CAPITOLO 3
I due Demoni
Il
1976 è stato sicuramente l'anno più nero nella storia argentina di questo
secolo. Quando presero il potere, i militari si sentivano investiti da un
duplice e messianico mandato: schiacciare senza pietà la guerriglia marxista e castigare
tutti i responsabili della corruzione che aveva caratterizzato il pessimo e
impotente governo di Isabel Perón.
Dal
1930, anno in cui un gruppo di militari di idee fasciste rovesciò il Presidente
Hipólito Yrigoyen, l'alternanza tra governi democratici e colpi di Stato
militari si era riproposta con puntuale sincronia, sostituendo periodi di
legalità a regimi autoritari e viceversa. Ma il meccanismo che si innescò quel
24 marzo rappresentò un'esperienza inedita, assolutamente nuova, caratterizzata
dalla più malvagia perversione che mente umana avesse potuto concepire.
L'assassinio
politico era già stato introdotto nella società argentina come un'abitudine
generalizzata in cui si contendevano, con cieca ferocia, gruppi parastatali e
comandi terroristi di origine marxista o provenienti dal fondamentalismo
cattolico. Era una vera orgia di sangue che, da estremi opposti, provocava
centinaia di vittime.
Accecate
dal loro odio omicida, le organizzazioni guerrigliere (Montoneros, ERP, FAR,
FAP e altri gruppuscoli) si affrontavano, a prezzo di tante vite, con la AAA.
Più tardi, si verrà a sapere che la AAA altro non era che una copertura per la
repressione illegale scatenata dai comandanti militari, in collaborazione con i
civili che in bande armate loro stessi dirigevano.
E'
vero, le prime scomparse di persone si erano verificate durante il governo di
Isabelita, come quelle di quattro religiosi arrestati tra l'aprile 1975 ed il
marzo 1976 (Nelio Rougier, Julio San Cristhbal, Miguel Angel Urusa Nicolau e Pedro
Fourcade), dei quali non si seppe più nulla. Lo stesso accadde a cristiani
impegnati nella "Pastorale dei Poveri" come Daniel Bombara e José
Serapio Palacios, dirigenti della Gioventù Universitaria Cattolica (JUC), al
pastore protestante Victor Boinchenko a sua moglie e altri. Tuttavia, questa
terribile pratica delle "desapariciones" non era ancora diffusa. Le
vittime del terrorismo avevano ancora un nome e un cognome e i loro familiari
potevano riavere almeno i loro cadaveri crivellati da colpi d'arma da fuoco per
piangerli e a dar loro sepoltura. Fino al colpo di Stato del 24 marzo 1976, il
termine "desaparecido" non esisteva. La vita quotidiana era intrisa
di una violenza ogni volta più intollerabile, ma ancora non si era fatta strada
nella società come un fatto abituale, l'assoluta illegalità del terrore bianco,
con lo Stato come braccio esecutore. La gente veniva assassinata in una
sanguinosa spirale. Ma erano pochi coloro che scomparivano[1].
Con
i militari al potere iniziò un'altra storia, simile alla tragedia greca, con lo
stesso epilogo funesto, luttuoso, ma aggravato dal dramma dell'impossibilità di
recuperare la salma della per sona cara. La dittatura militare mise in pratica
un programma sistematico di sterminio del "nemico" (fossero questi
militanti, ideologi, o semplici simpatizzanti) senza precedenti nella storia
dell'Occidente, a cui seguì l'ulteriore scomparsa dei cadaveri delle vittime.
La Relazione "Nunca Mas" della Commissione Nazionale sulla Scomparsa
delle Persone (CONADEP) parlò a suo tempo (1984) di 8.961 casi, ma si tratta di
un numero approssimato per difetto, senza che si sia potuto, fino a ora,
precisare con esattezza il numero delle vittime[2].
D'altro
canto, in quell'anno ancora non si aveva un'esatta dimensione di un'altra
pratica agghiacciante che poi sarebbe venuta alla luce: i cosiddetti
"trasferimenti". Si trattava di persone che, prelevate dai campi di
concentramento, erano gettate nell'Oceano Atlantico dagli aerei militari,
ancora vive e intontite con iniezioni a base di pentotal. Questo trattamento fu
riservato a centinaia di oppositori al "Processo", come i generali
avevano chiamato il loro governo.
La
pratica delle scomparse presupponeva una ripugnante viltà dei capi militari,
che non avevano il coraggio di assumersi le loro responsabilità. E questo rende
più spregevole lo sterminio sistematico che praticarono da quando
s'impadronirono del potere. A1 cospetto di quella guerriglia allucinante che
aveva condotto la sfida a un punto di non ritorno, avrebbero dovuto agire secondo
legge inquadrando ‑ come minimo ‑ i terroristi all'interno del
codice militare vigente. Ma non lo fecero. Optarono per la repressione
indiscriminata, per la tortura illimitata e per la ignominia delle scomparse, a
cui seguiva la più completa negazione di quanto accadeva. Fu una sorta di
esasperazione della politica "Notte e Nebbia" messa in atto dal
nazismo.
Pagarono
con la propria vita migliaia di giovani, il cui maggior delitto era stato
quello di sognare un mondo più giusto e umano e il loro maggior errore credere
che quell'Eden si poteva raggiungere con l'uso della violenza, seguendo le
illusioni alimentate dall'ideologia marxista. Intanto i capi della guerriglia,
quando capirono che la disfatta era vicina, si misero subito in salvo in
Europa, abbandonando al loro destino migliaia di militanti. Si calcola che nel
momento culminante dell'offensiva guerrigliera furono circa 150.000 i giovani
che seguirono l'idea di ripetere e far trionfare in Argentina la lotta dei
contadini di Cuba o l'azione dei guerriglieri del Vietnam. Buona parte di loro
lo fece ricorrendo all'azione terrorista, che durante il governo di Isabel
Perón raggiunse livelli intollerabili.
Ma
in un paese con deboli convinzioni democratiche, come era l'Argentina degli
anni settanta, le Forze Armate li aspettavano al varco, spinte dal tenace
desiderio di annientarli. Lo sterminio avvenne in quell'ombra nera e senza
contorni che divorò una parte della gioventù argentina, la più nobile e
generosa, dotata di una sensibilità a volte evangelica verso i bisognosi, in un
generalizzato e indifferente silenzio. Perché nulla di ciò che accadde sarebbe
stato possibile senza l'esteso ed entusiasta consenso maggioritario che la
società argentina diede ai militari in quel 24 marzo 1976 e negli anni successivi.
Il
consenso esisteva realmente. Il lettore europeo può supporre che, preso il
potere, la prima cosa che dovettero fare i militari fu di schiacciare una
caparbia resistenza di ampi settori della società. Non fu così. Se nel Cile di
Augusto Pinochet tale resistenza esistette e si manifestò nei primi mesi del
colpo di Stato, in Argentina non ci fu. La "maggioranza silenziosa"
era d'accordo con i generali, perché era stanca di vivere nell'insicurezza e
nella paura derivanti dalla crescita incontenibile dell'eversione. E desiderava
fortemente che occupassero il potere quei militari "seri, onesti e
austeri", la cui immagine più rappresentativa era quella del nuovo
Presidente, il generale Jorge Rafael Videla.
Nemmeno
il movimento sindacale, in un Paese con una lunga e forte tradizione di lotte e
resistenza corporativa, fu autore di fatti contrastanti se si eccettuano alcune
ore di sciopero nella fabbrica Ford e tra il personale di "Luz y
Fuerza" e delle Ferrovie dello Stato nel dicembre 1976. Ma furono episodi
sporadici, senza conseguenze di rilievo.
Nel
biennio 1976‑77 le scomparse raggiunsero una dimensione agghiacciante. Le
famiglie presentavano ricorso di "habeas corpus" che seguivano un
iter giuridico inutile e inconsistente, senza alcun esito per il rinvenimento e
la liberazione della vittima privata illegalmente della sua libertà. I giudici
risolvevano la questione sempre allo stesso modo: non mandavano in porto le
pratiche legali argomentando che non esistevano prove certe che la persona
fosse detenuta. L'unica speranza che ai tribolati parenti rimaneva era la
possibilità che lo scomparso fosse "blanqueado". Nell'argot
poliziesco dell'Argentina di quegli anni "blanquear" significava
ottenere che le autorità militari riconoscessero che l'eventuale scomparso era
nelle loro mani, in qualche prigione o campo di concentramento. Equivaleva,
almeno provvisoriamente, a un certificato di esistenza in vita. E questo va
tenuto particolarmente in conto per valutare, più avanti, l'importanza dei
buoni uffici del Nunzio Laghi.
Nel
Paese si era instaurato un clima di terrore. Bastava apparire sull'agenda di un
presunto sovversivo, aver realizzato qualche attività compromettente
all'Università o nel movimento sindacale o, semplicemente, essere in possesso
di libri considerati pericolosi per cacciarsi in una situazione altamente
rischiosa.
Immediatamente
dopo il colpo di Stato il grado di violenza raggiunse la sua massima
espressione. Basterebbe prendere un trimestre dell'anno 76 per confermarlo.
Cifre elaborate da organizzazioni internazionali indicano che, solo negli
ultimi tre mesi, la guerriglia provocò, con altrettanti atti terroristici, 646
vittime. Una cifra che equivaleva, quasi, a due assassinii al giorno. Era stata
raddoppiata la cifra dell'anno precedente (346), ed era sei volte superiore a
quella del 1974.
Nemmeno
nell'Irlanda del Nord, devastata dall'odio religioso, si uccideva con pari
accanimento. Soltanto potrà essere ravvisata una similitudine nelle guerre
civili che avrebbero insanguinato, pochi anni dopo, il Nicaragua e El Salvador.
Le
sfide delle bande armate erano sempre più ambiziose. Nel trimestre di cui
abbiamo parlato, i terroristi uccisero otto importanti imprenditori e dirigenti
aziendali e tre alti capi militari, per culminare la loro "escalation"
in un attentato di proporzioni enormi che destò grande impressione e indusse a
far credere che gli eversivi erano tanto forti da poter colpire
indiscriminatamente, come e quando volevano. Il 2 luglio fu collocato un
poderoso ordigno all'interno della Sovrintendenza della Polizia Federale, il
vero "cuore" della repressione, provocando 18 morti e 66 feriti,
almeno una dozzina dei quali orrendamente mutilati. Fu un episodio senza
precedenti, che gelò il sangue nelle vene degli argentini. E la risposta fu,
come non poteva essere altrimenti, l'accentuarsi della repressione
indiscriminata da parte dello Stato fino ad estremi a quel momento stimati
inconcepibili.
* * *
A
Monsignor Laghi non risultò facile adattarsi alla scellerata situazione
argentina. Lo spettacolo che si presentava ai suoi occhi era veramente
singolare. I militari erano arrivati al potere per garantire la sicurezza e i
diritti delle persone ma, in nome di Cristo, violavano i più elementari
principi umanitari del cristianesimo. E i guerriglieri, accecati dell'odio
contro i ricchi e i potenti, ammazzavano per strada umili poliziotti o soldati
di leva in divisa, arrivando allo sproposito di uccidere i simpatizzanti del
peronismo in nome di Peron. Era un vero delirio, che portava inesorabilmente
verso ulteriori lutti e disgrazie.
Il
Nunzio Laghi cercò di dare il suo contributo a qualche parvenza di razionalità,
applicandosi con tutte le sue energie al compito di mettere la Chiesa argentina
in condizioni di affrontare le grandi sfide della grave crisi istituzionale che
colpiva il Paese. La situazione era carica di insidie. E lui aveva capito molto
bene che non avrebbe dovuto mai interferire con la sfera d'azione
dell'Episcopato nazionale. Quest'ultima era, infatti, una delle raccomandazioni
decisive del documento "Sollicitudo onmium Ecclesiarum" del 1969 che
Paolo VI aveva approvato e che Laghi era deciso a rispettare a tutti i costi.
Nella "Sollicitudo" si precisava che la missione dei Nunzi non era
quella di interferire con gli Episcopati locali ne di sostituirsi a essi, ma
"rispettarli e sostenerli con fraterno e discreto consiglio". Si
specificava poi che potevano dare istruzioni al clero locale solo se richieste
dalla Santa Sede.
Questo
va tenuto in somma considerazione, perché si tratta di un principio valido, dal
quale il Nunzio Laghi non si discostò mai fino all'ultimo giorno della sua
missione in Argentina e che va giudicato come una chiave interpretativa
fondamentale per capire il suo operato. Pochi sanno che lo stesso Laghi aveva
collaborato alla stesura di quel documento, lavorando con l'allora Segretario
del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, il futuro Cardinale Antonio
Samore[3].
Monsignor Jorge Meja[4]
ha scritto che la cosa più urgente che Laghi si trovò ad affrontare in Argentina
nei primi anni del suo mandato fu quella di dare fiducia alla Chiesa e rendere
più efficace e fermo il suo governo, tenendo presente le difficili circostanze
che il Paese viveva e a cui il clero non poteva rimanere estraneo.
Su
quel clero si addensavano nuvoloni sempre più minacciosi, che si erano
manifestati in una nuova tragedia ai primi di febbraio, poche settimane prima
del colpo di Stato militare. Fu rinvenuto il cadavere barbaramente torturato di
José Tedeschi, un sacerdote salesiano ridotto allo stato laicale. Tedeschi era
stato arrestato il 2 febbraio 1976 a Bernal. Non solo la sua morte causò
profonda impressione ‑ non era il primo sacerdote o ex sacerdote
assassinato ‑ ma l'accanimento delle torture a cui lo avevano sottoposto.
Evidentemente, la barbarie repressiva non conosceva freni inibitori.
Il
17 febbraio la Commissione Esecutiva della Conferenza Episcopale Argentina
(CEA) diffondeva un comunicato in cui ricordava che "l'assassinio di un
sacerdote riveste particolare gravità e costituisce sacrilegio". E
avvertiva: "Malgrado il nostro fango, i sacerdoti per decreto divino sono
unti del Signore e di sua pertinenza. Cristo ci liberi da questa notte di
angosce e trasformi il sangue dei fratelli morti nella tanto agognata rappacificazione"[5].
Questo
crimine colpì profondamente Laghi. Volle ricorrere al governo di Isabelita, già
agonizzante, ma il clima di disgregazione che imperava non gli fece trovare
alcun interlocutore valido. La vedova di Peron era a un passo dal baratro,
sconfitta in anticipo dai militari che si preparavano a prendere il potere. Per
Laghi, l'omicidio di Tedeschi fu un forte campanello d'allarme. Capì che non
poteva rimanere alla finestra di fronte a simile catastrofe e che doveva
trasformarsi in un punto di riferimento essenziale per quelli che esercitavano
il ministero ecclesiale o volevano servire la Chiesa come laici impegnati,
qualunque fosse il carattere di questo impegno.
Ma
per agire in questo senso il Nunzio doveva superare una doppia sfida. Da una
parte, riuscire a trasmettere al clero argentino gli insegnamenti innovativi di
Paolo VI e, dall'altra, appoggiarlo nella missione pastorale da compiere. In
altre parole, aiutarlo a essere in grado, sulla traccia degli insegnamenti
della Chiesa, di affrontare la sfida nelle migliori condizioni possibili. Tutto
ciò non era affatto semplice per un Episcopato che ancora non aveva respirato
la salutare brezza primaverile del Concilio Vaticano II. Alle reticenze
fortemente radicate quanto alla sua applicazione, corrispondevano all'estremo
opposto fermenti di inquietudine, gesti di impazienza e di intolleranza, forse
come logica reazione alla paura che mostrava buona parte dell'Episcopato per
conformarsi ai nuovi tempi.
Per
Laghi, in assoluta sintonia col Papa, era motivo di crescente allarme notare
come aumentasse il numero di giovani che, esaltati da discorsi carichi di
illusioni, facevano una scelta di vita e andavano oltre la solidarietà concreta
in favore dei bisognosi, abbracciando la strada tanto esaltante come incerta della
violenza intesa come strumento per il raggiungimento della giustizia.
Gli
anni settanta furono per i cattolici di tutto il mondo un periodo di
turbamento, che mise in discussione il loro ruolo nella società laica, sospinti
dalla dottrina vigente del Concilio Vaticano II. Per molti cattolici emergeva,
irrefrenabile, la necessità di lasciarsi coinvolgere nelle battaglie e nelle
rivendicazioni sociali. E questo impulso era molto forte nei Paesi
sottosviluppati, segnati da forti disuguaglianze sociali, come l'Argentina.
L'esigenza di coerenza con il Vangelo imponeva a quei cattolici di essere
sensibili alla povertà, alle sofferenze dei bisognosi, al richiamo in favore di
una solidarietà attiva, traducendo in pratica politica ogni gesto o parole e
impegnandosi sul piano sociale.
Anche
il Maggio francese del 1968 era stato per i giovani un altro forte impulso a
favore d'una enfatizzazione di queste richieste in favore di una società più
giusta, con scuole migliori e una università aggiornata e aperta a tutti. Ma
nello stesso 68 si era andati più in là e avevano fatto la loro comparsa la
violenza e l'intolleranza che avrebbero contrassegnato il movimento studentesco
in alcuni Paesi europei.
In
Argentina, l'esigenza di essere "coerenti con il Vangelo" si tradusse
in una drastica radicalizzazione di alcuni settori della Chiesa e di giovani
laici cattolici che in essa agivano, con un'esasperazione ben marcata del loro
impegno sociale. Una linea molto debole, a volte impercettibile, separava i
sacerdoti che si sforzavano di leggere il Vangelo "dentro" i dettami
postconciliari da coloro che interpretavano capziosamente la missione
pastorale, legittimando e propiziando la scelta della lotta armata come unico
mezzo valido per combattere l'ingiustizia. Sognavano con "Che"
Guevara e con Ho Chi Minh, senza capire che la realtà politica e sociale
dell'Argentina non aveva niente a che fare con quella di Cuba o del Vietnam.
Nel
1996, due decenni dopo, il clero argentino fece un'importante autocritica del
suo atteggiamento di allora, tramite un documento della CEA, nel quale i
vescovi ammisero di non essere stati attenti e diligenti verso gli eccessi
della repressione militare ma riconoscendo di aver anche dato protezione a
quelli che, con le loro prediche, avevano sobillato i giovani a scelte
estremiste.
Si
legge: "Dobbiamo riconoscere che vi furono cattolici che giustificarono e
praticarono la violenza sistematica alla stregua di "liberazione
nazionale" tentando la presa del potere politico e la creazione di una
nuova società, ispirata all'ideologia marxista, coinvolgendo purtroppo molti
giovani"[6].
Si
tratta di una presa di posizione globale, degna di rispetto. Ma, in questi anni
trascorsi, i "mea culpa" individuali non abbondarono. Non sono stati
molti quei sacerdoti che, dopo aver abbracciato un'interpretazione esasperata
del Vangelo ed essere usciti vivi da quella prova, hanno fatto ciò che fece con
grande umiltà un Vescovo argentino, Monsignor Justo Oscar Laguna, noto per le
sue critiche al "Processo" e ai militari, ma senza essere ricorso mai
ad atteggiamenti e discorsi estremisti. Laguna fece pubblicamente un profondo
esame di coscienza chiedendosi se le sue prediche, in qualche momento, si
fossero trasformate in perversi canti di sirena atti a illudere tanti giovani
che sognavano un mondo più umano e giusto. Non tutti hanno, al riguardo, la
credibilità del Vescovo di Moron quando dice che si sente tranquillo perché
nessuna sua predica o affermazione "furono d'incitamento alla violenza
guerrigliera per i giovani"[7].
Fu
proprio Monsignor Laguna a sostenere la teoria che in Argentina, negli anni
settanta, si affrontarono due demoni indefessi nella loro vocazione al male,
ossia i militari e i guerriglieri. E, successivamente, fece una distinzione
fondamentale, che ci trova completamente d'accordo: il demonio dei primi fu
"incomparabilmente più grave" perché loro (i militari)
rappresentavano lo Stato e questo avrebbe dovuto custodire la legge, non
violarla sistematicamente.
E'
opportuno ricordare che, già prima di quel tragico 1976, quel grande Papa
dell'apertura sociale che fu Paolo VI si era reso conto che avrebbe dovuto
porre un freno alla crescita, soprattutto in America Latina , del Movimento dei
Sacerdoti del Terzo Mondo. Durante il suo pontificato, Paolo VI pubblicò sette
Encicliche, alcune delle quali, come la "Humanae vitae",
l"'Ecclesiam suam" e la "Populorum Progressio" ebbero un
forte impatto sui giovani argentini per la loro carica umana e la loro visione
solidale delle relazioni sociali con il mondo sottosviluppato. La
"Populorum progressio" era stata accolta con freddezza e forti
critiche dai gruppi conservatori della Chiesa e da settori economici
interessati. Negli Stati Uniti, in particolare, la consideravano ‑ per
l'accento che poneva sullo "sviluppo di ogni uomo" e "per tutti
gli uomini" ‑ come una sorta di "marxismo riscaldato". A
tutti i critici della "Populorum Progressio" avrebbe controbattuto il
Presidente della Commissione "Giustizia e Pace", il Cardinale
africano Bernardin Gantin, affermando che quell'Enciclica rappresentava la
"Magna charta degli uomini bisognosi".
Ma
quest'apertura e una maggiore sensibilità di fronte ai problemi sociali che
Paolo VI aveva introdotto nella Chiesa avevano contribuito, ‑ senza
volerlo ‑, a incrementare, in forma allarmante, i movimenti estremisti e
radicalizzati che, facendosi scudo di una lettura unilaterale dei documenti
dottrinali, e rivendicando il diritto di agire a titolo cristiano, avevano
iniziato a legittimare l'uso della violenza per correggere le situazioni di ingiustizia
e di sfruttamento esistenti.
Paolo
VI nell'ultimo quinquennio della sua vita (1974‑78) fu un Papa
sofferente, profondamente addolorato per le critiche e i malumori che gli
giungevano dall'interno stesso della Chiesa, da parte di coloro che, interpretando
estremisticamente e da posizioni di sinistra il suo magistero, chiedevano una
maggiore radicalizzazione dei pronunciamenti e del servizio in favore dei
bisognosi. Era una pressione crescente che a Paolo VI faceva molto male. Fu in
uno dei suoi momenti di maggiore sconforto che coniò quella frase rimasta poi
famosa: "Il fumo di Satana si è introdotto nella Santa Chiesa".
Era
stato quel Paolo VI, preoccupato e con una forte carica di angoscia nel suo
animo, che aveva dato al Nunzio Laghi istruzioni ben precise prima della sua
partenza per Buenos Aires. Gli aveva chiesto di dedicarsi immediatamente nella
sua nuova missione all'impresa di "aprire" la Chiesa argentina al
Concilio Vaticano II ma anche di "chiuderla" agli estremismi che
proponeva la "Teologia della liberazione". Un lavoro complesso e
particolarmente impegnativo.
Quelli
furono anni di acceso dibattito in seno alla Chiesa dell'America Latina. La
Conferenza Episcopale Latineamericana (CELAM) era stata creata a Rio de Janeiro
nel 1955 e si trasformò in una forte fucina per la diffusione dei contenuti del
Concilio Vaticano II. Più tardi, la Conferenza di Medellin, inaugurata dallo
stesso Papa Paolo VI, aveva in un certo senso incoraggiato questa
"Teologia". I risultati erano stati preoccupanti, con il dilagare
degli estremismi in seno alla stessa Chiesa latinoamericana. In quei tempi, il
Presidente del CELAM era il futuro Cardinale argentino, Eduardo Pironio. Di
fronte a questa situazione, Paolo VI intervenne e diede un forte cambio di
rotta collocando alla Segreteria Generale l'allora Vescovo Ausiliare di Bogotà ‑
e oggi Cardinale ‑ Monsignor Alfonso López Trujillo. La missione
fondamentale del prelato colombiano era quella di preparare il CELAM alla
Conferenza di Puebla, che nel 1979 avrebbe presieduto Giovanni Paolo II e nella
quale la "Teologia della liberazione" avrebbe subito una chiara e
inoppugnabile condanna. La stessa che, d'altronde, era gia presente nei gesti e
nelle parole di Paolo VI.
Di
questo problema uno degli autori di questo libro parlò, poco prima che morisse,
con il Cardinale Agostino Casaroli. Fu in occasione di un'intervista su
un'altra questione, la mediazione pontificia per il conflitto di Beagle[8].
Il porporato, con la finezza che lo caratterizzava, disse: "Ricordo benissimo
il travaglio di quei tempi e io, che sono sempre stato un uomo favorevole alle
aperture, credetti che in quel momento si rendeva indispensabile una chiusura,
dato lo scompiglio che le esagerazioni interpretative del Concilio Vaticano II
avevano provocato in America Latina". Una definizione elegante ma di una
chiarezza cristallina sullo stato d'animo che all'epoca avevano Paolo VI e la
Curia Romana a causa di tali esasperazioni dottrinali.
Un
Vescovo argentino, Monsignor Enrique Angelelli, pastore della Diocesi di La
Rioja, era in Argentina l'uomo di punta di questa tendenza. Sinceramente
"attratto" dal Movimento dei Sacerdoti del Terzo Mondo, era visto in
Vaticano come una sorta di simbolo per questi preti che cercavano la giustizia
con metodi e discorsi che, per la gerarchia, erano "preoccupanti",
per dirla con le parole usate da Casaroli.
Quando
alcuni Vescovi vennero a Roma per la visita "ad limina" e Paolo VI li
ricevette, a uno a uno, Angelelli notò che la sua udienza veniva continuamente
rinviata. I1 Papa lo fece attendere quasi un mese. Era in totale disaccordo con
lui per una serie di eterodossie dottrinali che considerava estemporanee per i
fedeli della sua Diocesi. Alla fine, quando decise di riceverlo, Paolo VI lo
trattò con freddo distacco. Ascoltò la sua lunga esposizione senza assentire,
interrompendolo solo una volta, quando il Vescovo gli disse che, con il suo
fervore cattolico, "La Rioja salva Cristo". Paolo VI gli rispose,
gelidamente: "No, Angelelli, Lei si sbaglia, e La Rioja che si salva 'in'
Cristo".
Terminata
l'udienza, Paolo VI con tono perentorio gli disse: "Bene, Monsignore,
torni domani, che le assegnerò le istruzioni a cui attenersi quando farà
ritorno alla sua Diocesi". Era una lettera personale con le norme
pastorali da seguire, attinte dalle fonti dottrinali ed escludendo stravaganze
estremiste. Dell'episodio, che sopravvive solo nella memoria di alcuni vecchi
vaticanisti, rimane conferma in un fatto che, per il rituale vaticano, è sempre
carico di enorme significato. La Prefettura della Casa Pontificia aveva dato
precise istruzioni: nessun fotografo avrebbe dovuto immortalare l'incontro.
Chiunque si metta a curiosare nell'archivio de "L'Osservatore
Romano", potrà convalidarlo. Non ci sono fotografie di Paolo VI con lo
"scomodo" Vescovo Angelelli.
Ma
non si trattava, nel caso di questo pastore ‑ che poco dopo sarebbe stato
vittima immolata dalla furia repressiva dei militari ‑ di una questione
personale. Monsignor Angelelli aveva avuto la sfortuna di essere ricevuto da
Paolo VI in uno dei suoi momenti di maggiore preoccupazione per la
"Teologia della liberazione". I1 Pontefice era allarmato dal
pericoloso radicalismo di due o tre congregazioni religiose e dalla esagerata
proliferazione in alcune Diocesi di sacerdoti terzomondisti. In quella di
Rosario, per esempio, Monsignor Guillermo Bolatti aveva dovuto sospendere
"a divinis" una ventina di tali sacerdoti.
In
quei problematici anni settanta, i Vescovi argentini che avevano compreso le
esigenze di apertura che derivavano dal Concilio Vaticano II e dal magistero di
Paolo VI ed erano disposti ad agire in quel senso, costituivano una netta
minoranza. Tra di loro, c'erano alcuni che avevano raggiunto livelli di forte
radicalizzazione teologica e pastorale. Erano i casi del citato Angelelli e di
Monsignor Carlos Ponce de Leon, Vescovo di San Nicolas de los Arroyos. Il primo
pagò con la vita la sua catechesi e le sue omelie il 4 agosto 1976, quando il
veicolo su cui viaggiava lungo una strada desolata de La Rioja fu travolto da
un'altra macchina che lo ribaltò.
Il
mattino seguente, il suo cadavere ‑ con il cranio sfondato ‑ fu
ritrovato ad una distanza di 25 metri dal luogo della tragedia. Le perizie
giudiziali avrebbero dimostrato che il prelato non era stato sbalzato fuori né
dal parabrezza né dagli sportelli del veicolo.
Senza
dubbio alcuno, si trattava di un omicidio. Il suo funerale a La Rioja fu una
grande espressione di dolore popolare. Laghi vi assistette con altri dieci
Vescovi. A1 suo rientro a Buenos Aires elevò un'energica protesta alle
autorità, dicendo: "Devono dimostrarmi il contrario di quanto io suppongo
sia accaduto"[9]. E informò
subito la Santa Sede degli indizi che facevano presumere che si era trattato di
un assassinio. Il Cardinale Pironio, a Roma, confidò al teologo Jose Miguez
Bonino che, dopo questa relazione, in Vaticano non ci furono più dubbi sulla
questione e che solo si attendeva l'intervento della Conferenza Episcopale
Argentina per esprimere una forte e inappellabile condanna[10].
Ma questo intervento non ebbe mai luogo. A1 contrario, il Cardinale Aramburu
dichiarò a Tucuman che non c'erano prove concrete per parlare di un crimine.
Fino ad oggi, i colpevoli non sono stati né identificati né puniti.
Monsignor
Ponce de Leon, che manteneva posizioni quasi coincidenti con i Sacerdoti del
Terzo Mondo, morì l'11 luglio 1977 in un ulteriore sospetto incidente
automobilistico mentre si recava dall'Arcidiocesi di Santa Fe a Buenos Aires.
Sulla questione non si è fatta luce. La relazione "Nunca Mas" de la
CONADEP afferma che Monsignor Ponce de Leon era in possesso di documenti
compromettenti destinati alla Nunziatura Apostolica riguardanti il
comportamento di alcuni generali. Queste carte non furono mai rinvenute.
Ma
per agire in favore dei più bisognosi non era inevitabile scadere negli
estremismi dei Monsignori Angelelli e Ponce de Leon. Così lo avevano capito
altri Vescovi argentini che, quando Laghi arrivò a Buenos Aires, già erano ai
loro posti. Citiamo, affinché la memoria rammenti con ammirazione il loro
impegno pastorale, i Monsignori De Nevares, del quale già abbiamo parlato e
torneremo a farlo, e Vicente Faustino Zaspe (Arcivescovo di Santa Fe), i
Vescovi Jorge Kemerer (Posadas), Juan Jose Iriarte (Reconquista) e Alberto
Devoto (Goya), quest'ultimo un vero "santo" nella sue costante
intercessione a favore dei poveri. Senza dimenticare il settantenne Arcivescovo
di Azol, Monsignor Manuel Marengo. Su di lui, dal 1975, esercitò un sano
ascendente il suo Ausiliare, Monsignor Emilio Bianchi di Carcano, attuale primo
Vice Presidente della Conferenza Episcopale Argentina.
Di
pari valori umani e pastorali è Monsignor Bernardo Witte, successore nella
Diocesi di La Rioja di Monsignor Angelelli (fu Laghi che lo propose ed è ancora
in carica dal 14 aprile 1977). Tutti questi coltivarono un'intensa e permanente
relazione con il Nunzio.
Ma
questo elenco non deve indurre a erronee considerazioni. In effetti, quando nel
marzo del 1976 i militari occuparono il governo, il gruppo dei Vescovi che
spalleggiò la loro presa del potere fu numeroso e si mostrò subito forte e
agguerrito nell'appoggiare la "crociata" che, in nome di Dio, i
generali avevano scatenato. La loro influenza fu ancora più consistente per il
fatto che la maggior parte dei membri della Conferenza Episcopale (le Arcidiocesi
e Diocesi erano più di sessanta) si mantenne nell'imparzialità, aumentando così
il solco che divideva i due schieramenti.
Affrontando
le difficoltà che emergevano dalla complessa situazione generale, Laghi
continuò a dedicarsi con tutte le sue forze al rinnovamento dell'episcopato. Un
compito che passò anche attraverso la creazione di cinque nuove Diocesi, quelle
di San Miguel, Santo Tomé, Santa Maria del Patrocinio a Buenos Aires per gli
Ucraini, Zárate‑Campana e Quilmes. In queste ultime due Laghi propose due
Vescovi che sono una totale garanzia di solidità dottrinale e impegno
pastorale: Monsignori Alfredo Esposito, già emerito, e Jorge Novak, attuale
Vescovo di Quilmes.
Gli ostacoli da superare erano non indifferenti. Per decenni, si era andata consolidando in Argentina una struttura episcopale che si rivelava ancor più anacronistica e sclerotizzata nella misura in cui gli eventi precipitavano. Per cambiarla, Laghi dovette, talvolta, sollecitare con fermezza la rinuncia di alcuni Vescovi più anziani di 75 anni d'età ma che resistevano al loro posto, forse grazie alla protezione del potere politico di cui godevano. Così si spiega il caso del Cardinale Caggiano, Arcivescovo di Buenos Aires e Primate di Argentina. Altra prova di resistenza l'aveva data Monsignor Buteler che quando morì nel 1974, aveva 82 anni e, nonostante l'età, era ancora a capo dell'Arcidiocesi di Mendoza.
Ma
nello spirito di Laghi c'era mestizia, anche se i risultati che via via andava
ottenendo erano incoraggianti. L'Argentina si era trasformata in un pozzo
oscuro, un pantano infido che inghiottiva i suoi figli, fossero essi colpevoli
o innocenti. Per i militari repressori, non faceva differenza se uno impugnava
la mitragliatrice o si limitava ad esprimere una qualche simpatia o connivenza
con gli eversivi o appariva (per errore o per pura casualità) nell'agenda di
qualche guerrigliero.
Come
in seguito avrebbe descritto un documento sui diritti umani, presentato dal
Dipartimento di Stato nordamericano al Congresso degli Stati Uniti, "le
forze di sicurezza si lanciarono ad una controffensiva generale di violenza che
ebbe come obiettivi non soltanto i terroristi ma anche individui che,
considerati "sovversivi" seppur privi di precedenti come tali, furono
fatti scomparire, mentre altri furono imprigionati e messi a disposizione del
Potere Esecutivo in virtù dello stato d'assedio, senza che esistesse contro di
loro la più minima e specifica imputazione"[11].
L'Assemblea
Permanente dei Diritti Umani (APDH) compilò a Buenos Aires una lista di 6.500
casi di "desaparecidos" solo nel periodo 1976‑79, ossia nei
primi quattro anni della dittatura militare, durata fino al 1983. Altre
istituzioni, come l'Associazione di Avvocati di New York ,che visitò
l'Argentina nel 1979, e Amnesty International hanno stimato che la cifra in
questo triennio è molto più alta. La Nunziatura Apostolica, per ammissione di
Laghi, arrivò ad interessarsi a più di 5.000 casi.
I1
Nunzio aveva accettato quasi con fatalistica rassegnazione la presa del potere
da parte dei generali. Aveva capito che lo scontro tra gli opposti estremismi
aveva raggiunto un livello di tale delirio che la repressione avrebbe avuto
caratteristiche di "alta chirurgia". Questo lo angosciava ma non
poteva far nulla per impedirlo. Poteva solo consigliare a qualche capo
militare, con cui manteneva contatti, la moderazione per non incorrere in
esecrabili eccessi. Così, nei primi mesi del "Processo", aspettò che
l'azione repressiva si esaurisse il più rapidamente possibile, credendo che, poi,
le acque si sarebbero calmate e si sarebbe intrapresa la via di una progressiva
riappacificazione.
Sbagliava,
perché quello in atto era un vero sterminio, programmato con brutale
meticolosità e reso più devastante ancora per la tracotante superbia della
guerriglia. I due demoni di cui parlava Monsignor Laguna erano infaticabili
nella loro voglia malvagia di distruzione e di morte.
Intanto,
si incominciò a verificare nelle giornate di Laghi un fenomeno completamente
nuovo e inaspettato. Alla Nunziatura Apostolica, evitando alla meglio la
stretta vigilanza che esercitavano i fanti della Marina, arrivava un numero
crescente di persone che chiedevano di parlare con lui. Laghi le riceveva e le
ascoltava. Tutti, dopo colloqui che a volte raggiungevano toni drammatici, imploravano
la sua intercessione a favore di familiari e amici che erano stati prelevati
con la forza dalle loro abitazioni, sul posto di lavoro o semplicemente per la
strada. Portati via con la violenza, di queste persone si erano perse le
tracce.
Tutte
le verifiche fatte erano risultate vane. I sequestrati erano scomparsi nel
nulla, inghiottiti dal vuoto. Disperati, i visitatori non sapevano che fare ne
dove andare per tentare di localizzarli, giacche le autorità militari negavano
di avere la minima informazione su quanto poteva essere loro accaduto. Era
incominciata la tragedia dei "desaparecidos".
Le
richieste di aiuto iniziarono ad arrivare a Laghi il giorno seguente al 24
marzo 1976, poche ore dopo il colpo di Stato militare. Dapprima, Laghi dovette
interessarsi per la sorte di non pochi membri e funzionari del Governo
rovesciato e di deputati, senatori, sindacalisti e militanti del Partito
Giustizialista sui quali si scatenò l'iniziale foga repressiva dei militari.
La
prima persona alla quale presto la sua assistenza umanitaria fu la stessa ex
Presidente, Isabelita Perón. Detenuta e vittima di duri maltrattamenti, era
stata rinchiusa in "El Messidor", una inaccessibile residenza di
montagna nella lontana e inospitale Patagonia. Dopo pochi giorni di carcere,
erano arrivate a Laghi notizie che la donna era trattata dai suoi custodi con
durezza e che, nei rari momenti di tranquillità che i militari le lasciavano,
chiedeva il suo aiuto e la sua assistenza spirituale. A conoscenza della
situazione che la deposta Presidente pativa, Laghi inviò a "El
Messidor" il Presidente della Conferenza Episcopale, Monsignor Tortolo.
Questi, per la sua carica di Vicario Castrense, aveva il compito di confortare
Isabelita e mitigare le sue sofferenze. Mentre Tortolo volava verso il remoto
Sud della Patagonia, Laghi iniziava intensi contatti presso i comandi militari
per riscattare la donna dall'umiliante situazione in cui si trovava, aggravata
dal rigido inverno che si avvicinava.
Monsignor
Laghi parlò, chiese, invocò comprensione e spirito umanitario. Poiché l'ex
Presidente si trovava sotto la giurisdizione della Marina, il principale
destinatario delle sue richieste fu l'ammiraglio Massera, che oltre a essere
Comandante era uno dei tre membri della Giunta Militare che si era trasformata
nella massima autorità del Paese. Alla fine, Laghi ottenne che Isabelita fosse
trasferita a una base che la Marina aveva ad Azol, 300 chilometri a Sud di
Buenos Aires, dove rimase sotto rigida custodia militare. Laghi aveva fatto
pressione in tal senso perché sul posto c'era un cappellano militare di sua
fiducia, tramite il quale avrebbe potuto stabilire contatti assidui e più o
meno continuativi con la donna, di grande fede cristiana, che non nascondeva la
sua riconoscenza per l'assistenza spirituale a lei riservata dal Nunzio.
La
vedova di Perón, accusata senza prove di sperpero di denaro, viveva in quella
base militare da molti mesi, resistendo con grande dignità all'assedio
dell'ammiraglio Massera che avanzava pretese politiche e voleva servirsi
dell'ascendente che sulle masse popolari esercitava il suo cognome per
strumentalizzarlo a suo vantaggio. Finalmente, le richieste di Laghi ebbero
successo. Alla donna fu concessa la possibilità di continuare la sua prigionia
in una villa di campagna, a San Vicente, dove Laghi le fece visita due volte,
ricevendo nuovamente le espressioni di gratitudine della donna per i buoni
uffici interposti. I1 prelato non ottenne il suo rilascio ma le condizioni di
vita della detenuta migliorarono nettamente.
Intanto,
il Nunzio aveva trasformato quasi in una "routine" quotidiana il
bussare alle porte del potere militare per chiedere notizie di molti funzionari
e deputati peronisti che, detenuti o "chupados"
("succhiati", termine abituale nel gergo argentino dell’epoca) nelle
retate che seguirono al colpo di Stato, erano spariti nella notte, senza che si
conoscessero non solo il loro destino ma neanche le ragioni della loro cattura.
La
lista delle persone per le quali Laghi intercedeva cominciò ad allungarsi. Ci limiteremo
per ora a due casi, verificatisi immediatamente dopo la presa del potere da
parte dei militari.
I1
primo fu quello di un deputato peronista, Ruben "Chacho" Contesti,
che appena ventiseienne era il deputato più giovane e inesperto del Parlamento
argentino. Appartenente alla corrente giovanile che sosteneva la Presidente
Isabelita e malgrado si trovasse ai ferri corti con i guerriglieri
"Montoneros" – cresciuti dentro lo stesso peronismo ‑ e con la
sinistra del partito, Contesti cadde in una retata militare 24 ore dopo il
colpo di Stato. Per 10 giorni fu dato per scomparso. Nessuno sapeva che si
trovasse detenuto nell'edificio Libertad, sede della Marina, insieme ad altri
militanti peronisti, isolato e in pessime condizioni igieniche, sebbene non sottoposto
a torture.
Trascorsi
diversi giorni senza essere riusciti a sapere assolutamente nulla di lui, i
suoi amici e familiari ricorsero a Laghi, ricordando che tra il Nunzio e il
giovane deputato esisteva una cordiale amicizia. Già si era sparsa la voce che
la Nunziatura Apostolica era uno dei pochi luoghi in cui tali richieste
potevano venire ascoltate. Interpellato, Laghi diede inizio al suo
pellegrinaggio per i comandi militari, informandosi non solo di Contesti ma
anche di altre persone delle quali non si sapeva più niente. I risultati erano
frustranti. Nel caso del giovane deputato Contesti, l'Esercito diceva che era
nelle mani della Marina, la Marina dell'Esercito e così via. Laghi, conscio che
i suoi uffici non conducevano a nulla, si decise di rivolgersi direttamente
all'ammiraglio Massera. L'alto ufficiale, incalzato dalle sue pressanti
sollecitazioni, ordinò ai suoi subordinati che localizzassero subito Contesti e
che, se non esistevano accuse gravi e concrete contro di lui, fosse liberato. La
mattina del 5 aprile seguente, ossia dieci giorni dopo la sue detenzione, privo
di documenti, con la barba lunga e vestito con la stessa maglietta e gli stessi
pantaloni con cui era stato arrestato, il giovane lasciò la prigione.
A
maggio del 1998, in un bar del quartiere Prati a Roma, e in occasione di una
sua visita in Italia, Contesti raccontò agli autori la sue esperienza in questi
termini:
"Nel
mio caso, quello di Monsignor Laghi fu un intervento provvidenziale e non
divenni un "desaparecido" grazie a lui. In quei terrificanti giorni,
la gente che cadeva in una retata aveva la vita appesa a un filo. La
repressione era capillare, al punto che non si poteva intercedere per nessuno.
Fu così che amici mici, catturati, scomparvero o rimasero in galera per anni,
pur non avendo colpe di nessun tipo. Monsignor Laghi era una persona
intelligente, seria che, gia prima di quel fatidico 24 marzo, aveva avuto
sentore della portata della tragedia che stava per travolgere il Paese. Noi ‑
cattolici e giustizialisti ‑ conversavamo frequentemente con lui
scambiandoci i nostri timori e la nostra afflizione. Ricordo di averlo udito
dire più di una volta che il Generale Perón aveva ragione quando diceva che
l'attivismo politico allo stato puro è un suicidio e che la gioventù argentina
era troppo politicizzata senza avere cultura politica e si esponeva pertanto a
grandi rischi. Naturalmente il Nunzio non era argentino e non poteva emettere
giudizi sulla situazione interna del Paese, ma fu un grande appoggio spirituale
per tutti noi che vivevamo quella tragedia con infinita angoscia. I gruppi
guerriglieri ‑ in particolare i Montoneros ‑ malgrado si dicessero
peronisti, erano contro‑rivoluzionari, perché agivano al servizio dei
nemici dei settori popolari.
Propiziavano
la lotta armata in un paese come l'Argentina, il cui sviluppo sociale,
politico, culturale e ideologico era un secolo avanti rispetto a Cuba, Vietnam
e Nicaragua, dove allora era in pieno auge il sandinismo. Ciò che facevano era
terrorismo puro, che mirava a distruggere il peronismo, l'unico movimento di
liberazione nazionale e popolare che, addirittura, era disarmato e indifeso di
fronte alla violenza. E' biasimevole, ma in Europa questo non è stato ancora
ben compreso e le sinistre continuano a vedere quei guerriglieri come giovani
coraggiosi, idealisti, e non come quello che in realtà furono, anche se in
maniera inconsapevole: alleati obiettivi dei loro pretesi nemici".
Quando
gli abbiamo rammentato che una delle accuse ricorrenti che alcuni critici
muovono a Laghi è quella di avere frequentato l'ammiraglio Massera e di aver
giocato a tennis con lui, Contesti rispose: "E grazie a Dio... Se non
fosse stato così, io oggi non sarei qui, in un bar di Roma, a raccontare le mie
peripezie. Sarei stato di sicuro un "desaparecido" in più". Il
secondo caso che qui presentiamo ebbe come protagonista una giovane, Zelmira
Regazzoli, che ‑ come Contesti ‑ militava nella Gioventù Peronista,
fedele al governo di Isabelita. Lei pure finì nelle lugubri galere dei militari
e se riacquisto la libertà fu anche grazie all'intercessione del Nunzio Laghi.
Oggi, Regazzoli è ambasciatrice argentina in Bolivia e recentemente ha
profittato di un viaggio a Roma del Nunzio Apostolico in tale Paese
sudamericano, Monsignor Rino Passigato, per far giungere a Laghi un sentito
messaggio: "La prego, quando andrà in Vaticano, vada a trovare Sua
Eminenza e gli dica che lo ricordo sempre con affetto e che continuo ad
essergli immensamente riconoscente per tutto ciò che fece per me in quelle
terribili ore del 1976".
Mentre
il regime militare si andava velocemente consolidando, il numero di quanti si
recavano alla Nunziatura Apostolica per chiedere aiuto aumentava in maniera
vertiginosa. Non si trattava solo di familiari di funzionari del governo
sconfitto, di militanti del peronismo e di attivisti vincolati ai gruppi
guerriglieri, ma di persone comuni, generalmente anonime, la cui unica colpa
era quella che il proprio nome fosse apparso sull'agendina telefonica di
qualche detenuto o fosse stato pronunciato in qualche interrogatorio. O, cosa
ancora più aberrante, che qualcuno lo avesse denunciato, mosso da meschini
interessi personali. Su di loro, i militari applicavano ‑con crescente,
inaudita e indiscriminata crudeltà ‑ la loro politica di "Notte e
Nebbia", una sorta di adattamento al caso argentino della "soluzione
finale" che i gerarchi nazisti avevano concertato nella Conferenza di
Wannsee, nei primi giorni del 1942[12].
In
quelle tenebre sempre più fitte, la sede della Rappresentanza Pontificia
appariva, per molti, come l'unica fiammella capace di offrire un po' di luce e
di speranza.
[1]
Vedere grafico pubblicato in
"Nunca Mas", Relazione della CONADEP. Buenos Aires, Editorial Eudeba,
1997, pag.295.
[2]
Gli organismi difensori dei diritti
umani affermano che la cifra dei "desaparecidos" tra il 1976 ed il
1983 oscillò tra 20.000 e 30.000. II numero esatto non si conoscerà mai.
[3]
Intervenendo nel momento decisivo ed
inviando il Cardinale Samoré a Buenos Aires il 25 dicembre 1978, il Papa
Giovanni Paolo II impedì "in extremis" una devastante guerra tra
Argentina e Cile per la questione limitrofa localizzata nell'estremo Sud del
Continente americano, nel Canale di Beagle. Questo gesto provvidenziale del
Santo Padre fu dovuto, soprattutto, agli insistenti appelli che formulò in quei
giorni il Nunzio Laghi. Giovanni Paolo II evitò lo scoppio del conflitto poche
ore prima del suo scatenamento.
[4]
Monsignor Mejia, argentino, è
attualmente in Vaticano Consultore per la Congregazione della Dottrina della
Fede, membro della Pontificia Commissione per l'America Latina ed Archivista e
Bibliotecario di Santa Romana Chiesa.
[5]
Dichiarazione intitolata
"Asesinato Sacrílego" della Commissione Esecutiva della Conferenza
Episcopale Argentina (CEA) del 17 febbraio 1976. In "La Iglesia y los
Derechos Humanos". Buenos Aires, 1984, pag 2223
[6] "Caminando
hacia el Tercer Milenio". Lettera Pastorale per preparare la celebrazione
di 2000 anni dalla nascita di Gesù Cristo, approvata il 26 aprile 1996 nella
LXXI Assemblea Plenaria della Conferenza Episcopale Argentina.
[7]
Justo Oscar Laguna, "Luces y
sombras de la Iglesia que amo". Buenos Aires, Editorial Sudamericana,
1996, pag. 93.
[8]
L'intervista al Cardinale Casaroli ebbe
luogo il 14 maggio 1998, nella sua residenza del Palazzo Apostolico vaticano.
Fu l'ultima che il porporato concesse. Morì il 9 giugno 1998. Vedere Bruno
Passarelli, "El delirio armado". BuenosAires, Editorial Sudamericana,
1998. Non esiste traduzione in italiano.
[9]
Vedere intervista al Cardinale Laghi in
“I1 Regno”, numero 797, pag 389.
[10]
L'episodio è narrato in Emilio F
Mignone, "Les 'Disparus' d 'Argentine". Paris, Les Editions du Cerf
199O, pag. 234
[11]
Relazionesu "Los Derechos Humanos
en la Argentina', presentata a febbraio 1980 dal Dipartimento di Stato al
Congresso degli Stati Uniti.
[12]
I1 10 gennaio 1942, in una lussuosa
residenza del quartiere berlinese di Wannsee, si riunirono quindici alti
gerarchi del nazismo per programmare la cosiddetta "Soluzione Finale
" non solo degli ebrei ma di quanti venivano considerati "nemici
inconciliabili del Terzo Reich": marxisti, gitani, omosessuali, avversari
politici, testimoni di Geova, slovacchi e polacchi. La conseguenza fu il famoso
decreto "Notte e Nebbia" che, applicato, provocò in Germania e nei
Paesi occupati dal Terzo Reich centinaia di migliaia di scomparse.