CAPITOLO 12
Quando iniziò 1980, il Nunzio Laghi già sapeva che il suo allontanamento da Buenos Aires era, al massimo, questione da mesi. Una spessa coltre di ghiaccio si interponeva tra lui e il potere militare che, vale la pena ricordarlo, era ancora forte e godeva di buona salute. Solo vaghi e lontani scricchiolii facevano presagire la crisi che, due anni dopo, si sarebbe tradotta nel suo tramonto definitivo. Ma questo sarebbe accaduto quando Laghi era già lontano dalle spiagge del Rio de la Plata.
Perciò, era altresì
consapevole che non aveva molto tempo per ottenere nuovi successi in favore
delle persone per le quali continuava a intercedere. In effetti, quest'ultima
parte della sua missione a Buenos Aires fu particolarmente avara di risultati.
Aveva di fronte un muro, freddo e invalicabile, con il regime. Presentava le
sue liste, che sarebbero state le ultime, ma nessuno le teneva praticamente in
considerazione. I suoi interventi personali non servivano a nulla. Neppure
quando intercedeva in favore di persone note e ben considerate.
Non riuscì ad aiutare, ad
esempio, Delia García Rueda, la moglie dell'Ambasciatore argentino in Venezuela
e intimo amico del presidente Videla, Héctor Hidalgo Solá, sequestrato e
"desaparecido", vittima della faida all'interno del regime tra
"falchi" e "colombe". Laghi non ebbe altra scelta che
rincuorarsi con i casi risolti come quello di Teresita Maria Gómez, una ragazza
della località di Esperanza, nella Provincia di Santa Fé. Laghi intercedette
per lei e, finalmente, riuscì a ottenerle il permesso di abbandonare il paese,
cosa che la giovane fece il 10 ottobre 1980. Il ruolo del Nunzio è riconosciuto
in una lettera che gli inviò suo fratello, Narciso Rubén Gómez, sei giorni dopo
la sua partenza[1].
Più complesso fu il caso di
Mauricio Saturnino Montenegro Gutiérrez, originario della Provincia di San
Juan, che una pattuglia militare aveva sequestrato nel lontano 1976 e, con
l'accusa di esser "legato all'eversione" (Decreto n. 972/76),
rinchiuso nel carcere di La Plata. Come tante altre volte, il Generale
Harguindeguy era stato l'interlocutore delle sue richieste. Troviamo il suo
nome in due delle sue liste inoltrate al Ministero degli Interni: la nona di
detenuti del luglio 1977 e la seguente del 31 gennaio 1978, ridotta a solo sei
nomi, tra i quali appariva un'altra volta quello di Juan Carlos Dante Gullo,
uno dei maggiori esponenti della gioventù peronista di sinistra[2].
Soltanto giovedì 13 marzo
1980, dopo tre anni di prigionia, Montenegro cessò di essere discrezionalmente
a disposizione del Governo e fu rimesso in libertà. Tornato a casa, nella remota
provincia, fu ricevuto con indescrivibile gioia da sua madre e da sua sorella.
Ma trovò subito tempo per prendere carta e penna e scrivere al Nunzio Laghi.
Con una grafia accurata (la lettera è datata 17 marzo), il giovane scrisse:
"Voglio esprimerle la
mia sincera riconoscenza per la sua sollecita preoccupazione che ha sempre
dimostrato quando mia madre e mia sorella ricorsero al suo aiuto per ottenere
la mia libertà".
E seguiva un brano che deve
aver dato al Nunzio una grande soddisfazione: "Battezzato nella Chiesa
Cattolica, durante questo tempo di detenzione ho mantenuto e accresciuto in
profondità la mia adesione e comunione con la fede cristiana, pertanto questa
immensa e serena gioia che pervade ugualmente me, mia madre e mia sorella ci
spinge a ringraziare umilmente Dio e la Vergine Maria, Madre della Chiesa, per
la felicità che ci ha concesso di riprendere di nuovo una degna e felice
convivenza familiare"[3].
Laghi tardò ad apprendere la
notizia, poiché si trovava in Colombia, inviato dal Vaticano per interporre i
propri buoni offici in un grave episodio di violenza ad opera dei guerriglieri
marxisti. Questi avevano occupato l'Ambasciata della Repubblica Domenicana,
prendendo come ostaggi vari ambasciatori, tra i quali il Nunzio Apostolico in
quel Paese centroamericano, Monsignor Angelo Acerbi. Data l'assenza di Laghi,
fu Monsignor Celli che venne a conoscenza della liberazione di Montenegro e che
ricevette la sua lettera. Rispose con poche righe di vago contenuto poetico:
"Mi congratulo vivamente (...) Sappia semplicemente, come nella parabola
evangelica, alzarsi e camminare"[4].
Quando di ritorno a Buenos Aires entrò in possesso della missiva del giovane
liberato, Laghi scrisse nell'angolo superiore destro del foglio:
"Liberato!".
Un'altro dei casi di felice
risoluzione fu quello di Lidio Juan Acosta, che era stato sequestrato nella
casa dove viveva, nei dintorni di Santa Fé. Passò una lunga prigionia nel
carcere di Caseros e, quando fu rilasciato, si trovò abbandonato a se stesso
per le vie di Buenos Aires, senza soldi e senza nessuno a cui rivolgersi.
Intraprese l'unica strada possibile, della quale aveva sentito parlare nella
sua prigionia: la Nunziatura Apostolica. Monsignor Laghi, dopo averlo ricevuto
e rifocillato, gli consegnò i soldi per pagarsi il biglietto dell'autobus che
da Plaza Once, a Buenos Aires, portava a Santa Fé. E gli disse: "Bene,
adesso vada subito via, torni di corsa a casa, che sicuramente la stanno
aspettando con il cuore in gola".
Il giovane gli scrisse:
"Sa una cosa, Monsignore? Una persona, quando viene cacciata via da un
luogo, come Lei fece con me, si offende o giù di lì. Bene, Le assicuro che il
mio allontanamento fu la prima grande soddisfazione, la prima dimostrazione di
affetto e di solidarietà che ricevetti in questa nuova vita che mi accingo a
ricominciare". E concludeva dicendo: ''A proposito dei soldi che mi ha
dato per tornare a casa, sarebbe un'offesa mandarglieli indietro, un gesto di
cattivo gusto. Avrò modo di restituirglieli donandoli ai miei simili"[5].
Ma con i
"desaparecidos", particolarmente con quelli di vecchia data, non ebbe
alcun successo. Laghi già aveva capito che, nella grande maggioranza dei casi,
non erano più in vita. Proprio il suo intervento in uno di questi casi, quello
del giornalista Juliàn Delgado, diede luogo a una controversia che lo colpì
duramente e che, ancora oggi, rappresenta per lui un motivo di profonda
amarezza.
Juliàn Delgado era direttore
del mensile di politica ed economia "Mercado" e faceva parte, con
Mariano Grondona, Horacio Agulla (direttore del settimanale
"Confìrmado") e Rafael Perrota (del quotidiano "El Cronista
Comercial") di un gruppo di editori che appoggiava i militari da posizioni
moderate e che propiziava per il "Processo" un futuro sbocco
politico, previo accordo con i partiti politici. Con questo obiettivo,
sostenevano il presidente Videla e il suo amico, il Comandante dell'Esercito
Viola, convinti che essi erano il "male minore" di fronte ai
"falchi" delle Forze Armate, tra i quali si annoveravano non soltanto
i generali dei quali già abbiamo parlato, ma anche il pericoloso ammiraglio
Emilio Massera.
Agulla e Perrota,
"amici" del regime, furono sequestrati e passarono a ingrossare la
lunga lista dei "desaparecidos" nella quale, come si può vedere, non
apparivano soltanto guerriglieri o sospettati di simpatie con la sinistra.
Fecero la stessa fine persone che propugnavano il successo finale del "PRN"
- come l'Ambasciatore Hidalgo Solá, di cui abbiamo parlato - ma che credevano
fosse arrivata l'ora di porre fine agli eccessi. Tale il caso del giornalista
Delgado, sequestrato da una pattuglia militare il 4 giugno 1978 e sparito nel
nulla. Sua moglie, María Ignacia Cercos, aveva buoni contatti con ambienti
militari vicini al presidente Videla e con personalità laiche vicine alla
Chiesa. Una di queste le organizzò un incontro con Monsignor Laghi, che
l'accolse nella sede della Nunziatura Apostolica. Quella conversazione, che ebbe
luogo nel settembre del 1980, fu narrata dalla vedova di Delgado al quotidiano
"Pàgina 12", di Buenos Aires, nei seguenti termini:
- "Laghi mi ricevette
cordialmente, posso dire che fu la persona più aperta con cui parlai. Lo avevo
conosciuto anni prima durante una cena, a cui partecipai con mio marito, e mi
sorprese che si ricordasse di me. Mi disse che, quando lasciò il comando della
Marina, nel settembre del 1978, l'Ammiraglio Massera aveva affidato al suo
successore, ammiraglio Armando Lambruschini, un gruppo di 40 prigionieri. E
aggiunse che il nuovo Comandante in carica era un uomo di buoni sentimenti e
che lo aveva consultato per sapere che fare dei prigionieri".
- "(Laghi) mi disse che
Lambruschini non si decideva a condannare a morte questi detenuti
"desaparecidos" che avevano molto sofferto, come tutti coloro che
erano passati per le camere di tortura dell'ESMA, ma che nemmeno voleva
liberarli, per timore che si ripresentasse un episodio accaduto con un primo
gruppo di detenuti rimessi in libertà. Mi raccontò che questi prigionieri erano
stati autorizzatti a lasciare il Paese, a condizione che non raccontassero
niente di quello che avevano vissuto, in caso contrario i loro familiari
avrebbero sofferto rappresaglie. Ma, a Madrid, una donna non rispettò il patto
e mostrò pubblicamente il biglietto aereo delle Aerolineas Argentinas,
consegnatele dalla Marina, con il quale si era imbarcata. Dato questo
precedente (che Laghi definì "un errore") Lambruschini era
tentennante sul da farsi con quegli altri prigionieri che aveva
"ereditato" e si era consultato con la Chiesa"[6].
"(Laghi) credeva che
mio marito potesse esser uno di loro e si impegnò a verifìcarlo. Mi promise
che, quando avesse maggiori informazioni, mi avrebbe ricevuto di nuovo. E mi
spiegò che molti degli appartenenti a quel gruppo erano professionisti, che
probabilmente non erano colpevoli di niente e che la loro detenzione, quasi con
certezza, si doveva a malintesi".
La signora María Ignacia
continuò il suo racconto così : "Quando tornai a trovarlo, Pio Laghi mi
disse che purtroppo Juliàn non apparteneva a quel gruppo e si scusò per avermi
fatto nutrire qualche speranza. Per me, questa è la prova inconfutabile che
poteva venire a conoscenza di qualsiasi tipo di informazione, da "dentro"
il regime militare". Secondo la donna, il Nunzio le raccomandò di non
disperare e le propose di metterla in contatto con il Generale Viola, che da
lì a poco avrebbe sostituito brevemente il Generale Videla nella presidenza del
Paese. "Vado a una cena a cui partecipa il Generale ed approfitterò per
prospettargli il suo caso", la confortò Laghi, che fu di parola. Ma Viola
-dopo averlo ascoltato- gli espresse la sua impossibilità di fare qualcosa per
localizzare il marito, cosa che il Nunzio trasmise solertemente alla signora
Maria Ignacia[7].
La donna, con la
ricostruzione di quell'episodio, accusava Laghi di essere al corrente delle
terribili vicende che si svolgevano tra le quinte, inclusi i nomi di chi aveva
possibilità di essere graziato per qualche capo militare in vena di misericordia,
e di non aver alzato la sua voce, denunciando pubblicamente quello che sapeva.
Laghi diede la sua versione
in una intervista che concesse nel luglio 1997 al mensile cattolico "II
Regno". Sul caso Delgado dichiarò: ''Al riguardo del dramma di questa
signora, feci esattamente quello che le raccontai e cioè mi interessai presso
l'ammiraglio Lambruschini che, entrato da poco in carica, aveva trovato quel
gruppo di prigionieri consegnati alla Marina. Venutone a conoscenza, feci tutto
il possibile per
convincerlo a lasciarli
andare all'estero. E Lambruschini acconsentì. Se il marito della signora fosse
stato nel gruppo, la speranza sarebbe stata fondata. Purtroppo, non era fra
loro. Ne riuscii a sapere dove si trovasse. Non sapevo certo quanti prigionieri
la Marina avesse avuto in consegna, ne il loro trattamento e tantomeno la loro
sorte. Farne una prova di una responsabilità, di una conoscenza completa e
consenziente, significa forzare e manipolare i fatti..."[8].
L'amarezza che albergava
nell'anima di Laghi per quelle accuse e per il modo con cui si
autoalimentarono si riflette in queste altre parole, che appaiono più avanti in
quell'intervista:
"Da una posizione di
iniziale riconoscenza, la signora (Delgado) ha elaborato in seguito un'accusa;
dall'accusa, originata non da nuovi fatti ma da nuove interpretazioni, è
passata ad affermazioni apodittiche e da queste si pretende l'evidenza di una
colpa e si chiede una condanna; non credo che questa forma di agire sia
accettabile".
Nell'addebito che la donna
gli muoveva, non c'era neanche un accenno di riconoscenza per il fatto che quei
40 prigionieri della Marina (tra i quali per disgrazia non c'era suo marito)
erano stati messi in libertà da Lambruschini, dopo le insistenti richieste fatte
dal Nunzio Apostolico. L'ammiraglio era uno dei capi militari meno feroci del
"PRN". Aveva perso una figlia, assassinata dalla guerriglia in un
attentato dinamitardo e verso il Nunzio nutriva un rispetto che era reciproco.
Anche in questo caso - come aveva
fatto in tanti altri - Laghi aveva utilizzato la possibilità di essere
ascoltato da uno dei "leader" del regime per salvare vite umane. I
prigionieri liberati e partiti per l'estero ne erano la prova.
Una sincera riconoscenza
Laghi la ottenne, invece, di María Consuelo Castano Bianco, una donna dell'alta
società argentina che, con coraggio e dignità, affrontò il carcere da quando,
nel 1979, e nonostante fosse assolutamente estranea a qualsiasi vincolo con la
guerriglia, finì in galera insieme al suo marito, del quale
("desaparecido") non si seppe alla fine più nulla. Il padre della
donna ricorse al Nunzio, che si occupò della situazione della famiglia dinanzi
a Videla e Harguindeguy, ma senza ottenere alcun risultato. Laghi non si diede
per vinto e, sapendo che la donna era in vita, prigioniera nel carcere di Villa
Devoto, fece che nel padre non si spegnesse la fiammella dell'illusione,
aggiornandolo periodicamente sulle notizie che riusciva a carpire, e prima del
Natale di quell'anno 1979 gli inviò un foglio dove aveva scritto: "Per sua
figlia si sta facendo tutto il possibile".
Quando visitò Maria Consuelo
nel carcere, l'uomo -attraverso le sbarre- gli consegnò quel biglietto, che si
trasformò per la ragazza in un motivo di speranza e la aiutò a resistere meglio
tutte le prevaricazioni di cui era vittima. Sventuratamente, questo fu uno dei
casi nei quali Laghi non ebbe fortuna. Maria Consuelo fu rinviata a processo e
condannata da un tribunale militare a 18 anni di prigione. Stava ancora
scontandoli nella sua ristretta cella di Villa Devoto, quando nel 1983 -dopo
quattro anni di reclusione- fu graziata dai militari, che si preparavano a
lasciare il potere e trasferirlo al Presidente Raùl Alfonsin, eletto
democraticamente.
Maria Consuelo non dimenticò
mai quella mano tesa ne quel bigliettino contenente solo nove parole colme di
speranza, che la avevano fatto sentire meno sola in quel Natale d'angoscia. E
quando un anno dopo la sua liberazione, nel 1984, venne fuori la storia del
nome di Laghi in quell'elenco di religiosi "complici della
repressione" che aveva preparato la CONADEF, la donna gli inviò una
lettera di solidarietà, datata 6 novembre, nella quale ricordava quanto il
Nunzio Laghi gli fosse stato vicino nelle ore più difficili della sua vita. Gli
scrisse: "Io, in quei momenti, stavo bevendo il calice amaro
dell'ingiustizia e mai dimenticherò ciò che per me significarono quelle parole.
Oggi ho ancora tra le mani quel biglietto, con la sua firma, e benché in
seguito, varie volte, abbia avuto l'opportunità di scriverle in tono triste dal
carcere, oggi dopo quattro anni di prigione e uno in libertà rompo ogni indugio
per associarmi a Lei nel suo dolore e dirle che non credo neanche a una sola
parola di quanti l'accusano". Dopo aver ricordato la sua esperienza
personale ("Sono superstite di un campo di concentramento e ho conosciuto
il dolore delle false accuse, la sofferenza di una famiglia distrutta e la
tristezza di aver visto l'uomo umiliare i suoi simili") e come la fede
nella giustizia di Dio "che scorre silenziosa e saggia come acqua
sotterranea per affiorare solo quando Egli vuole", l'aveva aiutata a
superare la tremenda prova, diceva al Nunzio: "Io, che conobbi quel mondo
di oppressione, oso dire che mi rifiuto di credere che uno come Lei, che asciugò
tante lacrime e prestò aiuto a molti che poterono così scampare a sì grande
sventura, secondo le testimonianze di numerosi prigionieri che si trovarono con
me, abbia potuto accompagnare la mano dell'oppressore". E concludeva:
"Voglio che attraverso queste righe Lei sappia che il Suo dolore è il mio
dolore, che la Sua solitudine è anche la mia, così come, alcuni anni fa, la mia
notte fu la Sua notte, e la mia speranza la Sua speranza e che desidero con
tutta la fede che ci unisce, che la giustizia di Dio parli con la Sua presenza,
mentre gli uomini tacciono. Un forte abbraccio. María
Consuelo Castaño Bianco"[9].
Poche settimane dopo e
quando l'eco delle accuse contro Laghi non si era ancora spento la donna gli
inviò un biglietto di auguri per Natale dove si definiva come colei che
"sempre si sentirà unita a Lei per quella fede che mi fece forte nei
momenti più diffìcili". E aggiunse una frase di Sant'Agostino: "Beato
colui che Ti ama, Signore. E l'amico in Té e il nemico per Té".
* * *
II 10 dicembre 1980, il Papa
Giovanni Paolo II nominò Pio Laghi Delegato Apostolico negli Stati Uniti e lo
destinò alla sede diplomatica che la Santa Sede occupa a Washington. In realtà,
il suo era un ritorno negli Stati Uniti quasi venti anni dopo, giacché tra 1954
e 1961 era stato nella legazione americana come Segretario di Nunziatura[10].
Il trasferimento a
Washington, che equivaleva a un'importante promozione nella carriera
ecclesiastica e diplomatica di Monsignor Laghi, era arrivato quando - di fatto
- il suo mandato a Buenos Aires si era esaurito da tempo. Ma, ugualmente, nei
suoi ultimi mesi in Argentina non cessò di occuparsi del problema dei
perseguitati, sostenuto e coadiuvato da Monsignor Celli. Il primo che Celli
ebbe tra le mani fu il caso di Roberto Fernàndez, padre di sette ragazzini e
malato, che era stato sequestrato il 21 gennaio 1981 quando si trovava alla
guida della sua auto e rinchiuso nel carcere di Caseros. Alle sollecitazioni di
sua moglie, Maria Esther Aguilera, Monsignor Celli si mosse con celerità, mandando
il 12 febbraio al Ministero degli Interni una lettera in cui esponeva la
vicenda, definendola "realmente pietosa". Nove giorni dopo, il 21
febbraio, alla Nunziatura era notificata l'avvenuta liberazione di Fernàndez.
Questo episodio, che segnò
il "debutto" di Monsignor Celli come diretto responsabile in materia
per lo meno fino all'arrivo qualche mese dopo del nuovo Nunzio, Monsignor
Ubaldo Calabresi, spinge ad alcune riflessioni. Si avverta la celerità con la
quale il Ministro Harguindeguy rilasciò a Fernàndez, dando rapido ascolto alle
richieste della Nunziatura. Laghi aveva appena lasciato il Paese per assumere
la nuova missione a Washington. In effetti, era partito il 16 gennaio.
Come si spiega questa
sollecita tempestività del regime? Come non sottolineare l'evidente contrasto,
per esempio, tra i due anni e otto mesi che Laghi dovette attendere per il
rilascio del detenuto Montenegro e gli appena dieci giorni con i quali Celli
ottenne quello di Fernàndez?
La spiegazione, senza alcun
dubbio, si trova nel gelido distacco con cui il regime aveva trattato Laghi
negli ultimi tempi. Per il Rappresentante Pontifìcio si era interrotta
qualsiasi possibilità di dialogo profìcuo. Laghi aveva contribuito con le sue
esternazioni, i suoi comportamenti e le sue prese di posizione, sempre più
crude e chiare. L'ultima occasione per agire così fu il 19 dicembre 1980,
quando convocò i giornalisti nel giardino della Nunziatura, in quello che
voleva essere un commiato data la sua prossima partenza.
Non fu casuale che, una
volta condiviso un rinfresco, fosse proprio egli stesso a dar inizio alla
conversazione con i suoi ospiti, dicendo che desiderava parlare della questione
dei diritti umani e "insistere particolarmente" sul problema. I
quotidiani del giorno seguente avrebbero dato grande risalto alle sue parole:
"E' stata la questione più ingrata che mi toccò affrontare durante i miei
sei anni e mezzo nel Paese, la Nunziatura è stato il luogo dove hanno fatto
ricorso moltissime persone che chiedevano aiuto, e noi abbiamo cercato di
ascoltarle e allo stesso tempo di aiutarle, se molte volte non siamo riusciti a
fare di più non è stato per mancanza di volontà, ma ugualmente chiedo
scusa"[11].
In quello che fu un
monologo, il Nunzio uscente ricordò che, per fornire un aiuto concreto, aveva
dovuto affrontare molte insidie e difficoltà: "Ma - continuò - almeno
abbiamo cercato di offrire un fazzoletto a tante lacrime". E poi ripetè,
con martellante insistenza: "Desidero sottolineare questo aspetto che ha
occupato gran parte del mio operato: la mia missione essenziale è quella del
pastore e, come tale, ho cercato di portare a termine il mio dovere
fondamentale di difendere la dignità umana calpestata".
Alla giornalista del
settimanale "La Semana", Carmen Maria Ramos, concesse una spiegazione
più lunga ed esauriente. Alla sua domanda sulle modalità impiegate per prestare
aiuto alle vittime della repressione, Laghi aveva risposto: "In diversi
modi, non è il caso qui di enumerarli, ma innanzi tutto cercando di mettere in
pratica lo spirito dell'ultima Enciclica di Giovanni Paolo II, "Dives in
misericordia", perché non si tratta unicamente di giustizia ma
fondamentalmente di amore e l'ambiente in cui deve esercitarsi l'amore
evangelico è in mezzo ai più bisognosi"[12].
E le ripetè la metafora della lacrima e del fazzoletto, lamentandosi perché
"molte volte abbiamo potuto far poco" e sottolineando che, sebbene il
Paese vivesse allora "in ordine e pace, aver eliminato la violenza non è
tutto, bisognerà prima o poi passare alla fase dei risarcimenti e degli
indennizzi".
Dinanzi a un uomo che
parlava così, il regime non poteva che apprendere la sua partenza con fredda e
distaccata indifferenza. L'ultima settimana di Laghi in Argentina lo confermò
chiaramente. In ambito ufficiale, l'unico gesto cordiale di commiato che gli
riservarono fu una cena che nel Palazzo San Martín gli offrirono il Ministro
degli Affari Esteri, Carlos Washington Pastor e sua moglie, mentre il saluto di
Videla si limitò a pochi minuti di conversazione nella Casa Rosada, il
pomeriggio del 29 dicembre.
Ma anche in alcuni ambienti
della gerarchla ecclesiastica l'atmosfera che circondava la sua partenza era
caratterizzata da un' evidente assenza di coinvolgimento. Dieci giorni prima,
Laghi aveva concelebrato nella cattedrale metropolitana, con altri 50 prelati,
una messa conclusiva della sua missione. Il quotidiano "La Nación"
commentò la cerimonia segnalando - con asettica e distante valutazione - che vi
avevano "preso parte vari vescovi, numerosi sacerdoti e fedeli".
Uno di loro era stato il
Vescovo di Goya, Monsignor Devoto, un prelato - come già segnalato - che in
quei tempi bui del Processo, aveva esercitato il suo ministero con
incorruttibile pietà cristiana, senza lesinare la dedizione in favore dei
perseguitati e che aveva salva la vita grazie alla tempestiva solidarietà che
il Nunzio gli aveva espresso. A questa remota diocesi apparteneva Miguel
Ramondetti, uno dei fondatori del Movimento di Sacerdoti del Terzo Mondo, che
ebbe salva la vita -come egli stesso ha molte volte riconosciuto- grazie a
Laghi che lo aiutò a uscire dal Paese.
Una lettera che gli mandò da
Goya, dopo il suo ritorno dalla capitale federale, evidenzia palesemente ciò
che, in realtà, significò quella messa di commiato. Monsignor Devoto scrisse a
Laghi: "Per amore di sincerità, devo dirLe che sono molto addolorato per
la notevole assenza di sacerdoti, religiose e laici alla messa concelebrata
nella cattedrale. Ignoro i meccanismi di convocazione attivati nell'arcidiocesi
di Buenos Aires, ma parecchi Vescovi ci siamo dispiaciuti per la mancata
presenza del Popolo di Dio" [13].
Continuava: "Vorrei che
queste righe equivalessero a una riparazione, soprattutto pensando alle
tantissime persone che in momenti di angoscia e dolore sono accorse alla
Nunziatura. Mi sono ricordato della cura dei dieci lebbrosi. E gli altri dove
sono?"
E terminava: "Arrivo
così al terzo motivo di queste righe:
voglio che sappia la
profonda gratitudine e riconoscenza di questa Chiesa diocesana di Goya, per le
numerose cose che Lei ha fatto in suo aiuto. Non sono solamente io a
ringraziarLa ma anche i membri del Popolo di Dio che mi chiedono di esprimerle
il loro ringraziamento e manifestano il loro dispiacere per la sua partenza.
Sia certo che questa piccola porzione della Chiesa Universale si congeda dal
Rappresentante del Papa con grande affetto e riconoscenza".
Perché, come dice Monsignor
Devoto, "i meccanismi di convocazione" nell'ambito dell'arcidiocesi
di Buenos Aires, dove era Primate il Cardinale Aramburu, non avevano funzionato
a dovere? Forse non furono fatti i passi necessari perché il Popolo di Dio,
della cui assenza si duole il prelato, fosse dovutamente informato e coinvolto
per accomiatarsi dal Nunzio in partenza? Così grande fu il vuoto fatto intorno
a Laghi da far sentire al sensibile Vescovo di Goya il bisogno di scrivergli
quella lettera che, ancora oggi, ha il vago sapore di una discolpa?
Non abbiamo risposte per
queste domande. Ci limitiamo a scrivere questo episodio nel clima così
particolare che coinvolse Monsignor Laghi nei suoi ultimi mesi a Buenos Aires e
che non si circoscrisse unicamente al trattamento che gli usarono gli uomini
del potere politico.
Dai suoi fratelli Vescovi
argentini si congedò con un affettuoso messaggio nel quale disse: "Porto
della Chiesa argentina un ricordo profondo: ho sempre constatato la fedele
adesione al Sommo Pontefice, ho assistito alla fioritura delle vocazioni
sacerdotali e religiose, ho partecipato a grandi manifestazioni di fede e ho
avuto la fortuna di conoscere uomini di Chiesa ammirevoli".
Ne citò solo uno, il
Cardinale Antonio Caggiano, ma lo fece per identificare in quel porporato
oramai scomparso -vera guida della Chiesa argentina- l'impegno pastorale
assunto, senza riserve, da tutti gli uomini di Chiesa che lo avevano accompagnato
nella parte più diffìcile del suo compito che arrivava alla fine.
Il 21 dicembre 1980, in un
Boeing che decollò da Ezeiza con destinazione Roma, il Nunzio Apostolico Pio
Laghi lasciava il suolo argentino.
Finora non vi ha fatto più
ritorno.
[1] Copia in possesso degli
autori.
[2] Copia in possesso degli
autori. Vedere documento allegato.
[3] Quando questo libro era in
procinto di stampa, si seppe che il ministro della Giustizia, Oliviero
Diliberto, aveva rinviato a processo cinque ex ufficiali della Marina
argentina, tra i quali l'ex capitano Alfredo Astiz, per l'assassinio di tré
italoargentini, tra i quali la si gnora Angela Atetta, madre del dirigente
della Gioventù Peronista, Dante Cullo. Fu sequestrata nel 1977 per punire suo
figlio, che era in prigione. Per Dante Cullo furono numerose e insistenti, come
documentato, le richieste del Nunzio Laghi.
[4] Lettera di Monsignor
Claudio Celli a Mauricio Montenegro del 21 marzo 1980. Archivio della
Nunziatura Apostolica, n. 6281 80.
[5] Lettera di Lidio Juan Acosta
al Nunzio Pio Laghi, senza data. Copia in possesso degli autori.
[6] InHoracio Verbitsky,
"VoxDei". Buenos Aires, quotidiano "Pàgina 12", 9 aprile
1995, pag. 3- Tré giorni più tardi, il giornale tornò sull'argomento
pubblicando un'intervista che il giornalista Nelson Castro fece alla vedova di
Delgadoper radio.
[7] Verbitsky, nel servizio
giornalistico citato, sostiene che "sebbene Laghi non lo dicesse, si
sottintendeva che il suo consiglio (all’ammiraglio Lambruschini) fosse quello
di salvare le loro vite".
[8] Vedere l'intervista
concessa dal Cardinale Pio Laghi alla rivista "II Regno" e pubblicata
il 15 luglio 1997, già citata.
[9] Copia fra le carte personali del Cardinale Laghi. Il testo è stato
riprodotto integramente in Lorenzo Bedeschi, "II Cardinale Pio Laghi
cittadino onorario di Betlemme". op. cit., pag. 54-55.
[10] Negli Stati Uniti, prima
come Delegato Apostolico e poi, dal 1984, come Nunzio, Monsignor Laghi ebbe a
che fare con due Presidenti, RonaldReagan e George Bush. Durante la sua
missione fece nominare 134 Vescovi, su più di 300 che compongono la Conferenza
Episcopale, tutti caratterizzati per una forte impronta pastorale. Tra le
nomine ci sono i CardinaliJoseph Bernardin, AdamMaida (Detroit), Anthony
Bevilacqua (Filadelfia), RogerMahomy (LosAngeles) e John O'Connor (New York).
Dopo essere stato promosso alla porpora cardinalizia da Giovanni Paolo linei
Concistoro del 28 giugno 1991, Laghi fu nominato Prefetto della Congregazione
per l'Educazione Cattolica, incarico che ancora ricopre.
[11] "La Nación", 20 dicembre 1980.
[12] "La Semana", 24
dicembre 1980, Rag. 82-85.
[13] Vedere documento allegato.