolarizzazione, in senso generico, significa allora il processo di emancipazione da parte delle realtà terrestri dalla tutela religiosa.

Lo sviluppo storico del termine gli ha dato una forte tinta emozionale, come anche notevoli ambiguità. Per questo, è stato proposto, ma invano, di eliminarlo dal vocabolario sociologico. In certe indagini sociologiche empiriche, si è giunti a distinguere sei significati differenti, anche se affini, nel modo di fare uso di questo concetto. In termini generali, si può distinguere tra una secolarizzazione istituzionale o sociale ed un'altra intellettuale o esistenziale. Il Concilio Vaticano II distingue tra una secolarizzazione legittima ed un'altra illegittima: " Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le realtà create e le stesse società hanno leggi e valori propri..., allora si tratta di una esigenza legittima..., è conforme al volere del Creatore... Se invece con l'espressione 'autonomia delle realtà temporali' si intende che le cose create non dipendono da Dio, e che l'uomo può adoperarle così da non riferirle al Creatore, allora nessuno che creda in Dio non avverte quanto false siano tali opinioni " (GS 36). Si tratta allora non più di " secolarità " (legittima), ma di " secolarismo " (illegittimo).

Le ambiguità e la mancanza di chiarezza del concetto possono forse essere dovute ad un significato eccessivamente ristretto. Col concetto di secolarizzazione, si è voluto descrivere l'insieme dei complicati processi sociali e politici che in Europa hanno portato alla costituzione degli stati moderni, Si è fatto questo partendo dall'angolatura prevalente dei rapporti tra la società e la religione. Questo trova la sua giustificazione anche nel regime di cristianità da cui si parte. Però, sarebbe forse più fecondo il procedimento inverso, cioè, comprendere la secolarizzazione come un elemento dei processi di modernizzazione sociale che reclamano la differenziazione dell'area economica, di quella politica, di quella sociale e delle loro rispettive razionalità (Weber). Questi sviluppi, come ogni processo sociale, presentano i pro e i contro. Non potevano non portare a conflitti tra il potere secolare e quello ecclesiastico già stabilito. Cambia la situazione strutturale della Chiesa in seno allo stato moderno e la sua possibilità di influire coattivamente sulla società civile. Questo porta a conclusioni, storicamente affrettate, sul carattere generale dei processi ( "declino della religione ", " restrizione alla pura sfera del privato ", " conformità con questo mondo " come strategia di sopravvivenza, ecc.). Su queste interpretazioni globali è possibile presentare una conferma empirica, addirittura osservabile a prima vista, ma con un carattere di parzialità e di immediatezza che non rende giustizia alla complessità totale del processo, e per questo, è difficilmente assumibile in una teoria generale della secolarizzazione.

Oggi, sembra più ragionevole considerare queste, ed altre simili interpretazioni, come momenti parziali di un cambiamento sociale che, nel campo religioso, sembra orientare piuttosto, in primo luogo, verso uno spostamento della funzione della religione in una società moderna, che non è riducibile alla sua privatizzazione né ad un suo adattamento alla società. Il movimento indica piuttosto il senso contrario e non la sua semplice scomparsa. Data la posizione della Chiesa nella società medievale, questo spostamento avviene inizialmente mediante una destabilizzazione dell'influsso religioso diretto su aree tradizionalmente sotto il suo controllo. Il processo può essere sperimentato in modo molto negativo dalle Chiese, ma può portare ad una maggiore autenticità nelle convinzioni e ad una maggiore purificazione degli atteggiamenti religiosi. Questo sarebbe esattamente l'opposto del " declino della religione ". Però, comporta, a sua volta, una diminuzione quantitativa di quella che potremmo chiamare " religione sociologica ".

In secondo luogo, si ha uno spostamento, all'interno della religione, di quello che viene sperimentato come sacro. Comportamenti, istituzioni, oggetti che prima erano ritenuti intoccabili e fuori da ogni discussione razionale (sacri) per il credente, vengono sempre più introdotti nell'ambito della razionalizzazione con cui Weber caratterizzò l'avvento delle società moderne (desacralizzazione). Non si tratta, però, di un semplice processo lineare, che implicherebbe la perdita della qualità del sacro in queste società: si tratta di uno spostamento verso altre aree, tanto del sacro in senso largo, quanto del sacro religioso in senso stretto. Così, si è anche potuto parlare, con una certa fretta, di un " ritorno del sacro " in seno alle società razionalizzate dell'Occidente. Si può notare a prima vista il fiorire di nuove sètte nella nostra società urbana, probabilmente come protesta sociale contro il carattere anonimo e strumentale dei rapporti che ci sono in essa. Per quello che riguarda il cristianesimo, il carattere di sacro religioso si condensa progressivamente nella persona umana, come immagine della divinità, e nei simboli della tradizione cristiana primitiva: essi significano in senso stretto l'unione dell'uomo col divino (modalità secolare dell'esperienza del sacro). La tendenza sembra coerente con l'orientamento globale delle società tecnologiche, poiché da una parte è accentuata la concezione del trascendente, mentre, dall'altra, non crea difficoltà l'autonomia del campo del profano disponibile per la scienza.

Bibl. - Acquaviva S.S. - Guizzardi G. (a cura di), La secolarizzazione, Ed. Il Mulino, Bologna, 1973. Berger P.L., Il brusio degli angeli, Ed. Il Mulino, Bologna, 1969. Cox H., La città secolare, Ed. Vallecchi, Firenze, 1968. Lubbe H., La secolarizzazione. Storia e analisi di un concetto, Ed. Il Mulino, Bologna, 1970; Milano A., " Secolarizzazione ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1438-1466. Rosanna E., Secolarizzazione o trasfunzionalizzazione della religione?, PAS-Verlag, Zurigo, 1973.

J. Martínez Cortés

Segni dei tempi. (inizio)

L'espressione segni dei tempi fu usata per la prima volta ufficialmente nella bolla di Giovanni XXIII Humanae salutis (25.12.1961) con cui convocava il Concilio. Nell'enciclica Pacem in terris (11.4.1963) dello stesso Pontefice, diventa una categoria fondamentale. In modo chiaro, vengono in essa indicati quattro segni dei tempi contemporanei: la socializzazione, l'emancipazione delle classi lavoratrici, l'ingresso della donna nella vita pubblica, la libertà dei popoli oppressi. Paolo VI, nella sua prima enciclica Ecclesiam suam (6.8.1964) ripete questa stessa espressione. Chenu descrive i segni dei tempi come " fenomeni generalizzati , che abbracciano tutta una sfera di attività, e che esprimono i bisogni e le aspirazioni dell'umanità di oggi ". La Costituzione conciliare Gaudium et Spes afferma che " è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo " (GS 4; cf UR 4; PO 9). Già Gesù stesso aveva invitato i Farisei a saper interpretare i segni dei tempi " (Mt 16,3) per conoscere l' "ora messianica " o " il segno di Giona " (Lc 11,29), cioè, la presenza salvifica di Dio nella storia.

Nell'esposizione preliminare della Gaudium et Spes, il Concilio indica questi segni: il potere economico, che è in contrasto con la fame e con la miseria di una grande parte dell'umanità; un senso acuto della libertà, che è in contrasto con nuove forme di schiavitù sociale e psichica; il desiderio di unità, interdipendenza e solidarietà, che è in contrasto col pericolo costante della guerra; lo scambio delle idee che è in contrasto coi vari significati che si danno alle parole in ideologie differenti; la ricerca di un ordine temporale più perfetto a cui non corrisponde il progresso spirituale (cf GS 4).

In sintesi: segni dei tempi sono gli avvenimenti storici sufficientemente densi, universali e ripetuti, colti dalla coscienza degli uomini, col significato speciale di rivelare la direzione verso cui si orienta consapevolmente l'umanità, in armonia con le sue necessità ed aspirazioni.

I cristiani, per partecipare come credenti in una Chiesa che vive nella società, devono saper leggere evangelicamente gli avvenimenti dotati di un dato orientamento e che, nella loro sostanza più profonda, sono rivelatori di un progresso storico, mondiale ed ecclesiale. La Chiesa percepirà i segni dei tempi nella misura in cui sarà presente nel mondo. Ora, gli avvenimenti possono essere oggetto di interpretazioni differenti, a seconda della varie ideologie. In sé, i segni dei tempi sono ambigui, come è ambiguo tutto l'elemento umano: può essere immagine dell'azione di Dio o ombra di un idolo superbo. Solo la fede può decifrare nei segni dei tempi i disegni di Dio.

Bibl. - Chenu M.D., I segni dei tempi, in: Aa.Vv., La Chiesa nel mondo contemporaneo, Ed. Queriniana, Brescia, 1966, pp. 85-102. Gennari G., " Segni dei tempi ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1400-1422. Latourelle R., Cristo e la Chiesa segni di salvezza, Ed. Cittadella, Assisi, 1971. O' COLLINS G., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1982. Pellegrino M., La Chiesa nel mondo, Ed. Esperienze, Fossano, 1967.

C. Floristán

Sequela. (inizio)

Parliamo della sequela di Cristo, l'unico che merita di essere seguito. D'altra parte, questo ritagli apparente viene ampliato dal fatto fondamentale che viene esteso a tutti i cristiani, senza alcun limite che sia riservato come privilegio o come vocazione li una casta concreta.

In realtà, il cristiano non può dire che il termine sequela, almeno nella sua forma verbale, è una parola nuova. Basta aprire i vangeli per trovare formule chiare di sequela (Mc 8,34 e par.).

Tuttavia, non si può neanche dire che la parola è classica. I classici sembrano ignorarla. Perfino il Concilio Vaticano II che usa la parola " sequela " (PC 2) e chiama i cristiani " seguaci di Cristo " (LG 40), porta a costatare che negli indici riguardanti Cristo, almeno in molti di essi, la parola " sequela " non ha il posto che meriterebbe di avere.

Generalmente, però, è stato dato ora un recupero abbastanza importante a questa parola. Soprattutto la vita religiosa l'ha posta come base della sua esistenza. È necessario estenderla ad ogni cristiano, poiché non è una parola qualsiasi. Il suo recupero comporta indubbiamente il recupero di categorie importanti.

Tradizionalmente, si è parlato di imitazione. Si è voluto considerare questo termine come più ampio e più profondo, che riguarda tutto l'essere umano. Però, la parola imitazione corre il rischio di essere intesa come mimetismo. Ciò avviene se si bada - alle forme e ai dettagli più che al fondo, se si vuole avere un copione materiale della vita di Gesù, invece di assumere la sua personalità e di lì, aprirsi alla vita di ogni tempo e luogo senza i condizionamenti dell'elemento puramente materiale.

I vari scritti neotestamentari (sinottici, Giovanni, Paolo) hanno espresso la realtà della sequela con una terminologia e perfino con una teologia diverse, ed anche in contesti differenti: vocazioni particolari, il racconto della passione, frasi fatte, ecc. Tutti questi contesti comportano una donazione totale della persona. La sequela di Cristo non è un gioco. Tuttavia, ogni scritto neotestamentario accentua aspetti vari. Forse ciò che colpisce di più è che i sinottici accentuano gli aspetti storici, mentre Giovanni e Paolo sottolineano la signoria di Cristo risorto. I primi sembrano più concreti e più incarnati, e non c'e dubbio che oggi godono di una preferenza che non hanno sempre avuto.

Forse il primato della prassi è quello che ha maggiormente recuperato la categoria della sequela (J.B. Metz), e lo ha recuperato proprio nella cristologia. " La prassi della sequela appartiene costitutivamente alla cristologia " (J.B. Metz), essendo una denuncia delle cristologie " idealiste " che, almeno nel mondo sviluppato, continuano ad essere la maggioranza.

La sequela non è una teoria, né una visione particolare della vita: è una vita. Non esistono cammini di stelle in cui camminano menti astrali: esistono cammini di terra, o di asfalto, su cui cammina il Signore Gesù seguito dai suoi discepoli.

L'ambiente di passione in cui Gesù invita a seguirlo (Mc 8,34 e par.) ha unito intimamente le parole sequela, abnegazione e croce. Siccome le ultime due sono spesso fraintese, è logico che ciò avvenga anche per la parola " sequela ".

Abnegazione e croce non sono termini negativi, o comunque non lo sono necessariamente. Abnegazione non vuol dire chiusura, ma divieto di chiusura. L'abnegazione è la vittoria dell'io a favore degli altri; è dimenticarsi per donarsi. È sempre la difficoltà dell'elemento positivo che esige un atteggiamento che ha un nome negativo ed una storia non molto attraente.

Nemmeno la croce è un termine negativo. Non deve neanche essere limitata ad un momento della vita. La croce non è un elemento che ad un certo punto è introdotto nella vita: è la dimensione costosa che comporta ogni vita degna.

In questo senso, quando Gesù invita a seguirlo, Egli dice che questa sequela non è facile; dice che essa esige di dimenticare decisamente i canti delle sirene a cui siamo abituati da una natura che spesso si prende gioco di noi; dice che tutto questo è come prendere una croce gravosa. Però, Gesù dice anche: non è il peso della croce che rende difficile e che rallenta la sequela di Gesù, ma è il modo di portarla. L'abnegazione e la croce diventano così un ottimo criterio di discernimento. L'abnegazione e la croce non sono concetti, ma atti vitali concreti ed incarnati nelle situazioni storiche di ogni istante. Infatti, non si segue Gesù a tratti, in modo intermittente, ma continuo, per tutta la vita. La sequela non si può raccorciare a piacimento.

Il contesto di passione in cui si parla di sequela può aver fatto dimenticare il nesso tra sequela e risurrezione. Di fatto, la risposta di Pietro dimentica completamente la risurrezione (Mt 16,22), eppure, Cristo aveva parlato anche di risurrezione nello stesso contesto (Mt 16,21).

La passione non deve essere un ostacolo per unire sequela e risurrezione. Tra l'altro, perché la passione non può essere interpretata correttamente se non si ha presente il cammino che porta alla passione (la vita di Gesù) e l'orizzonte nuovo che si apre con la passione (la risurrezione).

Bibl. - Bpnhoeffer D., Sequela, Ed. Queriniana, Brescia, 1971. Lozano J.M., La sequela di Gesù, Milano, 1981. Mongillo D., " Sequela ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., 1989, pp. 1431-1443. Schulz A., I discepoli del Signore, Torino, 1967. Tillard J.M., Carisma e sequela, Bologna, 1978.

A. Guerra

Sessualità. (inizio)

Circa l'istinto per l'incontro personale, è stato affermato più volte che l'errore più grave del discorso antropologico è quello di trasformare dimensioni parziali in un assoluto. Questo è vero in modo speciale nell'ambito della sessuologia.

È evidente che la sessualità costituisce una delle dimensioni fondamentali dell'essere e del progetto umano. La sua maturità o personalizzazione è indubbiamente condizionata dal suo sviluppo. Però, questa affermazione non deve appannare e tanto meno spegnere gli altri innumerevoli fattori che illustrano l'inafferrabilità umana. Molti antropologi si chiedono perché si è data così grande importanza all'istinto sessuale quando ce ne sono altri maggiormente primari ed esigenti. A mio parere, è perché, all'interno dell'assolutizzazione del sesso, è avvenuto dell'altro, e cioè, l'assolutizzazione del suo strato più elementare, la pura istintività. Ciò non è riuscito, però, ad impedire che, in forma più o meno esplicita, la sessualità venisse relegata alla globalità del fattore affettivo e dell'amore; di qui, la sua trascendenza e la sua esaltazione.

Analizziamo in sintesi i punti principali del fenomeno sessuologico. Senza entrare nella polemica dell'evoluzionismo nel senso filogenetico darwiniano, è doveroso distinguere la partenogenesi dal dimorfismo sessuale. Nella prima, la riproduzione si compie mediante la divisione ripetuta di cellule sessuali femminili senza che partecipi minimamente qualche elemento o gamete maschile. Nel dimorfismo, invece, è essenziale la partecipazione di due individui completamente differenziati: la riproduzione, infatti, è il frutto dei gameti o cellule specializzate che rappresentano nella loro totalità ognuno dei due. Si adducono molti motivi per giustificare questa complessità, ma in ultima analisi, dobbiamo riconoscere che annaspiamo nel mistero. Già all'interno del dimorfismo con gameti, troviamo le forme più varie di unione, tanto nel regno vegetale quanto nel regno animale. Però, l'altro salto strettamente qualitativo ed inspiegabile si trova solo nella specie umana. In essa, l'aspetto sessuologico comprende i seguenti strati:

a) Quello istintivo. Esso costituisce un circolo chiuso, ripiegato su se stesso. Il suo ermetismo, quasi cibernetico, lo difende dai possibili errori della libertà. Freud distingue tra istinto e libidine. Al margine della polemica suscitata col significato esatto della parola trieb nell'esposizione freudiana, è evidente che l'autore connette l'elemento istintivo con le radici biologiche (genitalità, ecc.), mentre, per parlare degli strati più psicologici ed affettivi, egli usa il termine libidine. Secondo Jung, tuttavia, la libidine comporta l'" istintività generale ". Ciò che interessa qui e che bisogna mettere in risalto è il carattere essenzialmente egocentrico, egoista, del fattore istintivo nella stratificazione sessuologica.

b) Lo strato erotico. Si riferisce alle radici psicologiche e più strettamente al mondo dell'intelletto-volontà e dei sentimenti. È nutrito dalla capacità di rottura dei circoli ermetici degli istinti posseduti dalla coscienza riflessa. Però, c'è da notare che già i Greci e poi gli Scolastici si erano accorti che nemmeno questo strato sfuggiva alla tirannia dell'io. Il movente delle facoltà superiori che definiscono ciò che è più genuinamente umano è il bisogno che cerca continuamente il proprio bene.

c) Lo strato trascendente o religioso. Si noti come anche la normativa dell'amore nel credente è stata inquadrata nella tirannia dell'io, costituito come riferimento del principio corretto: " Amerai il prossimo come te stesso ".

d) L'agàpe. Si può comprendere l'impatto che produsse a suo tempo il libro di A. Nygren, Eros e Agape (Ed. Il Mulino, Bologna, 1971). L'agàpe è la vittoria della donazione; è la possibilità di amare senza che il movente sia " il proprio bene " come oggetto formale della volontà umana. Come è possibile questa vittoria sull'egoismo radicale dell'indigenza umana? Invertendo i due termini dell'aforisma classico: " sapersi e sentirsi amati ", invece di " amare ed essere amati ". L'espressione giovannea dà senso al NT: " La carità non sta nel fatto che tu ami Dio, ma che Dio ti ama ". Il comando " Amatevi come io ho amato voi " comporta, per il credente, il trionfo dell'incontro che comporta questa linea lunga dell'amore che inizia nel Padre, si esprime nell'oblazione concreta del Figlio, permane nel suo Spirito, ed attraversa ogni creatura per ritornare nuovamente al Padre. L'agàpe significa un incontro che non è stato provocato dall'indigenza, ma dalla pienezza. Questo è l'ambiente dossologico del credente, in cui l'istinto e l'eros si liberano dai vincoli dell'io come primo esistenziale.

Osservazioni per una pedagogia sessuologica. Occorre approfondire come fonte primaria il dato rivelato. Si noti come in esso tutta la storia della salvezza può essere espressa in chiave sessuologica in quanto solo questa trova il suo autentico significato partendo dalla dinamica dell'amore. All'interno dell'ambiente rivelato, notiamo tre passi particolarmente illuminanti:

a) Il racconto paradisiaco del genesi, cioè, l'uomo Adamo e la donna Eva in armonia perfetta con se stessi e col cosmo. L'equilibrio rimane giustificato in quanto la creatura è aperta all'iniziativa di Dio. L'eccentricità e la rottura provocano l'autismo, il nascondimento, il ripiego sull'io, la perdita dell'eden. Dopo la cacciata dal paradiso terrestre, non rimane alla coppia altro progetto che il ritorno a riscoprire la lunga linea dell'amore che inizia nel cuore del Padre.

b) Nell'Ultima Cena, nell'agàpe, è proclamato il NT. I due tratti fenomenologici della pienezza sessuologica sono costituiti dalla donazione e dalla fusione. La coppia umana deve riconoscere la solitudine radicale di ognuno dei suoi membri. L'incomunicabilità è il tratto essenziale della persona per la filosofia scolastica in quanto allude al nucleo della individualità, ciò per cui un essere umano è definito come soggetto unico ed irrepetibile e non può trasferirsi ad un altro. L'amore si esprime nella donazione e cerca l'unione. L'affermazione " saranno due in una sola carne " è una mèta desiderabile, ma impossibile. Solo nel sacramento della comunione si realizza il prodigio per il credente, in termini che scandalizzano in un primo momento, fino a quando viene illuminato il significato profondo dell'apparente cannibalismo: " Prendete e mangiate; questo è il mio corpo..., ecc. " Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui ", ecc...

c) Il cantico dell'amore, cioè, la catechesi e la pastorale in genere sulla sessualità hanno in 1 Cor 13 uno strumento insuperabile per la formazione. Si osservi la sua ricchezza antropologica. Nei versetti 1-3, san Paolo supera tutte le correnti psicologiche contemporanee in molti versanti importanti. È importante ricordare quelli che primeggiano nel mondo sentimentale sul fattore noetico o ideologico e quello delle motivazioni profonde di comportamento. " Se parlassi le lingue... Se avessi il dono della profezia e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede... ma non avessi la carità... Se distribuissi tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità... " (1 Cor 13, 1-3). Si ha quasi la sensazione che l'uditorio non colga il concetto di amore proposto da Paolo... Come è possibile distribuire tutti i beni e il corpo per essere bruciato se non c'è l'amore? Ci vuole una definizione, ma Paolo non cade in ciò che io ho chiamato passione e difetto di definire. Ancora una volta, Paolo supera la metodologia fenomenologica del nostro tempo e si limita a presentare i tratti fondamentali che configurano l'amore. Un'analisi attenta di questi caratteri ci porta all'esposizione più chiara e più matura che si possa applicare al senso globale della sessuologia.

Bibl. - Autiero A., " Sessualità ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1222-1236. Balestro P., Legge e libertà sessuale, Ed. Rusconi, Milano, 1982. Davanzo G., Sessualità umana e etica dell'amore, Ed. Ancora, Milano,1986. Gatti G., Morale sessuale educazione dell'amore, Ed. Elle Di Ci, Leumann, (Torino), 1988. Hortelano A., Morale responsabile, Ed. Cittadella, Assisi, 1968. Peretti M., L'educazione sessuale, in: Aa.Vv., Questioni di pedagogia, Brescia, 1975, pp. 585-616. Vidal M., Morale dell'amore e della sessualità, Ed. Cittadella, Assisi, 1973.

M. Ruiz-Mateos

Sètta. (inizio)

Il termine sètta non è univoco: può essere inteso in senso strettamente teologico o in senso sociologico.

Anche la sua etimologia è ambigua: potrebbe derivare dal latino secatum (tagliato), ed allora, entra nel significato teologico. Può derivare anche da secutum (seguìto), ed allora entra nel senso sociologico, ma senza escludere quello teologico.

In senso teologico, sètta si riferisce agli aspetti dottrinali per cui un gruppo si separa o è tagliato dal corpo religioso principale che definisce l'ortodossia.

In senso sociologico, le sètte sono movimenti d. protesta religiosa, piccoli all'inizio, che generalmente si riuniscono attorno ad un leader (seguaci). L'impegno con la sètta è volontario. Però, sono ammesse in essa soltanto quelle persone che hanno dato prova della loro convinzione. L'appartenenza ad una sètta si basa sulla sottomissione costante alle sue credenze e

pratiche. Rifiutano l'autorità della religione stabilita nella società che viene comunemente ritenuta accomodante.

A prima vista, le sètte possono sembrare fenomeni marginali della storia, cioè, piccoli gruppi di persone polarizzate, ideologicamente e affettivamente, attorno ad un leader e ad alcune idee estranee alla società in cui vivono. Tuttavia, le sètte hanno avuto certe volte un grande significato storico. Le sètte possono alle volte funzionare come catalizzatori, raccogliendo in forma critica gli scontenti e le aspirazioni sociali; altre volte, possono precedere o fomentare la reintegrazione sociale, come in Giappone, la Soka Gakkai.

Nel senso sociologico largo della parola, le sètte come gruppi di seguaci di un certo spirito religioso stanno ai margini delle grandi religioni, od anche dentro, come per esempio, certe associazioni religiose nella Chiesa cattolica. Però, il concetto di sètta varia a seconda dell'organizzazione strutturale della religione madre. Per esempio, all'interno dell'induismo che possiede un carattere di diffusione, di decentralizzazione e di pluralismo, il settarismo ha un senso più ristretto che non nel cristianesimo. Questo cominciò con l'essere una sètta giudaica. Quando, però, divenne la religione ufficiale dell'impero romano, oltre a preoccuparsi di raggiungere l'uniformità nella pratica religiosa, ritenne sempre il fattore dottrinale come il criterio principale dell'appartenenza. Erano seguaci di qualche sètta quelli che volontariamente professavano credenze differenti da quelle della Chiesa e si associavano in una fede comune fuori dal controllo della Chiesa.

Questo rapporto di opposizione alla Chiesa concepita sociologicamente come l'organizzazione che detiene il potere religioso, è servito in sociologia per elaborare lo schema concettuale con cui viene definita la sètta sociologica. Essa è concepita come uno dei poli di un continuum o sètta-sètta stabilita-denominazione-chiesa nazionale-chiesa universale. I suoi lineamenti, ricavati fondamentalmente dalla storia del medioevo cristiano, sono caratterizzati in contrapposizione a quelli della Chiesa.

In primo luogo, sul piano organizzativo. Il tipo Chiesa presenta una struttura di grande organizzazione, prevalentemente burocratica e conservatrice. Il tipo sètta (presenta una struttura più propria di un gruppo piccolo; i rapporti e pertanto anche il controllo dei comportamenti sono prevalentemente interpersonali.

In secondo luogo, sul piano delle finalità religiose. Il tipo Chiesa persegue fini universali, che tendono a raggiungere tutti gli uomini, almeno quelli della società in cui si trova (chiese nazionali) e tutte le realtà. Il tipo sètta persegue fini più ristretti. Si rivolge, generalmente, ad un gruppo di eletti. Ritiene di essere incompatibile con certi tipi di realtà mondane.

In terzo luogo, sul piano dell'ordine sociale. Il tipo Chiesa si ritiene un elemento costitutivo dell'ordine in vigore. Pertanto, è solito mantenere relazioni anche con gli strati sociali superiori. Il tipo sètta si considera in conflitto con l'ordine sociale in vigore e ritiene incompatibili alcune sue realtà. Conseguentemente, ha rapporti preferibilmente con quegli strati sociali che in qualche modo non sono pienamente integrati in questo ordine sociale.

Da questo, deriva in quarto luogo, che, sul piano della vita spirituale, il tipo Chiesa, quantunque distinta dal mondo, conserva di fronte ad esso un atteggiamento sostanzialmente positivo. L'ordine mondano, rettamente usato, è un mezzo per raggiungere l'ordine trascendente dell'al di là. L'ascesi consiste nel regolare i rapporti individuo-mondo, riguardo a qualsiasi termine. Tutti sono in grado di praticarla. Il tipo sètta, invece, ha una visione negativa del mondo; i suoi fedeli sono orientati verso la vita soprannaturale mediante il rifiuto, poichè non esiste la possibilità di un retto uso di una parte dell'ordine sociale. L'ascesi è realizzata come una rinuncia al mondo dell'individuo eletto. Il compito della comunità della sètta consiste nel creare un ambiente di vita che permetta di mettere in pratica la propria dottrina.

Questo schema sociologico è stato estratto da una ovvia molteplicità di forme storiche. Le sètte hanno incarnato socialmente alcuni degli aspetti connessi con la problematica del fatto religioso. Come vivere la trascendenza in questo mondo? Le sètte mettono in risalto la santità soggettiva, mentre le chiese tendono ad oggettivare il concetto di grazia. L'accentuazione dei lineamenti porta le chiese ad adattarsi alla società, e le sètte al fanatismo.

Nelle società contemporanee, industriali o post-industriali, sottoposte inizialmente a processi secolarizzatori, c'è un'impressionante fioritura di sètte, anche culturalmente eterogenee, di tipo orientale, i cui proseliti sono nella maggioranza giovani. Alcune di queste sètte trovano un forte rifiuto sociale per il modo con cui preparano o programmano i loro seguaci. Il fenomeno odierno delle sètte supera le frontiere religiose per entrare in campi politici e sociali. Si può intendere ciò come una reazione di compenso all'anonimato e alla strumentalizzazione dei rapporti nelle nostre società urbane.

Bibl. - Cesnur, I nuovi movimenti religiosi. Sètte cristiane e nuovi culti, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1990. Introvigne M., Le nuove religioni, SugarCo, Milano, 1989. Labreque C., Le sètte e le gnosi, Ed. Ancora, Milano, 1987. Mayer J.F., Le nuove sètte, Ed. Marietti, Genova, 1987. Susbrack J., La nuova religiosità. Una sfida per i cristiani, Ed. Queriniana, Brescia, 1988. Terrin A.N., Nuove religioni. Alla ricerca della terra promessa, Ed. Morcelliana, Brescia, 1987.

J. Martínez Cortés

Settimana Santa. (inizio)

La Settimana Santa, chiamata anticamente, Settimana Maggiore, o Settimana Grande, è la settimana che commemora la passione di Cristo. È composta di due parti: la fine della Quaresima (dalla Domenica delle Palme al Mercoledì Santo) e il triduo pasquale (giovedì, venerdì e sabato-domenica). È il tempo della massima intensità liturgica di tutto l'anno. Incide profondamente nel cattolicesimo popolare, soprattutto con le processioni.

Nella Settimana Santa, si possono scoprire quattro strati corrispondenti ad epoche differenti:

1) la celebrazione sacramentale della notte pasquale col battesimo, la cresima e l'Eucaristia. Il triduo pasquale è sorto intorno alla celebrazione di quella notte. È il cosiddetto strato misterico.

2) Le rappresentazioni dei fatti storici, come si possono notare nella processione delle palme, nella lavanda dei piedi, nell'adorazione della croce il venerdì santo. È lo strato psicologico.

3) Lo svolgimento delle funzioni preparatorie che portano a costituirsi in celebrazioni che precedono le azioni a cui sono ordinate, come la benedizione delle palme, l'altare della riposizione del giovedì, la bene dizione degli olii sacramentali. Sono i riti preparatori.

4) La sovrapposizione di atti pii corrispondenti al cattolicesimo popolare, come le visite all'altare della reposizione, l'ora santa, la via crucis popolare, le processioni spettacolari, le rappresentazioni drammatiche, gli atti di fratellanza. È lo strato della religiosità popolare.

La settimana santa è inaugurata con la domenica della Palme, in cui si celebrano i due aspetti centrali del mistero pasquale: la vita, o il trionfo, mediante la processione delle palme, in onore di Cristo Re, e la morte, o sconfitta, mediante la lettura della passione corrispondente ai vangeli sinottici (quella di Giovanni è letta il venerdì Santo). A partire dal secolo V, si celebrava in Gerusalemme, con una processione, l'ingresso di Gesù nella Città Santa, poco prima di essere crocifisso. Da Gerusalemme, questa processione si diffuse in Oriente (secolo V) e in Occidente (secoli VI e VII). A causa dei due aspetti che questo giorno presenta, lo si chiama Domenica delle Palme (aspetto vittorioso) o Domenica di passione (aspetto doloroso).

La seconda parte della Settimana Santa è costituita dal triduo pasquale che commemora, giorno per giorno, gli ultimi eventi della vita di Gesù, svolti in tre giorni.

Bibl. - Andronikof C., Il senso della Pasqua nella liturgia bizantina, 2 voll., Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1986. Bergamini A., " Triduo pasquale ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 1534-1538. Cantalamessa R., La Pasqua della nostra salvezza, Ed. Marietti, Torino, 1971. Durwell F.X., La risurrezione di Gesù, mistero di salvezza, Ed. Paoline, 1969. Nocent A., Celebrare Gesù Cristo. L'anno liturgico, IV. Tempo pasquale, Ed. Cittadella, Assisi, 1977.

C. Floristán

Simbolo. (inizio)

Il concetto di simbolo è compreso in quello più generico di segno, che può essere definito come un mezzo di conoscenza indiretta, cioè, come una realtà che, nel venire conosciuta, porta a conoscerne un'altra. La realtà segno può essere un'azione, un oggetto, o una situazione.

All'interno della categoria del segno. Si possono distinguere i segnali e i simboli.

Il segnale è un segno di primo grado, o indicatore. Si fonda sulla associazione di due concreti, uniti da un nesso naturale (fumo-fuoco), o convenzionale (semaforo rosso-aspettare).

Il simbolo è un segno di secondo grado. Nell'antica Grecia, sým-bolon significava mettere insieme due frammenti di un oggetto, ognuno dei quali era posseduto da un individuo e gli serviva per farsi conoscere. Partendo da questa etimologia, il simbolo è caratterizzato come un segno che unisce due aspetti della realtà: uno, oggettivo; l'altro, soggettivo. La sua finalità è quella di formulare un'esperienza. Si potrebbe definire come la rappresentazione di una assenza, come la rappresentazione di qualcosa a cui non è possibile accedere per altra via. A seconda dell'esperienza formulata, il simbolo può evocare un ricordo (anàmnesi); può produrre un sollievo (catartico); può incarnare un'aspirazione (profetico); può rivelare una presenza (epifanico).

La costanza e la somiglianza dei simboli lungo i tempi e le culture mostra che il simbolo significante o elemento oggettivo non è arbitrario, ma corrisponde a certe configurazioni psichiche profonde, che sono anche fonti di energia. Pertanto questa energia non è libera, ma incorporata a forme da cui è vincolata. L'essenza del fattore creativo sta nel dare una formulazione a queste energie. Per questo, non basta l'attività consapevole, capace di un lavoro logico, ma che lascia sfuggire l'elemento decisivo dell'esperienza. Il cosciente fa formulare le esperienze radicate nell'inconscio. Così, il simbolo spunta da strati pre-discorsivi; questo fa sì che non può mai essere ridotto adeguatamente a concetti. Il concetto informa. Il simbolo, inoltre, richiama e configura emozioni. Desta risonanze che lo rendono continuamente suggeritore. Fa pensare, ma è un pensare investito di energie. Di qui, la sua radice numinosa.

Se si ammette un " inconscio collettivo ", ossia, se si ammettono configurazioni di esperienze comuni ad un collettivo umano, ad una cultura, e perfino a più culture, possiamo dire che i simboli fondati su queste immagini dell'inconscio collettivo esprimono l'interpretazione che questa cultura fa della realtà (archetipi culturali). Quanto più arcaica e profonda è l'immagine (nascere, morire, mangiare, bere, lavarsi, il sangue, il sesso) e tanto più universale sarà il suo significato.

Quando si esaurisce il contenuto, o si banalizza l'immagine di un simbolo, può scomparire dalla coscienza, o razionalizzarsi. In questo caso, perde il suo alone numinoso, cioè, la sua capacità di destare emozioni; passa dall'inconscio al cosciente collettivo come simbolo morto, inefficace. L'efficacia del simbolo, infatti, si radica sulla sua struttura duplice, come costellazione conoscitiva-affettiva, che si riferisce all'uomo tutto intero. Il simbolo è produttore di significato, col riunire (sym-bàllein) il cosciente e l'inconscio, il mondo esterno e quello interno dell'uomo. Per mezzo del simbolo, l'uomo non vive unicamente dentro la realtà circostante, come un semplice elemento della natura, ma anche in una dimensione di questa realtà, quella del suo significato.

Simboli sacramentali. Per comprendere i simboli sacramentali, conviene distinguere tra simboli vincolanti e svincolanti. Quando il simbolo porta ad un significato, e termina in esso, concentra l'energia in sé stesso (vincolante). Quando, invece, il simbolo si apre oltre ogni significato, libera energie (svincolante) che rimangono disponibili per un incontro con questo oltre; essi agiscono per richiamo e non per riferimento. Lasciano dietro di sé le immagini o le azioni che li costituiscono, verso una realtà superiore che si manifesta in essi; sono epifanici e rendono possibile un contatto. Producono un momento di vita lirica, senza una valutazione razionale, anteriore al pensiero e perfino al sentimento; così funzionano i simboli poetici, estetici e religiosi. Questo è l'obiettivo finale del simbolo sacramentale, cioè, varcare il proprio simbolo per arrivare all'esperienza del divino.

Quando questo, in modo abituale, non avviene, si pongono seri problemi pastorali e liturgici. Se un simbolo svincolante non riesce a compiere la sua funzione, vuol dire che non sono state poste le condizioni per la sua efficacia.

I simboli rituali sono necessari per l'espressione religiosa. Usano le parole, i gesti e le azioni su una materia concreta (pane, acqua). Con l'azione, il simbolo rituale esprime soprattutto il suo aspetto numinoso; con la parola, il suo aspetto luminoso o formulato. Di fatto, l'azione è ambigua, ha bisogno di essere specificata dalla parola per dirigersi in un determinato senso. Però, non basta una parola qualsiasi: anche la parola deve essere l'espressione di un'esperienza.

Nemmeno basta la parola da sola: l'azione ed il gesto le dànno corpo come mezzo di espressione numinosa. Ci sono zone di esperienza che non si possono tradurre adeguatamente con parole. Per esprimere più pienamente uno stato d'animo, l'uomo ha bisogno di fare uso del suo corpo.

Come avviene con tutti i simboli, nemmeno quelli rituali possono essere semplicemente appresi: devono affondare le loro radici nell'essere umano e nel suo rapporto col mondo. Perciò i simboli più efficaci sono quelli che corrispondono ad azioni o a gesti più naturali, da una parte; e traducono esperienze più universali, dall'altra. Non si può aspettarsi che il simbolo rituale sia psicologicamente efficace se non appartiene al mondo dell'individuo che ne fa uso. L'Eucaristia, per esempio, il cui simbolo primario è il pasto in comune come espressione di amicizia, è potenzialmente universale per la sua radice fisiologica e comunicativa. Non è così per altri simboli rituali che sono intelligibili solo nel contesto di una determinata cultura.

Pertanto i simboli rituali, per avere la loro capacità di espressione, non devono essere complicati, ma trasparenti ed elementari. Quando i simboli perdono il loro impatto, si tende a sovraccaricare il rituale, o lo si trasforma in cerimonie, cercando di colmare il vuoto con lo spettacolo e con la retorica. È un indicatore sociale della necessità di occupare il posto dell'esperienza assente.

Bibl. - Aa.Vv., Il segno nella liturgia, CAL, Roma, 1970. Eliade M., Trattato di storia delle religioni, Torino, 1966. Guardini R., I santi segni, Ed. Morcelliana, Brescia, 1964. Mateos J. - Barreto J., Il vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Ed. Cittadella, Assisi, 1982. Righetti M., Manuale di storia liturgica, 1, Ed. Ancora, Milano, 1964, pp. 57-74. Sartore D., " SegnoSimbolo ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 1370-1381. Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Ed. Paoline, Roma, , pp. 46-106.

J. Martínez Cortés

Sindacalismo. (inizio)

Alla fine del secolo scorso, i coniugi Beatrice e Sydney Webb definirono il sindacato come " una associazione pemanente di salariati che si propongono di difendere o di migliorare le condizioni del loro contratto di lavoro ". Pio XII affermò che " i sindacati sono sorti come una conseguenza spontanea e necessaria del capitalismo eretto a sistema economico " (Soyez les bienvenus, 3). Difatti, la loro ragione d'essere poggia sul fatto che una cosa sono i lavoratori ed un'altra sono i proprietari dei mezzi di produzione.

Le due principali tendenze esistenti oggi sono:

a) il sindacalismo riformista che, trascurando qualsiasi piano a lunga scadenza, ha come unico fine l'acquisto di benefici immediati e tangibili;

b) il sindacalismo di ispirazione marxista che propugna una distribuzione di competenze tra il sindacato ed il partito: il primo si preoccupa di migliorare le condizioni di lavoro e deve essere subordinato al secondo che si occupa delle trasformazioni strutturali.

La Chiesa difende il diritto che hanno i lavoratori di costituirsi in sindacati e di iscriversi liberamente ad essi. Però, mette in guardia contro il pericolo che si trasformino in un veicolo di egoismo collettivo in mano a gruppi dotati di una maggiore o minore capacità di rivendicazioni (cf GS 68; Mater et Magistra, 97-103; OA 14; Laborem exercens 20). Di fatto, oggi i sindacati sussistono e rappresentano gli interessi dei lavoratori fissi, ma non quelli dei lavoratori occasionali, clandestini, disoccupati, ecc., che sono sempre più numerosi.

Bibl. - Aa.Vv., Per una teologia del lavoro nell'epoca attuale, Ed. dehoniane, Bologna, 1985. C.E.I., Commissione per i problemi sociali e il lavoro, Il lavoro è per l'uomo. Occupazione, programmazione, partecipazione, Ed. AVE, Roma, 1984. Doni O.P., " Sindacalista ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1236- 1246. Galli G., I cattolici e il sindacato, Palazzi, Milano, 1969. Turone S., Storia del sindacato in Italia 1943-1980, Ed. Laterza, Bari.

L. González-Carvajal

Sinodo.

Il Sinodo dei vescovi, dice il Nuovo Codice di Diritto canonico, " è un'assemblea di Vescovi i quali, scelti dalle diverse regioni dell'orbe, si riuniscono in tempi determinati per favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi stessi, e per prestare aiuto con il loro consiglio al Romano Pontefice nella salvaguardia e nell'incremento della fede e dei costumi, nell'osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica e inoltre per studiare i problemi riguardanti l'attività della Chiesa nel mondo " (CIC c. 342).

In un senso generale, il Sinodo è la riunione di rappresentanti qualificati di una Chiesa o di varie per mettere in comune le esperienze e i problemi e trovare soluzioni comuni.

Il fenomeno sinodale è apparso già nel secolo II e si è diffuso in tutta la Chiesa nel secolo III e nel secolo IV. In questo modo, la Chiesa appare come una comunione di Chiese locali , mentre si riflette sulla fede e si denunciano le deviazioni. Evidentemente, ci sono tanti modelli di sinodi, sia in Occidente che in Oriente. La parola sýnodos è sinonimo della parola concilio. In realtà, il sinodo è un momento centrale di una Chiesa (diocesana, regionale o nazionale) per deliberare, prendere decisioni riguardanti il futuro, scegliere dei responsabili, manifestare la sua unità, celebrare la sua comunione con tutta la Chiesa universale. La sinodalità è, insieme alla collegialità e alla conciliarità, un'espressione fondamentale della comunione cristiana.

Tanto le Chiese orientali quanto quelle sorte dalla Riforma hanno un'organizzazione sinodale. Invece, non appare così chiara la sinodalità nella Chiesa latina a causa della prevalenza del papato. Certamente, il Codice del 19171918 aveva dedicato un capitolo ai " concili plenari e provinciali " ed un altro al " sinodo diocesano ". Però, queste assemblee avevano una scarsa importanza pastorale. Si può dire che il Vaticano II ha rivalorizzato il principio sinodale all'interno della Chiesa (LG 22), specialmente creando il Sinodo dei vescovi con queste parole: " Una più efficace collaborazione al Supremo Pastore della Chiesa la possono prestare, nei modi dallo stesso Romano Pontefice stabiliti o da stabilirsi, i Vescovi scelti da diverse regioni del mondo, riuniti nel Consiglio propriamente chiamato Sinodo dei Vescovi: Sinodo che, rappresentando tutto l'Episcopato cattolico, dimostra che tutti i Vescovi sono partecipi, in gerarchica comunione, della sollecitudine della Chiesa universale " (CD 5). Si è inteso così che il Concilio venisse prolungato in una specie di sinodo permanente come " segno di collegialità ". Paolo VI, col " motu proprio " Apostolica sollicitudo (15.9.1965) diede al Sinodo dei Vescovi un carattere puramente consultivo. Da allora, il Sinodo si è riunito varie volte, ha trattato temi importanti ed ha emesso alcuni documenti di rilievo. Però, il modo di governo papale non ha subìto grandi modifiche.

Bibl. - Corecco E., " Sinodalità ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B. , pp. 1466-1495. Evdokimov P., L'Ortodossia, Ed. Il Mulino, Bologna. Feliciani G., Le conferenze episcopali, Bologna, 1974. Mortari L., Consacrazione Episcopale e collegialità, Firenze, 1969. Peri V., I concili e le Chiese, Roma, 1965.

C. Floristán

Socialismo. (inizio)

Col termine socialismo, si intendono i sistemi economici basati sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) chiamarono utopisti tutti i socialisti che li avevano preceduti. Infatti, dopo aver fatto un'analisi critica del mondo reale, erano passati direttamente quella dell'utopia, senza stabilire con precisione i procedimenti che, nella pratica, in grado di giungere ad essa. Di fatto, sembravano supporre che fosse sufficiente la persuasione affinché la società assecondasse i loro progetti. Tra questi primi socialisti, vanno ricordati: Saint-Simon, Blanc, Fourier e Owen.

Marx e Engels rivendicarono per il loro socialismo l'aggettivo scientifico, perché intendevano elaborare una scienza esatta della società capace di fornire una guida sicura per l'azione rivoluzionaria. La loro analisi del capitalismo li portò alla conclusione che una serie di contraddizioni interne avrebbero prodotto, dopo varie crisi cicliche, una crisi generale. Giunto questo momento, e non prima, ci sarebbero state le condizioni oggettive affinché il proletariato prendesse il potere. Il suo primo compito sarebbe stato quello di stabilire la società socialista, basata sulla proprietà di Stato dei mezzi di produzione, sulla programmazione dell'economia e sulla dittatura del proletariato. Però, questa situazione sarà solo una fase di transizione, con una finalità educativa, verso la società comunista. Si arriverà ad essa quando il popolo sarà sufficientemente maturo da rendere non necessaria la coazione. Allora, non solo scomparirà la dittatura del proletariato, ma scomparirà anche lo Stato  inteso come strumento di potere a servizio della classe dominante  perché, non esistendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, scomparirà la divisione della società in classi antagoniste. " La società, scrive Engels, riorganizzando in modo nuovo la produzione sulla base di un'associazione libera di produttori uguali, manderà tutto l'apparato dello Stato al luogo che allora dovrà essere il suo: al museo delle antichità, assieme agli strumenti antiquati ". Nella società comunista, oltre alla socializzazione dei mezzi di produzione, sarà possibile socializzare anche i frutti della produzione. Seconda una frase famosa di Marx, " la società potrà scrivere sulle sue bandiere: da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo le sue necessità ".

Si è discusso molto sui mezzi che avrebbero permesso al proletariato di prendere il potere e di instaurare la società socialista. Sembra che Marx abbia pensato alla rivoluzione violenta come al cammino normale ( "la violenza, scrisse, è l'ostetrica di ogni società vecchia che porta nelle sue viscere una società nuova "). Ciò nonostante, appartiene all'essenza stessa del marxismo la massima parsimonia nell'uso dei mezzi violenti. Per questo, la rivoluzione deve aspettare che sia giunta la crisi generale del sistema capitalista. Ad ogni modo,in un discorso pronunciato ad Amsterdam il 15 Settembre 1872, quando cominciava a diffondersi il suffragio universale, Marx ammise che in paesi come gli Stati Uniti, l'Inghiliterra ed anche l'Olanda, se i lavoratori conoscessero meglio le loro istituzioni, potrebbero raggiungere i loro obiettivi con mezzi pacifici. Ben presto, la polemica sulla concezione del socialismo e sul modo di costruirlo divise i vari movimenti sociali di matrice marxista. Bernstein, che fu tacciato di " revisionismo " da Kautsky, sostenne la via democratica per il socialismo e la rinuncia alla dittatura del proletariato. La divisione fu consumata dopo la rivoluzione russa del 1917: coloro che respinsero il modello russo entrarono nei partiti socialisti; coloro che lo approvarono si separarono da essi per fondare verso il 1920-1921, i partiti comunisti. Cinquant'anni dopo, vari partiti comunisti, tra cui quello spagnolo, optarono anche per la via democratica verso il socialismo, dando origine al fenomeno chiamato " euro-comunismo ". Il fatto è che, fin dai tempi di Marx, il movimento socialista ha seguito un'evoluzione storica così varia che non sembra possibile la sua unificazione teorica e pratica.

Conseguentemente, la valutazione cristiana del socialismo e del marxismo non può essere indiscriminata. Di fatto, la dottrina sociale della Chiesa ha fatto sempre più delle distinzioni. Leone XIII, nel 1878, ha parlato indistintamente di " socialisti, comunisti e nichilisti ", perché allora non era affatto chiara la differenziazione di questi termini. Pio XI, nel 1931, era consapevole che era già avvenuta una separazione tra socialisti e comunisti; diede perciò di entrambi una valutazione distinta (Quadragesimo Anno 111-126). Nel 1971, Paolo VI distinse anche differenti livelli all'interno del socialismo e del marxismo (Octogesima adveniens, 30-34). Tra i marxisti di oggi, infatti, ci sono quelli che accettano in blocco la visione marxista del mondo, compreso l'ateismo, e quelli che, consapevoli dei limiti di questa visione, cercano di utilizzare soltanto il suo metodo di analisi. Il socialismo realmente esistente nei paesi comunisti ha avuto da Giovanni Paolo II un giudizio negativo alla pari del capitalismo (Laborem exercens 7 e 14). Invece, riguardo al socialismo inglese (laburismo), già nel 1931, la Santa Sede aveva dichiarato che non cadeva sotto le critiche date dalla Quadragesimo Anno circa il socialismo in genere. Così, dunque, non si intende qui dare un giudizio unico sul socialismo né sul marxismo.

Bibl. - Aubry J., L'ateismo oggi, Ed. SEI, Torino, 1968, pp. 27-39. Bellerate B.A., " Marxismo pedagogico ", in: Dizionario di Scienze dell'Educazione, Elle Di CI, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 648-653. Coffy R., Dio degli atei. Marx, Sartre, Camus, Ed. Paoline, Modena, 1967. Girardi G., Marxismo e Cristianesimo, Ed. Cittadella, Assisi, . Salvadori L.M., La parabola del comunismo, Ed. Laterza, Bari, 1995.

L. González-Carvajal

Società. (inizio)

L'antropologo Ralph Linton ha definito la società come " ogni gruppo di gente che ha vissuto e lavorato insieme tutto il tempo sufficiente per organizzarsi e considerarsi come una unità sociale, con limiti ben definiti rispetto agli altri gruppi ". Questa definizione abbraccia i gruppi primari uniti; da vincoli di affetto, fino alle società nazionali che servono di base allo Stato.

Al di là di tutte le differenze, possiamo affermare che qualsiasi società è un sistema di inter-azione in cui tutti dipendono da tutti. Ogni individuo ha ricevuto una posizione determinata chiamata status (padre o figlio, impresario o operaio, ecc.), a cui corrispondono determinate aspettative di comportamento conosciute come ruoli (obbedienza da parte dei figli, spirito imprenditore negli impresari, ecc.).

Tutte le società dispongono di mezzi di controllo sociale per mettere in sintonia col loro ruolo i membri che sgarrano. Il mezzo di controllo più antico è la violenza fisica. Di fatto, nelle società governate democraticamente, questa è l'ultimo mezzo. Altri mezzi di controllo sociale sono la pressione economica, la necessità psicologica di essere accettati, la morale, le usanze, ecc.

Se esistessero soltanto mezzi di controllo sociale esterni all'individuo, come quelli che abbiamo appena ricordato, la società sarebbe una prigione gigantesca in cui tutti saremmo costretti a fare quello che non vogliamo. Tuttavia, l'esperienza dice che il giogo della società risulta gradito alla maggioranza degli uomini, perché quasi sempre desiderano quello che la società si attende da loro. La società, infatti, prima di modellare il comportamento degli individui, ha provveduto a modellare il loro pensiero.

Si chiama socializzazione il processo col quale un fanciullo impara ad essere un membro bene integrato della società. La maggiore efficacia della socializzazione è ottenuta quando la cultura propria di una determinata società appare ai suoi membri del tutto " naturale ", cioè, normale, inevitabile e inerente a tutta l'umanità. Gehlen ritiene che la cultura interiorizzata di questa forma sia uno strumento regolatore che canalizza le azioni umane in forma molto simile alla maniera con cui gli istinti canalizzano il comportamento animale.

Vediamo, dunque, che non solo gli uomini creano la società e la conservano compiendo fedelmente i ruoli che sono stati loro assegnati, ma anche la società crea gli uomini. La società, oltre a determinare il nostro modo di pensare e di agire, ci conferisce la nostra identità. Per arrivare ad essere umani, è necessario che gli altri ci trattino come esseri umani: l'uomo che è rispettato riesce a rispettare se stesso; colui che è disprezzato finisce per disprezzare se stesso, ecc. Cooley esprimeva questa idea col famoso esempio del proprio io come un riflesso nello specchio degli altri. Peter Berger dice plasticamente che " la dignità umana è questione di autorizzazione sociale ". Un individuo isolato o è una finzione filosofica (il " buon selvaggio " di Rousseau), o è un tragico incidente (i fanciulli-lupi di Midnapore).

Bibl. - Ardigò A., Crisi di governabilità e mondi vitali, Ed. Cappelli, Bologna, 1980. Crespi F., Le vie della sociologia, Ed. Il Mulino, Bologna, 1985. Fichter J.H., Sociologia, struttura e funzioni sociali, Onarmo, Roma, 1969. Orlando V., " Società ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Ed. Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 1031-1032. Rusconi G.H., La teoria analitica della soicietà, Ed. Il Mulino, Bologna, 1968. Tonnies F., Comunità e società, Ed. Comunità, Milano, 1963. Touraine A., La produzione della società, Ed. Il Mulino, Bologna, 1975.

L. González-Carvajal

Società dei consumi. (inizio)

I primi tempi del capitalismo furono sotto il segno del risparmio, perché era necessario accumulare grandi capitali per acquistare il macchinario industriale. Le imprese risparmiavano pagando salari miseri ai lavoratori; inoltre, si crearono allora le prime Casse di Risparmio per prendere il denaro dei privati. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nei paesi più avanzat, la strategia cambiò. Andava aumentando molto la produttività dell'industria, ma non erano aumentati sufficientemente i salari; così, c'era il pericolo di una paralisi della produzione per mancanza di capacità di acquisto da parte del popolo. D'altra parte, lo stesso aumento della produttività permetteva alle imprese di pagare meglio i lavoratori, e nonostante ciò, di autofinanziarsi senza dover ricorrere molto al capitale esterno. Così, dunque, per ragioni estrinsecamente economiche, optarono per rimunerare sempre meglio gli operai. Come diceva Henry Ford: " Preferisco pagare bene i miei operai affinché possano comperare le mie macchine ". In questa nuova fase del capitalismo, quello che si attende dai cittadini non è che siano grandi risparmiatori, ma grandi consumatori. Se prima le Casse di Risparmio invitavano a non spendere tutto il denaro guadagnato, oggi le vendite a rate invitano a spendere anche il denaro che non si è ancora guadagnato.

A servizio della nuova strategia, apparvero presto i " tecnici in obsolescenza ", cioè, i professionisti che studiano il modo di fabbricare oggetti di breve durata, materiali di durata limitata, con scarsità o mancanza di pezzi di ricambio per riparare gli oggetti usati, cambiamento frequente di modelli e di mode affinché cessino di essere attraenti certi beni che sono ancora in buone condizioni, ecc. È apparso anche un nuovo stile pubblicitario che certa di suscitare necessità discutibili e, pertanto, si rivolge alla sensibilità più che alla ragione: messaggi brevi, semplici ed influenti che vengono ripetuti con insistenza. Si fa uso di vari miti (quello della bianchezza, la natura, il sesso, ecc.), senza sosta, nemmeno di fronte alla pubblicità subliminale.

È chiaro che nelle società di forti consumi di massa, è migliorato il livello di vita della popolazione, ma non è altrettanto chiaro che sia migliorata la qualità della vita. Di fatto, sono sorti non pochi effetti indesiderabili:

a) l'ansia, perché la creazione di nuove necessità avviene sempre con la sazietà di quelle precedenti, e così spunta una nuova varietà della specie umana: il consumatore che non è mai soddisfatto;

b) gli antagonismi, perché, quando tutti hanno bisogno di avere di più, tutti sono nemici di tutti;

c) il conformismo, perché anche i valori più nobili finiscono per essere sacrificati alla necessità di avere sempre di più;

d) l'idolatria, perché il denaro si trasforma in un analogo funzionale di Dio. Come scriveva Lutero: " Dio è Colui dal quale dobbiamo sperare tutti i beni e nel quale dobbiamo cercare rifugio in tutte le necessità. Così, dunque, ciò in cui tu metti il tuo cuore, questi sarà propriamente il tuo Dio ".

Infine, è necessario ricordare il problema etico: i privilegiati della società dei consumi rappresentano una piccola parte dell'umanità di fronte alla miseria del terzo Mondo e perfino di fronte alla povertà di vasti settori della stessa società dei consumi.

Bibl. - Baudrillard G., La società dei consumi, Ed. Il Mulino, Bologna, 1976. Dobb M., Economia politica e capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1972. Duesenberry J.S., Reddito, risparmio e teoria del comportamento del consumatore, Etas Kompas, Milano, 1969. Fabris G., Il comportamento del consumatore, Angeli, Milano, 1972. Hirsch F., I limiti sociali dello sviluppo, Ed. Bompiani, Milano, 1981. Mion R., " Consumismo ", in: Dizionario di Scienze dell'Educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, p. 232. Veblent T., La teoria della classe agiata, Ed. Einaudi, Torino, 1949.

L. González-Carvajal

Sociologia della religione. (inizio)

La sociologia della religione è quella parte della sociologia (sottodisciplina) che prende per oggetto la religione e i suoi rapporti con la società. Prima dell'intervento sociologico, la religione era stata oggetto di discipline come la teologia e la filosofia. Col crescere del positivismo (e col decadere dell'idealismo filosofico), sorse l'aspirazione di elaborare una scienza della religione. Ciò avvenne nel secolo XIX. Questa scienza ha ereditato aspetti, positivi e negativi, dell'Illuminismo e del Romanticismo. L'Illuminismo le ha dato alcune caratteristiche sistematiche di stampo filosofico; il Romanticismo, l'attenzione ai fattori storici e linguistici oltre all'accentuazione del sentimento.

Accanto all'attenzione ai fatti religiosi (positivismo), permangono dunque, nella scienza della religione, elementi clandestini dell'idealismo. Uno di essi è il desiderio di spiegare la religione attuale in termini evoluzionisti: l'umanità sarebbe in un processo di maturazione spirituale. Secondo questo processo, la religione sarebbe una tappa della storia della cultura, destinata ad essere superata da altre tappe successive (non religiose). Così, la " legge dei tre stadi " di A. Comte (1798-1857): la storia dell'umanità si svolge secondo questi stadi della ragione umana: il religioso, il metafisico, il positivismo o stadio scientifico. Però, a sua volta, la religione ha seguito anch'essa una linea evolutiva: il totemismo, l'animismo (le teorie linguistiche le quali " spiegano "), il politeismo, ed infine il monoteismo. Perciò è di grande interesse conoscere la religione più primitiva, poiché a partire da essa si pensa di poter stabilire le varie tappe che la religione ha attraversato e giungere ad esse in maniera puramente empirica, di modo che dai dati possiamo dedurre le leggi del comportamento umano. Si cerca accanitamente una definizione minima del dato religioso: per esempio, quella di Tylor ( "credenza in esseri spirituali "). Frazer, nella sua opera Il ramo dorato (1890) compone uno schema evoluzionista ternario: magìa- religione-scienza. La religione, secondo lui, è sorta quando l'uomo si rese conto della sua incapacità di dominare la realtà mediante la magìa. La teoria opposta, che intende spiegare la pluralità delle religioni con un movimento degenerativo a partire da una primitiva e vera religione primordiale, può essere inclusa anch'essa in uno schema evoluzionista, ma di tipo pessimista (Graebner: 1877-1934 e Schmidt: 1868-1954).

In questo contesto di una scienza della religione, le teorie sociologiche cercano soprattutto di determinare la funzione della religione nella società e i rapporti che essa mantiene con le altre istituzioni sociali. Fustel de Coulanges nel suo libro La città antica (1864) fece un'indagine comparativa (il mondo indù, quello greco e quello romano) sulle idee che furono efficaci per configurare queste società primitive e giunse alla conclusione che la religione esercitava una funzione domestica e integratrice, che diede origine in Occidente alla famiglia patrilineare. Robertson Smith studiò le società semite (1889) che, secondo lui, hanno la caratteristica di stabilire l'identità del gruppo partendo dall'identità religiosa. Egli sottolineò l'importanza dell'aspetto rituale (totemico) della religione, destinato a legittimare e a rafforzare l'integrazione collettiva. Questo influì in modo notevole su Durkheim, la cui opera Le forme elementari della vita religiosa (1912) costituisce uno dei punti più importanti nello studio della religione. La contrapposizione sacroprotano esprimerebbe la dualità del sociale e dell'individuale, perché nella divinità si manifesterebbe " la società trasfigurata e pensata simbolicamente ". Si costituisce così una coscienza collettiva, capace di superare l'egoismo individuale, di agglutinare il gruppo, di modellare i comportamenti secondo idee etico-sociali, e di legittimare l'autorità che controlla e sanziona.

Sebbene questa tesi sia stata abbandonata, essa tuttavia ha fornito nozioni decisive circa il nesso tra le convinzioni religiose ed il complesso di norme e di valori morali di una società. Max Weber (1864-1920) studiò a fondo questi nessi. Cercò di dimostrare che gli orientamenti fondamentali creati dal calvinismo ebbero un ruolo decisivo nello sviluppo dello " spirito del capitalismo ", cioè, nello stabilire i moderni atteggiamenti economici. Egli appoggiò questa tesi (che diede origine ad una discussione senza fine) con un'analisi comparativa dei rapporti esistenti tra la religione e la struttura sociale in India, in Cina e nell'antico Israele. Le sue conclusioni possono essere riassunte così:

a) ogni religione possiede una metafisica (teologia) che implica un atteggiamento differente di fronte al mondo e alle realtà profane;

b) dalla metafisica di ogni religione deriva un'etica differenziata che motiva l'azione profana in un modo distinto;

c) pertanto la religione è uno dei fattori principali di differenziazione sociale.

Un'altra funzione sociale della religione va connessa col fatto che in tutte le culture, ci sono sempre delle frustrazioni riguardo a speranze normative (la ricompensa del giusto) ed emozionalmente dense. Per evitare una disintegrazione sociale e personale (anomia), certi problemi, come quello della sofferenza senza senso e del trionfo del male, dovranno essere interpretati mediante una teodicea (giustificazione della divinità) che confermi le aspettative deluse, calmi l'ansia emozionale e dia un senso alla sofferenza.

In questo modo, già nei classici della sociologia (Durkheim e Weber) sono poste le basi per la concezione funzionalista della religione che sarà sviluppata in seguito (Parsons, Luckmann). In essa, affiorano, in modo paradigmatico, le limitazioni e le difficoltà metodologiche per affrontare un fatto della complessità del fattore religioso. Nella sua versione più radicale, il funzionalismo ritiene che la concezione della religione, viste le profonde divergenze che separano le sue forme storiche, non va dedotta da quello che le religioni dicono di essere (definizione sostantivista), ma dagli effetti che esse producono nelle società e nelle persone (definizione funzionale). Questa definizione esprimerebbe gli elementi che, appunto perché sorti e rimasti nella storia, sono ritenuti funzionali. Il fatto religioso si trasforma, così, in un dato antropologico, e, al di là delle varianti istituzionali, le religioni permangono nelle società moderne in forme nuove, ma private e personali, rivestendo addirittura forme' puramente secolari (equivalenti funzionali del dato religioso). È chiaro che in questa concezione, il religioso perde la sua specificità. Assieme ad essa, e alle volte combinandosi, ci può essere la tendenza ad una sociologia fenomenologica della religione che cerca una definizione sostantiva. In contrapposizione, si colloca una scuola marxista che fa proprio il giudizio sommario di Marx: la religione non è altro che una forma ideologica di alienazione. Questo tipo di problematica viene affrontato con un certo bagaglio di informazioni sociologiche. Però, prescindendo dai metodi propri dell'indagine positivista, può sfociare in una pura costruzione ideologica.

Complessivamente, l'apporto sociologico ha contribuito a funzionalizzare la religione. Però, a parte il fatto di arricchire in questo modo e criticare certi aspetti nascosti, ha anche posto il grave problema dell'identità della religione.

Bibl.- Acquaviva S. - Pace E., Sociologia delle religioni, Problemi e prospettive, NIS, Roma, 1992. Bajzek J., " Sociologia della religione ", in: Dizionario di Scienze dell'Educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 1033-1035. Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, Ed. Comunità, Milano, 1963. Milanesi G., Sociologia religiosa, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), . Simmel G., Saggi di sociologia della religione, Ed. Borla, Roma, 1993.

J. Martínez Cortés

Solidarietà. (inizio)

La solidarietà è un atteggiamento ed un valore per i quali una persona od un gruppo si sente unito e legato da interessi e ideali comuni.

In termini morali, parlare di solidarietà implica il fatto di mettere in rilievo la dimensione collettiva della responsabilità umana: ogni membro di un gruppo è partecipe della responsabilità di tutto il gruppo, e viceversa, il gruppo è, in qualche modo, responsabile di ogni membro.

Il Concilio Vaticano II assunse e propugnò decisamente un'etica ed un'azione pastorale di carattere solidale destinata a superare quelle di carattere più individualista del passato.

La tradizione cristiana porta l'esigenza biblica della solidarietà abbastanza oltre alla semplice filantropia: la prima esigenza della solidarietà è per il povero, per i più bisognosi e meno protetti nel popolo.

La comunità ideale è la comunità solidale dove nessun membro soffre per qualche necessità, perché tutti condividono i beni. In questo modo, si rende effettiva l'ipoteca sociale che grava su ogni proprietà privata. In ultima analisi, il giudizio finale verterà sull'amore solidale che mette in evidenza una fede capace di riconoscere il volto di Cristo nel fratello.

In questo modo, la pastorale della Chiesa s. forza di fomentare la solidarietà cristiana tra tutti i membri della comunità e la solidarietà coi poveri come segno del Regno.

Bibl. - Bausola A. ed altri, La solidarietà, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1990. Giovanni Paolo II II, Enciclica " La sollecitudine sociale della Chiesa, 30.12.1987. Nanni C. (ed.), Intolleranza, pregiudizio e educazione alla solidarietà, LAS, Roma, 1991. Piana G., " Solidarietà ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1263- 1271. Toso M. (ed.), Solidarietà, nuovo nome della pace, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1988.

F. Moreno Rejón

Speranza. (inizio)

Charles Péguy scriveva nella sua opera La porta del mistero della speranza: " La fede che io preferisco, dice Dio, è la speranza. Con queste parole, il poeta interpretava in maniera esatta l'esortazione della prima Lettera di Pietro ai cristiani del suo tempo: " Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi " (1 Pt 3,15).

La speranza, che fu relegata per secoli su un piano marginale nel cristianesimo e fu intesa come virtù passiva e rassegnata, ha ricuperato in questi ultimi decenni la sua centralità e la sua dimensione attiva, ed ha ricevuto un nuovo impulso.

La speranza non è un vago sentimento psicologico, né un semplice movimento dell'animo occasionale: la speranza affonda le sue radici nella realtà umana e nella realtà in genere. Si tratta, come ha dimostrato Bloch, di una determinazione fondamentale o di un principio della realtà oggettiva presente da sempre nel processo del mondo, nel movimento della materia e nella storia dell'umanità. La speranza è inserita universalmente nel cuore dell'uomo; essa è per l'esistenza umana ciò che l'ossigeno è per i polmoni. Se manca, l'uomo si vede votato al non-senso e va alla deriva. La vera morte avviene, non quando cessa di battere il cuore, ma quando si spegne la speranza. Ogni uomo vive in quanto aspira e progetta, in quanto tende verso il futuro, in cerca del " regno dell'identità " (Marx), o della " patria " (Bloch).

La dimensione prioritaria della speranza si fa presente nella sorte individuale dell'uomo, nella sorte comune dell'umanità e nella sorte della storia e del cosmo.

L'uomo, come essere storico, è aperto al futuro; non gli basta continuare a vivere alla cieca, ma ha bisogno di interrogarsi sul senso della vita e di fissarsi alcuni obiettivi, un orizzonte, una mèta ragionevole, e consapevole. Deve affrontare per questo il rischio dell'illusione. È necessaria perciò la guida del giudizio per dare lucidità all'impulso vitale. Dunque, come afferma Bloch, " la ragione non può fiorire senza la speranza e la speranza non può fiorire senza la ragione ". Solo così, essa diventa la docta spes, una speranza intelligente, conscia delle sue possibilità e del suo rischio di frustrazione.

Se Bloch innalza la speranza a principio filosofico, Moltmann fa di essa il principio teologico per eccellenza. Se, fino a tempo fa, la speranza appariva nel dogma e nella morale come una virtù, adesso diventa una categoria fondamentale della teologia. La speranza non è un semplice frammento terminale del pensiero credente: è il suo fondamento radicale ed il suo motivo sempre operante, il principio arcimediano e la molla del pensiero teologico.

Moltmann re-interpreta e prolunga il principio anselmiano fides quaerens intellectum  credo ut intelligam, così determinante per la teologia a partire dal secolo XI, in quest'altro non meno determinante: spes quaerens intellectum  spero ut intelligam. Questo principio costituisce il punto di partenza dell'escatologia, che cessa di essere vista come la dottrina delle cose ultime, per essere intesa come la " dottrina circa la speranza cristiana ". L'escatologia è, secondo la nuova impostazione, speranza, prospettiva e orientamento verso il futuro, e, pertanto, apertura e trasformazione del presente.

La speranza è " la compagna inseparabile della fede "; sostiene e spinge la fede verso l'avanti e verso il pensiero della fede; stimola un pensare anticipatore e un operare creatore.

La speranza costituisce uno dei nervi più profondi della religione giudeo-cristiana. Tutta la Bibbia si presenta come una memoria (anàmnesis) pericolosa e sovversiva della promessa di Dio e della speranza dei poveri in risposta a questa promessa, come una testimonianza della speranza di Dio e di Gesù. Il Dio che si rivela e si comunica all'uomo è il Dio della speranza (Rm 15,13), un Dio che, secondo una felice espressione di Bloch, ha " il futuro come carattere costitutivo ", un Dio davanti a noi, un Dio che non possiamo " catturare ", un Dio non fatto sulla misura dei nostri desideri e delle nostre necessità, un Dio che non si esaurisce in nessuna realtà storica, ma che trascende tutto, indicando sempre il futuro assoluto. La promessa di Dio va oltre ogni forma di compimento.

La speranza cristiana ha il suo sostegno nella speranza di Gesù, che annunciò il Regno di Dio in un ambiente ostile e di fronte all'incomprensione di tutti. Egli sperò attivamente nella promessa di Dio in mezzo all'oscurità della nostra storia e dell'abbandono del Padre. Questa speranza contro ogni speranza lo portò a lottare contro i poteri stabiliti, sia religiosi che civili, che opponevano resistenza alla venuta del Regno di giustizia, di uguaglianza e di pace da Lui proclamato e vissuto in anticipo nella sua morte e risurrezione. In questa lotta, Gesù sperimentò quanto sia difficile cambiare gli atteggiamenti della gente, le strutture ambientali e, in ultima analisi, la vita stessa, ma non cadde nel fatalismo. Il motivo ultimo della speranza di Gesù è la fedeltà di Dio alle sue promesse.

Alla luce dell'atteggiamento pieno di speranza di Gesù, possiamo considerare la speranza cristiana:

a) come un rischio: quindi l'atto di sperare implica un momento di oscurità, di non-sapere, di sconcerto ( "Abramo... partì senza sapere dove andava ": Eb 11,8);

b) come la negazione del presente e come resistenza a patteggiare con la realtà così come ci è data, come protesta contro il mondo ingiusto che impedisce la realizzazione dei valori del Regno. Si tratta di sperare nonostante la morte e come smentita della morte (P. Ricoeur);

c) come immaginazione creatrice di un mondo nuovo.

La speranza cristiana è caratterizzata dalla sua triplice dimensione: personale: ha come mèta la salvezza integrale della persona; comunitaria: tende alla salvezza di tutta la comunità umana; cosmica: come afferma san Paolo, l'intero creato nutre la speranza di venire liberato dalla schiavitù (cf Rm 8,19 ss).

Bibl. - Alfaro J., Speranza cristiana e liberazione dell'uomo, Ed. Queriniana, Brescia, 1972. Angelini G., " Speranza ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1508-1533. Boros L., Vivere nella speranza, Ed. Queriniana, Brescia, 1969. Mancini I., Teologia, ideologia, utopia, Brescia, 1974. Moltmann J., Teologia della speranza, Ed. Queriniana, Brescia, 1970. Rahner K., Sulla teologia della speranza, in: Nuovi Saggi, III, Ed. Paoline, Roma, 1969, pp. 627-652. Schillebeecks E., Dio il futuro dell'uomo, Ed. Paoline, Roma, .

J.J. Tamayo

Spirito Santo. (inizio)

Spirito di Dio è un'espressione che, nell'AT, indica la potenza attiva di Dio, il suo principio vitale: appare nel racconto della creazione, aleggiando sulle acque da cui sorge la vita; muove e ispira i profeti e gli uomini scelti del popolo di Dio. Non è possibile trovare una personificazione di questo Spirito in tutto l'AT, se non analogicamente. Nei vangeli, è avviata questa personificazione: lo Spirito si manifesta fin dall'inizio della vita pubblica di Gesù (Marco),è presente nella sua concezione (Matteo e Luca); è presentato come paraclito o protettore, che Cristo ci ha meritato con la sua pasqua, che ci divinizza e inaugura gli ultimi tempi (Giovanni). Siccome è mandato dal Padre e dal Figlio, sappiamo che procede da Dio. La simbologia con cui è presentato intende esprimere la sua azione: la colomba (apparsa nel battesimo) significa la costituzione del nuovo popolo di Dio; il vento, la forza; le lingue di fuoco, l'ispirazione dei testimoni.

Partendo da questa dottrina biblica, la prima dogmatica cristiana sviluppò rapidamente la piena comprensione dello Spirito Santo come persona o ipostasi divina (concili di Nicea e concilio costantinopolitano I, rispettivamente nel 325 e nel 381). Per quanto si riferisce alla sua natura e al suo rapporto col Padre e col Figlio, la riflessione teologica diede delle spiegazioni che provocarono dissensi più o meno gravi. Mentre la formula classica orientale diceva che lo Spirito Santo procede dal Padre attraverso il Figlio, l'Occidente affermò che procede dal Padre e dal Figlio. Questa formula diede origine alla controversia del Filioque, parola aggiunta nel Credo.

In sintonia con la visuale biblica, tutte le confessioni di fede cristiana, anche le più antiche, presentano lo Spirito Santo in connessione diretta con la sua azione nella storia e nella Chiesa. Egli, che intervenne nell'incarnazione del Verbo, dà coesione alla comunità dei credenti in Cristo e fa sì che i ministeri e i sacramenti di questa comunità siano salvifici. Il compito dello Spirito Santo consiste soprattutto nell'attualizzare dinamicamente e all'interno delle persone, attraverso lo spazio e il tempo, quello che Cristo ha compiuto una volta per sempre.

Lo Spirito Santo è lo spirito della comunicazione di Dio e della ricapitolazione verso di Lui. Lo Spirito Santo crea tutto ciò che è autenticamente originale, libero e vivente, delicato e forte ad un tempo: il mistero dell'amore. È lo spirito della grazia che, partendo dalla glorificazione di Cristo, rinnova i credenti. Questi, per una attrazione interiore, diventano figli liberi di Dio, capaci di rivolgersi a Lui chiamandolo Padre. Maturano, grazie ai frutti dello Spirito Santo (carità, letizia, pace, pazienza...), superando l'uomo vecchio che, secondo san Paolo, è schiavo degli idoli di questo mondo (peccato, legge, denaro...). Tuttavia, lo Spirito Santo è il dono proprio degli ultimi tempi. Egli è il principio della nuova creazione. Questa è solo inaugurata, ma con un dinamismo sempre attivo, tende ad una pienezza escatologica. La Chiesa è il cammino escatologico, dove " normalmente ", lo Spirito è non solo promesso, ma dato, e vive in manifestazioni molteplici (gerarchia, carismi). Però, la Chiesa non possiede il monopolio dello Spirito Santo.

Differente sviluppo teologico sullo Spirito, molto vivo tra i pensatori greci e latini, ha portato questi ultimi a ridurre le loro riflessioni sull'analisi del compito dello Spirito Santo all'interno della Trinità, considerata in se stessa. Non hanno, invece, approfondito la missione propria ed originale dello Spirito Santo nella storia. La teologia orientale, invece, più portata verso una pneumatologia attiva, ha svolto una serie di temi, fra cui quello della divinizzazione e quello dell'azione dello Spirito Santo nei sacramenti. I sacramenti sono presenti anche nella teologia latina, è logico, ma l'azione che lo Spirito Santo compie in essi era stata piuttosto trascurata. Da parte sua, la teologia protestante è stata molto attenta all'azione dello Spirito Santo nel mondo e nella storia, e ha pure sottolineato la reciproca relazione che esiste tra la Parola di Dio e lo Spirito Santo: Egli è la forza che attualizza questa Parola.

Bibl. - Congar Y., Credo nello Spirito Santo, 3 voll., Ed. Queriniana, Brescia, 1981-1983. Cremaschi L. - Colzani G., " Spirito Santo ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 642-644. Durrwell F.X., Lo Spirito Santo alla luce del mistero pasquale, Ed. Paoline, Roma, 1985. Giovanni Paolo II, Enciclica " Dominum et vivificantem ", 18.5.1986. Lambiasi F., Lo Spirito Santo: mistero e presenza. Per una sintesi di pneumatologia, Ed. dehoniane, Bologna, 1987. Schweizer E., Spirito Santo, Ed. Claudiana, Torino, 1988. Suenens L.F., Lo Spirito Santo nostra speranza, Ed. Paoline, Alba, 1975.

a. Vilanova

Spiritualità. (inizio)

Quando parliamo di spiritualità, possiamo intenderla come vita e come scienza. Intesa come scienza, è lo studio ordinato della vita spirituale. Come vita, lo si vedrà in quello che segue.

La parola attuale spiritualità, intesa come scienza, ha avuto vari nomi: teologia mistica (così, varie volte nei classici); teologia ascetica e mistica; teologia della perfezione cristiana;, vita interiore...

È difficile stabilire i confini esatti che separano la morale dalla spiritualità, soprattutto da quando la morale ha superato il giuridismo del lecito e dell'illecito, in cui si lasciava il perfetto alla spiritualità. Per questo, è stato detto che la spiritualità continua ad essere " una scienza non identificata ".

L'avversione che molti nutrivano verso la spiritualità era fondata. In pratica, nella globalità dei fedeli, e in non pochi teorici, la spiritualità veniva fatta derivare da spirito, inteso questo come elemento costitutivo dell'uomo e opposto a corpo. La spiritualità era ritenuta lo studio e la descrizione di una zona interiore, riservata, dove avvenivano i rapporti intimi tra Dio e l'anima, e l'analisi delle ripercussioni (semplicemente ripercussioni) che questi rapporti avevano nella persona.

In questa concezione di spiritualità, il corpo era visto come l'antagonista dell'anima. Nel migliore dei casi, il corpo era trascurato e ciò comportava anche la trascuratezza di ciò che ha rapporto col corpo: il lavoro, la storia, il piacere, il dolore... Basta dare un'occhiata ai manuali per vedere quanto c'è voluto perché qualcuno di essi introducesse un capitolo sul mondo (F. Ruiz). Questo sembrava estraneo alla spiritualità, e lo si trattava solo di sfuggita, quando non era addirittura considerato puramente e semplicemente negativo, che bisognava indebolire dal momento che non si poteva annullare.

Una spiritualità del genere suscitava necessariamente avversione, eccetto in persone che erano completamente fuori dalla realtà e che vivevano nelle nuvole.

Oggi, è sufficientemente diffusa l'idea che la spiritualità viene dallo Spirito, con la S maiuscola. Un testo di spiritualità può essere intitolato correttamente: Cammini dello Spirito (F. Ruiz). Si può anche scrivere che " la spiritualità, nel senso stretto e profondo del termine, è il dominio dello Spirito " (G. Gutiérrez). La spiritualità cambia allora di prospettiva in maniera essenziale.

La spiritualità rimane così aperta all'azione dello Spirito, uno Spirito che, come dice la Gaudium et Spes, " con mirabile provvidenza, dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra " (GS 26). Per questo, all'interno di questo dominio dello Spirito, la spiritualità può essere descritta, più concretamente, come " un riordinamento dei grandi assi della vita cristiana in funzione di questo presente " (G. Gutiérrez).

In questo senso, ogni tempo e luogo, ogni presente, dovrà vedere, mosso dallo Spirito, come debba farsi il riordinamento dei grandi assi del vivere cristiano. Aperti alla presenza e all'azione dello Spirito, no rimaniamo bloccati da altre presenze che possono essere state autentiche e adatte in altre circostanze, ma che oggi non lo sono più.

Bisogna capire e accettare che il dominio dello Spirito porta con sé una imprecisione umana a cui non siamo abituati e che fa paura a tanti. Però, non siamo i primi a patirlo e non ne siamo neanche gli inventori. Fa parte della sorpresa dello Spirito. San Giovanni dice: " Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito " (Gv 3,8). Credo che a " chiunque ", si possa aggiungere lecitamente: " tutto quello che ". Qui, entra la spiritualità.

Questa indeterminatezza dello Spirito, dell'azione dello Spirito, di quello che suscita nella storia, invita ad una maggiore vigilanza, e attenzione ai segni dei tempi per poter ascoltare con " udito metafisico " (Paolo VI) e non perdere le sfumature di ogni momento.

In questa nuova concezione, hanno qualcosa a vedere i classici della spiritualità? C'è un fatto chiaro: quelli stessi che hanno aperto questo nuovo cammino non esitano a parlare del Futuro del nostro passato (S. Galilea). Forse sono stati troppo generosi. Però, indubbiamente hanno scoperto che un classico è un classico. Quello che non si deve fare è di attribuire nella spiritualità il titolo di classico a qualsiasi autore passato verso cui nutriamo una devozione particolare. S. Galilea studia il passato attraverso Santa Teresa d'Avila, San Giovanni della Croce, sant'Ignazio di Loyola.

Materialmente, non tutti i classici hanno parlato e seguito l'azione dello Spirito. Lo Spirito è stato molto sconosciuto, non per tutti, però. Per esempio, san Giovanni della Croce identificava la Fiamma viva d'amore con lo Spirito che, alle volte purificando, altre volte dilettando, fa tutto il cammino dell'uomo.

I classici conoscono discretamente una buona parte dello spirito umano; hanno vissuto una difficile e spesso dolorosa docilità allo Spirito; hanno percepito molti segni del loro tempo; hanno compiuto passi importanti, vitali e concettuali, nell'analisi dell'intricato interno dell'uomo abitato dalla grazia; hanno sperimentato Dio nella vita reale e sono caduti meno degli altri in un dualismo platonico da cui forse nessuno si è salvato interamente.

Hanno accentuato eccessivamente l'interiorità e l'attenzione alla vita privata, mentre il nostro tempo valorizza l'impegno pubblico che chiede un ordinamento nuovo dell'esistenza cristiana. Non sono neanche riusciti ad avere una coscienza chiara, almeno non sufficientemente, del vasto mondo del corpo.

La spiritualità non è campata in aria. Però, ha qualcosa da vedere anche con l'aria: è aperta allo Spirito che arricchisce la Chiesa e il mondo coi suoi doni (1 Cor 12), " per il bene ". " Non spegnete lo Spirito " (1 Ts 5,19). Tenerlo acceso è il cammino della spiritualità, vita e scienza. Più di qualsiasi altra cosa, essa resiste alla sistematizzazione: questa sarebbe la negazione della spiritualità, anche se ammette certi elementi costanti.

Bibl. - Aa.Vv., Santità di ieri e santità di oggi, Ed. AVE, Roma, 1968. Balthasar H.U. von, Spiritus Creator, Ed. Morcelliana, Brescia, 1972. De Fiores St., " Spiritualità contemporanea ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1516-1543. Galilea S., Spiritualità della liberazione, Ed. Queriniana, Brescia, 1974. Gozzelino G., Al cospetto di Dio. Elementi di teologia spirituale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989. Rahner K., Saggi di spiritualità, Ed. Paoline, Roma, 1966. Thils G., Aggiornamento della spiritualità cristiana?, in: Aa.Vv., Santità e vita nel mondo, Ed. Paoline, 1968, pp. 241-285.

A. Guerra

Stato. (inizio)

Chiamiamo Stato una comunità nazionale che vive in un dato territorio, è organizzata giuridicamente, agisce in quanto rappresentata dai suoi dirigenti come alcuni degli attori della scena internazionale, ed è riconosciuta come tale dagli altri attori di questa scena. Così, dunque, occorre che ci sia:

a) Una comunità nazionale; cioè, una frazione dell'umanità con un passato comune (nazione deriva da nasci = nascere e indica quel complesso di esseri umani che sono in relazione con i loro avi) e una coscienza differenziata rispetto alle altre comunità nazionali.

b) Un territorio. In caso contrario, ci troveremmo di fronte ad un'altra formazione sociale, per esempio, una etnìa o un popolo.

c) Una organizzazione giuridica che trasformi la nazione in una entità capace di agire unitariamente (la cultura francese definisce lo Stato come " la personificazione giuridica della nazione "). Logicamente, questa organizzazione giuridica, come qualsiasi altra, necessita di un potere. Secondo Max Weber, ciò che caratterizza il potere di stato di fronte agli altri che possono esistere nella nazione è il disporre del monopolio della violenza fisica legittima. Naturalmente, in situazioni normali, la violenza non dovrà essere né l'unico né il principale mezzo usato dallo Stato; però, sarà sempre un suo mezzo specifico.

Bibl. - Bobbio N., Stato, governo, società, Ed. Einaudi, Torino, 1985. Donati P.P., Risposte alla crisi dello stato sociale, Ed. Angeli, Milano, 1984. Mattai G., " Stato e cittadino ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., 1994, pp. 1289-1307. Perotto L.A., Stato e giustizia distributiva, Ed. Massimo, Milano, 1984. Rotelli E. - Schiera P., Lo stato moderno, Bologna, 1971.

L. González-Carvajal

Stipendi di Messe. (inizio)

Lo stipendio di Messa è l'offerta che i fedeli danno ai sacerdoti perché offrano Messe secondo le loro intenzioni particolari. Si tratta di un uso approvato dalla Chiesa. La sua origine sta nell'usanza antica secondo cui i partecipanti all'Eucaristia portavano i doni materiali necessari per la celebrazione, specialmente il pane e il vino, o consegnavano somme di denaro per il sostentamento del clero e per sovvenire alle necessità dei poveri. Questi contributi materiali divenivano anche un segno della partecipazione dei fedeli al sacrificio eucaristico e costituivano un mezzo adeguato di praticare la comunione dei beni, conseguenza e garanzia della comunione delle anime e dei cuori. Col tempo, avvenne progressivamente l'abbandono della partecipazione reale e effettiva dei cristiani alla celebrazione eucaristica. Si pensò allora che la consegna di una somma di denaro al sacerdote celebrante potesse supplire in qualche modo all'assistenza fisica ed assicurasse una partecipazione ai frutti spirituali della Messa. La teologia giunse ad elaborare una complicata distinzione tra le varie classi di " frutti " del sacrificio eucaristico. Con questo, senza negare la destinazione universale di ogni Messa, si giustificò un'applicazione particolare con una sua efficacia alle intenzioni degli offerenti.

La legislazione attuale continua a dare importanza alla regolamentazione dettagliata delle offerte o stipendi di Messe (si vedano i canoni del CIC 945- 958 e 1385). Si raccomanda che " dall'offerta delle Messe deve essere assolutamente tenuta lontana anche l'apparenza di contrattazione o di commercio " (c. 947). " Spetta al concilio provinciale o alla riunione dei Vescovi della provincia definire per tutta la provincia mediante decreto, quale sia l'offerta da dare " (c. 952). È proibito ai sacerdoti tenere più di una offerta se celebrano più Messe in uno stesso giorno (eccetto a Natale) (c. 951). Riportino su un registro dettagliato le offerte ricevute e le Messe applicate (c. 955). Tuttavia, in molti settori del clero e dei fedeli, si avverte un certo malessere di fronte a questo sistema che riguarda le Messe e si cercano altre strade di collaborazione dei fedeli per le necessità economiche della Chiesa.

J. Llopis

Storia della salvezza. (inizio)

La riflessione teologica del popolo eletto ha sempre interpretato i suoi eventi storici come eventi salvifici. Con ciò, riteneva che il cammino del popolo veniva guidato direttamente da JHWH che prometteva una liberazione piena, secondo i suoi disegni ed Egli avrebbe compiuto i suoi impegni contratti con l'alleanza del Sinai. Non solo, ma nel riflettere sulle sue origini, il popolo ritenne che l'azione divina fosse iniziata nell'istante stesso della creazione dell'uomo e della donna e che gli Ebrei, attraverso i loro alberi genealogici molto complessi, fossero imparentati con la prima coppia. Questa convinzione, che era frutto della visione mitica della storia, permise di vedere anche negli avvenimenti più banali l'intervento provvidenziale di Dio. A Lui si doveva soprattutto la liberazione dalla schiavitù egiziana, il viaggio attraverso il deserto, la conquista della terra promessa, l'instaurazione della monarchia, l'invio dei profeti e soprattutto la provvidenza sovrana con cui Dio difendeva il suo popolo dai pericoli provenienti dalle nazioni vicine. In tutto ciò, gli Ebrei vedevano la presenza provvidenziale di Dio, che reggeva le sorti del suo popolo per salvarlo da tutti i pericoli che lo circondavano.

La storia della salvezza venne dunque elaborata in base ad una interpretazione religiosa dei fatti. Anche quello che incideva sul fattore politico e sociale era ritenuto una mediazione di nessi divino-umani che mantenevano sempre viva la speranza del popolo eletto. Esso nutriva la speranza che, in un futuro più o meno remoto, JHWH sarebbe intervenuto in modo decisivo nella storia umana per togliere il potere ai nemici del suo popolo e per instaurare un regno di pace, di concordia e di amore, che avrebbe accolto soltanto coloro che prima avevano servito Dio fedelmente. Visto così, si pensava che in qualche modo l'agire divino avrebbe toccato tutta l'umanità che rimaneva avvolta nel processo storico-salvifico. Tuttavia, la dottrina-dei profeti contribuì ad avallare la speranza che alla fine dei tempi solo i figli d'Israele avrebbero avuto accesso al sospirato regno messianico, dove sarebbero vissuti senza angustie, affanni e ansie (cf Is 11,1-9).

Così, dunque, la storia salvifica venne ad acquistare una prospettiva escatologica, che l'ebraismo tardivo trasformò in apocalittica, esprimendo in modo cifrato la sua ossessione di svelare i segreti del futuro per sapere in qual momento concreto la storia del popolo eletto si sarebbe convertita in una genuina forza salvifica. Per questo, si rendeva imprescindibile la venuta dell'atteso Messia, a cui sarebbe spettato il compito di inaugurare un regno paradisiaco. In un primo tempo, si pensò che sarebbe stato composto da tutti i figli d'Israele, ma la purificazione teologica modificò l'idea fino a sostituirla con un'altra molto più realista: avrebbero fatto parte del regno unicamente quelli che sarebbero rimasti fedeli a JHWH. L'appartenenza al popolo ebreo cessò, pertanto, di essere garanzia di salvezza. Questa richiedeva una fedeltà incondizionata ai disegni divini e in concreto agli impegni dell'alleanza sinaitica.

La presenza di Gesù segna un passo avanti nella concezione della storia della salvezza. Gesù, riallacciandosi alle tradizioni profetiche e apocalittiche dell'ebraismo, concentra tutto il suo messaggio intorno al Regno (basilèia), il cui ingresso esige una conversione totale (metànoia) agli interessi di Dio. Partendo dai due concetti, Gesù formula un progetto di vita da cui risulta che la salvezza ha già fatto irruzione nella storia (Lc 17,21), essendo Gesù il suo punto centrale (Lc 16,16-17). Pertanto, la rivelazione neotestamentaria modifica sostanzialmente il concetto di storia della salvezza, in quanto cessa di proiettarsi verso il futuro per agganciarsi nel presente. Così intese la comunità cristiana partendo dall'esperienza pentecostale. Certo, nel presente continua a imperversare il peccato; c'è ancora molto da fare per raggiungere quello che Gesù vuole per il Regno (basilèia). Eppure, questo si incarna negli esseri umani in proporzione della loro lotta per sradicare l'ingiustizia dal mondo e instaurare il regno di pace e di amore che tutta la tradizione biblica presenta come la grande mèta a cui tendere. La storia della salvezza è cominciata, dunque, con la storia del popolo eletto e continua il suo cammino mediante coloro che, fedeli al progetto di Gesù, lottano per un mondo migliore in conformità al messaggio del vangelo. Solo questi adeguano la loro esistenza al concetto biblico di salvezza.

Bibl. - Balthasar H.U. von, Teologia della storia, Ed. Morcelliana, Brescia, 1966. Cullmann O., Cristo e il tempo, Ed. Il Mulino, Bologna, 1965. Daniélou J., Saggio sul mistero della storia, Ed. Morcelliana, Brescia, 1963. Surgy P. De, Le grandi tappe del mistero della salvezza, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1963. Vagaggini C., " Storia della salvezza ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1559-1583.

A. Salas

Suicidio. (inizio)

Le impostazioni classiche del suicidio sono state fatte partendo dalla religione, dalla morale, dalla filosofia e dal diritto. Le scienze psicologiche e sociologiche hanno ampliato la panoramica a partire dal secolo XIX. Senza negare i fattori personali che spingono al suicidio, bisogna tener conto anche di una complicità sociale che ci interpella tutti.

L'analisi della realtà ci dice che il suicidio, generalmente, presenta lacune importanti di lucidità e di libertà e che, pertanto, non può essere considerato ingenuamente come un'espressione di umanità. Questo dato ci suggerisce una grande cautela quando si tratta di affrontare la responsabilità soggettiva.

Da una considerazione oggettiva, alla domanda se il suicidio può qualche volta apparire come un'opzione positiva, la morale cristiana tradizionale ha dato una risposta assolutamente negativa.

Sebbene la riflessione umana suggerisca indicazioni valide per non includere, generalmente, il suicidio tra le opzioni eticamente ragionevoli, essa non sembra però, addurre ragioni convincenti per una condanna assoluta. Questa può venire unicamente da un piano religioso: siccome la vita è un dono di Dio e rimane sempre sotto la sua totale dipendenza, il suicidio significa oggettivamente un'invasione nella sfera del divino.

Alcuni teologi cattolici, riconoscendo, con la tradizione cristiana, la necessità che l'uomo debba costruirsi sotto la dipendenza di Dio, ritengono solo di vedere incompatibilità tra la sovranità di Dio e la decisione radicale sulla vita, soppressa arbitrariamente. E' ovvio che da questa impostazione, non si intende canonizzare oggettivamente il suicidio, ordinariamente limitato in contenuti umani. Semplicemente si mette in questione la condanna assoluta del suicidio e ci si chiede se il " dono " della vita non possa, in alcuni casi, certamente rari, essere, per una tragica coincidenza, espressione di responsabilità e perfino segno di generosità (i cosiddetti suicidi " altruisti ").

Bibl. - Durkheim E., Sociologia del suicidio, Newton Compton, Roma. Francesco A., Psicodinamica della colpa e del suicidio, Lalli, Siena, 1985. Holderegger A., Suicidio, Ed. Cittadella, Assisi, 1979. Pellizzaro G., " Suicidio ", in: Nuova Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1338-1347. Tutto il fascicolo di " Concilium 3(1985): Suicidio e diritto alla morte.

P.G. Elizari

Superstizione. (inizio)

Etimologicamente, superstizione deriva dal latino superstitio. Però, a sua volta, l'etimologia latina è incerta. Un'ipotesi (superstantium-superstitio) indicherebbe il timore vano ed eccessivo delle cose che " stanno sopra di noi ", come gli dèi e gli astri (Lucrezio). Il concetto  teologico  allude sempre ad un eccesso nelle pratiche di religione e di culto. Così, secondo san Tommaso, la superstizione è un " vizio opposto alla virtù della religione per eccesso... perché dà il culto divino a chi non va dato, o nel modo con cui non lo si deve dare ".

Secondo questa concezione, ci sono due tipi fondamentali di superstizione:

a) Si dà il culto religioso a chi si deve, ma nel modo indebito. Così, certe pratiche , in uso in certi strati della popolazione, e che si incorporano nel culto di alcuni santi specialmente popolari (per esempio, sant'Antonio da Padova); o certe immagini concrete di Cristo o di Maria; o semplicemente la recita di certe preghiere a cui sono attribuiti effetti quasi infallibili.

Nelle forme di religiosità popolare, è difficile distinguere in certi casi ciò che è superstizioso da ciò che è tradizione culturale ereditata (che inizialmente, poteva anche essere superstiziosa), ma sotto cui può essere soggiacente un autentico atteggiamento religioso. È necessario un accurato compito di discernimento delle forme culturali di religiosità popolare per non rendere difficili i processi di legittima inculturazione della fede negli strati popolari.

b) Il secondo tipo di superstizione è il seguente: si dà il culto religioso a chi non deve essere dato. All'interno di questo secondo tipo, il pensiero teologico classico distingue tre specie: l'idolatria, la divinazione e la vana osservanza (stregoneria).

1. L'idolatria è il culto prestato a falsi dèi. Ovviamente, il punto di partenza per questa definizione deve essere sempre quello di una ortodossia religiosa. Come esempi sociologici nell'Occidente cristiano, si possono ricordare: le sètte orientali comparse recentemente. Rimane l'interrogativo: fino a che punto suppongono una vera convinzione religiosa? O non sono piuttosto una ricerca di nuove forme di " espansione della coscienza " come protesta contro la razionalizzazione e la meccanizzazione della nostra cultura?

2. La divinazione. Il suo significato originario è quello di conoscere il pensiero divino (dal latino divinatio), o mediante segni simbolici, percepiti dai sensi (per esempio, l'interpretazione dei sogni, la lettura delle viscere degli animali sacrificati), o rivelando direttamente allo spirito per ispirazione o emozione psichica di origine che si ritiene soprannaturale. Si ritiene che gli dèi rivelino agli uomini eventi del passato o che succederanno in avvenire (non si confonda questo con la profezia biblica).

La credenza nelle divinazione è stata un elemento essenziale delle religioni antiche In Grecia, popolo razionalista per eccellenza, la divinazione si presentava come una vera scienza, non per i suoi princìpi ma per la classificazione completa dei fatti e per l'elaborazione dei procedimenti e delle teorie. Nell'antica Roma, la divinazione era a servizio dello Stato (gli àuguri), ma non arrivò mai ad avere la sistematizzazione teorica della divinazione greca.

Nella nostra società tecnologica d'oggi, è notevole la fioritura di forme blande di divinazione, senza una stretta pretesa religiosa. In certi casi, sono piuttosto un puro " giogo sociale " (gli oroscopi nei settimanali); altre volte, hanno i connotati di un uso di poteri occulti per leggere il passato o il futuro (cartomanti, chiromanti...). È anche innegabile un interesse, non puramente erudito, per la letteratura cabalista ed ermetica, per l'occultismo, ecc.

3. La vana osservanza: per conseguire certi effetti, sono usati mezzi che non sono razionalmente adeguati, nè sono religiosamente giustificati. Eppure, sono attribuite ad essi certe virtualità soprannaturali. In realtà, essi costituiscono forme di magìa. Così, le ordalìe dell'acqua e del fuoco, nel Medioevo, la stregoneria ed il malocchio, lo spiritismo. In alcune di queste pratiche, può essere soggiacente l'idea di un patto col demonio (stregoneria nera o malefica): questa idea fu ali-mentata nella cristianità medievale dalla stessa persecuzione ecclesiastica.

Bibl. - Albergamo F., Fenomenologia della superstizione, Editori Riuniti, Bari, 1966. Bo V., Festa, riti, magìa e azione pastorale, Ed. dehoniane, Bologna, 1984. Burgio A., Dizionario della superstizione, Milano, 1965. Cirese A.M., Cultura egemonica e culture subalterne, Palumbo, Palermo, 1972. Silvestri G., " Superstizione ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1347-1360.

J. Martínez Cortés