CAPITOLO 10
Prigionieri senza nome
Il Boeing dell'Aerolineas
Argentinas che trasportava il Cardinale Antonio Samoré atterrò al’Aeroporto di
Ezeiza poco prima delle ore 11.00 di quel 26 dicembre 1978, con quasi due ore
di ritardo. Quattro giorni prima, con un intervento provvidenziale che aveva
evitato all'ultimo momento lo scoppio di una guerra tra Argentina e Cile per la
contesa del Canal di Bearge[1]
nelle lontane acque dell’Atlantico Sud, il Papa Giovanni Paolo II si era
offerto come mediatore per aiutare i due Paesi a trovare una intesa
"giusta e duratura", che facesse dimenticare un secolo di diatribe e
ostilità.
Il porporato arrivava a Buenos Aires -prima tappa del suo viaggio, la seconda sarebbe stata Santiago del Cile- nella veste di Rappresentante Personale del Santo Padre, con ampi poteri per fare in modo che la tregua provvisoria che i due Governi avevano accettato si trasformasse in un negoziato che portasse alla pace. Il suo nome era stato fatto al Papa dal Cardinale Casaroli, che conosceva bene il talento e il carattere ostinato e generoso di Samoré essendo stato uno dei suoi collaboratori nella Segreteria di Stato. Così, l'anziano Cardinale che passava gli ultimi anni del suo servizio come responsabile della Biblioteca e dell'Archivio Vaticano si trasformò, inaspettatamente, nell'uomo chiave per raggiungere una pace il cui conseguimento impegnava tutta la credibilità e il prestigio di Giovanni Paolo II, da pochi mesi sulla Cattedra di Pietro.
Una volta spenti i motori,
il primo a salire sull'aereo fu il Nunzio Laghi. Conosceva Samoré dagli anni
60, quando aveva lavorato alle sue dipendenze in Segreteria di Stato. Erano
state le sue angosciose richieste dei giorni precedenti[2]
che avevano convinto la Segreteria di Stato della drammaticità della situazione,
aprendo il cammino all'intervento di Giovanni Paolo II, unica persona al mondo
capace di fermare la folle corsa dei due Paesi verso una catastrofe che avrebbe
provocato, sulla base delle stime di entrambi gli Stati Maggiori, 20.000 i
morti soltanto nella prima settimana di ostilità.
Il Nunzio Laghi aveva dato
un decisivo contributo e ne era consapevole. Se non avesse insistito con tanta
ostinazione sull'imminenza della guerra, forse la Segreteria di Stato non
avrebbe agito con tanta lungimirante tempestività. Questo lo riconobbe qualche
anno più tardi il Cardinale Primatesta, nella sua veste di Presidente della
CEA, quando gli scrisse:
"Se si evitò una guerra
tra noi, dopo la misericordia di Dio, fu perché V.E., come diplomatico e come
pastore, seppe muovere il terreno prudentemente e prendere l'iniziativa per
aprire un cammino alla pace"[3].
E ora si trovava su
quell'aereo, abbracciando Samoré e mettendo a sua disposizione tutta la sua
esperienza maturata in quattro anni e mezzo di azione diplomatica in Argentina.
L'impresa, già dal primo momento, si profilava ardua e carica di insidie. E lo
sarebbe stata. Soltanto sei anni più tardi, nel 1984, con il ritorno
dell'Argentina alla democrazia e dopo una serie infinita di attriti e
vicissitudini, i due Paesi avrebbero firmato la pace.
Si metteva in moto, in
quell'agitato Capodanno dell'emisfero australe, la mediazione pontificia che,
da quel momento in poi, si trasformò in un fattore che condizionò fortemente i
rapporti tra l'Argentina e il Vaticano, specialmente nel campo dei diritti
umani. Giovanni Paolo II doveva riuscire nel suo intervento conciliatorio e
amichevole non soltanto per motivi riguardanti il dissidio in se stesso. Si
trattava di due Paesi cattolici che si erano affidati a lui, e l'opera di pacificazione
era pertinente con la strategia globale della Chiesa che il neo Pontefice
cercava di portare avanti. Erano tempi in cui il Vaticano prestava particolare
attenzione a quanto accadeva in Polonia, dove il conflitto tra il regime
comunista e il sindacato cattolico "Solidarnosc", fermamente
sostenuto dalla Chiesa, era entrato nella sua fase cruciale.
Una volta accettato il
compito di mediatore, Giovanni Paolo II doveva mantenere un dialogo costante e
costruttivo, tramite i suoi due rappresentanti (Laghi a Buenos Aires e
Monsignor Angelo Sodano a Santiago del Cile), con i dittatori Videla e
Pinochet. In funzione di questo obiettivo, le due legazioni diplomatiche
dovevano subordinare tutto il loro operato al raggiungimento di un traguardo
superiore: il successo del Papa. Giovanni Paolo II non poteva fallire nel
delicato compito che aveva assunto.
Questa circostanza va tenuta
particolarmente in conto perché si trasformò in una nuova limitazione che
rivestì, per il Nunzio Laghi, importanza decisiva. Malgrado la questione dei
"desaparecidos" acquisisse ai suoi occhi una dimensione sempre grande
e angosciosa, gli era assolutamente vietato rompere con i militari argentini al
potere, che erano i naturali interlocutori di Giovanni Paolo II -tramite il
Cardinale Samoré nel difficile negoziato.
Tra gli alti comandi
militari argentini non tutti avevano accolto come cosa gradita l'intervento
"in extremis" del Papa. C'era, tra i generali, un forte e agguerrito
"Partito della guerra", convinto che, scatenato il conflitto col
Cile, le Forze Armate argentine avrebbero messo in ginocchio in poche settimane
i loro avversari. Di fronte a questo schieramento, il presidente Videla era in
evidente difficoltà. Né lui né il comandante dell'Esercito, generale Eduardo
Viola, volevano la guerra, ma la loro debolezza si era evidenziata poco prima,
quando dovettero agire quasi nell'ombra per appellarsi al Vaticano. I
"falchi" erano più numerosi e sembravano disposti a tutto. Neanche il
Papa sembrava fermarli.
I tre esponenti più in vista
di questo gruppo erano i generali Luciano Menéndez, che comandava il Terzo
Corpo d'Armata, Suàrez Mason e Bussi. Questi ultimi Laghi li conosceva bene.
Il primo, perché più di una
volta era stato destinatario delle sue richieste umanitarie, invariabilmente
respinte. Il secondo, perché era stato il suo bieco anfitrione quando aveva
visitato la provincia di Tucumàn sconvolta dalla lotta tra Esercito e
guerriglia, due anni e mezzo prima.
Tra i due schieramenti era
in atto una sorda e implacabile guerra sotterranea. I "duri"
accusavano Videla e i suoi di portare avanti una politica che rinunciava ai
"grandi obiettivi" che il "PRN", quando aveva preso il
potere, si era impegnato a conseguire. E interpretavano lo "stop" a
un passo dalla guerra, accettando l'intervento del Santo Padre, come una prova
lampante di questa arrendevolezza. Ma c'era molto di più. Per loro, la lotta
contro la sovversione e il marxismo "andava approfondita fino al suo
completo sradicamento" e qualsiasi piano per indire future elezioni,
dialogare con i partiti politici e programmare un ritorno alla democrazia era
interpretato come un "tradimento" inconfessabile. Auspicavano,
insomma, una permanenza "in eterno" dei militari al potere, forse
anche perché iniziavano ad avere paura. L'ombra di una Norinberga
"all'argentina" li inquietava sempre di più.
La crisi tra le opposte
fazioni scoppiò nel settembre 1979, quando il generale Menéndez insorse contro
il Comandante dell'Esercito, generale Viola, e implicitamente contro il
presidente Videla, accusandoli di aver abiurato, con la loro condotta
arrendevole, all'impegno che avevano assunto prendendo il potere. Il fatto che
aveva precipitato gli avvenimenti era stato il "caso Timerman", la
cui ripercussione internazionale, nel suo momento, fu molto grande.
In effetti, il vecchio
giornalista -ben conosciuto in tutto il mondo, particolarmente negli Stati
Uniti- era stato detenuto e torturato. Ma le accuse che gli erano state mosse
erano di una insostenibile indeterminatezza. Col passare dei mesi, la pressione
internazionale che il caso aveva sollevato crebbe, fino a diventare
insopportabile. Finalmente, la Corte Suprema di Giustizia -massimo organo della
magistratura argentina decise il suo rilascio e l'espulsione dal Paese, misure
che il Governo di Videla, dopo averle accettate, si preparava ad attuare.
Menéndez e altri "falchi" le respinsero e furono protagonisti di un
"putsch" velocemente soffocato. Ma, per alcuni giorni, la vita di
Timerman rimase appesa a un filo.
Questo, per il giornalista,
non era un fatto nuovo. Già si era trovato in una situazione simile due anni e
mezzo prima, quando era stato sequestrato e portato verso una ignota
destinazione. Aveva potuto salvare la vita grazie alla provvidenziale
convergenza di diverse circostanze. Non di poco conto fu l'azione che svolse in
suo favore il Nunzio Laghi.
*
* *
Jacobo Timerman fu un vero
maestro di giornalisti. Nato nel 1923 in Ucraina, in un paesetto vicino a Kiev,
era giunto a Buenos Aires a soli cinque anni, seguendo la diaspora di tanti
ebrei dell'Europa Orientale che avevano scelto l'Argentina per ricominciare una
nuova vita.
Dopo una carriera
giornalistica costellata da successi, aveva fondato il quotidiano "La
Opinión", che negli anni Settanta fu il maggior successo dell'editoria argentina.
Chi sia interessato a capire e approfondire quello che successe in quegli anni
nel Paese sudamericano, troverà nelle pagine di quel giornale la più fedele e
trasparente testimonianza del processo di radicalizzazione e
intellettualizzazione "a sinistra" che sperimentò la borghesia
argentina.
Scatenata la tempesta della
dittatura militare, "La Opinión" si trasformò nell'unico quotidiano
argentino che ebbe il coraggio di pubblicare -eludendo le norme della
censura-notizie sulle scomparse, a richiesta dei familiari delle vittime.
L'unico requisito che Timerman esigeva dai parenti dei
"desaparecidos" era che avessero presentato prima ricorso alla
giustizia di "habeas corpus" in loro favore. Questo comportamento,
che "La Opinión" non cambiò nonostante le minacce che riceveva, portò
i rapporti di Timerman col regime a un punto di non ritorno. I suoi nemici
giurati erano, soprattutto, quei "falchi" dell'Esercito che avevano
deciso di fargli pagare cara la sua caparbietà.
Ma Timerman, dal canto suo,
non si fece intimorire. E, per criticare il regime, ricorreva a metodi subdoli,
come quello di pubblicare gli articoli critici sull'operato della dittatura che
apparivano sulle pagine di giornali europei come "Le Monde" o del
quotidiano "Thè Buenos Aires Heraid", che si pubblicava in Argentina
e aveva come lettori gli stranieri di lingua inglese.
La goccia che fece
traboccare il vaso fu, nel gennaio 1977, la riproduzione su "La
Opinión" di un articolo sui diritti umani, fortemente critico su come
agivano i militari e che era apparso nelle pagine della rivista dei gesuiti del
Centro di Indagini e Azione Sociale (CIAS)[4],
e di un editoriale contro il governatore della Provincia di Buenos Aires, il
Generale Ibèrico Saint Jean, uno dei più intrattabili nello schieramento dei
"duri". Timerman aveva osato troppo.
Il 15 aprile, un
"commando" lo sequestrò nel suo appartamento e lo trasferì in un
carcere ignoto, dove fu torturato e sottoposto a una finzione di fucilazione[5].
Quando gli tolsero la benda che copriva gli occhi, si trovò di fronte uno dei
maggiori energumeni in uniforme, l'allora colonnello Ramón Camps, capo della
Polizia della Provincia di Buenos Aires. Senza giri di parole, Camps gli disse:
"La sua vita dipende da quello che dirà ora, si consideri un prigioniero di
guerra".
Timerman era accusato di
essere uno di finanziatori dell'organizzazione guerrigliera
"Montoneros", addebito che non gli fu mai provato. Quella notte, i
suoi carcerieri -che dipendevano del temibile generale Suàrez Mason, Comandante
del Primo Corpo d'Armata- decisero di eliminarlo. La notizia giunse a
conoscenza del generale Carlos Dalla Tea, che era uno dei segretari del
Presidente Videla, il quale la trasmise a Roberto García, un giornalista de
"La Opinión" con il quale aveva confidenza. "Guarda, se non si
riesce a sapere entro 48 ore dove Jacobo è tenuto prigioniero, per lui è
finita, hanno deciso di farlo fuori", gli disse.
Il giornalista García, senza
indugiare, comunicò la notizia alla famiglia di Timerman, che già aveva
presentato per lui ricorso di "habeas corpus". Per sua moglie Risha e
per i suoi due figli, Daniel Natalio ed Héctor Marcos, si trattò di un vero e
macabro ultimatum, che aumentò la disperazione del momento. Il loro smarrimento
era totale. Che fare? A chi rivolgersi, quando tutte le porte del regime erano
state chiuse? Come riuscire a vincere quell' autentica gara con la morte?
Sapevano molto bene che significava per un "desaparecido", in quei
tempi, svanire nel nulla, senza che nessuno fosse a conoscenza né del luogo di
detenzione né del nome del generale che poteva ucciderlo o graziarlo...
La prima cosa che venne loro
in mente fu quella di ricorrere alla Nunziatura Apostolica, perché sapevano
della cordiale relazione -quasi un'amicizia- che esisteva tra Monsignor Laghi e
Timerman. Il Nunzio ricevette immediatamente Risha, che conosceva molto bene.
La donna era disperata. Laghi ascoltò con attenzione il suo racconto e, dopo
averla tranquillizzata e assicurata che avrebbe fatto il possibile per
aiutarla, chiese di parlare al telefono con il Ministro degli Interni, Generale
Harguindeguy, suo interlocutore di vecchia data. Cercò anche di interessare,
senza aver successo, Suàrez Mason e il presidente Videla, tramite il suo
segretario Dalla Tea.
Cominciò così un vero
"balletto" di appelli e ricorsi, avviati parallelamente a quelli che
avevano messo in moto le ambasciate degli Stati Uniti e di Israele, mobilitate
entrambe per il caso di cui giornali e televisioni di tutto il mondo avevano
dato notizia. Le organizzazioni ebraiche di Washington e delle capitali
europee iniziavano a far sentire la propria voce. Per Laghi, le sue indagini
nei labirinti del potere, in quelle drammatiche 48 ore, furono quasi un'
impresa disperata. I militari consideravano Timerman come l'incarnazione del
demonio e non facevano mistero che doveva pagare con la vita il suo ardimento.
In questa corsa contro il
tempo, finalmente, Monsignor Laghi riuscì a farsi ricevere dal Generale
Harguindeguy. Al suo ufficio erano già arrivate le richieste delle ambasciate degli
Stati Uniti e di Israele, che volevano sapere che fine aveva fatto il detenuto.
Laghi espose al Ministro degli Interni la delicatezza del caso, sottolineò la
ripercussione mondiale che già stava avendo e lo avvertì che ne aveva informato
telefonicamente la Santa Sede, riscontrando una "grande
preoccupazione" per l'incolumità del giornalista. "Se non riconoscete
che Timerman è nelle vostre mani e non vi impegnate a tutelare la sua vita,
avrete di che pentirvi; il mondo non ve lo perdonerà mai", ripeté Laghi.
Il Ministro avvertì subito
l'entità del problema e gli strascici negativi che la "desaparición"
di Timerman avrebbe avuto. Il clamore internazionale suscitato dal suo
rapimento era stato molto grande e ne aveva contribuito anche la Santa Sede, giacché
la Radio Vaticana -premurosamente avvertita dallo stesso Laghi- ribadiva nei
suoi bollettini l'avvenuto sequestro. I militari capirono che la programmata
esecuzione di Timerman sarebbe stato un passo troppo avventato e pericoloso. E
così, prima che scadessero le fatidiche 48 ore, il Governo riconobbe che il
giornalista si trovava in suo
possesso. Era la
provvidenziale ammissione che, come un regalo piovuto dal cielo, Risha e i
figli aspettavano. Timerman era stato "blanqueado", come si diceva
nel gergo poliziesco di quei tempi. La sua vita era in salvo. E, in quello che
era stato quasi un miracolo, Laghi aveva avuto un ruolo molto importante.
Nelle settimane seguenti,
Risha Timerman fu spesso ricevuta da Monsignor Laghi, che si trasformò in un
amico sollecito e disponibile. E quando i servizi di spionaggio incominciarono
a considerare che queste visite erano "troppo pericolose", allora lo
stesso Nunzio si ingegnò per "incontrare la donna in altri luoghi
previamente concordati. Le infondeva coraggio, le raccontava cosa cercava di
fare in favore di suo marito in prigione. E arrivò al punto di aiutarla
acconsentendo che adoperasse la posta diplomatica della Nunziatura che tutte le
settimane partiva per il Vaticano per inviare informazioni all'estero circa la
situazione del marito e chiedere aiuto e solidarietà a esponenti della comunità
ebrea internazionale.
Furono così inviate in
Vaticano e dal Palazzo Apostolico smistate per altre destinazioni europee,
lettere in cui Risha si appellava agli amici di Timerman. Probabilmente, ma non
abbiamo potuto documentarlo, si rivolse anche al rabbino di Roma, Elio Toaff,
un uomo il cui enorme prestigio era ben noto a Timerman. Grazie anche alla
concreta collaborazione delle comunità ebraiche, organizzate capillarmente, l'opinione
pubblica europea prestò dovuta attenzione al caso, mentre da Buenos Aires
l'ambasciatore degli Stati Uniti, Raùl Castro, sensibilizzava ancora di più
l'opinione pubblica del suo Paese.
Passavano le settimane e
Timerman continuava ad essere detenuto, vittima di ogni sorta di
maltrattamenti. L'unica e incoraggiante certezza era che si trovava in vita.
Laghi, finalmente, riuscì a parlare del caso con il presidente Videla,
trasmettendogli il turbamento della Santa Sede. "Io informo puntualmente
il Papa, che vedrebbe con gioia qualsiasi gesto di clemenza in favore del
signor Timerman" , gli disse Laghi. Il dittatore rispose: "Mi
dispiace, ma non posso far niente, tanto più nelle attuali circostanze; se ci
provassi i miei camerati mi accuserebbero di tradimento e ne approfitterebbero
per rimuovermi della Presidenza". Forse non esagerava. Il generale Suàrez
Mason diceva ai suoi subordinati che, se fosse stato per lui, Timerman sarebbe
già stato fucilato. "Ma quel codardo di Videla non me lo ha
permesso", concludeva con tono ammonitorio.
Per il giornalista, intanto,
si consumava un lungo e penoso pellegrinaggio -durato più di un anno- per i
centri di detenzione clandestina che pullulavano a Buenos Aires e dintorni. In
tutti subì torture e umiliazioni. Narrò la storia della sua detenzione in un
libro intitolato "Prigioniero senza nome, cella senza numero". Solo
nell'aprile del 1978 gli furono accordati gli arresti domiciliari. Come
riconoscono lo stesso Timerman e il rabbino León Klenicki, le pressioni e le richieste
di Laghi, durante i 15 mesi che durò la sua prigionia, ebbero un grande peso e
furono suffragate dall'appoggio attivo in favore della sua liberazione che
fornirono il Governo del presidente Jimmy Carter, Israele e il rabbino Marshall
Meyer. La condanna internazionale per la sua detenzione era unanime. E a Videla
non rimase altra scelta che cedere.
A settembre, grazie al
verdetto favorevole della Suprema Corte di Giustizia argentina, che accolse il
ricorso di "habeas corpus" presentato due anni prima, Timerman fu
autorizzato a lasciare il Paese con un aereo che, previo scalo a Roma, lo portò
in Israele. Ma, neanche allora, tutto filò liscio e senza problemi. I
"falchi" dell'Esercito avevano anticipato che si sarebbero opposti al
suo espatrio e tramavano una sommossa contro Videla.
In questo clima, il Papa
aveva deciso di ricevere il 25 settembre, in forma riservata, José Chijanover,
un diplomatico israeliano che all'epoca occupava la prestigiosa carica di
Segretario Generale del Ministero degli Esteri di Israele e che svolgeva
nell'ombra un lavoro di grande importanza. Infatti manteneva i contatti segreti
con la Santa Sede, con la quale Israele non aveva ancora stabilito rapporti
diplomatici. Il tema della conversazione sarebbe stato la situazione di
Timerman. Era il risultato della grande sensibilizzazione che, con le sue
relazioni, il Nunzio Laghi aveva ottenuto dalla Segreteria di Stato e dal
medesimo Pontefice.
Chijanover era latore di una
richiesta del governo d'Israele in favore di una decisa presa di posizione del
Vaticano in favore della liberazione del giornalista, sull'ondata di
solidarietà che Timermam riceveva da tutto il mondo. Molto probabilmente,
Giovanni Paolo II avrebbe dato il suo consenso. Ma l'incontro non ebbe mai
luogo perché, 24 ore prima che iniziasse l'udienza nel Palazzo Apostolico,
Timerman già volava alla volta di Tel Aviv, verso la libertà, ripercorrendo in
senso contrario la diaspora del suo popolo. E l'incontro fu cancellato.
* * *
Durante gli anni 1978 e
1979, Laghi s'interessò di molti altri "prigionieri senza nome".
Probabilmente il più noto fu Adolfo Pérez Esquivel, insignito nel 1980 con il
Premio Nobel per la pace. Fino al momento del suo arresto, era stato un anonimo
professore della Facoltà di Architettura dell'Università di Buenos Aires,
docente di Filosofia, Storia e Letteratura. I maggiori "pericoli
eversivi" che arrecava erano il suo ruolo di Coordinatore Generale per
l'America Latina del Servizio "Pace e Giustizia" (SERPAJ), per il
quale era stato designato nel 1974, e la sua incondizionata ammirazione per il
Vescovo brasiliano Helder Càmara, prete-simbolo della "Teologia della
liberazione". La prima volta che i giornali si erano occupati di lui era
stato nell'agosto 1976, quando, in Ecuador, la polizia irruppe in una riunione
a cui partecipavano alcuni Vescovi, sacerdoti e laici (tra cui Monsignor Zaspe)
e, dopo essere stato brevemente fermato, fu espulso dal Paese.
"Pace e Giustizia"
è un'organizzazione ecumenica laica che si adopera per la promozione dei diritti
umani fondamentali, applicando i metodi non violenti del Mahatma Gandhi e di
Martin Luther King, e facendo una chiara scelta in favore della causa dei più
bisognosi. Non sempre il suo operato è stato ben visto dalla gerarchla
vaticana, timorosa di un'interferenza nell'ambito della "Pontifìcia
Commissione Giustizia e Pace", il cui Presidente, il Cardinal Bernardin
Gantin, si recò a Buenos Aires nel 1981 per chiarire eventuali malintesi.
Nell'aprile del 1977, Pérez
Esquivei doveva recarsi in Colombia e, ingenuamente, il 4 dello stesso mese,
si presentò al Dipartimento Centrale di Polizia per ritirare il suo passaporto,
che previamente aveva rinnovato. Invece di consegnargli il documento, lo
imprigionarono e rinchiusero in una cella di massima sicurezza, dove rimase 32
giorni senza esser interrogato, senza che nessuno lo informasse delle ragioni
della sua detenzione e senza che alcuno sapesse che fine avesse fatto.
Dopo un penoso calvario, che
lo vide passare per diversi campi di prigionia, fu trasferito al carcere penale
di La Piata, dove gli si applicò l'etichetta di "massima
pericolosità" e fu brutalmente torturato, senza che nessuno gli chiedesse
mai nulla. I suoi avvocati presentarono un ricorso di "habeas
corpus", che -come sempre succedeva- venne disatteso. Rimase prigioniero
per 14 mesi, a disposizione del Potere Esecutivo, senza alcun processo a suo
carico.
Ma, come fu per Timerman, la
pressione internazionale fece sì che il suo caso acquisisse notorietà. Il
Vaticano aveva esternato la sua preoccupazione e "Pax Christi
Internationalis", nel giugno 1978, gli conferì il "Memorial Giovanni
XXIII della Pace". Alla fine, il governo gli concesse la libertà vigilata,
e in questa situazione continuò fino all'agosto 1979. L'anno seguente, in mezzo
allo stupore generale, l'Accademia di Svezia gli conferì il Premio Nobel per la
Pace: una scelta che si trasformò in un vero schiaffo per il regime militare.
Poté lasciare l'Argentina soltanto dopo che il Vescovo di Morón, Monsignor
Laguna, si appellò al generale Bignone, allora Segretario Generale
dell'Esercito, e ottenne che gli fosse concesso il suo passaporto.
Pérez Esquivel fu ricevuto
da Giovanni Paolo II, tra lo sconcerto dei militari e dei civili e religiosi
simpatizzanti del Processo. Indignati e stupiti, non capivano cosa stava
succedendo. Forse il Vaticano era impazzito? Ma le pene del Premio Nobel
continuarono anche quando riuscì ad abbandonare l'Argentina. Quando visitò il
Brasile, invitato dalla filiale di San Paolo di "Giustizia e Pace" per
tenere una conferenza e intervistare Monsignor Càmara, (il sogno della sua
vita), subì un trattamento molto duro da parte della polizia brasiliana che lo
trattenne e minacciò di espellerlo dal Paese. Si argomentò che, da Buenos
Aires, era arrivata una chiamata telefonica che chiedeva la sua espulsione.
Per i due anni e mezzo che
era durata la sua prigionia, sia nel carcere penale di La Plata sia nel suo
domicilio, Laghi si era occupato della sua situazione, che era ancora più
inammissibile perché non esistevano accuse di nessun tipo contro di lui ne
alcuna causa penale a suo carico. Pérez Esquivel era diventato un
"PEN", semplicemente, per il capriccio di qualche generale. Quando
finalmente recuperò la libertà, Pérez Esquivel si trasformò in un interlocutore
abbastanza assiduo del Nunzio Apostolico. Gli faceva visita nel palazzetto di
Avenida Alvear ed ogni incontro si tramutava in dialoghi difficili in cui
spesso emergevano dissensi.
Ambedue gli interlocutori
erano soliti avere punti di vista differenti e perfino antitetici su diversi
temi, per esempio circa il ruolo della Chiesa nel mondo temporale, e si
lasciavano andare, appassionatamente, a disquisizioni sui limiti di
quest'ultimo. Ma condividevano la comune angoscia per gli abusi della
repressione. Era uno stato d'animo che emergeva in ogni colloquio e che
lacerava Laghi nel suo intimo, come ha raccontato Pérez Esquivel nella
testimonianza che si riporta in questo libro.
Il prelato parlava con
passione, si poneva domande senza riserve, si chiedeva cos'altro poteva fare,
sembrava schiacciato dall'enorme peso del suo compito. Pérez Esquivel lo
ricorda come un uomo tormentato dalla questione dei diritti umani. E lo
rammenta mentre percorreva a grandi falcate il suo ufficio della Nunziatura,
con le mani incrociate dietro la schiena, interrogandosi a voce alta e
mettendosi in discussione.
Quelle del drammatico 1979
erano giornate nelle quali, in più di un'occasione, si spazientiva e alzava la
voce, specialmente quando era sotto eccessiva pressione a causa del problema
che, nelle sue giornate, aveva assunto priorità assoluta. Tale veemenza, a
volte, gli giocava qualche tiro mancino, di cui dopo si pentiva. Quando lasciò
il Paese, nel dicembre 1980, in una lettera circolare di commiato che inviò ai
Vescovi, chiese scusa per i "momenti meno luminosi o forse improntati al
nervosismo" che poteva aver dimostrato e assicurò ("davanti a
Dio") che durante il suo ministero "non aveva voluto male a
nessuno". E concluse: "Ho cercato solo di servire, eseguendo al
meglio le istruzioni ricevute" (.. .)[6].
In quei due anni (1978-79),
seppur con decrescente intensità, Laghi seguitò ad appellarsi al Ministro
Harguindeguy, con visite sempre più diradate, lettere personali che non avevano
risposte o mediante il consueto invio delle liste di "desaparecidos"
e detenuti che, con ostinazione, continuava a redigere. Durante il 1978 inviò
al Ministero degli Interni cinque elenchi di "desaparecidos" (alcuni
lunghissimi, come il numero XVII, nel quale incluse 302 nomi) e tre di
detenuti. Ma i suoi maggiori sforzi li dedicava ai "pellegrinaggi",
ad ottenere passaporti per i giovani che volevano lasciare il paese e a ogni
tipo di assistenza umanitaria, mentre cercava di essere puntuglioso e
convincente nei rapporti periodici che inviava alla Segreteria di Stato sulla
situazione.
Nonostante questo, non
poteva sentirsi appagato. Si era impegnato allo spasimo, ma soltanto con
detenuti "a disposizione del Potere Esecutivo", i cosiddetti
"PEN", era riuscito ad avere successo. Non erano state poche le
persone che, grazie ai suoi sforzi, avevano recuperato la libertà ed erano
rientrate nelle loro case. Ma con i "desaparecidos" fu diverso. Su di
loro, era calato un inviolabile sipario, fatto di silenzi e di omissioni. Laghi
leggeva sempre con apprensione le comunicazioni che gli arrivavano del
Ministero degli Interni e che finivano, invariabilmente, con una frase che era
una vera e propria sentenza di morte: "Con riferimento al resto di coloro
che vengono specificati nella Lista di codesta Nunziatura, per alcuni dei quali
V.E. si è interessato personalmente, questo Ministero non ha precedenti di
nessun tipo". Erano spariti nel nulla.
Provava un qualche sollievo
quando, di tanto in tanto, arrivava alla Nunziatura una lettera in cui un
familiare che aveva fatto ricorso a lui gli comunicava che il suo parente non
era più un "PEN" e che era stato liberato o aveva abbandonato il
Paese. In non pochi casi si trattava di persone che avevano deciso di avviare
pratiche per la scelta della cittadinanza (nella maggior parte dei casi optando
per quella italiana) e iniziare così una nuova vita oltre l'Atlantico, nella
terra dei loro avi. Ad alcuni di questi casi, come quelli di Catini e Laconi,
già abbiamo accennato.
Altri documenti testimoniano
la continuità dell'impegno umanitario del Nunzio. Una madre con il cuore
ricolmo di gioia e riconoscenza, Marcelina Artola, scriveva a Monsignor Laghi
il 10 luglio 1979 comunicandogli che suo figlio, Roberto Marcelo Barreiro e sua
nuora, Maria Rosa Paredes, per i quali si era appellata alla Nunziatura, erano
stati rintracciati. Recuperata la loro libertà, avevano lasciato il Paese con
destinazione Uruguay. "Sono andata a trovarli, stavano bene e mi hanno
chiesto di farle giungere il loro sentito ringraziamento per la sua intercessione",
scriveva la donna[7].
María Mercedes Díaz gli
inviava, il 10 novembre 1979, una missiva da Catamarca, per informarlo che il
suo fratello Rolando, scomparso a Córdoba il 23 ottobre precedente, era tornato
a casa. Nella lettera, gli esprimeva la sua gratitudine e quella di tutta la
famiglia "per quanto ha fatto in suo favore". La ragazza scrisse:
"Le chiedo scusa per aver osato rivolgermi a un prelato così eminente come
Lei senza osservare le formalità". Alludeva alla fiducia che riponeva in
Monsignor Bufano, Vescovo di Chascomùs, con cui aveva "lavorato lunghi
anni nell'Azione Cattolica argentina", per concludere dicendogli: ''Ammiro
tanto Lei quanto Monsignor Bufano per la vostra capacità di comprensione e
autentica preoccupazione evangelica dimostrata verso il prossimo, senza
distinguere "tra greci e barbari"[8].
Il dramma di suo fratello
era stato segnalato prontamente da Laghi a Harguindeguy, dopo che sua madre si
era presentata personalmente alla Nunziatura - con la presentazione della
richiesta di "habeas corpus" - e si era raccomandata a lui come a una
sorta di angelo custode. Per ragioni di lavoro, infatti, doveva tornare subito
a Catamarca, una lontana provincia del Nord-Est argentino, a più di mille
chilometri da Buenos Aires e non poteva seguire personalmente la vicenda del
figlio.
Quando, il 10 novembre,
ricevette la lettera di María Mercedes con la buona notizia, Laghi annotò al
margine, con la sua grafia rotonda e ben curata: "Mi rallegro".
I casi della coppia Barreiro
e di Rolando Diaz, sequestrati, scomparsi per alcune settimane e poi restituiti
alla libertà, non fanno che confermare l'eccezionalità dei risultati positivi
quando si occupava dei "desaparecidos". Queste difficoltà spesso
insormontabili le ammise, senza eufemismi, nella lettera che inviò il 16
ottobre 1980 al nuovo Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, Monsignor
Eduardo Martínez Somalo, poche settimane prima di lasciare la Nunziatura per
assumere le nuove funzioni a Washington.
Due famiglie argentine erano
ricorse alla Santa Sede, e probabilmente, grazie all'intercessione del Cardinal
Pironio, erano riuscite a trasmettere le denunce di scomparsa dei parenti alla
Segreteria di Stato, con la speranza che, attraverso di essa, arrivassero al
Santo Padre. A entrambe le denunce Martínez Somalo aveva assegnato il normale
iter burocratico, portandole a conoscenza della Nunziatura Apostolica, con la
"preghiera" che Laghi facesse "quanto fosse stato in suo
potere" per aiutare a localizzare i "desaparecidos" (8 ottobre
1980).
Laghi rispose senza
perifrasi, con un tono perentorio dal quale si evince una vaga sensazione di
fastidio. Gli aveva detto che "conosceva personalmente" i firmatari
di ambedue le lettere, "dato che si presentano frequentemente in questa
Nunziatura Apostolica con richieste di tale sorta". E concludeva con una
frase lapidaria, carica di amarezza: "La Rappresentanza Pontificia si
occupa continuamente, senza tregua, di casi diversi ma, per quanto riguarda i
"desaparecidos", con scarsi risultati"[9].
In queste righe, scritte quando
il suo mandato diplomatico a Buenos Aires stava per concludersi e si avvicinava
il tempo dei bilanci, si percepisce quasi l'ammissione di qualcosa di
incompiuto, di non riuscito. I "desaparecidos" pesavano, come un
macigno, sulla sua anima di pastore che aveva cercato di portare avanti, con
ostinazione e tra infinite difficoltà, la sua missione umanitaria.
[1] I due Paesi si contendevano
le isole Picton, Nuova e Lennox, situate in quell'estremo lembo di mare che
mette in comunicazione l'Oceano Atlantico col Pacifico. Un arbitrato della
Regina d'Inghilterra del 1977 le aveva consegnate al Cile. Ma non solo: aveva
legittimato la penetrazione cilena nell'Atlantico per 200 miglio marittime,
invadendo uno spazio oceanico che Argentina considerava suo. L'impossibilità di
arrivare a un accordo portò a i due Paesi, alla fine del 1978, a un passo dalla
guerra.
[2] Il Nunzio Laghi inviò alla
Segreteria di Stato tré pressanti telex, datati 15, 16 e 19 dicembre 1978,
chiedendo l'intervento urgentissimo del Papa Giovanni Paolo II, data
l'inminenza della guerra. Vedere Bruno Passarelli, "II Delirio
Armato". Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1998.
[3] Lettera del Cardinale Raùl
Primatesta a Monsignor Pio Laghi del 3 gennaio 1981. Archivio personale del
porporato argentino.
[4] Padre Vicente Pellegrini,
"Los Derechos del Hombre en el actual contexto sociopolitico de Argentina
". In "Rivista del Centro di Indagini ed Azione Sociale" (CIAS).
Buenos Aires, n.259, dicembre 1976. L'articolo, dotato di indiscusso coraggio e
visione profetica, va collocato nell'ambito della rigida censura allora
esistente. Tra altre cose, diceva che "si doveva impedire il degrado delle
Forze Armate per il ricorso alla tortura" e che "sarebbe la più
grande vittoria del terrorismo trasformare un militare onorevole, il cui ideale
è lottare per la giustizia, in un volgare torturatore".
[5] Tra i giornalisti de
"La Opinión" che furono assassinati o figurano come
"desaparecidos" si trovano, fra altri, Eduardo Sajón, JorgeMoney ed
Enrique Raab. Altri, noti per esser severi oppositori al regime militare,
preferirono vivere all'estero, continuando in Europa la loro carriera
giornalistica. E' il caso di Julio Alganaraz, attuale corrispondente a Roma del
quotidiano argentino "Clarin".
[6] Circolare di congedo del Nunzio
Laghi ai Vescovi argentini del 10 dicembre 1980. Copia fornita da uno di loro
agli autori.
[7] La lettera si trova
nell'Archivio della Nunziatura Apostolica di Buenos Aires.
[8] Copia in possesso degli
autori.
[9] Lettera del Nunzio Laghi al
Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, Monsignor Eduardo Martinez Somalo
del 16 ottobre 1980. Archivio della Nunziatura Apostolica. Vedere documento
allegato.