CAPITOLO 10

 

Prigionieri senza nome

 

Il Boeing dell'Aerolineas Argentinas che trasportava il Cardinale Antonio Samoré atterrò al’Aeroporto di Ezeiza poco prima delle ore 11.00 di quel 26 dicembre 1978, con quasi due ore di ritardo. Quattro giorni prima, con un intervento provvidenziale che aveva evitato all'ultimo momento lo scoppio di una guerra tra Argentina e Cile per la contesa del Canal di Bearge[1] nelle lontane acque dell’Atlantico Sud, il Papa Giovanni Paolo II si era offerto come mediatore per aiutare i due Paesi a trovare una intesa "giusta e duratura", che facesse dimenticare un secolo di diatribe e ostilità.

 

Il porporato arrivava a Buenos Aires -prima tappa del suo viaggio, la seconda sarebbe stata Santiago del Cile- nella veste di Rappresentante Personale del Santo Padre, con ampi poteri per fare in modo che la tregua provvisoria che i due Governi avevano accettato si trasformasse in un negoziato che portasse alla pace. Il suo nome era stato fatto al Papa dal Cardinale Casaroli, che conosceva bene il talento e il carattere ostinato e generoso di Samoré essendo stato uno dei suoi collaboratori nella Segreteria di Stato. Così, l'anziano Cardinale che passava gli ultimi anni del suo servizio come responsabile della Biblioteca e dell'Archivio Vaticano si trasformò, inaspettatamente, nell'uomo chiave per raggiungere una pace il cui conseguimento impegnava tutta la credibilità e il prestigio di Giovanni Paolo II, da pochi mesi sulla Cattedra di Pietro.

Una volta spenti i motori, il primo a salire sull'aereo fu il Nunzio Laghi. Conosceva Samoré dagli anni 60, quando aveva lavorato alle sue dipendenze in Segreteria di Stato. Erano state le sue angosciose richieste dei giorni precedenti[2] che avevano convinto la Segreteria di Stato della drammaticità della situazione, aprendo il cammino all'intervento di Giovanni Paolo II, unica persona al mondo capace di fermare la folle corsa dei due Paesi verso una catastrofe che avrebbe provocato, sulla base delle stime di entrambi gli Stati Maggiori, 20.000 i morti soltanto nella prima settimana di ostilità.

 

Il Nunzio Laghi aveva dato un decisivo contributo e ne era consapevole. Se non avesse insistito con tanta ostinazione sull'imminenza della guerra, forse la Segreteria di Stato non avrebbe agito con tanta lungimirante tempestività. Questo lo riconobbe qualche anno più tardi il Cardinale Primatesta, nella sua veste di Presidente della CEA, quando gli scrisse:

"Se si evitò una guerra tra noi, dopo la misericordia di Dio, fu perché V.E., come diplomatico e come pastore, seppe muovere il terreno prudentemente e prendere l'iniziativa per aprire un cammino alla pace"[3].

E ora si trovava su quell'aereo, abbracciando Samoré e mettendo a sua disposizione tutta la sua esperienza maturata in quattro anni e mezzo di azione diplomatica in Argentina. L'impresa, già dal primo momento, si profilava ardua e carica di insidie. E lo sarebbe stata. Soltanto sei anni più tardi, nel 1984, con il ritorno dell'Argentina alla democrazia e dopo una serie infinita di attriti e vicissitudini, i due Paesi avrebbero firmato la pace.

Si metteva in moto, in quell'agitato Capodanno dell'emisfero australe, la mediazione pontificia che, da quel momento in poi, si trasformò in un fattore che condizionò fortemente i rapporti tra l'Argentina e il Vaticano, specialmente nel campo dei diritti umani. Giovanni Paolo II doveva riuscire nel suo intervento conciliatorio e amichevole non soltanto per motivi riguardanti il dissidio in se stesso. Si trattava di due Paesi cattolici che si erano affidati a lui, e l'opera di pacificazione era pertinente con la strategia globale della Chiesa che il neo Pontefice cercava di portare avanti. Erano tempi in cui il Vaticano prestava particolare attenzione a quanto accadeva in Polonia, dove il conflitto tra il regime comunista e il sindacato cattolico "Solidarnosc", fermamente sostenuto dalla Chiesa, era entrato nella sua fase cruciale.

 

Una volta accettato il compito di mediatore, Giovanni Paolo II doveva mantenere un dialogo costante e costruttivo, tramite i suoi due rappresentanti (Laghi a Buenos Aires e Monsignor Angelo Sodano a Santiago del Cile), con i dittatori Videla e Pinochet. In funzione di questo obiettivo, le due legazioni diplomatiche dovevano subordinare tutto il loro operato al raggiungimento di un traguardo superiore: il successo del Papa. Giovanni Paolo II non poteva fallire nel delicato compito che aveva assunto.

Questa circostanza va tenuta particolarmente in conto perché si trasformò in una nuova limitazione che rivestì, per il Nunzio Laghi, importanza decisiva. Malgrado la questione dei "desaparecidos" acquisisse ai suoi occhi una dimensione sempre grande e angosciosa, gli era assolutamente vietato rompere con i militari argentini al potere, che erano i naturali interlocutori di Giovanni Paolo II -tramite il Cardinale Samoré nel difficile negoziato.

Tra gli alti comandi militari argentini non tutti avevano accolto come cosa gradita l'intervento "in extremis" del Papa. C'era, tra i generali, un forte e agguerrito "Partito della guerra", convinto che, scatenato il conflitto col Cile, le Forze Armate argentine avrebbero messo in ginocchio in poche settimane i loro avversari. Di fronte a questo schieramento, il presidente Videla era in evidente difficoltà. Né lui né il comandante dell'Esercito, generale Eduardo Viola, volevano la guerra, ma la loro debolezza si era evidenziata poco prima, quando dovettero agire quasi nell'ombra per appellarsi al Vaticano. I "falchi" erano più numerosi e sembravano disposti a tutto. Neanche il Papa sembrava fermarli.

 

I tre esponenti più in vista di questo gruppo erano i generali Luciano Menéndez, che comandava il Terzo Corpo d'Armata, Suàrez Mason e Bussi. Questi ultimi Laghi li conosceva bene.

Il primo, perché più di una volta era stato destinatario delle sue richieste umanitarie, invariabilmente respinte. Il secondo, perché era stato il suo bieco anfitrione quando aveva visitato la provincia di Tucumàn sconvolta dalla lotta tra Esercito e guerriglia, due anni e mezzo prima.

Tra i due schieramenti era in atto una sorda e implacabile guerra sotterranea. I "duri" accusavano Videla e i suoi di portare avanti una politica che rinunciava ai "grandi obiettivi" che il "PRN", quando aveva preso il potere, si era impegnato a conseguire. E interpretavano lo "stop" a un passo dalla guerra, accettando l'intervento del Santo Padre, come una prova lampante di questa arrendevolezza. Ma c'era molto di più. Per loro, la lotta contro la sovversione e il marxismo "andava approfondita fino al suo completo sradicamento" e qualsiasi piano per indire future elezioni, dialogare con i partiti politici e programmare un ritorno alla democrazia era interpretato come un "tradimento" inconfessabile. Auspicavano, insomma, una permanenza "in eterno" dei militari al potere, forse anche perché iniziavano ad avere paura. L'ombra di una Norinberga "all'argentina" li inquietava sempre di più.

 

La crisi tra le opposte fazioni scoppiò nel settembre 1979, quando il generale Menéndez insorse contro il Comandante dell'Esercito, generale Viola, e implicitamente contro il presidente Videla, accusandoli di aver abiurato, con la loro condotta arrendevole, all'impegno che avevano assunto prendendo il potere. Il fatto che aveva precipitato gli avvenimenti era stato il "caso Timerman", la cui ripercussione internazionale, nel suo momento, fu molto grande.

In effetti, il vecchio giornalista -ben conosciuto in tutto il mondo, particolarmente negli Stati Uniti- era stato detenuto e torturato. Ma le accuse che gli erano state mosse erano di una insostenibile indeterminatezza. Col passare dei mesi, la pressione internazionale che il caso aveva sollevato crebbe, fino a diventare insopportabile. Finalmente, la Corte Suprema di Giustizia -massimo organo della magistratura argentina decise il suo rilascio e l'espulsione dal Paese, misure che il Governo di Videla, dopo averle accettate, si preparava ad attuare. Menéndez e altri "falchi" le respinsero e furono protagonisti di un "putsch" velocemente soffocato. Ma, per alcuni giorni, la vita di Timerman rimase appesa a un filo.

 

Questo, per il giornalista, non era un fatto nuovo. Già si era trovato in una situazione simile due anni e mezzo prima, quando era stato sequestrato e portato verso una ignota destinazione. Aveva potuto salvare la vita grazie alla provvidenziale convergenza di diverse circostanze. Non di poco conto fu l'azione che svolse in suo favore il Nunzio Laghi.

 

* * *

 

Jacobo Timerman fu un vero maestro di giornalisti. Nato nel 1923 in Ucraina, in un paesetto vicino a Kiev, era giunto a Buenos Aires a soli cinque anni, seguendo la diaspora di tanti ebrei dell'Europa Orientale che avevano scelto l'Argentina per ricominciare una nuova vita.

Dopo una carriera giornalistica costellata da successi, aveva fondato il quotidiano "La Opinión", che negli anni Settanta fu il maggior successo dell'editoria argentina. Chi sia interessato a capire e approfondire quello che successe in quegli anni nel Paese sudamericano, troverà nelle pagine di quel giornale la più fedele e trasparente testimonianza del processo di radicalizzazione e intellettualizzazione "a sinistra" che sperimentò la borghesia argentina.

Scatenata la tempesta della dittatura militare, "La Opinión" si trasformò nell'unico quotidiano argentino che ebbe il coraggio di pubblicare -eludendo le norme della censura-notizie sulle scomparse, a richiesta dei familiari delle vittime. L'unico requisito che Timerman esigeva dai parenti dei "desaparecidos" era che avessero presentato prima ricorso alla giustizia di "habeas corpus" in loro favore. Questo comportamento, che "La Opinión" non cambiò nonostante le minacce che riceveva, portò i rapporti di Timerman col regime a un punto di non ritorno. I suoi nemici giurati erano, soprattutto, quei "falchi" dell'Esercito che avevano deciso di fargli pagare cara la sua caparbietà.

 

Ma Timerman, dal canto suo, non si fece intimorire. E, per criticare il regime, ricorreva a metodi subdoli, come quello di pubblicare gli articoli critici sull'operato della dittatura che apparivano sulle pagine di giornali europei come "Le Monde" o del quotidiano "Thè Buenos Aires Heraid", che si pubblicava in Argentina e aveva come lettori gli stranieri di lingua inglese.

La goccia che fece traboccare il vaso fu, nel gennaio 1977, la riproduzione su "La Opinión" di un articolo sui diritti umani, fortemente critico su come agivano i militari e che era apparso nelle pagine della rivista dei gesuiti del Centro di Indagini e Azione Sociale (CIAS)[4], e di un editoriale contro il governatore della Provincia di Buenos Aires, il Generale Ibèrico Saint Jean, uno dei più intrattabili nello schieramento dei "duri". Timerman aveva osato troppo.

Il 15 aprile, un "commando" lo sequestrò nel suo appartamento e lo trasferì in un carcere ignoto, dove fu torturato e sottoposto a una finzione di fucilazione[5]. Quando gli tolsero la benda che copriva gli occhi, si trovò di fronte uno dei maggiori energumeni in uniforme, l'allora colonnello Ramón Camps, capo della Polizia della Provincia di Buenos Aires. Senza giri di parole, Camps gli disse: "La sua vita dipende da quello che dirà ora, si consideri un prigioniero di guerra".

 

Timerman era accusato di essere uno di finanziatori dell'organizzazione guerrigliera "Montoneros", addebito che non gli fu mai provato. Quella notte, i suoi carcerieri -che dipendevano del temibile generale Suàrez Mason, Comandante del Primo Corpo d'Armata- decisero di eliminarlo. La notizia giunse a conoscenza del generale Carlos Dalla Tea, che era uno dei segretari del Presidente Videla, il quale la trasmise a Roberto García, un giornalista de "La Opinión" con il quale aveva confidenza. "Guarda, se non si riesce a sapere entro 48 ore dove Jacobo è tenuto prigioniero, per lui è finita, hanno deciso di farlo fuori", gli disse.

 

Il giornalista García, senza indugiare, comunicò la notizia alla famiglia di Timerman, che già aveva presentato per lui ricorso di "habeas corpus". Per sua moglie Risha e per i suoi due figli, Daniel Natalio ed Héctor Marcos, si trattò di un vero e macabro ultimatum, che aumentò la disperazione del momento. Il loro smarrimento era totale. Che fare? A chi rivolgersi, quando tutte le porte del regime erano state chiuse? Come riuscire a vincere quell' autentica gara con la morte? Sapevano molto bene che significava per un "desaparecido", in quei tempi, svanire nel nulla, senza che nessuno fosse a conoscenza né del luogo di detenzione né del nome del generale che poteva ucciderlo o graziarlo...

 

La prima cosa che venne loro in mente fu quella di ricorrere alla Nunziatura Apostolica, perché sapevano della cordiale relazione -quasi un'amicizia- che esisteva tra Monsignor Laghi e Timerman. Il Nunzio ricevette immediatamente Risha, che conosceva molto bene. La donna era disperata. Laghi ascoltò con attenzione il suo racconto e, dopo averla tranquillizzata e assicurata che avrebbe fatto il possibile per aiutarla, chiese di parlare al telefono con il Ministro degli Interni, Generale Harguindeguy, suo interlocutore di vecchia data. Cercò anche di interessare, senza aver successo, Suàrez Mason e il presidente Videla, tramite il suo segretario Dalla Tea.

 

Cominciò così un vero "balletto" di appelli e ricorsi, avviati parallelamente a quelli che avevano messo in moto le ambasciate degli Stati Uniti e di Israele, mobilitate entrambe per il caso di cui giornali e televisioni di tutto il mondo avevano dato notizia. Le organizzazioni ebraiche di Washing­ton e delle capitali europee iniziavano a far sentire la propria voce. Per Laghi, le sue indagini nei labirinti del potere, in quelle drammatiche 48 ore, furono quasi un' impresa disperata. I militari consideravano Timerman come l'incarnazione del demonio e non facevano mistero che doveva pagare con la vita il suo ardimento.

In questa corsa contro il tempo, finalmente, Monsignor Laghi riuscì a farsi ricevere dal Generale Harguindeguy. Al suo ufficio erano già arrivate le richieste delle ambasciate degli Stati Uniti e di Israele, che volevano sapere che fine aveva fatto il detenuto. Laghi espose al Ministro degli Interni la delicatezza del caso, sottolineò la ripercussione mondiale che già stava avendo e lo avvertì che ne aveva informato telefonicamente la Santa Sede, riscontrando una "grande preoccupazione" per l'incolumità del giornalista. "Se non riconoscete che Timerman è nelle vostre mani e non vi impegnate a tutelare la sua vita, avrete di che pentirvi; il mondo non ve lo perdonerà mai", ripeté Laghi.

 

Il Ministro avvertì subito l'entità del problema e gli strascici negativi che la "desaparición" di Timerman avrebbe avuto. Il clamore internazionale suscitato dal suo rapimento era stato molto grande e ne aveva contribuito anche la Santa Sede, giacché la Radio Vaticana -premurosamente avvertita dallo stesso Laghi- ribadiva nei suoi bollettini l'avvenuto sequestro. I militari capirono che la programmata esecuzione di Timerman sarebbe stato un passo troppo avventato e pericoloso. E così, prima che scadessero le fatidiche 48 ore, il Governo riconobbe che il giornalista si trovava in suo

possesso. Era la provvidenziale ammissione che, come un regalo piovuto dal cielo, Risha e i figli aspettavano. Timerman era stato "blanqueado", come si diceva nel gergo poliziesco di quei tempi. La sua vita era in salvo. E, in quello che era stato quasi un miracolo, Laghi aveva avuto un ruolo molto importante.

 

Nelle settimane seguenti, Risha Timerman fu spesso ricevuta da Monsignor Laghi, che si trasformò in un amico sollecito e disponibile. E quando i servizi di spionaggio incominciarono a considerare che queste visite erano "troppo pericolose", allora lo stesso Nunzio si ingegnò per "incontrare la donna in altri luoghi previamente concordati. Le infondeva coraggio, le raccontava cosa cercava di fare in favore di suo marito in prigione. E arrivò al punto di aiutarla acconsentendo che adoperasse la posta diplomatica della Nunziatura che tutte le settimane partiva per il Vaticano per inviare informazioni all'estero circa la situazione del marito e chiedere aiuto e solidarietà a esponenti della comunità ebrea internazionale.

 

Furono così inviate in Vaticano e dal Palazzo Apostolico smistate per altre destinazioni europee, lettere in cui Risha si appellava agli amici di Timerman. Probabilmente, ma non abbiamo potuto documentarlo, si rivolse anche al rabbino di Roma, Elio Toaff, un uomo il cui enorme prestigio era ben noto a Timerman. Grazie anche alla concreta collaborazione delle comunità ebraiche, organizzate capillarmente, l'opinione pubblica europea prestò dovuta attenzione al caso, mentre da Buenos Aires l'ambasciatore degli Stati Uniti, Raùl Castro, sensibilizzava ancora di più l'opinione pubblica del suo Paese.

 

Passavano le settimane e Timerman continuava ad essere detenuto, vittima di ogni sorta di maltrattamenti. L'unica e incoraggiante certezza era che si trovava in vita. Laghi, finalmente, riuscì a parlare del caso con il presidente Videla, trasmettendogli il turbamento della Santa Sede. "Io informo puntualmente il Papa, che vedrebbe con gioia qualsiasi gesto di clemenza in favore del signor Timerman" , gli disse Laghi. Il dittatore rispose: "Mi dispiace, ma non posso far niente, tanto più nelle attuali circostanze; se ci provassi i miei camerati mi accuserebbero di tradimento e ne approfitterebbero per rimuovermi della Presidenza". Forse non esagerava. Il generale Suàrez Mason diceva ai suoi subordinati che, se fosse stato per lui, Timerman sarebbe già stato fucilato. "Ma quel codardo di Videla non me lo ha permesso", concludeva con tono ammonitorio.

 

Per il giornalista, intanto, si consumava un lungo e penoso pellegrinaggio -durato più di un anno- per i centri di detenzione clandestina che pullulavano a Buenos Aires e dintorni. In tutti subì torture e umiliazioni. Narrò la storia della sua detenzione in un libro intitolato "Prigioniero senza nome, cella senza numero". Solo nell'aprile del 1978 gli furono accordati gli arresti domiciliari. Come riconoscono lo stesso Timerman e il rabbino León Klenicki, le pressioni e le richieste di Laghi, durante i 15 mesi che durò la sua prigionia, ebbero un grande peso e furono suffragate dall'appoggio attivo in favore della sua liberazione che fornirono il Governo del presidente Jimmy Carter, Israele e il rabbino Marshall Meyer. La condanna internazionale per la sua detenzione era unanime. E a Videla non rimase altra scelta che cedere.

 

A settembre, grazie al verdetto favorevole della Suprema Corte di Giustizia argentina, che accolse il ricorso di "habeas corpus" presentato due anni prima, Timerman fu autorizzato a lasciare il Paese con un aereo che, previo scalo a Roma, lo portò in Israele. Ma, neanche allora, tutto filò liscio e senza problemi. I "falchi" dell'Esercito avevano anticipato che si sarebbero opposti al suo espatrio e tramavano una sommossa contro Videla.

In questo clima, il Papa aveva deciso di ricevere il 25 settembre, in forma riservata, José Chijanover, un diplomatico israeliano che all'epoca occupava la prestigiosa carica di Segretario Generale del Ministero degli Esteri di Israele e che svolgeva nell'ombra un lavoro di grande importanza. Infatti manteneva i contatti segreti con la Santa Sede, con la quale Israele non aveva ancora stabilito rapporti diplomatici. Il tema della conversazione sarebbe stato la situazione di Timerman. Era il risultato della grande sensibilizzazione che, con le sue relazioni, il Nunzio Laghi aveva ottenuto dalla Segreteria di Stato e dal medesimo Pontefice.

 

Chijanover era latore di una richiesta del governo d'Israele in favore di una decisa presa di posizione del Vaticano in favore della liberazione del giornalista, sull'ondata di solidarietà che Timermam riceveva da tutto il mondo. Molto probabilmente, Giovanni Paolo II avrebbe dato il suo consenso. Ma l'incontro non ebbe mai luogo perché, 24 ore prima che iniziasse l'udienza nel Palazzo Apostolico, Timerman già volava alla volta di Tel Aviv, verso la libertà, ripercorrendo in senso contrario la diaspora del suo popolo. E l'incontro fu cancellato.

 

* * *

 

Durante gli anni 1978 e 1979, Laghi s'interessò di molti altri "prigionieri senza nome". Probabilmente il più noto fu Adolfo Pérez Esquivel, insignito nel 1980 con il Premio Nobel per la pace. Fino al momento del suo arresto, era stato un anonimo professore della Facoltà di Architettura dell'Università di Bue­nos Aires, docente di Filosofia, Storia e Letteratura. I maggiori "pericoli eversivi" che arrecava erano il suo ruolo di Coordinatore Generale per l'America Latina del Servizio "Pace e Giustizia" (SERPAJ), per il quale era stato designato nel 1974, e la sua incondizionata ammirazione per il Vescovo brasiliano Helder Càmara, prete-simbolo della "Teologia della liberazione". La prima volta che i giornali si erano occupati di lui era stato nell'agosto 1976, quando, in Ecuador, la polizia irruppe in una riunione a cui partecipavano alcuni Vescovi, sacerdoti e laici (tra cui Monsignor Zaspe) e, dopo essere stato brevemente fermato, fu espulso dal Paese.

 

"Pace e Giustizia" è un'organizzazione ecumenica laica che si adopera per la promozione dei diritti umani fondamentali, applicando i metodi non violenti del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King, e facendo una chiara scelta in favore della causa dei più bisognosi. Non sempre il suo operato è stato ben visto dalla gerarchla vaticana, timorosa di un'interferenza nell'ambito della "Pontifìcia Commissione Giustizia e Pace", il cui Presidente, il Cardinal Bernardin Gantin, si recò a Buenos Aires nel 1981 per chiarire eventuali malintesi.

 

Nell'aprile del 1977, Pérez Esquivei doveva recarsi in Colom­bia e, ingenuamente, il 4 dello stesso mese, si presentò al Dipartimento Centrale di Polizia per ritirare il suo passaporto, che previamente aveva rinnovato. Invece di consegnargli il documento, lo imprigionarono e rinchiusero in una cella di massima sicurezza, dove rimase 32 giorni senza esser interrogato, senza che nessuno lo informasse delle ragioni della sua detenzione e senza che alcuno sapesse che fine avesse fatto.

Dopo un penoso calvario, che lo vide passare per diversi campi di prigionia, fu trasferito al carcere penale di La Piata, dove gli si applicò l'etichetta di "massima pericolosità" e fu brutalmente torturato, senza che nessuno gli chiedesse mai nulla. I suoi avvocati presentarono un ricorso di "habeas corpus", che -come sempre succedeva- venne disatteso. Rimase prigioniero per 14 mesi, a disposizione del Potere Esecutivo, senza alcun processo a suo carico.

 

Ma, come fu per Timerman, la pressione internazionale fece sì che il suo caso acquisisse notorietà. Il Vaticano aveva esternato la sua preoccupazione e "Pax Christi Internationalis", nel giugno 1978, gli conferì il "Memorial Giovanni XXIII della Pace". Alla fine, il governo gli concesse la libertà vigilata, e in questa situazione continuò fino all'agosto 1979. L'anno seguente, in mezzo allo stupore generale, l'Accademia di Svezia gli conferì il Premio Nobel per la Pace: una scelta che si trasformò in un vero schiaffo per il regime militare. Poté lasciare l'Argentina soltanto dopo che il Vescovo di Morón, Monsignor Laguna, si appellò al generale Bignone, allora Segretario Generale dell'Esercito, e ottenne che gli fosse concesso il suo passaporto.

 

Pérez Esquivel fu ricevuto da Giovanni Paolo II, tra lo sconcerto dei militari e dei civili e religiosi simpatizzanti del Processo. Indignati e stupiti, non capivano cosa stava succedendo. Forse il Vaticano era impazzito? Ma le pene del Premio Nobel continuarono anche quando riuscì ad abbandonare l'Argentina. Quando visitò il Brasile, invitato dalla filiale di San Paolo di "Giustizia e Pace" per tenere una conferenza e intervistare Monsignor Càmara, (il sogno della sua vita), subì un trattamento molto duro da parte della polizia brasiliana che lo trattenne e minacciò di espellerlo dal Paese. Si argomentò che, da Buenos Aires, era arrivata una chiamata telefonica che chiedeva la sua espulsione.

 

Per i due anni e mezzo che era durata la sua prigionia, sia nel carcere penale di La Plata sia nel suo domicilio, Laghi si era occupato della sua situazione, che era ancora più inammissibile perché non esistevano accuse di nessun tipo contro di lui ne alcuna causa penale a suo carico. Pérez Esquivel era diventato un "PEN", semplicemente, per il capriccio di qualche generale. Quando finalmente recuperò la libertà, Pérez Esquivel si trasformò in un interlocutore abbastanza assiduo del Nunzio Apostolico. Gli faceva visita nel palazzetto di Avenida Alvear ed ogni incontro si tramutava in dialoghi difficili in cui spesso emergevano dissensi.

Ambedue gli interlocutori erano soliti avere punti di vista differenti e perfino antitetici su diversi temi, per esempio circa il ruolo della Chiesa nel mondo temporale, e si lasciavano andare, appassionatamente, a disquisizioni sui limiti di quest'ultimo. Ma condividevano la comune angoscia per gli abusi della repressione. Era uno stato d'animo che emergeva in ogni colloquio e che lacerava Laghi nel suo intimo, come ha raccontato Pérez Esquivel nella testimonianza che si riporta in questo libro.

 

Il prelato parlava con passione, si poneva domande senza riserve, si chiedeva cos'altro poteva fare, sembrava schiacciato dall'enorme peso del suo compito. Pérez Esquivel lo ricorda come un uomo tormentato dalla questione dei diritti umani. E lo rammenta mentre percorreva a grandi falcate il suo ufficio della Nunziatura, con le mani incrociate dietro la schiena, interrogandosi a voce alta e mettendosi in discussione.

Quelle del drammatico 1979 erano giornate nelle quali, in più di un'occasione, si spazientiva e alzava la voce, specialmente quando era sotto eccessiva pressione a causa del problema che, nelle sue giornate, aveva assunto priorità assoluta. Tale veemenza, a volte, gli giocava qualche tiro mancino, di cui dopo si pentiva. Quando lasciò il Paese, nel dicembre 1980, in una lettera circolare di commiato che inviò ai Vescovi, chiese scusa per i "momenti meno luminosi o forse improntati al nervosismo" che poteva aver dimostrato e assicurò ("davanti a Dio") che durante il suo ministero "non aveva voluto male a nessuno". E concluse: "Ho cercato solo di servire, eseguendo al meglio le istruzioni ricevute" (.. .)[6].

 

In quei due anni (1978-79), seppur con decrescente intensità, Laghi seguitò ad appellarsi al Ministro Harguindeguy, con visite sempre più diradate, lettere personali che non avevano risposte o mediante il consueto invio delle liste di "desaparecidos" e detenuti che, con ostinazione, continuava a redigere. Durante il 1978 inviò al Ministero degli Interni cinque elenchi di "desaparecidos" (alcuni lunghissimi, come il numero XVII, nel quale incluse 302 nomi) e tre di detenuti. Ma i suoi maggiori sforzi li dedicava ai "pellegrinaggi", ad ottenere passaporti per i giovani che volevano lasciare il paese e a ogni tipo di assistenza umanitaria, mentre cercava di essere puntuglioso e convincente nei rapporti periodici che inviava alla Segreteria di Stato sulla situazione.

 

Nonostante questo, non poteva sentirsi appagato. Si era impegnato allo spasimo, ma soltanto con detenuti "a disposizione del Potere Esecutivo", i cosiddetti "PEN", era riuscito ad avere successo. Non erano state poche le persone che, grazie ai suoi sforzi, avevano recuperato la libertà ed erano rientrate nelle loro case. Ma con i "desaparecidos" fu diverso. Su di loro, era calato un inviolabile sipario, fatto di silenzi e di omissioni. Laghi leggeva sempre con apprensione le comunicazioni che gli arrivavano del Ministero degli Interni e che finivano, invariabilmente, con una frase che era una vera e propria sentenza di morte: "Con riferimento al resto di coloro che vengono specificati nella Lista di codesta Nunziatura, per alcuni dei quali V.E. si è interessato personalmente, questo Ministero non ha precedenti di nessun tipo". Erano spariti nel nulla.

 

Provava un qualche sollievo quando, di tanto in tanto, arrivava alla Nunziatura una lettera in cui un familiare che aveva fatto ricorso a lui gli comunicava che il suo parente non era più un "PEN" e che era stato liberato o aveva abbandonato il Paese. In non pochi casi si trattava di persone che avevano deciso di avviare pratiche per la scelta della cittadinanza (nella maggior parte dei casi optando per quella italiana) e iniziare così una nuova vita oltre l'Atlantico, nella terra dei loro avi. Ad alcuni di questi casi, come quelli di Catini e Laconi, già abbiamo accennato.

Altri documenti testimoniano la continuità dell'impegno umanitario del Nunzio. Una madre con il cuore ricolmo di gioia e riconoscenza, Marcelina Artola, scriveva a Monsignor Laghi il 10 luglio 1979 comunicandogli che suo figlio, Roberto Marcelo Barreiro e sua nuora, Maria Rosa Paredes, per i quali si era appellata alla Nunziatura, erano stati rintracciati. Recuperata la loro libertà, avevano lasciato il Paese con destinazione Uruguay. "Sono andata a trovarli, stavano bene e mi hanno chiesto di farle giungere il loro sentito ringraziamento per la sua intercessione", scriveva la donna[7].

 

María Mercedes Díaz gli inviava, il 10 novembre 1979, una missiva da Catamarca, per informarlo che il suo fratello Rolando, scomparso a Córdoba il 23 ottobre precedente, era tornato a casa. Nella lettera, gli esprimeva la sua gratitudine e quella di tutta la famiglia "per quanto ha fatto in suo favore". La ragazza scrisse: "Le chiedo scusa per aver osato rivolgermi a un prelato così eminente come Lei senza osservare le formalità". Alludeva alla fiducia che riponeva in Monsignor Bufano, Vescovo di Chascomùs, con cui aveva "lavorato lunghi anni nell'Azione Cattolica argentina", per concludere dicendogli: ''Ammiro tanto Lei quanto Monsignor Bufano per la vostra capacità di comprensione e autentica preoccupazione evangelica dimostrata verso il prossimo, senza distinguere "tra greci e barbari"[8].

 

Il dramma di suo fratello era stato segnalato prontamente da Laghi a Harguindeguy, dopo che sua madre si era presentata personalmente alla Nunziatura - con la presentazione della richiesta di "habeas corpus" - e si era raccomandata a lui come a una sorta di angelo custode. Per ragioni di lavoro, infatti, doveva tornare subito a Catamarca, una lontana provincia del Nord-Est argentino, a più di mille chilometri da Buenos Aires e non poteva seguire personalmente la vicenda del figlio.

Quando, il 10 novembre, ricevette la lettera di María Mercedes con la buona notizia, Laghi annotò al margine, con la sua grafia rotonda e ben curata: "Mi rallegro".

 

I casi della coppia Barreiro e di Rolando Diaz, sequestrati, scomparsi per alcune settimane e poi restituiti alla libertà, non fanno che confermare l'eccezionalità dei risultati posi­tivi quando si occupava dei "desaparecidos". Queste difficoltà spesso insormontabili le ammise, senza eufemismi, nella lettera che inviò il 16 ottobre 1980 al nuovo Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, Monsignor Eduardo Martínez Somalo, poche settimane prima di lasciare la Nunziatura per assumere le nuove funzioni a Washington.

 

Due famiglie argentine erano ricorse alla Santa Sede, e probabilmente, grazie all'intercessione del Cardinal Pironio, erano riuscite a trasmettere le denunce di scomparsa dei parenti alla Segreteria di Stato, con la speranza che, attraverso di essa, arrivassero al Santo Padre. A entrambe le denunce Martínez Somalo aveva assegnato il normale iter burocratico, portandole a conoscenza della Nunziatura Apostolica, con la "preghiera" che Laghi facesse "quanto fosse stato in suo potere" per aiutare a localizzare i "desaparecidos" (8 ottobre 1980).

 

Laghi rispose senza perifrasi, con un tono perentorio dal quale si evince una vaga sensazione di fastidio. Gli aveva detto che "conosceva personalmente" i firmatari di ambedue le lettere, "dato che si presentano frequentemente in questa Nunziatura Apostolica con richieste di tale sorta". E concludeva con una frase lapidaria, carica di amarezza: "La Rappresentanza Pontificia si occupa continuamente, senza tregua, di casi diversi ma, per quanto riguarda i "desaparecidos", con scarsi risultati"[9].

In queste righe, scritte quando il suo mandato diplomatico a Buenos Aires stava per concludersi e si avvicinava il tempo dei bilanci, si percepisce quasi l'ammissione di qualcosa di incompiuto, di non riuscito. I "desaparecidos" pesavano, come un macigno, sulla sua anima di pastore che aveva cercato di portare avanti, con ostinazione e tra infinite difficoltà, la sua missione umanitaria.



[1] I due Paesi si contendevano le isole Picton, Nuova e Lennox, situate in quell'estremo lembo di mare che mette in comunicazione l'Oceano Atlantico col Pacifico. Un arbitrato della Regina d'Inghilterra del 1977 le aveva consegnate al Cile. Ma non solo: aveva legittimato la penetrazione cilena nell'Atlantico per 200 miglio marittime, invadendo uno spazio oceanico che Argentina considerava suo. L'impossibilità di arrivare a un accordo portò a i due Paesi, alla fine del 1978, a un passo dalla guerra.

[2] Il Nunzio Laghi inviò alla Segreteria di Stato tré pressanti telex, datati 15, 16 e 19 dicembre 1978, chiedendo l'intervento urgentissimo del Papa Giovanni Paolo II, data l'inminenza della guerra. Vedere Bruno Passarelli, "II Delirio Armato". Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1998.

[3] Lettera del Cardinale Raùl Primatesta a Monsignor Pio Laghi del 3 gennaio 1981. Archivio personale del porporato argentino.

[4] Padre Vicente Pellegrini, "Los Derechos del Hombre en el actual contexto sociopolitico de Argentina ". In "Rivista del Centro di Indagini ed Azione Sociale" (CIAS). Buenos Aires, n.259, dicembre 1976. L'articolo, dotato di indiscusso coraggio e visione profetica, va collocato nell'ambito della rigida censura allora esistente. Tra altre cose, diceva che "si doveva impedire il degrado delle Forze Armate per il ricorso alla tortura" e che "sarebbe la più grande vittoria del terrorismo trasformare un militare onorevole, il cui ideale è lottare per la giustizia, in un volgare torturatore".

[5] Tra i giornalisti de "La Opinión" che furono assassinati o figurano come "desaparecidos" si trovano, fra altri, Eduardo Sajón, JorgeMoney ed Enrique Raab. Altri, noti per esser severi oppositori al regime militare, preferirono vivere all'estero, continuando in Europa la loro carriera giornalistica. E' il caso di Julio Alganaraz, attuale corrispondente a Roma del quotidiano argentino "Clarin".

[6] Circolare di congedo del Nunzio Laghi ai Vescovi argentini del 10 dicembre 1980. Copia fornita da uno di loro agli autori.

[7] La lettera si trova nell'Archivio della Nunziatura Apostolica di Buenos Aires.

[8] Copia in possesso degli autori.

[9] Lettera del Nunzio Laghi al Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, Monsignor Eduardo Martinez Somalo del 16 ottobre 1980. Archivio della Nunziatura Apostolica. Vedere documento allegato.