CAPITOLO 3

 

I due Demoni

 

Il 1976 è stato sicuramente l'anno più nero nella storia argentina di questo secolo. Quando presero il potere, i militari si sentivano investiti da un duplice e messianico mandato: schiacciare senza pietà la guerriglia marxista e castigare tutti i responsabili della corruzione che aveva caratterizzato il pessimo e impotente governo di Isabel Perón.

 

Dal 1930, anno in cui un gruppo di militari di idee fasciste rovesciò il Presidente Hipólito Yrigoyen, l'alternanza tra governi democratici e colpi di Stato militari si era riproposta con puntuale sincronia, sostituendo periodi di legalità a regimi autoritari e viceversa. Ma il meccanismo che si innescò quel 24 marzo rappresentò un'esperienza inedita, assolutamente nuova, caratterizzata dalla più malvagia perversione che mente umana avesse potuto concepire.

 

L'assassinio politico era già stato introdotto nella società argentina come un'abitudine generalizzata in cui si contendevano, con cieca ferocia, gruppi parastatali e comandi terroristi di origine marxista o provenienti dal fondamentalismo cattolico. Era una vera orgia di sangue che, da estremi opposti, provocava centinaia di vittime.

 

Accecate dal loro odio omicida, le organizzazioni guerrigliere (Montoneros, ERP, FAR, FAP e altri gruppuscoli) si affrontavano, a prezzo di tante vite, con la AAA. Più tardi, si verrà a sapere che la AAA altro non era che una copertura per la repressione illegale scatenata dai comandanti militari, in collaborazione con i civili che in bande armate loro stessi dirigevano.

 

E' vero, le prime scomparse di persone si erano verificate durante il governo di Isabelita, come quelle di quattro religiosi arrestati tra l'aprile 1975 ed il marzo 1976 (Nelio Rougier, Julio San Cristhbal, Miguel Angel Urusa Nicolau e Pedro Fourcade), dei quali non si seppe più nulla. Lo stesso accadde a cristiani impegnati nella "Pastorale dei Poveri" come Daniel Bombara e José Serapio Palacios, dirigenti della Gioventù Universitaria Cattolica (JUC), al pastore protestante Victor Boinchenko a sua moglie e altri. Tuttavia, questa terribile pratica delle "desapariciones" non era ancora diffusa. Le vittime del terrorismo avevano ancora un nome e un cognome e i loro familiari potevano riavere almeno i loro cadaveri crivellati da colpi d'arma da fuoco per piangerli e a dar loro sepoltura. Fino al colpo di Stato del 24 marzo 1976, il termine "desaparecido" non esisteva. La vita quotidiana era intrisa di una violenza ogni volta più intollerabile, ma ancora non si era fatta strada nella società come un fatto abituale, l'assoluta illegalità del terrore bianco, con lo Stato come braccio esecutore. La gente veniva assassinata in una sanguinosa spirale. Ma erano pochi coloro che scomparivano[1].

 

Con i militari al potere iniziò un'altra storia, simile alla tragedia greca, con lo stesso epilogo funesto, luttuoso, ma aggravato dal dramma dell'impossibilità di recuperare la salma della per sona cara. La dittatura militare mise in pratica un programma sistematico di sterminio del "nemico" (fossero questi militanti, ideologi, o semplici simpatizzanti) senza precedenti nella storia dell'Occidente, a cui seguì l'ulteriore scomparsa dei cadaveri delle vittime. La Relazione "Nunca Mas" della Commissione Nazionale sulla Scomparsa delle Persone (CONADEP) parlò a suo tempo (1984) di 8.961 casi, ma si tratta di un numero approssimato per difetto, senza che si sia potuto, fino a ora, precisare con esattezza il numero delle vittime[2].

 

D'altro canto, in quell'anno ancora non si aveva un'esatta dimensione di un'altra pratica agghiacciante che poi sarebbe venuta alla luce: i cosiddetti "trasferimenti". Si trattava di persone che, prelevate dai campi di concentramento, erano gettate nell'Oceano Atlantico dagli aerei militari, ancora vive e intontite con iniezioni a base di pentotal. Questo trattamento fu riservato a centinaia di oppositori al "Processo", come i generali avevano chiamato il loro governo.

 

La pratica delle scomparse presupponeva una ripugnante viltà dei capi militari, che non avevano il coraggio di assumersi le loro responsabilità. E questo rende più spregevole lo sterminio sistematico che praticarono da quando s'impadronirono del potere. A1 cospetto di quella guerriglia allucinante che aveva condotto la sfida a un punto di non ritorno, avrebbero dovuto agire secondo legge inquadrando ‑ come minimo ‑ i terroristi all'interno del codice militare vigente. Ma non lo fecero. Optarono per la repressione indiscriminata, per la tortura illimitata e per la ignominia delle scomparse, a cui seguiva la più completa negazione di quanto accadeva. Fu una sorta di esasperazione della politica "Notte e Nebbia" messa in atto dal nazismo.

 

Pagarono con la propria vita migliaia di giovani, il cui maggior delitto era stato quello di sognare un mondo più giusto e umano e il loro maggior errore credere che quell'Eden si poteva raggiungere con l'uso della violenza, seguendo le illusioni alimentate dall'ideologia marxista. Intanto i capi della guerriglia, quando capirono che la disfatta era vicina, si misero subito in salvo in Europa, abbandonando al loro destino migliaia di militanti. Si calcola che nel momento culminante dell'offensiva guerrigliera furono circa 150.000 i giovani che seguirono l'idea di ripetere e far trionfare in Argentina la lotta dei contadini di Cuba o l'azione dei guerriglieri del Vietnam. Buona parte di loro lo fece ricorrendo all'azione terrorista, che durante il governo di Isabel Perón raggiunse livelli intollerabili.

 

Ma in un paese con deboli convinzioni democratiche, come era l'Argentina degli anni settanta, le Forze Armate li aspettavano al varco, spinte dal tenace desiderio di annientarli. Lo sterminio avvenne in quell'ombra nera e senza contorni che divorò una parte della gioventù argentina, la più nobile e generosa, dotata di una sensibilità a volte evangelica verso i bisognosi, in un generalizzato e indifferente silenzio. Perché nulla di ciò che accadde sarebbe stato possibile senza l'esteso ed entusiasta consenso maggioritario che la società argentina diede ai militari in quel 24 marzo 1976 e negli anni successivi.

 

Il consenso esisteva realmente. Il lettore europeo può supporre che, preso il potere, la prima cosa che dovettero fare i militari fu di schiacciare una caparbia resistenza di ampi settori della società. Non fu così. Se nel Cile di Augusto Pinochet tale resistenza esistette e si manifestò nei primi mesi del colpo di Stato, in Argentina non ci fu. La "maggioranza silenziosa" era d'accordo con i generali, perché era stanca di vivere nell'insicurezza e nella paura derivanti dalla crescita incontenibile dell'eversione. E desiderava fortemente che occupassero il potere quei militari "seri, onesti e austeri", la cui immagine più rappresentativa era quella del nuovo Presidente, il generale Jorge Rafael Videla.

 

Nemmeno il movimento sindacale, in un Paese con una lunga e forte tradizione di lotte e resistenza corporativa, fu autore di fatti contrastanti se si eccettuano alcune ore di sciopero nella fabbrica Ford e tra il personale di "Luz y Fuerza" e delle Ferrovie dello Stato nel dicembre 1976. Ma furono episodi sporadici, senza conseguenze di rilievo.

 

Nel biennio 1976‑77 le scomparse raggiunsero una dimensione agghiacciante. Le famiglie presentavano ricorso di "habeas corpus" che seguivano un iter giuridico inutile e inconsistente, senza alcun esito per il rinvenimento e la liberazione della vittima privata illegalmente della sua libertà. I giudici risolvevano la questione sempre allo stesso modo: non mandavano in porto le pratiche legali argomentando che non esistevano prove certe che la persona fosse detenuta. L'unica speranza che ai tribolati parenti rimaneva era la possibilità che lo scomparso fosse "blanqueado". Nell'argot poliziesco dell'Argentina di quegli anni "blanquear" significava ottenere che le autorità militari riconoscessero che l'eventuale scomparso era nelle loro mani, in qualche prigione o campo di concentramento. Equivaleva, almeno provvisoriamente, a un certificato di esistenza in vita. E questo va tenuto particolarmente in conto per valutare, più avanti, l'importanza dei buoni uffici del Nunzio Laghi.

 

Nel Paese si era instaurato un clima di terrore. Bastava apparire sull'agenda di un presunto sovversivo, aver realizzato qualche attività compromettente all'Università o nel movimento sindacale o, semplicemente, essere in possesso di libri considerati pericolosi per cacciarsi in una situazione altamente rischiosa.

 

Immediatamente dopo il colpo di Stato il grado di violenza raggiunse la sua massima espressione. Basterebbe prendere un trimestre dell'anno 76 per confermarlo. Cifre elaborate da organizzazioni internazionali indicano che, solo negli ultimi tre mesi, la guerriglia provocò, con altrettanti atti terroristici, 646 vittime. Una cifra che equivaleva, quasi, a due assassinii al giorno. Era stata raddoppiata la cifra dell'anno precedente (346), ed era sei volte superiore a quella del 1974.

 

Nemmeno nell'Irlanda del Nord, devastata dall'odio religioso, si uccideva con pari accanimento. Soltanto potrà essere ravvisata una similitudine nelle guerre civili che avrebbero insanguinato, pochi anni dopo, il Nicaragua e El Salvador.

 

Le sfide delle bande armate erano sempre più ambiziose. Nel trimestre di cui abbiamo parlato, i terroristi uccisero otto importanti imprenditori e dirigenti aziendali e tre alti capi militari, per culminare la loro "escalation" in un attentato di proporzioni enormi che destò grande impressione e indusse a far credere che gli eversivi erano tanto forti da poter colpire indiscriminatamente, come e quando volevano. Il 2 luglio fu collocato un poderoso ordigno all'interno della Sovrintendenza della Polizia Federale, il vero "cuore" della repressione, provocando 18 morti e 66 feriti, almeno una dozzina dei quali orrendamente mutilati. Fu un episodio senza precedenti, che gelò il sangue nelle vene degli argentini. E la risposta fu, come non poteva essere altrimenti, l'accentuarsi della repressione indiscriminata da parte dello Stato fino ad estremi a quel momento stimati inconcepibili.

 

* * *

 

A Monsignor Laghi non risultò facile adattarsi alla scellerata situazione argentina. Lo spettacolo che si presentava ai suoi occhi era veramente singolare. I militari erano arrivati al potere per garantire la sicurezza e i diritti delle persone ma, in nome di Cristo, violavano i più elementari principi umanitari del cristianesimo. E i guerriglieri, accecati dell'odio contro i ricchi e i potenti, ammazzavano per strada umili poliziotti o soldati di leva in divisa, arrivando allo sproposito di uccidere i simpatizzanti del peronismo in nome di Peron. Era un vero delirio, che portava inesorabilmente verso ulteriori lutti e disgrazie.

 

Il Nunzio Laghi cercò di dare il suo contributo a qualche parvenza di razionalità, applicandosi con tutte le sue energie al compito di mettere la Chiesa argentina in condizioni di affrontare le grandi sfide della grave crisi istituzionale che colpiva il Paese. La situazione era carica di insidie. E lui aveva capito molto bene che non avrebbe dovuto mai interferire con la sfera d'azione dell'Episcopato nazionale. Quest'ultima era, infatti, una delle raccomandazioni decisive del documento "Sollicitudo onmium Ecclesiarum" del 1969 che Paolo VI aveva approvato e che Laghi era deciso a rispettare a tutti i costi. Nella "Sollicitudo" si precisava che la missione dei Nunzi non era quella di interferire con gli Episcopati locali ne di sostituirsi a essi, ma "rispettarli e sostenerli con fraterno e discreto consiglio". Si specificava poi che potevano dare istruzioni al clero locale solo se richieste dalla Santa Sede.

 

Questo va tenuto in somma considerazione, perché si tratta di un principio valido, dal quale il Nunzio Laghi non si discostò mai fino all'ultimo giorno della sua missione in Argentina e che va giudicato come una chiave interpretativa fondamentale per capire il suo operato. Pochi sanno che lo stesso Laghi aveva collaborato alla stesura di quel documento, lavorando con l'allora Segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, il futuro Cardinale Antonio Samore[3]. Monsignor Jorge Meja[4] ha scritto che la cosa più urgente che Laghi si trovò ad affrontare in Argentina nei primi anni del suo mandato fu quella di dare fiducia alla Chiesa e rendere più efficace e fermo il suo governo, tenendo presente le difficili circostanze che il Paese viveva e a cui il clero non poteva rimanere estraneo.

 

Su quel clero si addensavano nuvoloni sempre più minacciosi, che si erano manifestati in una nuova tragedia ai primi di febbraio, poche settimane prima del colpo di Stato militare. Fu rinvenuto il cadavere barbaramente torturato di José Tedeschi, un sacerdote salesiano ridotto allo stato laicale. Tedeschi era stato arrestato il 2 febbraio 1976 a Bernal. Non solo la sua morte causò profonda impressione ‑ non era il primo sacerdote o ex sacerdote assassinato ‑ ma l'accanimento delle torture a cui lo avevano sottoposto. Evidentemente, la barbarie repressiva non conosceva freni inibitori.

 

Il 17 febbraio la Commissione Esecutiva della Conferenza Episcopale Argentina (CEA) diffondeva un comunicato in cui ricordava che "l'assassinio di un sacerdote riveste particolare gravità e costituisce sacrilegio". E avvertiva: "Malgrado il nostro fango, i sacerdoti per decreto divino sono unti del Signore e di sua pertinenza. Cristo ci liberi da questa notte di angosce e trasformi il sangue dei fratelli morti nella tanto agognata rappacificazione"[5].

 

Questo crimine colpì profondamente Laghi. Volle ricorrere al governo di Isabelita, già agonizzante, ma il clima di disgregazione che imperava non gli fece trovare alcun interlocutore valido. La vedova di Peron era a un passo dal baratro, sconfitta in anticipo dai militari che si preparavano a prendere il potere. Per Laghi, l'omicidio di Tedeschi fu un forte campanello d'allarme. Capì che non poteva rimanere alla finestra di fronte a simile catastrofe e che doveva trasformarsi in un punto di riferimento essenziale per quelli che esercitavano il ministero ecclesiale o volevano servire la Chiesa come laici impegnati, qualunque fosse il carattere di questo impegno.

 

Ma per agire in questo senso il Nunzio doveva superare una doppia sfida. Da una parte, riuscire a trasmettere al clero argentino gli insegnamenti innovativi di Paolo VI e, dall'altra, appoggiarlo nella missione pastorale da compiere. In altre parole, aiutarlo a essere in grado, sulla traccia degli insegnamenti della Chiesa, di affrontare la sfida nelle migliori condizioni possibili. Tutto ciò non era affatto semplice per un Episcopato che ancora non aveva respirato la salutare brezza primaverile del Concilio Vaticano II. Alle reticenze fortemente radicate quanto alla sua applicazione, corrispondevano all'estremo opposto fermenti di inquietudine, gesti di impazienza e di intolleranza, forse come logica reazione alla paura che mostrava buona parte dell'Episcopato per conformarsi ai nuovi tempi.

 

Per Laghi, in assoluta sintonia col Papa, era motivo di crescente allarme notare come aumentasse il numero di giovani che, esaltati da discorsi carichi di illusioni, facevano una scelta di vita e andavano oltre la solidarietà concreta in favore dei bisognosi, abbracciando la strada tanto esaltante come incerta della violenza intesa come strumento per il raggiungimento della giustizia.

 

Gli anni settanta furono per i cattolici di tutto il mondo un periodo di turbamento, che mise in discussione il loro ruolo nella società laica, sospinti dalla dottrina vigente del Concilio Vaticano II. Per molti cattolici emergeva, irrefrenabile, la necessità di lasciarsi coinvolgere nelle battaglie e nelle rivendicazioni sociali. E questo impulso era molto forte nei Paesi sottosviluppati, segnati da forti disuguaglianze sociali, come l'Argentina. L'esigenza di coerenza con il Vangelo imponeva a quei cattolici di essere sensibili alla povertà, alle sofferenze dei bisognosi, al richiamo in favore di una solidarietà attiva, traducendo in pratica politica ogni gesto o parole e impegnandosi sul piano sociale.

 

Anche il Maggio francese del 1968 era stato per i giovani un altro forte impulso a favore d'una enfatizzazione di queste richieste in favore di una società più giusta, con scuole migliori e una università aggiornata e aperta a tutti. Ma nello stesso 68 si era andati più in là e avevano fatto la loro comparsa la violenza e l'intolleranza che avrebbero contrassegnato il movimento studentesco in alcuni Paesi europei.

 

In Argentina, l'esigenza di essere "coerenti con il Vangelo" si tradusse in una drastica radicalizzazione di alcuni settori della Chiesa e di giovani laici cattolici che in essa agivano, con un'esasperazione ben marcata del loro impegno sociale. Una linea molto debole, a volte impercettibile, separava i sacerdoti che si sforzavano di leggere il Vangelo "dentro" i dettami postconciliari da coloro che interpretavano capziosamente la missione pastorale, legittimando e propiziando la scelta della lotta armata come unico mezzo valido per combattere l'ingiustizia. Sognavano con "Che" Guevara e con Ho Chi Minh, senza capire che la realtà politica e sociale dell'Argentina non aveva niente a che fare con quella di Cuba o del Vietnam.

 

Nel 1996, due decenni dopo, il clero argentino fece un'importante autocritica del suo atteggiamento di allora, tramite un documento della CEA, nel quale i vescovi ammisero di non essere stati attenti e diligenti verso gli eccessi della repressione militare ma riconoscendo di aver anche dato protezione a quelli che, con le loro prediche, avevano sobillato i giovani a scelte estremiste.

 

Si legge: "Dobbiamo riconoscere che vi furono cattolici che giustificarono e praticarono la violenza sistematica alla stregua di "liberazione nazionale" tentando la presa del potere politico e la creazione di una nuova società, ispirata all'ideologia marxista, coinvolgendo purtroppo molti giovani"[6].

 

Si tratta di una presa di posizione globale, degna di rispetto. Ma, in questi anni trascorsi, i "mea culpa" individuali non abbondarono. Non sono stati molti quei sacerdoti che, dopo aver abbracciato un'interpretazione esasperata del Vangelo ed essere usciti vivi da quella prova, hanno fatto ciò che fece con grande umiltà un Vescovo argentino, Monsignor Justo Oscar Laguna, noto per le sue critiche al "Processo" e ai militari, ma senza essere ricorso mai ad atteggiamenti e discorsi estremisti. Laguna fece pubblicamente un profondo esame di coscienza chiedendosi se le sue prediche, in qualche momento, si fossero trasformate in perversi canti di sirena atti a illudere tanti giovani che sognavano un mondo più umano e giusto. Non tutti hanno, al riguardo, la credibilità del Vescovo di Moron quando dice che si sente tranquillo perché nessuna sua predica o affermazione "furono d'incitamento alla violenza guerrigliera per i giovani"[7].

 

Fu proprio Monsignor Laguna a sostenere la teoria che in Argentina, negli anni settanta, si affrontarono due demoni indefessi nella loro vocazione al male, ossia i militari e i guerriglieri. E, successivamente, fece una distinzione fondamentale, che ci trova completamente d'accordo: il demonio dei primi fu "incomparabilmente più grave" perché loro (i militari) rappresentavano lo Stato e questo avrebbe dovuto custodire la legge, non violarla sistematicamente.

 

E' opportuno ricordare che, già prima di quel tragico 1976, quel grande Papa dell'apertura sociale che fu Paolo VI si era reso conto che avrebbe dovuto porre un freno alla crescita, soprattutto in America Latina , del Movimento dei Sacerdoti del Terzo Mondo. Durante il suo pontificato, Paolo VI pubblicò sette Encicliche, alcune delle quali, come la "Humanae vitae", l"'Ecclesiam suam" e la "Populorum Progressio" ebbero un forte impatto sui giovani argentini per la loro carica umana e la loro visione solidale delle relazioni sociali con il mondo sottosviluppato. La "Populorum progressio" era stata accolta con freddezza e forti critiche dai gruppi conservatori della Chiesa e da settori economici interessati. Negli Stati Uniti, in particolare, la consideravano ‑ per l'accento che poneva sullo "sviluppo di ogni uomo" e "per tutti gli uomini" ‑ come una sorta di "marxismo riscaldato". A tutti i critici della "Populorum Progressio" avrebbe controbattuto il Presidente della Commissione "Giustizia e Pace", il Cardinale africano Bernardin Gantin, affermando che quell'Enciclica rappresentava la "Magna charta degli uomini bisognosi".

 

Ma quest'apertura e una maggiore sensibilità di fronte ai problemi sociali che Paolo VI aveva introdotto nella Chiesa avevano contribuito, ‑ senza volerlo ‑, a incrementare, in forma allarmante, i movimenti estremisti e radicalizzati che, facendosi scudo di una lettura unilaterale dei documenti dottrinali, e rivendicando il diritto di agire a titolo cristiano, avevano iniziato a legittimare l'uso della violenza per correggere le situazioni di ingiustizia e di sfruttamento esistenti.

 

Paolo VI nell'ultimo quinquennio della sua vita (1974‑78) fu un Papa sofferente, profondamente addolorato per le critiche e i malumori che gli giungevano dall'interno stesso della Chiesa, da parte di coloro che, interpretando estremisticamente e da posizioni di sinistra il suo magistero, chiedevano una maggiore radicalizzazione dei pronunciamenti e del servizio in favore dei bisognosi. Era una pressione crescente che a Paolo VI faceva molto male. Fu in uno dei suoi momenti di maggiore sconforto che coniò quella frase rimasta poi famosa: "Il fumo di Satana si è introdotto nella Santa Chiesa".

 

Era stato quel Paolo VI, preoccupato e con una forte carica di angoscia nel suo animo, che aveva dato al Nunzio Laghi istruzioni ben precise prima della sua partenza per Buenos Aires. Gli aveva chiesto di dedicarsi immediatamente nella sua nuova missione all'impresa di "aprire" la Chiesa argentina al Concilio Vaticano II ma anche di "chiuderla" agli estremismi che proponeva la "Teologia della liberazione". Un lavoro complesso e particolarmente impegnativo.

 

Quelli furono anni di acceso dibattito in seno alla Chiesa dell'America Latina. La Conferenza Episcopale Latineamericana (CELAM) era stata creata a Rio de Janeiro nel 1955 e si trasformò in una forte fucina per la diffusione dei contenuti del Concilio Vaticano II. Più tardi, la Conferenza di Medellin, inaugurata dallo stesso Papa Paolo VI, aveva in un certo senso incoraggiato questa "Teologia". I risultati erano stati preoccupanti, con il dilagare degli estremismi in seno alla stessa Chiesa latinoamericana. In quei tempi, il Presidente del CELAM era il futuro Cardinale argentino, Eduardo Pironio. Di fronte a questa situazione, Paolo VI intervenne e diede un forte cambio di rotta collocando alla Segreteria Generale l'allora Vescovo Ausiliare di Bogotà ‑ e oggi Cardinale ‑ Monsignor Alfonso López Trujillo. La missione fondamentale del prelato colombiano era quella di preparare il CELAM alla Conferenza di Puebla, che nel 1979 avrebbe presieduto Giovanni Paolo II e nella quale la "Teologia della liberazione" avrebbe subito una chiara e inoppugnabile condanna. La stessa che, d'altronde, era gia presente nei gesti e nelle parole di Paolo VI.

 

Di questo problema uno degli autori di questo libro parlò, poco prima che morisse, con il Cardinale Agostino Casaroli. Fu in occasione di un'intervista su un'altra questione, la mediazione pontificia per il conflitto di Beagle[8]. Il porporato, con la finezza che lo caratterizzava, disse: "Ricordo benissimo il travaglio di quei tempi e io, che sono sempre stato un uomo favorevole alle aperture, credetti che in quel momento si rendeva indispensabile una chiusura, dato lo scompiglio che le esagerazioni interpretative del Concilio Vaticano II avevano provocato in America Latina". Una definizione elegante ma di una chiarezza cristallina sullo stato d'animo che all'epoca avevano Paolo VI e la Curia Romana a causa di tali esasperazioni dottrinali.

 

Un Vescovo argentino, Monsignor Enrique Angelelli, pastore della Diocesi di La Rioja, era in Argentina l'uomo di punta di questa tendenza. Sinceramente "attratto" dal Movimento dei Sacerdoti del Terzo Mondo, era visto in Vaticano come una sorta di simbolo per questi preti che cercavano la giustizia con metodi e discorsi che, per la gerarchia, erano "preoccupanti", per dirla con le parole usate da Casaroli.

 

Quando alcuni Vescovi vennero a Roma per la visita "ad limina" e Paolo VI li ricevette, a uno a uno, Angelelli notò che la sua udienza veniva continuamente rinviata. I1 Papa lo fece attendere quasi un mese. Era in totale disaccordo con lui per una serie di eterodossie dottrinali che considerava estemporanee per i fedeli della sua Diocesi. Alla fine, quando decise di riceverlo, Paolo VI lo trattò con freddo distacco. Ascoltò la sua lunga esposizione senza assentire, interrompendolo solo una volta, quando il Vescovo gli disse che, con il suo fervore cattolico, "La Rioja salva Cristo". Paolo VI gli rispose, gelidamente: "No, Angelelli, Lei si sbaglia, e La Rioja che si salva 'in' Cristo".

 

Terminata l'udienza, Paolo VI con tono perentorio gli disse: "Bene, Monsignore, torni domani, che le assegnerò le istruzioni a cui attenersi quando farà ritorno alla sua Diocesi". Era una lettera personale con le norme pastorali da seguire, attinte dalle fonti dottrinali ed escludendo stravaganze estremiste. Dell'episodio, che sopravvive solo nella memoria di alcuni vecchi vaticanisti, rimane conferma in un fatto che, per il rituale vaticano, è sempre carico di enorme significato. La Prefettura della Casa Pontificia aveva dato precise istruzioni: nessun fotografo avrebbe dovuto immortalare l'incontro. Chiunque si metta a curiosare nell'archivio de "L'Osservatore Romano", potrà convalidarlo. Non ci sono fotografie di Paolo VI con lo "scomodo" Vescovo Angelelli.

 

Ma non si trattava, nel caso di questo pastore ‑ che poco dopo sarebbe stato vittima immolata dalla furia repressiva dei militari ‑ di una questione personale. Monsignor Angelelli aveva avuto la sfortuna di essere ricevuto da Paolo VI in uno dei suoi momenti di maggiore preoccupazione per la "Teologia della liberazione". I1 Pontefice era allarmato dal pericoloso radicalismo di due o tre congregazioni religiose e dalla esagerata proliferazione in alcune Diocesi di sacerdoti terzomondisti. In quella di Rosario, per esempio, Monsignor Guillermo Bolatti aveva dovuto sospendere "a divinis" una ventina di tali sacerdoti.

 

In quei problematici anni settanta, i Vescovi argentini che avevano compreso le esigenze di apertura che derivavano dal Concilio Vaticano II e dal magistero di Paolo VI ed erano disposti ad agire in quel senso, costituivano una netta minoranza. Tra di loro, c'erano alcuni che avevano raggiunto livelli di forte radicalizzazione teologica e pastorale. Erano i casi del citato Angelelli e di Monsignor Carlos Ponce de Leon, Vescovo di San Nicolas de los Arroyos. Il primo pagò con la vita la sua catechesi e le sue omelie il 4 agosto 1976, quando il veicolo su cui viaggiava lungo una strada desolata de La Rioja fu travolto da un'altra macchina che lo ribaltò.

 

Il mattino seguente, il suo cadavere ‑ con il cranio sfondato ‑ fu ritrovato ad una distanza di 25 metri dal luogo della tragedia. Le perizie giudiziali avrebbero dimostrato che il prelato non era stato sbalzato fuori né dal parabrezza né dagli sportelli del veicolo.

 

Senza dubbio alcuno, si trattava di un omicidio. Il suo funerale a La Rioja fu una grande espressione di dolore popolare. Laghi vi assistette con altri dieci Vescovi. A1 suo rientro a Buenos Aires elevò un'energica protesta alle autorità, dicendo: "Devono dimostrarmi il contrario di quanto io suppongo sia accaduto"[9]. E informò subito la Santa Sede degli indizi che facevano presumere che si era trattato di un assassinio. Il Cardinale Pironio, a Roma, confidò al teologo Jose Miguez Bonino che, dopo questa relazione, in Vaticano non ci furono più dubbi sulla questione e che solo si attendeva l'intervento della Conferenza Episcopale Argentina per esprimere una forte e inappellabile condanna[10]. Ma questo intervento non ebbe mai luogo. A1 contrario, il Cardinale Aramburu dichiarò a Tucuman che non c'erano prove concrete per parlare di un crimine. Fino ad oggi, i colpevoli non sono stati né identificati né puniti.

 

Monsignor Ponce de Leon, che manteneva posizioni quasi coincidenti con i Sacerdoti del Terzo Mondo, morì l'11 luglio 1977 in un ulteriore sospetto incidente automobilistico mentre si recava dall'Arcidiocesi di Santa Fe a Buenos Aires. Sulla questione non si è fatta luce. La relazione "Nunca Mas" de la CONADEP afferma che Monsignor Ponce de Leon era in possesso di documenti compromettenti destinati alla Nunziatura Apostolica riguardanti il comportamento di alcuni generali. Queste carte non furono mai rinvenute.

 

Ma per agire in favore dei più bisognosi non era inevitabile scadere negli estremismi dei Monsignori Angelelli e Ponce de Leon. Così lo avevano capito altri Vescovi argentini che, quando Laghi arrivò a Buenos Aires, già erano ai loro posti. Citiamo, affinché la memoria rammenti con ammirazione il loro impegno pastorale, i Monsignori De Nevares, del quale già abbiamo parlato e torneremo a farlo, e Vicente Faustino Zaspe (Arcivescovo di Santa Fe), i Vescovi Jorge Kemerer (Posadas), Juan Jose Iriarte (Reconquista) e Alberto Devoto (Goya), quest'ultimo un vero "santo" nella sue costante intercessione a favore dei poveri. Senza dimenticare il settantenne Arcivescovo di Azol, Monsignor Manuel Marengo. Su di lui, dal 1975, esercitò un sano ascendente il suo Ausiliare, Monsignor Emilio Bianchi di Carcano, attuale primo Vice Presidente della Conferenza Episcopale Argentina.

 

Di pari valori umani e pastorali è Monsignor Bernardo Witte, successore nella Diocesi di La Rioja di Monsignor Angelelli (fu Laghi che lo propose ed è ancora in carica dal 14 aprile 1977). Tutti questi coltivarono un'intensa e permanente relazione con il Nunzio.

 

Ma questo elenco non deve indurre a erronee considerazioni. In effetti, quando nel marzo del 1976 i militari occuparono il governo, il gruppo dei Vescovi che spalleggiò la loro presa del potere fu numeroso e si mostrò subito forte e agguerrito nell'appoggiare la "crociata" che, in nome di Dio, i generali avevano scatenato. La loro influenza fu ancora più consistente per il fatto che la maggior parte dei membri della Conferenza Episcopale (le Arcidiocesi e Diocesi erano più di sessanta) si mantenne nell'imparzialità, aumentando così il solco che divideva i due schieramenti.

 

Affrontando le difficoltà che emergevano dalla complessa situazione generale, Laghi continuò a dedicarsi con tutte le sue forze al rinnovamento dell'episcopato. Un compito che passò anche attraverso la creazione di cinque nuove Diocesi, quelle di San Miguel, Santo Tomé, Santa Maria del Patrocinio a Buenos Aires per gli Ucraini, Zárate‑Campana e Quilmes. In queste ultime due Laghi propose due Vescovi che sono una totale garanzia di solidità dottrinale e impegno pastorale: Monsignori Alfredo Esposito, già emerito, e Jorge Novak, attuale Vescovo di Quilmes.

 

Gli ostacoli da superare erano non indifferenti. Per decenni, si era andata consolidando in Argentina una struttura episcopale che si rivelava ancor più anacronistica e sclerotizzata nella misura in cui gli eventi precipitavano. Per cambiarla, Laghi dovette, talvolta, sollecitare con fermezza la rinuncia di alcuni Vescovi più anziani di 75 anni d'età ma che resistevano al loro posto, forse grazie alla protezione del potere politico di cui godevano. Così si spiega il caso del Cardinale Caggiano, Arcivescovo di Buenos Aires e Primate di Argentina. Altra prova di resistenza l'aveva data Monsignor Buteler che quando morì nel 1974, aveva 82 anni e, nonostante l'età, era ancora a capo dell'Arcidiocesi di Mendoza.

 

Ma nello spirito di Laghi c'era mestizia, anche se i risultati che via via andava ottenendo erano incoraggianti. L'Argentina si era trasformata in un pozzo oscuro, un pantano infido che inghiottiva i suoi figli, fossero essi colpevoli o innocenti. Per i militari repressori, non faceva differenza se uno impugnava la mitragliatrice o si limitava ad esprimere una qualche simpatia o connivenza con gli eversivi o appariva (per errore o per pura casualità) nell'agenda di qualche guerrigliero.

 

Come in seguito avrebbe descritto un documento sui diritti umani, presentato dal Dipartimento di Stato nordamericano al Congresso degli Stati Uniti, "le forze di sicurezza si lanciarono ad una controffensiva generale di violenza che ebbe come obiettivi non soltanto i terroristi ma anche individui che, considerati "sovversivi" seppur privi di precedenti come tali, furono fatti scomparire, mentre altri furono imprigionati e messi a disposizione del Potere Esecutivo in virtù dello stato d'assedio, senza che esistesse contro di loro la più minima e specifica imputazione"[11].

 

L'Assemblea Permanente dei Diritti Umani (APDH) compilò a Buenos Aires una lista di 6.500 casi di "desaparecidos" solo nel periodo 1976‑79, ossia nei primi quattro anni della dittatura militare, durata fino al 1983. Altre istituzioni, come l'Associazione di Avvocati di New York ,che visitò l'Argentina nel 1979, e Amnesty International hanno stimato che la cifra in questo triennio è molto più alta. La Nunziatura Apostolica, per ammissione di Laghi, arrivò ad interessarsi a più di 5.000 casi.

 

I1 Nunzio aveva accettato quasi con fatalistica rassegnazione la presa del potere da parte dei generali. Aveva capito che lo scontro tra gli opposti estremismi aveva raggiunto un livello di tale delirio che la repressione avrebbe avuto caratteristiche di "alta chirurgia". Questo lo angosciava ma non poteva far nulla per impedirlo. Poteva solo consigliare a qualche capo militare, con cui manteneva contatti, la moderazione per non incorrere in esecrabili eccessi. Così, nei primi mesi del "Processo", aspettò che l'azione repressiva si esaurisse il più rapidamente possibile, credendo che, poi, le acque si sarebbero calmate e si sarebbe intrapresa la via di una progressiva riappacificazione.

 

Sbagliava, perché quello in atto era un vero sterminio, programmato con brutale meticolosità e reso più devastante ancora per la tracotante superbia della guerriglia. I due demoni di cui parlava Monsignor Laguna erano infaticabili nella loro voglia malvagia di distruzione e di morte.

 

Intanto, si incominciò a verificare nelle giornate di Laghi un fenomeno completamente nuovo e inaspettato. Alla Nunziatura Apostolica, evitando alla meglio la stretta vigilanza che esercitavano i fanti della Marina, arrivava un numero crescente di persone che chiedevano di parlare con lui. Laghi le riceveva e le ascoltava. Tutti, dopo colloqui che a volte raggiungevano toni drammatici, imploravano la sua intercessione a favore di familiari e amici che erano stati prelevati con la forza dalle loro abitazioni, sul posto di lavoro o semplicemente per la strada. Portati via con la violenza, di queste persone si erano perse le tracce.

 

Tutte le verifiche fatte erano risultate vane. I sequestrati erano scomparsi nel nulla, inghiottiti dal vuoto. Disperati, i visitatori non sapevano che fare ne dove andare per tentare di localizzarli, giacche le autorità militari negavano di avere la minima informazione su quanto poteva essere loro accaduto. Era incominciata la tragedia dei "desaparecidos".

 

Le richieste di aiuto iniziarono ad arrivare a Laghi il giorno seguente al 24 marzo 1976, poche ore dopo il colpo di Stato militare. Dapprima, Laghi dovette interessarsi per la sorte di non pochi membri e funzionari del Governo rovesciato e di deputati, senatori, sindacalisti e militanti del Partito Giustizialista sui quali si scatenò l'iniziale foga repressiva dei militari.

 

La prima persona alla quale presto la sua assistenza umanitaria fu la stessa ex Presidente, Isabelita Perón. Detenuta e vittima di duri maltrattamenti, era stata rinchiusa in "El Messidor", una inaccessibile residenza di montagna nella lontana e inospitale Patagonia. Dopo pochi giorni di carcere, erano arrivate a Laghi notizie che la donna era trattata dai suoi custodi con durezza e che, nei rari momenti di tranquillità che i militari le lasciavano, chiedeva il suo aiuto e la sua assistenza spirituale. A conoscenza della situazione che la deposta Presidente pativa, Laghi inviò a "El Messidor" il Presidente della Conferenza Episcopale, Monsignor Tortolo. Questi, per la sua carica di Vicario Castrense, aveva il compito di confortare Isabelita e mitigare le sue sofferenze. Mentre Tortolo volava verso il remoto Sud della Patagonia, Laghi iniziava intensi contatti presso i comandi militari per riscattare la donna dall'umiliante situazione in cui si trovava, aggravata dal rigido inverno che si avvicinava.

 

Monsignor Laghi parlò, chiese, invocò comprensione e spirito umanitario. Poiché l'ex Presidente si trovava sotto la giurisdizione della Marina, il principale destinatario delle sue richieste fu l'ammiraglio Massera, che oltre a essere Comandante era uno dei tre membri della Giunta Militare che si era trasformata nella massima autorità del Paese. Alla fine, Laghi ottenne che Isabelita fosse trasferita a una base che la Marina aveva ad Azol, 300 chilometri a Sud di Buenos Aires, dove rimase sotto rigida custodia militare. Laghi aveva fatto pressione in tal senso perché sul posto c'era un cappellano militare di sua fiducia, tramite il quale avrebbe potuto stabilire contatti assidui e più o meno continuativi con la donna, di grande fede cristiana, che non nascondeva la sua riconoscenza per l'assistenza spirituale a lei riservata dal Nunzio.

 

La vedova di Perón, accusata senza prove di sperpero di denaro, viveva in quella base militare da molti mesi, resistendo con grande dignità all'assedio dell'ammiraglio Massera che avanzava pretese politiche e voleva servirsi dell'ascendente che sulle masse popolari esercitava il suo cognome per strumentalizzarlo a suo vantaggio. Finalmente, le richieste di Laghi ebbero successo. Alla donna fu concessa la possibilità di continuare la sua prigionia in una villa di campagna, a San Vicente, dove Laghi le fece visita due volte, ricevendo nuovamente le espressioni di gratitudine della donna per i buoni uffici interposti. I1 prelato non ottenne il suo rilascio ma le condizioni di vita della detenuta migliorarono nettamente.

 

Intanto, il Nunzio aveva trasformato quasi in una "routine" quotidiana il bussare alle porte del potere militare per chiedere notizie di molti funzionari e deputati peronisti che, detenuti o "chupados" ("succhiati", termine abituale nel gergo argentino dell’epoca) nelle retate che seguirono al colpo di Stato, erano spariti nella notte, senza che si conoscessero non solo il loro destino ma neanche le ragioni della loro cattura.

 

La lista delle persone per le quali Laghi intercedeva cominciò ad allungarsi. Ci limiteremo per ora a due casi, verificatisi immediatamente dopo la presa del potere da parte dei militari.

 

I1 primo fu quello di un deputato peronista, Ruben "Chacho" Contesti, che appena ventiseienne era il deputato più giovane e inesperto del Parlamento argentino. Appartenente alla corrente giovanile che sosteneva la Presidente Isabelita e malgrado si trovasse ai ferri corti con i guerriglieri "Montoneros" – cresciuti dentro lo stesso peronismo ‑ e con la sinistra del partito, Contesti cadde in una retata militare 24 ore dopo il colpo di Stato. Per 10 giorni fu dato per scomparso. Nessuno sapeva che si trovasse detenuto nell'edificio Libertad, sede della Marina, insieme ad altri militanti peronisti, isolato e in pessime condizioni igieniche, sebbene non sottoposto a torture.

 

Trascorsi diversi giorni senza essere riusciti a sapere assolutamente nulla di lui, i suoi amici e familiari ricorsero a Laghi, ricordando che tra il Nunzio e il giovane deputato esisteva una cordiale amicizia. Già si era sparsa la voce che la Nunziatura Apostolica era uno dei pochi luoghi in cui tali richieste potevano venire ascoltate. Interpellato, Laghi diede inizio al suo pellegrinaggio per i comandi militari, informandosi non solo di Contesti ma anche di altre persone delle quali non si sapeva più niente. I risultati erano frustranti. Nel caso del giovane deputato Contesti, l'Esercito diceva che era nelle mani della Marina, la Marina dell'Esercito e così via. Laghi, conscio che i suoi uffici non conducevano a nulla, si decise di rivolgersi direttamente all'ammiraglio Massera. L'alto ufficiale, incalzato dalle sue pressanti sollecitazioni, ordinò ai suoi subordinati che localizzassero subito Contesti e che, se non esistevano accuse gravi e concrete contro di lui, fosse liberato. La mattina del 5 aprile seguente, ossia dieci giorni dopo la sue detenzione, privo di documenti, con la barba lunga e vestito con la stessa maglietta e gli stessi pantaloni con cui era stato arrestato, il giovane lasciò la prigione.

 

A maggio del 1998, in un bar del quartiere Prati a Roma, e in occasione di una sua visita in Italia, Contesti raccontò agli autori la sue esperienza in questi termini:

 

"Nel mio caso, quello di Monsignor Laghi fu un intervento provvidenziale e non divenni un "desaparecido" grazie a lui. In quei terrificanti giorni, la gente che cadeva in una retata aveva la vita appesa a un filo. La repressione era capillare, al punto che non si poteva intercedere per nessuno. Fu così che amici mici, catturati, scomparvero o rimasero in galera per anni, pur non avendo colpe di nessun tipo. Monsignor Laghi era una persona intelligente, seria che, gia prima di quel fatidico 24 marzo, aveva avuto sentore della portata della tragedia che stava per travolgere il Paese. Noi ‑ cattolici e giustizialisti ‑ conversavamo frequentemente con lui scambiandoci i nostri timori e la nostra afflizione. Ricordo di averlo udito dire più di una volta che il Generale Perón aveva ragione quando diceva che l'attivismo politico allo stato puro è un suicidio e che la gioventù argentina era troppo politicizzata senza avere cultura politica e si esponeva pertanto a grandi rischi. Naturalmente il Nunzio non era argentino e non poteva emettere giudizi sulla situazione interna del Paese, ma fu un grande appoggio spirituale per tutti noi che vivevamo quella tragedia con infinita angoscia. I gruppi guerriglieri ‑ in particolare i Montoneros ‑ malgrado si dicessero peronisti, erano contro‑rivoluzionari, perché agivano al servizio dei nemici dei settori popolari.

Propiziavano la lotta armata in un paese come l'Argentina, il cui sviluppo sociale, politico, culturale e ideologico era un secolo avanti rispetto a Cuba, Vietnam e Nicaragua, dove allora era in pieno auge il sandinismo. Ciò che facevano era terrorismo puro, che mirava a distruggere il peronismo, l'unico movimento di liberazione nazionale e popolare che, addirittura, era disarmato e indifeso di fronte alla violenza. E' biasimevole, ma in Europa questo non è stato ancora ben compreso e le sinistre continuano a vedere quei guerriglieri come giovani coraggiosi, idealisti, e non come quello che in realtà furono, anche se in maniera inconsapevole: alleati obiettivi dei loro pretesi nemici".

Quando gli abbiamo rammentato che una delle accuse ricorrenti che alcuni critici muovono a Laghi è quella di avere frequentato l'ammiraglio Massera e di aver giocato a tennis con lui, Contesti rispose: "E grazie a Dio... Se non fosse stato così, io oggi non sarei qui, in un bar di Roma, a raccontare le mie peripezie. Sarei stato di sicuro un "desaparecido" in più". Il secondo caso che qui presentiamo ebbe come protagonista una giovane, Zelmira Regazzoli, che ‑ come Contesti ‑ militava nella Gioventù Peronista, fedele al governo di Isabelita. Lei pure finì nelle lugubri galere dei militari e se riacquisto la libertà fu anche grazie all'intercessione del Nunzio Laghi. Oggi, Regazzoli è ambasciatrice argentina in Bolivia e recentemente ha profittato di un viaggio a Roma del Nunzio Apostolico in tale Paese sudamericano, Monsignor Rino Passigato, per far giungere a Laghi un sentito messaggio: "La prego, quando andrà in Vaticano, vada a trovare Sua Eminenza e gli dica che lo ricordo sempre con affetto e che continuo ad essergli immensamente riconoscente per tutto ciò che fece per me in quelle terribili ore del 1976".

Mentre il regime militare si andava velocemente consolidando, il numero di quanti si recavano alla Nunziatura Apostolica per chiedere aiuto aumentava in maniera vertiginosa. Non si trattava solo di familiari di funzionari del governo sconfitto, di militanti del peronismo e di attivisti vincolati ai gruppi guerriglieri, ma di persone comuni, generalmente anonime, la cui unica colpa era quella che il proprio nome fosse apparso sull'agendina telefonica di qualche detenuto o fosse stato pronunciato in qualche interrogatorio. O, cosa ancora più aberrante, che qualcuno lo avesse denunciato, mosso da meschini interessi personali. Su di loro, i militari applicavano ‑con crescente, inaudita e indiscriminata crudeltà ‑ la loro politica di "Notte e Nebbia", una sorta di adattamento al caso argentino della "soluzione finale" che i gerarchi nazisti avevano concertato nella Conferenza di Wannsee, nei primi giorni del 1942[12].

In quelle tenebre sempre più fitte, la sede della Rappresentanza Pontificia appariva, per molti, come l'unica fiammella capace di offrire un po' di luce e di speranza.



[1] Vedere grafico pubblicato in "Nunca Mas", Relazione della CONADEP. Buenos Aires, Editorial Eudeba, 1997, pag.295.

[2] Gli organismi difensori dei diritti umani affermano che la cifra dei "desaparecidos" tra il 1976 ed il 1983 oscillò tra 20.000 e 30.000. II numero esatto non si conoscerà mai.

[3] Intervenendo nel momento decisivo ed inviando il Cardinale Samoré a Buenos Aires il 25 dicembre 1978, il Papa Giovanni Paolo II impedì "in extremis" una devastante guerra tra Argentina e Cile per la questione limitrofa localizzata nell'estremo Sud del Continente americano, nel Canale di Beagle. Questo gesto provvidenziale del Santo Padre fu dovuto, soprattutto, agli insistenti appelli che formulò in quei giorni il Nunzio Laghi. Giovanni Paolo II evitò lo scoppio del conflitto poche ore prima del suo scatenamento.

[4] Monsignor Mejia, argentino, è attualmente in Vaticano Consultore per la Congregazione della Dottrina della Fede, membro della Pontificia Commissione per l'America Latina ed Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa.

[5] Dichiarazione intitolata "Asesinato Sacrílego" della Commissione Esecutiva della Conferenza Episcopale Argentina (CEA) del 17 febbraio 1976. In "La Iglesia y los Derechos Humanos". Buenos Aires, 1984, pag 2223

[6]  "Caminando hacia el Tercer Milenio". Lettera Pastorale per preparare la celebrazione di 2000 anni dalla nascita di Gesù Cristo, approvata il 26 aprile 1996 nella LXXI Assemblea Plenaria della Conferenza Episcopale Argentina.

[7] Justo Oscar Laguna, "Luces y sombras de la Iglesia que amo". Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1996, pag. 93.

[8] L'intervista al Cardinale Casaroli ebbe luogo il 14 maggio 1998, nella sua residenza del Palazzo Apostolico vaticano. Fu l'ultima che il porporato concesse. Morì il 9 giugno 1998. Vedere Bruno Passarelli, "El delirio armado". BuenosAires, Editorial Sudamericana, 1998. Non esiste traduzione in italiano.

[9] Vedere intervista al Cardinale Laghi in “I1 Regno”, numero 797, pag 389.

[10] L'episodio è narrato in Emilio F Mignone, "Les 'Disparus' d 'Argentine". Paris, Les Editions du Cerf 199O, pag. 234

[11] Relazionesu "Los Derechos Humanos en la Argentina', presentata a febbraio 1980 dal Dipartimento di Stato al Congresso degli Stati Uniti.

[12] I1 10 gennaio 1942, in una lussuosa residenza del quartiere berlinese di Wannsee, si riunirono quindici alti gerarchi del nazismo per programmare la cosiddetta "Soluzione Finale " non solo degli ebrei ma di quanti venivano considerati "nemici inconciliabili del Terzo Reich": marxisti, gitani, omosessuali, avversari politici, testimoni di Geova, slovacchi e polacchi. La conseguenza fu il famoso decreto "Notte e Nebbia" che, applicato, provocò in Germania e nei Paesi occupati dal Terzo Reich centinaia di migliaia di scomparse.