DIZIONARIO SINTETICO DI PASTORALE

CASIANO FLORISTAN - JUAN JOSÈ TAMAYO

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Tabernacolo. (inizio)

È una piccola edicola chiusa in cui si colloca e si conserva il Santissimo Sacramento, cioè, le specie consacrate che non sono state consumate nella comunione dei fedeli. Nei primi tempi del cristianesimo, il tabernacolo aveva nomi diversi ed anche forme diverse (alcune piuttosto strane, come le cosiddette " colombe eucaristiche "). Il tabernacolo poteva essere collocato sopra l'altare, incastrato nel muro dell'abside, o in sacristia. Durante il pontificato di Paolo V, divenne obbligatorio fissarlo sull'altare.

Le norme attuali sono espresse nel Rito della Comunione fuori della Messa e culto eucaristico (Libreria Editrice Vaticana, Ristampa 1994), dove si dice: " La santissima Eucaristia si custodisca in un tabernacolo solido, non trasparente e inviolabile. Di norma ci sia in ogni chiesa un solo tabernacolo o posto sopra un altare o collocato, a giudizio del1'Ordinario del luogo, fuori di un altare, ma in una parte della chiesa che sia davvero nobile e debitamente ornata " (RCCE n. 10). Si stabilisce inoltre: " La presenza della santissima Eucaristia nel tabernacolo venga indicata dal conopeo o da altro mezzo idoneo, stabilito dall'Autorità competente. Secondo la tradizione, arda sempre davanti all'altare una lampada a olio o un cero, segno di onore reso al Signore " (n. 11).

Facendosi eco di vari testi del Magistero (soprattutto dell'istruzione Eucharisticum Mysterium del 15 Maggio 1967), il documento citato ricorda: " Scopo primario e originario della conservazione della Eucaristia fuori della Messa è l'amministrazione del Viatico; scopi secondari sono la distribuzione della comunione e l'adorazione di nostro Signore Gesù Cristo, presente nel Sacramento " (n. 5). Poi, aggiunge: " La conservazione delle sacre specie per gli infermi portò infatti alla lodevole abitudine di adorare questo celeste alimento riposto e custodito nelle chiese: un culto di adorazione che poggia su valida e salda base, soprattutto perché la fede nella presenza reale del Signore porta naturalmente alla manifestazione esterna e pubblica di questa stessa fede " (n. 5).

I fedeli sono soliti manifestare questa fede con una pia pratica conosciuta sotto il nome di " visita al Santissimo Sacramento ".1 Per favorire questa pia pratica, il documento raccomanda: " I pastori provvedano che le chiese e gli oratori pubblici nei quali, secondo le norme del diritto, si conserva la santissima Eucaristia, restino aperti ogni giorno e nell'orario più indicato, almeno per qualche ora, in modo che i fedeli possano agevolmente trattenersi in preghiera dinanzi al santissimo Sacramento " (n. 8).

Bibl. - Martimort A.G., La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, Ed. Desclée, Roma, Parigi, Tournai, 1966, pp. 505-514. Righetti M., Manuale di storia liturgica, 4 voll., Ed. Ancora, Milano, 1964-1969. " Rivista Liturgica ", 1(1980): Il culto eucaristico fuori della Messa.

J. Llopis

Tempio. (inizio)

Il Tempio è un edificio sacro, dedicato al culto di una divinità. È concepito generalmente come l'abitazione permanente o il luogo della manifestazione temporale di questa divinità, che è spesso rappresentata mediante un'immagine. Anche se non c'è religione senza luoghi sacri, il tempio non costituisce tuttavia un fenomeno universale.

Nella religione d'Israele, acquistò molta importanza il Tempio di Gerusalemme, sorto come l'evoluzione del tabernacolo primitivo e concepito come luogo d'incontro con Dio e segno della presenza divina. Questa presenza era connessa con l'Arca d'Alleanza che si conservava nel santuario o Santo dei santi.

I profeti annunciarono l'apparizione di un nuovo tempio, che la fede cristiana identifica con Cristo. Infatti, Egli si presenta, da una parte, come colui che purifica il Tempio di Gerusalemme, e, dall'altra, come la sua adeguata sostituzione e pienezza: " Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere... Ma egli parlava del tempio del suo corpo " (Gv 2,19.21). Con la morte e la risurrezione di Gesù, il regime antico del tempio ebraico rimase abolito. Da allora, il vero Tempio, la vera dimora di Dio tra gli uomini è la persona di Cristo.

I primi cristiani erano pienamente consapevoli dell'abolizione del tempio e affermavano con piacere di non avere né templi né altari. Secondo san Paolo (1 Cor 3,16), gli stessi cristiani, sull'esempio di Cristo, erano " tempio di Dio ", * secondo la Prima Lettera di Pietro, " pietre vive... costruiti... come edificio spirituale " (1 Pt 2,5).

Tuttavia, a poco poco le case dove si riuniva la comunità, chiamate propriamente " chiese ", ricevettero anche il nome di templi e adottarono sempre più le caratteristiche dei templi pagani o del Tempio di Gerusalemme: la stessa cerimonia di consacrazione o dedicazione delle chiese cristiane acquistò alcuni aspetti rituali molto complessi, come se si trattasse certamente di innalzare una casa a Dio. La mentalità pastorale d'oggi preferisce considerare i cosiddetti templi cristiani più come " case della Chiesa o della comunità " che come monumenti innalzati alla divinità.

Bibl. - Aldazábal J., Simboli e gesti. Significato antropologico, biblico e liturgico, Ed. Elle Di, Ci, Leumann (Torino), 1988, pp. 258-265. Congar Y., Il mistero del Tempio, Ed. Borla, Torino, 1963. Jounel P., " Luoghi della celebrazione ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 783-799. Martimort A.G., La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, Ed. Desclée, Roma-Parigi-Tournai, 1966, pp. 195-204. Righetti M., Manuale di Storia liturgica, I, Ed. Ancora, Milano, 1964, pp. 416-489.

J. Llopis

Tempo libero. (inizio)

L'UNESCO ha dato del tempo libero questa definizione: " è il tempo che l'individuo riserva per attività che egli sceglie liberamente ". Così, dunque, non sarebbe tempo libero, né quello dedicato a compiti di produzione (lavoro professionale), né quello che viene consumato per attività obbligate (lavoro domestico, sonno, spostamenti, gestioni amministrative, ecc.), ma quanto viene dedicato a quelle attività in cui l'uomo non cerca altro fine che la sua soddisfazione e realizzazione personale. È nota la teoria di Joffre Dumazédier, secondo cui il tempo libero deve servire per il riposo, per il divertimento e per lo sviluppo personale (tanto sul piano fisico quanto su quello spirituale).

Nel passato, il tempo libero aveva un certo predominio di elementi religiosi insieme a quelli comunitari-locali e a quelli ludici, la festa. Invece, nelle odierne società industriali, esso si è trasformato in una grande industria (nego-ozio, la negazione dell'ozio) e, anche nel loro tempo V libero, i lavoratori sono stimolati a desiderare quanto risulta funzionale per il sistema economico. Succede spesso che il tempo libero è tale solo apparentemente. In realtà, soffre degli stessi difetti del lavoro spersonalizzante: passività, irresponsabilità, conformismo, inserimento in una macchina gigantesca che avvolge in un ingranaggio cieco.

Le indagini sociologiche compiute in Spagna mostrano che sono i giovani e gli adulti intellettuali coloro che con maggior frequenza dedicano il tempo libero alla formazione personale. Usare il tempo libero per attività sindacali o politiche è più frequente nelle categorie degli operai e degli impiegati, nelle zone urbane ed industriali. Il maggiore uso del tempo libero per il riposo non attivo (siesta, ecc.) avviene soprattutto nelle attività manuali più pesanti.

Si dice che stiamo entrano nella civiltà del tempo libero. Fourastié, in una valutazione che indubbiamente non avrà lunga vita, profetizzava che, nella metà del prossimo secolo, lavoreremo soltanto 40.000 ore: 30 ore alla settimana, 40 settimane all'anno e solo 35 anni di lavoro. Nel futuro, infatti, il tempo libero sarà sempre maggiore, non come la conseguenza di un calo temporale del volume di lavoro, ma ciò sarà dovuto alla sostituzione del lavoro umano coi robots e coi computers.

La civiltà del tempo libero supporrà una crisi di senso vitale per l'homo faber al quale è stata inculcata l'idea che la realizzazione umana era necessariamente legata al lavoro produttivo, e, d'altra parte, troppo spesso, non sa fare altro. Infatti, già un secolo fa il movimento operaio aveva rivendicato " il diritto alla pigrizia " (Paul Lafargue), ma quando, col progresso della tecnica, ciò comincia ad essere possibile, molti lavoratori scoprono che il tempo libero è un tempo morto in cui non sanno che cosa fare. È urgente, pertanto, procedere ad una educazione circa il tempo libero.

Bibl. - Bertin G.M., Educazione alla socialità e processo di formazione, Ed. Armando, Roma, 1975. Butturini E., " Tempo libero ", in: Dizionario di pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 1033-1046. Cerquetti E., Educazione e tempo libero, Ed. Angeli, Milano, 1976. De Panfilis E., Tempo libero, turismo e sport; la risposta della Chiesa, Ed. Gregoriana, Padova, 1986. Dumazédier J., Sociologia del tempo libero, Ed. Angeli, Milano, 1978. Lanfant M.F., Le teorie del tempo libero, Ed. Sansoni, Firenze, 1974. Toti G., Il tempo libero, Ed. Riuniti, Roma, 1975.

L. González-Carvajal

Tentazione. (inizio)

Tentazione è una par la classica nella vita spirituale. È poi decaduta per l'area ristretta in cui si è mossa e per la personalità scrupolosa che generava. È stata ricuperata a partire dalle tentazioni di Gesù. Non è sconveniente parlare della tentazione. L'importante è di situarla nel suo posto esatto.

La tentazione, come fatto, è ammessa: nel linguaggio comune, si è soliti dire: " Questa è una tentazione ". Nel Padre nostro, si chiede di non soccombere alla tentazione (cf Lc 11,4). Occorre, però, cercare un concetto esatto della tentazione.

Esiste la segreta convinzione che la tentazione sia una realtà negativa. Questa convinzione segreta esiste tuttora. I cristiani continuano ad accusarsi di avere tentazioni.

Tuttavia, la tentazione non è negativa. Non si può definirla ne intenderla semplicemente come occasione di peccato, perché è anche occasione di virtù. Ciò nonostante, è comunque vero che la tentazione non è qualcosa di asettico ed incolore. Si può dire che è un invito al male. Il fatto che questo invito possa essere scoperto, contrastato, respinto, non toglie che all'origine della tentazione ci sia un incitamento al male.

San Giacomo ha esposto, con notevole chiarezza, la genesi e lo sviluppo della tentazione (Gc 1,13-15). Forse con minore esattezza, noi possiamo dire che la tradizione ha parlato di tre nemici il mondo, il demonio e la carne che sarebbero l'origine delle tentazioni di cui l'uomo soffre.

Le parole carne e mondo si prestano ad essere fraintese, perché esse stesse travisano due campi sempre umiliati nella storia del cristianesimo. Oggi, più che in altri tempi, questi due " nemici " vanno riesaminati, se non vogliamo innalzare un edificio su basi di sabbia.

D'altra parte, il demonio è un tema a parte, ancora più delicato, ed il parlare di lui risulta più problematico. La teologia e la pastorale hanno di ciò un'esperienza non sempre piacevole.

Forse la categoria meno inadeguata per porre in essa l'origine della tentazione è la categoria " mondo ". Si tratta del mondo inteso come potere di attrattiva e di opposizione alla volontà di Dio nella storia. È questa una dimensione, non una realtà a se che esercita attrazione, fascino, incanto (o meglio: incantesimo), adescamento, ecc. Questo è il peccato del mondo.

È una verità lapalissiana, ma va ripetuta: il campo della tentazione non deve limitarsi al sesso. La cosa normale è che il sesso, realtà normale, attragga o inviti spesso a vivere la sessualità in modo imperfetto. Se fosse il contrario, verremmo ad affermare che la sessualità non è normale. Questa dimensione, che consiste nell'invitare a vivere male la sessualità, è la tentazione del sesso.

Però, la stessa cosa, ed anche di più, succede con altri punti di origine della tentazione: denaro, potere, prestigio, consumismo, casta sociale... Tutte queste realtà attraggono la persona in modo disordinato. Questa attrattiva è la tentazione. Il campo della tentazione è l'intero campo della vita. Potremmo anche dire che quello che più attira è quello che tenta di più, in un ordine o nell'altro.

Questa tentazione può consistere nel compire o nel tralasciare certe cose, come anche può riguardare le modalità di queste azioni o di queste omissioni. Coslì si allarga ancora di più il campo della tentazione, senza che per questo l'uomo sia peggiore: è soltanto più realista.

Sembra che la tentazione porti con sé uno stato d'animo perturbato. Alle volte, le persone tentate sono persone ossessive e apparentemente Altre volte, non si giunge a tanto. Però, sembra comunque vero che la tentazione è una situazione scomoda e dolorosa, e questo è comprensibile.

La tentazione è capace di assumere alcune tinte molto particolari; può ricordare obiezioni molto probabili, con un aspetto di verità o almeno di possibilità. La persona, che deve decidere in situazioni non chiare, può sentirsi piuttosto sconcertata. Questo si riferisce a quando la tentazione è stata vinta. Quando la tentazione è tuttora in atto, essa può avere un dinamismo di inquietudine che alle volte può essere incrementato da una coscienza esagerata del male, ecc.

Mi piace ricordare qui lo stato d'animo di santa Teresa d'Avila, quando, seguendo la sua coscienza, si decise a fondare il convento di san Giuseppe, il primo della riforma teresiana: " Era tutto terminato da circa tre o quattro ore, quando il demonio mi assali con il gran travaglio di spirito che adesso dirò. Mi mise innanzi il dubbio d'aver fatto male e d'essere andata contro l'obbedienza per aver agito senza l'autorizzazione del Provinciale... Poi, le monache sarebbero state contente di vivere in tanta austerità? Non era tutto una follìa? Chi me l'aveva comandato?... " (Vita di santa Teresa di Gesù, c. 36, n. 7).

Tutto questo suole portare con sé una tentazione, ed il suo mondo non è né semplice né facile. Comporta normalmente un campo di decisioni alle volte difficili da discernere; comporta pure una tensione che richiede molta fortezza. Santa Teresa ne parla come di " un grande travaglio di spirito ". Giobbe paragona la tentazione ad una milizia (7,1); altri, ad una prova (Sir 2,1), ecc.

La vittoria va per due strade; primo: smascherare molte strade di tentazione che lusingano continuamente l'uomo togliendo loro la maschera della tentazione. L'uomo deve scoprire che l'attrattiva per una macchina, un vestito, un appartamento, un viaggio, ecc., sono tentazioni: scoprire ciò è un passo importante, che servirà per cercare la strada buona. La seconda strada è questa: affrontare queste tentazioni partendo dalla piccolezza dell'uomo, che, ciò nonostante, è consapevole che qualcuno tolse o vinse il peccato di questo mondo: Gesù, l'Agnello di Dio (Gv 1,29). Quando l'uomo ha o afferra un'attrattiva maggiore o superiore a quella del male, la tentazione viene vinta.

Bibl. - Aa.Vv., Il demoniaco, in: " Communio ", 45(1979). Haering B., La legge di Cristo, III, Ed. Morcelliana, Brescia, 1967 . Molinski W., " Tentazione ", in: Sacramentum Mundi, 8, 190-196. Navone J., Tentazione, in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B. 1989, pp. 1583-1597. Rahner K. - Vorgrimler H., " Tentazione ", in: Dizionario di teologia, Herder-Morcelliana, Roma-Brescia, 1968, p. 684.

A. Guerra

Teologia. (inizio)

Il termine teologia, parola su Dio, ha la sua storia già nell'ambiente greco-romano. Platano e Aristotele conoscevano già l'uso del termine, secondo cui gli antichi poeti erano denominati teologi (teologia nel senso di mitologia). Secondo Platone, la teologia ha il compito di liberare i miti, le narrazioni e le leggende greche riguardanti gli dèi, dalle imperfezioni e da quanto potessero avere di sorprendente.

Il termine fu assunto dal cristianesimo greco, in cui si fece la distinzione fra teologia e economia: economia significava la comunicazione storica della salvezza di Dio; teologia significava la contemplazione di questa comunicazione, che è l'elemento super-storico, senza il quale la storia salvifica non sarebbe conosciuta profondamente. Presso i Padri latini, la distinzione tra scienza e sapienza era destinata ad orientare le accentuazioni teologiche susseguenti. A partire da allora, sappiamo quali siano stati i modelli per elaborare la teologia quel Medioevo, quello contemplativo di tipo monastico, caratterizzato dalla sua esperienza interiore; il modello scolastico, speculativo, qualificato per la sua minuziosità e per la sua audacia costruttiva, investito di una funzione chiave in un ordine sociale fortemente gerarchizzato (ognuno di questi tipi richiama i due aspetti di una cristianità ambigua: fuga dal mondo o dominio del mondo). Dopo il Concilio di Trento, il teologo si incarica di appoggiare accuratamente la trasmissione e la formulazione ortodossa della fede contro l'eresia e contro il mondo. Il teologo dovrà essere, prima di tutto, un formatore di chierici. Verso la fine del secolo scorso, il teologo è un sapiente, uno specialista in un determinato settore della tradizione.

Questi modelli non rispondono alle aspettative d'oggi. Il Concilio Vaticano II rappresentò un tentativo di rinnovamento teologico e fornì una base per invertire lo stesso metodo usato fino allora. Invece di essere deduttivo, interamente rivolto a trarre conclusioni astratte, lasciando ai pastori il compito di applicarle, il metodo è diventato induttivo: l'analisi, portata avanti con cura, considera i comportamenti, le aspirazioni, le ansie degli uomini, individui e gruppi, per discernervi gli impatti possibili della parola di Dio. In questo modo procede la Costituzione Gaudium et Spes, elaborata partendo da una introduzione in forma di analisi sociologica dei cambiamenti radicali e veloci dell'umanità. Da allora, per esempio, non si tratta più di una " dottrina sociale " insegnata dall'alto da un magistero chiamato ordinario, ma di un paziente esame delle congiunture dentro le quali il messaggio evangelico debba fare da fermento. La teologia, in questo modo, incorpora di nuovo come suo oggetto proprio e come luogo teologico adeguato, la, vita concreta e storica della comunità-chiesa: vangelo in atto, nella fecondità dell'intelligenza del mistero.

Questo orientamento ha favorito lo sviluppo di una teologia autoctona nei paesi del Terzo Mondo. Era ancora inesistente nel 1967 quando Paolo VI pubblicò la sua Enciclica Populorum Progressio. Così, è stato superato l'eurocentrismo teologico, che dominava in seguito alle scoperte geografiche dei secoli XV e XVI fino al Concilio Vaticano II. Le teologie sorte nel Terzo Mondo possono essere raggruppate in cinque aree importanti: le teologie della liberazione dell'America Latina, la teologia negra del Nord America, con i Negro spirituals, la teologia negra del Sud Africa nel contesto dell'apartheid, la teologia africana preoccupata dell'inculturazione della fede, la teologia asiatica alla ricerca di un dialogo con le grandi religioni. Il loro apporto è una grande speranza per la Chiesa.

L'effervescenza attuale della teologia è giustificata dal fatto che la testimonianza cristiana non è la ripetizione di parole del passato, di parole scritte, ma è la ri-lettura costante di quello che Dio ha fatto e non cessa di fare in mezzo a noi. Il principio interpretativo della Scrittura è dunque l'esistenza attuale della Chiesa. Il senso teologico emerge dal presente che ricapitola il passato che ci separa dall'annuncio originale. La parola non emerge dal passato: è la parola attuale che fa emergere il senso contemporaneo.

Stando così le cose, la teologia, elaborazione del nostro intelletto e secondo le sue molteplici risorse, trova la sua fonte viva nell'azione o prassi dei fedeli più che nei testi antichi, per quanto qualificati possano essere; più nell'esistenza della Chiesa comunità dello Spirito, che in una minuziosa esegesi grammaticale o letteraria della Bibbia. L'oggi della Chiesa non è dunque colto dalla teologia al livello degli adattamenti praticamente desiderabili, ma esso è riconosciuto come il luogo presente della parola che l'atto teologico ha il compito di scrutare e di attualizzare con la riflessione.

Se è così, se la base portante della parola è la Chiesa impegnata nella storia, se la vita della Chiesa in atto entra nel testo biblico e lo riempie di linfa, allora non si tratta di un Dio che promulga dall'alto dei cieli i suoi comandamenti per il buon ordine del mondo, ma si tratta di un Dio impegnato nella storia concreta della società, come conseguenza della sua incarnazione. Questo impegno con le vicende umane ci porta a concepire una teologia differente da quella dell'assoluto dei deisti, e, d'altra parte, a valorizzare le vicende umane come il luogo della divinizzazione. Storia degli uomini e economia di Dio sono correlative. La divinizzazione dell'uomo continua la umanizzazione di Dio. La presenza nel mondo, e per ciò stesso, il divenire del mondo, appaiono nella coscienza ecclesiale come elementi strutturanti della Chiesa, poiché la realtà a cui aderisce la fede è presente nella storia del mondo. Il mistero è nella storia.

Grazie a questa visione, si può collocare in una posizione prima e prevalente una teologia che emana, prima di qualsiasi concettualizzazione scientifica, dalla fede viva del popolo di Dio, la cui prassi storica fa parte della intelligenza della fede.

Bibl. - Alszeghy Z. - Flick M., Come Bi fa la teologia?, Ed. Paoline, Alba, 1974. Bof G. - Stasi A., La teologia come scienza della fede, Bologna, 1982. Colombo G., Perché la teologia?, Ed. La Scuola; Brescia, 1980. Pannenberg W., Epistemologia e Teologia, Ed. Queriniana, Brescia, 1975. Vagaggini C., " Teologia ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1597-1711.

E. Vilanova

Teologia pastorale. (inizio)

L'espressione teologia pastorale fu usata la prima volta nel secolo XVI. Nel 1591, P. Binsfeld, vescovo ausiliare di Treviri, pubblicò un Enchiridion theologiae pastoralis circa la " dottrina necessaria ai sacerdoti in cura d'anime ". Come nuova disciplina accademica, essa apparve nei programmi degli studi teologici a partire dal 3 Ottobre 1774, con un decreto reale dell'imperatrice Maria Teresa d'Austria.(1740-1780), dopo vari tentativi di riforma cominciati nel 1752. In quel tempo, si sentiva la necessità di stabilire alcune norme pratiche per i sacerdoti in cura d'anime. Dall'Austria, la nuova disciplina passò in Germania e di li ai paesi limitrofi. In Spagna, il primo manuale pratico di pastorale è del 1805.

In una prima fase, la teologia pastorale è più arte e tecnica artigianale che scienza o teologia. Essa consiste in una raccolta ecclesiastica di consigli pratici, senza un fondamento teorico, anche se non è carente una certa ideologia, quella dell'assolutismo o identificazione della Chiesa e della sua gerarchia con lo Stato e col suo governo. Si voleva che il religioso fosse a servizio dell'ordine pubblico civile e che lo Stato fosse il servitore ed il custode della religione cattolica. Ciò risponde ad un regime sacrale di cristianità. Siccome il pastore è l'unico soggetto responsabile di questa prassi, la pastorale è clericale. Il resto della Chiesa è oggetto passivo di questa funzione. In sintesi: la teologia pastorale è intesa come la dottrina dell'ufficio clericale del pastore.

In un secondo tempo, la teologia pastorale viene identificata con una teologia della Chiesa in atto. Giù nel 1841, il tedesco Graf, sotto l'influsso protestante, propose che si chiamasse teologia pratica, per toglierle la tinta clericale del termine pastore. L'idea predominante della pastorale, intesa in senso ecclesiologico, è l'edificazione o realizzazione totale della Chiesa. La nostra disciplina è giustificata dalla mediazione della ragione pratica, a differenza della storia della Chiesa o dell'ecclesiologia dogmatica. Da una parte, è teologia, non una semplice raccolta; dall'altra, è scienza pratica o scienza dell'azione. Inoltre tre, nella teologia pastorale vanno articolate varie discipline parziali di tipo pratico che andavano per conto loro. Nonostante alcuni apporti isolati nel secolo XIX (Drey, Möhler, Hiracher e Graf), il vero rinnovamento della teologia pastorale si ebbe dopo la seconda guerra mondiale coi contributi di F.X. Arnold (1898-1969) in Germania e di P.A. Liégé (1921-1979) in Francia. Arnold definì la teologia pastorale c me " la visione teologica dell'essenza della Chiesa in quanto agente della pastorale e delle sue azioni ecclesiali ". Liégé la intese come " scienza teologica dell'azione ecclesiale ", divisa, a sua volta, in tre servizi o ministeri: profetico, liturgico e caritativo.

Con il Concilio Vaticano II, si è aperto un terzo periodo della teologia pastorale, caratterizzato dalla dimensione pastorale che viene acquisita da tutta la teologia. Dopo il Concilio, acquistano importanza certi aspetti pastorali nuovi o rinnovati: la teologia della parola partendo dalla rivelazione e dalla Bibbia; la celebrazione della liturgia come azione dell'assemblea; il concetto di Chiesa come sacramento, popolo di Dio e comunità di credenti; i rapporti Chiesa-Regno-mondo, l'importanza dell'ateismo e del dialogo con tutte le zone estranee alla Chiesa; infine, la natura mediatrice dell'azione pastorale. K. Rahner e i suoi discepoli, con altri colleghi (Arnold, Costermann, Schurr e Weber) plasmarono le prospettive pastorali del Concilio nel Handbuch o manuale tedesco di teologia pastorale. La forza e la debolezza di questo manuale stanno nell'importanza che viene datta alla Chiesa. Èstato definito come una " ecclesiologia esistenziale ". Su una linea simile, M. Useros e il sottoscritto pubblicarono un manuale più breve intitolato Teologia de la acción pastoral (1968).

Un quarto momento della teologia pastorale cominciò dopo il Concilio, con l'apporto della cristologia (la prassi di Gesù), l'assunzione della categoria " popolo " (Chiesa dei poveri), il nuovo termine koinonìa (comunità ecclesiale di base), l'impegno evangelizzatore (in un mondo ingiusto, ateo o religioso non cristiano), il rapporto tra fede e politica (l'ambito delle opzioni), il nuovo stampo dei ministeri (superamento del binomio chierici-laici), il servizio ecclesiale alla società (quello che conta è il Regno). È stato decisivo qui l'apporto della teologia della liberazione, fino al punto che si può definire la teologia pastorale come teologia pratica della liberazione o teologia della prassi dei cristiani nella società.

Bibl. - Arnold F.X., Storia della teologia pastorale, Ed. Città Nuova, Roma, 1970. Cappellaro J. - Franchini E., Le due anime della pastorale italiana, Ed. dehoniane, Bologna, 1988. Franchini E., " Pastorale in Italia ", in: Dizionario di Pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 741-750. Midali M., Teologia pastorale o pratica. Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, LAS, Roma, 1985. Seveso B., Edificare la Chiesa. La teologia pastorale e i suoi problemi, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1982.

C. Floristán

Teoria Pratica. (inizio)

Negli ambiti della teologia pastorale o teologia pratica e dell'azione pastorale o prassi ecclesiale, sono usati con frequenza i termini azione, pratica, prassi e teoria. Vediamone l'uso.

Il termine azione (in latino: actio) è un contenuto sostantivato corrispondente al verbo: fare o realizzare, che si usa spesso come sostantivo nei testi conciliari, assieme agli aggettivi " ecclesiale ", " sacro ", " pastorale ", " apostolico ". Si cerca di sostituire questo vocabolo al termine pratica, che equivale alla ripetizione di un lavoro o di un esercizio, fatto per abitudine, con una consapevolezza comune e con una certa abilità per ottenere un profitto materiale immediato. La pratica si oppone alla teoria o conoscenza che rende capaci di eseguire qualcosa. Con ciò, si vuol dire che l'azione pastorale non è una semplice pratica, poiché comporta una teoria o teologia. Ricordiamo che il vocabolo pratica deriva dal greco praktikòs che significa: atto a fare, attivo. Questo termine proviene a sua volta dal verbo pràsso che significa: operare, compiere, adoperarsi.

Per sottolineare meglio la tensione tra teoria e pratica nell'azione pastorale, alcuni ricorrono al termine prassi, unito all'aggettivo ecclesiale. La parola greca pràxis (che anch'essa deriva dal verbo pràsso) è entrata nell'uso moderno con Karl Marx. È l'equivalente di una azione rivoluzionaria che esige impegno e coscienza critica, di fronte ad un cambiamento radicale, partendo dalla mutazione nella radice dell'uomo o della società. È logico che si può parlare, quindi, della prassi di Gesù. È invece un abuso parlare della prassi ecclesiale o della prassi dei cristiani. Comunque, in pratica, azione e prassi sono interscambiabili e non creano problemi.

L'azione nell'uomo è sempre-previa alla riflessione. Per questo, l'atto di fede precede la teologia; l'azione pastorale precede la teologia pratica. La funzione pastorale è una pratica che consiste nella prassi di Gesù Cristo attraverso l'azione della Chiesa e dei cristiani. La funzione dottrinale o teologica sta nel riflettere sulle manifestazioni e sugli interventi di Dio verso gli uomini e verso la società mediante Gesù Cristo e la Chiesa. Come la funzione dottrinale è un atto riflessivo o teorico, è anche un atto secondo. Prima di pensare, uno è; prima di avere una teologia, c'è un cristianesimo. Evidentemente, questa operazione riflessiva produce una teoria teologica, che è stata preceduta da un atto di fede.

Il Magistero ufficiale della Chiesa è stato spesso più sensibile alla " esattezza " nel dire (formulazione di verità) che non alla " rettitudine " del fare (trasformazione della società). Esso si è rinchiuso spesso nell'ortodossia, nel canonizzare il concetto greco di verità (adeguazione della mente alla realtà mediante la conoscenza), a scapito del senso biblico di verità (portare avanti la giustizia mediante l'impegno). In questo modo, si è arrivati ad interpretare la realtà in un modo idealista, esprimendo le essenze immutabili e disdegnando gli elementi contingenti e storici. Partendo da questo modello " soprannaturalista " del cristianesimo, non viene apprezzata l'azione dell'uomo nel mondo. Oggi, si interpreta l'azione e la prassi in un altro modo. Gesù non propose nessun modello rivoluzionario di prassi, ma si fece egli stesso prassi di salvezza. Le teologie post-conciliari più importanti sono appunto teologie della prassi (teologia politica e teologia della liberazione), fino al punto che la teologia può essere intesa come teoria della prassi ecclesiale.

Bibl. - Cambon E., L'ortoprassi. Documentazione e prospettive, Ed. Città Nuova, Roma, 1974. Dumont C., Nuove dimensioni della teologia: escatologia, ortoprassi, ermeneutica, Milano, 1972. Habermas J., Prassi politica e teoria critica della società, Bologna, 1973. Mancini I., Teologia, ideologia, utopìa, Ed. Queriniana, Brescia, 1974. O' Collins G., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1982, pp. 10-20.

a. Floristán

Terzo Mondo. (inizio)

Paolo VI scrisse nel 1967 che " i popoli poveri rimangono sempre poveri e quelli ricchi diventano sempre più ricchi " (Populorum Progressio, n. 57). Infatti, mentre il 25% della popolazione mondiale, che vive nei paesi più sviluppati della terra, si accaparra l'82,43% del prodotto mondiale lordo, il 25% più povero deve accontentarsi del 2,06% del prodotto mondiale lordo. La FAO comunica regolarmente il numero di quasi mille milioni di persone che nel nostro pianeta sono cronicamente affamate. Il fatto che quasi tutti i paesi del Terzo Mondo formino una specie di cinturone di miseria che avvolge il globo terrestre all'altezza dell'Equatore fa pensare che la povertà potrebbe essere dovuta a condizionamenti naturali. Però, questa immagine quasi fisiocratica che lega il potenziale economico di un paese alle sue risorse naturali e alla sua geografia, è sempre meno giustificata come conseguenza delle crescenti possibilità dell'uomo di fronte alla natura. Oggi, bisogna, invece, dare maggiore importanza al fenomeno della dipendenza dei paesi poveri rispetto a quelli ricchi. Questa dipendenza cominciò già nel passato, quando il maggior numero dei paesi del Terzo Mondo erano colonie dei paesi sviluppati. Questa dipendenza continua oggi come conseguenza del fatto che tanto gli investimenti di capitale quanto le transazioni commerciali favoriscono sistematicamente i ricchi.

Durante il Concilio Vaticano II, e dietro richiesta di alcuni vescovi del Terzo Mondo, la Chiesa, che aveva sempre affermato la destinazione universale dei beni, estese questa dottrina anche ai rapporti tra i popoli (GS 69). Guardando sotto questa luce, sembra inevitabile considerare l'ordine economico internazionale come una situazione di peccato strutturale condiviso, con un grado più o meno grande di responsabililtà, da coloro che vivono nei paesi sviluppati.

L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione secondo cui i paesi sviluppati debbono trasferire come minimo l'1% del loro Prodotto Nazionale Lordo ai paesi del terzo Mondo sotto forma di aiuti allo sviluppo (in seguito, si precisò che gli aiuti dei governi dovevano rappresentare almeno lo 0,7% del PNL, mentre il resto poteva provenire da organizzazioni non governative). Non era molto quello che si chiedeva (le spese per la difesa sono dieci volte superiori), eppure solo sei paesi stanno compiendo questo impegno: il Kuwait, l'Arabia Saudita, la Norvegia, i Paesi Bassi, la Svezia, la Danimarca.

È imprescindibile anche l'impostazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale. Se questo non si farà, per quanto grandi possano essere gli aiuti per lo sviluppo, i paesi del Terzo Mondo potranno avere " l'impressione che si toglie loro con una mano quel che si porge con l'altra " Populorum Progressivo, n. 56). Si deve evitare che le semplici leggi dell'offerta e della domanda siano coloro che regolano i rapporti tra i vari paesi, in modo simile a quello che avviene all'interno di ogni paese per cui gli stati decisero di intervenire nell'economia. La difficoltà, ovviamente, sta nella inesistenza di un'autorità internazionale con potere effettivo per imporre ai vari paesi le misure adeguate.

Bibl. - Aa.Vv., Storia dell'America Latina, UTET, Torino, 1976. Balducci E., L'uomo planetario, ECP, Fiesole, 1990. Boff L., La nuova era: civiltà planetaria, Ed. Cittadella, Assisi, 1994 . KüNG H., Progetto per un'etica mondiale, Ed. Rizzoli, Milano, 1991. Morin E., Terra. Patria, Cortina, Milano, 1994. Nanni A., Terzo Mondo a scuola, Roma, 1983. Paolo VI, Enciclica " Populorum Progressio ", 26.3.1967.

L. Gonzlez-Carvajal

Testimonianza. (inizio)

La testimonianza ha, innanzitutto, un significato empirico. L'atto di testimoniare sta nel riferire ciò che si è visto o udito, mediante un racconto o una narrazione. Si deve notare subito che il testimone deve essere verace, non bugiardo, sincero e non falso. In secondo luogo, la testimonianza ha un significato giudiziale, poiché è una dichiarazione pro o contro, di fronte ad una assoluzione o ad una condanna. I1 testimone non è un semplice spettatore, ma un collaboratore della giustizia. Infine, la testimonianza comporta un senso etico, in quanto il testimone rimane implicato nella sua testimonianza: testimonia secondo la sua coscienza. In questo senso, possiamo dire che la testimonianza è una decisione, o che il testimone deve essere fedele; il testimone si identifica con una causa e si impegna sino alla fine, anche al rischio di dare la vita. Appunto per questo, ci sono testimoni veri e testimoni falsi.

Nella Bibbia, si parla di una testimonianza religiosa, superiore a quella storica e giuridica di tipo greco-romano e che completa questa. Il profeta è un testimone di Dio che narra agli uomini quello che ha sentito; li esorta a cambiare vita col rischio di non essere ascoltato e di essere ucciso. Il prototipo di testimone, secondo il Nuovo Testamento, è Gesù di Nazaret. Egli è il testimone verace del Regno di Dio, perché è la Parola di vita che rende testimonianza alla vita; è la Parola di verità che rende testimonianza alla verità. È il testimone fedele di fronte ad un giudizio in cui è giudicato e nello stesso tempo giudica noi, in quanto l'accusato diventa giudice. Tutta la vita di Gesù è presentata nei vangeli come un processo. Nell'Apocalisse, è chiamato il " testimone fedele " (3,14). Infine, è il testimone cosciente che non si tirò indietro. Non si lasciò catturare dai partitismi; difese i poveri e i peccatori; non rimase al margine dei conflitti; fu coerente con la sua pratica: si giocò la vita. Per essere il testimone totale, Gesù è il Servo sofferente, il Giusto perseguitato, il Profeta assassinato. La morte di Gesù è un martirio, ossia una testimonianza; è la conseguenza del suo tenore di vita; è il perdono e la riconciliazione; è l'ingresso nella risurrezione.

La testimonianza cristiana riappare nei testi del Concilio. Si tratta di una testimonianza di fronte ad un mondo incredulo e di fronte ad una società carica di ingiustizie. " Tutti i cristiani..., consapevoli della loro vocazione, debbono addestrarsi... a testimoniare quella speranza che è in loro " (GE 2). Del resto, tutta la vita cristiana è un impegno di testimonianza. Bibl. - Castelli E. (ed.), La testimonianza, Roma, 1972. " Concilium " 3 (1983), Il martirio oggi. Grassi M., La vita come testimonianza nelle prospettive del Vaticano II, Ed. Paoline, Modena, 1972. Jossua J.P., " Testimonianza ", in: Enciclopedia Teologica, Ed. Queriniana, Brescia, 1989, pp. 1108-1115. Latourelle R., La testimonianza cristiana, Ed. Cittadella, Assisi, 1971. Marafini G., La testimonianza cristiana nella società secolarizzata, Roma, 1972. Pajer FL., La catechesi come testimonianza, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1969.

C. Floristán

Testi di religione. (inizio)

Tradizionalmente, è esistito, con maggiore o minore precisione e rigore, un testo per l'insegnamento e l'apprendimento della dottrina cristiana nella scuola. Il primo fu il catechismo, strumento classico usato per varie generazioni. In seguito, a causa delle trasformazioni dell'ambiente scolastico e per le esigenze di una didattica attualizzata, ci furono i vari catechismi per le scuole, ed infine, anche se i catechismi perdurano ancora in certi livelli educativi, sorsero i testi di religione.

I testi di religione sono, dunque, strumenti didattici a servizio dell'educazione religiosa nella scuola. Come tali, devono essere fedeli alla fede in cui intendono educare, alla confessione religiosa a cui vogliono formare, alle caratteristiche psicologiche degli educandi e, infine, alle esigenze dei princìpi didattici e metodologici dell'educazione scolastica.

Comunque, considerando la prospettiva dell'educazione della fede, quello che si chiede ad un testo è, oltre alla fedeltà ai contenuti dottrinali, una certa originalità sia nella concezione del progetto educativo globale che il testo intende presentare, sia nel suo svolgimento. Di qui, il carattere agile ed aperto, la metodologia attiva, il linguaggio chiaro ed ottimista, i sussidi didattici abbondanti e la serietà che deve avere come strumento di servizio specialmente per far conoscere la fede e per realizzare una sintesi di fede. Questa originalità ed il carattere positivo del testo sono necessari per la presentazione della fede cristiana e per una didattica attualizzata, ma sono anche una necessità imposta dalla concorrenza di altri mezzi didattici, in particolare, dei mezzi audio-visivi.

I testi di religione dipendono dalla gerarchia ecclesiastica, tanto da essere spesso una semplice ripetizione o traduzione del programma ufficiale. Questo, però, non deve essere un impedimento perché questi sussidi educativi siano un invito positivo, liberante ed ottimista per la religione e per la fede, specialmente nei riguardi di coloro che hanno pochi contatti con l'elemento religioso e coi cristiani che sono fuori dall'ambito scolastico.

Come strumento didattico, il testo di religione non esaurisce in sé tutto il suo valore e tuttavia sua efficacia: la guida didattica può essere per il professore uno strumento che amplia e chiarisce il testo. Poi, i libri di consultazione e di approfondimento che costituiscono la cosiddetta biblioteca di classe, sono un ottimo complemento ed un aiuto per gli stessi alunni.

Bibl. - Damu P., Le doti di un testo di religione, in: " Catechesi ", 39(1970) 33, pp. 14-20. Gianetto U., " Testi di religione ", in: Dizionario di catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 637-639. Giannatelli R., La ricerca pedagogica attorno a un testo di religione, in: " Orientamenti pedagogici ", 26 (1979) 1, pp. 103-114. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica " Catechesi tradendae ", 16.10.1979.

T. García Regidor

Tipologie. (inizio)

L'orientamento tipologico consiste nello stabilire tipi generali biologici eo psicologici attorno a cui si possono classificare i vari individui.

Questo orientamento ha avuto inizio soprattutto con la medicina greca. Essa ha ritenuto che la predizione del comportamento possa essere stabilita in base a criteri biologici dei soggetti.

I tipi biologici, o biotipologie, comprendono certe caratteristiche psicologiche (tratti) che si ritengono associati, partendo dal presupposto che il comportamento umano dipende prioritariamente da varianti dell'organismo relativamente stabili, senza escludere completamente l'influsso di varianti situazionali o ambientali.

L'orientamento prescientifico greco sosteneva un'associazione tra qualità fisiche, patologia e caratteristiche psicologiche o temperamentali. Ippocrate (460-370 a.C.) configurò la prima teoria sui quattro umori. Galeno (129-199) la rielaborò, costruendo i quattro tipi temperamentali della sua biotipologia conosciuta: il collerico, in cui predomina la bile gialla; il sanguigno, in cui predomina il sangue; il malinconico, in cui predomina la bile nera; il flemmatico, in cui predomina la flemma.

Le teorie citate sopra esercitarono un influsso notevole sulle tipologie costituzionalista posteriori. L'opera del tedesco Kretschmer è ritenuta l'organizzazione tipologica classica più rappresentativa. Kretschmer stabilì i tipi somatici, che sarebbero determinati primariamente dall'" abito " corporeo, o stile morfologico: leptosomico, picnico, atletico e displastico.

Il tipo leptosomico. Il suo tratto anatomico fondamentale è di avere un corpo stretto, con forme allungate e prevalenza di strutture verticali, magrezza, torace lungo e stretto, pelle asciutta, ecc. I1 tipo astenico è una modalità del leptosomico.

Il tipo picnico. La caratteristica anatomica principale è la tendenza verso le forme corporee rotonde e con la prevalenza delle strutture orizzontali e grosse, aumento di grasso nelle cavità viscerali, collo corto e grosso, estremità arrotondate; mani larghe e corte, ecc.

Il tipo atletico. Comporta caratteristiche intermedie dei due tipi precedenti. Alcuni dei suoi tratti morfologici sono: un notevole sviluppo delle strutture muscolari, ossee ed epidermiche, con le estremità molto sviluppate, soprattutto le mani ed i piedi, le spalle ed il torace, che sono larghi e forti.

Il tipo displastico. Non si tratta di un vero tipo somatico. Ci si riferisce qui a forme somatiche anormali prodotte da qualche alterazione metabolica, come per esempio, iper o ipofunzioni endocrine.

Per determinare l'appartenenza ad un dato tipo somatico, si sono stabiliti vari indici e misure che permettono questa classificazione.

Kretechmer stabili la sua ipotesi sul rapporto tra tipo somatico e temperamento. Partendo dal postulato fondamentale secondo cui il comportamento anormale non costituisce una categoria differente dal comportamento normale, ma è una esagerazione patologica del comportamento, egli parlò di due forme fondamentali di temperamento: lo schizoide ed il cicloide, basandosi sui due tipi fondamentali di psicosi: la schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva.

Gli schizotimici sono individui prevalentemente asociali, riservati, timidi, seri, nervosi e sensibili. I ciclotimici sono di solito socievoli, allegri, con un forte senso di umorismo, amabili, calmi e con una certa tendenza a manifestare cambiamenti ciclici che oscillano tra la ipomania e la tristezza. Kretechmer associò questi temperamenti ai tipi somatici: così, al pionico, associò il temperamento ciclotimico, e al leptosomico, lo schizotimico.

I dati ottenuti nelle ricerche sembrano confermare, in un certo modo, l'esistenza della dimensione temperamentale, anche se permangono alcuni dubbi a questo riguardo.

Bibl. - Allport G.W., Psicologia della personalità, PAS-Verlag, Zurigo, 1969. Boncori L., Teoria e tecniche dei test, Bollati-Boringhieri, Torino, 1993. Idem, " Tipologia ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 1126-1127. Sillamy N., Dizionario di Psicologia, Ed. Gremese, Roma, 1995.

M. N. Lamarca

Tradizione. (inizio)

La tradizione, legge essenziale della parola di Dio nella comunità- Chiesa, non implica una specie di immobilismo, nella trascendenza totalmente oggettiva e spersonalizzante di una serie di proposizioni dogmatiche e di precetti morali.

La tradizione è la presenza della parola di Dio, sempre identica a se stessa, ma continuamente incarnata nell'uomo che l'ascolta e che si dispone ad ascoltarla in un luogo preciso e nella situazione in cui si trova, nello spazio e nel tempo, nell'ambiente che lo circonda, nei condizionamenti economici, sociali, culturali che, ad un tempo, lo rinchiudono e lo esaltano.

Per parola di Dio non si deve intendere soltanto una serie di vocaboli pronunciati (o scritti): è un complesso di comunicazioni e di interscambi, di fatti, gesti, azioni, comportamenti, sguardi, perfino silenzi, che stabiliscono tra Dio e gli uomini la comunione di un dialogo. Questo dialogo ci porta ad un rapporto psicologico irriducibile a misure concettuali, anche se esso è denso di comprensione. La tradizione, nel corpo ecclesiale e conforme alla struttura ecclesiastica, è la trasmissione organica della parola di Dio, in cui le necessarie e autentiche proposizioni formulate trovano radice e linfa nell'humus copioso di gesti, segni, sacramenti, pratiche e consuetudini, con le loro ricche implicanze mentali, all'interno della comunità.

Così, le stesse parole di Gesù hanno trovato il loro senso pieno soltanto partendo dalle interpretazioni che hanno dato di esse i testimoni della sua vita. Noi le comprendiamo unicamente mediante la tradizione di quella comunità viva costituita dai discepoli di Gesù.

Il valore attuale della parola di Dio riceve la sua forza dalla vita stessa della comunità-Chiesa. Per questo, è indispensabile considerare la teologia stessa come memoria riflessiva della vita della Chiesa, memoria capace di comunicarsi. È naturale che la tradizione abbia una funzione di trasmissione che comprende tre momenti: quello della ricezione o dell'invenzione (non si inventa se non quello che si è ricevuto sotto altre forme), quello del possesso (la tradizione ci arricchisce e noi la arricchiamo esercitando su di essa un'azione trasformatrice, forse senza rendercene conto), quello della comunicazione che è il momento più delicato. Di questi tre momenti, è difficile cercare quello dominante. Si può accentuare la recezione: allora, ci poniamo in ascolto del passato, per non perdere le sue lezioni; la virtù che sgorga da questo atteggiamento è la fedeltà. Il possesso sembra avere più rapporto col momento attuale e suppone una fermentazione dei dati ricevuti, sempre collegati con la nostra situazione presente che si esprime in una prassi concreta. Una tradizione non deve mai ripetersi; può solo essere vissuta. La trasmissione, orientata al futuro, sente la duplice difficoltà dell'insufficienza del linguaggio e dell'intento di fedeltà nel comunicare il messaggio (si corre sempre il rischio di non essere compresi o di non esserlo completamente).

Questi problemi ci obbligano a interrogarci sulle origini genuine del concetto neotestamentario di tradizione. Si sostiene spesso la tesi secondo cui questo concetto non sarebbe altro che la dottrina dei primi testimoni oculari e auricolari, trasmessa secondo le leggi del metodo di trasmissione ebraico. È un concetto particolare soprattutto nella teologia di Luca e nella letteratura deutero-paolina: questo concetto si trova soprattutto nelle lettere pastorali, che non sanno affrontare la difficile situazione della comunità di allora se non legandosi a formule di fede perfettamente determinate. Già nei primi secoli, perché la tradizione non conduca ad una comunità fanatica di illuminati, si impongono criteri oggettivi della tradizione. Pertanto, occorre una regula fidei. Il significato restrittivo di questa formula si è generalizzato solo nell'epoca moderna, favorendo una mentalità conservatrice della tradizione.

D'altra parte, i protestanti, non tollerando l'abuso di interessi ecclesiastici,(che potenziarono la tradizione, o meglio, le tradizioni, considerandola come fonte della rivelazione accanto alla Scrittura), spinsero la comunità ad una delimitazione critica che sfociò nel principio Sola Scriptura. Per confutare questa dottrina protestante, i controversisti romani, nell'intento di dare il maggior spazio possibile alla tradizione, ridussero sempre più l'importanza della Scrittura: si ripeteva che la Scrittura senza la tradizione è qualcosa di morto e di oscuro, e soprattutto qualcosa di incompleto. Conseguentemente, bisognava darle vita, interpretarla e completarla mediante la tradizione, che ben presto venne confusa col magistero gerarchico, evidentemente esaltato. Sebbene i documenti ufficiali del Concilio di Trento e del Vaticano I non si siano spinti così tanto, tuttavia, essi riflettevano chiaramente la preoccupazione di distinguersi negativamente dal principio protestante della Sola Scriptura più che la preoccupazione di mettere in risalto l'importanza ed il significato positivo della Scrittura.

Le affermazioni del Concilio Vaticano II rappresentano una svolta importante a questo riguardo. Per la prima volta nella storia, il Concilio Vaticano II cercò di esporre la dottrina cattolica non su un piano polemico e negativo, ma positivo. Per questo, viene ribadito con forza che la Scrittura e la tradizione non possono mai essere sganciate l'una dall'altra. Però, con questo, non è ancora detto tutto. La Costituzione Dei Verbum non parla della Scrittura e della tradizione come di due fonti della rivelazione, ma parla della trasmissione di questa rivelazione. In questo modo, la Costituzione adotta il punto di vista della storia della salvezza che continua tuttora, e non quello che va alla ricerca delle verità rivelate, depositate nelle " fonti ". L'interesse della Costituzione è tutto sull'unità viva e sul vincolo essenziale tra Scrittura e tradizione, di modo che " non si può più parlare di una sovrapposizione puramente esterna dei due modi di comunicare la rivelazione divina, né di una limitazione della tradizione alle verità che non sono contenute nella Scrittura " (J. Beumer).

Bibl. - Congar Y., La Tradizione e le tradizioni, 2 voll., Roma, 1961-1965. Fisichella R., La Rivelazione: evento e credibilità, Ed. dehoniane, Bologna, 1985, pp. 105-131. Geiselmann J.R., La Sacra Scrittura e la Tradizione, Brescia, 1974. O'Collins G., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1982, pp. 240-280. Ppttmayer H.J., " Tradizione ", in: Dizionario di Teologia Fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 1341-1349. Rahner K. - Ratzinger J., Rivelazione e Tradizione, Ed. Morcelliana, Brescia, 1970. Waldenfels H., Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 574-610.

E. Villanova

Trascendenza. (inizio)

Il concetto di trascendenza richiama qualcosa che sta al di là (dall'altra parte) della realtà data, ma non senza relazione con questa realtà. Per questo, è correlativo col concetto di immanenza. La determinazione di una realtà come trascendente significa riferirsi all'immanente, e l'affermazione dell'immanenza implica collocarla nell'orizzonte di una pensabile (ipotetica) trascendenza.

Non si può identificare semplicemente il problema del trascendente col problema di Dio, inteso secondo il concetto teologico medievale. La teologia cristiana interpreta la " perdita della trascendenza " come perdita della fede (in Dio; in Gesù Cristo risorto; nello Spirito che viene dal Padre). Però, secondo la mentalità greco-pagana, poteva consistere nella mancanza di vita politico-comunitaria e formata. Kant e Fichte la vedono in rapporto con l'azione morale e razionale.

Il trascendente è definito come tale in riferimento a ciò che si ritiene " immanente ". Riguardo al " soggetto ", è trascendente l'elemento " oggettivo "; riguardo a ciò che è mutevole, l' "essenza "; riguardo al contingente, il " fondamento ". Secondo Leibniz (seguito in questo da Heidegger), la domanda fondamentale della metafisica è questa: Perché c'è qualcosa e non invece nulla? " In questa domanda, si apre un possibile adito all'Assoluto, all'Infinito, a Dio (sia nella linea della filosofia scolastica, o di Leibniz, o dell'esistenzialismo cristiano, o della " fede che cerca di capire "). Tuttavia, l'affermazione di un Dio personale non può fondarsi né su prove scientifiche, né su ragionamenti filosofici assolutamente apodittici e definitivi. Secondo Pascal, è una " scommessa " che vale la pena di fare, perché l'uomo, " debole canna pensante ", ha gli occhi e gli orecchi aperti all'infinito insondabile. Anche l'esistenzialismo contemporaneo cristiano concepisce l'apertura alla trascendenza come l'esperienza di un movimento infinito o perlomeno indefinito verso un " essere più ". Secondo Einstein, il ricercatore scientifico non è chiuso ad una religiosità cosmica, ma vive di essa. Da una parte, lo stupore dinanzi all'armonia delle leggi che reggono la natura lo porta al sentimento o all'intuizione profonda che ogni struttura del pensiero umano è solo un insignificante frammento di qualcosa infinitamente più grande. D'altra parte, questa esperienza viva diventa la ragione principale della sua vita e può portarlo a superare la schiavitù dei desideri egoisti; può dargli forza per non rinunciare al suo obiettivo, anche se arduo, gravoso e cosparso di numerosi ostacoli. Nel NT, san Giovanni indica un incontro con Dio partendo dall'esperienza dell'amore umano: " Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore " (1 Gv 4,8). " Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi " (1 Gv 4,12). " Chi... non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede " (1 Gv 4,20).

Secondo Leibniz, Dio non è nel mondo come un principio vitale che lo anima come un essere vivente, ma è presente come l'inventore è presente alla sua macchina, come il principe è presente ai suoi sudditi e come il padre è presente ai suoi figli. Però, oggi, anche menti profondamente religiose provano una grande difficoltà ad ammettere un Dio personale, esteriore al mondo. La teologia negativa, la conoscenza anagogica e l'esperienza mistica insistono su un Dio in comunione ineffabile col cosmo, perché è un Tu, termine di comunicazione e di speranza.

R. Panikkar indica tre tipi religiosi di concetto di trascendenza:

a) La trascendenza trascendente propria delle religioni semitiche (ebraismo, cristianesimo, islamismo): Dio è concepito come Padre; l'uomo si unisce a Lui con la visione e l'amore.

b) La trascendenza immanente, propria dell'induismo: il fondamento è visto come Madre; non si stacca dal mondo per conoscerlo, non lo domina, lo nutre dall'interno. La suprema esperienza consiste nell'essere passivamente la totalità, cessando l'affetto al piccolo io.

c) L'immanenza trascendente (una specie di trascendenza in e dall'immanenza), propria del buddismo; il fondamento è qualcosa che in qualche modo è personale, ma fortemente non-antropomorfico.

Per Bloch (da una posizione di " ateismo con speranza " che assume valori cristiani), la trascendenza è apertura al futuro, la legittimità intravista dell'utopia. La morte non avrà mai l'ultima parola, nemmeno come sorte personale di ogni essere umano.

Bibl. - Buber M., L'eclissi di Dio, Ed. Comunità, Milano, 1961. Heidegger M., Essere e tempo, Ed. Longanesi, Milano, 1978. Heschel A.J., Dio alla ricerca dell'uomo, Ed. Borla, Torino, 1969. Horkheimer M., La nostalgia del totalmente altro, Ed. Queriniana, Brescia, 1977. Marcel G., Dal rifiuto all'invocazione, Ed. Città Nuova, Roma, 1976. Scheler M., L'eterno nell'uomo, Ed. Fratelli Fabbri, Milano, 1972. Trenti Z., Esperienza e Trascendenza, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1982.

J.M. Díez-Alegría

Triduo pasquale. (inizio)

La domenica è per la settimana quello che il triduo è per l'anno liturgico; la sua vetta. Il triduo è sorto appunto come celebrazione della grande festa della Pasqua, partendo dalla sua veglia. Il triduo abbraccia la totalità del mistero pasquale. Sant'Ambrogio di Milano (Italia) e sant'Agostino di Ippona (Africa) lo chiamarono " triduo sacro di Cristo crocifisso, sepolto e risorto ".

Il triduo pasquale comincia con la Messa vespertina della Cena del Signore. Il giovedì mattina è ancora Quaresima. In altre parole: il digiuno del giovedì è pasquale, non quaresimale. Il giovedì è il preludio della passione, il suo testamento e memoriale. Fino al secolo VII, il giovedì santo era il giorno della riconciliazione dei peccatori pubblici, senza alcuna traccia di eucaristia vespertina. A partire dal secolo VII, vennero introdotte in quel giorno due eucaristie: al mattino, per consacrare gli olii (necessari per la veglia); l'eucaristia vespertina fu per commemorare la Cena del Signore. Questo si generalizzò in tutta la Chiesa nel secolo X.

Tutto il mistero del Giovedì Santo e del triduo è contenuto in queste parole di Giovanni 13, 1-2: " Prima della festa di Pasqua (la Pasqua ebraica), Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre (la Pasqua di Cristo), avendo amato i suoi (consegna, giovedì) che erano nel mondo, li amò sino alla fine (morte, venerdì santo). Durante la cena (eucaristia, pasqua cristiana) ". Nell'Eucaristia del Giovedì Santo, la Chiesa rivive l'ultima Cena d'addio di Gesù e indica la carità fraterna con due gesti: uno sacramentale (quello eucaristico) e l'altro testimoniale (la lavanda dei piedi). Con la Messa vespertina del Giovedì, comincia oggi il triduo. Per questo, il Giovedì Santo venne chiamato: " commemorazione della Cena del Signore ". Tutte le letture di questo giorno ricordano la donazione di Gesù che chiude il vecchio rito della pasqua antica (prima lettura); offre il suo corpo al posto dell'agnello (seconda lettura); dà il comandamento del servizio (vangelo). Però, nello stesso tempo, Gesù è consegnato da Giuda ed abbandonato dagli altri discepoli.

Il venerdì Santo è centrato sul mistero della Croce, strumento di supplizio e di morte (legno), sinonimo di redenzione (albero). Nel fatto della Croce, si rispecchia la sofferenza di Cristo come amore che si annienta, e il giudizio di Dio, oltre al peccato dell'umanità, presenti nell'annientamento di Gesù da parte di Dio. Questo giorno, chiamato anticamente alla maniera ebraica parasceve (preparazione) è oggi " celebrazione della Passione del Signore ". Gesù è morto il 14 di Nisan ebraico, che quell'anno era di venerdì. La Chiesa stabilì di commemorare la morte di Cristo di venerdì e la sua risurrezione di domenica.

La celebrazione attuale del Venerdì Santo risponde all'antica liturgia cristiana della parola, come la descrive Giustino verso il 150: proclamazione della parola di Dio, seguita da acclamazioni, preghiera dell'assemblea secondo le intenzioni della comunità e benedizione di congedù. La liturgia della parola, senza eucaristia, era comune a Roma i mercoledì e venerdì, all'ora di Nona, verso il secolo VI. Il Venerdì santo, ci fu, a partire dal secolo IV, un ufficio della parola proprio del giorno, con gli elementi attuali: letture, orazioni solenni, adorazione della croce, comunione. La celebrazione attuale del Venerdì Santo è austera: è centrata sull'immolazione dell'agnello. Comincia con un rito iniziale antico: la prostrazione del celebrante e dei suoi assistenti. La prima lettura, chiamata " passione secondo Isaia ", è il quarto Canto del Servo di JHWH, applicato profeticamente a Gesù. Nella seconda lettura, il Servo è il Sommo Sacerdote che si dona per gli altri. Il vangelo è il racconto della passione secondo Giovanni, dove la croce è la rivelazione massima dell'amore di Dio. Segue la preghiera universale, che è un formulario romano del secolo V. Poi, c'è l'adorazione della croce da parte del popolo, che prima viene mostrata all'assemblea con queste parole: " Ecco il legno della Croce, al quale fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo. Venite, adoriamo ". Gli improperi richiamano il mistero della glorificazione di Gesù, che muore ferito d'amore e di tenerezza per il suo popolo. La celebrazione si conclude con la comunione.

La veglia pasquale è in teoria la celebrazione più importante dell'anno, il culmine della settimana santa e il perno di tutta la vita cristiana. In pratica, non è così, perché il popolo è meno presente che non alla celebrazione del giovedì e alle processioni del venerdì. Per i nostri fedeli, il venerdì santo continua ad essere il giorno più importante. Eppure, la risurrezione di Gesù è il punto fondamentale della confessione di fede, è la comunicazione della vita nuova e l'inaugurazione di nuovi rapporti con Dio.

Secondo la liturgia attuale, il sabato è giorno di meditazione e di pausa, di pace e di riposo, senza messa né comunione, con l'altare spoglio. La veglia pasquale più antica che sia conosciuta è del secolo III. Verso il 215, secondo la Tradizione di Ippolito, il battesimo veniva celebrato con l'Eucaristia nella veglia pasquale. Questo si generalizzò nel secolo IV. Alla fine di questo secolo, alcune Chiese introdussero il lucernario pasquale, che finì per diffondersi dovunque. A partire dal secolo XII, si benedice il fuoco.

Con la notte del sabato, inizia il terzo giorno del triduo. Secondo il messale, è notte di veglia, costituita da una lunga celebrazione della Parola che termina con l'Eucaristia. È composta di quattro parti:

1) La liturgia della luce, fuori della Chiesa, il cui centro è il cero, simbolo di Cristo. I fedeli seguono con candeline accese. All'interno della chiesa, è proclamato il preconio pasquale, canto di speranza e di trionfo. Il lucernario, o rito del fuoco e della luce, ha la sua origine dalla prassi ebraica e cristiana primitiva di accendere una lampada sul fare della notte, accompagnata da una benedizione. Il cero acceso richiama la risurrezione di Cristo.

2) Nella liturgia della Parola, è narrata la storia della salvezza. Sono fondamentali le letture della Genesi (creazione), dell'Esodo (liberazione dall'Egitto, dei profeti (ci sarà una nuova liberazione) e del vangelo (è proclamata la risurrezione). La liturgia della Parola ha il ritmo fondamentale di lettura, canto e orazione. Tutto gravita attorno alla Pasqua del Signore.

3) La liturgia dell'acqua, con l'eventuale battesimo di adulti o di bambini. Questa liturgia significa la nuova nascita. Si invocano i Santi con le Litanie; si benedice l'acqua e si invita alla professione di fede e al rinnovamento degli impegni cristiani.

4) L'Eucaristia è il culmine della veglia, la più solenne di tutte. L'Eucaristia pasquale annuncia solennemente la morte del Signore e proclama la sua risurrezione nell'attesa della sua venuta.

Bibl. - Bergamini A., " Triduo pasquale ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 1534-1538. Cantalamessa R., La pasqua della nostra salvezza, Ed. Marietti, Torino, 1971. Durrwell F.X., La risurrezione di Gesù mistero di salvezza, Ed. Paoline, 1969. Füglister N., Il valore salvifico della Pasqua, Ed. Paideia, Brescia, 1976. Haag M., Pasqua, Ed. Queriniana, Brescia, 1976.

C. Floristán

Trinità. (inizio)

Il passaggio da una fede monoteista ad una fede trinitaria non fu, per la Chiesa primitiva, un problema facile. Non lo è nemmeno oggi, tant'è vero che molti ritengono la dottrina sulla Trinità una speculazione per teologi, che non ha nulla a vedere con la vita reale. Inoltre, è già difficile credere nell'esistenza di Dio e vivere secondo questa fede: questa non è resa ancora più difficile con la Trinità?

Trinità è la parola usata per dire che Dio, come è sperimentato nella fede cristiana, è Padre, Figlio e Spirito Santo. Questo termine non si trova nella Scrittura e non fa parte del messaggio primitivo, sebbene il NT contenga formule trinitarie esplicite. Tutti i testi biblici che si riferiscono alla Trinità sottolineano il piano salvifico di Dio, attraverso il quale si può intuire il mistero della sua vita intima. Non sorprende dunque il fatto che, a partire da Tertulliano, si distingua tra Trinità " economica " e Trinità " immanente ". La Trinità " economica " indica il Dio trino che si rivela agli uomini e comunica loro la salvezza. La Trinità " immanente " indica il Dio trino in sé Questa distinzione vuol dire soltanto che lo stesso Dio trino è considerato come è nella rivelazione salvifica e come è in sé. La distinzione tra Dio per noi e Dio in sé è una distinzione puramente speculativa? Nel caso affermativo, è necessaria? Si è soliti giustificare questa distinzione appellandosi alla libertà divina e al carattere gratuito della salvezza: Dio è perfetto e basta a se stesso, non ha bisogno di rivelarsi. Noi otteniamo la salvezza in forza della grazia di Dio, ma senza nostro merito. La distinzione tra una Trinità " immanente " e una Trinità " economica " salva la libertà di Dio e la sua grazia. È il presupposto necessario per l'esatta comprensione della rivelazione divina.

La strenua difesa degli enunciati relativi ad un solo Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo suscitò grossi problemi nei primi secoli del cristianesimo. Per comprendere le dimensioni delle lotte per l'ortodossia, occorre tener presente che la posta in gioco era: la verità e la grandezza della salvezza operata da Cristo. Se ci aveva divinizzati, vuol dire che Lui stesso era Dio. Attraverso travagliate vicende, si arrivò a definire la fede nella divinità di Gesù Cristo e la sua " consostanzialità " con il Padre. Poi, lo stesso avvenne per lo Spirito Santo. Le parole " natura ", " essenza ", " persona " offrirono le precisazioni necessarie per i termini di queste definizioni. La teologia greca antica, partendo principalmente dalla considerazione delle persone, nell'analisi delle processioni e delle missioni, come realizzazione di un'unica essenza, rimane più vicina alla prospettiva biblica che non la teologia latina del Medioevo. Questa, partendo piuttosto dall'essenza unica per cercare di mostrare la diversità delle persone  con l'aiuto di analogie, come quelle proposte da sant'Agostino secondo la nostra psicologia umana (processioni a modo di intelletto e di volontà) , corre il rischio di dare l'impressione che si tratti di astrazioni artificiosamente sostanzializzate. In realtà, la Trinità è il mistero cristiano visto dal suo aspetto più divino, che non possiamo raggiungere in nessun modo, ma che illumina il mistero della vita di Dio e dell'uomo.

Invece di affrontare il mistero della Trinità ricorrendo ad immagini e a paragoni insufficienti, oltreché superati, come il famoso triangolo, è più utile per la nostra vita riflettere sulla Trinità in una prospettiva di " comunione ". Rimangono così illuminati i nostri rapporti umani. Non sembra allora troppo paradossale la frase di Berdiaef, rivolta ai suoi compagni di lotta comunisti: " La nostra dottrina sociale è la trinità ". Vivere questo mistero richiede il rifiuto di ogni egoismo. Così, il cristiano viene ad essere l'autentica immagine di un Dio che è " comunità ", relazione, comunione di persone.

Limitiamoci a sottolineare come la prassi liturgica ha conservato la visuale essenzialmente spirituale e dinamica della Trinità di Dio, espressa nella formula: " dal Padre, per il Figlio, nello Spirito ". Questa formula è presente in tutte le orazioni e dossologie e manifesta la nostra partecipazione alla vita divina mediante i sacramenti, specialmente mediante l'Eucaristia.

Bibl. - Boff L., Trinità e società, Ed. Cittadella, Assisi, 1987. Croce V., Il Dio di Gesù Padre di tutti, Ed. Piemme, Casale M., 1989. Feiner J. - Löhrer M. (a cura di), Mysterium Salutis, 3, Ed. Queriniana, Brescia, 1969. Forte B., Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Ed. Paoline, Cinisello B., 1985. Kasper W., Il Dio di Gesù Cristo, Ed. Queriniana, Brescia, 1984. Melotti L., Un solo Padre, un solo Signore, un solo Spirito. Saggio di teologia trinitaria, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1991. Moltmann J., Trinità e Regno di Dio. La dottrina su Dio, Ed. Queriniana, Brescia, 1983.

E. Vilanova

(1) L'istruzione Eucharisticum Mysterium, al n. 50, come anche questo documento, invece di parlare di " visita al Santissimo Sacramento ", preferiscono l'espressione: " la preghiera davanti al Santissimo Sacramento ". È un'espressione più significativa, ma purtroppo, sconosciuta dai fedeli (N.d.T.).

Umanesimo. (inizio)

Possiamo definire l'umanesimo come una concezione della realtà che ha l'uomo per centro, riconosce la sua dignità unica in mezzo al cosmo e cerca di liberarlo dai pesi che lo opprimono. Con parole di Heidegger: " L'umanesimo è questo: pensare e preoccuparsi perché l'uomo sia umano e non inumano ".

Il termine umanesimo fu usato per la prima volta dal pedagogo bavarese F.J. Niethammer nella sua opera Der Streit des Philanthropismus und des Humanismus in der Theorie des Erziehungsunterrichts unserer Zeit (1808). Però, già nel Rinascimento, il nome di umanisti era stato dato a quegli autori che avevano sostituito il cosmocentrismo degli antichi con una forma di pensiero antropocentrico (Erasmo di Rotterdam, Juan Luis Vives, Montaigne, Pico della Mirandola...).

La differenza tra gli umanisti del Rinascimento e quelli del secolo XIX sta nel fatto che i primi non pensarono mai che per affermare l'uomo fosse necessario negare Dio, mentre i secondi lo ritennero imprescindibile. Feuerbach (1804-1872) divulgò la tesi secondo cui l'uomo aveva inventato Dio col fine di avere motivi per sperare. Solo quando abolirà questa speranza fittizia, l'uomo sarà in grado di raggiungere da sé la pienezza. Così, dunque, l'interesse di Feuerbach non era tanto la negazione di Dio quanto l'esaltazione dell'uomo. Perciò egli va considerato umanista prima che ateo. Nel prologo al primo volume delle sue opere, scrisse: " Chi dice di me soltanto che sono ateo, non dice e non sa nulla di me. Il problema dell'esistenza o della non esistenza di Dio, l'opposizione tra teismo e ateismo è una cosa dei secoli XVI e XVII. " Io nego Dio, ma per me, questo significa negare la negazione dell'uomo ". In un altro passo, si legge: " Dio fu il mio primo pensiero; la Ragione, il mio secondo; l'Uomo, il mio terzo ed ultimo pensiero ".

L'umanesimo del secolo XIX è stato, come si può vedere, sotto il segno di Prometeo e corrispondeva perfettamente con la fede nel progresso che caratterizzò il secolo scorso. Tuttavia, le due terribili guerre mondiali del nostro secolo e la grande Crisi economica fra le due costrinsero gli umanisti a cambiare tono. Continuarono ad essere atei, ma l'ottimismo di prima rispetto alle possibilità di realizzazione dell'uomo lasciò il posto allo scetticismo: " L'uomo è una passione inutile ", ha scritto Sartre.

Negli ultimi vent'anni, è accaduto qualcosa di più sorprendente: si è scatenato un attacco contro l'umanesimo da vari fronti ad un tempo: il marxismo antiumanista di Althusser, il neotreudismo di Lacan, il neopositivismo di Lévi-Strauss e di Foucault, il biologismo di Morin, ecc. Se Nietzsche ha proclamato cento anni fa la morte di Dio, e, come conseguenza, la comparsa del Super-Uomo, Foucault ha proclamato ora, con una formula che ha fatto chiasso, la morte dell'uomo. Naturalmente, egli non intendeva affermare la realtà ovvia che tutti gli uomini sono mortali, ma la scomparsa del soggetto personale con la sua identità, la sua coscienza e la sua libertà. " Io non esisto; il fatto è notorio ", dice un personaggio di Samuel Beckett.

Il fatto curioso è che se l'umanesimo del secolo scorso fu un'affermazione dell'ateismo contro il cristianesimo, la crisi attuale degli umanesimi ha invertito le posizioni: mentre l'antiumanesimo si presenta come ateismo, l'umanesimo appare nella coscienza dei nostri contemporanei più o meno legato al cristianesimo. Le oscillazioni che questo tema ha subìto lungo gli ultimi duecento anni permettono di trarre alcune conclusioni:

1) Lungo la storia, i cristiani hanno fornito argomenti all'umanesimo ateo, perché certe forme di concepire la fede hanno prodotto frutti di inumanità: siamo andati a Dio quasi esclusivamente partendo dai limiti dell'umano, trasformandolo in questa maniera in un deus ex machina. Abbiamo affermato i " diritti di Dio " in antagonismo ai " diritti dell'uomo ", ecc.

2) Il fatto che, dopo la morte di Dio, non sia venuto il Super-uomo, ma la morte dell'uomo, fa venire il dubbio non ci sia un umanesimo meno " reale " dell'umanesimo puramente umano.

3) Il cristianesimo dovrebbe apparire come la religione umanista per eccellenza, dal momento che il secondo comandamento forma col primo una unità così intima che si può parlare di " uno ". Si distingue così " da ogni religione e da ogni umanesimo: da ogni religione, perché quello che sta nel suo centro non è Dio, ma l'uomo. Da ogni umanesimo, perché il motivo di questa centralità dell'uomo non ha la sua radice nell'uomo stesso, ma solo in Dio " (J.I. González Faus).

4) Dall'ispirazione cristiana, possono sorgere vari modelli di umanesimo. Per questo, affermava J.M. González Ruiz che il cristianesimo non è un umanesimo (È senza fondamento, per esempio, che un partito politico venga identificato con l'umanesimo cristiano).

Bibl. - Heidegger M., Lettera sull'umanesimo, Ed. SEI, Torino, 1975. Lubac H. De, Il dramma dell'umanesimo ateo, Ed. Morcelliana, Brescia, 1982. Maritain J., Umanesimo integrale, Ed. Borla, Torino, . Mondin B., Umanesimo cristiano. Saggio sulle implicanze culturali della fede, Ed. Paideia, Brescia, 1980. Montain M., " Umanesimo cristiano ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci Leumann (Torino), 1987, pp. 651-652. Rivista " Concilium " 9 (1973) n. 6: L'umanesimo messo in questione.

L.González-Carvajal

Umiltà. (inizio)

È significativa l'insistenza dei più grandi maestri di spirito su questo atteggiamento cristiano. Santa Teresa d'Avila, una di questi grandi maestri, non esita a porre l'umiltà come fondamento dell'orazione e del progresso in questo difficile cammino. Anche sant'Agostino, uomo dalle affermazioni decise, scrisse che " la nostra perfezione è l'umiltà ".

E tuttavia, l'umiltà è anche uno degli atteggiamenti più gravemente esposti alla manipolazione, alla confusione e all'identificazione con altri comportamenti poco nobili. Vale la pena fare un atto di discernimento per avvicinarsi alla vera umiltà.

Santa Teresa d'Avila definisce l'umiltà come un " camminare nella verità " (Seste mansioni, 10, 6-7). L'umiltà ha un senso dinamico; non è un'idea, ma una vita; è la condizione basilare del cristiano. Andare, come camminare, fa parte dell'universalità dell'attività umana. Si va e si cammina col pensiero, con la parola, col gesto, con l'azione. Andare è un dinamismo fondamentale e particolare; è un camminare in un modo determinato.

Questa forma determinata di camminare è la verità: camminare nella verità. Questa modalità di camminare implica due cose: la prima: muoversi nella verità e dalla verità, che è Dio. Dio sta al sorgere dell'umiltà e la sostenta. La seconda: si può seguire la verità solo dalla nostra verità, da quello che siamo realmente. Chi ignora quello che è, cammina da quello che non è. E quando si entra nella strada del non essere, ogni errore è possibile, anche quelli più impensabili.

" Anime meschine, sotto la sembianza dell'umiltà " : così santa Teresa d'Avila giudicava molte umiltà apparenti. Dicevamo prima che l'umiltà corre il rischio di essere manipolata. La timidezza, la pusillanimità, ecc., sono atteggiamenti che possono cercare di infiltrarsi nella casa dell'umiltà, " sotto la sembianza dell'umiltà ". Una mancanza di discernimento e di fine istinto può portare facilmente a identificazioni sempliciste e distruggenti.

Non è difficile che esistano tergiversazioni del genere. Può sembrare perfino che ci sia per questo una certa base evangelica. La figura evangelica del pubblicano, che, " fermatosi a distanza, non osava alzare nemmeno gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore " (Lc 18,13), può aver favorito una certa tendenza a mistificare l'umiltà e la timidezza.

Intanto, il pubblicano non è un personaggio attraente, ma bisogna superare la prima impressione superficiale, perché il pubblicano non è in realtà una figura sfuggevole e vile: è una forte tempra e ha presenza d'animo, assumendosi le sue responsabilità senza scuse né giustificazioni tanto inutili quanto orgogliose. L'umiltà evangelica si oppone all'insolenza e alla vanità di quanti si sopravalutano e credono che tutti li debbano imitare; è contraria a coloro che cercano i primi posti perché non riescono a pensare che un altro li possa meritare più di loro. I superbi si pavoneggiano, allargano i loro filattèri... (cf Mt 23,5-7). Sono un disastro per la convivenza con forme spontanee ridicole e oggetto di condanna da parte degli altri.

Santa Teresa d'Avila scrisse: " Occorre che ci studiamo di diportarci sempre con verità. Non dico soltanto che non si debba mentire... ma che camminiamo nella verità innanzi a Dio, e innanzi agli uomini in tutte le circostanze possibili, specialmente col non volere che ci ritengano più di quello che siamo, e con dare a Dio quello che è di Dio e a noi quello che è nostro nelle opere che facciamo " (Castello interiore, Seste mansioni, 10, 6). Camminare nella verità non significa camminare nella timidezza, ma camminare con la consapevolezza di quello che siamo. Siamo poveri e siamo ricchi: nel nostro essere più profondo, siamo poveri; non siamo niente. Arrivare all'esperienza del nulla è il primo passo per aprire spontaneamente le mani a Colui che è tutto, ma anche a coloro che, può non essendo il tutto, hanno qualche cosa da darci. Non si può chiedere con la convinzione di essere ricchi. I ricchi non chiedono; caso mai, rapiscono. L'umiltà più profonda e più sincera sta nella linea della povertà, della povertà spirituale e della povertà sociale. Non per nulla l'umiltà è stata messa in relazione con la prima beatitudine evangelica.

Però, questa consapevolezza di povertà radicale non nega e non nasconde la ricchezza con cui qualcuno ci ha arricchiti gratuitamente (un'altra categoria, quella della gratuità intimamente unita all'umiltà). I doni di natura e di grazia avvolgono gli uomini coprendo la loro nudità ed abbellendo la loro persona. Bella umiltà quella di camminare negando i fatti! Questo non è camminare nella verità. Così, l'umiltà vive non solo nella consapevolezza profonda della propria pochezza, ma anche nell'attività che esercita con l'avere proprio e con quello altrui. Il nasconere in qualsiasi modo i valori umani è un peccato contro l'umiltà.

L'umiltà, al contrario di quello che potrebbe sembrare, è una virtù attiva, non solo perché tutte le virtù hanno una dimensione di attività, ma anche perché è primariamente attiva. È un camminare.

Parlare della pratica dell'umiltà è come parlare dell'infanzia spirituale, quell'atteggiamento espresso e approfondita nel Carmelo da santa Teresa di Gesù Bambino. Questo atteggiamento è attuato nella pratica cruciale della teologia della liberazione (G. Gutiérrez).

L'infanzia spirituale riconosce che non condividiamo quello che abbiamo, e che, in ogni uomo, sotto qualsiasi latitudine, c'è un fondo di egoismo tremendo. Per questo, non riusciamo minimamente a progredire. Anzi, c'è l'impressione, confermata da statistiche incontestabili, che stiamo retrocedendo. per colpa degli altri, e per colpa nostra. Ci viene meno, con troppa frequenza, l'avere fraterno, perché ritorniamo continuamente al nulla che siamo.

Sentiamo allora la necessità profonda di aprirci, ancora una volta, alla grazia di chi può fare di più, perché è di più. L'umiltà non dispera, ma escogita nuovi mezzi. L'umiltà accetta tutto, ma quando trova chiusa la donazione, ricorre a chi è dono. L'umiltà conduce un'esistenza difficile e reale, tormentata e piena di speranza, nell'oscurità del mistero degli uomini e del mistero di Dio, senza riuscire, forse, a scoprire quale dei due è il più grande mistero.

Bibl. - Bonhoeffer D., Etica, Ed. Bompiani, Milano, 1969. Häring B., La legge di Cristo, Ed. Morcelliana, Brescia, 1967. Hartmann N., Etica, Ed. Guida, Napoli, 1970. Kaczy_ski E., " Umiltà ", in: Nuovo Dizionario di Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1392-1399. Mongillo D., " Umiltà ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1610-1621.

A. Guerra

Unità. (inizio)

Non corrisponde all'indole di questo dizionario esporre problemi metafisici che sorgono intorno al concetto di unità. La cosa più radicale in questo piano è quella di conciliare l'unità prima e ultima dell'essere con la molteplicità delle cose (enti). I teologi scolastici cercavano la soluzione mediante i concetti di analogia e di partecipazione, che consentivano di attribuire l'essere a realtà molto diverse: Dio, l'uomo, il cosmo. Per Heidegger, l'ente esiste nell'orizzonte dell'Essere e la caratteristica dell'uomo è la sua apertura all'Essere. Però, quello che qui ci interessa in modo immediato è il problema dell'unità nella quadruplice dimensione etica (a), sociale (b), teologica (c), ecclesiale (d).

(a) La teologia morale cattolica del XIX secolo e della prima metà del XX ha accentuato fortemente una specie di monismo etico: una legge morale (naturale) scritta nell'essenza e nelle relazioni essenziali della persona umana, immagine e partecipazione dell'essenza divina. Pertanto, una legge unica, universale e immutabile per tutti gli uomini e tutti i popoli. Però, oggi siamo caduti sotto la cappa dell'enorme cumulo di condizionamenti storici, culturali e sociali che inquadrano la coscienza morale di ogni persona. Non possiamo cadere nella tentazione di postulare un monismo etico individuale e astratto. Già i grandi teologi del Medioevo e della cosiddetta Seconda Scolastica (secoli XVI-XVII) avevano una coscienza viva dell'esistenza di una gerarchia nelle norme morali: solo i grandi princìpi fondamentali sarebbero in questo modo evidenti alla coscienza: per loro, non sarebbe possibile l'ingnoranza sincera e incolpevole. Con altre norme più complesse e più problematiche, l'ignoranza con l'intera buona fede poteva essere normale e perfino inevitabile. Essi sostenevano che la norma prossima della moralità di una persona concreta era la sua coscienza. Il Concilio Vaticano II (GS 16) ribadisce questa concezione. Oggi, è necessario riconoscere il pluralismo etico in un modo più diretto e più radicale. Solo per alcuni princìpi fondamentali sarà possibile postulare l'universalità, prima di tutto per il principio, secondo cui " si deve fare il bene ed evitare il male ". Esso si identifica con la realtà medesima (con l'esistenza) di una coscienza morale. Però, non per questo ci dobbiamo rassegnare a cadere in un puro soggettivismo etico, in un caos delle coscienze. Partendo da princìpi basilari sui quali è facile la convergenza di persone rette, bisogna favorire un dialogo di coscienze che aiuti tutti nel progresso morale. Così, si può giungere ad una certa unità dialettica di convergenza sul piano delle convinzioni etiche. Ciò è applicabile anche ai cristiani, sulla base della fede e dell'ispirazione evangelica, riguardo alla diversità di coscienza di cui parla san paolo (Rm 14).

(b) La società d'oggi tende ad un pluralismo in cui coesistano e si esprimano liberamente gruppi che si richiamano a concezioni differenti riguardo alle questioni ultime sulla natura e sulla sorte dell'uomo. L'ordine giuridico, che ha bisogno di essere appoggiato da un certo orizzonte etico, non può più basarsi su una morale confessionale religiosa, ma su un'etica civile, che gode di un ampio consenso su alcuni valori di convivenza, condivisi, nonostante la diversità di posizioni filosofiche e religiose.

(c) L'unità della Chiesa è unità di fede e di carità, che non esclude una pluralità di teologie. San Tommaso d'Aquino (IIa IIae, q. 1, art. 2, ad 2) dice che l'atto del credente non termina negli enunciati concettuali, ma nella stessa realtà in cui si crede. L'unità della fede viene dal fatto che tutti e ciascuno crediamo nello stesso Dio, nello stesso Gesù Cristo. Sebbene ognuno creda a suo modo (sotto l'impulso dello Spirito settiforme), la sua fede termina nella stessa realtà di Gesù Cristo, di Dio. Qui si realizza una unità di fede che è vita, e che apre per i credenti la più ampia libertà.

(d) La Chiesa è sempre stata plurale, anche prima della separazione dell'Oriente dall'Occidente e dello strappo della Riforma. L'unità deve trovarsi nell'equilibrio tra collegialità dei vescovi e primato del papa, tra ministero e partecipazione corresponsabile dei laici, tra magistero e teologia, tra funzione docente e senso della fede del popolo, in quanto nella Chiesa tutti hanno qualcosa da insegnare e tutti hanno qualcosa da imparare.

Bibl. - Aa.Vv., Pluralismo, moda o rivoluzione?, Ed. Città Nuova, Roma, 1971. Balthasar H.U. von, La verità è sinfonica: aspetti del pluralismo cristiano, Ed. Jaca Book, Milano, . Commissione Teologica Internazionale, Pluralismo. Unità di fede e pluralismo teologico, Ed. dehoniane, Bologna, 1974. Congar Y., Diversità e comunione, Ed. Cittadella, Assisi, 1984. Rahner K., Il pluralismo teologico e l'unità della professione di fede nella Chiesa, in: " Concilium ", 6(1969), 125-147.

J.M. Díez-Alegría

Unità della Chiesa. (inizio)

L'unità è una nota caratteristica della vera Chiesa di Cristo. Questa unità ha il suo fondamento nel fatto che la Chiesa è stata istituita dall'azione di Dio uno (1 Cor 8,6), mediante la rivelazione una in Cristo uno (Rm 14,7 ss) e nell'opera di uno Spirito (Ef 2,18). Pertanto, il primo principio di unità della Chiesa e la ragione fondamentale della sua unicità sono radicati nell'unità e unicità di Dio. Questa unità si realizza, non solo a livello profondo dell'unione degli spiriti, ma anche nel corpo sociale ed organizzato che è la Chiesa. Per questo, l'apostolo Paolo ricorre frequentemente alla metafora del corpo unito per esprimere quello che è e quello che deve essere la Chiesa. Del resto, è questo il supremo desiderio di Gesù: " Perché tutti siano una sola cosa come tu, Padre, sei in me e io in te. Siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato " (Gv 17,21). In questo modo, l'unità appare come la nota essenziale di coloro che credono in Gesù e come argomento di credibilità per coloro che non hanno la fede.

L'unità della Chiesa è ad un tempo unità di comunione spirituale o di grazia e unità nei mezzi che procurano questa vita. Secondo Atti 2,42, l'unione dei credenti comporta nello stesso tempo:

a) unità per l'accettazione della dottrina apostolica;

b) unità sul piano della vita sociale o comunità fraterna;

c) unità nella celebrazione del culto.

Il Concilio Vaticano II, richiamando una lunga tradizione teologica, afferma: " Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salute in essa istituiti, e nel suo corpo visibile sono congiunti con Cristo  che la dirige mediante il Sommo Pontefice e i Vescovi  dai vincoli della professione della fede, dei sacramenti, del regno e ecclesiastico e della comunione " (LG 14). Questa, però, è l'unità piena. Esistono anche forme di unità imperfetta in coloro che cercano in qualche modo di giungere a questo ideale. Di qui, il senso profondo del movimento ecumenico e l'importanza di tutti gli sforzi che si compiono per giungere, già in questa vita, all'unità perfetta.

Però, l'unità della Chiesa non deve essere confusa con l'uniformità. Indubbiamente, è successo alle volte, soprattutto a Roma, che c'è stata la tendenza a confondere le due cose. Questa tendenza va criticata. Per quello che si riferisce agli uomini, la riduzione all'uniformità deve essere esclusa, perché Dio non ci tratta come cose, ma come persone libere. Una persona, o quasi persona, libera per natura, reagisce ai doni di Dio. Di qui, le varie espressioni di realtà fondamentalmente identiche: le teologie, i riti, le forme di devozione, le usanze, i vari tipi di spiritualità. L'unità totale abbraccia queste diversità e addirittura si costruisce con esse. Inevitabilmente, e spesso, avviene nella Chiesa la tensione tra l'unità e l'uniformità. È stato detto molto bene che è possibile cercare la conciliazione in tre direzioni: la federazione, l'organizzazione unitaria, la comunione. La semplice federazione non corrisponde alla natura profonda della Chiesa, né a ciò che fu nelle sue origini. Il regime di organizzazione unitaria, o di una Chiesa che costituisce un corpo con una struttura, ben visibile, di un popolo unito, è quello verso cui molto presto si è orientato il papato. È il regime la cui teoria è stata elaborata generalmente dall'ecclesiologia cattolica latina. Per parte sua, il regime di comunione si è verificato soprattutto nella Chiesa antica ed ha continuato a prevalere nell'ecclesiologia orientale. La comunione bada per prima cosa alle Chiese locali e poi stabilisce tra di loro una serie di legami che fanno di tutte una comunione. Sembra che il regime di comunione sia quello che risponda meglio alla natura della Chiesa e che rispetti meglio il significato delle Chiese locali come sono state definite dal Concilio Vaticano II.

Oggi, come quasi sempre, l'unità della Chiesa appare seriamente danneggiata dallo scisma e dall'eresia. Il Concilio Vaticano II e i Papi post-conciliari hanno adottato su questo punto una teologia ben definita: quella della Chiesa come comunione totale nella pienezza dei doni salvifici di Dio. Tutti i cristiani, anche quelli " disuniti " (seiuncti a nobis) sono, per il fatto del battesimo, membri del Popolo di Dio e, pertanto, membri della Chiesa. Tra loro e noi non esiste la comunione totale, ma c'è già una comunione imperfetta. Lo sforzo per restaurare l'unità cerca di ristabilirla nella sua pienezza.

Bibl. - Congar Y., Proprietà essenziali della Chiesa, in: Feiner J. - Löhrer M., (a cura di), Mysterium Salutis, 7, Ed. Queriniana, Brescia, 1972, pp; 439-552. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995, pp. 203-314. Fries H., Teologia Fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1987, pp. 685-705. Lubac H. De, Pluralismo di chiese o unità della Chiesa?, Ed. Morcelliana, Brescia, 1973. Möhler J.A., L'unità della Chiesa, Ed. Città Nuova, Roma, 1969.

J.M. Castillo

Unzione. (inizio)

L'unzione è un'azione rituale religiosa che consiste nell'ungere con olio persone o cose con l'intento di separarle dall'uso profano e di ottenere che rimangano penetrate di forza divina. L'uso dell'olio, semplice o accompagnato da altre materie aromatiche, è un elemento che fa parte di molte religioni. L'AT conosce soprattutto l'unzione dei re e dei sacerdoti, e chiama Unto per eccellenza il Messia atteso. La liturgia cristiana ha sempre fatto uso di unzioni come un simbolo speciale dello Spirito Santo che penetra totalmente l'anima del cristiano o che si rende specialmente presente in un luogo determinato. Gli oli usati sono benedetti solennemente dal vescovo nella messa crismale del Giovedì Santo e ricevono nomi diversi  crisma, olio dei catecumeni, olio degli infermi  a seconda di quello che li compone e dell'uso a cui sono destinati. Ci sono unzioni nel battesimo, nella cresima, nell'ordinazione di presbiteri e di vescovi, nella dedicazione delle chiese, nella consacrazione degli altari, del calice, della patena, ecc.

Una menzione speciale merita l'unzione degli infermi, che per tanti secoli è stata chiamata estrema unzione perché era amministrata di solito ai moribondi. Essa consiste nell'ungere alcuni degli organi corporei degli infermi, accompagnando l'azione con parole che implorano il sollievo della malattia e la remissione dei peccati. Il NT menziona la prassi adottata dagli apostoli durante la vita terrena di Gesù, di ungere gli infermi (cf Mc 6,13). Le prime comunità cristiane hanno continuato questa pratica, come viene attestato da san Giacomo: " Chi è malato, chiami presso di è i presbiteri della Chiesa ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo solleverà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati " (Gc 5,14-1S). L'unzione degli infermi era ritenuta un aiuto per la guarigione o. corporale, simbolo della guarigione dell'anima. A partire dal secolo X, in Occidente, il suo significato venne spiegato all'interno della teologia sacramentaria. Pietro Lombardo la ritenne uno dei sette sacramenti della Chiesa. Questa dottrina fu accettata dal Concilio di Trento. Per molto tempo, l'unzione degli infermi fu ritenuta un rito di preparazione alla morte. Il Concilio Vaticano II si propose di ridarle la sua vera natura di sacramento degli infermi: " L'"Estrema Unzione", che può essere chiamata anche e meglio, "Unzione degli infermi", non è il sacramento di coloro soltanto che sono in fin di vita. Perciò il tempo opportuno per riceverlo ha certamente già inizio quando il fedele, per malattia o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte " (SC 73).

La riforma del rito dell'unzione degli infermi fu portata a termine dopo il Vaticano II. Essa ha messo in rilievo il legame del sacramento con la Parola di Dio e l'importanza del gesto dell'imposizione delle mani come segno di benedizione e di comunicazione dello Spirito. Le unzioni (che prima erano applicate ai diversi organi dei sensi corporali) vengono fatte sulla fronte e sulle mani e, per ragioni pastorali, si può fare una sola unzione sulla fronte o su un'altra parte del corpo. Le formule che accompagnano l'unzione non si riferiscono soltanto al per dono dei peccati, ma alludono anche alla salute integrale dell'infermo: " Per questa santa Unzione e la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo. Amen. E liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi. Amen ".

L'unzione può essere amministrata all'interno della celebrazione eucaristica. E' anche previsto che si possa amministrare a parecchi infermi riuniti o a parecchi anziani, nella sala di un ospedale o in una chiesa. Può avvenire anche sotto la forma di una celebrazione della parola. Attualmente, anche nel rito romano, è permessa la concelebrazione dell'unzione da parte di vari presbiteri. Questo, fin dall'antichità è abituale presso gli Orientali. In casi eccezionali, l'unzione è celebrata all'interno del cosiddetto " rito continuo " che comprende la penitenza, l'unzione e la comunione come viatico.

L'unzione degli infermi rappresenta l'aspetto più espressivo della visibilizzazione rituale e sacramentale della lotta della Chiesa contro la malattia, come simbolo della liberazione integrale dell'uomo realizzata con l'opera salvifica di Cristo. Però, è necessario promuovere una educazione di tutti i cristiani su quello che si riferisce al vero senso dell'unzione degli infermi. Lungo la storia, questo sacramento ha subìto, come abbiamo già detto, una deformazione che lo ha trasformato, da sacramento normale per i malati gravi, in cerimonia immediatamente precedente alla morte, con la conseguenza psicologica inevitabile di suscitare nei cristiani malati più timore che desiderio di riceverlo.

Uno dei modi più efficaci per eliminare il timore inveterato di fronte al sacramento dell'unzione consiste nell'inserirlo organicamente nel complesso dei rapporti che esistono tra i malati e le persone sane. Il sacramento dell'unzione, punto culminante di tutta l'attività liturgica per gli infermi, dovrebbe essere l'espressione più significativa di queste relazioni: la comunità prega per il malato; il malato offre le sue sofferenze e le unisce a quelle di Cristo. Tutti, insieme, celebrano liturgicamente l'azione divina che, nonostante il dolore e la malattia, accresce la vita e dà la salute. La necessità di collegare l'unzione con tutto il complesso della cura per i malati appare chiaramente nel titolo stesso del libro liturgico corrispondente, intitolato: Rituale dell'unzione e della pastorale degli infermi.

Durante la malattia, c'è una serie di momenti in cui il malato si rende presente alla comunità e la comunità si rende presente al malato: il vertice sacramentale di queste relazioni reciproche è l'unzione solenne compiuta dal sacerdote, accompagnata dalla preghiera della fede, che santifica il cristiano nella sua malattia, non fornendogli un aiuto perché si rassegni, ma aiutandolo a superare la sua situazione di debolezza e di impotenza. Allora, l'unzione degli infermi è per i cristiani, non un disperato aiuto in extremis, come faceva pensare l'antico nome di " estrema unzione ", ma è il sacramento ordinario della malattia grave, il segno efficace dell'azione sanante di Dio e della lotta della Chiesa contro il male.

Bibl. - Colombo G., " Unzione degli infermi ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 1539-1552. Davanzo G. (a cura di), L'unzione degli infermi ha valore oggi?, Ed. OARI, Varese, 1972. Fedrizzi P., L'unzione degli infermi e la sofferenza, Ed. Messaggero, Padova, 1972. Gozzelino G., L'unzione degli infermi, Ed. Marietti, Torino, 1976. Ortemann C., Il sacramento degli infermi, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1972.

J. Llopis

Utopìa. (inizio)

La parola utopìa apparve per la prima volta nel 1516 nel libro di Tommaso Moro che portava appunto questo titolo. Era un neologismo o creato da lui. Etimologicamente, deriva dal greco où tòpos: " ciò che non si trova in nessun luogo ". Però, potrebbe anche derivare da èu tòpos: " il luogo della beatitudine e della felicità ". Difatti, con la descrizione dell'isola dell'Utopìa di Tommaso Moro, si addicono tutti e due i significati: è un ordine sociale, che non esiste in nessun luogo della terra; ivi regnano una giustizia ed una felicità complete.

A partire dalla seconda metà del secolo XVI, cominciarono ad apparire molti racconti simili, fino al punto che la sola cultura occidentale ha dato origine

a quasi mille utopie durante gli ultimi quattro secoli. Tra le utopìe del Rinascimento, vanno ricordate, oltre a quella di Tommaso Moro, La Città del sole, di Campanella (1623) e La nuova Atlantide, di Francis Bacone (1627). Sugli inizi del secolo XIX, sorse una nuova generazione di pensatori utopisti che immaginarono alternative alla società capitalista basate sulla proprietà comunitaria dei mezzi di produzione. Parecchi di questi passarono dalle utopìe scritte a quelle applicate, sperimentando i modelli che venivano proposti in piccole comunità (per esempio: Fourier, Cabet, Oxen, Weifling e i diacepoli di Saint-Simon). Purtroppo, tutti questi esperimenti fallirono.

L'utopìa ha avuto fino ad oggi una cattiva fama, sia a destra (che non vuole nessun cambiamento), sia a sinistra (che non ritiene che l'utopìa sia la strada adatta per cambiare). Nel 1880, Engels chiamò sprezzantemente " socialisti utopisti " tutti quello che avevano tentato gli esperimenti citati; li trattò anche di inoperosi perché, senza cercare di comprendere le leggi interne del capitalismo e senza cercare di organizzare gli operai alla lotta rivoluzionaria, avevano creduto ingenuamente che bastasse mostrare la bellezza delle loro utopìe perché tutti le appoggiassero. In opposizione al " socialismo utopista ", il socialismo di Marx e di Engels si chiamò " scientifico ". Nonostante che in una data di poco posteriore (1888), Kautsky fosse riuscito, in un'opera su Tommaso Moro, a portare avanti una revisione marxista del tema dell'utopìa, fu l'opera di Engels, tradotta rapidamente in quasi tutte le lingue d'Europa, ad imporre per molto tempo la sua interpretazione.

Tuttavia, nel nostro secolo, l'utopìa è stata rivalorizzata da vari autori validi, come Herbert Marcuse, Karl Mannheim e, soprattutto, Ernst Bloch. Mannheim difese l'utopìa di fronte all'ideologia: mentre questa elabora miti e idee per conservare l'ordine sociale esistente o restaurare il passato, l'utopìa li elabora per aprire un cammino al futuro.

Bloch difese l'utopìa di fronte al " marxismo freddo " che non è capace di unire la lucidità intellettuale col movente potenziale del " sognare da svegli ". Grazie a questi apporti, oggi siamo in condizioni di valutare con maggiore oggettività che cosa sono le utopìe, come fece Paolo VI nella Octogesima Adveniens (n. 37).

Le utopìe sono, prima di tutto, la proiezione delle aspirazioni più profonde dell'umanità. Esse soddisfano la necessità di rappresentare in qualche modo ciò che non risulta accessibile alla conoscenza sensibile. Partecipano simultaneamente del carattere proprio dell'opera letteraria e filosofica ed hanno una intenzionalità fondamentalmente morale e politica. Compiono tre funzioni principali:

1. Criticare l'ordine stabilito. Si tratta inoltre di un genere letterario che permette di deridere la censura dei regimi autocratici col pretesto della finzione.

2. Prospettare nuovi modelli di società. L'utopìa coincide con la satira nel criticare la società esistente, ma si distingue da essa in quanto, senza rimanere nella pura negazione, offre come alternativa una rappresentazione positiva.

3. Mobilitare le energie capaci di cambiare la società. Oggi, sappiamo che i miti e i simboli hanno un valore di spinta più forte delle idee. Presentano al popolo, in un modo concentrato e denso di emotività, ideali politici capaci di mobilitare energie sociali.

Certamente, l'utopìa comporta anche dei pericoli. Uno di essi è che, concentrando l'attenzione e la volontà su ciò che è irrealizzabile, porti fuori da ciò che è possibile. Un altro pericolo è quello di incitare a lanciarsi in picchiata dal piano dell'utopia a quello della realtà, cercando di lasciare nella realtà una copia esatta e definitiva dell'utopìa. Questo, quasi inevitabilmente, può portare alla repressione e al totalitarismo (Popper).

È esatto affermare che il Regno di Dio è l'utopìa dei cristiani? Si tratta di un altro ordine di realtà che non va situato allo stesso livello delle utopìe intramondane. Queste utopìe sono mediazioni necessarie della speranza del Regno, ma stanno sempre sotto la riserva escatologica.

Bibl. - Baldini M., Il linguaggio delle utopìe, Ed. Studium, Roma, 1974. Colombo A. (ed.), Utopìa e distopìa, Ed. Angeli, Milano, 1987. Fest J., Il sogno distrutto: la fine dell'età delle utopìe, Ed. Garzanti, Milano, 1992. Habermas J., Dopo l'utopìa, Ed. Marsilio, Venezia, 1992. Mancini I., Teologia, ideologia, utopìa, Brescia, 1974. Nanni C., " Utopìa ", in: Dizionario di Scienze dell'Educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 1154.

L. González-Carvajal

Valore. (inizio)

La volontà dell'uomo ha una natura dinamica chiamata tendenza. Ciò a cui tende la volontà è chiamato valore. Il valore insito nelle cose stesse genera nella volontà una risposta di tendenza verso di esse. In forza di questa tendenza, la volontà si orienta verso la realtà di queste cose con l'intento di appropriarsele affinché in questo modo la persona stessa diventi preziosa o buona.

La morale è, prima di tutto, un processo di appropriazione da parte dell'uomo dei valori che stanno nelle cose, intendendo per cose in genere l'intero mondo della realtà, compreso anche Dio. Nell'uomo, il valore delle cose della realtà si trasforma in destino. Le cose, infatti, aprono davanti all'uomo, proprio in quanto dotate di valore, un ambito di vita che è inesorabilmente proprio: l'ambito della morale. È l'uomo concreto, che vive in mezzo alle cose in uno spazio determinato e in un tempo determinato, colui che è moralmente implicato, costretto a costruire il proprio destino personale. È il valore delle cose di cui è composta la vita concreta a stimolare inesorabilmente l'uomo affinché faccia personalmente suo questo valore nell'azione di ogni giorno. In questo senso, le cose, compreso Dio, sono imprescindibili per la realizzazione del destino personale nella storia. Per il fatto di essere morale, l'uomo non è costituito soltanto da caratteristiche che gli sono " naturalmente date ": è chiamato anche ad arricchirsi di caratteristiche nuove che egli fa sue per appropriazione, mediante il desiderio, l'azione e il godimento.

Non esiste solo il valore (positivo): esiste anche il disvalore (negativo). Valore e disvalore dividono la morale in due grandi emisferi reali e contrapposti: ciò che ha valore, ed è quindi appetibile, da una parte; ciò che è negativo, distruttivo e quindi, da respingere, dall'altra parte.

I valori non costituiscono un mondo puramente oggettivo e isolato rispetto alla realtà. Sono le cose stesse della realtà che stimolano l'uomo affinché le adotti o le respinga. Al di là della oggettività, le cose stesse sono la fonte del valore morale e dello stimolo, proiettati su un essere che ha bisogno delle cose per la sua storia personale.

D'altra parte, i valori ci sono sempre trasmessi socialmente come cristallizzazioni di esperienze storiche precedenti, singole o sociali, destinate, ricuperate, ampliate o respinte dalle nuove generazioni. I valori, come la vita, la libertà, la giustizia, la solidarietà, la; persona, ecc. hanno avuto precedentemente un determinato contenuto, ma oggi si presentano con una tonalità differente che non va disattiva. La storicità dei valori è un aspetto importante della loro stessa perentorietà.

Il fondamento dei valori è dunque la realtà stessa delle cose che valgono. Questa realtà è posta in relazione con le persone, e queste, nella loro storia, non possono fare a meno di esse. I valori esprimono la forma fondamentale della normatività: sono il fine e la motivazione ultima dell'agire. Tutti gli altri centri di motivazione, le istituzioni, gli ordinamenti legali, l'autorità, sono strumentali, tributari e dipendenti dal valore morale.

I valori sono molteplici e, inoltre, sono differenti nel grado di valutazione. Alcuni valori sono superiori ad altri, ossia, valgono più di altri: " La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito " (Lc 12, 23). Una caratteristica essenziale dei valori è quella di essere gerarchizzabili, di essere alcuni preferibili ad altri. La morale dice all'uomo che non può lasciarsi portare dalle tendenze: è costretto a preferire. Alla vita morale dell'uomo è inerente la sua condizione drammatica. Egli deve fondamentalmente a questa necessità inesorabile il fatto di dover sospendere la tendenza e di aprirsi alla diversità dei valori che sono in gioco. Deve scegliere fra questi. La morale cristiana ha tematizzato con forza, non sempre in termini armonici, la differenza di valore tra Dio e le creature.

La gerarchia di valori si presenta alle volte nella forma drammatica più acuta di conflitto tra valori, quando in una data situazione, due o più valori non possono essere appropriati simultaneamente da una persona. Il conflitto può sorgere tra il bene particolare ed il bene generale, tra due progetti riguardanti il futuro o tra due beni particolari. Nella vita di oggi, i conflitti tra valori vanno moltiplicandosi. I valori della pace, della giustizia, della dignità della persona dànno luogo a frequenti situazioni conflittuali. Sarà allora necessario ricorrere ad uno sforzo personale di discernimento sul grado maggiore o minore di perentorietà dei valori in conflitto.

Un'educazione delle persone e dei gruppi sociali circa la capacità di discernere la scelta di determinati valori cruciali è indispensabile, soprattutto in una situazione di società pluralista. Tutta la società dovrebbe essere in grado di farsi carico responsabilmente dei valori, in questione. La banalizzazione sociale della morale o la frivolezza dei giudizi di valore, insieme alla contaminazione ideologica, sono le due grandi minacce che pesano oggi sulla grande sfida dei valori.

Bibl. - Cottier G., Valori e transizione, Ed. Studium, Roma, 1994. Dalle Fratte G. (ed.), Fine e valori, Ed. Armando, Roma, 1992. De Ruvo V., I valori morali, Cedam, Padova, 1970, Santelli Beccegato L. (ed.), Bisogno di valori, Ed. La Scuola, Brescia, 1991. Valori P., " Valore morale ", in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., 1994 , pp. 1416-1427.

J. de la Torre

Vangelo. (inizio)

La tradizione cristiana chiama vangelo (in greco: euanghèlion = lieto annuncio) tanto la proclamazione del messaggio di Gesù quanto il suo contenuto interno. Veramente, tutta l'esistenza storica di Gesù è un vangelo vivo, anche se non tutto è stato consegnato per scritto. Gesù divulgò il suo messaggio non solo col pronunciare discorsi, ma anche l'aiutare gli infermi, col denunciare gli oppressori privi di scrupoli, ed anche tacendo in situazioni dove non c'era nulla di più eloquente del silenzio. La presenza storica di Gesù, il Figlio di Dio incarnato, si presenta come un libro aperto a cui ogni essere umano può ispirarsi quando si tratta di dare un orientamento alla propria esistenza. Così, dunque, Gesù annunciò un vangelo fattosi vita coi suoi discorsi, con prodigi, denunce, silenzi e col modo di accettare la morte come passaggio verso la vita in pienezza.

Dopo la sua risurrezione, i primi discepoli (Pentecoste) ricevettero, tradotto in categorie vitali, lo stesso messaggio proclamato da Gesù durante tutta la sua vita pubblica. Quello che prima non avevano forse capìto con la loro mente, lo capirono a Pentecoste in modo vitale. In quello stesso momento, si mise in moto l'andatura complessa di un progetto religioso che noi chiamiamo Chiesa. I primi predicatori non facevano altro che trasmettere il vissuto che sentivano dentro di sé dopo il loro incontro pentecostale col Risorto.

Per parecchi anni, i cristiani si limitarono a garantire il loro impegno cristico mettendo in pratica quanto avevano trasmesso loro quelli che, a Pentecoste, erano stati dotati della forza vitale del Risorto. Non si vedeva ancora la necessità di stendere per scritto questi eventi. Quando, però, crebbe il numero dei predicatori, apparve utile fissare per scritto i punti nevralgici del suo messaggio (foglietti volanti) per evitare qualche possibile deviazione religiosa. Fu indubbiamente san Paolo che per primo decise di dare una risposta scritta ai problemi sorti nelle comunità da lui fondate nei suoi viaggi apostolici. Così, dunque, le lettere Paoline sono il primo sforzo per redigere i punti più importanti di quel vangelo che ogni cristiano cercava di vivere con autenticità.

Il potenziale espansivo delle nuova esperienza religiosa richiese che venisse moltiplicato il numero di annunciatori del messaggio. E questi, sempre più lontani dai " Dodici " e dagli altri capi, ebbero bisogno di fissare per scritto il contenuto della dottrina poiché, in casi di dubbi, non avevano nessuno da consultare. Sorsero così le cosiddette " fonti scritte ". Queste, anche se non si sono conservate fino ad oggi, sono comunque servite come norme agli evangelisti, quando questi decisero di comporre le loro rispettive opere. Queste furono richieste dalle varie comunità locali, desiderose di norme che, associate al messaggio genuino di Gesù, servissero a loro volta di conferma e di stimolo per il futuro. Gli evangelisti, che erano membri delle loro rispettive comunità, non fecero altro che riportare nelle loro opere il frutto del loro vissuto cristico, basato su alcune fonti scritte e sui ricordi storici che molti avevano ancora di Gesù.

Sono stati conservati gli sforzi di quattro autori anonimi, che la tradizione identificò con Matteo, Marco, Luca e Giovanni, personaggi molto vicini a Gesù, o perlomeno al cristianesimo nascente. Ciò nonostante, la critica attuale sostiene che si ignorano chi siano gli autori genuini di queste opere . Sono considerate anonime, anche se in esse gli autori riportano non solo la loro visuale personale su Gesù, ma anche il modo con cui la comunità intuì il suo messaggio. Se non fosse così, queste opere non sarebbero state accettate dalle comunità che le avevano sollecitate. Così avvenne di fatto con molti altri tentativi di compilare il messaggio di Gesù. Perciò sebbene oggi si conservino quattro visioni distinte (Mt- Mc-Lc-Gv) di uno stesso vangelo, si pensa che ce ne siano stati molti altri. Che cosa è accaduto? Una cosa molto semplice: non tutte le comunità hanno accettato la presentazione che un dato autore dava dell'annuncio di Gesù. Quando l'opera non era accettata, essa cadeva subito nell'oblìo. Questa ha potuto essere la sorte di molti vangeli apocrifi e di altri, di cui si suppone l'esistenza, ma non la si può dimostrare. Si comprende perché la riflessione teologica cerchi oggi di scoprire le intenzioni teologiche di ogni evangelista: solo così, sarà in grado di cogliere il messaggio di Gesù. È lì che si deve trovare l'unico vangelo capace di offrire all'umanità questo annuncio liberatore con la forza di mettere in fuga quello che proviene dal peccato e permettere che ogni individuo usufruisca di quella libertà che Dio ha dato all'uomo, creato ad immagine di Dio (Gn 1,27).

Bibl. - Lambiasi F., L'autenticità storica del Vangeli, Bologna, 1976. Latourelle R., " Vangelo ", in: Dizionario di Teologia Fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 1395-1431. Schillebeecks E., L'approccio a Gesù di Nazaret, Brescia, 1972. Zahrnt H. Cominciò con Gesù di Nazaret, Brescia, 1972. Zedda S., I Vangeli e la critica oggi, Treviso, 1970.

A. Salas

Verità. (inizio)

Nell'AT, la parola verità richiama fondamentalmente la " solidità, la sicurezza, la fedeltà, la consistenza ". Dalla radice ebraica emet, deriva Amen. Così, " dire la verità ", l'esattezza di una dichiarazione non è altro in questa prospettiva che un aspetto particolare e derivato del concetto. Nell'AT, si parla di uomini " retti ", " integri ", fedeli " (Es 18,21; Ne 7,2), di cui ci si può fidare. Si parla della " via giusta " (Gen 24,48) che conduce certamente al fine. Così, le ricchezze vere Bi oppongono a quelle ingiuste che offrono solo una sicurezza ingannevole (Lc 16,11). Giudicare rettamente, cioè, secondo verità (cf Ez 18,8) non è soltanto stabilire oggettivamente i fatti, ma, nel fare questo, cogliere il vero rapporto tra le parti ed assicurare una base solida ad un'esistenza minacciata (Pt 14,25).

In molti, testi del NT, succede che la parola " verità " non corrisponde alla parola ebraica, ma a quella greca. Questa non richiama la solidità, la fedeltà, ma esprime il fatto che una cosa rimane palese. È il caso frequente di san Paolo, come anche dei vangeli e delle lettere di Giovanni. D'altra parte, è facile comprendere che le nozioni non si escludono, ma si completano a vicenda.

Il termine " verità ", in un senso o nell'altro, è entrato con tutta naturalezza nel vocabolario religioso e teologico. Per indicare ciò che è stabile e sicuro, questa parola è spesso applicata al comportamento di Dio verso l'uomo, così com'è e come appare nella sua esistenza. " Tu mi riscatti, Signore, Dio fedele " (= Dio di verità) (Sal 31,6): Dio, fedele a se stesso e alla sua promessa, solidale col credente, lo strappa dall'insicurezza intervenendo nella sua vita, pone una base alla sua esistenza e gli dà un futuro. Tutto il salmo non è altro che una lunga descrizione della verità di Dio. Questa si oppone alla vanità degli idoli, sostegni ingannevoli per quelli che li invocano.

Anche nel NT appare la stessa prospettiva. Cristo è il servo dei circoncisi e degli incirconcisi per manifestare la verità (la fedeltà) di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri (Rm 15,8). Se, nell'Apocalisse (3,7) Gesù è chiamato " il Verace " è perché in Lui si compie per la Chiesa e per il mondo il disegno di Dio, salvando e giudicando.

È naturale che verità indichi anche la parola scritta, con cui Dio è presente in mezzo al suo popolo: legge di verità (Ne 9,13; Ml 2,6); " la testimonianza del Signore è verace... i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti " (Sal 19,8.10) (cioè, le prescrizioni della legge); la vera dottrina, il vangelo; la parola della verità (Ef 1,3; Gc 1,18); pubblicare la verità è annunciare il vangelo (2 Cor 4,2); ubbidire alla verità (Gal 5,7) vuol dire credere nel vangelo. Lo stesso vangelo è chiamato: la verità, in contrapposizione alle eresie (1 Tm 6,5; 2 Tm 4,4; Tt 1,14; 2 Pt 2,2), come Dio è chiamato vero, in opposizione agli idoli (1 Ts 1,9; 1 Gv 5,20).

Siccome la verità è la realtà divina che abbraccia l'uomo, l'uomo non la può raggiungere da sé né coi dati naturali della vita. Gli stessi discepoli non possono portare il peso di quello che Gesù dice loro: lo Spirito di verità li guiderà alla verità tutta intera, farà loro conoscere Gesù (Gv 16,12-15). Questo Spirito ricorderà loro ciò che Gesù ha detto, cioè, farà loro conoscere la realtà divina (Gv 14,26; cf 1 Cor 2,6-16). È inutile ricordare qui che per culto in spirito e verità voluto da Dio (Gv 4,23), non si intende in nessun modo un culto spiritualizzato, senza Bibbia e senza sacramenti, senza chiesa e senza tempio, sgorgato da alcuni pensieri sinceri del cuore: si tratta del culto reso a Dio per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito.

La conoscenza della verità non è teorica, ma esistenziale, reale nell'impegno dell'uomo tutto intero. La conoscenza data dallo Spirito è che Gesù è il Cristo (l Gv 2,20-22; cf 1 Cor 12,3). Nonostante la formulazione apparentemente teorica, c'è qui una conoscenza pratica che implica una illuminazione e una conversione, cioè: l'uomo deve riconoscere in Gesù la via, la verità e la vita e deve abbandonare il suo spirito di rivolta contro Dio. Conoscere la verità vuol dire essere santificati da essa (Gv 17,17.19), essere sradicati dalla menzogna e aderire a Dio. È una verità che non si conosce se non si rimane in Gesù Cristo (Gv 8, 31 se), nel movimento incessante della fede.

Ancora più concretamente: questa conoscenza è reale solo in una vita sottomessa ai comandamenti: " Chi dice: 'lo conosco' e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c'è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto " (1 Gv 2,4-5; cf 1,6). Comandamento e parola sono sinonimi in questa frase: la parola, il vangelo, non si comprende se non vi si discerne la chiamata all'obbedienza, se non si risponde camminando come Gesù ci ha insegnato (1 Gv 2,6), cioè, se non si fonda tutta la vita sulla rivelazione che è Gesù Cristo.

Una sintesi impressionante di questo concetto di verità si trova in Ef 4, 45, in una frase quasi intraducibile: " Vivendo secondo la verità (aletheùontes) nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo ". La verità non appartiene solo all'espressione, ma anche all'azione. La verità, per essere completa, nonni accontenta di essere detta: deve essere fatta.

L'uomo aveva soltanto la sua riflessione ed essa gli bastava per potersi aprire davanti un Dio che non gli rifiutava mai la sua grazia. La fide dell'uomo naturale non si nutriva certamente di una rivelazione speciale: essa sorgeva dall'incontro della creatura intelligente con Dio creatore che, attraverso il creato, interpellava la sua creatura. Tutto questo, naturalmente, in un clima di grazia che non cessò mai di diffondersi, come una brezza salutare, attraverso il pianeta umanizzato.

Però, quella fede e quella grazia erano solo un punto di partenza che un giorno sarebbe giunto ad una pienezza. Il vangelo è questa pienezza: per questo, " in esso si manifesta pienamente il giudizio di Dio che partì dalla fede per sfociare nella fede ". Quel dialogo umano-divino della fede cristiana o extra-cristiana era pieno di interrogativi: certamente, trattava di salvezza e di superamento dell'indigenza umana, ma fino a che punto? Solo quando venne Cristo e con la sua risurrezione inaugurò l'autentica pienezza umana, l'uomo ha trovato la risposta all'interrogativo angoscioso riguardante il suo destino. Però, questo è un evento che non si può dedurre dalla propria riflessione. È qualcosa che è avvenuto in un luogo del pianeta e di cui sono stati testimoni un pugno di uomini e di donne.

Questo pugno di uomini e di donne si è diffuso nel mondo per proclamare la Buona Novella che l'uomo può riuscire a superare definitivamente la morte. Occorre, però, che Dio lo aiuti col suo Spirito. Occorre organizzarsi per approfondire questo evento salvifico. Occorre essere disponibili allo Spirito di Dio perché questi possa dare il suo aiuto nel compito dell'evangelizzazione.

In una parola, il mondo pagano ha avuto una manifestazione di Dio, colta dalla pura riflessione umana, che imponeva un'etica degna e sufficiente. Però, i teologi pagani rinunciarono alla loro fede e costruirono una teodicea che degradò l'incontro trascendente col divino per sfociare in una idolatria che ha creato degli dèi fatti a immagine e somiglianza dell'uomo. In Israele, invece, la teologia della trascendenza rimase intatta. Ci fu una manifestazione positiva di Dio, addirittura una rivelazione che venne fissata in un libro: la Sacra Scrittura. Però, la sua prassi era spesso in contraddizione con la sua indiscutibile ortodossia. Cioè: tanto la manifestazione extra-cristiana quanto la rivelazione evangelica esigono una coerenza tra conoscenza e prassi. Se manca quest'ultima, la rivelazione può essere contaminata dall'idolatria e perfino da un ateismo larvato.

Bibl. - Agazzi E. - Minazzi F. - Geymonat L., Filosofia, scienza e verità, Milano, 1989. Bagot J.P. e altri, Educare alla verità, Ed. AVE, Roma, 1966. Poupard P., Cercare la verità nella cultura contemporanea, Ed. Città Nuova, Roma, 1994. Potterie De La I., " Verità ", in: Nuovo Dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 1655-1659. Idem, Gesù Verità, Ed. Marietti, Torino, 1973. Schillebeecks E., Rivelazione e teologia, Ed. Paoline, Roma, pp. 277-302. Tommaso d'Aquino: De veritate, a. 7-8; S.Th., q. 16, artt. 5-8.

J.M. González Ruiz

Vescovo. (inizio)

Si chiamano vescovi tutti coloro che hanno in proprio il ministero o l'incarico voluto e fondato da Cristo nella sua Chiesa e che, per diritto divino e per la loro appartenenza al Collegio episcopale, dirigono una Chiesa locale, la loro diocesi, come rappresentativa della Chiesa locale. L'istituzione dell'episcopato è vista in rapporto con l'istituzione degli Apostoli da parte di Cristo. Sappiamo, infatti, che Gesù ha scelto dodici discepoli affinché fossero in un modo speciale i servitori della comunità (Mc 10,42-45; Mt 20,25-28). D'altra parte, secondo Mt 28,19-20, possiamo distinguere tre forme di servizi affidati agli apostoli: essi hanno la missione di ammaestrare tutti gli uomini, di santificarli coi sacramenti e di far loro osservare le prescrizioni del Signore. Ogni apostolo riceve questa missione in unione con gli altri apostoli, in modo tale che tutti insieme formano un tutto, e questo è designato col nome di " collegio apostolico ". Ora, il ministero affidato agli apostoli non è finito con loro. Anche se è vero che nel Nuovo Testamento appare una grande varietà di ministeri, tra cui quello dei vescovi, sappiamo che dalla fine del secolo II o dagli inizi del secolo III, l'episcopato è distinto come quello che possiede la successione apostolica. L'espressione " successori degli apostoli " , riferita ai vescovi, è comune a partire da sant'Ireneo (+ 202 circa). Per parte sua, il Concilio Vaticano II, riassumendo una lunga tradizione teologica, afferma che al collegio degli apostoli, con e sotto Pietro, corrisponde quello dei vescovi, con e sotto il vescovo di Roma: " Come san Pietro e gli altri Apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico Collegio apostolico, in pari modo il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono uniti fra di loro " (LG 22).

" Insegna... il santo Concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell'Ordine " (LG 21). Ciò vuol dire che l'episcopato è sacramento nel senso più pieno e più letterale della parola. Ora, questo fatto comporta conseguenze di grande importanza. In primo luogo, la consacrazione episcopale non è un complemento che avviene ad un cristiano che prima era stato ordinato sacerdote. Se viene conferita ad un semplice battezzato, essa gli dà subito la pienezza della potestà sacerdotale e lo inserisce nel corpo dei pastori supremi della Chiesa. D'altra parte, se l'episcopato è un sacramento, ciò significa che il vescovo riceve la pienezza dei suoi poteri direttamente da Cristo e non per delegazione del Papa. Per molto tempo si è inteso nella Chiesa il sacramento dell'Ordine partendo dal presbiterato (sacerdozio), da cui si deduceva che l'episcopato non è un sacramento. In questo modo, la differenza tra il vescovo ed il presbitero si riduceva al fatto che il vescovo riceveva dal Papa il suo potere di giurisdizione sui semplici sacerdoti e sui fedeli in genere. Oggi, questa concezione è inammissibile. Per questo, la Chiesa nella sua totalità non va intesa come una grande diocesi il cui pastore supremo sarebbe il Papa ed i vescovi locali sarebbero soltanto semplici mandatari del Romano Pontefice. Il vescovo locale è il pastore della sua diocesi per mandato di Cristo, non per semplice delega del vescovo di Roma. Il Papa è il Capo del Collegio episcopale e con lui devono essere uniti tutti i vescovi del mondo. Però, nello stesso tempo, bisogna dire che la teologia dell'episcopato deve servire come fattore di equilibrio nella Chiesa per potenziare il significato e la funzione delle Chiese locali di fronte ad un possibile eccessivo centralismo romano.

Un vescovo in particolare non è successore di un unico apostolo, ma ogni vescovo appartiene alla successione di un apostolo nella misura in cui appartiene all'episcopato totale della Chiesa. Tutto quello che si dice del Collegio apostolico in quanto tale deve anche essere detto dell'episcopato come totalità. Il primato è primato " in " questo Collegio, non " di fronte " ad esso. Non è qualcosa che si affilia un collegio e che ivi conferisce la sua potestà. Pertanto, il Collegio episcopale è la grandezza primaria che succede al Collegio apostolico, che ha il papa come suo Capo sovrano, ed è impensabile senza il Papa. Il Papa solo è e può essere papa in quanto membro e capo di questo Collegio.

Bibl. - Botte B., La collegialità nel Nuovo Testamento e nei Padri apostolici, in: Aa.Vv., Il Concilio e i Concili, Roma, 1961, pp. 19-42. Lécuyer J., L'episcopato come sacramento, in: Baraúna G. (a cura di), La Chiesa del Vaticano II, Ed. Vallecchi, Firenze, 1967, pp. 713-732. Lyonnet St., I fondamenti scritturistici della collegialità, in: La Chiesa del Vaticano II, pp. 793-809. Neunheuser B., Chiesa universale e Chiesa locale, in: La Chiesa del Vaticano II, pp. 616-642. Ratzinger J., La collegialità episcopale dal punto di vista teologico, in: La Chiesa del Vaticano II, pp. 733-760.

J.M. Castello

Via Crucis. (inizio)

La Via Crucis è un pio esercizio legato alla devozione verso la croce di Cristo. Esso consiste nel percorrere le varie " stazioni " pregando e meditando gli episodi avvenuti durante il tragitto di Gesù al Calvario (di qui, il nome di via crucis: il cammino verso il monte calvario). Questo cammino va dal pretorio di Pilato fino al luogo della crocifissione. Di solito, questo pio esercizio si fa a gruppi, ma può essere fatto anche singolarmente: si fa il giro della chiesa dove abitualmente sono erette le stazioni. In certe occasioni, la Via Crucis è praticata per le vie e nelle piazze, processionalmente, portando solennemente un'immagine di Cristo crocifisso o una semplice croce spoglia. Da vari anni, ha un'importanza speciale la Via Crucis che si celebra il Venerdì Santo al Colosseo di Roma, a cui partecipa personalmente il Papa e che viene trasmessa per Eurovisione.

La pratica della Via Crucis sorse nel tardo Medioevo, per il desiderio di riprodurre l'antica pratica dei pellegrini che a Gerusalemme percorrevano devotamente la via dolorosa che va dalla casa di Pilato al Calvario e al Santo Sepolcro. Questa pratica si diffuse in tutta la Chiesa latina, soprattutto nel secolo XV. Il numero di stazioni fu fissato a quattordici nel secolo XVII: la maggior parte di esse richiamano episodi che si trovano nei vangeli, eccetto alcune che sono fondate su racconti leggendari. I francescani furono i grandi propagatori di questa devozione, specialmente san Leonardo da Porto Maurizio. I papi Clemente XII e Benedetto XIV diedero alcune norme riguardanti il modo migliore di praticare questo pio esercizio. Le sue radici popolari possono armonizzarsi facilmente col vero spirito della liturgia, soprattutto, se viene praticato in Quaresima e nel tempo di Passione. È un esercizio basato su un aspetto centrale della fede e della vita cristiana: la morte redentrice di Cristo. Oggi, si fanno tanti lodevoli tentativi per attualizzare questa pia pratica. Si nota la tendenza a terminare l'intera celebrazione con una quindicesima stazione dedicata alla risurrezione di Cristo: essa completa in questo modo l'intera prospettiva del mistero pasquale.

Bibl. - Basadonna G., Tenebrae factae sunt. Una riflessione per la via crucis, Ed. Ancora, Milano, 1983. Boros L., Irruzione su Dio. Una via crucis, Ed. Paoline, Bari, 1972. Lignires J. De, Una morte segnata da una croce. Via Crucis scomoda per il cristiano d'oggi, Ed. Massimo, Milano, 1966. Mazzolari P., La Via Crucis del povero, Ed. Borla, Torino, 1962. Pronzato A., Via Crucis del peccatore, Ed. Gribaudi, Torino, 1971. Röper A., La via crucis dell'uomo contemporaneo, Ed. Queriniana, Brescia, 1968. Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Ed. Paoline, Roma, , pp. 632-641.

J. Llopis

Vicariato foraneo. (inizio)

Il vicariato foraneo è una divisione territoriale che abbraccia varie parrocchie con l'intento di unificare l'azione pastorale di tutti i sacerdoti che operano in quella zona. I1 Codice di Diritto Canonico recita:

" Per favorire la cura pastorale mediante un'azione comune, più parrocchie vicine possono essere riunite in peculiari raggruppamenti, quali sono i vicariati foranei " (CIC 374 & 2).

" Il vicario foraneo, chiamato anche decano o arciprete o con altro nome, è il sacerdote che è preposto al vicariato foraneo " (CIC, 553 § 1).

" Il vicario foraneo è nominato dal Vescovo diocesano, dopo aver sentito, a suo prudente giudizio, i sacerdoti che svolgono il ministero nel vicariato in questione " (CIC 553 § 2).

Può essere nominato vicario qualsiasi sacerdote del vicariato e a tempo determinato. Egli " ha il dovere e il diritto: di promuovere e coordinare l'attività pastorale comune nell'àmbito del vicariato; di aver cura che i chierici del proprio distretto conducano una vita consona al loro stato e adempiano diligentemente i loro doveri... " (CIC 555 § 1).

Il Nuovo Codice di Diritto Canonico segue qui alla lettera la raccomandazione del " motu proprio " Ecclesiae sanctae di Paolo VI. Anche il Concilio aveva affermato:

" Sono diretti collaboratori del Vescovo anche quei sacerdoti, ai quali egli affida un ufficio pastorale, oppure opere di carattere superparrocchiale, sia riguardo ad un determinato territorio della diocesi, sia riguardo a speciali ceti di fedeli, sia riguardo ad una particolare forma di attività " (CD 29).

Il titolo di arciprete apparve nel secolo VI, applicato al sacerdote responsabile di una zona di missione con l'aiuto del suo presbiterio locale. La figura dell'arciprete territoriale, autorità intermedia tra il vescovo ed il parroco, si sviluppò a partire dal secolo IX. A poco a poco, si estese in tutta la Chiesa. Però, la sua autorità diminuì, a causa della prepotenza pastorale acquisita dall'arcidiacono, che era l'equivalente di vicario del vescovo e sovente rivale dello stesso prelato. Praticamente, gli arcipreti non ebbero mai una giurisdizione. La loro responsabilità fu, e continua ad essere, un compito di pura vigilanza amministrativa.

In teoria, il vicariato foraneo è oggi un punto chiave nella pastorale d'insieme, come congiunzione, con la zona pastorale, tra la diocesi e la parrocchia. Secondo Mons. Delicado, " il vicariato foraneo è l'unità della pastorale parrocchiale, e la zona è l'unità della pastorale sociale ". In pratica, non è facile che le parrocchie appartenenti ad uno stesso vicariato adottino una linea pastorale comune, dato il pluralismo che c'è oggi nella Chiesa e nella società. D'altra parte, la responsabilità del vicario foraneo (di pura vigilanza) ha una scarsa importanza dinanzi all'autorità di cui gode il parroco. Nemmeno il Codice di Diritto Canonico ha fatto un passo decisivo nella configurazione della zona pastorale come istituzione superiore alla parrocchia. La pastorale continua ad essere eminentemente parrocchiale.

Bibl. - Aa.Vv., L'episcopato e la Chiesa universale, Ed. Paoline, Roma, 1965. Baraúna G. (a cura di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze, 1965. Tessarolo A. (a cura di), La Chiesa locale, Ed. dehoniane, Bologna, 1970.

C. Floristán

Vicario parrocchiale. (inizio)

Vicario, in genere, è colui che gode di una potestà ordinaria vicaria, cioè, quella potestà che, essendo annessa ad un ufficio, viene esercitata a nome di un altro che agisce come principale. A nome di Cristo, il Papa agisce in forza della sua potestà ordinaria (cf Romano Pontefice) e è vicario pastorale supremo della Chiesa. Per quanto riguarda la nuova figura di vicario episcopale incaricato della pastorale e distinto dal vicario generale, cf Curia. Qui, ci occupiamo del cosiddetto vicario parrocchiale (chiamato anche: coadiutore o con altri nomi). È il cooperatore del parroco e condivide la sua sollecitudine. È unito a lui da una stessa volontà e da uno stesso desiderio e lavora sotto la sua autorità nel ministero parrocchiale (CIC c. 545 § 1). A motivo del suo ufficio, deve cooperare col parroco in tutto il ministero pastorale parrocchiale, eccetto l'applicazione della Messa per il popolo. Deve sostituire il parroco, quando occorra, conforme al Diritto (c. 548 § 2). " Il vicario parrocchiale riferisca regolarmente al parroco le iniziative pastorali programmate e in atto, in modo che il parroco e il vicario o i vicari siano in grado di provvedere, con impegno comune, alla cura pastorale della parrocchia, di cui insieme sono garanti " (c. 548 3). Il vicario deve risiedere nella parrocchia e praticare, dove è possibile, " una certa pratica di vita comune col parroco e con gli altri vicari (c. 550).

Interessanti e nuove sono le possibilità concesse dal canone 517:

" Quando le circostanze lo richiedono, la cura pastorale di una parrocchia, o di più parrocchie contemporaneamente, può essere affidata in solido a più sacerdoti, a condizione tuttavia che uno di essi ne sia il moderatore nell'esercizio della cura pastorale, tale cioè che diriga l'attività comune e di essa risponda davanti al Vescovo " (c. 517 1).

" Nel caso che il Vescovo diocesano, a motivo della scarsità di sacerdoti, abbia giudicato di dover affidare ad un diacono o ad una persona non insignita del carattere sacerdotale o ad una comunità di persone una partecipazione nell'esercizio della cura pastorale di una parrocchia, costituisca un sacerdote il quale, con la potestà e le facoltà di parroco, sia il moderatore della cura pastorale " (c. 517 § 2). È chiara e paradigmatica l'armonizzazione tra pastorale e diritto.

Per evitare le difficoltà create dal canone 1108 circa la forma valida del matrimonio, è auspicabile che il parroco conceda al vicario parrocchiale una delega generale per la celebrazione di tutti i matrimoni.

Bibl. - Chiappetta L., Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico pastorale, 2 voll., Ed. dehoniane, Napoli, 1986. Codice di Diritto Canonico, Testo ufficiale e versione italiana, UECI, 1983. Pinto P.V., Commento al Codice di Diritto Canonico, Roma, 1985.

L. Vela

Violenza. (inizio)

Chiamiamo violenza qualsiasi atto che attenti all'integrità corporale o all'identità personale dei singoli o dei gruppi. Nel primo caso, siamo di fronte alla violenza fisica; nel secondo, di fronte alla violenza psicologica. L'esercizio della violenza non richiede sempre la vicinanza: esiste anche una violenza strutturale, che si esercita attraverso le strutture socio-economiche, e può essere distruttiva quanto le altre. Infatti, giunge alle volte fino a privare dei mezzi indispensabili per vivere. Si discute se la violenza sia innata o acquisita. Secondo noi, nasciamo tutti con un quoziente grande o piccolo di aggressività. Questo, se è usato rettamente, è benefico; se, invece, è orientato male, degenera in violenza. Le due forme ambientali che offrono il maggior pericolo di trasformare l'aggressività innata in violenza sono: la mancanza di amore e la riduzione all'impotenza.

Quantunque la violenza sia presente dovunque, essa esercita un compito di speciale importanza nell'ambito politico come argomento di ultima istanza per risolvere i conflitti, tanto nello scenario nazionale quanto, soprattutto, in quello internazionale. Secondo la famosa espressione del Maresciallo Van Clausewitz, " la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi ". La violenza tra nazioni è oggi più pericolosa che mai, a causa del potenziale distruttivo delle armi moderne e delle forti somme che vengono erogate per la difesa (800.000 milioni di dollari all'anno). Però, i conflitti armati continueranno ad essere inevitabili finché ogni stato-nazione sarà sovrano e non ci sarà un'autorità mondiale dotata di un potere effettivo.

Gli scritti più primitivi della Bibbia hanno sancito la violenza fino al punto di chiamare JHWH " Signore degli eserciti, Dio delle schiere d'Israele " (1 Sam 17,45). Però, a mano a mano che progrediva la coscienza morale del popolo eletto, questa concezione andò perdendo terreno fino al ripudio totale della violenza nel NT (cf per esempio, Mt 5,9. 38-48; 26,51-53). Di fatto, i primi cristiani rifiutarono quasi all'unanimità di impugnare le armi. La situazione cominciò a cambiare a partire dal secolo IV. Quando ormai tutti i cittadini erano battezzati, l'alternativa era: o permettere ai cristiani di prestare servizio militare, o sciogliere gli eserciti. Considerando che non c'era altra forma per difendersi dalle incursioni dei barbari, il pacifismo fu progressivamente abbandonato. Ciò nonostante, per parecchio tempo, i cristiani ricorsero alla violenza con rimorso di coscienza, col disagio di chi si vede costretto a vivere l'utopia del vangelo in un mondo radicalmente antiutopistico, per cui dovevano spesso scegliere quello che ritenevano il male minore. In questa situazione, la Chiesa cercò almeno di regolamentare la violenza per ridurre più che possibile i suoi danni (la dottrina della guerra giusta, la tregua di Dio, ecc.). Le cose peggiorarono nel secolo XI con la convocazione delle Crociate. Qui, non si ricorreva più alla violenza come ad un male minore, ma lo si faceva in nome di Dio. In questo modo, si finì per ritornare all'AT. Da allora, e fino a tempi molto recenti, la violenza fu sempre più legittimata. Oggi, si ritorna a ritenerla un male, anche se non è forse totalmente evitabile (GS 77-82). I metodi di difesa non violenta sono sempre più apprezzati.

Bibl. - Aron P., Pace e guerra tra le nazioni, Ed. Comunità, Milano, 1970. Caprara G.V. Renzi P., L'aggressività umana, Bulzoni, Roma 1985. Ferrarotti F., Alle radici della violenza, Ed. Rizzoli, Milano, 1979. Lorenz K., L'aggressività, Ed. Il Saggiatore, Milano, 1976. Masini V., " Violenza ", in: Dizionario di scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 1168-1169. Salvini A., Violenza negli stadi, Giunti Barbera, Firenze, 1986. Severino E., Techne. Le radici della violenza, Ed. Rizzoli, Milano, 1979.

L. González-Carvajal

Virtù. (inizio)

A partire da Platone e da Aristotele, la virtù è una categoria fondamentale dell'etica. Nell'epoca moderna, è un concetto svalutato a causa della critica che è stata fatta ad una morale statica che privilegiava le virtù passive. La tradizione occidentale assunse la divisione platonica della virtù in quattro virtù fondamentali (cardinali): la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.

L'etica cristiana, basandosi su san Paolo, completò questo quadro aggiungendovi le virtù teologali: la fede, la speranza e la carità.

Questo schema di virtù fu il quadro teorico in cui venne strutturata la formulazione tomista dell'etica, assunta dalla scuola domenicana. Questo schema ha esercitato anche un grande influsso nella pratica pastorale, specialmente nella formazione ascetico-spirituale.

La virtù è una disciplina di vita acquisita con un esercizio continuo. Dispone le facoltà e le forze sia quelle conoscitive che quelle emozionali per il conseguimento del bene morale. Conseguentemente, la virtù non porta di per sé né alla repressione delle inclinazioni naturali, né al disprezzo del mondo, né alla supervalutazione di comportamenti storici ormai fuori moda. Essere virtuoso vuol dire condurre una vita responsabile e coerente dinanzi a sé e dinanzi agli altri.

Ciò nonostante, le impostazioni attuali della morale, accogliendo i contributi della psicologia, sono configurate attorno alle seguenti categorie: l'opzione fondamentale, l'atteggiamento e l'atto, invece di usare le categorie virtù e atto.

Bibl. - Abbà G., Felicità, vita buona e virtù: saggio di filosofia morale, LAS, Roma, 1989. Frankena W.K., Etica. Un'introduzione alla filosofia morale, Ed. Comunità, Milano, 1981. Garelli F., Una morale senza virtù, in: Aa.Vv., Educazione morale oggi, LAS, Roma, 1983, pp. 23-37. Mc Intyre A., Dopo la virtù: saggio di teoria morale, Ed. Feltrinelli, Milano, 1988. Mongillo D., " Virtù ", in: Nuovo Dizionario di teologia morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 1450-1474.

F. Moreno Rejón

Vita religiosa. (inizio)

Il Concilio Vaticano II situò l'essenza della vita religiosa nella " professione dei consigli evangelici " (LG 44). Il Nuovo Codice di Diritto Canonico la descrive così: " La vita religiosa, in quanto consacrazione di tutta la persona, manifesta nella Chiesa il mirabile connubio istituito da Dio, segno della vita futura " (c. 607 § 1).

Nel Concilio, la spiritualità della vita religiosa fu accusata di essere stata l'unico archetipo nella storia della Chiesa. L'accusa aveva senz'altro qualche fondamento e bisognava tenerla presente per rettificare quanto fosse necessario. Anche se i terz'ordini non andavano necessariamente considerati come un copione degli Ordini a cui erano affiliati, c'era comunque qualcosa di vero. Si cercava, almeno in parte, di vivere come in questi Ordini, anche se non era possibile in pienezza.

È indubbio che oggi la vita religiosa non è impostata in questi termini, ma in termini di carisma. Ognuno ha un suo dono particolare, anche nella vita religiosa. Anzi, si rischia di accentuare esageratamente la dimensione carismatica della vita religiosa, come se fosse questa a rendere realmente presente nella Chiesa la forza dello Spirito, in contrapposizione alla gerarchia, piuttosto giuridica (alle volte, i laici rimasero tagliati fuori dalla considerazione reale della Chiesa).

La LG ci permette di inquadrare correttamente la vita religiosa. O essa occupa un posto nella Chiesa, o non occupa un posto nella vita cristiana. I capitoli 3, 4 e 6 (il quanto è chiaramente spostato) della LG sono collegati coi primi due capitoli, indicando così che i primi due sono comuni ad ogni cristiano, e che di questo corpo di Cristo e popolo di Dio (con altre immagini) e in questo corpo di Cristo e popolo di Dio soltanto alcuni fanno parte della gerarchia, altri sono laici, altri sono religiosi. C'è una particolarità che ha la sua importanza, ed è questa: i religiosi assumono i loro membri dai due precedenti, gerarchia e laicato, pur senza perdere la loro identità.

Se ora ci chiediamo che cos'è che caratterizza i religiosi nella Chiesa, la risposta non è semplice. Da una parte, ricordiamo quello che dice il Concilio: " Un simile stato, se si riguardi la divina e gerarchica costituzione della Chiesa, non è intermedio tra la condizione clericale e laicale, ma da entrambe le parti alcuni fedeli sono chiamati da Dio a fruire di questo speciale dono nella vita della Chiesa e ad aiutare, ciascuno a suo modo, la sua missione salvifica " (LG 43).

D'altra parte, il Concilio non specifica la natura di questo " speciale dono ". La sua terminologia è sempre molto imprecisa: seguono più da vicino, si crea un rapporto speciale, più intimamente, in un modo speciale... Nel leggere quello che dice il Concilio sulla vita religiosa, si ha l'impressione di trovarsi davanti al doppione di quello che lo stesso Concilio dice sulla Cresima nei riguardi del battesimo. Si dice qualcosa, ma non si sa quello che è detto.

Il Concilio non è stato più esplicito, perché non lo è nemmeno la teologia della vita religiosa. Le teorie sono molto varie e nessuna di esse riesce ad esprimersi in modo inequivoco ed esatto. Si parla di radicalità evangelica, di escatologico (parola, a mio parere, enormemente equivoca se non è intesa in senso vitale), di verginità, di comunità fraterna...

Alcuni di questi aspetti non sembrano esclusivi, e quindi specifici, della vita religiosa. Perciò è probabile che facciano sorgere nei laici il sospetto che, con parole differenti, si continuino ad avere non dei cristiani differenti, il che sarebbe esatto, ma dei cristiani di serie A e dei cristiani di serie B. La sequela di Cristo, la radicalità evangelica, ecc., non possono essere esclusive della vita religiosa, ma sono di ogni cristiano.

A mio parere, ciò che distingue la vita religiosa è la verginità vissuta in fraternità (bisogna ricordare che non sempre ciò che distingue è anche il più importante. La cosa più importante sarà sempre la carità.

Su questo, non c'è alcun dubbio). La verginità può non essere comune nel cristianesimo: non si tratta in questo di perfezione o di imperfezione, ma di carisma. La verginità è un carisma, come il matrimonio è un altro carisma. San Paolo lo disse chiaramente parlando proprio di matrimonio e di verginità: " Ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro " (1 Cor 7,7). Fa un po' specie vedere le citazioni bibliche dove il Concilio parla dei voti. Quello di castità, citato primo come il più chiaro, ha solo due citazioni bibliche; quello di povertà, otto, quello di obbedienza, nove. È significativo e non occorrono commenti.

Negli anni in cui la verginità cominciò a perdere il suo mito biologico, si disse che era vergine chi non si sposava. Era un buon complemento all'essenziale dimensione sessuale!

D'altra parte, la vita religiosa chiede l'esenzione all'interno delle Chiese particolari. Questa concezione può essere la manifestazione giuridica più importante della verginità: non essere sposati (che non vuol dire non essere incarnati) è dell'essenza del religioso essere sempre aperto e disponibile a tutti e a tutto secondo le necessità del momento e secondo i doni particolari all'interno di questo " speciale dono " (con questo, non si nega che anche il matrimonio sia un dono speciale).

Ci fu un periodo, non molti anni fa, in cui si propose di fare un solo voto nella vita religiosa: il voto di comunità. Era una proposta interessante, anche se imperfetta. Il religioso condivide in comunità il dono che lo unisce agli altri con la stessa vocazione, come nel matrimonio lo condividono quelli che sono stati chiamati allo stesso amore. Da questo condividere interno e da questo servizio alla Chiesa secondo lo " speciale dono " ricevuto, verrà la forma di vita concreta che anche nella comunità sarà programmata, condivisa, scambiata, accolta.

Se non vogliamo dicotomie sterili, dobbiamo andare verso l'integrazione dei carismi, tanto all'interno della vita religiosa quanto tra vita religiosa e gli altri carismi. Basti un solo esempio, data la brevità di queste pagine. Qualcuno ha detto che il matrimonio e la verginità sono complementari (E. Schillebeecks): il matrimonio deve insegnare al la verginità a guardarsi da un amore universale che sia il sinonimo di indifferenza (alle volte, l'amore verginale può essere un'evasione dall'amore reale). Il matrimonio insegna ciò mostrando un amore incarnato. La verginità deve insegnare al matrimonio a non limitare egoisticamente l'amore rinchiudendolo in una persona: l'amore va aperto a chi ne ha bisogno, chiunque egli sia.

Bibl. - Aubry J., Religiose e religiosi in cammino, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987. Balthasar H.U. von, Gli stati di vita del cristiano, Ed. Jaca Book, Milano, 1985. Crippa L., La vita consacrata. Teologia e spiritualità, Ed. Ancora, Milano, 1994. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica " Via consecrata ", 25.3.1996. Gozzelino G., Seguono Cristo più da vicino. Lineamenti di teologia della vita consacrata, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1997. Lozano J., Vita religiosa, parabola evangelica. Una reinterpretazione della vita religiosa, Ed. Ancora, Milano, 1994. Tillard J.M.R., Davanti a Dio e per il mondo. Il progetto dei religiosi, Ed. Paoline, Roma, 1975.

A. Guerra

Vita umana. (inizio)

La vita umana si impone all' esperienza come la cosa previa: per questo, la vita è un fatto ed un valore fondamentale, è conferma e segno dei valori umani. La vita è un valore pre-morale che diviene anche morale quando è inserito nel mondo della persona libera e responsabile. La preferenza della vita: la vita è la pre-ferenza etica; di qui, occupa il primo posto nell'ambito morale; di qui, la sua importanza quando si tratta di formulare le esigenze etiche dell'agire umano.

La morale classica formulava il valore della vita partendo dall'assoluto morale, dalla sacralizzazione e dalla inviolabilità. La giustificazione proveniva dall'essere un bene personale (perciò proibizione del suicidio e dell'omicidio diretti), un bene della società (uccidere è agire contro la giustizia), e un dono di Dio a cui appartiene la vita e che la pone nelle nostre mani perché abbiamo da amministrarla. Questo schema ha il suo fondamento su un modello antropologico che sa di formalismo e di ambiguità. Favorisce molte " eccezioni ". Le più importanti sono: la liceità di uccidere per legittima difesa, la pena di morte, l'uccisione del nemico nella " guerra giusta ", la morte del tiranno usurpatore, il suicidio e l'aborto indiretti. Ciò veniva " giustificato " in base a princìpi astratti: l'abuso dell'accumulo di potere in mano all'autorità pubblica, la manipolazione e la strumentalizzazione sociopolitica e religiosa della persona; inoltre, l'incoerenza morale che affermava il valore assoluto ed inviolabile della vita, ma trovava motivi per giustificare le " eccezioni " segnalate e perfino la tortura.

Questo schema non risponde all'antropologia di oggi che vede l'uomo come il soggetto ultimo delle decisioni morali ed il protagonista della propria vita. Oggi, l'affermazione classica dell'inviolabilità è tradotta come il " diritto inviolabile di ogni persona alla sua autodeterminazione, anche quando si tratta della vita ". Le formulazioni normative sul valore di ogni vita umana vanno impostate in termini positivi verso la vita, non in termini negativi; vanno fondate sul valore assoluto della persona, sulla solidarietà e sulla coerenza etica. L'opzione per la vita va molto più in là della semplice difesa: esige la promozione e lo sviluppo di tutte le sue qualità per umanizzarla al massimo.

Queste esigenze chiedono di superare il formalismo e di fare passi ulteriori a favore di ogni vita umana: partendo dal valore biologico, dobbiamo arrivare al rispetto, all'uguaglianza e alla dignità di tutte le persone. Di qui, dobbiamo passare al compito morale di potenziare la qualità della vita e all'impegno per umanizzare al massimo tutte le dimensioni della vita umana. Occorre anche che venga introdotta la razionalità nei giudizi etici, superando le impostazioni pre-scientifiche e pseudo-religiose che sono più propense alle emozioni viscerali che non alla responsabilità dell'uomo.

La fede cristiana illumina il valore della vita e della dignità della persona con l'apertura a Dio, chiamato " amante della vita " (Sap 11, 26) e con l'apertura a Cristo vivo. La risurrezione di Cristo afferma la vita in pienezza e condanna le strutture che portano alla morte: la violenza, la condanna ingiusto, il rifiuto dei poveri e degli innocenti, ecc. Lo Spirito che vive in noi ci spinge all'amore e alla costruzione di comunità che scommettono per la vita, per la fratellanza e la solidarietà, specialmente verso i nemici, gli affamati, i carcerati...

L'affermazione della vita come preferenza etica non elimina il conflitto. La morale classica cercò di risolverlo ricorrendo al principio del duplice effetto e del volontario indiretto. Oggi, il problema è impostato come conflitto di valori. La soluzione del conflitto chiede, per questo, rispetto per la libertà e per la responsabilità, criteri pienamente morali; chiede l'affermazione del primato dell'uomo come soggetto personale delle proprie decisioni morali. Collocare il valore della vita e il conflitto nell'ambito della libertà umana responsabile non è qualcosa di arbitrario, né di soggettivo, né un'evasione dai criteri morali: è invece il segno degli atteggiamenti fondamentali che garantiscono la vicenda morale umana. Può darsi che non tutti i conflitti vengano risolti, ma si introducono comunque dei criteri maggiormente validi di quelli precedenti dove la persona non era considerata come un soggetto autonomo.

Bibl. - Bucciarelli C., " Vita ", in: Dizionario di scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 1170-1172. Fizzotti E. (ed.), " Chi ha un perché nella vita... ", LAS, Roma, 1992. Frankl V., Alla ricerca di un significato della vita, Ed. Mursia, Milano, 1990. Fromm E., L'amore per la vita, Ed. Mondadori, Milano, 1993. Giovanni Paolo II, Enciclica " Evangelium vitae ", 25.3.1995.

M. Gómez Ríos

Zona pastorale. (inizio)

Per portare avanti l'azione pastorale, sono necessarie le zone pastorali, strutture intermedie tra la parrocchia e la diocesi. " La zona umana, dice F.J. Calvo, è un complesso in cui i vari ambienti godono di una certa omogeneità per dipendere degli stessi centri d'influenza ". Nella zona pastorale, interessano tutti i problemi umani, specialmente la mentalità, il vissuto e la pratica religiosa. L'importanza della zona è grande, perché in essa convergono la maggior parte dei problemi e delle necessità. Spesso, la parrocchia è troppo piccola, il vicariato foraneo è limitato, e la diocesi è troppo grande perché i problemi siano trattati adeguatamente. La zona è necessaria nelle regioni rurali per una pastorale d'insieme. La zona pastorale urbana è più difficile da precisare. Evidentemente, per evangelizzare in una città, bisogna tenere presente tutto il suo complesso, come anche la presenza di intere periferie omogenee. Di fatto, esistono già le vicarie di zona in molte città, di recente creazione, e i vicariati foranei, antiche strutture canoniche territoriali.

Nella zona, deve esserci un responsabile che coordini gli sforzi dei parroci e dei vicari foranei in una pastorale d'insieme, aperta all'orientamento di tutto il complesso diocesano. Possono essere di aiuto i delegati di zona dei grandi settori della pastorale che lavorano direttamente con le commissioni pastorali diocesane. Il responsabile e i delegati di zona, insieme ai vicari foranei, costituiscono il consiglio o commissione pastorale di zona. L'obiettivo di questa commissione sta nel riflettere sui problemi umani e religiosi della zona, per cogliere gli obiettivi concreti dell'azione pastorale. L'analisi della realtà esige l'aiuto dei sociologi. Una volta che la realtà è stata analizzata, viene tracciato il corrispondente orientamento pastorale. Questo, di solito, esige un adeguamento della mentalità degli operatori o responsabili alla situazione.

Bibl. - Aa.Vv., La Chiesa particolare, Bologna, 1985. Aa.Vv., La parrocchia e le sue strutture, Ed. Longhitano, Bologna, 1987. Viganò A., La zona vicariale o decanato, Torino, 1984.

C. Floristán