L'IMMAGINE DEL PRESBITERO

NELLA TEOLOGIA CONTEMPORANEA

 

di Brunero Gherardini

 

 

Sarebbe indice di irresponsabile cecità la banalizzazione di una cri­si che, intorno agli anni Settanta, sconvolse il mondo presbiterale e, sotto la cenere, ma non senza impennate preoccupanti, continua an­cora a sconvolgerlo. L'accelerazione vertiginosa del passaggio da un modello culturale a un altro, dalla modernità alla crisi dei suoi miti (la ragione, la scienza, il progresso, la democrazia) che dà vita al co­siddetto postmoderno, da una religiosità in parte estrinseca alle ra­gioni dell'esserci alla sua secolarizzazione prima e, successivamente, al suo salto fra le braccia del post-cristiano con perdita anche del col legamento estrinseco prima accennato, non poteva non sconvolgere e oscurare l'orizzonte del prete.

Si andò allora alla ricerca, un po' pasticciona e un po' spasmodica, di una nuova identità presbiterale. Di tale ricerca Coira (1969), Gine­vra (1971), Roma (1969 e 1974) furono tappe non inutili. Si capì, se non altro, che non si doveva cercare un'identità nuova, ma un nuovo modo di porla nel contesto sociale. Paolo VI, di venerabile memoria, convocò pertanto la terza assemblea del sinodo dei vescovi, dopo ade­guata preparazione su tutto l'arco della bruciante problematica pre­sbiterale, allo scopo di metterla a fuoco e d'avviarla a soluzione.

Il documento che ne raccolse il messaggio confortò l'identità pre­sbiterale di sempre, cancellò i non pochi motivi d'incertezza e di pos­sibile contestazione, avviò una più seria riflessione sulla corrispon­denza fra presbitero e attese del presente.

Nacquero così, e in breve si moltiplicarono, opere di valido impianto e non disprezzabile respiro teologico, riguardanti la genesi del presbi­terato e i suoi fondamenti sacramentali. Si era infatti capito che, per neutralizzare la crisi d'identità ed eluderne la morsa non raramente mortale, non si doveva, almeno in prima istanza, spingere l'indagine in avanti e disegnare, come allora si diceva, la figura del prete di do­mani, e nemmeno era risolutivo l'insistere oltre misura sulla proble­matica del presente, ma occorreva ristabilire anzitutto un contatto vi­tale del presbitero nella morsa della sua crisi con le scaturigini del sa­cerdozio cristiano. Attraverso codesto contatto, che è contatto con Cristo e con la sua continuità sacramentale nella e per la vita della Chiesa, si ricuperava:

 

1) La natura sacramentale dell'ordine sacro nei suoi tre gradi (epi­scopato, presbiterato, diaconato) contro i non pochi tentativi di sov­vertirne la realtà e la ministerialità in semplici deleghe comunitarie a favore di funzionari specializzati (R. J. Bunnik, S. Schoonenberg, J. Moingt, I. Flamand).

 

2) L'indelebilità del carattere, talvolta inteso non in perfetta con­formità alla teologia scolastico‑tridentina del “segno interiore”, del­la sua “impressione ed inesione nell'anima”, ma comunque riaffer­mato nei suoi effetti permanenti, contro una sua sempre più frequen­te psicologizzazione e deontologizzazione (H. Muhlen), demistifica­zione (E. Schillebeeckx) e desacralizzazione (una larga fascia di teo­logi disinibiti e liberal nei confronti del magistero ecclesiastico).

 

3) Il celibato ecclesiastico come perfezionamento dell'essere‑per‑gli­ altri in quanto uomini di Dio e testimoni del regno, e non come mor­tificante compressione della natura umana.

 

Recuperi, questi, d'importanza fondamentale; ma intanto la tra­sformazione del moderno e il suo incedere verso il postmoderno su tutto il fronte della cultura predominante era (ed è) sotto gli occhi di tutti. Da qui, il problema di un altrettanto accelerato adeguamento dei recuperati valori presbiterali in forme applicative di essi. La teo­logia fece la sua parte in vari modi, giustificando l'accennato adegua­mento alla luce della rivelazione e del suo statuto di scienza della fe­de. Mi riferisco a interventi pregevoli e suasivi, di varia intonazione ma convergenti sullo stesso traguardo. Vi si distinsero, fra gli altri, J. Coppens, G. Rambaldi, A. M. Pompei, G. Gozzolino, J. Galot, H. Denis, J. M. Le Guillou, J. Lecouyer, Y. M. Congar, A. G. Mar­timort, oltre allo stesso K. Rahner e ai tanti, tantissimi che qui pur­troppo restano nell'anonimato.

 

Fra i vari problemi presi in esame, quello del prete‑in‑relazione at­trasse l'interesse dei più. Si trattava di stabilire, nella nuova temperie culturale, come rapportare il presbitero al vescovo e al mondo laica­le, nonché alla storia in cammino.

Più che teologico‑dogmatico, il problema era teologico‑pastorale. Prete‑in‑relazione, infatti, non coglieva “directe et immediate” la na­tura dell'esser prete, ma la rete dei suoi rapporti verticali e orizzonta­li. Vescovi e presbiteri, infatti, non sono titolari di un sacerdozio alter­nativo, ma esercitano in forme diverse il sacerdozio uno e unico di Cristo. E i presbiteri non operano “in persona Christi ” per gli effetti sacerdotali del battesimo e della cresima, ma per una consacrazione specifica che li costituisce Cristo‑in‑sacramento e canali di grazia per tutto il popolo sacerdotale.

Donde una triplice relazione: al vescovo, ai confratelli, al popolo di Dio. In senso più lato si potrebbe parlare pure di una relazione al mondo.

Sul prete‑in‑relazione teologi seri e preparati pubblicarono il frutto della loro ricerca, dimostrando che, per essere “homo Dei ad omne opus bonum instructus” (2Tm 3,17), era indispensabile al prete di oggi quella stessa fedeltà a Cristo e ai fratelli che caratterizzò il prete di ieri e caratterizza il prete di sempre, sia pur con tutte le accortezze e gli ardimenti che il difficile momento suggeriva e suggerisce.

 

Un prete, quindi, che funzionasse come prete e soltanto come prete nell'ambito profetico dell'evangelizzazione, nella vita sacramentale, nella sua re­sponsabilità di guida spirituale, nel suo quotidiano dedicarsi alla pre­ghiera, ma anche dinanzi alle nuove esigenze sociali e perfino all'im­pegno politico.

Nel quadro di codeste considerazioni, assume una sintomatica rile­vanza il tema della tensione fra il presente e il futuro. Questi sono i titoli più insistenti: Il prete (di) oggi, il prete per oggi, il prete di do­mani, c'è un domani per il prete?

Ognuno di codesti titoli, allo stato latente o alla luce del sole, con­tiene una buona dose di ambiguità, come se il prete fosse in perenne evoluzione. Tuttavia, per quel tanto di aderenza alla realtà contingente e di adeguamento all'urgenza del futuro che i detti titoli possono ave­re ed esprimere, l'ambiguità non ha fondamento. Quei titoli, infatti, alludono non già a un'identità ondiflua del prete, ma soltanto alla sua immagine.

 

Un'immagine che deve fare i conti con la complessa situazione cul­turale di oggi e con i prodromi di ciò che su quest'oggi incombe. L'o­dierna megalopoli, dissacrata e dissacrante; la perdita di incidenza sui parametri della modernità e della quotidianità; il rullo compressore della rivoluzione in divenire; il rilassamento morale; la “civiltà” de­gli slogans, della pubblicità, del consumismo; l’imperio assolutistico dei mass media, sembrano spiazzare il prete come un estraneo o un sopravvissuto. A meno che questo stesso prete non trovi gli strumenti adatti per non farsi spiazzare. Quali?

 

La questione dell'immagine ne dipende, soprattutto se essa non neu­tralizza né obnubila la questione dell'identità. Il prete è soltanto pre­te, resta prete, titolare di quei tremendi ed esaltanti poteri che discen­dono da Cristo per farne un suo prolungamento sacramentale. Non un uomo come tutti gli altri, nonostante che sia uomo come tutti gli altri. Non un omologato. Non un appiattito. Ma un distinto dagli al­tri, sebbene “ fratello in mezzo ai fratelli ” (PO, 3).

Distinto perché consacrato. Votato a una specialissima missione, per la quale lui, il prete, non gli altri, è sacramentalmente abilitato.

Donde un cambiamento di immagine che lo proporzioni sul metro della situazione che viene svolgendosi e di quella che già si intravede. L'immagine nuova non cancella i tratti costitutivi del prete, ma li in­canala in atteggiamenti e comportamenti sempre meno inadeguati al­le attese, se non anche alle sfide della cultura predominante. Non per­ché questa neutralizzi l'identità del prete, ma perché si apre all'inne­sto dei valori evangelici che il prete le propone. Pertanto, l'immagine del prete non è nuova perché si veste da scaricatore di porto o da spaz­zino comunale, ma perché lo dimensiona sulla “consacrazione e mis­sione ” di Cristo (PO, 2/b), lo colloca in una radicale missionalità e gli facilita l'accennato innesto evangelico. Immagine nuova, dunque, solo perché dà nuovo senso e vigore:

 

1) al prete come uomo del sacro, al servizio o d'una comunità già costituita quale Cristo la volle, cioè sacramento di salvezza, o d'una società alienata da Dio e dalle fonti della grazia;

 

2) al prete ordinato per il sacro ministero, ma anche promotore di iniziative e servizi propedeutici al ministero stesso;

 

3) a un prete più “ specialista ” e meno generico, e quindi anche me­no monocorde e meno noioso, il quale, nella sua missione specializ­zata (parroco, assistente di movimenti laicali, professore, curiale) ab­bia viva la passione, anzi la carità, che è matrice di originalità e di coraggio;

 

4) a un prete in comunione verticale e orizzontale, per essere e sen­tirsi davvero nell'atteggiamento del “ contemplata aliis tradere ”;

 

5) a un prete “ declericalizzato ”, se per declericalizzato si intenda non già secolarizzato, ma liberato dal formalismo e paternalismo “ cle­ricale ” che tanto contribuì al ribasso dell'immagine: un prete, quin­di, perfettamente allineato su quei livelli di partecipazione e condivi­sione sociale che gli consentano la rappresentatività dei poveri, a qua­lunque povertà appartengano, per esserne la voce, il punto di riferimento, il conforto e la luce;

 

6) a un prete, infine, che sì nutra d'eucaristia e si rispecchi nella Madonna e di tutto ciò faccia il centro della sua giornata e la fiam­ma del suo ministero.

 

A quei teologi, che hanno contribuito, in tutto l'orbe cattolico, a definire sempre meglio quest'immagine del prete, non può non andare la gratitudine della Chiesa e degli stessi preti.