CAPITOLO 4
Tra militari e guerriglieri
Quando
i militari si impossessarono del potere, il 24 marzo 1976, Laghi aveva nella
sua agenda personale un invito che gli aveva rivolto alcuni mesi prima il
Vescovo di Concepción di Tucumán, Monsignor Juan Carlos Ferro. Il Presule stava
terminando i lavori di ristrutturazione della Curia e voleva mostrargli l'opera
in coincidenza con l'inaugurazione di una casa per anziani, denominata
"Pace e Bene".
Concepción
di Tucumán è un'antica città dai tempi della colonizzazione spagnola, situata a
1.200 chilometri a Nord Est di Buenos Aires, in una regione in cui i contadini
si dedicano alla coltivazione della canna da zucchero. Nelle settimane seguenti
al colpo di stato militare, la situazione era realmente caotica. Il trotzkista
Esercito Rivoluzionario del Popolo (ERP) ‑ uno dei due gruppi
guerriglieri più importanti e attivi ‑ e le truppe della V Brigata di
Fanteria, comandata dal generale Antonio Domingo Bussi, erano impegnati in una
lotta selvaggia e senza quartiere, dopo che la prima aveva "liberato"
una vasta regione e aveva messo in moto una esperienza di netto stampo
guevarista. L'Esercito, senza troppo pensare alla legittimità dei metodi
repressivi che applicava, cercava di cancellarla con il sangue e con il fuoco.
Era
in pieno sviluppo la cosiddetta "Operazione Indipendenza". Con le
casse traboccanti di denaro proveniente da riscatti, soprattutto dal sequestro
di imprenditori stranieri, l'ERP aveva raddoppiato la sua scommessa e alzato il
livello della sfida. Le sue azioni più frequenti erano attacchi alle
guarnigioni militari e la fucilazione dei suoi ufficiali. A metà del 1976 era
in programma la "liberazione" di una vasta zona montuosa che aveva
Concepción come epicentro. Per l'operazione erano stati convocati i migliori
militanti, che si presentavano ai contadini semianalfabeti vestiti con uniformi
militari. Nei paesi che occupavano, ammainavano la bandiera argentina e
issavano il proprio vessillo, celeste e bianco a righe verticali, con al centro
una stella rossa a cinque punte. Così avevano marciato per le strade di
Acheral, un paesino vicino a Concepción de Tucumán, al cospetto dei contadini
increduli e spaventati.
Non
c'erano dubbi: i guerriglieri trotzkisti volevano imporre in Argentina un
modello totalmente estraneo ed esotico, copiando quanto era successo a Cuba e
in Vietnam. Il capo, Mario Santucho, e i membri dell'Ufficio Politico della
banda d'irregolari "stavano completamente perdendo non solo la coscienza
ma anche l'iniziativa ed erano in preda allo sconforto", come scrisse uno
di loro, Luis Mattini[1].
Quella di Tucumán era disperazione pura, mista al gusto per l'avventura e a
ubriachezza ideologica. Entro poco tempo le truppe regolari ‑sostanzialmente
gli effettivi della V Brigata che operava in quella zona ‑ avrebbero
scaricato sui guerriglieri una tempesta di fuoco che li avrebbe annientati.
A
metà del 1976, quando Laghi decideva ‑ tra grandi perplessità ‑ se
visitare o meno Concepción, la partita non era ancora chiusa. E la più
elementare prudenza consigliava che la cosa migliore era quella di posticipare
il viaggio, aspettando tempi più tranquilli, giacché in quella regione si
svolgeva una guerra senza quartiere tra militari e sovversivi. Ma Laghi
accettò. E fu una decisione che avrebbe pagato cara perché avrebbe dovuto
immaginare che la sua visita sarebbe stata strumentalizzata dai responsabili
delle operazioni militari. E lui non poteva non conoscere chi erano il generale
Luciano Benjamín Menéndez e i suoi due diretti subordinati, i generali Abel Acdel
Vilas e Antonio Domingo Bussi. Tutti, in Argentina, erano informati sulla
assoluta mancanza di scrupoli con cui questi comandanti agivano per portare a
compimento la loro messianica crociata antieversiva. I1 trio era noto come il
più crudele e implacabile nella lotta repressiva . Ed era per questo che si
trovavano nel punto più caldo della guerra in atto.
Monsignor
Claudio Maria Celli, che conosce molto bene l'ex Nunzio Laghi avendo lavorato
alle sue dipendenze nell'ultimo periodo del suo servizio diplomatico a Buenos
Aires[2],
lo giustifica dicendo che Laghi non era tipo da fare speculazioni e sempre
affrontò i problemi "a cuore aperto", lasciandosi trasportare dalla
generosità del suo spirito e assumendosi tutti gli eventuali rischi che tale
comportamento poteva comportare. Non è il caso di alimentare lo sterile
dibattito sul dilemma se Laghi avesse fatto bene o male a visitare la provincia
di Tucumán in fiamme. Senza dubbio, recarsi sul posto fu un'imprudenza, dal
momento che la battaglia tra l'Esercito e gli irregolari dell'ERP era nella sua
fase culminante. I1 viaggio implicava rischi imprevedibili, per non parlare
della sicurezza personale. Ma Laghi pensò di non poter deludere un Vescovo la
cui unica aspirazione era quella di mostrare al Rappresentante Pontificio in
Argentina la sua opera, realizzata con l'apporto generoso dei fedeli e delle
istituzioni di beneficenza.
Quando
l'aereo di linea su cui viaggiava atterrò all'aeroporto di Tucumán il Nunzio
Laghi non sapeva che stava dando a Monsignor Ferro una doppia gioia. Il 24
giugno ricorreva il compleanno dell'anziano prelato, che era a capo della
Diocesi, dalla sua elezione nell'agosto 1963, e svolgeva il suo lavoro
pastorale con enormi sacrifici. Aveva infatti a sua disposizione non più di una
ventina di sacerdoti diocesani e cinque religiosi. Aspettavano il Nunzio, oltre
a Ferro, l'Arcivescovo Blas Conrero, esponenti del clero, di famiglie religiose
e del laicato cattolico dell'Arcidiocesi. All'aeroporto c'era anche il
Comandante delle truppe antiguerrigliere, generale Bussi che, secondo la
pratica adottata dal regime per Tucumán, era anche Governatore della sconvolta
provincia. Lo circondavano i componenti del suo Stato Maggiore.
Dopo
che una formazione militare ebbe reso gli onori all'ospite, i militari decisero
che il trasferimento a Concepción (a 75 kilometri) avvenisse in elicottero
perché ‑ arguirono ‑ il viaggio era pericoloso e lungo le
piantagioni di canna da zucchero, ai lati della strada, si appostavano i
guerriglieri. Con mille precauzioni, l’elicottero decollò, ma prima di arrivare
a Concepción fece un breve scalo a Yacuchina, un paesetto nel Dipartimento di
Monteros, nella sconfinata steppa coltivata, dove aveva la sua base operativa
la "Fuerza de Tareas Sottotenente Diego Barceló " che era il
contingente dell'Esercito che operava in prima linea contro la guerriglia.
Quando scese dall'elicottero, seguito da Monsignor Ferro, Laghi fu ricevuto dal
Capo dell'unità, Tenente Colonnello Jorge del Pino, un ufficiale dai modi
schietti e dalle poche parole, mentre il gruppo dei combattenti Yuka, gli
rendeva omaggio. Subito dopo, ufficiali, sottufficiali e, soprattutto, soldati
del battaglione, in assetto di guerra, gli si strinsero intorno,
manifestandogli vive espressioni di simpatia.
In
quel clima di cordialità, il secondo Capo del gruppo, il maggiore Juan Durán,
si avvicinò a Laghi e gli consegnò un pezzo di carta scarabocchiato a mano con
un lessico approssimativo che diceva: "Lei farà bene ad incoraggiare con
le sue eloquenti parole questi "crociati" che con il generoso
sacrificio delle proprie vite difendono Dio e la patria"[3].
Laghi
si sentì in obbligo di rivolgere alcune parole, dando ascolto alla supplica
dell'ufficiale, che aveva chiesto la benedizione per i suoi soldati. Ciò che
Laghi disse è riportato in tre cronache giornalistiche pubblicate,
rispettivamente, il 25 ed il 26 giugno. La prima è del quotidiano locale
"La Gaceta", che ovviamente la pubblicò prima per ragioni di
vicinanza. La seconda è "La Opinión" e apparve a Buenos Aires sabato
26. Non si evincono grandi differenze nei concetti che si attribuiscono al
Nunzio in ambedue le occasioni.
I
due giornali riferiscono che Laghi esortò i soldati a unire l'amore a Dio con
l'amore alla Patria, a comportarsi con ubbidienza agli ordini dei superiori e a
tenere sempre in conto i principi cristiani. Ed elogiò il sacrificio a cui si
votavano "in questa zona così aura e pericolosa per compiere il dovere che
è al di sopra degli altri doveri, ossia quello di difendere i principi di Dio,
Patria e Famiglia". Quindi i soldati si inginocchiarono e il Nunzio
impartì loro la benedizione.
Finita
la breve cerimonia, l'elicottero prese di nuovo quota per atterrare, pochi
minuti dopo, a Nueva Baviera, dove ‑in un enorme edificio di vari piani ‑
funzionava uno zuccherificio che era l'industria più importante della zona. I1
Nunzio continuò il tragitto in macchina fino a Concepción, in quanto non c'era
più il pericolo di imboscate.
A
Concepción, Laghi fu accolto calorosamente. Nella piazza principale si erano
riunite alcune migliaia di fedeli che lo applaudirono con entusiasmo. Seguirono
le manifestazioni protocollari di circostanza, compreso il messaggio di
benvenuto del sindaco e la visita alla chiesa, la benedizione dei nuovi uffici
della Curia e, nel pomeriggio, della Casa per Anziani. Fece seguito una
manifestazione nel teatro della Scuola delle Religiose della Consolazione.
Quella povera gente non sapeva come esprimere la sua gioia per la insolita e
inaspettata presenza in quell'angolo sperduto del mondo nientedimeno che del
Rappresentante del Papa. Stanco, estenuato, ma con l'animo ricolmo di gioia per
quelle manifestazioni d'affetto che aveva ricevuto e che non aveva interpretato
mai come tributo personale, ma come destinate al Papa, che lui rappresentava,
Laghi se ne andò a riposare nella casa episcopale di Monsignor Ferro.
I1
giorno seguente, venerdì 25, ebbe inizio con una conferenza stampa che il
prelato vaticano tenne per i giornalisti nella Curia. I1 giornale nazionale
"La Razón", nella sua edizione di sabato 26, trascrisse le risposte
che dette il Nunzio alle loro domande. Gli attribuisce di aver detto che la
violenza imperante nel Paese era d'origine ideologica e che giungeva da fuori,
di aver citato una frase del Cardinale Raul Primatesta[4]
secondo cui "mai la violenza è giusta, ma nemmeno la giustizia deve essere
violenta", d'aver criticato "l'invasione di idee che mettono a
repentaglio i valori fondamentali" e di aver chiarito, nel brano più
polemico del suo intervento, che "in certe situazioni l'autodifesa esige
determinate posizioni, con il rispetto dei diritti umani fino dove questo sia
possibile".
I1
giornale indica poi che, per riferirsi all'emergenza creata, Laghi applicò il
pensiero di San Tommaso d'Aquino, che sostiene: "in questi casi l'amore
per la Patria è equivalente all'amore per Dio".
In
Argentina tali concetti ‑ soprattutto quelli che rendevano relativo il
rispetto per la vita degli eversivi ‑ sono stati duramente biasimati
perché si è visto in essi un'adesione acritica da parte del Nunzio ai metodi di
repressione. Laghi ha sempre sostenuto che il giornale gli attribuì frasi che
lui non disse mai e "non riportò fedelmente" le sue parole,
travisandole e mettendole sotto una luce equivoca, come si lamentò amaramente
nel suo primo rapporto alla Segreteria di Stato. Anni più tardi, i suoi critici
sbandierarono il fatto come una pretesa dimostrazione della sua collusione con
i militari.
I1
Cardinal Laghi riconosce oggi che forse avrebbe dovuto essere più prudente e
risparmiarsi quei concetti improvvisati che potevano essere interpretati come
esageratamente condiscendenti. Ma lui era ‑ ed è ancora ‑ così: un
uomo dotato di spontaneità, di freschezza d'animo, incapace di non lasciarsi
contagiare dalle atmosfere come quella che aveva incontrato nello scenario di
Tucumán, dove si era venuto a trovare gomito a gomito con soldati di leva
provenienti da umili famiglie contadine e con gente semplice, che credeva in
Dio ed esprimeva la propria fede con gioiosa ingenuità. Crediamo che sia
ingiusto riferirsi alle sue parole, estrapolandole dal contesto in cui aveva
luogo quella visita e attribuendo loro il valore di un appoggio incondizionato
al regime militare e di una complicità con la repressione illegale che la sua
condotta futura smentirà apertamente.
Ma
sarebbe altrettanto miope dimenticare che Laghi era il rappresentante in
Argentina di una Chiesa che, all'epoca, era immersa nella contraddizione
ideologica che avrebbe trovato soluzione soltanto nel 1989 con l'abbattimento
della Cortina di Ferro e la sconfitta definitiva dell'ideologia comunista. E'
probabile che Laghi si sia sentito proclive a vincolare la guerriglia
trotzkista dell'ERP con quel "fumo di Satana" di cui aveva parlato
Paolo VI e che la società argentina ripudiava in quei giorni senza lasciar
margine ad alcuna esitazione. A1 suo fianco, durante tutta la visita, la
presenza dei Monsignori Conrero e Ferro glielo rammentava continuamente.
In
fin dei conti, l'ERP rappresentava o no "l'invasione di strane
ideologie"? Aderiva o no l'Esercito Rivoluzionario del Popolo alla IV
Internazionale trotzkista diretta da Ernst Mandel, Pierre Frank e Alain
Krivine? Che aveva in comune Leone Trotzkij con la cultura cattolica e le
tradizioni argentine? L'ERP non era stato duramente svilito dallo stesso Perón,
che era stato in Argentina il leader populista per eccellenza?
Non
era solo Laghi che vedeva nei guerriglieri degli "invasori con strane
ideologie". Lo stesso dicevano i Tucumáni, soprattutto i contadini,
presunti destinatari del loro messaggio politico. E questo spiega perché l'ERP
non abbia fatto mai breccia nelle masse rurali della provincia e che i suoi
membri passassero dal discredito all'isolamento e da questo al massacro e allo
sterminio.
Ma
da ciò a giustificare gli abusi della repressione militare, che aveva
trasformato la lotta armata in una vera partita di caccia, come l'avrebbe
definita il futuro Segretario di Stato
nordamericano Alexander Haig, c'è una differenza abissale. E qualsiasi
giustificazione in questo senso era (ed è) ancora più inaccettabile di fronte
al programma di sterminio che si consumava nell'ombra, esteso anche a migliaia
di persone che erano soltanto sospettate di presunta collusione con gli
eversori.
E
fu la giustificazione del loro operato e dei loro abusi nella guerra di Tucumán
che i militari chiesero al Rappresentante Pontificio prima che terminasse la
sua visita. Laghi si era accomiatato da Concepción in un clima festoso senza
precedenti. La povera gente del luogo lo aveva applaudito nella piazza
centrale, i sacerdoti della Diocesi ‑ pochi, sprovvisti di mezzi e che si
arrabattavano tra enormi difficoltà ‑ gli avevano raccontato i loro
problemi ed egli li aveva ascoltati e incoraggiati. Con le suorine, dopo aver
celebrato la messa, aveva condiviso una sobria merenda. Aveva fatto di nuovo un
salto allo zuccherificio Nueva Baviera, dove aveva partecipato a un gigantesco
"asado", la tipica grigliata argentina, alla presenza di dirigenti e
lavoratori, in un'atmosfera di sano cameratismo. Anche nel paesino di Monteros
gli avevano tributato un caloroso benvenuto. Scrivera nella sua relazione al
Cardinal Villot; "Ho notato in questi fedeli, quasi tutti di umile
estrazione sociale, una commovente adesione alla Chiesa e al Vicario di
Cristo"[5].
Era
ora di ritornare a Buenos Aires. Sabato 26, al mattino, la comitiva si trasferì
a San Miguel de Tucumán dove Monsignor Conrero lo aveva invitato a visitare la
cattedrale e la Curia ecclesiastica. Da lì, all'imbrunire, il gruppo si recò
all'aeroporto "Benjamín Matienzo" dove Laghi doveva imbarcarsi sul
volo di linea che l'avrebbe ricondotto alla capitale. Nella sala d'attesa
dell'aeroporto, il Nunzio avrebbe affrontato il momento più difficile della sua
convulsa visita.
Un
nutrito drappello di militari, con a capo il generale Bussi e il secondo
Comandante della V Brigata di Fanteria, colonnello Alberto Luis Cattaneo,
attendeva Laghi e la sua comitiva ecclesiale. Erano circondati dallo Stato
Maggiore e da numerosi ufficiali, tutti in divisa da combattimento.
Complessivamente, erano quasi un centinaio di persone. Avevano il viso arso dal
sole e si capiva che si trattava di gente che nella lotta armata contro i
guerriglieri agiva senza troppi scrupoli.
Quando
Laghi arrivò, i militari lo circondarono e si trasferirono tutti nella parte
alta dell'edificio, dove attualmente c'è una scuola. In un ampio salone, chiuso
ermeticamente agli estranei, per tre ore, ebbe luogo una conversazione molto
tesa, durissima, quasi una requisitoria, in cui i capi militari formularono a
Laghi domande, per lo più riferite alla legittimità etico‑morale dei
metodi (concentramento di prigionieri, torture sistematiche, operazione
repressive clandestine) che usavano nella lotta anti‑eversiva. I militari
esigevano dal Rappresentante del Papa una giustificazione dei loro metodi
operativi. Quando gli prospettarono il problema, che nel corso della
conversazione sarebbe stato esclusivo, Laghi per un momento vacillò.
Sicuramente si chiese se, nella sua veste di inviato pontificio, fosse
abilitato a esprimere giudizi sulla questione. Ma, alle sue spalle, Monsignor
Conrero (che non era proprio un prelato per nulla accondiscendente alla
guerriglia) e gli altri sacerdoti lo incalzarono, "Sì, Monsignore,
risponda". E Laghi rispose.
Nel
rapporto che avrebbe poi elaborato per il Cardinale Jean Villot, Laghi avrebbe
sottolineato le difficoltà incontrate in quella conversazione di circa tre ore.
I capi e gli ufficiali, con garbo, utilizzavano "un gergo a volte
duro" che il diplomatico vaticano attribuì alla "ferrea disciplina
militare che questi uomini in armi mantengono in una zona tanto nevralgica e
pericolosa"
Vari quotidiani nazionali riferirono le risposte che Laghi fornì a Bussi e ad alcuni dei suoi ufficiali, ma già nel rapporto che stese per la Segreteria di Stato (quindi ancora "a caldo" e senza poter presagire future ed eventuali complicazioni), il prelato si lamentò perché "la stampa nazionale (...) non sempre le riporto fedelmente"[6]. La cronaca più completa fu quella del giornale "La Nacion", secondo il quale Laghi avrebbe detto: "I valori cristiani sono minacciati da un’ideologia che viene respinta dal popolo e la Nazione reagisce come un qualsiasi organismo vivo, che genera anticorpi verso i germi che tentano di distruggere la sua struttura e crea la sua difesa servendosi di mezzi imposti dalla situazione". "In questa lotta ognuno ha la sua parte di responsabilità, la Chiesa e le Forze Armate. La prima è inserita nel "Processo" e accompagna la seconda, non solo con le sue preghiere, ma con azioni in difesa e promozione dei diritti umani e della Patria". "La Chiesa e come l'anima del popolo e lo accompagna nelle sue vicissitudini senza appoggiare nessuna politica contingente. E' una esigenza pastorale che va compresa nella sua esatta dimensione tenendo conto che non si possono ignorare i problemi esistenti".
"Quando
c'è non solo un’invasione di stranieri ma anche di idee che mettono in pericolo
valori essenziali, va applicato il pensiero di San Tommaso d'Aquino, secondo
cui in tali casi l'amore per la Patria è equivalente all'amore per il Signore.
Difendendo la Patria, gli uomini d'armi a tutti i livelli, compiono il dovere
prioritario di amare Dio e la Patria in pericolo". "Come sostiene
Monsignor Primatesta, la violenza non è mai giusta, ma la giustizia non deve
essere violenta, sebbene ci siano situazioni in cui l'autodifesa esige prendere
posizioni che implicano il rispetto della legge fino al limite del
possibile"(sic)[7].
Laghi
ha sempre negato con fermezza di aver espresso ai militari la maggior parte di
questi concetti, fatta eccezione del riferimento a quanto detto dal Cardinale
Primatesta, che ripete più volte. E, soprattutto, ha negato di aver dato un
senso riduttivo ("fino al limite del possibile") al rispetto dei
diritti umani. Addirittura, in un'intervista concessa qualche anno fa a uno
degli autori di questo libro, si era lamentato per lo stravolgimento delle sue
affermazioni e perché non si faceva riferimento a frasi da lui pronunciate,
sulle quali aveva messo particolare enfasi. Per esempio, quando disse ai militari:
"Pregate il Signore perché vi aiuti e non dimenticate che il comandamento
di Dio, 'onora il padre e la madre', si estende anche alla Patria". O
quando li ammonì: "Non so cosa stia succedendo agli argentini: fra loro è
penetrato un virus che bisogna debellare, ma fin dove lo consenta il rispetto
dei diritti umani"[8].
Si tratta di qualcosa di notevolmente diverso da ciò che gli attribuisce il
giornale argentino. Le conseguenze furono gravi. Si scatenarono violente
critiche da parte dei difensori dei diritti umani, in quanto secondo loro si
era in presenza di una delle "prove" dell'adesione di Laghi
all'esercizio della repressione indiscriminata e senza freni inibitori. E
qualcuno arrivò a scrivere che queste pretese asserzioni sono state la "adesione
ecclesiale più acritica verso la crociata castrense ascoltata durante il
Processo"[9].
In
quell'intervista, Laghi dichiarò amaramente: "Naturalmente loro
controllavano la stampa, la manipolavano a loro capriccio. Protestai, chiesi
una rettifica, ma non mi prestarono ascolto. Iniziai allora a capire che avevo
di fronte gente sleale, scaltra, in grado di alterare e distorcere perfino le
parole di un sacerdote, purché quest'ultimo sostenesse ciò che loro
desideravano"[10].
Non
è difficile credergli. Ai tempi della guerra civile a Tucumán la censura
esercitata sui mezzi d'informazione aveva raggiunto punte di incredibile e
brutale durezza. Ogni informazione riguardante i combattimenti che avevano
luogo sulle montagne contro la guerriglia, era rigorosamente censurata e non si
pubblicava una sola riga che non fosse stata previamente controllata e
approvata dal Governo e dai militari (che poi erano la stessa cosa). Sui
giornali appariva solo ed esclusivamente ciò che i militari volevano. E chi
osava violare la minima regola del gioco imposta dai comandi repressivi, doveva
pagarne le conseguenze. I1 principio era valido per chiunque, perfino per il
più alto nella gerarchia sociale della provincia, come era il Direttore e
proprietario del quotidiano "La Gaceta", Eduardo García Hamilton,
sequestrato e maltrattato soltanto per aver diffuso l'appello d'una famiglia di
fronte alla scomparsa d'un parente. In tutto quello che riguardava le
operazioni militari contro la guerriglia nei monti o un qualsiasi fatto
politico con riferimento al "Processo", l'Ufficio Stampa del Governo
redigeva bollettini o "Parti" in cui si indicava quale fosse 1a
versione dei fatti che si doveva pubblicare sulla stampa locale e nazionale.
Ancora
oggi, vecchi redattori de "La Gaceta" ricordano quelle veline che,
contrassegnate con un timbro di inchiostro rosso, arrivavano nelle loro mani
con la versione ufficiale che doveva uscire sul giornale la mattina seguente.
Non si potevano neanche remotamente discutere. Avventurarsi oltre le regole
imposte dalla ferrea censura era rischiare la vita. I1 generale Bussi era un
censore implacabile, come lo era stato il suo predecessore, il temibile
generale Acdel Vilas.
Per
cercare di conoscere la verità, non c'è di meglio che la parola di colui che,
nel 1976, era capo dell'Ufficio Stampa del Governo di Tucumán e, al contempo,
per strana coincidenza, corrispondente del quotidiano nazionale "La
Nación" (ossia l'autore delle "veline" pubblicate il 27 e 29
giugno con le pretese frasi pronunciate da Laghi). Parliamo di Héctor Domingo
Padilla, un esperto cronista che, a nostra richiesta, accettò di
"rovistare" nei suoi ricordi personali.
Riferiamo
qui di seguito la conversazione avuta con uno degli autori:
‑
"Ricordo bene che si trattava di un giorno grigio, nuvoloso, freddo, come
è abituale a giugno qui a Tucumán. La riunione ebbe inizio tra le 17,00 e le
18,00 del pomeriggio e ne fu proibita la partecipazione ai civili. Pertanto
nessun giornalista poté ascoltare le conversazioni tra i militari e il prelato
che durarono molto tempo, credo quasi tre ore"...
"Ci
perdoni, Padilla, ma questo ci giunge nuovo. Vuol dire che, contrariamente a
quanto si potrebbe pensare, nessun giornalista era presente durante il
colloquio ne poté ascoltare le domande rivolte a Laghi dai militari e le
risposte del Nunzio?"
"In
effetti, fu così. Le informazioni fornite successivamente ai media furono il
risultato di versioni divulgate dagli ufficiali presenti nel momento di
lasciare il luogo. Neanche io potei assistere, nonostante il mio doppio incarico
di Addetto Stampa del Governo e di corrispondente di guerra nella lotta in
corso, perché l'accordo con Bussi era che le questioni strettamente militari
erano esclusivamente di pertinenza dei comandi militari. E questo, per me, era
un grande sollievo"...
"In
parole povere, Lei si limitò a diffondere e a pubblicare nel suo giornale ciò
che i militari le indicarono"...
Si,
loro dissero che Monsignor Laghi aveva dato il suo assenso al quesito se fosse
o meno legittimo e contemplato dalla dottrina cattolica uccidere elementi
marxisti senza rispettarne i diritti umani ... In realtà, quello che i militari
volevano era presentare quell'incontro come una sorta di benedizione
dell'inviato del Papa ai metodi che adoperavano per sconfiggere l'eversione
marxista. Volevano far credere che il Nunzio la pensava come loro e che era
arrivato lì per benedire il loro pensiero sulla partecipazione del cristiano
nella lotta contro il comunismo" ...
‑
"Da quello che Lei dice' si può desumere che non fu davvero così?"
‑"Per
quanto io ne sappia, no. E fu per questo che la riunione fu lunga e agitata. I
militari chiedevano a Laghi, quasi pretendevano alzando la voce e con metodi
bruschi, che egli giustificasse pienamente le operazioni militari, perfino gli
eccessi e gli abusi. Ma il Nunzio, tenacemente, non cedette. La sua fu
un'ostinata resistenza. Lo raccontò anche Padre Veche, che era presente.
Peccato che sia morto, e gli stessi Monsignori Conrero e Ferro. Veche raccontò
che il Nunzio mantenne sempre un atteggiamento degno, senza stancarsi di
ripetere che la dottrina della Chiesa non poteva giustificare le torture e le
vessazioni e che, in quella guerra, questo andava tenuto in dovuto conto"[11].
Padre
Juan Carlos Veche, che era il cappellano militare della V Brigata di Fanteria,
in dichiarazioni rese tempo dopo al giornale locale "La Gaceta",
rivelò che Laghi si era comportato in quella circostanza come "un
eccellente diplomatico e un convinto sacerdote, giacché non cedette alle
pressioni ne si espresse nella forma che i militari esigevano"[12].
Per questo, racconta ancora Padilla, ci furono momenti in cui la conversazione
fu tesa, durissima. Ma Laghi si mantenne nella sua posizione, imperturbabile,
senza lasciarsi intimorire dalle parole e dalle pressioni, quasi minacciose,
degli uomini in divisa. Tenacemente si rifiutò di dire ai suoi interlocutori
quanto questi, per giustificare i loro metodi, volevano.
In
tale campo, fu questa la sua condotta costante, confermata ‑come si vedrà
più avanti ‑ dai sacerdoti e cappellani militari che si riunivano
periodicamente con lui e ai quali delineava la condotta da seguire in quella
guerra senza quartiere. Laghi non si sarebbe stancato mai di ribadire un deciso
"no" alla torture e alla violazione dei diritti umani.
Nel
suo rapporto alla Segreteria di Stato, redatto al suo ritorno a Buenos Aires e
che non ammette sospetti di tergiversazioni, giacché fu scritto "a
caldo", Laghi spiega così il suo comportamento: `'Cercai di chiarire (ai
militari) alcuni concetti sul ruolo della Chiesa, sul triste fenomeno della
violenza e della repressione e sulla difesa dei più alti valori morali che si
identificano con la fede in Dio, il rispetto della vita, l'amore per la Patria
e le sue più nobili tradizioni"[13].
Non è difficile capire che quello che disse loro fu che la dottrina cattolica
non può assolutamente giustificare, da nessun punto di vista, un totale
disprezzo per la vita umana.
Indubbiamente,
non era stata un'esperienza né facile né gradevole. Si era trovato solo, a tu
per tu con quegli uomini inaspriti dalla lotta contro i loro nemici marxisti,
tanto lontani dal Vangelo come i guerriglieri atei che avevano eliminato Dio
dalla propria vita.
A1
suo rientro a Buenos Aires, notò che i giornali riferivano cose che egli non
aveva detto. Ma non comprese subito che era stato vittima di una di quelle
"operazioni d'immagine", a cui il generale Bussi prestava particolare
attenzione, perché era un capo militare che già allora nutriva aspirazioni
politiche e non perdeva mai l'occasione propizia per essere in contatto con le
cosiddette "forze civiche". Organizzava queste operazioni affinché la
gente della sua stessa provincia pensasse che i campi di concentramento fossero
"un'invenzione dei sovversivi" e cercava una legittimazione etica e
morale per la lotta che lui ed i suoi uomini stavano compiendo[14].
Astuto e ambizioso, Bussi aveva dato un senso ben preciso alla presenza in
Tucumán del delegato pontificio: 1' aveva considerata un'occasione unica per
cercare quel consenso che inseguiva con tanto accanimento.
Nel
suo rapporto al Cardinale Villot, Laghi enumerò con precisione tutti i passi
fatti nelle 72 ore della sua visita a Tucumán, senza mai dare l'impressione di
forzare l'accaduto o di essere prevenuto per aver detto frasi compromettenti.
Fu un racconto succinto, austero, ma scritto con passione, che lascia
trasparire una manifesta soddisfazione personale. La visita era stata, in
termini pastorali, un vero successo.
Quel
viaggio tornò a essere di attualità alcuni anni dopo, per altre ragioni e
circostanze che egli ‑ mentre scriveva a Villot ‑ non avrebbe mai
nemmeno remotamente sospettato.
Il
24 settembre 1984, Ernesto Sabato, Presidente della CONADEP, consegnò al
presidente Raul Alfonsín ‑eletto democraticamente l'anno prima ‑ la
relazione finale della inchiesta sui "desaparecidos". Accludeva i
nomi di 8.961 persone inghiottite nel nulla, delle quali non si era saputo più
niente. L'inchiesta finiva con queste agghiaccianti parole: "Quanto
accaduto in Argentina non fu un errore attribuibile a un eccesso di azione
repressiva: fu piuttosto l'esecuzione di un freddo e calcolato progetto di
sterminio".
Al
contempo, Sábato consegnò al Capo dello Stato un'altra lista, destinata a
rimanere segreta, con 1.351 persone menzionate dai superstiti nel corso delle
testimonianze. Su alcune di esse, tanto il presidente Alfonsín come le massime
autorità della CONADEP (in seno alla quale ebbero luogo dure controversie) si
accordarono nel non divulgare i nomi, per una o per altra ragione[15].
Una quindicina corrispondeva a uomini di Chiesa. Una di queste persone era
proprio Monsignor Laghi, che oramai era Delegato Apostolico della Santa Sede
presso il Governo degli Stati Uniti, il primo nella storia delle relazioni tra
Washington ed il Vaticano. In quei giorni di gran tramestio, poiché la menzione
di Laghi provocò non poco scompiglio e sorpresa in ambienti cattolici e
indipendenti, il suo principale e ostinato difensore fu Monsignor Jaime de
Nevares, l'anziano Vescovo di Neuquén, che faceva parte della CONADEP ed era
stato, nei tempi del regime militari, uno dei più coraggiosi oppositori.
Conosciuta
la segnalazione, il prelato dichiarò che si trattava di una "calunnia
inaccettabile", sottolineò che Laghi "si era occupato molto del
problema dei perseguitati e "desaparecidos", ricevendo centinaia di
denunce e aiutando moltissima gente" ed espresse tutta la sua incredulità
per le insinuazioni in atto: "Non corrispondono alla permanente
preoccupazione del Nunzio Laghi per i perseguitati, posso affermarlo io stesso
che non sono stato il suo confidente ma partecipe dei suoi sentimenti"[16].
Infine, e dopo non poche discrepanze esplose all'interno della CONADEP,
prevalse la decisione di considerare le accuse come "inconsistenti".
Il nome di Laghi, come quello di altri membri dell'elenco, andò a finire in una
busta sigillata, nella cassaforte della Segreteria Generale della Presidenza.
Nessuno parlò più della questione fino a che, nella sua edizione del 3‑9
novembre 1984, il settimanale "El Periodista" pubblicò la lista,
certamente fatta pervenire alla redazione da qualcuno della CONADEP.
Ovviamente,
il nome che più colpì fu quello di Laghi. Le accuse contro di lui provenivano
da due testimonianze (numero 1276 e 0440 ricevute dalla CONADEP) che, poi, si
ridussero a una sola: quella di un ex "desaparecido" ed esiliato a
Madrid, tale Juan Martín, che affermava di aver visto il Nunzio nello
zuccherificio Nueva Baviera, trasformato in campo di concentramento, in
occasione dello scalo che Laghi vi aveva fatto, il primo giorno della sua
visita a Tucumán. La rivelazione che Laghi figurava nell'elenco ebbe una ampia
ripercussione nazionale e internazionale e lasciò aperte le porte alla
supposizione ‑ convertita poi in aperta e violenta denuncia ‑ che
il Nunzio conosceva l'esistenza dei campi di concentramento, senza aver mai
riferito o denunciato pubblicamente quanto visto.
Martín
aveva già denunciato Laghi tre anni prima, a metà dicembre 1981, presso la
Commissione Argentina dei Diritti Umani, a capo della quale si trovava lo
scrittore argentino Julio Cortázar. La Commissione, a sua volta, aveva
trasmesso la testimonianza al Gruppo Speciale sulla Scomparsa Forzosa di
Persone, organismo creato dall'ONU con sede a Ginevra, e appare a pagina 45 di
un dettagliato ed esauriente resoconto della sua prigionia illegale nelle mani
dell'Esercito, a Tucumán.
Si
trascrive qui di seguito il brano riferito a Laghi:
‑"Questo
campo di concentramento (NdA: dello zuccherificio Nueva Baviera)[17],
trovandosi nelle vicinanze della sede del Comando della Zona Operazioni, veniva
permanentemente visitato da alti ufficiali delle Forze Armate e delegazioni
artistiche che intervenivano in manifestazioni ufficiali, di cui era indubbio
il proposito propagandistico. Fu visitato anche dal rappresentante diplomatico
della Santa Sede, Monsignor Pio Laghi, che durante la sua permanenza a Nueva
Baviera conversò, a richiesta dei comandanti dell'Esercito, con tre detenuti
scomparsi, uno dei quali ero io. Fummo condotti al suo cospetto sotto minaccia.
L'incontro con Monsignor Laghi ebbe luogo in un capannone vicino all'eliporto.
Erano presenti il generale Bussi, il Tenente Colonnello Arrechea, altri due o
tre alti ufficiali dell'Esercito, a me sconosciuti, vari prelati e, forse,
qualche Vescovo della zona. Laghi aveva fatto una visita al Sud della provincia,
quando mi portarono da lui. Mi fu chiaro che la sua visita alla zona volgeva al
termine. Quel giorno, che io colloco forse all'inizio di dicembre 1976, la
guardia del campo di concentramento mi ordinò che mi lavassi e mi diede i mezzi
per radermi (fu l'unica volta che lo feci in tutto il periodo di prigionia a
Nueva Baviera), oltre a fornirmi degli abiti in buono stato per migliorare il
mio aspetto esteriore, che poi tornarono a togliermi.
Queste
misure causarono la mia sorpresa, che aumentò ulteriormente quando,
accompagnato dal colonnello Arrechea, che venne a prendermi fino al
laboratorio, corremmo con tre guardie fino al capannone dove c'era Laghi. Per
me fu un vero colpo uscire dalla mia reclusione e trovarmi in piena luce, senza
la benda che mi copriva gli occhi e senza le manette. Inoltre, mi causarono una
profonda impressione la presenza di alti ufficiali dell'Esercito e di
sacerdoti, il rumore degli elicotteri ed una certa confusione del personale
militare. Io non sapevo chi fosse Monsignor Laghi, così come ignoravo le sue
funzioni diplomatiche. La sua presenza era imponente: un uomo alto, robusto,
con la sottana e la testa coperta da un cappello nero semicilindrico e a tesa
larga. Non facilitava la comunicativa. Quando giunsi sul luogo, Laghi si
accingeva a salire a bordo di un elicottero. Fu il generale Bussi che prese
l'iniziativa: "Questo è uno dei detenuti" disse e in seguito fece la
mia presentazione, con netto stile poliziesco. Laghi si limitò a chiedermi se
stavo bene, se venivo ben trattato, ecc., tutte domande dalla risposta ovvia
per un "desaparecido" nelle mani dei suoi sequestratori, che sono
membri di alti comandi militari e padroni dello Stato. Bussi, evidentemente
imbaldanzito dalla passività di Laghi, cominciò a pressarlo affinché domandasse
a me, che già ero sequestrato da cinque mesi, che ero stato selvaggiamente
torturato e che ero a soli 60 metri dal luogo della mia reclusione, quanto ci
fosse di verità in quelle storie delle torture con scariche elettriche e della
"violazione dei diritti umani a cui tanto era interessato. Laghi fece dei
passi avanti, come per separarsi dal gruppo, sebbene a tale distanza qualsiasi
nostra parola sarebbe stata perfettamente udita da Bussi. Mi chiese come mi
chiamavo e se i mici genitori sapevano della mia reclusione. Bussi si avvicinò,
accompagnato da Arrechea, mentre io rispondevo identificandomi, indicando a
Laghi il tempo che trascorrevo come prigioniero e la assoluta ignoranza della
mia famiglia su dove io fossi. Per tutta risposta, Monsignor Laghi mi
abbracciò, mi fece omaggio di una copia della Bibbia e mi esortò ad avere
"fede e speranza..," e ci separammo: lui, accompagnato da Bussi,
Arrechea e il seguito di ufficiali e sacerdoti, andò verso l'elicottero. Io fui
riportato al campo di concentramento".
Fin
qui il racconto di Martín, da lui stesso ratificato in seno alla CONADEP. Il 7
novembre 1984, il quotidiano "La Voz" lo pubblicò integralmente, con
ripercussioni internazionali che giunsero alla Santa Sede. Il 19 marzo 1985,
l'allora Segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa,
Monsignor Achille Silvestrini, chiese al Nunzio a Buenos Aires, Monsignor
Ubaldo Calabresi, "informazioni utili per una precisa e dettagliata
conoscenza dell'episodio".
Calabresi
si mosse con celerità, recandosi a Tucumán i primi giorni di aprile per
ottenere le informazioni che gli erano state sollecitate e riunire
testimonianze personali dei protagonisti. Il Nunzio trasmise il risultato delle
sue indagini alla Santa Sede con il rapporto del 26 aprile 1985[18].
Nelle sue ricerche, si scontrò con difficoltà oggettive. Sia Monsignor Conrero
che Monsignor Ferro erano morti e il nuovo Vescovo di Concepción de Tucumán,
Jorge Meinvielle non sapeva nulla poiché nel giugno del 1976 ‑ quando
ebbe luogo il viaggio di Laghi ‑ era a capo di un'altra Diocesi.
Calabresi
ascoltò il racconto del generale Bussi, il quale disse che "la presenza a
Tucumán del Nunzio Laghi era stata la risposta a un invito ufficiale rivolto
dal Governatore e Comandante delle truppe impegnate nella guerra contro
l'aggressione armata marxista‑comunista". Ossia un invito formulato
da lui stesso. Era una menzogna madornale. E' infatti noto che il viaggio del
Rappresentante Pontificio ebbe carattere esclusivamente pastorale e rispondeva
all'invito di Monsignor Ferro. Altrettanto inesatta risultò la ricostruzione
che Bussi fece dell'itinerario del prelato, negando che l'elicottero avesse
fatto scalo a Nueva Baviera. Fatto sostenuto da Martín e mai negato da Laghi,
il quale con assoluta serenità ("sicuro di non aver nulla da
rimproverarsi", dice Calabresi) confermò anche in una relazione intitolata
"La Mia Difesa" che si trova nell'Archivio Segreto Vaticano e non può
essere consultata.
Ma
il Nunzio Calabresi ottenne da Bussi un'altra notizia, che costituisce il punto
di partenza per smontare il diffamatorio castello d'accuse costruito dall'ex
"desaparecido" Martín: il suo arresto da parte dell'Esercito –e
questo e inconfutabile avvenne nell'agosto del 1976, ossia due mesi dopo la
visita di Laghi a Tucumán. La conclusione e ovvia: l'incontro tra i due non
ebbe mai luogo. E la sua inesistenza, senza volerlo, la conferma lo stesso
Martín quando dice, nel suo racconto testuale che abbiamo trascritto, che
l'incontro con Pio Laghi risale "agli inizi del mese di dicembre". Il
falso è evidente. Lo ha riconosciuto perfino un severissimo critico di Laghi,
Emilio Mignone, difensore dei diritti umani e presidente del CELS, nel suo
libro "Les 'Disparus' d'Argentine"[19].
Secondo Mignone, il racconto di Martín non è del tutto falso. Sicuramente fu
condotto alla presenza di un prelato importante, cosa abbastanza frequente
quando i capi militari volevano costringere i prigionieri a dare un'immagine
dei loro carcerieri che non aveva alcun riscontro nella realtà. Ma quel prelato
non era Laghi. Si trattava forse di qualche cappellano militare. Lo stesso
Martín ammette di non sapere chi fosse Laghi e il fatto che lo descriva come
"un uomo alto e robusto" (Laghi lo è solo parzialmente) non dice
niente.
Inoltre, il Nunzio, in quel viaggio, non indossava la sottana né portava, come dice Martín, "la testa coperta da un cappello nero semicilindrico e a tesa larga", accessorio che Laghi non usò mai.
Ma
c'è dell'altro, e di non trascurabile importanza. Laghi, nella sua autodifesa,
forse schiacciato dalla gravità delle accuse, affermò ripetutamente che non si
rese conto che "in una parte del vastissimo edificio, con diverse
dipendenze, ci fossero guerriglieri reclusi o che esistesse un carcere
clandestino". E ribadì: "Non ebbi alcuna percezione al riguardo, né i
miei occhi o la mia mente furono attratti dal minimo indizio esterno che
potesse indurmi a pensarlo o sospettarlo. Nemmeno il Vescovo Ferro fece alcuna
allusione e, essendo lui del luogo, avrebbe potuto mettermi in guardia o
confidarmi qualcosa". Siamo in presenza di un'autodifesa tanto insistente
quanto superflua, spiegabile solo in un uomo turbato e profondamente ferito da
un'accusa ingiusta. Martín, in nessun punto della sua denuncia, dice che il
campo di concentramento era "nello zuccherificio", ma a scarsa
distanza da lui, tanto che "andammo quasi correndo con tre guardie fino al
capannone dov'era Monsignor Laghi". Martín finiva il suo racconto
affermando che, una volta che il generale Bussi e il seguito degli ufficiali e
sacerdoti si diressero all'elicottero, lui e le sue guardie "tornarono al
campo di concentramento". La conclusione è tanto ovvia quanto
inconfutabile: seppure si ammettesse per assurdo che Laghi avesse incontrato il
giovane che lo denunciò non avrebbe potuto in alcun modo sapere che il luogo
era un campo di concentramento, perché il presunto colloquio si sarebbe svolto,
per espressa ammissione dell'interessato, fuori da quest'ultimo. La relazione
"Nunca Mas" identifica quel centro di reclusione clandestino
"nel vecchio laboratorio (dello zuccherificio) e nelle sue dipendenze
attigue, 30 metri a Sud dal portone principale"[20].
Quanto
detto non fa che confermare le perplessità che solleva questa tesi accusatoria
montata contro il prelato vaticano e che, ancora oggi, e non solo in Argentina,
trovò eco in gruppi e persone che vogliono vedere negli episodi di quel viaggio
a Tucumán le presume "prove" della sua complicità con la repressione
illegale.
I1
Cardinale Laghi ha spesso ripetuto che porta sulle sue spalle una croce che si
chiama Argentina. E' da credergli. I1 viaggio a Tucumán, che aveva accettato
come un'innocente e benevola "incursione" pastorale per rallegrare un
anziano Vescovo di provincia, si era trasformato in un calvario.
I
due demoni ‑ i militari e i guerriglieri ‑ che interagivano senza
tregua in quell'Argentina impazzita si erano presi per mano per metterlo sotto
la medesima ed equivoca luce. Andavano nuovamente d'accordo, identificandosi di
nuovo per presentare Laghi, con opposte intenzioni, come un deciso sostenitore
della brutale "crociata" anticomunista avviata. Forse ‑ fu in
seguito al viaggio a Tucumán che Laghi comprese una realtà inesorabile: non
avrebbe potuto fare a meno di venir imbrattato dal fango che il trauma
argentino sollevava. Era come se il destino lo sospingesse in questa direzione.
[1]
Luis Mattini, "Hombres y mujeres
del PRT‑ERP De Tucumán a La Tablada". Citato in "Clarín"
del 19 luglio 1998.
[2]
Monsignor Claudio Maria Celli è
attualmente Segretario dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede
Apostolica (APSA).
[3]
Vedere Documenti Allegati.
[4]
Il Cardinale Raúl Primatesta fu, dal
1978 fino al termine del "Processo', Presidente della Conferenza
Episcopale Argentina, essendo subentrato a Monsignor Adolfo Tortolo in tale
incarico.
[5]
Rapporto Numero 1379/76 del 1° luglio
1976 del Nunzio Pio Laghi al Segretario di Stato vaticano, Cardinale Jean
Villot.
[6]
Rapporto di Laghi a Villot, ibidem.
[7] “La
Nación”, 29 gingno 1976, pag. 8. Vedere anche Horacio Verbitsky, “Vox Dei”. In
“Pagina 12”, 9 aprile 1995, pag. 2‑3. Ambedue sono quotidiani che si
pubblicano in Argentina.
[8]
Vedere Bruno Passarelli,
"Harguindeguy se manejaba con cinismo ‑. In "Gente" di
Buenos Aires dell'11 aprile 1995, pag. 34‑37.
[9]
Vedere Horacio Verbitsky, "Vox
Dei". In “Página 12”, 9 aprile 1995, pag. 2‑3.
[10]
Bruno Passarelli, ibid., pag. 35.
[11]
Testimonianza di Hector Padilla a uno
degli autori. Il nastro registrato è in nostro possesso.
[12]
Vedere "La Gaceta" del 3
ottobre 1983.
[13]
Rapporto di Laghi a Villot, ibidem.
[14]
Il Generale Bussi è stato fino a giugno
dell'anno 1999 Governatore della provincia di Tucumán, incarico per il quale fu
scelto per libera votazione della cittadinanza.
[15]
Nella lista, poi censurata, apparivano
15 sacerdoti argentini, tra i quali Monsignor Antonio José Plaza, Arcivescovo
di La Plata, i Vescovi Blas Conrero, di Tucumán, e José Miguel Medina, di
Jujuy, Monsignor Emilio Grasselli, il sacerdote Christian Von Wernich e vari
cappellani militari.
[16] “Clarín”,
5 ottobre 1984, pag .2.
[17]
Nella relazione "Nunca Más"
della CONADER ibidem, pag. 215, si dice che lo zuccherificio di Nueva Baviera
era il principale insediamento della repressione clandestina nell'area rurale
di Tucumán, giacché "il campo concentrava un elevato numero di prigionieri
catturati in tutta la provincia".
[18]
Rapporto Numero 361/85 (73) del 26
apri1e 1985 del Nunzio Ubaldo Calabresi al Segretario del Consiglio per gli
Affari Pubblici della Chiesa, Monsignor Achille Silvestrini.
[19]
Emilio E Mignone, op. cit., pag.82.
[20]
Vedere relazione "Nunca Mas"
della CONADEP Op. cit., pag 102.