CAPITOLO 11

 

Persona non gradita

 

 

Uno dei primi intendimenti di Giovanni Paolo II, eletto il 16 ottobre 1978, fu quello di mettere ordine nella Chiesa, orientandosi verso la neutralizzazione degli opposti estremismi che tanto avevano afflitto Paolo VI negli ultimi anni del suo Pontificato.

Che fosse questo il suo obiettivo iniziale, il Papa polacco lo avrebbe dimostrato nella Terza Conferenza Episcopale Latinoamericana riunita a Puebla, in Messico, poche settimane dopo la sua elezione al soglio di Pietro, quando disse chiaramente e senza eufemismi che la concezione antropologica cristiana non ha niente a che vedere con quella marxista ed è, piuttosto, ai suoi antipodi.

Ma non c'era niente di più lontano dal pensiero di Giovanni Paolo II che voler ridurre la Chiesa a un immobilismo preconciliare, come dopo Puebla alcuni sospettarono. Nella sua Cracovia era stato operaio, aveva vissuto intensamente nel mondo laico, aveva sviluppato una profonda umanità, soprattutto per i suoi contatti con i giovani, ed era assolutamente d'accordo con i dettami sociali che Paolo VI aveva enunciato nell' Enciclica "Populorum progressio".

 

Giovanni Paolo II propiziò con gesti e parole una Chiesa aperta al dialogo, definì magistralmente nella sua Enciclica "Laborem exercens" l'umanizzazione che il lavoro provoca nell'uomo e scandalizzò molti benpensanti quando parlò del socialismo, non per condannarlo unilateralmente ma per criticare -con una magnifica intuizione premonitrice- il suo opposto, il capitalismo selvaggio.

Ma c'era un'altra questione che, a poco a poco, andava collocandosi al centro del suo magistero: il rispetto dei diritti umani, un tema che nel mondo degli anni settanta era stato quasi trascurato. Si prestava pochissima attenzione alle sistematiche violazioni che accadevano in Cuba, in Vietnam (dove dopo la vittoria del Vietcong era scesa una rigida cortina di silenzio), in Cina, in Iran, in Cambogia e in parecchi Paesi latinoamericani, con Argentina e Cile in testa. Ma, con l'arrivo di Giovanni Paolo II, il tema acquisì una forte attualità, giacché il nuovo Pontifìce ne parlava spesso e se ne interessava ogni volta di più. Non invano, Giovanni Paolo II aveva sempre sofferto sulla propria pelle il nazismo e poi, prima come semplice sacerdote e dopo come Arcivescovo di Cracovia, l'oppressione del comunismo, negazione di ogni diritto individuale.

 

Il primo banco di prova fu la sua Polonia, dove sostenne con fermezza la sfida che "Solidarnosc", il sindacato di Lech Walesa, aveva lanciato contro il regime comunista. Dopo quell'azione, non si fermò più nel suo impegno per rivendicare, in qualsiasi latitudine, una maggior dignità nei rapporti umani e per garantire la pace, bene supremo di Dio. Così, intervenne nella guerra civile del Libano, affidando una difficile opera di mediazione al suo inviato, il cardinale Paolo Bertoli.

 

Quando fu eletto Papa, il dramma argentino - con la sua sequela di abusi e soppraffazioni- era in pieno svolgimento. La sua parola di condanna si sarebbe fatta sentire l'ultima settimana del mese di ottobre 1979. Fu quella, per gli argentini, una svolta, semplicemente perché in Argentina, d'allora in poi, nulla sarebbe stato più come prima.

 

Naturalmente, si potrà argomentare (e non pochi lo hanno fatto) che Giovanni Paolo II biasimò il massacro argentino più di un anno dopo la sua elezione e quando lo sterminio era stato già perpetrato.

Il suo intervento forse non fu troppo tempestivo; ma influirono su di lui molteplici fattori che, in quei dodici mesi, finirono per condizionare il suo tempismo. Prima di tutto, l'atteggiamento al quale era ancorato buona parte dell'Episcopato argentino, che si ostinava a non voler rompere con il regime militare, nonostante la crescente notorietà di tutti i crimini che aveva commesso. Dopo, la necessità di non interrompere il dialogo con i due Governi, indispensabile per portare al successo la sua mediazione nella diatriba per il Canale di Beagle, che sembrava assopita ma poteva riesplodere in qualsiasi momento. Di non minore rilevanza furono le esigenze di riformare la Curia Vaticana, che si tradussero nella designazione nel giugno 1979 del Cardinale Casaroli come nuovo responsabile della Segreteria di Stato.

 

Al Papa continuavano a giungere, puntualmente, le voci dei familiari dei "desaparecidos", che premevano con lettere, denunce, richieste di udienze, cariche tutte di straziante disperazione. L'incaricato di filtrare le informazioni provenienti dall'Argentina era un anziano sacerdote gesuita,

padre Fiorello Cavalli, persona di fiducia di Casaroli, che possedeva una visione molto concreta di quanto stava succedendo. Sul dramma argentino, Casaroli era molto più sensibile del suo predecessore. Aveva nella Curia un ottimo alleato nel Cardinale Pironio, il quale -senza mai abbandonare la prudenza- continuava a smistare le richieste dei parenti che, per lettera o personalmente, -si appellavano alla Santa Sede.

 

Ma erano sempre i rapporti e i documenti sulla situazione argentina inviati dalla Nunziatura Apostolica la fonte più seria e autorevole. Molti di essi, dopo l'attenta valutazione che davano Casaroli e i suoi collaboratori, finivano sulla scrivania di Giovanni Paolo II, fornendo il panorama più esauriente sul tema. Erano diventati sempre più dettagliati, e in essi non si parlava solo degli interventi che faceva la Nunziatura, ma si offriva un quadro sulla dimensione che aveva la tragedia, trascrivendo le cifre che il Governo divulgava sul numero di detenuti, "desaparecidos", liberati ed espulsi, ma - come erano poco credibili - aggiungendo le proprie valutazioni.

 

Intanto, nel settembre 1979, il Nunzio aveva già inoltrato al Ministero degli Interni, 20 liste con 1.748 casi di "desaparecidos", più 16 elenchi di detenuti con 640 nomi. Il problema era che le sue informazioni non si armonizzavano con quanto dicevano molti Vescovi argentini, che continuavano a relativizzare gli abusi del regime. Si stenta a crederlo, ma nel 1979 - quando la dittatura di Videla già era al suo quarto anno di vita e aveva perpetrato un genocidio di proporzioni enormi - dall'Episcopato argentino si alzavano ancora voci in difesa dei militari.

La visita, in quell'anno, della Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) dell'OSA fu un'occasione propizia. Monsignor Octavio Derisi, Rettore dell'Università Cattolica Argentina e Vescovo Ausiliare di La Piata, dopo aver espresso la sua opposizione alla visita della Commissione, dichiarò: "I problemi che oggi abbiamo all'estero sono stati causati dai familiari di questi guerriglieri che hanno ucciso, sequestrato e rapito"[1]. E aggiunse che i diritti umani erano "particolarmente tutelati in Argentina". Gli fece eco Monsig­nor Ildefonso Sansierra, allora Arcivescovo di San Juan, che chiese al Governo l'espulsione della Commissione dell'OSA "nel caso che non facesse il suo dovere"[2]. E alzò ancora più la voce Monsignor Guillermo Bolatti, che già aveva sostenuto la necessità di "adattare" la difesa dei diritti umani alla situazione argentina, ammonendo: "Gli stranieri non possono venire a dirci cosa dobbiamo fare"[3]. Ci furono altre opinioni di tale genere, come quella di Monsignor León Kruk, Vescovo di San Rafael, che espose i suoi dubbi sulla "esattezza delle conclusioni (della Commissione)"[4].

 

Oggi queste prese di posizione provocano un sentimento di sconcerto e di stupore. Ma risultano ancora più fuori luogo e prive di buon senso se si pensa che venivano espresse poche settimane prima che Giovanni Paolo II, rompendo tutti gli indugi e senza lasciare spazio agli eufemismi, condannasse dall'alto della sua Cattedra la sistematica violazione dei diritti umani in Argentina e nel Cile. Parlare di inopportunità sembra poco. Quei Vescovi argentini marciavano in senso contrario a quello scelto dalla Chiesa e dal suo Vicario.

Il Santo Padre aveva ricevuto nel Palazzo Apostolico, nel mese di settembre, un gruppo di 13 Vescovi argentini in visita "ad limina Apostolorum". Li aveva guidati il Cardinale Primatesta. Tra altri ne facevano parte i Monsignori De Nevares e Hesayne (i due amici di Laghi), Monsignor Antonio Quarracino (Vescovo di Avellaneda e poi Cardinale) e il già citato Mon­signor Bolatti. Successivamente, a metà ottobre, erano giunti altri venti prelati, tra i quali gli Arcivescovi di Salta e Corrientes, Monsignori Carlos Pérez Eslava e Jorge Manuel López. Il Pontefice li aveva ricevuti, a uno a uno, e ascoltati attentamente. C'era molta gente in Piazza San Pietro, quella domenica 28 ottobre, all'ora dell'Angelus, quando - affacciato alla finestra del Palazzo Apostolico - Giovanni Paolo II disse sul tema argentino tutto quello che doveva dire. E fu praticamente un fulmine a cielo sereno. Dopo aver ricordato quel popolo "lontano in quanto a distanza ma vicino al cuore" e sottolineato la sua "indelebile matrice cattolica", che si era esternata pochi giorni prima in un plebiscitario pellegrinaggio a piedi fino alla Basilica di Lujàn per una Giornata di Preghiera, accennò ai suoi "incontri con pellegrini e Vescovi dell'America Latina, in particolare dell'Argentina e del Cile", e ricordò come, in quelle occasioni, riappariva "con frequenza il dramma delle persone perse o scomparse".

"Preghiamo - continuò il Papa con voce accorata e ferma - perché il Signore offra il suo conforto a quanti non hanno più la speranza di abbracciare i propri cari, condividiamo appieno il loro dolore e non perdiamo la speranza che vengano risolti tanti problemi dolorosi per il bene e per la pace interna delle comunità, a noi così care". E pose il sigillo al suo intervento, di chiarezza ineludibile, con queste parole:

"Chiediamo che si acceleri l'annunciata definizione delle posizioni dei carcerati e sia mantenuto un impegno rigoroso, in ogni circostanza, per la tutela del rispetto della persona fisica e morale, senza differenza se si tratta di colpevoli o semplici indiziati".

Erano concetti inoppugnabili, che escludevano qualsiasi interpretazione capziosa o una subdola lettura. Il Papa chiedeva luce sulle sparizioni, reclamava il rispetto dei diritti umani ed esigeva, per i detenuti senza accuse concrete (siano "colpevoli o semplici indiziati"), processi veloci e giusti. Ma, per dissipare qualsiasi dubbio, Giovanni Paolo II andò oltre, tornando sul tema mezz'ora dopo. Riunì i venti Vescovi e prelati in visita "Ad limina" nella sua biblioteca privata del Palazzo Apostolico e rivolse loro un secondo discorso.

Raccontano alcuni dei Vescovi presenti che, quando presero posto, si era creata un'atmosfera quasi surreale. C'era devozione, ma anche una certa tensione determinata dai concetti che il Papa aveva appena espresso. Giovanni Paolo II iniziò a parlare in spagnolo. Più di un Vescovo si sentiva la gola stretta da un nodo. E questa emozione aumentò quando si sentirono parole ancore più dure di quelle pronunciate poco prima.

Dopo aver elogiato le linee della Pastorale della Famiglia che la Conferenza Episcopale Argentina aveva approvate e dopo aver sottolineato l'importanza dell'istituto familiare, entrò senza titubanze nella parte cruciale del suo discorso:

"Se, con la giusta preoccupazione per la salvaguardia di questi diritti umani, voi analizzate alcuni avvenimenti del vostro Paese, troverete -nella mancanza del rispetto dovuto a tali principi- la radice della violenza che ha scosso così profondamente la vita della vostra comunità nazionale, con tragiche conseguenze per tante persone e famiglie".

 

Il concetto non lasciava spazio a dubbi: la violazione dei diritti umani era, per il Vicario di Cristo, la radice della spirale di violenza che aveva scatenato nell'Argentina quella immane tragedia. Il Papa non andò oltre queste precisazioni. Ma in Argentina erano in molti i destinatari delle sue parole: repressori in uniforme, seguaci civili, guerriglieri marxisti, fondamentalisti cattolici, uomini di Chiesa che non avevano condannato l'uso della violenza come mezzo per raggiungere un agognato mondo migliore, ideologi di ogni sorta... Nella biblioteca privata, regnava un silenzio sepolcrale, rotto solo dalla voce baritonale del Pontefice che esortava i suoi fratelli argentini a fare "tutto ciò che vi è possibile per interrompere definitivamente la funesta spirale della violenza" e auspicava che la società si integrasse "in quella civiltà dell'amore, così auspicata dal mio predecessore, Paolo VI".

 

Quell'intervento del Papa fu un gesto di enorme coraggio, se si pensa che -con la sua condanna - poteva mettere a repentaglio i rapporti della Santa Sede con i militari e, come logica conseguenza, danneggiare la sua mediazione per il Bea­gle. Oggi, trascorsi più di vent'anni, forse non si ha chiara coscienza - nemmeno in alcuni ambienti della Santa Sede - dell'importanza che quell'intervento di Giovanni Paolo II, tra due paesi cattolici che litigavano, ebbe nel contesto generale della politica globale della Chiesa.

C'è un episodio che vale la pena di essere raccontato, perché fotografa l'importanza, che Giovanni Paolo II dava al suo intervento di pace. A Puebla, in occasione dell'Assemblea del CELAM e pochi giorni dopo aver impedito la guerra, incontrò Pio Laghi. Quando il Nunzio gli si accostò per ringraziarlo, Giovanni Paolo II gli rispose: "Ma come avrei potuto permettere che due popoli cattolici consumassero una simile follia?"

E' una frase che va letta non soltanto da un punto di vista umanitario, ma inserita nella strategia globale che il nuovo Pontefice stava delineando per la Chiesa cattolica. Era impegnato in prima persona nell'appoggio ai cattolici della sua Polonia natale, in piena ribellione contro il comunismo ateo. E avrebbe perso credibilità se fosse rimasto passivo dinanzi al triste spettacolo che avrebbero dato al mondo due paesi cattolici che si erano lasciati trascinare in una guerra così devastante quanto assurda.

Ma, una volta che decise di scendere in campo, non poteva fallire. "Doveva", a tutti i costi, mettere d'accordo argentini e cileni. Non aveva scelta. E, per questo, fu ancora più coraggiosa e azzardata la sua condanna "urbi et orbi" di quella domenica 28 ottobre. Come lo sarebbe stata quella di alcuni mesi dopo, quando in occasione della sua visita in Brasile avrebbe parlato della tragedia argentina come di un "martirologio dei cristiani della nostra epoca".

 

Giovanni Paolo II aveva messo da parte la "ragione di Stato" e aveva preferito affrontare i rischi che sempre provocano le scelte fatte col cuore. Ebbe ragione. I militari si mostrarono seccati, sdegnati, ma non ruppero i rapporti. E il gregge martoriato che errava senza speranza trovò un inatteso conforto. Il suo Pastore aveva parlato e gli aveva offerto la sua guida e protezione. Non era più solo.

 

Non fu facile per i massimi esponenti dell'Episcopato argentino digerire questa esternazione, adeguarsi alla condanna del Pontefice e capire senza indugi che in quello spinoso tema dei diritti umani il Papa aveva voltato pagina definitivamente. Si trovavano di fronte a un'esigenza improrogabile: dovevano prendere le distanze da quel potere militare nei confronti del quale, solo pochi giorni prima, si erano mostrati tanto comprensivi quanto tolleranti.

Per i Vescovi in difficoltà seguì un breve periodo di riflessione, di elaborazione e di adeguamento al nuovo corso definito dalla Cattedra di Pietro. Ma, una volta superato lo scossone iniziale, l'Episcopato iniziò a parlare in forma diversa, con una veemenza critica fino ad allora sconosciuta. La prima manifestazione di questo adattamento si sarebbe avuta il 18 novembre, quando -dopo una riunione con la Giunta Militare - i rappresentanti della CEA resero pubblica una dichiarazione in cui spiegavano ai capi militari, senza eufemismi, che "il fine non giustifica i mezzi" e che chi non avesse rispettato i diritti umani e avesse negato i suoi principi "non avrebbe potuto considerarsi cristiano"[5]. Il presidente Videla e alcuni capi militari espressero alla CEA il loro stupore e il loro disgusto per la presa di posizione del Pontefice. Ma ora trovarono nei Vescovi un netto disaccordo, espresso nella dichiarazione che i rappresentati della CEA fecero il 22 novembre, dopo essersi incontrati col dittatore. Non soltanto difesero a spada tratta l'operato di Giovanni Paolo II, ma anche ribadirono che era inaccettabile considerare "colpevoli tutti i prigionieri", che era un' ingiustizia "dividere la gente in buoni (i militari) e cattivi (i prigioneri)" e consideravano "inaccettabile" che non fossero processate quelle persone che erano in carcere senza alcun adebito concreto (i "PEN").[6]

Questa denuncia del manicheismo militare costituiva il punto più estremo a cui, nella sua critica al regime, la Chiesa argentina si era spinta. Da allora in poi, fu come una catarsi incontenibile. Come per incanto le dighe di contenimento sparirono e la Chiesa argentina, schierata senza indugi con il suo Vicario, si trasformò per i suoi figli sofferenti in quel punto di riferimento che in molti casi non era stata. La svolta è ben visibile nei documenti e atteggiamenti della CEA pos­teriori al 28 ottobre 1979.

E' vero, ci furono alcuni Vescovi che continuarono a giustificare l'operato dei militari e a negare gli eccessi perpetrati[7], ma già erano una chiara minoranza. In un certo senso, ribaltando la maniera logica di governare la Chiesa universale, Giovanni Paolo II si era sostituito ai Vescovi (o, per lo meno, a una buona parte di loro), restii a far sentire la loro voce di condanna contro i repressori. Aveva preso lui l'iniziativa anche correndo rischi non indifferenti. Ed era riuscito a chiudere la falla che si era aperta tra loro e il Popolo di Dio. A quelli che credevano ancora nell'utilità della politica di "denuncia e dialogo" col potere, portata avanti dall'Episcopato per tre anni e mezzo, Giovanni Paolo II aveva fatto capire che, in circostanze eccezionali come quelle che si vivevano in Argentina, i due atteggiamenti erano difficilmente compatibili. La denuncia era un'esigenza improrogabile che non ammetteva indugi ne esitazioni.

 

* * *

 

E il Nunzio Laghi? Si mostrò sorpreso come alcuni Vescovi argentini dinanzi alla ferma presa di posizione di Giovanni Paolo II? Sicuramente no.

Egli aveva già compreso, alcune settimane prima, lo stato d'animo del Papa rispetto al dramma argentino, e la sua angustia per il problema dei diritti umani. Era stato durante 1' udienza privata che il Papa gli aveva concesso il 15 giugno. La stampa argentina disse che il tema dell'incontro era stata la mediazione della Santa Sede nel problema con il Cile. Certamente, la questione deve aver fatto parte dell'elenco dei problemi che il Nunzio analizzò con Giovanni Paolo II, ma non c'è alcun dubbio che Laghi gli presentò un pano­rama piuttosto esauriente e completo della situazione

argentina, dicendogli chiaramente che la repressione militare aveva superato ogni limite. Confermava così, con le parole, i rapporti che inviava periodicamente dalla Nunziatura.

E' legittimo supporre che questo incontro di Laghi con il Papa nel Palazzo Apostolico e i contatti che in quei giorni di giugno tenne nella Segreteria di Stato con i suoi principali responsabili (Casaroli, Silvestrini, Martínez Somalo), pesarono non poco nelle successive decisioni del Pontifico e della stessa Segreteria di Stato.

 

Naturalmente, sul Vaticano pesavano anche come un macigno le richieste e gli appelli che si erano accumulati. Ed ebbero la loro importanza gli spazi che alcuni episodi avevano guadagnato sulla stampa italiana, come lo sciopero della fame e le preghiere che in quei giorni furono indette da un gruppo di giovani argentini, cileni e uruguaiani in varie parrocchie di Roma, per sensibilizzare la gente sul tema dei "desaparecidos". Fu di particolare risonanza la protesta, iniziata nella parrocchia della "Trasfigurazione" del quartiere di Monteverde a Roma, che subito si estese ad altre 18 parrocchie. L'eco di queste proteste risuonò con forza in Vaticano.

 

Ma, senza dubbio, furono le informazioni del Nunzio Laghi il sigillo che aprì la strada alla decisione papale. Tutto il 1979 è stato segnato da suoi gesti e atteggiamenti che rivelarono un irrigidimento, sempre più evidente, verso il regime militare. Questa condotta si sarebbe intensificata nell'ultimo periodo della sua missione a Buenos Aires.

Ci disse Monsignor Casaretto: "La presa di coscienza sul dramma in atto fu progressiva, e questo fu chiarissimo nel Nunzio e in altri Vescovi. Ma, nel caso di Laghi, deve riconoscersi che egli si era già schierato molto prima, in tempi non sospetti. Quando veniva a parlarci alla Conferenza Episcopale era sempre molto chiaro sul tema dei diritti umani e ci ripeteva: "E' una questione molto importante, nella quale dobbiamo avere un grande rigore, un'accurata coerenza con i dettami della Chiesa". Era una predica che faceva costantemente. Quello che il Nunzio fece dopo la condanna del Santo Padre fu di irrigidire il suo comportamento verso il potere e non solo nei suoi pronunciamenti pubblici. Ma in tutta la sua condotta può riscontrarsi una grande coerenza"[8].

 

Il vertice militare era al corrente di tutto questo e lo rendeva oggetto di diffidenza e riserve. I loro rapporti erano, un mese dopo l'altro, più freddi e distanti. Nemmeno le esigenze protocollari bastavano ad attenuare quanto aveva assunto la fisionomia di una reciproca e manifesta antipatia. Una spessa coltre di ghiaccio lo separava dal potere. E questo spiega, anche, perché tutto il 1980 fu per Laghi avarissimo di risultati positivi nel suo prodigarsi in favore dei perseguitati.

In questo clima di avversione, il regime aveva deciso di dichiararlo persona non gradita e aspettava solo il momento propizio per fargli abbandonare il Paese. La decisione fu rimandata per le divergenze interne che, con crescente veemenza, contraddistinguevano il potere militare e per la endemica ambiguità del presidente Videla, restio a cedere alle pressioni dell'ala più "dura" dei generali. Laghi lasciò Buenos Aires nel dicembre del 1980, sospettando che nell'ombra si fosse ordito qualcosa di molto spiacevole contro la sua persona, ma senza conoscere la verità. Ne sarebbe venuto a conoscenza solo due anni e mezzo più tardi, in piena guerra tra argentini e inglesi per le Isole Malvine, nelle circostanze che racconteremo.

 

Nel maggio del 1982 Laghi - già Delegato Apostolico a Wash­ington - stava trascorrendo alcuni giorni di riposo con i suoi familiari a Faenza, quando fu convocato urgentemente in Vaticano dai superiori della Segreteria di Stato. Con premura, il prelato sospese le vacanze e si recò a Roma. Giovanni Paolo II si preparava a visitare brevemente l'Argentina, dopo che il suo viaggio in Inghilterra, lungo e pazientemente organizzato, aveva provocato non poche critiche da parte del Governo e dalla stampa argentina, che lo avevano interpretato come uno "schiaffo morale". Nella cattolica Argentina in guerra con l'Inghilterra non si riusciva a capire come il Santo Padre si recasse in terra nemica e trascurasse un trattamento analogo al popolo latino-americano.

 

Si era creata un'atmosfera di risentimento che si concretizzò in un viaggio-lampo a Roma dei Cardinali Primatesta e Aramburu. Venivano a informare Giovanni Paolo II circa l'impatto negativo che aveva causato sull'opinione pubblica argentina il suo viaggio a Londra. Per dissipare queste ac­cuse e dimostrare la sua vicinanza agli argentini, il Papa decise di recarsi anche a Buenos Aires. Sarebbe giunto il mattino di sabato 12 giugno[9], quando la guerra era già stata vinta dalle truppe inglesi, che si preparavano a dare l'assalto finale contro Puerto Argentino.

 

Giovanni Paolo II aveva deciso di inviare a Buenos Aires Monsignor Laghi per coordinare con la Giunta Militare e con il Nunzio Calabresi tutti gli aspetti del viaggio. L'idea era stata del Cardinale Casaroli, giacché Laghi era considerato nella Segreteria di Stato il prelato che meglio conosceva la situazione argentina. Inoltre, il caso voleva che egli si trovasse in Italia e questo facilitava di molto le cose.

Ma quando arrivò in Vaticano, Laghi trovò una sorpresa. Il Cardinale Primatesta, col quale aveva stretto legami di cordialità durante le difficili vicende della crisi per il Beagle, gli parlò a cuore aperto e lo avvertì del clima ostile che c'era contro di lui tra i militari al potere. Il presidente non era più Videla. Al suo posto c'era il Generale Leopoldo Galtieri. Ma nessuno ai vertici del potere militare dimenticava che, nell'ultima fase della sua missione diplomatica, la sua situazione era diventata quasi insostenibile. Primatesta gli ricordò quanto fosse malvisto e, molto garbatamente, gli insinuò che il suo viaggio a Buenos Aires poteva costituire un errore e gli suggerì - in nome dei "superiori interessi del Paese" - di rinunciarvi, giacché i governanti lo consideravano "persona non gradita". Le sue parole trovarono un sostanziale assenso nel Cardinale Aramburu.

 

Nell'ulteriore riunione che ebbero nella biblioteca pontificia con Giovanni Paolo II, in presenza del Cardinal Casaroli, entrambi i porporati espressero queste stesse riserve, sconsigliando il viaggio di Laghi. Argomentarono che non solo non avrebbe facilitato la visita del Santo Padre, ma avrebbe potuto comprometterla. Di fronte a questa situazione, il Santo Padre, con l'assenso di Casaroli, decise di inviare in Argentina Monsignor Achille Silvestrini, che all'epoca era il numero due della Segretaria di Stato, come Segretario del Consiglio degli Affari Pubblici della Chiesa. A Laghi non rimase che cancellare la sua prenotazione del volo Roma-Buenos Aires e tornarsene a Washington.

 

Questo episodio fu confermato dal Cardinale Casaroli a uno degli autori nel corso dell'intervista che ebbe luogo pochi giorni prima della sua scomparsa. "Lo ricordo perfettamente: Primatesta mi disse che i capi militari vedevano Laghi come il fumo negli occhi e che sarebbe stato un errore mandarlo a Buenos Aires in ricognizione per dipanare eventuali problemi", furono le parole di Casaroli, molto eloquenti per fotografare l'animosità che Laghi aveva destato nel regime militare negli ultimi tempi del suo operato diplomatico.

L'ostilità dei governanti argentini si era accentuata quando vennero a sapere che Laghi aveva chiesto al Papa di essere richiamato in anticipo in Vaticano, mentre la Nunziatura Apostolica rimaneva nelle mani di un incaricato di affari, l'allora segretario, Monsignor Celli. Ai militari non sfuggì che, con questa mossa, Laghi aveva prospettato un'implicita condanna della dittatura, un severo ammonimento che a nessuno sarebbe passato inosservato. La Santa Sede non approvò la proposta, ma l'intento di Laghi fu motivo tra i militari di un diffuso malumore.

 

Certo, i tempi erano cambiati e nell'Argentina del 1979-80 non c'era più spazio per rinnovare le minacce di morte che il Nunzio aveva ricevuto tre anni prima, nell'agosto del 1976. Era passata l'orgia di brutalità dei primi tempi del "PRN", quando per ragioni molto meno pesanti si punivano pesantemente i responsabili. Ora, i metodi del regime si erano affinati e risultavano meno selvaggi, almeno in apparenza. Per Laghi, tutto si limitò a un irrigidimento dei gesti ostili che già da tempo soffriva: pedinamenti, intercettazioni telefoniche, apertura della sua corrispondenza personale, atteggiamenti di manifesta malevolenza.

E non mancavano le pesanti ironie che gli riservava il Generale Harguindeguy, quando -sempre più di rado- si appellava a lui per i "desaparecidos". Per il Ministro, questi erano sempre "sovversivi", autori di gravi delitti, "cosa che Lei sicuramente non ignorerà", gli diceva, con evidente sarcasmo in una missiva del 19 aprile 1979. Quest'avversione non era campata in aria. Corrispondeva a gesti, parole e atteggiamenti che il Nunzio formulava ogni volta con maggiore assiduita e che erano motivo di fastidio e tal volta di sdegno nelle sfere militari.

 

Nell'agosto del 1979, il regime aveva espresso la sua determinazione di modificare la Legge di Associazioni Professionali che regolava i rapporti nel mondo del lavoro e che i sindacati difendevano a spada tratta. Il "Gruppo Episcopale per la Pastorale Sociale" della CEA si era pronunciato contro il progetto, ricevendo il ringraziamento del sindacalismo peronista, raggruppato nella denominata "Commissione dei 25" alla quale appartenevano le più forti organizzazioni dei lavoratori. Questo atteggiamento dell'Episcopato provocò una dura reazione da parte del Governo, che accusò i Vescovi di "ingerenza" in temi che non erano di loro competenza.

 

Pochi giorni dopo, il 13 agosto, il giornalista Bernardo Neustadt invitò Laghi al suo programma televisivo "Tempo Nuovo". Fu una lunga chiacchierata nella quale il Nunzio non fu tenero con il regime, facendo riferimento, ripetutamente, alla dottrina sociale della Chiesa. Esprimersi in quei termini era come camminare in un campo minato, giacché l'opposizione del sindacato era una spina nel fianco che i militari non riuscivano a togliersi. La consideravano il maggiore impedimento per applicare il modello economico di stampo neoliberista che soggiaceva al "Processo".

Il giornalista gli chiese se quel documento ecclesiale, che tante polemiche aveva destato, non rappresentasse un'intromissione della Chiesa in un problema che non era di sua pertinenza. Laghi rispose: "Non vedo perché questo possa esser interpretato così; la Chiesa ha il diritto e il dovere di aprire le sue finestre sulle realtà terrene. La nostra è una Chiesa che chiamiamo del "verbo incarnato", una Chiesa che si sviluppa sulla terra". E aggiunse parole che dovettero irritare non poco lo "establishment" economico e i suoi epigoni civili e militari:

"La Chiesa ha il diritto e il dovere di spiegare il suo pensiero dal punto di vista della fede, del Vangelo, della tradizionale dottrina sociale cristiana". Qualificò il documento dell'Episcopato di "importante insegnamento", sottolineando che sebbene la Chiesa "non debba mescolarsi nelle questioni sindacali, economiche o politiche, può e deve tuttavia farlo dal punto di vista etico e morale"[10].

Il giorno dopo, i sindacalisti esprimevano con un comunicato la loro "sincera riconoscenza" per l'esplicito appoggio ricevuto dal Rappresentante Pontificio. Lo consideravano ancora più valido per la situazione di "fuori legge" in cui si trovavano. In effetti, il regime considerava qualsiasi rivendicazione del sindacato una "inaudita e intollerabile intromissione".

 

Altri gesti di Laghi fecero andare in collera il potere. Nel mese di settembre, visitò la diocesi di Salta, nel Nord del Paese. L'Arcivescovo, Monsignor Pérez Eslava, lo aveva invitato a partecipare alla Festa del Miracolo. Poco prima, a Buenos Aires, si era svolto il IV Congresso della "Confederazione Anticomunista Latino Americana" (CAL) che tra i suoi documenti conclusivi aveva inserito la richiesta di espulsione di "tutti i gesuiti neo colonizzatori marxisti".

Sollecitata la sua opinione da un giornalista del quotidiano "El Tribuno", Laghi criticò severamente la richiesta, ricordando che "i gesuiti sono soldati appartenenti a una grande compagnia, qual'è la Compagnia di Gesù e compiono il loro dovere con passione e sacrifìcio[11]. E aggiunse: "Io seguo il loro operato con grande attenzione". I fondamentalisti cattolici, che aspettavano dal Nunzio un appoggio incondizionato alla loro condanna, rimasero delusi. E si può ben immaginare il disagio che provarono gli estremisti del cattolicesimo preconciliare, fortemente presenti nel governo e nelle file militari.

 

Laghi aveva messo in gioco quanto rimaneva della sua capacità per influire sul potere appoggiando una richiesta di udienza che aveva formulato al presidente Videla il nuovo Vescovo di Concepción de Tucumàn, Monsignor Bernardo Witte. Il 30 aprile 1980, Witte fu ricevuto dal dittatore nella Casa Rosada, a Buenos Aires, e l'incontro ebbe un epilogo altamente positivo: il governo decise la liberazione di 24 detenuti politici, come il prelato ricorda ancora oggi con grande commozione[12].

 

Un altro viaggio del Nunzio nell'entroterra argentino, a Goya, ebbe un effetto provvidenziale, ancora oggi di difficile valutazione. Era Vescovo Monsignor Alberto Devoto, uno dei prelati più validi nella difesa dei perseguitati, che visitava frequentemente i prigionieri politici della sua giurisdizione e per questo era fortemente avversato dalle autorità militari del Secondo Corpo d'Armata, con sede a Corrientes.

Aveva ricevuto minacce di morte, era stato vittima di alcuni episodi pochi chiari e si temeva per la sua vita. I diocesani di Goya erano vivamente preoccupati per la sorte del loro pastore. Temevano che, da un instante all'altro, finisse assassinato come Monsignor Angelelli. Per questo, la visita di Laghi, in quei momenti di paura mal celata, acquistò un significato molto particolare: il Rappresentante Pontificio appoggiava senza indugi, fraternamente ed esplicitamente, il valente Vescovo. Nessuno poteva azzardarsi, in quelle circostanze, a toccargli un solo capello. Fu un gesto, quello di Laghi, che scoraggiò il progetto criminale, (come ricorda il successore di Devoto, Monsignor Luis Stockier)[13].

Ma fu a Mar del Plata (la città balneare che qualcuno ribattezzò "la Rimini dell'Atlantico") dove il Nunzio fece il suo intervento più duro, quasi una sfida, contro la dittatura. Fu nei primi giorni di gennaio 1980. Erano tempi delicati, giacché la mediazione del Santo Padre per il problema del Beagle era in una fase difficile e il suo Rappresentante, il Cardinale Samoré, trovava non poche difficoltà nel suo operato.

 

Laghi aveva visitato Mar del Plata per presiedere le manifestazioni celebrative del centenario della parrocchia di Santa Cecilia. La sua disponibilità con la stampa non fu casuale. Era la prima volta che i giornalisti, dopo la condanna che il Santo Padre aveva fatto del regime militare, avevano la possibilità di un contatto diretto con il Nunzio. E ne approfittarono. Gli fecero domande pertinenti a quell'intervento papale e Laghi rispose: "Se il Santo Padre, come è vero, ha detto queste parole con riferimento alla situazione dei detenuti e dei "desaparecidos" in Argentina e in Cile, significa allora che dobbiamo affrontare tale realtà e farci un esame di coscienza, senza tergiversazioni di alcun tipo"[14].

 

Quindi, dimostrando di aver compreso tutta la portata del tremendo impatto che quei concetti avevano provocato nel Paese, aggiunse: "La parola del Papa è stata chiara, Egli ci ha parlato come Pastore e non come politico, e, proprio perché ci ama, ci ha fatto sentire addolorati". Proseguì: "Si sono oltrepassati i limiti e questo è intollerabile, ma non possiamo consolarci immaginando che in tutti i Paesi si verifìchino, più o meno, violazioni mentre noi qua ci sentiamo in un paradiso terrestre. E' necessario farci un esame di coscienza e, solo una volta riconosciuti gli errori, entreremo in quel clima di cui parla il Papa, di perdono e di riconciliazione, ma non possiamo dire: dimentichiamoci di tutto, questo la Chiesa ce l'ha detto ben chiaro". E concluse: "La repressione è scesa allo stesso livello della violenza terrorista e i suoi esecutori sono violatori dei diritti umani".

 

Furono queste, senza alcun dubbio, le parole più crude e autorevoli che -provenienti dalla Chiesa- si sentirono in Ar­gentina durante la dittatura contro quelli che avevano trasformato gli abusi contro le persone in una pratica articolata e sistematica.

Quando il giorno dopo Laghi fece ritorno a Buenos Aires, scoppiò il finimondo. Il presidente Videla e i tre comandanti delle Forze Armate lo chiamarono al telefono quasi contemporaneamente. Erano indignati e pervasi di un'ira irrefrenabile: "Monsignore, abbiamo saputo le cose che ha detto, sono veramente inammissibili ... Ci ha messo sullo stesso piano dei terroristi. Ma come si permette di paragonarci a tali assassini?"

Molti anni dopo, Laghi raccontò quest'episodio a uno degli autori, nel corso di un'intervista[15]. E fece la seguente riflessione: ''A un certo punto compresi che per loro ero diventato una persona scomoda, pensai che volevano sbarazzarsi di me il prima possibile e immaginai che c'era un piano in tal senso".

Non sbagliava. La verità l'avrebbe conosciuta due anni e mezzo dopo, come abbiamo detto, alla vigilia del viaggio del Santo Padre in Argentina, dalle labbra dei Cardinali Primatesta e Aramburu.



[1] "La Razón", 12 settembre 1979.

[2] "Clarin", 8 agosto 1979.

[3] "Convicción", 13 settembre 1979.

[4] "Crònica, " 13 settembre 1979.

[5] Vedere lo svolgimento della riunione dei Rappresentanti della CEA con la Giunta Militare del 18 novembre 1979 in Conferendo Episcopale Argentina, "La Iglesia y los Derechos Humanos". Buenos Aires, 1984, Rag. 52.

[6]  Ibidem, pag.53.

[7] Ancora alla fine del 1982, con il "PRN" battendo in ritirata, il Cardinale Aramburu negava in una sua visita a Roma l'esistenza di fosse comuni e di "desaparecidos". "Non ci confondiamo, Lei sa che esistono "desaparecidos" che vivono tranquillamente in Europa", fu una delle dichiarazioni che fece a uno degli autori di questo libro. Vedere Vernando Elenberg, "La critica empieza por casa", in "Radiolandia 2.000", 17 novembre 1982, pag. 78-80.

[8] Da una conversazione di Monsignor Gasarono. Il nastro registrato è m possesso degli autori.

[9] Gli autori furono gli unici giornalisti argentini che, con altri colleghi, accompagnarono Giovanni Paolo II nell'aereo pontificio che si recò a Buenos Aires, in occasione di quello storico viaggio.

[10] "La Opinión", 15 agosto 1979.

[11] "La Razón", 16 settembre 1980.

[12] Lettera di Monsignor Bernardo Witte, Vescovo di Concepción de Tucumàn, al Cardinale Pio Laghi del 18 maggio 1995.

[13] Lettera di Monsignor Luis Stockier, Vescovo di Goya, al Cardinale Laghi del 2 luglio 1998. Copia in possesso degli autori. Monsignor Devoto morì nel 1984 in un incidente stradale.

[14] "La Nación", 4 gennaio 1980.

[15] Vedere Bruno Passarelli, "Harguindeguy actuaba con cinismo", in "Gente", 8 aprile 1995.