Per il Cardinale Pio Laghi, il 21 marzo del 1997 fu forse uno dei giorni più amari della sua vita. Quella mattina quando, nel suo ufficio di Prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica ‑ da cui si gode una vista spettacolare di Piazza San Pietro ‑ inizio la lettura giornaliera dei periodici italiani, gli si gelò il sangue. Alla pagina 10, dedicata alla cronaca internazionale, il "Corriere della Sera" pubblicava un ampio articolo con un titolo su quattro colonne e a caratteri cubitali: "Cardinale e Carnefice". Lo accompagnava un sottotitolo altrettanto equivoco: "Argentina. Pio Laghi accusato di esser parte integrante della dittatura militare". E nel catenaccio si anticipava che l'Associazione Madri della Plaza de Mayo, con sede a Buenos Aires, lo avrebbe denunciato presso la Magistratura italiana per aver partecipato "al sequestro, tortura e omicidio di migliaia di persone", durante il suo incarico in qualità di Nunzio Apostolico in Argentina tra il 1974 ed il 1980.
Così
fu. Il 4 maggio, Hebe de Bonafini ‑ presidente dell'Associazione e madre
di "desaparecidos" ‑ insieme a Marta Badillo e con il
patrocinio legale dell'avvocato Sergio Schocklender, compariva presso la
Procura della Repubblica di Roma, chiedendo che il Cardinale Laghi fosse
processato. Ma si trattava di una richiesta di processo destinata a non aver
mai luogo. Se non altro, perché Laghi è cittadino vaticano ed è, pertanto,
protetto da immunità. Le Madri lo sanno. Tuttavia sono andate avanti con le
proprie accuse, dando l'impressione che il vero obiettivo della loro denuncia
non sarebbe solo Laghi, ma lo stesso Giovanni Paolo II e la Chiesa in generale,
per il ruolo che avrebbero avuto nel massacro argentino degli anni settanta.
La
richiesta di rinvio a giudizio dell'ex‑Nunzio Apostolico ha avuto una
grande risonanza a livello mondiale e in Argentina, e ha dato adito a
un'irrisolta e accesa polemica. Entrato nel dibattito politico sui
"desaparecidos", il caso Laghi si è trasformato in un autentico
processo, seguito e riportato dai mezzi di informazione.
Le
accuse fanno accapponare la pelle. Secondo le Madri della Plaza de Mayo, Laghi ‑
definito "moderno rappresentante dell'Inquisizione"‑ fu la
mente che ideò il piano di soppressione di migliaia di giovani oppositori. Per
la sua criminale iniziativa, dicevano le Madri, venne autorizzata
l'eliminazione di sacerdoti e laici "impegnati nei settori più
indigenti". I1 prelato "visitava assiduamente i centri di detenzione
clandestina e permetteva le torture e le esecuzioni che vi avevano luogo".
Insomma,
le Madri della Plaza de Mayo paragonano l'attuale Prefetto della Congregazione
per l'Educazione Cattolica a un Adolf Hitler redivivo e attivo nell'Argentina
degli anni settanta e gli imputano la massima responsabilità dell‘“Olocausto”
di quel decennio.
Per
rafforzare la spettacolarità demolitrice della loro denuncia, le Madri
ricorsero a una crudele e sofisticata raffinatezza: presentarono la loro
denuncia in tribunale lo stesso giorno del 75° compleanno del Cardinale Laghi.
Inoltre, a questa età, ogni Capo Dicastero, così come ogni Vescovo diocesano, è
invitato a rassegnare le dimissioni, secondo le norme del Diritto Canonico.
Giovanni Paolo II, nel caso di Laghi, non le ha accettate. E questa sembrò
essere una bella testimonianza dell'appoggio incondizionato del Pontefice al
Cardinale.
Così
quello che sarebbe dovuto essere un giorno felice, fu per il porporato un
giorno di dolore che egli cercò di mitigare affidandosi con maggior fervore al
balsamo della preghiera. Non ha molta importanza che la giustizia italiana
abbia accolto la denuncia per diffamazione contro il "Corriere della
Sera". I1 modesto risarcimento Laghi lo destinò ‑ come aveva
promesso ‑ all'Istituto Salesiano di Managua, la capitale del Nicaragua,
all'Ostello "Notre Dame di Gerusalemme" che accoglie i pellegrini
cattolici in visita in Terra Santa, e al Pontificio Oratorio di San Pietro,
frequentato da più di 2.000 giovani. I1 danno era stato fatto ed era
irreparabile! A Laghi erano state mosse delle accuse di una gravità
schiacciante, rese ancor più gravi dalla risonanza data dalla stampa
internazionale. Più che mai nel caso del cardinale Laghi acquista valore la
frase di Tacito: "Divulgate atque incredibilia avide accepta sunt".
Ossia: "Divulgate e anche le cose incredibili saranno sempre accolte
avidamente".
Laghi
era stato presentato al grande pubblico italiano come il principale
responsabile dell'immane tragedia che ‑ in sei anni e mezzo ‑
provocò in Argentina oltre 8.000 "desparecidos" ufficialmente
riconosciuti, migliaia di detenuti senza processo e torturati selvaggiamente,
famiglie distrutte per appropriazione indebita dei propri figli da parte dei
militari golpisti.
Quello
fu il periodo del più aberrante dei sistemi, mirante a eliminare, senza lasciar
traccia, gli oppositori del regime e ad instaurare un vero terrorismo di Stato,
paragonabile solo alle fasi più lugubri del regime nazista.
Che
cosa c'entrava Laghi in tutto questo?
Per
le Madri di Plaza de Mayo egli fu addirittura più colpevole del dittatore Jorge
Rafael Videla, presidente argentino dal 1976 al 1981, periodo nel quale ebbe il
suo apice quello che i militari, pomposamente, chiamarono "Processo di
Riorganizzazione Nazionale" (PRN) e che durò fino al 1983. Questo libro
non pretende di dimostrare l'inconsistenza e la mancanza di fondamento delle
accuse, la cui enormità lascia senza parole. E non mira neanche a formulare un
giudizio storico sul ruolo pastorale e diplomatico che a Laghi toccò di
svolgere nell'Argentina tetra di quegli anni. E' impossibile. E lo è per
l'impossibilita di accedere alla documentazione che giace nell'Archivio Segreto
Vaticano. E senza la conoscenza dei rapporti che Laghi inviava alla Segreteria
di Stato circa quanto veniva a sapere sugli eventi argentini e le istruzioni sul
da farsi che riceveva dai suoi superiori della Santa Sede, non è possibile una
ricostruzione storica, fedele e documentata.
Il
nostro proposito è quello di constatare se Laghi sia stato realmente quel
mostro repressivo presentatoci dalle Madri della Plaza de Mayo, appellandoci
agli elementi oggi disponibili per la ricostruzione della sua missione in
Argentina.
Abbiamo
fatto ricorso alle testimonianze orali (benché talvolta contrastanti), alle
cronache giornalistiche dell'epoca, allo scambio di lettere in nostro possesso,
la maggior parte delle quali di persone che ringraziavano il Cardinale per il
suo operato volto a restituire loro la libertà, a quanto Laghi disse e fece
nelle sue apparizioni pubbliche, ai suoi interventi presso l'Episcopato argentino,
con particolare riferimento alla questione dei diritti umani.
Ci
siamo proposti, quindi, il non facile compito di concatenare tutti questi
elementi e inserirli nella realtà argentina di quei giorni (conosciuta solo
parzialmente dal lettore italiano), tenendo in dovuto conto le variabili che
condizionarono la sua missione, inerenti al suo ruolo di ambasciatore
pontificio e alle direttive che riceveva dal Vaticano. Tutto sarebbe stato più
facile se avessimo potuto accedere liberamente all'Archivio della Nunziatura
Apostolica a Buenos Aires, dove si trovano ‑ secondo quanto ammesso dallo
stesso Laghi ‑ più di 5.000 schede di vittime della repressione per le
quali il prelato vaticano si adoperò. Ma non è stato possibile, fatta eccezione
per una minima documentazione dell'epoca, consistente soprattutto in alcune
liste che Laghi elaborava e inviava periodicamente al Ministero degli Interni e
per cui intercedeva. L'attuale Nunzio Apostolico, in Argentina, Monsignor
Ubaldo Calabresi, comprensibilmente, pone sui documenti accumulati lo stesso
"embargo" vigente nell'Archivio Segreto Vaticano.
La
nostra indagine giornalistica, anche se condizionata, inevitabilmente, da
limiti oggettivi, crediamo costituisca un valido apporto per ricostruire la
missione di Laghi nell'Argentina travagliata degli anni settanta e per mostrare
ciò che rappresentò per molti la Nunziatura Apostolica di Buenos Aires nei
terribili anni del silenzio, della complicità e della repressione.
Essa
fu quasi un'oasi di speranza e di consolazione per i parenti delle vittime, che
ricorrevano ad essa sapendo che, nella completa indifferenza e sordità della
società argentina, vi avrebbero trovato orecchie disposte ad ascoltare e mani
pronte a offrire aiuto.
Da
questo quadro emerge un Nunzio a cui si possono muovere quelle osservazioni o
critiche che potrebbero essere indirizzate a qualunque uomo che in quel periodo
avesse occupato quel posto di Rappresentante Pontificio. E' questione di punti
di vista che, come tali, sono soggettivi. Ma nella situazione concreta
dell'Argentina di quegli anni ‑ onestamente ‑ chi poté capire
preventivamente quanto sarebbe accaduto? Chi comprese che quei generali che si
definivano "crociati di Dio contro l'ateismo", avrebbero sequestrato,
torturato, assassinato e distrutto famiglie intere con tanta ferocia e
accanimento? Chi comprese che la stessa frequentazione dei militari al potere
avrebbe permesso gli accusatori di Laghi di interpretare tali incontri come una
presunta "prova" della sua complicità con i repressori?
Tuttavia,
al di là degli interrogativi destinati a non avere risposta, una verità è fuori
di dubbio: Laghi aiutò a salvare vite umane; assistette umanamente e
materialmente molti perseguitati; intercedette a favore di detenuti che,
abbandonati nelle loro celle, potevano sparire nel nulla in qualsiasi istante,
vittime della politica "Notte e Nebbia" alla sudamericana, praticata
dai repressori. Inoltre, cercò di verificare dove fossero finiti i
"desaparecidos", per regalare un raggio di speranza ai loro
tormentati familiari. Criticò pubblicamente la Giunta Militare e continuò a
farlo nonostante ricevesse minacce di morte e si scontrasse duramente con
Vescovi e cappellani militari che appoggiavano il regime e con i quali, in
quanto Rappresentante Pontificio, era chiamato a convivere e non a scontrarsi.
Le
testimonianze non mancano. In una minuta priva di data, il Segretario di Stato
Cardinale Jean Villot, si riferisce a un rapporto che Laghi gli aveva inviato
pochi giorni prima accennando alla situazione di un gruppo di donne argentine i
cui familiari erano stati sequestrati ed erano detenuti o scomparsi. E scrive:
"Le sono vivamente grato per le informazioni che ci ha fornito nel
contesto di molti altri casi in favore dei quali codesta Nunziatura Apostolica
interviene ripetutamente e instancabilmente, presso le autorità competenti,
nonostante la scarsa attenzione che queste le prestano".
I1
Segretario di Stato vaticano non fa allusione a pratiche più o meno isolate, né
al ricorso occasionale all'assistenza umanitaria. Si parla di "interventi
ripetuti", di una condotta costante, di un piano sistematico per aiutare
le vittime della dittatura militare, in prigione o in libertà, che acquista
ancora maggior rilevanza etica e morale se si considerano le terribili
condizioni che viveva l'Argentina, trasformata in una landa di indifferenza e
in un inferno di persecuzioni e delazioni.
In
quei sei anni e mezzo di missione diplomatica e pastorale in Argentina, Laghi
si fece conoscere per ciò che era e che è: un uomo appassionato, mediterraneo,
impegnato, a volte umorale, ma incline sempre ad assumere un ruolo di
protagonista attivo, anche nelle peggiori circostanze. E gli uomini che
scelgono di vivere così finiscono per essere i più vulnerabili, soprattutto
quando tocca loro in sorte di agire in situazioni terribili, quando l'orrore
oscura le menti e condiziona ‑ occorre riconoscerlo per amore di
giustizia ‑ quanti hanno sofferto sulla propria pelle perdite
irreparabili, come le Madri della Plaza de Mayo.
Alcuni,
più riflessivi, hanno rimproverato a Laghi di non essere arrivato alla rottura,
di non aver denunciato pubblicamente e in maniera tempestiva, quanto accadeva,
di non aver gridato al mondo che la situazione era infinitamente più grave di
quello che lui stesso sapeva. Insomma, lo tacciano di non aver scelto la strada
del gesto eroico, trasformandosi in un emulo moderno di Sant'Ambrogio, il
Vescovo di Milano che nell'anno 390, dopo non aver potuto impedire lo sterminio
di 7.000 credenti ordinato dall'Imperatore Teodosio, pretese e ottenne per lui
un pubblico castigo.
E'
tuttavia fuori discussione che Laghi, a mano a mano che prendeva consistenza
davanti ai suoi occhi la tremenda dimensione della repressione in atto, si votò
anima e corpo al compito di aiutare, assistere, ascoltare, alleviare
sofferenze, consolare, cercare di salvare vite. Non sempre ebbe successo. E
quando non ottenne quanto cercava, come disse lui stesso ai giornalisti prima
di abbandonare il suo incarico a Buenos Aires, ebbe sempre un fazzoletto pronto
ad asciugare una lacrima. E in quell'Argentina arida, distratta e negligente
degli anni settanta, dove, come ha sostenuto di recente il Rabbino argentino
León Klenicki, ci fu "una sorta di silenzio di fronte all'orrore",
anche quel gesto aveva un significato di rara solidarietà.
E
il fatto di non aver aderito a tale silenzio è un merito per Monsignor Laghi
che non gli si può disconoscere. Egli rivendicò il suo ruolo di sacerdote, il
cui posto non può essere che a fianco di quanti soffrono e sono vittime di persecuzioni.
E operò sempre in tal senso, pur non avendo del tutto chiara ancora la
dimensione e la sistematicità del massacro e gli eccessi più aberranti che,
solo più tardi, sarebbero venuti alla luce.
Le
azioni di Laghi possono essere condivise o no. Certamente non gli si può
attribuire il torto dell'indifferenza, la vigliaccheria, l'alzata di spalle di
fronte alla tragedia che si consumava intorno a lui.
Esercitò
la solidarietà correndo perfino rischi non indifferenti in prima persona, come
quando aiutava a uscire dal Paese persone ricercate o trovava loro asilo in
ambasciate amiche. Il suo, e questo è comprensibile, fu un percorso
condizionato dalla delicatezza della sua posizione e ostacolato da limiti
oggettivi. Le distanze che Laghi prese dal potere militare, nei due ultimi anni
del suo incarico (1979‑80) sono facilmente dimostrabili. Egli alzò la
voce, ebbe gesti di esplicita polemica con il potere e arrivo persino alla
denuncia pubblica.
Fu
sufficiente? Laghi poteva fare di più? E' la domanda che lo stesso Cardinale,
prima di chiunque altro, si è posto e continua a porsi davanti a qualsiasi
interlocutore con cui sfiori il problema.
Questo
libro, frutto di un anno e mezzo di lavoro di ricerca in Argentina e in
Vaticano, lascia il lettore totalmente libero di trarre le proprie conclusioni,
accostandosi con animo spassionato alla documentazione che offriamo. Il
risultato è quello di un libro scomodo su un personaggio che, per molti, fu
altrettanto scomodo. E, ancora di più, un personaggio che, con il suo
comportamento, si espose in prima persona, come gli dettava la sua coscienza di
sacerdote e pastore. Un personaggio profondamente umano, con i suoi limiti e le
sue imperfezioni, ma che prese progressivamente coscienza dell'inammissibilità
di quanto succedeva. Egli agì di conseguenza, per quanto gli fu possibile in
quella terribile realtà. Lo fece con apprensioni e angosce non esenti da
pericoli personali, a differenza dell'inerte schiera dei suoi colleghi
ambasciatori che non si esposero mai a rischi di nessun tipo, fatte poche
eccezioni.
Laghi
si immerse, senza riserve, in quell'immensa palude in cui si consumava una
delle maggiori tragedie della seconda metà di questo secolo. A tali orrori si
arrivò anche perché molti di quei giovani e nobili idealisti credettero che la
strada della violenza potesse condurre alla realizzazione dei loro sogni di una
società migliore e perché, una volta scatenato il massacro, la maggioranza
degli argentini rimase in un silenzio indifferente. Ma queste responsabilità
non sono paragonabili alle colpe di quei militari che attuarono una politica di
sterminio inqualificabile, avocandosi il diritto di distruggere le persone, di
sequestrarle, di annientarne la dignità, di farle scomparire, di privarle dei
propri figli e dei propri averi e di gettarle vive nell’oceano, raggiungendo
così il massimo grado della perversione umana.
Voler
collocare Pio Laghi tra i complici di questo aberrante crimine non è solo
un’enorme ingiustizia, ma un travisamento e tradimento della verità, un inaccettabile
errore storico.
CAPITOLO
1
Da
Porto Garibaldi a Buenos Aires
Nel
Nord Italia, storie come quelle raccontate da Giovanni Guareschi, con il
parroco Don Camillo in continuo contrasto con il sindaco comunista Peppone,
erano molto frequenti mentre ancora fumavano le macerie causate dalla Seconda
Guerra Mondiale.
In
realtà, si trattava di animosità d'effetto, non reali, ridotte alla dimensione
paesana, ma esplicative del conflitto ideologico post-bellico che lacerava
l'Europa e che in Italia aveva assunto particolare intensità. Alle frontiere
nord-orientali dell'Italia erano posizionati i soldati dell'Armata Rossa e
sulla realtà interna incombeva la minaccia di un Partito Comunista, quello
capeggiato da Palmiro Togliatti, che era il più numeroso e forte d'Occidente.
Dall'Europa
dell'Est arrivavano immagini ed echi inquietanti delle persecuzioni che i
regimi stalinisti avevano scatenato contro la Chiesa cattolica. Poco più tardi,
in Ungheria, si sarebbe consumato l'allucinante processo ‑ sulla base di
prove assolutamente false ‑ contro il Cardinale Jozsef Mindszenty,
culminato con la sua condanna all'ergastolo.
A
Porto Garibaldi, un paesetto di non più di mille abitanti che si affaccia
sull'Adriatico a pochi chilometri da Ravenna (dove si trovano le rovine
paleocristiane e bizantine più importanti d'Italia) e a brevissima distanza da
Comacchio, era famoso per il suo anticlericalismo, fino al punto di aver
ricevuto l'appellativo di "mangia‑preti", un tale Guido
Vincenzi, personaggio che nella gerarchia locale aveva un certo peso e che
svolgeva le mansioni di direttore dell'Ufficio Postale e segretario
dell'Associazione Pescatori e Marittimi. Vincenzo era un fiero sostenitore
delle tesi marxiste molto in voga tra i lavoratori di allora che esaltavano l'imminente
e inevitabile "trionfo del proletariato". E agiva di conseguenza. Per
lui non esistevano sfumature. Chi non era a favore della rivoluzione
bolscevica, destinata a cambiare radicalmente il mondo era un nemico
inconciliabile, alleato dell'esecrabile fascismo, inghiottito dal vortice della
Storia. E tra questi avversari i sacerdoti erano in prima fila.
Nei
primi giorni di novembre del 1946 ‑ più precisamente il 12 – l’irruente
dirigente antifascista consegnò a Mario Samaritani, altro "notabile"
del paese, impiegato delle Imposte, un bigliettino che recitava testualmente:
Carissimo
Mario,
Ti
farà meraviglia il motivo per cui mi accingo a scriverti. Gli è che, avendo
saputo che Don Pio Laghi, attualmente reggente la parrocchia di Porto Garibaldi
deve andarsene, reputo di dover spezzare una lancia a favore del suo ritorno
definitivo appena Egli avrà terminato gli studi. Proprio io, capisci, proprio
io vecchio "mangiapreti', mi frappongo a che questo giovane prete non
venga allontanato da Porto Garibaldi (non certo per servire il mio...
cannibalismo).
Don
Pio si è acquistato la simpatia dei miei pescatori, dei miei portuali, dei miei
marittimi e quella mia non degna. Egli è il prete che ci voleva qui, parrocchia
che anche in fatto di preti è sempre stata tanto disgraziata. Tu sai che io
ammiro i “preti buoni” come Giuseppe Garibaldi chiamava molti sacerdoti. (...)
Ti prego quindi, togliendo il profano da questo mio scritto, di renderti
interprete presso l'Eccellentissimo Vescovo di Comacchio dei desideri di coloro
che rappresento e se non fossi un reprobo, anche del mio desiderio. Credimi con
tutta cordialità tuo Guido Vincenzi[1].
Chi
era questo pretarello giovane, attivo, amico dei pescatori e degli operai
portuali, che era arrivato a commuovere il più vecchio e incallito
anticlericale del paese, fino al punto di richiederne il suo ritorno a Porto
Garibaldi, una volta finiti i suoi studi superiori?
Pio
Laghi nacque a Castiglione di Forlì ‑ un minuscolo paese della Romagna,
sconosciuto anche alle carte geografiche ‑ il 21 maggio 1922, quinto e
ultimo figlio di una umilissima famiglia contadina. Papà Antonio e mamma Laura
dovettero affrontare da soli, appoggiandosi esclusivamente sulla forza delle
loro braccia e contando solo sulla tenacia del loro spirito, le sfide
insopportabili, che gli anni successivi alla "Grande Guerra"
causarono nelle case della povera gente. Molti, per fuggire dalla miseria,
emigravano negli Stati Uniti, in Argentina, in Brasile, lasciandosi alle spalle
le loro storie e le loro vicende personali. Con rabbia e dolore, affrontavano
l'inquietante traversata oceanica in quelle sordide cabine di terza classe di
navi che, a malapena, permettevano di sistemare in un angolo le valigie di
cartone che avevano riempito con le loro poche e povere cose. Ma i Laghi no.
Abbandonarono Castiglione di Forlì per trasferirsi con i cinque figli ‑
Pio aveva solo quattro mesi ‑ a Villanova di Forlì, non lontano da
Faenza, cittadina che già iniziava a profilarsi come un futuro importante
centro industriale.
Nel
1933 suo padre lo iscrisse alla scuola ginnasiale dell'Istituto Salesiano di
Faenza. Fu una scelta azzardata. Papà Antonio sapeva perfettamente che dalle
sue magre tasche non sarebbe potuto uscire il denaro necessario per mantenerlo
agli studi. Il ragazzo era cosciente di questo. Già qualche anno prima, per
aiutare le magre finanze della famiglia, aveva fatto l'inserviente di bottega
presso il barbiere Archimede, che si affacciava sulla piazza centrale di
Faenza.
Ma
avvenne un duplice e provvidenziale intervento. Il direttore dell'Istituto, don
Umberto Caramaschi, notando la serietà e la perseveranza del giovane ragazzo,
lo esentò dal pagamento della quota mensile. E il nuovo parroco di Santo
Stefano, Monsignor Domenico Barbi, decise di comprargli i libri. Entrato nella
carriera ecclesiastica, Laghi non dimenticherà mai la benevolenza salesiana e
metterà al di sopra di tutti i valori del suo esercizio ecclesiale la
solidarietà, l'assistenza ai suoi fratelli in stato di necessità e il servizio
silenzioso e disinteressato sulle tracce dell'insegnamento e dell'esempio di
San Giovanni Bosco. La "chiamata" di Dio non giunge mai repentina o
inaspettata e percorre sempre sentieri imperscrutabili. Nel caso del giovane
Laghi, già aveva fatto breccia nella sua anima da quando, ancora fanciullo, era
stato preso sotto la protezione di Monsignor Barisani, parroco di Santo
Stefano. Prese la decisione di servire Dio nel 1938. E all'età di 16 anni entrò
nel Seminario di Faenza, per frequentare il triennio liceale, grazie a una
rinnovata assistenza economica dell'anziano direttore Caramaschi, che gli offrì
la retta mensile, mentre il cappellano di Santo Stefano, don Pietro Costa, lo
assistiva e lo guidava spiritualmente. In seminario lo accolse il rettore,
Monsignor Paolo Babini, già nominato Vescovo di Comacchio.
La
Storia, nel frattempo, seguiva il suo inesorabile corso e trascinava l'Italia
verso la catastrofe. L'euforia provocata dall'entrata in guerra del regime
fascista accanto alla Germania di Adolfo Hitler durò poco tempo. Poco più di un
anno dopo, negli ultimi mesi del 1941, gli italiani già avevano preso coscienza
della loro inferiorità militare. Fu in quel clima di rassegnato fatalismo che
Pio Laghi, a 19 anni appena compiuti, ottenne la "maturità classica"
e, nel settembre 1941, iniziò il corso di Teologia nel Seminario di Faenza. Il
9 giugno 1943 gli alleati erano sbarcati in Sicilia e il 25 luglio il re
Vittorio Emanuele III aveva fatto arrestare Mussolini, che il giorno prima era
stato messo in minoranza nel Gran Consiglio del Fascismo. La sua successiva
liberazione, l'occupazione nazista e la nascita della Repubblica Sociale
Italiana segnarono lo scatenarsi di una spietata guerra civile, con l'Italia
divisa in due e la sua popolazione vittima di pene inenarrabili.
In
quell'immane confusione, i bombardamenti degli alleati si avvicinavano sempre
più, con i loro messaggi di morte e devastazione, alle città del Nord. E quando
Faenza divenne loro bersaglio, il seminarista seguì il medesimo dolente destino
dei suoi vicini: cercò rifugio fuori delle mura cittadine. Lo trovo nella Villa
di Mezzeno, tra gli sfollati che avevano dovuto abbandonare le loro dimore e
sopravvivevano in condizioni pietose. Il giovane si dedicò ad assisterli, a
confortarli, dividendo con loro un pezzo di pane e qualche piatto di minestra
precariamente riscaldata.
Tra
gli sfollati c'era un anziano studioso che aveva fondato il Museo
Internazionale delle Ceramiche di Faenza per divulgare la qualità di tali
prodotti che renderanno poi famosa in tutto il mondo la città emiliana. Si
trattava di Gaetano Ballardini, che era arrivato al rifugio di Mezzeno in
lacrime, sprofondato nella disperazione: le bombe avevano distrutto il museo
che con tanti sacrifici aveva creato lavorando per 40 anni. Nella sua vicina
casa di Merlaschio, ridotta a macerie, aveva dovuto abbandonare nella fretta
della fuga i manoscritti di una ventina di libri sulla scienza e l'arte della
ceramica pronti per la stampa. Ballardini non si dava pace. Era l'immagine
della desolazione. Si domandava se nella pausa tra un bombardamento e l'altro
non si sarebbero potuti recuperare quei manoscritti che rappresentavano tutta
la sua vita. Laghi, commosso dal suo dolore, decise di tentare. Esaudire il
desiderio di Ballardini presupponeva enormi rischi poiché ovunque erano
disseminate mine inesplose e, dal fronte non lontano, di tanto in tanto,
arrivavano proiettili di mortai che esplodevano nelle vicinanze. Ma tentò
ugualmente di raggiungere Merlaschio. Il 15 dicembre con infinita cautela,
accompagnato da altri due seminaristi che condividevano il rifugio con lui, si
aprì la strada tra le rovine e, finalmente, individuò la casa del
"Commendatore". O. per meglio dire, quanto di essa rimaneva. In due o
tre occasioni dovettero mettersi al riparo per l'arrivo di granate che
scoppiavano sollevando nubi di polvere e sassi. Le sei mani cominciarono a
lavorare senza sosta. Con gli abiti lacerati, le unghie sanguinanti, asciugando
di tanto in tanto il sudore con le sottane, scavarono e scavarono tra le macerie.
A poco a poco presero forma, coperte di polvere, le cartelle e i manoscritti.
Prima che calasse la notte, Laghi e i suoi compagni tornarono al rifugio,
portando una grande quantità di libri che erano riusciti a mettere in salvo. Ad
aspettarli, in lacrime di commozione, c'era il Ballardini che non sapeva come
esternare la propria gioia per il provvidenziale recupero, ne come ringraziare
il terzetto protagonista.
A
Pasqua del 1946, quando Laghi stava per essere ordinato sacerdote, ricevette
una lettera, accompagnata da una generosa offerta in denaro. Era di Ballardini.
Tra tante cose, gli diceva: "Finché io viva, avrò fitta nello spirito
l'immagine di un giovane ardente di carità, che in fierissimo sprezzo della
morte, sotto la micidiale bufera bellica, accorreva da Mezzeno al soccorso di
miseri; finché io viva ricorderò i possibili agi da lui pietosamente offerti al
mio desolato esilio campestre e con sempre viva gratitudine ricorderò il
salvataggio dal crollo di Merlaschio di mici poveri manoscritti, che
l'imminenza del disastro mi rendeva ancor più cari; povere cose, che con altri
generosi impavidi traeva dalle macerie, affrontando ogni volta le incertezze di
un cammino, dal quale poteva essere fatale il ritorno. (...) Beato Lei dunque
che sale al monte superno per consolare e benedire"[2].
L'ordinazione
sacerdotale di Pio Laghi ebbe luogo a Faenza il 20 aprile 1946, Sabato Santo,
nella cappella del Vescovado per le mani di Monsignor Giuseppe Battaglia,
Vescovo di Faenza. Mamma Laura, sempre umile e discreta, visse quel giorno
straordinario in silenzio, in un angolo della cappella.
Qualche
lacrima le solcava il volto, rugoso e sciupato dal sole e dal vento, e la
capigliatura bianca era avvolta in un fazzoletto nero che portava sempre quando
assisteva alla messa. Al suo fianco, papà Antonio, orgoglioso e protettivo, le
aveva appoggiato il suo braccio sulla spalla, cercando di dissimulare la
profonda e incontenibile emozione. Il giorno seguente, Domenica di Pasqua, il
neo sacerdote celebrò la sua prima Messa nella parrocchia di Santo Stefano, la
stessa che aveva visitato per la prima volta venti anni prima, quando aveva
conosciuto l'immensa bontà di Monsignor Barisani, il suo
"protettore". Tra i prelati che l'asistettero c'erano il parroco
Domenico Balbi e don Pietro Costa.
Il
giovane Don Pio ‑ aveva 24 anni ‑ iniziò la sua esperienza
pastorale a Porto Garibaldi nell'agosto del 1946. Furono quattro mesi
intensissimi nei quali il novello sacerdote s'impegnò per la prima volta con
indefessa costanza e profondo entusiasmo nella pastorale e nel servizio. Monsignor
Battaglia lo aveva destinato ad assolvere tre compiti ben precisi: assistere
spiritualmente (e anche materialmente, se necessario) le famiglie che
emergevano con enormi difficoltà dalla devastazione bellica; preparare il
terreno per creare presso il piccolo porto un asilo destinato ai bambini poveri
e dotarlo di suore che dovevano stabilirsi sul luogo. Il progetto divenne
realtà nel dicembre successivo, poco prima che Laghi terminasse la sua missione
a Porto Garibaldi e tornasse a Roma per completare il quinto anno del corso di
Teologia e preparare la sua tesi dottorale.
Giorno
dopo giorno, Laghi aveva affidato a un diario personale le vicissitudini della
sua esperienza in quel paese di pescatori affacciato sull'Adriatico. Non fu
un'impresa facile e si evince dalle prime pagine: "Mi hanno impressionato
quei bambini scalzi, con i vestiti a brandelli che vagavano per il paese senza
alcuna assistenza (...) Temono la mia sottana nera e quando appaio, scappano.
Cercherò di avere tanta pazienza e molto buon cuore, per essere piccolo coi
piccoli", scriveva il 28 agosto, giorno del suo arrivo[3].
Lo spettacolo di distruzione e dolore, le case abbattute dai bombardamenti ‑
perfino la parrocchia era ridotta a rovine ‑ e la miseria che
imperversava in ogni angolo, non potevano che impressionare intensamente la
sensibilità del giovane sacerdote. Avrebbe scritto quasi 40 anni più tardi, nel
centenario della parrocchia dell'Immacolata di Porto Garibaldi: "Fin dai
primi giorni cercai di conoscere e farmi conoscere da quella gente: visitai le
famiglie, una ad una; segnai in un quaderno i nomi dei componenti; presi nota
di bisogni spirituali e anche materiali che l'uno o l'altro potesse avere.
(...) Ogni domenica celebravo la Santa Messa nell'andito dell'edificio delle
Scuole. A1 principio si riunirono intorno a me una ventina di fedeli, ma poi il
numero crebbe continuamente..."[4].
Più
avanti si legge: "La mia attenzione si rivolse particolarmente ai ragazzi:
giocavo con loro al pallone o, quando pioveva, li riunivo in qualche casa
ospitale, intrattenendoli con giuochi da tavolo". Tutti i giorni, con
nebbia, sole o vento, a cavallo di una bicicletta malandata, il giovane
sacerdote faceva la spola tra Porto Garibaldi e Comacchio, sede della Diocesi.
Esercitava il ministero ecclesiale, come indica il Vangelo, "andando di
casa in casa". Non aveva ufficio ne fissa dimora. Dormiva in una povera
stanza che la Guardia di Finanza gli aveva prestato provvisoriamente. Nella vecchia
caserma, condivideva con la gente il freddo, i disagi, il senso di precarietà
di quell'epoca carica d'incertezza. Avrebbe scritto più tardi: "Oggi, a
distanza di 40 anni, posso dire che fu il periodo più bello della mia vita
sacerdotale"[5]. Di quei
tempi ardui e difficili, Laghi ha conservato vecchi amici con i quali, quando
fa ritorno alla sua terra natale, e solito incontrarsi e rivangare le
esperienze passate: "La nostra amicizia nacque quando cercai di dire loro
una buona parola, insegnare loro il catechismo e prepararli ai Sacramenti.
Insomma, essi erano mici maestri nel giuoco mentre io insegnavo loro ad essere
buoni cristiani".
Ma
il suo destino era un altro. E lo avrebbe portato lontano, molto lontano, da
quei pescatori dai tratti induriti dal sole, traboccanti di vita e di
generosità. Nel 1947, Don Pio si era iscritto presso la Pontificia Università
Lateranense. Ha ricordato il Cardinale Achille Silvestrini, faentino come lui:
“Al Laterano, Don Pio si distinse subito nell'ambito degli studi di Teologia come
uno degli alunni più brillanti, circondato da stima e considerazione"[6].
Tuttavia la meta che più ambiva era entrare nella Pontificia Accademia
Ecclesiastica, deputata alla scelta e alla formazione del personale diplomatico
della Santa Sede. Fu lo stesso Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, a
chiedere personalmente alla Diocesi di origine il trasferimento di Don Pio a
Roma per affrontare l'esame di ammissione, cosa che fece egregiamente[7].
Era il mese di ottobre 1950. Dopo 18 mesi di studi nella Pontificia Accademia,
dove ebbe professori della statura di Monsignor Corrado Bafile e Paolo Savino,
e di altri sei di tirocinio nella Segreteria di Stato Vaticana, il 1° marzo
1952, ebbe il suo primo incarico diplomatico: fu inviato in Nicaragua come Addetto
di Nunziatura. Nel paese centroamericano, il suo compito pastorale fu intenso e
impegnativo, soprattutto tra i poveri del quartiere di Alta Gracia, a Managua,
che fino a quel momento erano del tutto privi di assistenza religiosa.
Monsignor Laghi vi fondò la parrocchia Nostra Signora di Alta Gracia e una
scuola elementare con 400 bambini che affidò alle Suore della Divina Pastora.
Il
3 novembre 1954 fu nominato Segretario di Nunziatura presso la Delegazione di
Washington[8],
alle dirette dipendenze di un prelato destinato a lasciare un'impronta
indelebile nella Segreteria di Stato, il futuro Cardinale Amleto Cicognani. La
sua esperienza nella capitale degli Stati Uniti fu preziosissima. I1 suo
superiore era uomo di considerevole spessore diplomatico e pastorale e per
sette anni lo aiutò a familiarizzare con tutti i meccanismi, gli usi e le norme
del delicato mandato. Questi impegni non gli fecero dimenticare il servizio
pastorale, che esercitò con zelo nella parrocchia del Santo Rosario, fondata
nel 1913 dal prelato italoamericano Monsignor De Carlo.
Nel
1958 Monsignor Cicognani fu elevato alla porpora cardinalizia e il suo
sostituto a Washington fu Monsignor Egidio Vagnozzi, con cui Monsignor Laghi
collaborò tre anni, fino all'agosto 1961, quando fu inviato in India come
"Uditore di Nunziatura", a capo della quale c'erano due prelati
australiani, divenuti poi cardinali: il Nunzio Robert Knox e il segretario
Monsignor Edward Cassidy[9].
Ma Laghi non si chiuse ‑ non lo avrebbe mai fatto, ed è questa la chiave
di lettura per capire la sua intera carriera ecclesiastica ‑ tra le
quattro mura della rappresentanza diplomatica. Prese coscienza personale della
drammatica realtà indiana. Si trasformò in vice parroco di una piccola chiesa
frequentata dalla minoranza cattolica di Nuova Delhi, nella quale celebrava la
messa. Visitava i poveri e gli ammalati. Nel corso di una delle sue visite a un
lebbrosario ebbe un incontro che fu provvidenziale per la sua vita: conobbe
Madre Teresa di Calcutta. Nacque tra i due un durevole vincolo di amicizia che,
in Laghi, si tramutò in devozione. Madre Teresa riservò a Laghi sentimenti di
rispetto e benevolenza. Quando nel 1991 apprese la notizia della sue elevazione
alla dignità cardinalizia, gli scrisse: "Da Delhi a Roma, e a Washington,
in Medio Oriente e in Sudamerica, Lei ci ha aiutato e guidato (...) Lei è nelle
mie preghiere quotidiane, specialmente ora, con la grande missione che è
chiamato a svolgere in favore della Chiesa. La prego, elevi orazioni al Signore
per la nostra società, per i poveri e per me"[10].
Nel
1964, già Consigliere di Nunziatura, Monsignor Laghi tornò a Roma, per lavorare
presso il Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, in pratica il
"Ministero degli Affari Esteri" della Santa Sede. Lì lavoravano due
prelati che avrebbero marcato a fuoco la sue vita nel difficile periodo in cui
fu a capo della Nunziatura di Buenos Aires. Infatti, l'allora Segretario del
Consiglio e suo superiore diretto era il futuro Cardinale Antonio Samoré, lo
stesso che, opportunamente sollecitato dalle pressanti richieste di Laghi, si
sarebbe recato nel dicembre del 1978 in Argentina e Cile per frenare in nome
del Papa Giovanni Paolo II l'imminente guerra tra Argentina e Cile per la
questione del Canale di Beagle. Qualche anno dopo, Samoré fu sostituito da
Monsignor Agostino Casaroli, creato Cardinale il 30 giugno 1979 e designato lo
stesso anno Segretario di Stato al posto del CardinaleJean Villot. Casaroli
dovette gestire la parte più impegnativa della "mediazione papale" nella
diatriba tra i due Paesi sudamericani.
Durante
il periodo trascorso presso il Consiglio, Monsignor Laghi si occupò di
questioni delicate, come la preparazione dello storico viaggio di Paolo VI a
New York, dove il 4 novembre 1965 intervenne all'Assemblea Generale delle
Nazioni Unite. Il 22 giugno 1969, Papa Montini lo nominò Arcivescovo titolare
di Mauriana e, nel mese successivo, Delegato Apostolico in Gerusalemme e
Palestina, con deputazione anche per Cipro. Lo attendeva una delle regioni più
convulse del mondo, in cui la Chiesa cattolica non è disposta a rinunciare a un
ruolo di protagonista. Trent'anni fa, il Medio Oriente era quello che è ancora
oggi: teatro di conflitti bellici, di forti contraddizioni sociali e di
antagonismi religiosi tra le tre fedi monoteiste, l'ebraismo, il cristianesimo
e l'islamismo, ciascuna con le sue tradizioni, i suoi fedeli, i suoi riti e le
proprie rivendicazioni, spesso incomponibili.
Oltre
alla complessità della situazione, Laghi arrivava in quella Terra con il
compito di interpretare fedelmente gli orientamenti della Santa Sede in
particolare in tutto ciò che si riferisce al destino dei Luoghi Santi.
Laghi
sbarcò al Porto di Jaffa, in Israele, poco dopo il secondo anniversario della
Guerra dei Sei Giorni (1967), che aveva cambiato radicalmente il panorama
geopolitico della regione. Immediatamente, si appellò ai suoi migliori sforzi
per essere all'altezza dell'impresa che gli era stata affidata. Aveva già
capito che, per il suo compimento, non sarebbero stati sufficienti né la sua
preparazione diplomatica né la sua scaltrezza politica. Doveva agire con
pazienza e con generosità, essere umile, mettere del calore umano al servizio
della sua missione. Nei suoi cinque anni di permanenza in Medio Oriente,
Monsignor Laghi dedicò i suoi migliori sforzi a ammorbidire i già difficili
rapporti tra il Vaticano e Israele.
I
motivi d'attrito erano molti. Paolo VI non aveva mai cessato di ricordare in
più occasioni i diritti dei Palestinesi, cacciati dalla loro patria e ansiosi
di farvi ritorno. In merito allo Statuto dei Luoghi Santi, la posizione della
Santa Sede era immutata: rivendicava l'applicazione di uno Statuto speciale con
garanzia internazionale speciale per la città di Gerusalemme, soluzione che con
la Guerra dei Sei Giorni appariva sempre meno realizzabile.
L'atmosfera
in cui iniziò la sua missione diplomatica non era delle più serene. E non lo
aiutavano le istruzioni molto poco flessibili che gli avevano consegnato a
Roma. Capì allora che doveva mettere i suoi migliori sforzi non solo a servizio
del suo compito diplomatico, ma anche dello spirito pastorale che non gli
faceva difetto. Nacquero così l'Istituto Paolo VI per sordomuti
("Effeta") e l'Università Regionale di Betlemme. Furono i suoi due
grandi contributi ecclesiali durante i cinque anni in cui rimase in Medio
Oriente. Laghi riuscì pure a risolvere una durissima controversia sorta intorno
al grandioso edificio cattolico situato nel centro di Gerusalemme, conosciuto
come Istituzione di Notre Dame . Costruito alla fine del secolo scorso, era
stato molto danneggiato durante la guerra e in tale condizioni era stato
venduto per 600.000 dollari a un ente ebraico di New York, la Hammenoutah, che
lo voleva destinare all'Università israeliana. Subito furono sollevate riserve
sulla legittimità del contratto, giacché in Terra Santa ogni alienazione dei
beni ecclesiastici dev'essere, per diritto riconosciuto, autorizzata dalla
Santa Sede.
Il
Delegato Apostolico prese subito in mano la questione e, a nome della Santa
Sede, intentò all'inizio del 1971 un processo di nullità dell'atto, che destò
molto scalpore in Israele. La stampa gli dedicò molto spazio e fu seguito con
attenzione dagli ambienti forensi e politici.
Dopo
otto mesi d'intenso ma sterile dibattito giudiziario, lo stesso Primo Ministro
d'Israele, signora Golda Meir, che a tutti i costi voleva evitare una
situazione conflittuale con il Vaticano, intervenne personalmente: dopo un
incontro decisivo con Monsignor Laghi, si addivenne a un compromesso e si
decise la restituzione dell'edificio di Notre Dame alla Chiesa cattolica.
Convenientemente restaurato, il grande edificio fu riportato alla sua funzione
originale di luogo di accoglienza di pellegrini cattolici in visita a
Gerusalemme, e fu disposto che operassero nel suo ambito le opere cattoliche
della Città Santa.
Per
Laghi fu un grande successo personale, che trovò eco positivo nei superiori
della Santa Sede. Lo stesso Papa Paolo VI gli fece giungere i suoi
rallegramenti. In quella delicata controversia, il diplomatico vaticano si era
mosso con tale circospezione e tale cautela da riuscire a non suscitare negli
israeliani risentimenti irrimediabili. E aveva reso un servizio inestimabile a
Gerusalemme cattolica, che recuperava così il suo "cuore", minacciato
da tante vicissitudini nel corso della storia. Il 24 maggio 1974, Elia Frey,
sindaco di Betlemme, in nome del Consiglio Municipale della piccola città in
cui nacque nostro Signore, lo nominò "cittadino onorario".
Nell'attestato in cui gli si accreditò tale designazione si aggiunge, come
motivazione, "la riconoscenza e alta stima" che il prelato si era
guadagnato tra la popolazione betlemita.
In
realtà, quando gli notificarono quella notizia, Monsignor Laghi stava già
preparando le valigie. Il 27 aprile la Segreteria di Stato aveva disposto il
suo trasferimento in Argentina, in qualità di Nunzio Apostolico a Buenos Aires.
Al Rappresentante Pontificio fu raccomandato che si preparasse con urgenza per
il viaggio nel Paese sudamericano, dove gli eventi politici stavano precipitando
e la sua presenza era indispensabile.
[1]
Citato in "Il Cardinale Pio Laghi,
cittadino onorario di Betlemme". Omaggio della Diocesi di Faenza
Modigliana, Faenza, 1982, pay. 31.
[2]
Lettera di Gaetano Ballardini a
Monsignor Laghi, op. cit., pag. 29.
[3]
Diario personale di Padre Pio Laghi
pubblicato in "Vita parrocchiale" Porto Garibaldi, 1971, pay. 3‑5.
[4]
Pio Laghi, "Tra le rovine della
guerra un giovane prete a Porto Garibaldi', in "Porto Garibaldi, un
centenario da vivere" (18841984), Codigoro, Stampa Ciori, 1984, pag.65‑66.
[5]
PioLaghi; op.cit. ,pag.66.
[6]
Gli attuali Cardinali Achille
Silvestrini e Dino Monduzzi formarono con Laghi il terzetto di giovani
provenienti da Faenza che, negli anni 40, studio nel prestigioso Ateneo
Lateranense. Tutti e tre fecero brillanti carriere nella Segreteria di Stato e
giunsero a occupare posti chiave nel governo della Chiesa cattolica. Mentre
Dino Monduzzi ha appena smesso di occupare il prestigioso posto di Prefetto
della Casa Pontificia, Silvestrini è Prefetto della Congregazione per le Chiese
Orientali.
[7]
La Pontificia Accademia Ecclesiastica
che forma i diplomatici della Chiesa cattolica fu fondata nel 1701 da Papa
Clemente XI, che la chiamò Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici.
[8]
La Nunziatura Apostolica a Washington
inaugurata 'pleno iure,' nel 1984, dopo l'accordo sottoscritto tra il Vaticano
e il Presidente Ronald Reagan, che sancì l'inizio delle relazioni diplomatiche
tra Santa Sede e Stati Uniti. Il primo Nunzio fu Laghi che già era Delegato
Apostolico dal 1981.
[9]
Monsignor Knox, già Cardinale e
Arcivescovo di Melbourne, fu designato Prefetto della Congregazione per il
Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Monsignor Cassidy, Cardinale dal
1991, e attualmente Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione
dell'Unita dei Cristiani.
[10]
Lettera di Madre Teresa di Calcutta al
Cardinale Pio Laghi del 9 febbraio 1992. Appartiene alle carte personal) del
Cardinale.