CAPITOLO 4

 

Tra militari e guerriglieri

 

Quando i militari si impossessarono del potere, il 24 marzo 1976, Laghi aveva nella sua agenda personale un invito che gli aveva rivolto alcuni mesi prima il Vescovo di Concepción di Tucumán, Monsignor Juan Carlos Ferro. Il Presule stava terminando i lavori di ristrutturazione della Curia e voleva mostrargli l'opera in coincidenza con l'inaugurazione di una casa per anziani, denominata "Pace e Bene".

 

Concepción di Tucumán è un'antica città dai tempi della colonizzazione spagnola, situata a 1.200 chilometri a Nord Est di Buenos Aires, in una regione in cui i contadini si dedicano alla coltivazione della canna da zucchero. Nelle settimane seguenti al colpo di stato militare, la situazione era realmente caotica. Il trotzkista Esercito Rivoluzionario del Popolo (ERP) ‑ uno dei due gruppi guerriglieri più importanti e attivi ‑ e le truppe della V Brigata di Fanteria, comandata dal generale Antonio Domingo Bussi, erano impegnati in una lotta selvaggia e senza quartiere, dopo che la prima aveva "liberato" una vasta regione e aveva messo in moto una esperienza di netto stampo guevarista. L'Esercito, senza troppo pensare alla legittimità dei metodi repressivi che applicava, cercava di cancellarla con il sangue e con il fuoco.

 

Era in pieno sviluppo la cosiddetta "Operazione Indipendenza". Con le casse traboccanti di denaro proveniente da riscatti, soprattutto dal sequestro di imprenditori stranieri, l'ERP aveva raddoppiato la sua scommessa e alzato il livello della sfida. Le sue azioni più frequenti erano attacchi alle guarnigioni militari e la fucilazione dei suoi ufficiali. A metà del 1976 era in programma la "liberazione" di una vasta zona montuosa che aveva Concepción come epicentro. Per l'operazione erano stati convocati i migliori militanti, che si presentavano ai contadini semianalfabeti vestiti con uniformi militari. Nei paesi che occupavano, ammainavano la bandiera argentina e issavano il proprio vessillo, celeste e bianco a righe verticali, con al centro una stella rossa a cinque punte. Così avevano marciato per le strade di Acheral, un paesino vicino a Concepción de Tucumán, al cospetto dei contadini increduli e spaventati.

 

Non c'erano dubbi: i guerriglieri trotzkisti volevano imporre in Argentina un modello totalmente estraneo ed esotico, copiando quanto era successo a Cuba e in Vietnam. Il capo, Mario Santucho, e i membri dell'Ufficio Politico della banda d'irregolari "stavano completamente perdendo non solo la coscienza ma anche l'iniziativa ed erano in preda allo sconforto", come scrisse uno di loro, Luis Mattini[1]. Quella di Tucumán era disperazione pura, mista al gusto per l'avventura e a ubriachezza ideologica. Entro poco tempo le truppe regolari ‑sostanzialmente gli effettivi della V Brigata che operava in quella zona ‑ avrebbero scaricato sui guerriglieri una tempesta di fuoco che li avrebbe annientati.

 

A metà del 1976, quando Laghi decideva ‑ tra grandi perplessità ‑ se visitare o meno Concepción, la partita non era ancora chiusa. E la più elementare prudenza consigliava che la cosa migliore era quella di posticipare il viaggio, aspettando tempi più tranquilli, giacché in quella regione si svolgeva una guerra senza quartiere tra militari e sovversivi. Ma Laghi accettò. E fu una decisione che avrebbe pagato cara perché avrebbe dovuto immaginare che la sua visita sarebbe stata strumentalizzata dai responsabili delle operazioni militari. E lui non poteva non conoscere chi erano il generale Luciano Benjamín Menéndez e i suoi due diretti subordinati, i generali Abel Acdel Vilas e Antonio Domingo Bussi. Tutti, in Argentina, erano informati sulla assoluta mancanza di scrupoli con cui questi comandanti agivano per portare a compimento la loro messianica crociata antieversiva. I1 trio era noto come il più crudele e implacabile nella lotta repressiva . Ed era per questo che si trovavano nel punto più caldo della guerra in atto.

 

Monsignor Claudio Maria Celli, che conosce molto bene l'ex Nunzio Laghi avendo lavorato alle sue dipendenze nell'ultimo periodo del suo servizio diplomatico a Buenos Aires[2], lo giustifica dicendo che Laghi non era tipo da fare speculazioni e sempre affrontò i problemi "a cuore aperto", lasciandosi trasportare dalla generosità del suo spirito e assumendosi tutti gli eventuali rischi che tale comportamento poteva comportare. Non è il caso di alimentare lo sterile dibattito sul dilemma se Laghi avesse fatto bene o male a visitare la provincia di Tucumán in fiamme. Senza dubbio, recarsi sul posto fu un'imprudenza, dal momento che la battaglia tra l'Esercito e gli irregolari dell'ERP era nella sua fase culminante. I1 viaggio implicava rischi imprevedibili, per non parlare della sicurezza personale. Ma Laghi pensò di non poter deludere un Vescovo la cui unica aspirazione era quella di mostrare al Rappresentante Pontificio in Argentina la sua opera, realizzata con l'apporto generoso dei fedeli e delle istituzioni di beneficenza.

 

Quando l'aereo di linea su cui viaggiava atterrò all'aeroporto di Tucumán il Nunzio Laghi non sapeva che stava dando a Monsignor Ferro una doppia gioia. Il 24 giugno ricorreva il compleanno dell'anziano prelato, che era a capo della Diocesi, dalla sua elezione nell'agosto 1963, e svolgeva il suo lavoro pastorale con enormi sacrifici. Aveva infatti a sua disposizione non più di una ventina di sacerdoti diocesani e cinque religiosi. Aspettavano il Nunzio, oltre a Ferro, l'Arcivescovo Blas Conrero, esponenti del clero, di famiglie religiose e del laicato cattolico dell'Arcidiocesi. All'aeroporto c'era anche il Comandante delle truppe antiguerrigliere, generale Bussi che, secondo la pratica adottata dal regime per Tucumán, era anche Governatore della sconvolta provincia. Lo circondavano i componenti del suo Stato Maggiore.

 

Dopo che una formazione militare ebbe reso gli onori all'ospite, i militari decisero che il trasferimento a Concepción (a 75 kilometri) avvenisse in elicottero perché ‑ arguirono ‑ il viaggio era pericoloso e lungo le piantagioni di canna da zucchero, ai lati della strada, si appostavano i guerriglieri. Con mille precauzioni, l’elicottero decollò, ma prima di arrivare a Concepción fece un breve scalo a Yacuchina, un paesetto nel Dipartimento di Monteros, nella sconfinata steppa coltivata, dove aveva la sua base operativa la "Fuerza de Tareas Sottotenente Diego Barceló " che era il contingente dell'Esercito che operava in prima linea contro la guerriglia. Quando scese dall'elicottero, seguito da Monsignor Ferro, Laghi fu ricevuto dal Capo dell'unità, Tenente Colonnello Jorge del Pino, un ufficiale dai modi schietti e dalle poche parole, mentre il gruppo dei combattenti Yuka, gli rendeva omaggio. Subito dopo, ufficiali, sottufficiali e, soprattutto, soldati del battaglione, in assetto di guerra, gli si strinsero intorno, manifestandogli vive espressioni di simpatia.

 

In quel clima di cordialità, il secondo Capo del gruppo, il maggiore Juan Durán, si avvicinò a Laghi e gli consegnò un pezzo di carta scarabocchiato a mano con un lessico approssimativo che diceva: "Lei farà bene ad incoraggiare con le sue eloquenti parole questi "crociati" che con il generoso sacrificio delle proprie vite difendono Dio e la patria"[3].

 

Laghi si sentì in obbligo di rivolgere alcune parole, dando ascolto alla supplica dell'ufficiale, che aveva chiesto la benedizione per i suoi soldati. Ciò che Laghi disse è riportato in tre cronache giornalistiche pubblicate, rispettivamente, il 25 ed il 26 giugno. La prima è del quotidiano locale "La Gaceta", che ovviamente la pubblicò prima per ragioni di vicinanza. La seconda è "La Opinión" e apparve a Buenos Aires sabato 26. Non si evincono grandi differenze nei concetti che si attribuiscono al Nunzio in ambedue le occasioni.

 

I due giornali riferiscono che Laghi esortò i soldati a unire l'amore a Dio con l'amore alla Patria, a comportarsi con ubbidienza agli ordini dei superiori e a tenere sempre in conto i principi cristiani. Ed elogiò il sacrificio a cui si votavano "in questa zona così aura e pericolosa per compiere il dovere che è al di sopra degli altri doveri, ossia quello di difendere i principi di Dio, Patria e Famiglia". Quindi i soldati si inginocchiarono e il Nunzio impartì loro la benedizione.

 

Finita la breve cerimonia, l'elicottero prese di nuovo quota per atterrare, pochi minuti dopo, a Nueva Baviera, dove ‑in un enorme edificio di vari piani ‑ funzionava uno zuccherificio che era l'industria più importante della zona. I1 Nunzio continuò il tragitto in macchina fino a Concepción, in quanto non c'era più il pericolo di imboscate.

 

A Concepción, Laghi fu accolto calorosamente. Nella piazza principale si erano riunite alcune migliaia di fedeli che lo applaudirono con entusiasmo. Seguirono le manifestazioni protocollari di circostanza, compreso il messaggio di benvenuto del sindaco e la visita alla chiesa, la benedizione dei nuovi uffici della Curia e, nel pomeriggio, della Casa per Anziani. Fece seguito una manifestazione nel teatro della Scuola delle Religiose della Consolazione. Quella povera gente non sapeva come esprimere la sua gioia per la insolita e inaspettata presenza in quell'angolo sperduto del mondo nientedimeno che del Rappresentante del Papa. Stanco, estenuato, ma con l'animo ricolmo di gioia per quelle manifestazioni d'affetto che aveva ricevuto e che non aveva interpretato mai come tributo personale, ma come destinate al Papa, che lui rappresentava, Laghi se ne andò a riposare nella casa episcopale di Monsignor Ferro.

 

I1 giorno seguente, venerdì 25, ebbe inizio con una conferenza stampa che il prelato vaticano tenne per i giornalisti nella Curia. I1 giornale nazionale "La Razón", nella sua edizione di sabato 26, trascrisse le risposte che dette il Nunzio alle loro domande. Gli attribuisce di aver detto che la violenza imperante nel Paese era d'origine ideologica e che giungeva da fuori, di aver citato una frase del Cardinale Raul Primatesta[4] secondo cui "mai la violenza è giusta, ma nemmeno la giustizia deve essere violenta", d'aver criticato "l'invasione di idee che mettono a repentaglio i valori fondamentali" e di aver chiarito, nel brano più polemico del suo intervento, che "in certe situazioni l'autodifesa esige determinate posizioni, con il rispetto dei diritti umani fino dove questo sia possibile".

 

I1 giornale indica poi che, per riferirsi all'emergenza creata, Laghi applicò il pensiero di San Tommaso d'Aquino, che sostiene: "in questi casi l'amore per la Patria è equivalente all'amore per Dio".

 

In Argentina tali concetti ‑ soprattutto quelli che rendevano relativo il rispetto per la vita degli eversivi ‑ sono stati duramente biasimati perché si è visto in essi un'adesione acritica da parte del Nunzio ai metodi di repressione. Laghi ha sempre sostenuto che il giornale gli attribuì frasi che lui non disse mai e "non riportò fedelmente" le sue parole, travisandole e mettendole sotto una luce equivoca, come si lamentò amaramente nel suo primo rapporto alla Segreteria di Stato. Anni più tardi, i suoi critici sbandierarono il fatto come una pretesa dimostrazione della sua collusione con i militari.

 

I1 Cardinal Laghi riconosce oggi che forse avrebbe dovuto essere più prudente e risparmiarsi quei concetti improvvisati che potevano essere interpretati come esageratamente condiscendenti. Ma lui era ‑ ed è ancora ‑ così: un uomo dotato di spontaneità, di freschezza d'animo, incapace di non lasciarsi contagiare dalle atmosfere come quella che aveva incontrato nello scenario di Tucumán, dove si era venuto a trovare gomito a gomito con soldati di leva provenienti da umili famiglie contadine e con gente semplice, che credeva in Dio ed esprimeva la propria fede con gioiosa ingenuità. Crediamo che sia ingiusto riferirsi alle sue parole, estrapolandole dal contesto in cui aveva luogo quella visita e attribuendo loro il valore di un appoggio incondizionato al regime militare e di una complicità con la repressione illegale che la sua condotta futura smentirà apertamente.

 

Ma sarebbe altrettanto miope dimenticare che Laghi era il rappresentante in Argentina di una Chiesa che, all'epoca, era immersa nella contraddizione ideologica che avrebbe trovato soluzione soltanto nel 1989 con l'abbattimento della Cortina di Ferro e la sconfitta definitiva dell'ideologia comunista. E' probabile che Laghi si sia sentito proclive a vincolare la guerriglia trotzkista dell'ERP con quel "fumo di Satana" di cui aveva parlato Paolo VI e che la società argentina ripudiava in quei giorni senza lasciar margine ad alcuna esitazione. A1 suo fianco, durante tutta la visita, la presenza dei Monsignori Conrero e Ferro glielo rammentava continuamente.

 

In fin dei conti, l'ERP rappresentava o no "l'invasione di strane ideologie"? Aderiva o no l'Esercito Rivoluzionario del Popolo alla IV Internazionale trotzkista diretta da Ernst Mandel, Pierre Frank e Alain Krivine? Che aveva in comune Leone Trotzkij con la cultura cattolica e le tradizioni argentine? L'ERP non era stato duramente svilito dallo stesso Perón, che era stato in Argentina il leader populista per eccellenza?

 

Non era solo Laghi che vedeva nei guerriglieri degli "invasori con strane ideologie". Lo stesso dicevano i Tucumáni, soprattutto i contadini, presunti destinatari del loro messaggio politico. E questo spiega perché l'ERP non abbia fatto mai breccia nelle masse rurali della provincia e che i suoi membri passassero dal discredito all'isolamento e da questo al massacro e allo sterminio.

 

Ma da ciò a giustificare gli abusi della repressione militare, che aveva trasformato la lotta armata in una vera partita di caccia, come l'avrebbe definita il futuro Segretario di Stato  nordamericano Alexander Haig, c'è una differenza abissale. E qualsiasi giustificazione in questo senso era (ed è) ancora più inaccettabile di fronte al programma di sterminio che si consumava nell'ombra, esteso anche a migliaia di persone che erano soltanto sospettate di presunta collusione con gli eversori.

 

E fu la giustificazione del loro operato e dei loro abusi nella guerra di Tucumán che i militari chiesero al Rappresentante Pontificio prima che terminasse la sua visita. Laghi si era accomiatato da Concepción in un clima festoso senza precedenti. La povera gente del luogo lo aveva applaudito nella piazza centrale, i sacerdoti della Diocesi ‑ pochi, sprovvisti di mezzi e che si arrabattavano tra enormi difficoltà ‑ gli avevano raccontato i loro problemi ed egli li aveva ascoltati e incoraggiati. Con le suorine, dopo aver celebrato la messa, aveva condiviso una sobria merenda. Aveva fatto di nuovo un salto allo zuccherificio Nueva Baviera, dove aveva partecipato a un gigantesco "asado", la tipica grigliata argentina, alla presenza di dirigenti e lavoratori, in un'atmosfera di sano cameratismo. Anche nel paesino di Monteros gli avevano tributato un caloroso benvenuto. Scrivera nella sua relazione al Cardinal Villot; "Ho notato in questi fedeli, quasi tutti di umile estrazione sociale, una commovente adesione alla Chiesa e al Vicario di Cristo"[5].

 

Era ora di ritornare a Buenos Aires. Sabato 26, al mattino, la comitiva si trasferì a San Miguel de Tucumán dove Monsignor Conrero lo aveva invitato a visitare la cattedrale e la Curia ecclesiastica. Da lì, all'imbrunire, il gruppo si recò all'aeroporto "Benjamín Matienzo" dove Laghi doveva imbarcarsi sul volo di linea che l'avrebbe ricondotto alla capitale. Nella sala d'attesa dell'aeroporto, il Nunzio avrebbe affrontato il momento più difficile della sua convulsa visita.

 

Un nutrito drappello di militari, con a capo il generale Bussi e il secondo Comandante della V Brigata di Fanteria, colonnello Alberto Luis Cattaneo, attendeva Laghi e la sua comitiva ecclesiale. Erano circondati dallo Stato Maggiore e da numerosi ufficiali, tutti in divisa da combattimento. Complessivamente, erano quasi un centinaio di persone. Avevano il viso arso dal sole e si capiva che si trattava di gente che nella lotta armata contro i guerriglieri agiva senza troppi scrupoli.

 

Quando Laghi arrivò, i militari lo circondarono e si trasferirono tutti nella parte alta dell'edificio, dove attualmente c'è una scuola. In un ampio salone, chiuso ermeticamente agli estranei, per tre ore, ebbe luogo una conversazione molto tesa, durissima, quasi una requisitoria, in cui i capi militari formularono a Laghi domande, per lo più riferite alla legittimità etico‑morale dei metodi (concentramento di prigionieri, torture sistematiche, operazione repressive clandestine) che usavano nella lotta anti‑eversiva. I militari esigevano dal Rappresentante del Papa una giustificazione dei loro metodi operativi. Quando gli prospettarono il problema, che nel corso della conversazione sarebbe stato esclusivo, Laghi per un momento vacillò. Sicuramente si chiese se, nella sua veste di inviato pontificio, fosse abilitato a esprimere giudizi sulla questione. Ma, alle sue spalle, Monsignor Conrero (che non era proprio un prelato per nulla accondiscendente alla guerriglia) e gli altri sacerdoti lo incalzarono, "Sì, Monsignore, risponda". E Laghi rispose.

 

Nel rapporto che avrebbe poi elaborato per il Cardinale Jean Villot, Laghi avrebbe sottolineato le difficoltà incontrate in quella conversazione di circa tre ore. I capi e gli ufficiali, con garbo, utilizzavano "un gergo a volte duro" che il diplomatico vaticano attribuì alla "ferrea disciplina militare che questi uomini in armi mantengono in una zona tanto nevralgica e pericolosa"

 

Vari quotidiani nazionali riferirono le risposte che Laghi fornì a Bussi e ad alcuni dei suoi ufficiali, ma già nel rapporto che stese per la Segreteria di Stato (quindi ancora "a caldo" e senza poter presagire future ed eventuali complicazioni), il prelato si lamentò perché "la stampa nazionale (...) non sempre le riporto fedelmente"[6]. La cronaca più completa fu quella del giornale "La Nacion", secondo il quale Laghi avrebbe detto: "I valori cristiani sono minacciati da un’ideologia che viene respinta dal popolo e la Nazione reagisce come un qualsiasi organismo vivo, che genera anticorpi verso i germi che tentano di distruggere la sua struttura e crea la sua difesa servendosi di mezzi imposti dalla situazione". "In questa lotta ognuno ha la sua parte di responsabilità, la Chiesa e le Forze Armate. La prima è inserita nel "Processo" e accompagna la seconda, non solo con le sue preghiere, ma con azioni in difesa e promozione dei diritti umani e della Patria". "La Chiesa e come l'anima del popolo e lo accompagna nelle sue vicissitudini senza appoggiare nessuna politica contingente. E' una esigenza pastorale che va compresa nella sua esatta dimensione tenendo conto che non si possono ignorare i problemi esistenti".

 

"Quando c'è non solo un’invasione di stranieri ma anche di idee che mettono in pericolo valori essenziali, va applicato il pensiero di San Tommaso d'Aquino, secondo cui in tali casi l'amore per la Patria è equivalente all'amore per il Signore. Difendendo la Patria, gli uomini d'armi a tutti i livelli, compiono il dovere prioritario di amare Dio e la Patria in pericolo". "Come sostiene Monsignor Primatesta, la violenza non è mai giusta, ma la giustizia non deve essere violenta, sebbene ci siano situazioni in cui l'autodifesa esige prendere posizioni che implicano il rispetto della legge fino al limite del possibile"(sic)[7].

 

Laghi ha sempre negato con fermezza di aver espresso ai militari la maggior parte di questi concetti, fatta eccezione del riferimento a quanto detto dal Cardinale Primatesta, che ripete più volte. E, soprattutto, ha negato di aver dato un senso riduttivo ("fino al limite del possibile") al rispetto dei diritti umani. Addirittura, in un'intervista concessa qualche anno fa a uno degli autori di questo libro, si era lamentato per lo stravolgimento delle sue affermazioni e perché non si faceva riferimento a frasi da lui pronunciate, sulle quali aveva messo particolare enfasi. Per esempio, quando disse ai militari: "Pregate il Signore perché vi aiuti e non dimenticate che il comandamento di Dio, 'onora il padre e la madre', si estende anche alla Patria". O quando li ammonì: "Non so cosa stia succedendo agli argentini: fra loro è penetrato un virus che bisogna debellare, ma fin dove lo consenta il rispetto dei diritti umani"[8]. Si tratta di qualcosa di notevolmente diverso da ciò che gli attribuisce il giornale argentino. Le conseguenze furono gravi. Si scatenarono violente critiche da parte dei difensori dei diritti umani, in quanto secondo loro si era in presenza di una delle "prove" dell'adesione di Laghi all'esercizio della repressione indiscriminata e senza freni inibitori. E qualcuno arrivò a scrivere che queste pretese asserzioni sono state la "adesione ecclesiale più acritica verso la crociata castrense ascoltata durante il Processo"[9].

 

In quell'intervista, Laghi dichiarò amaramente: "Naturalmente loro controllavano la stampa, la manipolavano a loro capriccio. Protestai, chiesi una rettifica, ma non mi prestarono ascolto. Iniziai allora a capire che avevo di fronte gente sleale, scaltra, in grado di alterare e distorcere perfino le parole di un sacerdote, purché quest'ultimo sostenesse ciò che loro desideravano"[10].

 

Non è difficile credergli. Ai tempi della guerra civile a Tucumán la censura esercitata sui mezzi d'informazione aveva raggiunto punte di incredibile e brutale durezza. Ogni informazione riguardante i combattimenti che avevano luogo sulle montagne contro la guerriglia, era rigorosamente censurata e non si pubblicava una sola riga che non fosse stata previamente controllata e approvata dal Governo e dai militari (che poi erano la stessa cosa). Sui giornali appariva solo ed esclusivamente ciò che i militari volevano. E chi osava violare la minima regola del gioco imposta dai comandi repressivi, doveva pagarne le conseguenze. I1 principio era valido per chiunque, perfino per il più alto nella gerarchia sociale della provincia, come era il Direttore e proprietario del quotidiano "La Gaceta", Eduardo García Hamilton, sequestrato e maltrattato soltanto per aver diffuso l'appello d'una famiglia di fronte alla scomparsa d'un parente. In tutto quello che riguardava le operazioni militari contro la guerriglia nei monti o un qualsiasi fatto politico con riferimento al "Processo", l'Ufficio Stampa del Governo redigeva bollettini o "Parti" in cui si indicava quale fosse 1a versione dei fatti che si doveva pubblicare sulla stampa locale e nazionale.

 

Ancora oggi, vecchi redattori de "La Gaceta" ricordano quelle veline che, contrassegnate con un timbro di inchiostro rosso, arrivavano nelle loro mani con la versione ufficiale che doveva uscire sul giornale la mattina seguente. Non si potevano neanche remotamente discutere. Avventurarsi oltre le regole imposte dalla ferrea censura era rischiare la vita. I1 generale Bussi era un censore implacabile, come lo era stato il suo predecessore, il temibile generale Acdel Vilas.

 

Per cercare di conoscere la verità, non c'è di meglio che la parola di colui che, nel 1976, era capo dell'Ufficio Stampa del Governo di Tucumán e, al contempo, per strana coincidenza, corrispondente del quotidiano nazionale "La Nación" (ossia l'autore delle "veline" pubblicate il 27 e 29 giugno con le pretese frasi pronunciate da Laghi). Parliamo di Héctor Domingo Padilla, un esperto cronista che, a nostra richiesta, accettò di "rovistare" nei suoi ricordi personali.

 

Riferiamo qui di seguito la conversazione avuta con uno degli autori:

 

‑ "Ricordo bene che si trattava di un giorno grigio, nuvoloso, freddo, come è abituale a giugno qui a Tucumán. La riunione ebbe inizio tra le 17,00 e le 18,00 del pomeriggio e ne fu proibita la partecipazione ai civili. Pertanto nessun giornalista poté ascoltare le conversazioni tra i militari e il prelato che durarono molto tempo, credo quasi tre ore"...

 

"Ci perdoni, Padilla, ma questo ci giunge nuovo. Vuol dire che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nessun giornalista era presente durante il colloquio ne poté ascoltare le domande rivolte a Laghi dai militari e le risposte del Nunzio?"

 

"In effetti, fu così. Le informazioni fornite successivamente ai media furono il risultato di versioni divulgate dagli ufficiali presenti nel momento di lasciare il luogo. Neanche io potei assistere, nonostante il mio doppio incarico di Addetto Stampa del Governo e di corrispondente di guerra nella lotta in corso, perché l'accordo con Bussi era che le questioni strettamente militari erano esclusivamente di pertinenza dei comandi militari. E questo, per me, era un grande sollievo"...

 

"In parole povere, Lei si limitò a diffondere e a pubblicare nel suo giornale ciò che i militari le indicarono"...

 

Si, loro dissero che Monsignor Laghi aveva dato il suo assenso al quesito se fosse o meno legittimo e contemplato dalla dottrina cattolica uccidere elementi marxisti senza rispettarne i diritti umani ... In realtà, quello che i militari volevano era presentare quell'incontro come una sorta di benedizione dell'inviato del Papa ai metodi che adoperavano per sconfiggere l'eversione marxista. Volevano far credere che il Nunzio la pensava come loro e che era arrivato lì per benedire il loro pensiero sulla partecipazione del cristiano nella lotta contro il comunismo" ...

 

‑ "Da quello che Lei dice' si può desumere che non fu davvero così?"

 

‑"Per quanto io ne sappia, no. E fu per questo che la riunione fu lunga e agitata. I militari chiedevano a Laghi, quasi pretendevano alzando la voce e con metodi bruschi, che egli giustificasse pienamente le operazioni militari, perfino gli eccessi e gli abusi. Ma il Nunzio, tenacemente, non cedette. La sua fu un'ostinata resistenza. Lo raccontò anche Padre Veche, che era presente. Peccato che sia morto, e gli stessi Monsignori Conrero e Ferro. Veche raccontò che il Nunzio mantenne sempre un atteggiamento degno, senza stancarsi di ripetere che la dottrina della Chiesa non poteva giustificare le torture e le vessazioni e che, in quella guerra, questo andava tenuto in dovuto conto"[11].

 

Padre Juan Carlos Veche, che era il cappellano militare della V Brigata di Fanteria, in dichiarazioni rese tempo dopo al giornale locale "La Gaceta", rivelò che Laghi si era comportato in quella circostanza come "un eccellente diplomatico e un convinto sacerdote, giacché non cedette alle pressioni ne si espresse nella forma che i militari esigevano"[12]. Per questo, racconta ancora Padilla, ci furono momenti in cui la conversazione fu tesa, durissima. Ma Laghi si mantenne nella sua posizione, imperturbabile, senza lasciarsi intimorire dalle parole e dalle pressioni, quasi minacciose, degli uomini in divisa. Tenacemente si rifiutò di dire ai suoi interlocutori quanto questi, per giustificare i loro metodi, volevano.

 

In tale campo, fu questa la sua condotta costante, confermata ‑come si vedrà più avanti ‑ dai sacerdoti e cappellani militari che si riunivano periodicamente con lui e ai quali delineava la condotta da seguire in quella guerra senza quartiere. Laghi non si sarebbe stancato mai di ribadire un deciso "no" alla torture e alla violazione dei diritti umani.

 

Nel suo rapporto alla Segreteria di Stato, redatto al suo ritorno a Buenos Aires e che non ammette sospetti di tergiversazioni, giacché fu scritto "a caldo", Laghi spiega così il suo comportamento: `'Cercai di chiarire (ai militari) alcuni concetti sul ruolo della Chiesa, sul triste fenomeno della violenza e della repressione e sulla difesa dei più alti valori morali che si identificano con la fede in Dio, il rispetto della vita, l'amore per la Patria e le sue più nobili tradizioni"[13]. Non è difficile capire che quello che disse loro fu che la dottrina cattolica non può assolutamente giustificare, da nessun punto di vista, un totale disprezzo per la vita umana.

 

Indubbiamente, non era stata un'esperienza né facile né gradevole. Si era trovato solo, a tu per tu con quegli uomini inaspriti dalla lotta contro i loro nemici marxisti, tanto lontani dal Vangelo come i guerriglieri atei che avevano eliminato Dio dalla propria vita.

 

A1 suo rientro a Buenos Aires, notò che i giornali riferivano cose che egli non aveva detto. Ma non comprese subito che era stato vittima di una di quelle "operazioni d'immagine", a cui il generale Bussi prestava particolare attenzione, perché era un capo militare che già allora nutriva aspirazioni politiche e non perdeva mai l'occasione propizia per essere in contatto con le cosiddette "forze civiche". Organizzava queste operazioni affinché la gente della sua stessa provincia pensasse che i campi di concentramento fossero "un'invenzione dei sovversivi" e cercava una legittimazione etica e morale per la lotta che lui ed i suoi uomini stavano compiendo[14]. Astuto e ambizioso, Bussi aveva dato un senso ben preciso alla presenza in Tucumán del delegato pontificio: 1' aveva considerata un'occasione unica per cercare quel consenso che inseguiva con tanto accanimento.

 

Nel suo rapporto al Cardinale Villot, Laghi enumerò con precisione tutti i passi fatti nelle 72 ore della sua visita a Tucumán, senza mai dare l'impressione di forzare l'accaduto o di essere prevenuto per aver detto frasi compromettenti. Fu un racconto succinto, austero, ma scritto con passione, che lascia trasparire una manifesta soddisfazione personale. La visita era stata, in termini pastorali, un vero successo.

 

Quel viaggio tornò a essere di attualità alcuni anni dopo, per altre ragioni e circostanze che egli ‑ mentre scriveva a Villot ‑ non avrebbe mai nemmeno remotamente sospettato.

 

Il 24 settembre 1984, Ernesto Sabato, Presidente della CONADEP, consegnò al presidente Raul Alfonsín ‑eletto democraticamente l'anno prima ‑ la relazione finale della inchiesta sui "desaparecidos". Accludeva i nomi di 8.961 persone inghiottite nel nulla, delle quali non si era saputo più niente. L'inchiesta finiva con queste agghiaccianti parole: "Quanto accaduto in Argentina non fu un errore attribuibile a un eccesso di azione repressiva: fu piuttosto l'esecuzione di un freddo e calcolato progetto di sterminio".

 

Al contempo, Sábato consegnò al Capo dello Stato un'altra lista, destinata a rimanere segreta, con 1.351 persone menzionate dai superstiti nel corso delle testimonianze. Su alcune di esse, tanto il presidente Alfonsín come le massime autorità della CONADEP (in seno alla quale ebbero luogo dure controversie) si accordarono nel non divulgare i nomi, per una o per altra ragione[15]. Una quindicina corrispondeva a uomini di Chiesa. Una di queste persone era proprio Monsignor Laghi, che oramai era Delegato Apostolico della Santa Sede presso il Governo degli Stati Uniti, il primo nella storia delle relazioni tra Washington ed il Vaticano. In quei giorni di gran tramestio, poiché la menzione di Laghi provocò non poco scompiglio e sorpresa in ambienti cattolici e indipendenti, il suo principale e ostinato difensore fu Monsignor Jaime de Nevares, l'anziano Vescovo di Neuquén, che faceva parte della CONADEP ed era stato, nei tempi del regime militari, uno dei più coraggiosi oppositori.

 

Conosciuta la segnalazione, il prelato dichiarò che si trattava di una "calunnia inaccettabile", sottolineò che Laghi "si era occupato molto del problema dei perseguitati e "desaparecidos", ricevendo centinaia di denunce e aiutando moltissima gente" ed espresse tutta la sua incredulità per le insinuazioni in atto: "Non corrispondono alla permanente preoccupazione del Nunzio Laghi per i perseguitati, posso affermarlo io stesso che non sono stato il suo confidente ma partecipe dei suoi sentimenti"[16]. Infine, e dopo non poche discrepanze esplose all'interno della CONADEP, prevalse la decisione di considerare le accuse come "inconsistenti". Il nome di Laghi, come quello di altri membri dell'elenco, andò a finire in una busta sigillata, nella cassaforte della Segreteria Generale della Presidenza. Nessuno parlò più della questione fino a che, nella sua edizione del 3‑9 novembre 1984, il settimanale "El Periodista" pubblicò la lista, certamente fatta pervenire alla redazione da qualcuno della CONADEP.

 

Ovviamente, il nome che più colpì fu quello di Laghi. Le accuse contro di lui provenivano da due testimonianze (numero 1276 e 0440 ricevute dalla CONADEP) che, poi, si ridussero a una sola: quella di un ex "desaparecido" ed esiliato a Madrid, tale Juan Martín, che affermava di aver visto il Nunzio nello zuccherificio Nueva Baviera, trasformato in campo di concentramento, in occasione dello scalo che Laghi vi aveva fatto, il primo giorno della sua visita a Tucumán. La rivelazione che Laghi figurava nell'elenco ebbe una ampia ripercussione nazionale e internazionale e lasciò aperte le porte alla supposizione ‑ convertita poi in aperta e violenta denuncia ‑ che il Nunzio conosceva l'esistenza dei campi di concentramento, senza aver mai riferito o denunciato pubblicamente quanto visto.

 

Martín aveva già denunciato Laghi tre anni prima, a metà dicembre 1981, presso la Commissione Argentina dei Diritti Umani, a capo della quale si trovava lo scrittore argentino Julio Cortázar. La Commissione, a sua volta, aveva trasmesso la testimonianza al Gruppo Speciale sulla Scomparsa Forzosa di Persone, organismo creato dall'ONU con sede a Ginevra, e appare a pagina 45 di un dettagliato ed esauriente resoconto della sua prigionia illegale nelle mani dell'Esercito, a Tucumán.

 

Si trascrive qui di seguito il brano riferito a Laghi:

 

‑"Questo campo di concentramento (NdA: dello zuccherificio Nueva Baviera)[17], trovandosi nelle vicinanze della sede del Comando della Zona Operazioni, veniva permanentemente visitato da alti ufficiali delle Forze Armate e delegazioni artistiche che intervenivano in manifestazioni ufficiali, di cui era indubbio il proposito propagandistico. Fu visitato anche dal rappresentante diplomatico della Santa Sede, Monsignor Pio Laghi, che durante la sua permanenza a Nueva Baviera conversò, a richiesta dei comandanti dell'Esercito, con tre detenuti scomparsi, uno dei quali ero io. Fummo condotti al suo cospetto sotto minaccia. L'incontro con Monsignor Laghi ebbe luogo in un capannone vicino all'eliporto. Erano presenti il generale Bussi, il Tenente Colonnello Arrechea, altri due o tre alti ufficiali dell'Esercito, a me sconosciuti, vari prelati e, forse, qualche Vescovo della zona. Laghi aveva fatto una visita al Sud della provincia, quando mi portarono da lui. Mi fu chiaro che la sua visita alla zona volgeva al termine. Quel giorno, che io colloco forse all'inizio di dicembre 1976, la guardia del campo di concentramento mi ordinò che mi lavassi e mi diede i mezzi per radermi (fu l'unica volta che lo feci in tutto il periodo di prigionia a Nueva Baviera), oltre a fornirmi degli abiti in buono stato per migliorare il mio aspetto esteriore, che poi tornarono a togliermi.

 

Queste misure causarono la mia sorpresa, che aumentò ulteriormente quando, accompagnato dal colonnello Arrechea, che venne a prendermi fino al laboratorio, corremmo con tre guardie fino al capannone dove c'era Laghi. Per me fu un vero colpo uscire dalla mia reclusione e trovarmi in piena luce, senza la benda che mi copriva gli occhi e senza le manette. Inoltre, mi causarono una profonda impressione la presenza di alti ufficiali dell'Esercito e di sacerdoti, il rumore degli elicotteri ed una certa confusione del personale militare. Io non sapevo chi fosse Monsignor Laghi, così come ignoravo le sue funzioni diplomatiche. La sua presenza era imponente: un uomo alto, robusto, con la sottana e la testa coperta da un cappello nero semicilindrico e a tesa larga. Non facilitava la comunicativa. Quando giunsi sul luogo, Laghi si accingeva a salire a bordo di un elicottero. Fu il generale Bussi che prese l'iniziativa: "Questo è uno dei detenuti" disse e in seguito fece la mia presentazione, con netto stile poliziesco. Laghi si limitò a chiedermi se stavo bene, se venivo ben trattato, ecc., tutte domande dalla risposta ovvia per un "desaparecido" nelle mani dei suoi sequestratori, che sono membri di alti comandi militari e padroni dello Stato. Bussi, evidentemente imbaldanzito dalla passività di Laghi, cominciò a pressarlo affinché domandasse a me, che già ero sequestrato da cinque mesi, che ero stato selvaggiamente torturato e che ero a soli 60 metri dal luogo della mia reclusione, quanto ci fosse di verità in quelle storie delle torture con scariche elettriche e della "violazione dei diritti umani a cui tanto era interessato. Laghi fece dei passi avanti, come per separarsi dal gruppo, sebbene a tale distanza qualsiasi nostra parola sarebbe stata perfettamente udita da Bussi. Mi chiese come mi chiamavo e se i mici genitori sapevano della mia reclusione. Bussi si avvicinò, accompagnato da Arrechea, mentre io rispondevo identificandomi, indicando a Laghi il tempo che trascorrevo come prigioniero e la assoluta ignoranza della mia famiglia su dove io fossi. Per tutta risposta, Monsignor Laghi mi abbracciò, mi fece omaggio di una copia della Bibbia e mi esortò ad avere "fede e speranza..," e ci separammo: lui, accompagnato da Bussi, Arrechea e il seguito di ufficiali e sacerdoti, andò verso l'elicottero. Io fui riportato al campo di concentramento".

 

Fin qui il racconto di Martín, da lui stesso ratificato in seno alla CONADEP. Il 7 novembre 1984, il quotidiano "La Voz" lo pubblicò integralmente, con ripercussioni internazionali che giunsero alla Santa Sede. Il 19 marzo 1985, l'allora Segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, Monsignor Achille Silvestrini, chiese al Nunzio a Buenos Aires, Monsignor Ubaldo Calabresi, "informazioni utili per una precisa e dettagliata conoscenza dell'episodio".

 

Calabresi si mosse con celerità, recandosi a Tucumán i primi giorni di aprile per ottenere le informazioni che gli erano state sollecitate e riunire testimonianze personali dei protagonisti. Il Nunzio trasmise il risultato delle sue indagini alla Santa Sede con il rapporto del 26 aprile 1985[18]. Nelle sue ricerche, si scontrò con difficoltà oggettive. Sia Monsignor Conrero che Monsignor Ferro erano morti e il nuovo Vescovo di Concepción de Tucumán, Jorge Meinvielle non sapeva nulla poiché nel giugno del 1976 ‑ quando ebbe luogo il viaggio di Laghi ‑ era a capo di un'altra Diocesi.

 

Calabresi ascoltò il racconto del generale Bussi, il quale disse che "la presenza a Tucumán del Nunzio Laghi era stata la risposta a un invito ufficiale rivolto dal Governatore e Comandante delle truppe impegnate nella guerra contro l'aggressione armata marxista‑comunista". Ossia un invito formulato da lui stesso. Era una menzogna madornale. E' infatti noto che il viaggio del Rappresentante Pontificio ebbe carattere esclusivamente pastorale e rispondeva all'invito di Monsignor Ferro. Altrettanto inesatta risultò la ricostruzione che Bussi fece dell'itinerario del prelato, negando che l'elicottero avesse fatto scalo a Nueva Baviera. Fatto sostenuto da Martín e mai negato da Laghi, il quale con assoluta serenità ("sicuro di non aver nulla da rimproverarsi", dice Calabresi) confermò anche in una relazione intitolata "La Mia Difesa" che si trova nell'Archivio Segreto Vaticano e non può essere consultata.

 

Ma il Nunzio Calabresi ottenne da Bussi un'altra notizia, che costituisce il punto di partenza per smontare il diffamatorio castello d'accuse costruito dall'ex "desaparecido" Martín: il suo arresto da parte dell'Esercito –e questo e inconfutabile avvenne nell'agosto del 1976, ossia due mesi dopo la visita di Laghi a Tucumán. La conclusione e ovvia: l'incontro tra i due non ebbe mai luogo. E la sua inesistenza, senza volerlo, la conferma lo stesso Martín quando dice, nel suo racconto testuale che abbiamo trascritto, che l'incontro con Pio Laghi risale "agli inizi del mese di dicembre". Il falso è evidente. Lo ha riconosciuto perfino un severissimo critico di Laghi, Emilio Mignone, difensore dei diritti umani e presidente del CELS, nel suo libro "Les 'Disparus' d'Argentine"[19]. Secondo Mignone, il racconto di Martín non è del tutto falso. Sicuramente fu condotto alla presenza di un prelato importante, cosa abbastanza frequente quando i capi militari volevano costringere i prigionieri a dare un'immagine dei loro carcerieri che non aveva alcun riscontro nella realtà. Ma quel prelato non era Laghi. Si trattava forse di qualche cappellano militare. Lo stesso Martín ammette di non sapere chi fosse Laghi e il fatto che lo descriva come "un uomo alto e robusto" (Laghi lo è solo parzialmente) non dice niente.

 

Inoltre, il Nunzio, in quel viaggio, non indossava la sottana né portava, come dice Martín, "la testa coperta da un cappello nero semicilindrico e a tesa larga", accessorio che Laghi non usò mai.

 

Ma c'è dell'altro, e di non trascurabile importanza. Laghi, nella sua autodifesa, forse schiacciato dalla gravità delle accuse, affermò ripetutamente che non si rese conto che "in una parte del vastissimo edificio, con diverse dipendenze, ci fossero guerriglieri reclusi o che esistesse un carcere clandestino". E ribadì: "Non ebbi alcuna percezione al riguardo, né i miei occhi o la mia mente furono attratti dal minimo indizio esterno che potesse indurmi a pensarlo o sospettarlo. Nemmeno il Vescovo Ferro fece alcuna allusione e, essendo lui del luogo, avrebbe potuto mettermi in guardia o confidarmi qualcosa". Siamo in presenza di un'autodifesa tanto insistente quanto superflua, spiegabile solo in un uomo turbato e profondamente ferito da un'accusa ingiusta. Martín, in nessun punto della sua denuncia, dice che il campo di concentramento era "nello zuccherificio", ma a scarsa distanza da lui, tanto che "andammo quasi correndo con tre guardie fino al capannone dov'era Monsignor Laghi". Martín finiva il suo racconto affermando che, una volta che il generale Bussi e il seguito degli ufficiali e sacerdoti si diressero all'elicottero, lui e le sue guardie "tornarono al campo di concentramento". La conclusione è tanto ovvia quanto inconfutabile: seppure si ammettesse per assurdo che Laghi avesse incontrato il giovane che lo denunciò non avrebbe potuto in alcun modo sapere che il luogo era un campo di concentramento, perché il presunto colloquio si sarebbe svolto, per espressa ammissione dell'interessato, fuori da quest'ultimo. La relazione "Nunca Mas" identifica quel centro di reclusione clandestino "nel vecchio laboratorio (dello zuccherificio) e nelle sue dipendenze attigue, 30 metri a Sud dal portone principale"[20].

Quanto detto non fa che confermare le perplessità che solleva questa tesi accusatoria montata contro il prelato vaticano e che, ancora oggi, e non solo in Argentina, trovò eco in gruppi e persone che vogliono vedere negli episodi di quel viaggio a Tucumán le presume "prove" della sua complicità con la repressione illegale.

 

I1 Cardinale Laghi ha spesso ripetuto che porta sulle sue spalle una croce che si chiama Argentina. E' da credergli. I1 viaggio a Tucumán, che aveva accettato come un'innocente e benevola "incursione" pastorale per rallegrare un anziano Vescovo di provincia, si era trasformato in un calvario.

 

I due demoni ‑ i militari e i guerriglieri ‑ che interagivano senza tregua in quell'Argentina impazzita si erano presi per mano per metterlo sotto la medesima ed equivoca luce. Andavano nuovamente d'accordo, identificandosi di nuovo per presentare Laghi, con opposte intenzioni, come un deciso sostenitore della brutale "crociata" anticomunista avviata. Forse ‑ fu in seguito al viaggio a Tucumán che Laghi comprese una realtà inesorabile: non avrebbe potuto fare a meno di venir imbrattato dal fango che il trauma argentino sollevava. Era come se il destino lo sospingesse in questa direzione.



[1] Luis Mattini, "Hombres y mujeres del PRT‑ERP De Tucumán a La Tablada". Citato in "Clarín" del 19 luglio 1998.

[2] Monsignor Claudio Maria Celli è attualmente Segretario dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA).

[3] Vedere Documenti Allegati.

[4] Il Cardinale Raúl Primatesta fu, dal 1978 fino al termine del "Processo', Presidente della Conferenza Episcopale Argentina, essendo subentrato a Monsignor Adolfo Tortolo in tale incarico.

[5] Rapporto Numero 1379/76 del 1° luglio 1976 del Nunzio Pio Laghi al Segretario di Stato vaticano, Cardinale Jean Villot.

[6] Rapporto di Laghi a Villot, ibidem.

[7]  “La Nación”, 29 gingno 1976, pag. 8. Vedere anche Horacio Verbitsky, “Vox Dei”. In “Pagina 12”, 9 aprile 1995, pag. 2‑3. Ambedue sono quotidiani che si pubblicano in Argentina.

[8] Vedere Bruno Passarelli, "Harguindeguy se manejaba con cinismo ‑. In "Gente" di Buenos Aires dell'11 aprile 1995, pag. 34‑37.

[9] Vedere Horacio Verbitsky, "Vox Dei". In “Página 12”, 9 aprile 1995, pag. 2‑3.

[10] Bruno Passarelli, ibid., pag. 35.

[11] Testimonianza di Hector Padilla a uno degli autori. Il nastro registrato è in nostro possesso.

[12] Vedere "La Gaceta" del 3 ottobre 1983.

[13] Rapporto di Laghi a Villot, ibidem.

[14] Il Generale Bussi è stato fino a giugno dell'anno 1999 Governatore della provincia di Tucumán, incarico per il quale fu scelto per libera votazione della cittadinanza.

[15] Nella lista, poi censurata, apparivano 15 sacerdoti argentini, tra i quali Monsignor Antonio José Plaza, Arcivescovo di La Plata, i Vescovi Blas Conrero, di Tucumán, e José Miguel Medina, di Jujuy, Monsignor Emilio Grasselli, il sacerdote Christian Von Wernich e vari cappellani militari.

[16]  “Clarín”, 5 ottobre 1984, pag .2.

[17] Nella relazione "Nunca Más" della CONADER ibidem, pag. 215, si dice che lo zuccherificio di Nueva Baviera era il principale insediamento della repressione clandestina nell'area rurale di Tucumán, giacché "il campo concentrava un elevato numero di prigionieri catturati in tutta la provincia".

[18] Rapporto Numero 361/85 (73) del 26 apri1e 1985 del Nunzio Ubaldo Calabresi al Segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, Monsignor Achille Silvestrini.

[19] Emilio E Mignone, op. cit., pag.82.

[20] Vedere relazione "Nunca Mas" della CONADEP Op. cit., pag 102.