A lezione di sussidiarietà
del Card. Giacomo Biffi,
Arcivescovo di Bologna
L'insegnamento che vogliamo sia pur fugacemente
ricordare è uno dei cardini del magistero sociale della Chiesa. Si tratta del
così detto "principio di sussidiarietà", del quale oggi si parla
sempre più spesso ma non sempre con piena cognizione di causa.
Sarà bene non dimenticare che la sua chiara
formulazione risale al 1931, ed è contenuta nell'enciclica "Quadragesimo
anno". In un'epoca e in una Roma in cui veniva teorizzato e conclamato
prepotentemente l'ideale dello Stato totalitario, Pio XI uno dei papi più
lucidi, più coraggiosi, più concreti della storia contestava apertamente e
radicalmente quella concezione aberrante, ammonendo che "come non è lecito
togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e
l'industria propria", analogamente "è ingiusto rimettere a una
maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può
fare".
Questo principio tipicamente cattolico ignorato a lungo
e anzi ostentatamente trascurato dalla cultura laicista viene in questi tempi
riscoperto e rivalutato a proposito dei corretti rapporti da istituire tra la
nascente Comunità europea e i singoli stati che ne sono membri. Ad esso si
appellano sempre più frequentemente anche i comuni, le province, le regioni, al
fine di rivendicare e allargare le loro rispettive autonomie. Ed è un richiamo
che ha una sua legittimità.
Ma, attenzione, la sua applicazione più autentica e
coerente è quella di indurre le strutture politiche e amministrative di ogni
livello (stato, regioni, province, comuni) ad autolimitare l'ambito dei loro
diretti interventi, impegnandosi invece ad aiutare positivamente le famiglie,
le comunità di culto, le libere aggregazioni perché possano esse stesse
attendere senza impacci al raggiungimento delle loro specifiche finalità.
Come si vede, non si tratta di lasciare alle realtà
autonome solo ciò che gli enti pubblici non riescono ancora a fare in presa
diretta (secondo la vecchia mentalità ancora oggi imperante); al contrario, si
tratta di riconoscere la rilevanza sociale e la funzione pubblica degli enti
non pubblici, e di favorirne in tutti i modi l'attività, naturalmente sempre
nel rispetto e in vista del bene comune.
Sarà bene notare che questa dottrina non coincide se
non parzialmente con le tesi del liberalismo classico; e anzi nella sostanza le
supera decisamente. Non basta consentire una vera e larga autonomia alle
cosiddette realtà intermedie. Occorre anche metterle concretamente in condizione
di poter vivere, agire e attendere efficacemente ai propri compiti, assegnando
ad esse i necessari sussidi perché la loro autonomia non resti soltanto un
diritto astratto e inattuato.
L'insegnamento della "Quadragesimo Anno",
anche su questo punto, prosegue nella linea della "Rerum Novarum".
Secondo l'osservazione sintetica di Alcide De Gasperi, tra il "lasciar
fare" (teorizzato dal liberalismo ottocentesco) e "il fare
direttamente" (proprio di tutti gli statalismi), l'ente pubblico secondo
Leone XIII deve avere come principio ispiratore del suo comportamento
"l'aiutare a fare".
Questo principio di sussidiarietà congiunto e integrato
con quello di solidarietà è la convinzione che più di ogni altra caratterizza
la visione cattolica della società. Perciò chiunque nella sua partecipazione
alla vita pubblica voglia richiamarsi con serietà e correttezza all'ispirazione
cristiana, non può non attenersi ad esso nelle sue dichiarazioni, nelle sue
proposte, nella sua linea d'azione.
Del resto, fino a che non c'è un'adeguata, efficiente,
normale applicazione del concetto di sussidiarietà che si contrappone a ogni
totalitarismo statale e a ogni collettivismo, di qualunque colore e di
qualunque matrice non si può dire che sia davvero raggiunta una democrazia
sostanziale.