CAPITOLO 2
Un
Paese alla deriva
Quella mattina del 1° luglio 1974 pioveva su Buenos Aires. Non soffiava il vento di Sud‑Est, che nel periodo invernale è quasi insopportabile, ma faceva comunque quel freddo umido e penetrante che i "Porteños" ‑ come vengono chiamati gli abitanti della capitale argentina ‑ conoscono molto bene. La gente scivolava lungo i marciapiedi quasi furtivamente, cercando riparo sotto gli ombrelli o con il bavero degli impermeabili alzato. Non c'erano giornali a cause di uno sciopero proclamato dai lavoratori grafici in contrasto con le imprese giornalistiche. Alcuni passanti avevano la radio portatile incollata all'orecchio. Ma non attendevano di ascoltare i commenti alla partita del Mondiale di calcio che il giorno prima, per due gol a uno, l'Argentina aveva perso con il Brasile. Aspettavano una notizia grave, che percepivano come carica di oscuri presagi e che tentavano di esorcizzare. L'ultimo ragguaglio sulla salute di Juan Domingo Perón ‑ il "Caudillo" populista venerato dalle masse popolari, che dall’ottobre dell'anno precedente era stato confermato per la terza volta Presidente dell'Argentina ‑ era stato dato dal governo il pomeriggio del giorno precedente. Comunicava che lo stato di salute del paziente era stazionario e gli si raccomandava assoluto riposo. Poi il silenzio ... Ma il "tam tam" della gente, nei bar, nei posti di lavoro, nonostante la pioggia, diffondeva notizie cariche di pessimismo per il peggioramento dello stato di salute dell'anziano statista.
Nella residenza presidenziale di Olivos, a pochi
chilometri dal centro di Buenos Aires, la situazione stava precipitando. Alle
10,25 del mattino Perón aveva avuto un arresto cardiaco, ma alle 13,15 i medici
cessarono ogni sforzo per rianimarlo e, poco dopo, nella sala attigua,
redassero un referto con il quale veniva dichiarata ufficialmente la morte.
Recitava così: "Il Signor Tenente Generale Juan Domingo Perón era affetto
da cardiopatia ischemica cronica con insufficienza cardiaca, con episodi di
aritmia cardiaca e insufficienza renale cronica: manifestazioni tenute sotto
controllo con trattamento medico. Negli ultimi giorni tali patologie si sono
aggravate in conseguenza di una broncopolmonite di natura infettiva (. . .) Il
Tenente Generale Juan Domingo Perón è morto alle 13,15 di oggi".
Immediatamente venne vestito con la sua uniforme militare
e deposto in una bara avvolta dalla bandiera argentina da guerra e sistemato
nella cappella della residenza, dove rimase fino alla mattina seguente, quando
fu trasferito prima nella cattedrale Metropolitana poi al Palazzo Legislativo.
Nel Salone Azzurro, un recinto ottagonale evocativo
dell'unita argentina, di fronte a un Crocifisso, quattro scudi e 23 bandiere
nazionali, su una pedana ricoperta da tappeti di velluto rosso e sotto una
croce di legno intagliato proveniente dal Perù del XVIII secolo, Perón
ricevette per 46 ore e mezza l'estremo saluto del suo popolo.
Si calcola che sfilarono davanti al feretro circa 450.000
persone, mentre all'esterno, più di un milione di argentini, con la morte nel
cuore rimase senza poter dare l'ultimo saluto al leader. Solo in un'altra
occasione il Paese aveva assistito a una espressione di dolore così popolare:
quando nel 1952 era morta Evita Perón.
La vedova Isabelita ‑ che era la sue Vice e già
esercitava la carica presidenziale da sabato 29 giugno, stante l'aggravarsi
delle condizioni di salute di Perón ‑ comunicò al Paese la ferale
notizia. Alle 14.10, circa un'ora dopo il decesso, lesse il messaggio alla
radio e alla televisione e pianse la scomparsa di un "vero apostolo della
pace e della non violenza".
Mentre parlava, all'aeroporto di Ezeiza, atterrava il DC
10 che, proveniente da Roma, via Dakkar, portava a Buenos Aires il nuovo Nunzio
Apostolico, Monsignor Pio Laghi.
* * *
In quel giorno convulso, con l'Argentina praticamente
paralizzata dallo scatenarsi della crisi finale del vecchio leader, Laghi
dovette rimanere sorpreso quando notò che all'aeroporto egli non era oggetto di
alcuna accoglienza ufficiale. Si trattava di un'omissione di protocollo
inusuale in questi casi e che non sarebbe stata l'unica registrata nei suoi
primi giorni in Argentina. In quella giornata plumbea, quasi tetra, dovette
porsi mille domande su quel Paese che non si mostrava molto attento alle
formalità.
Ad attenderlo, non c'era alcun rappresentante del
Governo. Gli unici che si erano dati appuntamento nella sala VIP dell'aeroporto
erano i Cardinali Antonio Caggiano[1]
e Raúl Primatesta, Monsignor Adolfo Tortolo, presidente della Conferenza
Episcopale Argentina e un buon numero di Vescovi fra cui si trovava il futuro
Cardinale Primate, Juan Carlos Aramburu, allora Coadiutore dell'Arcidiocesi di
Buenos Aires.
Dopo il caloroso benvenuto dei Vescovi, la maggioranza
dei quali sconosciuta a Laghi, Caggiano lo informò del decesso di Perón,
avvenuto pochi minuti prima. Laghi comprese i motivi di quella mancanza di
protocollo, ma non si mostrò sorpreso della scomparsa dell'anziano leader. La
notte precedente, prima di imbarcarsi all'aeroporto di Fiumicino, lo avevano
avvisato che Perón versava in gravi condizioni cliniche e che quel giorno il
cappellano dell'Esercito gli aveva amministrato gli ultimi sacramenti: la
confessione, la Comunione e l'unzione degli infermi. Così, Laghi era salito
sull'aereo ben consapevole della gravità dello stato di salute di Perón. In
Segreteria di Stato vaticana avevano già utili informazioni sul suo rapido
peggioramento.
ll precedente Nunzio, Monsignor Lino Zanini, era stato
richiamato in Vaticano il 1° gennaio e nominato Delegato della Fabbrica di San
Pietro, in sostituzione del Cardinale Paolo Marella.
Paolo VI avrebbe voluto coprire con maggior tempestività
la Nunziatura Apostolica di Buenos Aires che, per la diplomazia della Chiesa,
era (ed è ancora) considerata "un posto di prestigio" a livello delle
legazioni delle principali capitali europee e, oltre al Vecchio Continente,
alla stessa stregua di Washington e Rio de Janeiro[2].
Ma quando gli proposero il nome di Laghi, Paolo VI indugiò. In Medio Oriente,
nella sua qualità di Delegato Apostolico a Gerusalemme e Palestina, Laghi aveva
dimostrato per cinque anni una grande predisposizione nel districarsi in
situazioni particolarmente compromettenti e aveva saputo agire con la stessa
efficienza tanto in Israele (ancora non si erano stabilite relazioni
diplomatiche con la Santa Sede) quanto nei confronti dei Palestinesi.
Per diverse settimane, il Pontefice si oppose al suo
trasferimento dalla Terra Santa. Fu necessaria l'insistenza del Cardinal Jean
Villot e dei Monsignori Giovanni Benelli e Agostino Casaroli, personaggi chiave
della Segreteria di Stato, e una reiterata accentuazione sulle esigenze che
presentava la Nunziatura in Argentina, perché alla fine il Santo Padre
acconsentisse. La nomina fu pubblicata da "L'Osservatore Romano"
nella sua edizione del 28 aprile 1974.
A Gerusalemme, Laghi si era conformato ai tradizionali
passi che un diplomatico fa per congedarsi, ma dalla Segreteria di Stato gli fu
indicato di fare tutto con la maggior celerità. A Buenos Aires la situazione
stava precipitando ed era necessario che egli raggiungesse l'Argentina con la
massima tempestività, dopo esser passato per Roma per ricevere dai superiori le
istruzioni del caso.
Ad aprile, il Vice Direttore della CIA, generale Vernon
Walters, era stato inviato a Buenos Aires per constatare personalmente quanto
di vero ci fosse nei commenti che circolavano sul peggioramento delle
condizioni fisiche dell'anziano Presidente, al punto di non dargli più di
quattro mesi di vita. Si confermava ciò che la Segreteria di Stato già sapeva:
morto Perón, che stava per compiere 79 anni, sarebbe scomparsa l'ultima diga
ancora capace di arginare l'alluvione di violenza irrazionale che imperava in
Argentina. Né il prestigio né il carisma del vecchio Caudillo, tornato al
potere dopo 18 anni di esilio, erano stati capaci di debellare la crisi. E ora,
con la sua morte, si profilava il fantasma di un imprevedibile vuoto di potere.
Il Vaticano lo sapeva. Di qui l'urgenza imposta a Laghi.
Ma c'era un'altra emergenza che impensieriva Paolo VI ed
era la situazione ecclesiale riguardante l'Argentina. Nel paese sudamericano,
la Chiesa cattolica viveva un tormentato processo di tensioni interne in cui si
scontravano una gerarchia conservatrice che si opponeva alle innovazioni del
Concilio Vaticano II e un settore sempre più vasto di sacerdoti giovani e
infervorati che predicavano la "Pastorale dei Poveri", e proponevano
una lettura del Vangelo puntando prevalentemente sull'impegno sociale a favore
dei più bisognosi. Questi preti appartenevano al Movimento dei Sacerdoti del
Terzo Mondo.
Per attenuare questa diatriba, neutralizzare gli
estremismi opposti e restituire armonia e serenità al Popolo di Dio che
mostrava un crescente sconcerto per la divisione del clero, il Vaticano aveva
bisogno di collocare quanto prima a Buenos Aires un Rappresentante Pontificio
giovane, energico, attivo, in grado di infondere credibilità, e
sufficientemente capace di rinnovare la Chiesa argentina, aiutandola a
immettersi sulla giusta via, che era quella dettata dalle conclusioni del
Concilio Vaticano II, indetto e portato avanti da Giovanni XXIII e condotto a
buon fine nel 1963 da Paolo VI.
Dal Concilio erano emerse chiare definizioni. La Chiesa
doveva "aggiornarsi" nello spirito dei documenti che, non senza
superare grandi resistenze di alcuni Padri Conciliari, erano stati approvati a
larga maggioranza. Tra i numerosi cambiamenti, il rinnovamento della Liturgia,
con l'introduzione della lingua parlata nella celebrazione eucaristica; il
valore della collegialità episcopale; la libertà religiosa e di coscienza; il
dialogo con la giustizia sociale; la condivisione universale dei beni; i
diritti inalienabili della persona umana; il ruolo dei laici nella Chiesa.
Innovazioni queste che erano state fortemente osteggiate da un gruppo
agguerrito di Padri Conciliari. Tra di essi i più influenti erano stati i
cardinali italiani Giuseppe Siri e Alfredo Ottaviani, il nordamericano Francis
Spellman e il tedesco Joseph Frings, e i più estremisti l'Arcivescovo francese
Marcel LefeLvre e il Vescovo brasiliano Gerardo de Proenca Sigaud.
Secondo loro, una delle cose più gravi che il Concilio
aveva sancito era stato il ridimensionamento dell'importanza del primato papale
rispetto alle attribuzioni, sempre maggiori, concesse alle Conferenze Episcopali
Nazionali. "Questo è pericolosissimo, perché il potere terminerà nella
mani dei Vescovi che, in seno ad ogni Conferenza Episcopale, acquisteranno una
maggior preminenza mettendo a tacere le voci dei meno influenti"; scrisse
nel 1963 il Cardinal Siri[3].
Si trattò di un pronostico che, nel caso argentino, avrebbe avuto le
conseguenze che l'anziano Cardinale, il rappresentante più lucido dei Vescovi
conservatori, aveva previsto. Ma in segno totalmente opposto. In effetti,
l'inevitabile rispetto del Papa per una valutazione autonoma da parte della
Conferenza Episcopale Argentina (CEA) sulla questione della repressione
militare avrebbe avuto effetti nefasti nel campo dei diritti umani. Non
intervenendo tempestivamente nel dramma dei "desaparecidos", i Vescovi
argentini lasciarono aperte le porte a conseguenze funeste, come più avanti
vedremo.
In Argentina, quando Laghi mise piede a Buenos Aires, la
frattura del clero si traduceva in quello scontro che preoccupava seriamente
Paolo VI. Il Pontefice si trovava in una situazione scomoda. Da una parte era
deciso a porre fine all'immobilismo dei settori conservatori. Ma non nascondeva
la sua angoscia per lo stravolgimento che ambienti cattolici operavano sui
dettami del Concilio circa l'interpretazione idonea da dare al problema del
conseguimento della giustizia sociale. Allarmava la tendenza a legittimare
l'uso della violenza da parte dei cristiani, senza tenere conto dei limiti che
lo stesso Papa aveva definito nelle Encicliche "Ecclesiam suam" e "Populorum
progressio"[4].
In quest'ultima, Paolo VI aveva detto con assoluta
chiarezza che una rivoluzione violenta è legittima solo quando i cristiani
trovano preclusa la più remota possibilità di ricorrere alla via pacifica ed e
venuto meno il rispetto dei più elementari diritti umani. Frequentemente,
questo messaggio rimase inascoltato in seno alla Chiesa latinoamericana, dove
iniziarono a moltiplicarsi le voci di quanti incitavano i giovani cattolici ad
abbracciare il fucile ed entrare nella clandestinità.
Spinti dal loro idealismo e incoraggiati da queste voci
che così interpretavano il Vangelo, si accostavano sempre più, come unica via
d'azione, alla scelta della lotta armata e della violenza contro gli
"oppressori" e i potenti, anche quando non esistevano le condizioni
estreme indicate dal Magistero pontificio. Anzi, il peggio era che, in un
fatale malinteso, agivano in nome del Concilio. In Argentina questo si
traduceva in una forte espansione dei Sacerdoti del Terzo Mondo, il cui
rappresentante più carismatico era stato Rodolfo Mugica, assassinato a colpi di
arma da fuoco da un commando di estrema destra l'11 maggio 1974, pochi giorni
prima che il Nunzio Laghi mettesse piede in Argentina. Questi preti
teorizzavano, in modo quasi ossessivo, la cosiddetta "Pastorale
Popolare" che di fatto legittimava l'uso della violenza per il
raggiungimento della giustizia. Si moltiplicavano, intanto, le "Comunità
di Base", molte delle quali erano autentici laboratori della
"Teologia della Liberazione". Per i giovani cattolici impegnati
socialmente, da qui a una vera mitizzazione della rivoluzione cubana e
dell'esperienza guerrigliera del Vietnam il passo era molto breve.
L'interpretazione più insidiosa e inaccettabile che
questi Sacerdoti del Terzo Mondo facevano del Vangelo ebbe a che fare con due
di loro, protagonisti di un episodio che riempì di orrore gli argentini: il
sequestro e l'assassinio nel 1970 dell'ex Presidente, Pedro Eugenio Aramburu.
Il generale Aramburu era, per le nuove generazioni, il simbolo della violenza
repressiva che da decenni tormentava il paese. Nel 1956, dopo esser stato uno
dei capi della "Revolucion Libertadora" che aveva deposto Perón,
aveva ordinato la fucilazione ‑ decisione senza precedenti nella storia
argentina malgrado le sue turbolente vicissitudini ‑ di un gruppo di
militari e civili Perónisti che si erano sollevati con le armi reclamando il
ritorno del leader costretto all'esilio. Nel 1970, gli aderenti a un nuovo
gruppo guerrigliero di origine cattolica, i "Montoneros" lo aveva
sequestrato, condannato a morte e giustiziato.
Un sacerdote del "Terzo Mondo", il presbitero
Alberto Carbone, aveva redatto la condanna a morte. Un altro religioso dello
stesso gruppo, Hernan Benítez, ex confessore di Evita Perón, aveva esaltato il
crimine da essi commesso durante il funerale di due degli assassini, Carlos
Gustavo Ramus e Fernando Luis Abel Medina.
Il Popolo di Dio era oppresso e martoriato, in mezzo a
questo conflitto sanguinoso, attanagliato tra militari che fucilavano e
guerriglieri che si facevano giustizia da soli con la benedizione di alcuni
uomini di Chiesa. Il disorientamento era totale, giacché non si capiva quando
fosse giusto accelerare il passo e quando, invece, la prudenza indicasse che
era meglio frenare la corsa. Con angoscia non si intravedeva in quel gigantesco
e doppio malinteso il sentiero per il quale legittimare ed esercitare la
propria fede cattolica . Laghi aveva il dovere di aiutare quel popolo,
confortarlo, chiarirgli le idee, fortificarlo perché meglio affrontasse le dure
prove che lo attendevano, trasformandosi nel riferimento indispensabile per
tutti i religiosi e laici che cercavano la strada giusta per essere fedeli al
Vangelo.
Era un compito impegnativo come pochi, in cui la
neutralizzazione degli atteggiamenti estremisti a favore dei bisognosi doveva
misurarsi in forma equilibrata con l'adattamento dell'Episcopato alle nuove
esigenze postconciliari.
Monsignor Laghi iniziò la sua missione nelle peggiori
delle condizioni. La prima cosa che dovette fare fu cambiare le Lettere
Credenziali, che andavano dirette alla nuova Presidente, la Signora Maria
Estela Martinez de Perón, l'ex ballerina che il generale aveva conosciuto in
esilio e dalla quale non si era più separato. I1 giorno seguente al suo arrivo,
Laghi partecipò al funerale di Perón nel Palazzo Legislativo e qui fu innocente
protagonista, a poche ore dall'inizio della sua missione diplomatica, di un
nuovo e sconcertante episodio. Aveva voluto unirsi agli altri ambasciatori
accreditati e partecipare alla neo Presidente il cordoglio del Santo Padre, ma
non aveva potuto presentare le Lettere Credenziali a causa del rapido
precipitare degli eventi. Così, a Monsignor Laghi non rimase che presenziare
alla cerimonia funebre in totale anonimato, confuso tra le decine di migliaia
di persone che sfilavano, rattristate, di fronte al feretro dello statista
morto. Laghi rimase a lungo, in silenzio, assorto in preghiera senza che
nessuno lo riconoscesse, ne gli chiedesse assolutamente nulla.
Dai giornali del giorno successivo, Laghi apprese una
nuova e incredibile notizia che aggravò il suo disorientamento. Isabelita,
aveva ricevuto nella residenza di Olivos, come "delegato pontificio",
tale Monsignor Andres Karame che si era annunciato come "Rappresentante
del Santo Padre" e della Chiesa orientale. A Isabelita aveva trasmesso le
condoglianze di Paolo VI e del Patriarca Orientale, Maximo Hakim[5].
I1 religioso, la cui iniziativa risultava inspiegabile
per Monsignor Laghi, era un arabo, archimandrita della Chiesa Melchita
Cattolica di Rito Orientale. Ma si verificò una cosa ancora più grave.
All'uscita dalla residenza presidenziale di Olivos, Karame fece una breve
dichiarazione alla stampa: "Mi ha mandato il Papa a presentare, in suo
nome, le condoglianze della Chiesa alla Signora". Non era affatto vero.
Laghi rimase confuso. Lesse ripetutamente la notizia riportata dal giornale,
credendo di avere capito male. Alla fine si consolò pensando che solo in un
putiferio tanto grande come quello che viveva il Paese sudamericano si potevano
giustificare gesti avventati e irresponsabili come quello descritto.
Per parecchi giorni dopo il funerale di Perón,
l'Argentina visse in un clima di confusione e di disordine. Dal palazzo della
Nunziatura Apostolica in Avenida Alvear, Laghi avvertiva quest'atmosfera e
probabilmente si pose qualche allarmante interrogativo sul suo compito futuro.
Nessun rappresentante governativo era andato a riceverlo all'aeroporto di
Ezeiza al suo arrivo. Aveva assistito al funerale di Perón in completo
anonimato. Alla nuova Presidente erano giunte le condoglianze vaticane per la
morte di suo marito dalle labbra di un altro prelato che si era attribuito
arbitrariamente la rappresentatività del Papa... Inoltre, la violenza politica
era una costante di tutti i giorni.
Sì, quello era uno strano Paese. Veramente strano. E capì
subito che la sua non sarebbe stata un'impresa facile. Presto avvertì un senso
di smarrimento. Passavano i giorni e dal Palazzo San Martin (la Farnesina
argentina) non arrivava il benché minimo segnale ufficiale sui tempi della
cerimonia di presentazione delle Lettere Credenziali nella Casa Rosada. Questo
lo riempiva di crescente preoccupazione. Le istruzioni vaticane, infatti, erano
state categoriche: doveva dar inizio al suo compito senza perdere un solo minuto.
Tra tanta incertezza che infastidiva anche la gerarchia
ecclesiastica locale, Laghi concordò con i Cardinali Caggiano e Primatesta e
con Monsignor Tortolo ‑i tre presuli più importanti della CEA‑ la
strategia da seguire. La Chiesa argentina gli avrebbe dato il benvenuto
ufficiale giovedì 11 luglio, con una solenne cerimonia religiosa nella
Cattedrale Metropolitana, alla presenza di tutti i Vescovi. Era una decisione
pienamente legittima. Infatti, il Nunzio rappresenta, alla stregua di un
Ambasciatore, il Pontefice presso il Governo del Paese e, al contempo, il Santo
Padre presso la Chiesa locale.
Quando
la notizia fu conosciuta, al Ministero degli Affari Esteri argentino la
interpretarono come un vero affronto e reagirono infastiditi. Tre o quattro giorni
prima della Messa, dal Palazzo San Martin arrivò a Laghi una telefonata con la
quale il ministro Alberto Vignes gli disse: "Come si spiega questo,
Monsignore? Lei si presenta alla Chiesa argentina, in una cerimonia religiosa,
senza aver regolarizzato previamente la situazione delle sue Credenziali presso
il governo nazionale. E' un procedimento quanto meno fuori del comune". La
risposta di Laghi fu glaciale: "Signor Ministro, lei dovrebbe sapere che
sono arrivato in Argentina investito di tre incarichi: rappresentare il Santo
Padre presso la Chiesa nazionale, cosa che nessuno mi può impedire e che inizio
subito poiché per questo non ho bisogno di alcun placet; rappresentare il
Pontefice presso il governo; ed esercitare il decanato del Corpo Diplomatico".
E concluse con tono perentorio: "Quando deciderete di accogliere le mie
Lettere Credenziali, allora inizierò a esercitare gli ultimi due incarichi, ma
nel frattempo comincio con la Chiesa, dato che ho molto da fare e mi hanno
suggerito di non perdere tempo inutilmente".
Nonostante i pochi giorni trascorsi dal nuovo Nunzio in
Argentina, il potere prendeva atto che non era persona facilmente malleabile e
che era un uomo sicuro di sé, abituato a prendere iniziative e, se fosse
necessario, anche a correre dei rischi. A1 suo atteggiamento severo corrispose
un'accelerazione dei tempi. E il Governo di Isabelita, per non rimanere in una
situazione di disagio, decise che la presentazione delle Lettere Credenziali
del nuovo Rappresentante Pontificio avrebbe avuto luogo il 10 luglio,
ventiquattro ore prima della data fissata per la cerimonia religiosa nella
Cattedrale di Buenos Aires. Nella Casa Rosada, Laghi le consegnò a Isabelita
insieme ad altri quattro ambasciatori che aspettavano il loro turno da giugno e
i cui placet erano stati posticipati per la malattia e la morte di Perón.
La fotografia ufficiale che immortalò il momento mostra
Laghi, berretto e manto color porpora sulle spalle che consegna le Lettere a
una Isabel completamente vestita di nero, con tacchi alti e i capelli castani
chiari raccolti alla nuca con uno chignon alla Eva Perón, mentre si inchina
cerimoniosamente verso il Rappresentante Pontificio e gli stringe la destra,
sotto lo sguardo compiaciuto del ministro Vignes.
Finalmente, dopo tante vicissitudini e non poco
trambusto, Monsignor Laghi poteva dar inizio alla sua missione presso lo Stato
argentino.
* * *
Pratico e dinamico come era, e una volta superati questi
malintesi, Laghi si dedicò a quel compito che era per lui assolutamente
prioritario: il rinnovo dell'Episcopato nazionale. Comprese che si trattava di
un'incombenza molto impegnativa, che lo avrebbe assorbito quasi del tutto.
L'Episcopato argentino, come ammise il Cardinale Eduardo
Pironio[6],
era estremamente "tradizionalista" e refrattario a ogni mutamento.
Tanto che, due anni più tardi, il 24 agosto 1976, riconosceva in una lettera
che "malgrado gli sforzi e l'intenso lavoro che ha svolto e svolge il
Nunzio Laghi", gli incarichi maggiori "continuano a essere nelle mani
di Vescovi poco aperti"[7],
In verità Laghi aveva ricevuto dalla Segreteria di Stato
istruzioni molto precise: doveva ribaltare l'immagine di un Episcopato
argentino eccessivamente conservatore, chiuso ad ogni sorta di progresso, e
convincerlo a lasciarsi rinvigorire dalla nuova brezza vivificante che si
respirava nella Chiesa postconciliare.
Monsignor Jorge Casaretto, attuale Vescovo della Diocesi
di San Isidro, ha raccontato agli autori di questo libro che la decisione di
Laghi colpì il clero argentino: "Si comprese subito che era un uomo
d'azione, veloce nel prendere decisioni e, naturalmente, cosciente di quanto
faceva. Più di una volta disse che aveva chiare istruzioni dalla Santa Sede di
collaborare nell'applicazione del Concilio e lo mise in pratica con una serie di
designazioni e nomine, con conferenze e contatti di vario tipo con i Vescovi.
I1 suo fu uno sforzo gigantesco coronato dal successo che si tradusse nel
rinnovamento di un Episcopato fortemente improntato al conservatorismo e con un
gran timore verso tutto ciò che potesse essere sospettabile d'infiltrazioni
marxiste. Laghi dovette imporsi ad esso"[8].
Non interessa, in questa sede, passare in rassegna i
passi successivi di Laghi volti a cambiare l'Episcopato ne enumerare o
radiografare, uno per uno, i nuovi Vescovi che propose per la nomina. Non è
neppure il caso di dilungarsi sulle situazioni di enorme complessità che trovò
e che dovette risolvere, ricorrendo a un misto di energia, audacia e
immaginazione. Ci limiteremo a dire che, a poche settimane dal suo arrivo, si
recò nelle Diocesi più lontane e remote, quelle della Patagonia, di Comodoro
Rivadavia e Rio Gallegos, che erano sedi vacanti, per far poi lo stesso con
Viedma. In occasione di una visita a Neuquen, ebbe modo di conoscere Monsignor
Jaime de Nevares, uno dei Vescovi argentini più validi e rispettati per la sua
difesa dei diritti umani e con il quale instaurò una stretta e cordiale
relazione personale destinata a prolungarsi nel tempo, fino alla sua morte.
Si rese quindi presente nelle Arcidiocesi di Cordoba,
Mendoza (sede vacante per la morte dell'ottantenne Monsignor Alfonso Buteler),
Parana, Santa Fe, Santiago del Estero, dove era ancora Arcivescovo Monsignor
Manuel Tato, malgrado avesse già superato i 70 anni di età. Laghi alternava
questi viaggi con un programma di assidui contatti con i Vescovi delle Diocesi
limitrofe alla capitale argentina. Nel corso di una delle sue frequenti visite
a San Isidro, conobbe Casaretto, un sacerdote giovane e dinamico, dotato di una
profonda cultura teologica e di particolari doti pastorali. Subito simpatizzò
con lui. Oggi, Monsignor Casaretto è uno dei rappresentanti più lucidi e
preparati di un Episcopato argentino che è molto diverso da quello di qualche
decennio fa. In una delle sue prime proposte, lo indicò quale Vescovo Ausiliare
di San Isidro, Diocesi retta da Monsignor Antonio Aguirre. Un altro prelato di
grande sensibilità sociale e solida formazione teologica era Monsignor Justo
Oscar Laguna. La sua designazione ebbe luogo 1'8 marzo 1975. A pochi giorni più
tardi, il 7 aprile, risale la nomina di Monsignore Miguel Esteban Hesayne come
Vescovo di Viedma. Hesayne, già emerito, sarebbe divenuto amico personale di
Laghi.
Laghi comprese subito l'entità del suo compito. Nei primi
tempi della sua missione diplomatica, il rinnovamento dell'episcopato argentino
gli assorbì almeno il 70% del suo tempo e dei suoi sforzi, particolarmente
intensi quando si trattava di raccogliere i dati informativi dei candidati atti
a ricoprire le Diocesi e da inoltrare poi alla Congregazione dei Vescovi.
Mansioni che svolgeva rigorosamente in solitudine, senza l'aiuto di nessuno.
Nella Nunziatura contava solo sull'assistenza del Segretario della Nunziatura,
Monsignor Patrick Coveney, un prelato irlandese che era arrivato a Buenos Aires
nel 1971.
Il primo e controverso problema che Laghi dovette
affrontare fu la successione del Cardinale Caggiano nell'Arcidiocesi di Buenos
Aires. Caggiano aveva già 85 anni e il Vaticano voleva che MonsignorJuan Carlos
Aramburu, Coadintore dal 1967, lo sostituisse una buona volta. Il Nunzio Zanini
aveva rimandato la successione anno dopo anno fino al suo ritorno a Roma,
lasciando irrisolto il problema.
Era una questione di particolare importanza, poiché
Caggiano ‑ pastore venerato dal clero argentino ‑ riuniva nelle sue
mani l'Arcidiocesi di Buenos Aires, la funzione di Cardinale Primate e quella
di Ordinario Militare. La presidenza della Conferenza Episcopale Argentina era
l'unica cosa che l'anziano porporato aveva ceduto: dal 1974 a capo di questa si
trovava Monsignor Adolfo Servando Tortolo, di cui parleremo ripetutamente.
Nonostante la sua venerabile età, Caggiano andava tutti i giorni in ufficio
presso la Curia Metropolitana, ma questo non impediva che l'Arcidiocesi
versasse in uno stato di paralisi, poiché i due Ausiliari erano altrettanto
anziani e non garantivano capacita d'azione. Uno era Monsignor Antonio Rocca,
che aveva un anno di più di Caggiano.
Passavano i mesi e Laghi ‑ che teneva nel cassetto
della sua scrivania una lettera con l'accettazione di Paolo VI delle dimissioni
di Caggiano ‑ non veniva convocato da Isabelita per il passaggio dei
poteri a Monsignor Aramburu, per ragioni ancora di difficile spiegazione[9].
Così, nel febbraio del 1975, essendo ormai trascorsi
quasi 8 mesi senza che fosse risolto il problema che, secondo le istruzioni
ricevute, doveva avere attenzione prioritaria, Laghi chiese di parlare con la
Presidente. Lo spingeva anche la richiesta di informazioni sull'argomento che
riceveva dalla Segreteria di Stato.
Quando si recò alla sede governativa, Laghi aveva deciso
di coniugare nuovamente la persuasione e la capacità di esecuzione. Con
Isabelita, che già stava dimostrando la sue inettitudine alla guida del Paese,
Laghi fu molto chiaro, anche a rischio che la questione potesse venire
fraintesa e interpretata come un ultimatum: "Vede, Signora, questa storia
è andata molto oltre il ragionevole, io le lascio ancora un mese; se nel
frattempo non avviene la successione, "L'Osservatore Romano"
pubblicherà la notizia dell'accettazione delle dimissioni del Cardinale
Caggiano e della successione di Monsignor Aramburu, e la questione ‑ di
fatto ‑ sarà stata risolta".
Era una forma molto poco ortodossa e ancor meno curiale
di forzare la mano. Laghi stava correndo un rischio. In realtà il Nunzio non
aveva ricevuto dalla Segreteria di Stato pressioni così incalzanti tanto da
obbligarlo ad agire in maniera tanto pesante. Inoltre, correva il rischio che
"L'Osservatore Romano" non pubblicasse la notizia della successione.
Se questo fosse accaduto, Laghi sarebbe rimasto esautorato e in una posizione
poco felice. Ma le sue parole disorientarono Isabelita che ‑seduta stante‑
convocò il Ministro Vignes. Laghi ripresentò il problema e Vignes rispose: 'Ah,
no, Monsignore, questo Lei non può farlo, significherebbe umiliare il
Governo". Ma il Nunzio rimase impassibile. Fu notando la sua
determinazione che Vignes cambiò tono e si mostrò più conciliante: "Va
bene, ci lasci almeno 40 giorni per decidere", borbottò. "D'accordo,
concessi", concluse Laghi mentre Isabelita ‑ risollevata ‑
assentiva con il capo.
In verità la Presidente mantenne la sua promessa e le
relazioni tra lo Stato argentino ed la Santa Sede tornarono a splendere. In
poco tempo Laghi aveva risolto celermente un problema che da circa un decennio
aspettava una soluzione.
* * *
Giunto in Argentina lo stesso giorno in cui Maria Estela
Martinez de Perón assunse effettivamente la Presidenza della Nazione, si può
dire che il Nunzio Laghi l'accompagnò nei 18 mesi e 24 giorni che durò il suo
sfortunato mandato. Osservò con preoccupazione l'inabissarsi inesorabile del
suo Governo nel pantano in cui lo spingevano l'incapacità dei suoi componenti,
la violenza terrorista, la crisi economica, la corruzione e la crescente
disistima della società argentina.
Laghi non aveva conosciuto Perón ma ne aveva sentito
parlare come di uno statista di alto livello, carismatico; ma la sua era una
valutazione distante e disinteressata. Quello che non riusciva a capire era
come quel suo innegabile talento nel gestire per 30 anni quel vasto movimento
populista che fu il "Giustizialismo" avesse potuto trovare una
parvenza di continuità in quel Governo impotente, esitante e sconcertato,
guidato dalla sua terza moglie. Su di esso Isabelita proiettava la sua immagine
di vulnerabilità, lasciando di giorno in giorno maggiori attribuzioni a un
oscuro e ignorante personaggio, trasformato nell'uomo forte e virtuale
burattinaio della compagine governativa: Jose López Rega, che gli argentini,
con velenoso sarcasmo, avevano ribattezzato come il nuovo Rasputin che agiva
dietro le quinte del trono.
Ex poliziotto, astrologo, devoto delle scienze occulte,
López Rega aveva condiviso con Perón buona parte del suo esilio e aveva finito
col guadagnarsi la sua più incontrastata fiducia, malgrado il vecchio generale
gli tributasse pochissima stima. L'immancabile presenza al suo fianco era
sintomo della debolezza intrinseca della leadership di Perón, aggravata dal
trascorrere degli anni. Come un autentico monarca, imponeva ai suoi sudditi ‑
e all'Argentina intera ‑ la sua regina (Isabelita) e il suo buffone di
corte (López Rega).
Lo "Stregone", come lo chiamavano gli
argentini, aveva accresciuto il suo potere fino a estremi insopportabili. Non
solo era il segretario privato della vedova Perón, posizione da cui gestiva
tutte le decisioni del Governo, ma occupava il posto di ministro per il
Benessere Sociale, con accesso a ingenti fondi che manipolava a suo piacimento.
La sua ambizione politica non aveva limiti. Laghi era profondamente irritato
con lui e confessò più di una volta a Isabelita, con la finezza dialettica che
caratterizzava il suo accurato linguaggio diplomatico, la sua avversione verso
il personaggio, la sua perplessità circa il suo agire e la convinzione che la
sua influenza perversa avrebbe avuto conseguenze devastanti. Laghi era
indignato soprattutto dal suo esoterismo grossolano e farsesco. Aveva visto in
un giornale le fotografie che lo mostravano come partecipante a una seduta
organizzata da una setta spiritistica a Porto Alegre. Tempo dopo, quando in
Italia scoppiò lo scandalo della P2, López Rega ‑intimo amico di Licio
Gelli‑ figurò nelle liste della stessa loggia.
Il fastidio del Nunzio aumentava quando lo vedeva
trattare con leggerezza e irresponsabile mancanza di scrupoli questioni
delicatissime che toccavano le più profonde convinzioni religiose degli
argentini. Per il Natale del 1974, ad esempio, il suo Ministero mobilitò
centinaia di ragazzi dei quartieri più emarginati e, con la complicità di
qualche sacerdote scriteriato, fece distribuire loro l'Eucaristia in una
cerimonia collettiva che fu quasi una caricatura del più sacro dei misteri
della fede cattolica.
Non c'erano dubbi che lo Stregone agisse dietro la
Alleanza Anticomunista Argentina (AAA), un gruppo paramilitare di estrema
destra, nato per rispondere con maggior e più indiscriminata violenza
all'azione delle organizzazioni guerrigliere di sinistra, fossero esse di
origine Perónista (come i Montoneros), o di orientamento trotzkista (come l'ERP
e altri raggruppamenti minori). Soltanto nel maggio 1975, la AAA assassinò 29
oppositori, tra i quali il deputato della sinistra Perónista, Rodolfo Ortega
Pena, il professore universitario Silvio Frondizi, (fratello dell'ex presidente
argentino Arturo Frondizi), l'importante sindacalista Atilio Lopez e altri.
Ma non solo: la AAA aveva creato un clima di vero
terrore, minacciando di morte artisti, sportivi, intellettuali, deputati
dell'opposizione e, anche, uomini che avevano affiancato Perón ma sempre
avevano avuto un atteggiamento di certa autonomia di fronte all'anziano leader,
come era il caso del dottor Taiana, il suo medico personale. Con i suoi
vaneggiamenti fascistoidi, la AAA agginnse un nuovo e stravolgente elemento di
instabilità ad un Paese che marciava a tutta velocità verso il baratro.
Ad accellerare quel processo demenziale che aggiungeva
pazzia a pazzia, dettero un contributo decisivo i Montoneros, una delle due
grandi organizzazioni guerrigliere operanti in Argentina. Montoneros era nato
nel 1970 dalla fusione di tre gruppi giovanili di estrazione cattolica, uno dei
quali era l'organizzazione di estrema destra "Tacuara", di netto
stampo fondamentalista, a cui appartenevano gli assassini del generale
Aramburu. Non è questo il luogo per enumerare al lettore italiano la lunga
serie di omicidi che la banda armata Montoneros perpetrò. Basta segnalare che,
come crudele paradosso, mai fu tanto attivo e sanguinario ‑ al punto da
destabilizzarlo totalmente ‑ come durante il governo di Perón, per il cui
ritorno al potere ‑in un tragico paradosso‑ si era adoperato e
aveva lottato per anni.
Quello dei guerriglieri fu un delirio totale, uno in più
nell'Argentina disorientata degli anni 70, con il ricorso indiscriminato
all'assassinio di militari, poliziotti e civili come unico linguaggio per le
loro rivendicazioni politiche. Furono più di centomila i giovani idealisti
affascinati dal loro messaggio. I militari, chiamati ad agire con i mezzi a
loro più consoni, incominciarono a sterminarli sistematicamente, mentre i loro
capi si rifugiavano in Europa, mettendosi in salvo dalla repressione in corso.
E' il caso di Mario Firmenich, che transitò ripetutamente per Italia, Spagna e
Francia senza essere fermato da nessuno. Come già detto, affinché il lettore
europeo abbia un'idea di ciò che fu la tragedia argentina degli anni 70, è
necessario ricreare l'atmosfera che il Paese viveva in quel terrificante 1975,
spinto all'anarchia e alla disgregazione dall'incapacità governativa di
Isabelita e dalla crescente e sempre più insopportabile sfrontatezza della
guerriglia. La violenza scatenata aveva le caratteristiche di un uragano. E
nessuno, nemmeno se dotato della migliore volontà o purezza di spirito, poteva
contribuire a porvi un freno.
Prostrata da una serie di scioperi provocati dai
sindacalisti che non si decidevano a cedere la loro posizione di potere e, a
causa di una crisi economica galoppante, il 20 luglio 1975 Isabelita destituì
López Rega, additato come il principale responsabile governativo della
catastrofe. Lo Stregone dovette abbandonare il Paese e tornare a Madrid, alla
residenza Puerta de Hierro dove per anni aveva servito Perón nel suo esilio.
Anche i generali avevano avuto un peso non trascurabile
nella sua espulsione, giacché ‑ trasformati nell'unica forza organizzata
ed efficiente in quel Paese allo sbando – non accettavano che la lotta contro
l'eversione guerrigliera, ogni volta più dura, fosse delegata a
un'organizzazione paramilitare come era la AAA e, addirittura, sponsorizzata da
un losco e incontrollabile ex caporale della Polizia. Ma l'espulsione di López
Rega non arrestò il fiume in piena. Per la vedova Perón era già troppo tardi.
Eccitati dagli appelli provenienti della società argentina, che esigeva la fine
di quell'incubo, gli alti capi militari incominciarono a chiedere apertamente
la sua destituzione. Il paese slittò verso un precipizio che avrebbe portato
inevitabilmente verso il colpo di Stato e la dittatura militare.
Laghi lo aveva intuito con largo anticipo, nonostante la
sua scarsa esperienza sulle vicende argentine e la sua inalterabile posizione
di non intromettersi negli affari interni del Paese (condotta questa che sempre
cercò di mantenere). In realtà non frequentava abitualmente Isabelita, ma ci
furono occasioni in cui ‑ con la sua proverbiale circospezione ‑
poté confidarle i suoi timori e incoraggiarla con qualche consiglio. Cosi fu,
ad esempio, quando nel gennaio del 1976 le suggerì che sarebbe stato un grave
errore nominare Raul Lastiri, genero di López Rega, nuovo Ministro degli
Interni[10].
Ma, al di là di qualche consiglio di circostanza, cercò di non distanziarsi di
un centimetro dalla linea politica di fondo del Vaticano, che era favorevole al
mantenimento della legalità istituzionale, ma senza abbandonare un
atteggiamento di prudente distacco.
Malgrado questa posizione della Santa Sede, il nuovo
Ministro degli Affari Esteri argentino, Manuel Arauz Castex, (Vignes era stato
rimosso con López Rega), dopo non poca insistenza presso il Nunzio, ottenne che
il Papa Paolo VI lo ricevesse in udienza privata nel Palazzo Apostolico il 19
dicembre 1975. Fu un incontro breve, cordiale, ma senza spunti rilevanti. A1
suo rientro da Roma, il Governo cercò di presentarlo come un successo, come la
prova che il Pontefice sosteneva Isabelita. Fu un grossolano e goffo tentativo
di manipolazione che non rispondeva a verità. Paolo VI, nella breve
conversazione, aveva appena sfiorato la questione della situazione interna
argentina. Il Vaticano in nessun modo avrebbe identificato con alcun
personaggio la sua posizione in favore del mantenimento della legalità. Questo
distacco era dovuto anche alla certezza che si era radicata nella Segreteria di
Stato, grazie alle relazioni che Laghi inviava ai suoi superiori, che tutti i
tentativi per aiutare la vedova Perón sarebbero stati inutili. Il suo Governo
era già agonizzante.
Assolutamente sprovveduta di fronte alle esigenze
terribili che la realtà quotidiana le imponeva, cosciente che i tre Comandanti
delle Forze Armate avevano iniziato a stringerla in una morsa asfissiante,
impotente dinanzi agli imprevedibili umori dei capi sindacali, Isabel era
caduta in una profonda crisi depressiva dalla quale non riusciva a uscire
nonostante i farmaci che assumeva. Sembrava un coniglio paralizzato dinanzi a
quel pitone implacabile che era la crisi. A settembre aveva lasciato
provvisoriamente l'incarico, per ragioni di salute, e si era ritirata a
riposare in un hotel della Forza Aerea ad Ascochinga, sulle montagne di
Cordoba. Al ritorno a Buenos Aires ebbe alcune ricadute, come quella che
provocò il suo ricovero nell'ospedale della Piccola Compagnia di Maria[11].
Ogni volta con maggior frequenza si rinchiudeva nella residenza presidenziale
di Olivos, dedicandosi alla preghiera. In qualche momento di depressione e
angoscia si rivolse alla Nunziatura Apostolica per confidare le sue pene a
Monsignor Laghi[12]. Il 5
gennaio 1976, Isabelita ebbe una violenta discussione con i tre Comandanti
militari in carica, che la intimarono di dimettersi per "evitare così un
colpo di Stato militare e preservare la legalità". Il più duro e
perentorio fu quello della Marina, ammiraglio Emilio Massera. Isabel si oppose
e, in una crisi isterica, li avvisò che "l'avrebbero dovuta sloggiare
della Casa Rosada con l'uso della forza fisica"[13],
dopo di ché prorruppe in un pianto
irrefrenabile.
Alla catastrofe annunciata mancavano solo pochi giorni.
In effetti, undici settimane dopo, il colpo di Stato che era atteso dagli
argentini con rassegnato fatalismo ebbe luogo. Il 24 marzo 1976, pochi minuti
dopo essersi levato in volo, l'elicottero militare che trasportava Isabelita
dalla Casa Rosada alla residenza di Olivos ebbe un'imprevista "avaria
meccanica" e atterrò nella zona militare dell'Aeroparque "Jorge
Newbery", la stazione aerea situata a breve distanza. Soldati armati sequestrarono
l'elicottero, presero in custodia la Presidente e, in stato di fermo, la misero
su un aereo della Forza Aerea che la portò lontano, verso la deserta regione
dei laghi del Sud patagonico, dove venne messa agli arresti domiciliari in El
Messidor, la residenza di riposo del governatore della provincia di Neuquen. I
giochi erano fatti. La dittatura militare era iniziata.
Il giorno seguente, Laghi riceveva nella Nunziatura
Apostolica le prime telefonate di parenti e amici di persone arrestate dai militari
golpisti che gli chiedevano, disperati per la scomparsa dei loro cari, che si
adoperasse per aiutarli a localizzarli. Senza indugiare un istante il Nunzio si
mise all'opera.
Era incominciata la sua avventura umanitaria.
[1]
Il Cardinale Caggiano, per un
ventennio, fu l'uomo forte dell'Episcopato argentino. Nato il 30gennaio 1889,
fino all 'aprile del 1975 fu Cardinale Primate d 'Argentina, Arcivescovo di
Buenos Aires, Presidente della Conferenza Episcopale e Vicario Castrense. Morì
il 24 ottobre 1979.
[2]
George Bull, "Dentro il
Vaticano". Milano, Garzanti Editori, 1981, pag. 1 76.
[3]
Benny Lai, "Il Papa non eletto
". Bari, Editrice Laterza, 1993, pag. 207
[4]
L'Enciclica “Populorum Progressio”,
promulgata nel 1967 da Paolo VI fu la più magistrale e preziosa attualizzazione
della dottrina sociale della Chiesa.
[5] "La
Stampa', 4 luglio 1975, pag.5
[6]
Citata in Lorenzo Prezzi e Gianfranco
Brunelli, "Vicenda Ingiusta e Amara". In “Il Regno”, Bologna, 15
luglio 1997, pag. 388.
[7]
Il Cardinale Eduardo Pironio nacque a
Nueve de Julio (Argentina) il 3 dicembre 1920. Era nel 1975 a capo della
Diocesi Mar del Plata quando fu chiamato dal Papa Paolo VI a svolgere il suo
ministero nella Curia Romana, dopo esser stato perito del Concilio Vaticano II
e Presidente e Segretario Generale del CELAM (Conferenza Episcopale
dell'America Latina). Occupò diversi posti con incarichi curiali, dei quali il
più rilevante fu la Presidenza del Pontificio Consiglio per i Laici. Grande
amico di Paolo VI, nella parte finale del suo pontificato fu considerato uno
dei porporati più influenti della Curia. Morì nel 1998.
[8]
Dichiarazioni di Monsignor Jorge
Casaretto ad uno degli autori, che è in possesso della cassetta registrata.
[9]
Forse la spiegazione di quella nuova
dilazione è racchiusa in una frase che la nuova Presidente disse al Nunzio
Laghi in occasione della cerimonia di consegna delle Lettere Credenziali e che
rivela la sua disinformazione sulla questione: "Qui, in Argentina, abbiamo
dei Vescovi che sono troppo liberali".
[10]
Relazione dell'ambasciatore degli Stati
Uniti a BuenosAires, Robert Hill, al Segretario di Stato Henry Kissinger del 14
gennaio 1976, intitolata "La Signora Perón contro i militari" (numero
0114, Priority 4122). Pubblicata da "Clarín" il 22 marzo 1998.
[11]
Il ricovero della vedova Perón ebbe
luogo il 3 novembre 1975 e l'informazione ufficiale diffusa fu che soffriva di
un attacco di colica biliare.
[12]
Il rapporto cordiale tra Laghi e la
vedova Perón non s’interruppe con la caduta ed ulteriore destituzione di
quest'ultima. Nel 1983, quando già era destinato a Washington, costò al prelato
vaticano un duro attacco da parte di un esponente della sinistra Perónista,
Eduardo Luis Duhalde, ex appartenente alle Forze Armate Peróniste (FAP). In un
libro, Duhaldegli rivolse un'accusa assurda, totalmente priva di credibilità,
di ordire, nella sua qualità di Delegato Apostolico negli Stati Uniti, una
trama politica con Isabel per 'favorire la destra Perónista". Fu la prima
dimostrazione, anteriore alla denuncia di Juan Martin di cui si parlerà nel
Quarto Capitolo, del rancore che i settori dell’estrema sinistra argentina
avrebbero alimentato da allora contro Laghi. Testimonianza di Padre Enzo
Giustozzi ad uno degli autori.
[13]
Resoconto di Hill a Kissinger, già
citato.