Quell’inverno argentino del 1976 fu orribile. Una sensazione di angoscia aveva invaso tutta la società. Quando calava la sera, le strade delle città si svuotavano e coloro che ancora circolavano erano simili a fantasmi, pronti a cercare rifugio nella prima porta o nell'angolo più vicino. Uscire sprovvisti di documenti poteva equivalere ad una sentenza di morte. A bassa voce si parlava di delitti, di torture, di sparizioni... E dell'immane tragedia che si consumava nell'ombra non si conosceva che una minima parte.
“Chupados” (succhiati) erano chiamati coloro che venivano
strappati alle loro case, arrestati nei loro posti di lavoro, o sorpresi per la
strada. Questo accadeva con maggiore frequenza nel fine settimana. Quando la
vittima veniva ricercata di notte nella propria abitazione, agenti armati
circondavano l'isolato ed entravano con la forza, terrorizzavano genitori e
bambini, imbavagliandoli e obbligandoli a guardare, mentre si impadronivano
della persona ricercata, la colpivano brutalmente, la incappucciavano e la
trascinavano nelle auto o nei camion. Il resto del commando, quasi sempre,
distruggeva o svaligiava la casa. Sulla vittima cadeva uno spesso e inviolabile
velo di silenzio.
Persone la cui unica colpa era, ad esempio, la conoscenza
occasionale di qualche attivista o la frequentazione di qualche personaggio
potenzialmente compromettente, iniziarono a cambiare le loro abitudini. Per
loro era assolutamente sconsigliabile entrare direttamente nella propria macchina
in garage o parcheggiare senza accertarsi che nei dintorni non ci fosse alcuna
strana presenza. Tutti gli argentini erano sospettati.
I familiari cercavano i "desaparecidos"
ovunque, ma la ricerca era straziante e vana. Le autorità del Commissariato più
vicino adducevano sempre le stesse ragioni: non avevano sentito parlare di loro
e non erano detenuti nelle loro carceri. I1 Comando Militare di zona dava
invariabilmente risposte negative. La giustizia non li conosceva, e gli
"'habeas corpus" (il diritto di essere giudicati) erano dei buchi
nell'acqua. Così, i familiari dei sequestrati passavano settimane, mesi,
dibattendosi tra esasperanti aspettative e dolorose frustrazioni. Anche per
loro la mancanza di protezione era totale. Le carceri erano militarizzate e
ricolme (quelle di Villa Devoto e di Caseros, le più importanti, si erano
tramutate in autentici inferni) ed i centri clandestini di detenzione si
moltiplicavano in tutte le latitudini del paese. Ivi si praticava con ferocia
ogni sorta di tortura.
D'altra parte, l'audacia e la capacità operativa della
guerriglia ‑ che non indietreggiava nelle sue azioni terroriste e colpi
di mano ‑ non faceva che regalare un pretesto sempre nuovo a rappresaglie
ogni volta più dure e indiscriminate. Molti ebbero l'impressione che i
sovversivi potevano colpire ovunque, a loro piacimento. Lo confermò
l'assassinio del Capo della Polizia, il generale Cesareo Cardozo, e di sua
moglie, fatti saltare in aria mentre dormivano. Un'amica della loro figlia
aveva collocato sotto il letto una bomba confezionata con 700 grammi di
tritolo.
In quell'Argentina assolutamente impazzita degli anni
settanta si davano battaglia senza tregua due nemici irriducibili (la
guerriglia e i militari), che incorrevano nello stesso errore. Ma non vi è
alcun dubbio che tra i due contendenti erano i militari al potere quelli che
sbagliavano molto di più, giacché avevano occupato lo Stato per custodire e
salvaguardare la legge, non per violarla sistematicamente come fecero. E' vero,
erano usciti allo scoperto per fermare un delirio terrorista che era diventato
intollerabile. Ma agirono rinunciando al loro ruolo di custodi morali della
società e si trasformarono, invece, in sistematici e brutali violentatori.
Tutto ciò li squalifica senza riserve e rende impossibile qualsiasi
giustificazione, a partire dalla scusa inconsistente che operarono in tal modo
per impedire la caduta del Paese nelle mani del comunismo.
Di fronte a queste scelleratezze, le risposte
dell'Episcopato argentino furono assolutamente insufficienti e caratterizzate
da una paralizzante pusillanimità. E' questo il limite di una Lettera Pastorale
Collettiva del 15 maggio del 1976, elaborata dalla Conferenza Episcopale, che
pretendeva essere una denuncia della drammaticità del momento, con critiche
allo stato di paura che si era creato e all'insicurezza generale, ma fu
presentata con un lessico cosi astruso e ricercato, carico di titubanze, che
finì per attenuare i suoi effetti fino al punto che non commosse più di tanto
la sensibilità del potere militare[1].
I Vescovi che avrebbero voluto un documento forte e di energica denuncia erano
rimasti di nuovo in minoranza. Tra i Presuli che davano il loro appoggio
incondizionato ai militari, uno dei più estremisti era Monsignor Antonio Plaza,
Arcivescovo di La Plata che, nel maggio del 1977, chiese ai suoi fedeli di
"pregare per i governanti affinché conseguano buoni risultati nei loro
difficili compiti", intendendosi come tale la necessità di estirpare
"i cattivi argentini sostenuti da forze oscure". Nulla aveva
significato per lui la profonda inquietudine che gli aveva manifestato il Papa
Paolo VI, quando lo aveva ricevuto in Vaticano il 20 gennaio. "E' vero che
nel suo Paese stanno avendo luogo eccessi esecrabili contro persone che, pur
non essendo terroristi, si oppongono al nuovo governo militare?" aveva
chiesto il Santo Padre. E Plaza aveva replicato: "No, niente di questo,
Santità! Si tratta di versioni false e infondate che mettono in circolazione
quelli che sono scappati e si sono rifugiati in Europa"[2].
Un altro caso eloquente fu quello dell'Arcivescovo di San
Juan, Monsignor Ildefonso María Sansierra, che ripeteva spesso che nelle
carceri argentine i diritti umani erano rispettati. Con morbosa ironia, arrivò
perfino a dire: "Vado spesso nelle prigioni e non mi hanno mai trattenuto,
mi si permette di uscire senza problemi, sicuramente fanno così perché sanno
che non sono un terrorista"[3].
Ma il colmo dell'inverosimile lo avrebbe raggiunto Monsignor Guillermo Bolatti,
Arcivescovo di Rosario. Arrivò a chiedere una regolamentazione dei diritti
dell'uomo, "per adeguarli all'emergenza nazionale che vive
l'Argentina". Per lui, in questo terreno c'erano "troppi
malintesi" ed era arrivata l'ora di chiarirli.
Non furono gli unici. C'è un episodio che merita di
essere raccontato, il cui protagonista fu un ex‑deputato del Partito
Giustizialista, Sobrino Aranda.
Era ricorsa a lui una donna, disperata, perché le avevano
"chupado" (succhiato) il marito, accusato di avere a che fare con i
soldi che gestiva la banda guerrigliera Montoneros. Alla sua richiesta di
interessarsi al caso, Aranda andò dal Vicario Castrense e Arcivescovo di
Paraná, Monsignor Adolfo Tortolo, con cui aveva antichi vincoli di amicizia.
L'importanza di Tortolo nella gerarchia ecclesiastica era grande, perché fino
al 1978 fu Presidente della Conferenza Episcopale Argentina.
Tra loro si svolse la seguente conversazione[4]:
‑ "Monsignore, le chiedo di aiutarmi a
verificare il caso di quest'uomo, "desaparecido", sequestrato
illegalmente", lo implorò Aranda.
‑ "Illegalmente? Cosa significa?" chiese
il Vescovo.
‑ "Sì, Monsignore, lo hanno
"chupado" (succhiato)", insistette il visitatore.
‑ "Come che lo hanno succhiato?, Non capisco,
si spieghi meglio", ripeté Tortolo, con viso incredulo.
‑ "Bene, guardi, lo presero a casa sua e lo
portarono via", spiegò Aranda.
‑ "Impossibile, a me non risulta che cose come
questa accadano in questo Paese", rispose brusco l'ecclesiastico.
Mortificato dalla risposta, Aranda racconta che,
accomiatandosi dal Vescovo, gli disse: "Monsignore, questa sera quando
pregherà, le raccomando un atto di contrizione". E, senza salutarlo, si
diresse verso la porta. Tortolo lo seguì e gli rivolse queste parole:
"Stia pur certo, onorevole, che il mio atto di contrizione lo farò, e
come".
In casi come questo non meraviglia la tiepidezza e la
superficialità che si evince dalla lettera che lo stesso Tortolo, come
Presidente della Conferenza Episcopale, indirizzava il 14 giugno 1976 al
Ministro degli Interni del Governo militare, il generale Albano Harguindeguy,
dopo che un gruppo di poliziotti armati ebbe preso d'assalto gli uffici della
Commissione Cattolica Argentina dell'Immigrazione, dove si trovavano numerosi
rifugiati. Con una prosa vagamente lamentosa, si rammaricava per "il danno
morale e materiale subito, che ci colpisce tutti". E concludeva: "Non
riusciamo ad immaginare chi, o con che proposito, abbia deciso e potuto
commettere un tale sopruso che va contro il prestigio dello Stato
argentino"[5]. Ingenuità o
opportunismo? E' possibile che il presidente della Conferenza Episcopale
Argentina fosse obnubilato al punto da non riuscire a supporre chi fossero gli
autori dell'imprevista irruzione? O albergava in lui una forma di tacita
complicità con la repressione?
Non e lo scopo di questo libro elaborare una valutazione
etico‑morale sul comportamento dell'Episcopato argentino in quel tremendo
periodo storico. Ma già e ben definita la sua debolezza globale e il suo
silenzio dinanzi al dramma di tante persone che patirono torture e morirono
senza alcun motivo. Pur tuttavia va detto che ci furono Vescovi e sacerdoti
che, invece della magniloquenza delle denunce e delle parole, optarono per il
servizio silenzioso, offrendo ai perseguitati e alle loro famiglie quel
sostegno fraterno che ogni dramma personale esigeva. Monsignor Casaretto a uno
degli autori che lo interrogò sul ruolo del Nunzio Laghi disse chiaramente:
"L'Episcopato, e questo è documentato, optò per l'aiuto e il tentativo di
salvare vite e non per fare dichiarazioni pubbliche. Se tale atteggiamento fu
giusto o no, lo lasciamo al giudizio della storia, ma nel caso del Nunzio
Laghi, lui non poteva far altro che assecondare l'Episcopato, non contraddirlo
o scontrarsi con esso".
Questa riflessione Monsignor Laghi la dovette elaborare
molte volte mentre assisteva, quotidianamente, all'aumento di quel fenomeno che
si era presentato alle porte della Nunziatura dall'inizio dell'anno, ma che
aveva incominciato a dilagare smisuratamente fino a raggiungere proporzioni di
enorme portata. Con crescente angoscia constatava l'andirivieni in Nunziatura
di un'umanità dolente, disorientata, che cercava in lui una guida, una parola
di sostegno, una promessa di aiuto nel tentativo di localizzare familiari
scomparsi o per ottenere l'istruttoria di coloro che, una volta identificati,
si trovavano in prigione.
Erano persone sconcertate e impotenti, che non potevano
trovare spazio sui grandi giornali (solo il quotidiano "La Opinion"
pubblicava di tanto in tanto notizie sulle scomparse) e che si appellavano alla
Nunziatura dopo aver ricevuto solo gesti di spietata indifferenza o di aperta
ostilità da parte dalle autorità di polizia quando andavano da loro per
chiedere notizie dei parenti. Inoltre, si scontravano con incredibili
difficoltà perfino per ottenere avvocati che dessero corso agli inutili
"habeas corpus". La maggioranza di loro si rifiutava di offrire la
propria collaborazione professionale per il timore di rappresaglie.
Molti facevano ricorso ai Vescovi, non riscontrando in
tutti la stessa solidale comprensione. A volte, erano ricevuti con stati
d'animo che oscillavano tra lo sconcerto e il fastidio. I più sensibili al
problema consigliavano di ricorrere al Nunzio Apostolico "perché esercita
una grande influenza e ha un potere di cui noi siamo privi"; frase
stereotipata che, in quelle ore di disperazione, correva di bocca in bocca.
Il tempo avrebbe dimostrato fino a che punto questa
credenza non rispondeva a verità. Laghi quasi mai trovò nel potere militare
accoglienza o aiuto consoni al livello e alla insistenza dei suoi uffici.
Piuttosto le risposte che riceveva erano sempre improntate all'ipocrisia e al
cinismo, misti a sarcasmo. E poi, quando Laghi si tramutò in un questuante
ripetitivo e noioso, le autorità furono pervase da un manifesto e crescente
malumore e fu virtualmente dichiarato "persona non gradita" dal
regime. Se riuscì a salvare delle vite umane, fu per la sue personale
iniziativa di pastore, non per la forza che il suo status diplomatico gli dava.
I militari, accecati dall'odio e prigionieri della loro
superbia, non si arrestarono di fronte a nulla. Insistettero nella spudoratezza
di professare la loro fede cristiana e di argomentare che difendevano i
principi evangelici, come l'ammiraglio Massera avrebbe enfatizzato in una memorabile
intervista giornalistica[6],
mentre il suo agire era mostruosamente anti‑cristiano e anti‑evangelico.
Il gesto di Videla di trasformare metà del suo ufficio presidenziale in
cappella per pregare e ispirarsi a Dio[7]
appare una burla superlativa che non sarebbe venuta in mente nemmeno a Tomás de
Torquemada. Neanche il Vaticano li intimoriva. Né lì avrebbe arginati la
potenza più forte del mondo, gli Stati Uniti, modello dello "stile di
vita" che sostenevano di difendere, quando il presidente James Carter, con
forza e convinzione, nel 1976 mise in pratica una politica orientata a mettere
fine alla sistematica violazione dei diritti umani in Argentina. Il suo
portavoce ed esecutore a Buenos Aires sarebbe stato, dal 28 settembre del 1977,
data della presentazione delle sue Credenziali, l'ambasciatore Raúl Castro. Non
fu casuale che Castro diventasse subito amico del Nunzio Laghi e che entrambi
portassero avanti più di una azione coordinata, come capitò in occasione della
gravissima crisi tra Argentina e Cile per il Canale del Beagle.
In America Latina, in quegli anni settanta i regimi
militari erano numerosi e tutti guardavano con simpatia e solidarietà la
situazione di Buenos Aires. E dai pochi governi democratici ancora in piedi,
non si udivano che voci di comprensione verso il "Processo". Un caso
emblematico è quello del presidente del Venezuela, Carlos Andrés Pérez: alla
fine, si trasformò in un durissimo critico del regime argentino, ma prima non
aveva celato la sua ammirazione pubblica per Videla e per la sua compagine
governativa. L'arrivo a Buenos Aires dell'ambasciatore Santander‑forse
l'unico diplomatico che rischiò la vita per salvarne altre, in totale sintonia
con Laghi ‑ è la testimonianza di questo cambiamento.
Dall'Europa arrivavano critiche, ma sempre tiepide e
accomodanti. I governi, attentissimi a non compromettere i propri affari
economici in Argentina, erano pronti a usare comprensione verso il governo di
Videla. Si confrontavano, senza pudore, i suoi abusi con quelli di Augusto
Pinochet in Cile e si concludeva sempre che i militari argentini non potevano
essere equiparati a quella "calamità" mondiale numero uno che era il
dittatore cileno.
Un simile giudizio ha una facile spiegazione. I governi
europei erano fortemente influenzati dagli interessi particolari e ideologici
dei partiti Comunista e Socialista, che nei rispettivi paesi (per esempio
Francia ed Italia) avevano un peso rilevante. La spiegazione di questo diverso
trattamento era molto chiara: in Cile, con Salvador Allende i partiti di
sinistra erano stati espulsi. Di consequenza, per le socialdemocrazie europee
il Cile aveva commesso un sacrilegio imperdonabile, che meritava la più aura
delle condanne. In Argentina, invece, il colpo di Stato era stato diretto
contro Isabelita Perón, una povera donna, incapace e indifesa, e contro quel
movimento politico chiamato "Giustizialismo" che, per i
socialdemocratici di diverse estrazione, rappresentava qualcosa di
indecifrabile, a metà strada tra il fascismo e il populismo e, come tale, impossibile
da catalogare secondo i loro schemi ideologici. E' una differenza valida per
giustificare l'atteggiamento di benevola comprensione che, almeno nei primi due
anni, il "PRN" incontrò anche in Europa.
Ma l'appoggio più ripugnante il dittatore Videla e i suoi
lo ricevettero dall'Unione Sovietica e dai paesi del Patto di Varsavia. Di
questi, solo la Romania aveva interrotto le relazioni diplomatiche con
l'Argentina, sicuramente per l'eccellente relazione personale stabilita da
Nicolae Ceausescu con il generale Perón. Da Mosca venivano impartite severe e
perentorie direttive al Partito Comunista argentino, secondo cui doveva
appoggiare incondizionatamente il regime militare, in un atteggiamento che
corrispondeva all'importanza decisiva che l'URSS aveva acquisito come primo
"partner" commerciale dell'Argentina. Non è il caso di scandalizzarsi
per questo aspetto della politica estera del Cremlino se si ricorda che Stalin,
nel 1940, aveva stretto alleanza con Adolfo Hitler per fagocitare l'inerme Polonia.
Che cosa poteva fare il Nunzio Laghi in tale situazione?
Non molto. Era solo. Il suo segretario irlandese, Monsignore Coveney, era alla
vigilia di essere trasferito a un'altra sede[8].
Parlava poco e male lo spagnolo e seguiva con scarso interesse quanto succedeva
in quel Paese impazzito che stava per lasciare. Laghi non aveva a sua
disposizione nemmeno una monachella che potesse fargli da segretaria e
dattilografare i suoi rapporti, cui doveva provvedere per proprio conto con una
obsoleta macchina da scrivere, con la quale non aveva troppa familiarità.
Alcuni anni dopo, quando fu nominato Delegato Apostolico a Washington, trovò
una situazione assolutamente diversa: "Mi parve di entrare in un mondo
sconosciuto; avevo a mia disposizione quasi un esercito di segretari,
assistenti e collaboratori, che mi fece ricordare con una certa nostalgia i
mici tempi di Buenos Aires".
I contatti quotidiani di Laghi si limitavano a un
manipolo di sacerdoti come Monsignor Carlos Galán, attuale Arcivescovo di La
Plata, che viveva in una Casa del Clero e che nel 1977, su invito del medesimo
Laghi, si sarebbe trasferito nella Nunziatura. Un altro era il sacerdote
spagnolo Emilio Martínez, dei Padri di Lourdes. Soltanto a loro e a qualche
altro con cui era entrato in confidenza, il Nunzio partecipava le proprie
inquietudini e perplessità.
Notava che il tempo non gli bastava, e questo lo
rattristava in quanto giorno dopo giorno aumentava il numero delle persone che
chiedevano di parlare con lui per esporgli i propri drammi e ottenere il suo
intervento. Successivamente, sarebbe arrivato a ricevere più di dieci persone
ogni giorno. Prendeva nota accuratamente di quanto ognuno gli esponeva, con
quella sua grafia chiara e leggibile, su quando, dove e come i familiari erano
stati sequestrati. Inoltre non poteva tralasciare di far fronte alle esigenze
della difficile riorganizzazione dell'Episcopato argentino, che gli richiedeva
costanti sforzi e non pochi viaggi. Infine doveva dedicare del tempo anche al
suo ruolo di decano del Corpo Diplomatico. Lontano dall'ambiente ufficiale e da
quello diplomatico, Laghi cercò di stringere legami di amicizia con qualche
valido personaggio che aveva respinto l'opzione dell'esilio e aveva preferito
affrontare in Argentina i pericoli della situazione. Vi conversava e ne
riceveva stimolo per approfondire la linea di condotta che si era imposta. Uno
era il giornalista di origine ebraica, Jacobo Timerman, direttore del giornale
"La Opinión". Un altro, il laico cattolico Adolfo Pérez Esquivel,
futuro Premio Nobel per la Pace, con cui Laghi ebbe dissensi abbastanza forti,
soprattutto per il ruolo che aveva il Servizio "Pace e Giustizia", di
cui Pèrez Esquivel era il coordinatore generale per l'America Latina. Un terzo
era il rabbino Leon Klenicki Pérez Esquivel, prima che lo sequestrassero il 4
aprile del 1977, frequentò in varie occasioni la Nunziatura e oggi riconosce
che Laghi "fece tutto ciò che poteva per salvare vite umane e salvare la
gente". E lo fotografa con queste parole: "Ricordo che mentre
parlavamo della situazione del Paese lui si alzava e, senza nascondere l'intimo
sconvolgimento che lo pervadeva, camminava avanti e indietro per il suo ufficio
agitando le braccia come fossero pale di un mulino ed esprimendo tutta la sue
rabbia"[9]. Timerman,
da parte sua, lo ricorda così: "Era un uomo preoccupato per quanto
succedeva, con cui parlavo di cosa si potesse fare, come avremmo potuto aiutare
la gente, ma le possibilità non erano molte, sebbene Laghi fosse alla
permanente ricerca di strade o alternative che potessero alleviare i
sofferenti. La realtà, purtroppo, e che con i militari non aveva voce in
capitolo nemmeno il Vaticano. Ho visto generali compiere azioni inammissibili
per quanti, come loro, si definivano cristiani"[10].
I contatti con alcuni Vescovi erano il contraltare di
questo quadro inquietante. Dalle loro labbra Laghi a volte ascoltava una netta
smentita sull'esistenza di un terrorismo di Stato e la proliferazione di
carceri clandestine dove si praticava indiscriminatamente la tortura. A poco
servivano i suoi avvertimenti, le sue ammonizioni, nel senso che "queste
cose la Chiesa non può tollerarle". Non potendo visitare le carceri, non
gli restava altra alternativa che registrare quello che gli raccontavano altri
prelati. Sarebbe stato stolto procedere in un altro senso, con atteggiamenti di
rottura che il suo incarico gli vietava.
Esiste un episodio circa questo doloroso condizionamento
subito dal Nunzio Apostolico che ha valore emblematico e che possiamo
documentare. A metà maggio 1976, il Segretario di Stato Vaticano, Cardinale
Jean Villot, aveva inviato a Laghi una nota (codificata con il numero 66) in
cui gli formulava due domande, una riferita alla richiesta di udienza papale
che aveva presentato alla Prefettura della Casa Pontificia il dirigente sindacale
ed ex Segretario della Confederazione del Lavoro, Raymundo Ongaro che si
trovava esiliato in Europa; l'altra su quale fosse la situazione dei
prigionieri politici nel Paese. Quest'ultimo interesse derivava dalle denunce
che, in numero crescente, arrivavano alla Santa Sede circa il delicato
problema. Laghi procedette come doveva: girò la lettera a Monsignor Tortolo,
poiché ambedue le questioni erano di sua pertinenza, la prima perché
l'Arcivescovo di Paraná era il Presidente della Conferenza Episcopale e la
seconda per la sua carica di Vicario Castrense. Tortolo rispose il 6 giugno del
1976[11].
Con riferimento alla richiesta di Ongaro di esser ricevuto in udienza dal Papa,
Tortolo rispose che la riteneva "inopportuna" perché – sottolineava ‑
poteva "essere utilizzata per molteplici finalità nel mondo operaio e al
di fuori di esso". In quanto alla situazione dei detenuti politici nelle
carceri, che diceva di aver visitato durante il 1975 e 1976, Tortolo
sottolineava il "sovraffollamento" e "la ristrettezza dello
spazio" della prigione di Villa Devoto, ma ‑ allo stesso tempo ‑ offriva un quadro quasi
confortante. Diceva che i detenuti con cui parlava ("nell'insieme o
individualmente") gli rispondevano sempre "che erano ben
trattati" e gli assicuravano di non aver subito mai torture fisiche. Aveva
solo notato un indurimento del regime carcerario (con il ricorso
all'isolamento) quando le autorità sventavano tentativi di fuga, la cui
progettazione attribuiva ai familiari dei detenuti con la collaborazione di
"sacerdoti estremisti". Ma questa durezza era cosa inevitabile ‑
sottolineava con una ovvietà non esente da un certo macabro umorismo ‑
perché "il carcere è il carcere".
Assicurava poi con enfasi che i prigionieri erano oggetto
di una conveniente assistenza spirituale, perché nelle carceri non mancavano
mai i cappellani. I1 problema si presentava quando entravano in scena sacerdoti
comuni. Alla maggior parte di loro era vietato l'ingresso, misura che egli
approvava senza riserve. Uno che aveva avuto queste difficoltà ‑ secondo
Monsignor Tortolo ‑ era stato Monsignor Angelelli, il Vescovo molto
vicino ai Sacerdoti del Terzo Mondo che poco tempo dopo sarebbe stato
assassinato. Impietosamente, il Vicario Castrense si affrettava a precisare che
gli fu vietato l'ingresso al carcere perché il prigioniero che Angelelli voleva
assistere era "un sacerdote guerrigliero di Cordoba, detenuto a La
Rioja".
L'occasione fu propizia a Tortolo per esternare, con una
lunga giustificazione, le ragioni per le quali il governo nutriva
"diffidenza per la visita dei sacerdoti". E seguiva una descrizione
crudele e pretestuosa di molti detenuti, ricordando che avevano frequentato
scuole religiose e che non pochi sacerdoti giovani "avevano incoraggiato
la guerriglia e l'eversione, soprattutto quanti avevano operato nel Terzo
Mondo" (sic). Concludeva che il loro castigo era giusto, giacche molti di
loro "erano stati a Cuba" ed erano "compromessi con il
marxismo".
Più grave era il quadro rassicurante che tracciava della
vita nelle carceri militari, dove scopriva che il fattore più nocivo per i
prigionieri, quando isolati, era "una deprimente, quando non disperante,
condizione di tedio". Niente di più falso, come si sarebbe dimostrato con
orrore più tardi.
Per il Vescovo non esistevano torture, maltrattamenti,
stravolgimenti dell'identità dei prigionieri né eccessi di alcuna sorta. Solo
noia ed incertezza per non poter sapere i motivi per i quali erano stati
arrestati e messi indiscriminatamente a disposizione del Potere Esecutivo, ossia
essere diventati dei "PEN", come erano chiamati nel gergo poliziesco.
L'unica ammissione che Tortolo faceva era che nelle celle c'era
"pochissimo spazio" e che ai loro occupanti non era ammesso leggere
giornali, libri o ascoltare la radio.
Laghi si trovava davanti a due interpretazioni
antitetiche del problema. Su un piatto della bilancia giacevano le denunce dei
parenti delle vittime, sempre più numerose, i commenti sugli abusi che si
commettevano, l'incertezza sul destino di persone il cui numero aumentava
vertiginosamente. Sull'altro, c’erano testimonianze come quella di Monsignor
Tortolo, a cui non si poteva non concedere un minimo di credibilità. In fin dei
conti si supponeva che il Vicario Castrense fosse al di sopra delle passioni e
coerente con la sua condizione di pastore della Chiesa e servitore dei principi
evangelici.
Dinanzi a quella relazione, Laghi fece l'unica cosa che
era in suo potere fare: ne trasmise il contenuto a Villot e a Monsignor
Giovanni Benelli, Sostituto della Segreteria di Stato, con la Nota Numero
1295/76 del 23 giugno, senza aggiungervi commenti o valutazioni. E Villot, a
sua volta, ne dette riscontro a Laghi con due comunicazioni del 7 e 10 luglio
del 1976. Nella seconda, il Segretario di Stato scrisse una frase che, al di là
del paludato linguaggio vaticano, ha il significato di un'autentica
ammonizione: "Monsignor Tortolo saprà intensificare i suoi sforzi e
valersi della collaborazione dei Fratelli nell'Episcopato e dei cappellani
militari affinché si migliori il trattamento dei detenuti, soprattutto per
quanto concerne la loro assistenza spirituale, ma senza tralasciare di
insistere sulla necessità di snellire i tempi delle istruttorie e dei
processi"[12]. Era
un'esortazione che Laghi comunicò con fulminea tempestività a Tortolo lo stesso
giorno (14 luglio), non indirizzandola all’''Arcivescovo di Paraná" ma al
"Vicario Castrense", con sede a Buenos Aires. Il destinatario era
l'Ordinario Militare, non il pastore. Una sottile distinzione che invita a
riflettere.
L'occasione è propizia per parlare, anche, del Pro
Vicario Castrense, Monsignor Victorio Bonamin che, con il suo appoggio alla
repressione dei militari andò ben oltre gli estremismi di Tortolo. Il 23
settembre del 1975, quando il colpo di Stato dei Militari era in piena gestazione,
li aveva esortati ‑ in presenza del capo di Stato Maggiore dell'Esercito,
generale Eduardo Viola ‑ a prendere il potere "purificati nel
Giordano del sangue". Una scelta che riteneva inevitabile, perché quando
"c'è spargimento di sangue c'è redenzione"[13].
Il suo estremismo si esprimeva nelle sue omelie,
tristemente memorabili, e in atteggiamenti inammissibili, come quando si
rifiutava di partecipare alle riunioni della Conferenza Episcopale, stante la
possibilità che in esse si prendessero decisioni critiche contro il Governo
militare. Per Bonamin, anche non pochi Vescovi erano stati "sedotti dal
comunismo senza Dio". In più di un'occasione ebbe duri scontri con Laghi,
che non nascondeva verso di lui una manifesta insofferenza.
Se così pensava e agiva la cupola dell'Ordinariato
Militare, era logico che non pochi cappellani castrensi parlassero la stessa
lingua e avallassero gli abusi della repressione. Citiamo il caso del
cappellano dei Servizi Penitenziari, Padre Felipe Perlanda López. Una testimonianza
ricevuta dalla CONADEP, riferita nel Fascicolo numero 4952, gli attribuisce la
seguente frase diretta a un detenuto che si lamentava per le torture che gli
infliggevano: "Caro, che posso fare per te se non collabori con le
autorità che ti interrogano?" In altri termini, siccome quel disgraziato
non diceva quello che i suoi carcerieri volevano, egli non poteva che
legittimare la torture. Anche altri cappellani militari ‑con il ritorno
della democrazia in Argentina ‑ furono denunciati per aver assistito alle
sessioni di torture e per averle avvalorate nelle carceri e nei centri
clandestini di detenzione. I1 capo di imputazione più grave e che assistettero
e portarono serenità e sollievo spirituale a repressori e torturatori,
legittimando di fatto ‑ con le loro parole ‑ gli abusi che avevano
commesso.
Con essi il Nunzio Laghi fu sempre chiarissimo: non
potevano né dovevano, sotto alcun pretesto, tollerare i maltrattamenti, le
torture, le vessazioni personali e assolvere con superficialità i loro autori. Insomma,
il rispetto dei diritti umani doveva essere, per loro, un limite invalicabile.
Avevano l'obbligo tassativo, se ricevevano ordini in tal senso, di disobbedire.
Ogni volta che incontrava un cappellano militare, la sua raccomandazione era
sempre la stessa.
Padre Enzo Giustozzi è un sacerdote della "Piccola
Opera della Divina Provvidenza", Congregazione fondata da Don Orione.
Nacque in Italia ma vive in Argentina da quando aveva nove anni. Apprezzato
professore di Sacra Scrittura ed ex direttore della "Rivista
Biblica", esercita il suo apostolato a Victoria, un paese non molto
lontano dalla capitale argentina. Quando nel 1976 cominciò la dittatura
militare, il Vescovo Monsignor Jaime De Nevares ‑ di cui era amico ‑
lo convinse a entrare a far parse del Comitato Esecutivo dell'Assemblea
Permanente per i Diritti Umani (APDH). Era un compito molto impegnativo e
pericoloso, perché l'APDH era nel mirino del regime che la considerava
un'organizzazione collaterale della guerriglia. Da allora, Giustozzi si è distinto
per un operato costante in difesa dei diritti umani, campo in cui svolse, con
altri sacerdoti come Luis Farinello e il salesiano Mario Leonfanti, un lavoro
intenso e rischioso. Almeno in due casi, grazie alla stretta collaborazione che
aveva stabilito con il Nunzio Laghi, la sua partecipazione fu decisiva per
salvare la vita di persone perseguitate, in mezzo a peripezie di netto stampo
romanzesco[14].
Per la sua storia personale e per l'ostilità che la
gerarchia della CEA mostrò verso l'APDH alla quale apparteneva, la
testimonianza di Padre Giustozzi è scevra di ogni sorta di influenza. Il
sacerdote ha ripetutamente ricordato con quanta solerzia Laghi lo riceveva
quando si recava alla Nunziatura per parlare del problema del "terrore
bianco" imperante.
Già nei travagliati mesi del 1976, quando "si
moltiplicavano i commenti "sottovoce" su arresti e sequestri",
Giustozzi si riuniva nella Cattedrale di San Isidro con l'attuale Vescovo di
Morón, Monsignor Laguna, ed "altri quattro o cinque sacerdoti",
nonostante l'aperta ostilità che contro questo tipo di conclavi esternava il
Vescovo Antonio Aguirre. E ricorda: "Quando bisognava far scappare
qualcuno dal Paese, o cercare un aiuto, c'erano solo due posti a cui ricorrere:
la Nunziatura e l'ambasciata di Svezia".
Il 5 luglio del 1997, Padre Giustozzi inviò al quotidiano
"Pagina 12" una lettera in cui racconto un episodio emblematico su
come procedeva Laghi nella spinosa questione e quali erano le istruzioni che,
al riguardo, impartiva ai sacerdoti. Trascriviamo questi passaggi: "In un
incontro del clero di San Isidro, nell'anno 1976, il Nunzio Pio Laghi riunì una
sessantina o settantina di sacerdoti ( se la memoria non mi tradisce, era
presente anche Monsignor Laguna). Disse, non ricordo se in risposta a una domanda:
"Supponiamo che io stia confessando un militare che mi dice: "Padre,
io torturo la gente", allora io ho l'obbligo di rispondergli: "Lei
non può farlo". E se lui insiste: "Ma eseguo gli ordini", devo
dirgli: "Lei non può eseguire simili ordini perché sono immorali". E
se non è disposto a disubbidire a questi ordini, devo negargli l'assoluzione
sacramentale." Padre Giustozzi concludeva ricordando che, alla fine della
sua esposizione, Laghi alzò lo sguardo al Cielo e susurrò: "Mio Dio, io
veramente non so quello che i cappellani militari faranno."
Tuttavia, non sarebbe giusto sostenere che tutti i
cappellani militari, senza eccezione, aderirono acriticamente ai metodi della
repressione illegale, nonostante abbondino le testimonianze presentate presso i
tribunali e la CONADEP. Ci furono coloro che ebbero vere crisi di coscienza di
fronte agli spettacoli aberranti a cui assistevano e, poiché la strada della
denuncia era impraticabile, decisero di dimettersi dal loro incarico. Uno di
essi, ad esempio, fu il cappellano del carcere di Coronda, che si presento
all'Arcivescovo di Santa Fe, Monsignor Zaspe, per chiedere di essere sollevato
dalle sue funzioni. Non poteva continuare ad assistere alle torture, confessare
gli autori di tali barbarie e assolverli perché quanto facevano "era
necessario per salvare la Patria", secondo le giustificazioni che i
superiori adducevano.
Zaspe lo ascoltò con attenzione, rifletté e infine gli
chiese di rimanere al suo posto, anche facendo violenza alla propria
sensibilità di cristiano. A Monsignor Casaretto, che allora si trovava a capo
della Diocesi di Rafaela, Zaspe confidò la sua tormentata decisione. Convinse
il cappellano di Coronda con questa frase: "Se te ne vai, questi poveri
disgraziati non potranno continuare a ricevere la parola di Dio e il conforto
che da essa proviene. La rinuncia è un atto eroico, che io condividerei, ma che
priverebbe questi ragazzi del sollievo dell'assistenza religiosa"[15].
Era la scelta del male minore. Criticabile, discutibile,
come sono tutte quelle decisioni adottate in casi di emergenza, ma prese in
funzione della necessità incalzante di aiutare in qualche modo i perseguitati.
Ed era quello che tanti uomini di Chiesa, in quei tempi incerti, sentivano.
Zaspe era molto amico del Nunzio Laghi. Gli faceva visita con frequenza ogni
volta che si recava alla capitale. Una volta portò con sé il giovane e
sensibile cappellano militare. Quando glielo presentò e gli espose il caso,
Laghi non indugiò un istante a dirgli che approvava totalmente la proposta dell'Arcivescovo.
Ed aggiunse, per dissipare qualsiasi dubbio nel suo interlocutore, che lui ‑
al suo posto ‑ avrebbe fatto esattamente lo stesso. Fu allora che il
cappellano militare ‑ prima di ritornare al suo ministero ‑ ascoltò
dalle labbra del Nunzio Apostolico queste parole: "Se un sacerdote o un
cappellano arriva a giustificare soltanto una volta una violazione dei diritti
umani o una tortura, tenga a mente che andrà all'inferno". Era una frase
che Monsignor Laghi ripeteva in ogni occasione che considerava opportuna, senza
lasciare spazio a dubbi di nessun tipo. Ma non sempre riceveva ascolto.
Malgrado gli eccessi dei quali si incominciava ad avere indizi ogni volta più
preoccupanti, la società argentina appoggiava ancora decisamente il regime
golpista. E questo appoggio era ancora più convinto quando la propaganda
ufficiale parlava di quei cattolici (religiosi e laici) che si erano lasciati
catturare dal "demonio comunista".
Fu in quel clima di caccia alle streghe che ebbe luogo il
massacro dei Padri Pallottini.
* * *
La Congregazione "Società dell'Apostolato
Cattolico" fu fondata a Roma il 4 aprile del 1835 da Vincenzo Pallotti ed
è comunemente conosciuta come la Congregazione dei Pallottini. Pio XI l'ha
definita "anticipatrice dell'Associazione Cattolica": Per entrarvi
gli aspiranti devono fare due anni di noviziato e formulare sei promesse di
perseveranza, obbedienza, castità, povertà, vita comune e rifiuto di ogni
immoralità. La sede centrale è a Roma e il suo Rettore Generale è Padre Seamus
Freeman. Opera nei cinque continenti ed è composta da 16 province con 247 case
e più di un migliaio e mezzo di sacerdoti.
Il suo Delegato a Buenos Aires era un sacerdote
irlandese, Padre Alfredo Leaden, di 56 anni, fratello del Vescovo Ausiliare di
Buenos Aires, la cui designazione era stata proposta al Papa proprio da Laghi.
Padre Leaden svolgeva il suo ministero nella parrocchia di San Patrizio, nel
quartiere di Belgrano R della capitale argentina. Con lui formavano parte della
comunità un anziano sacerdote di 65 anni, Padre Pedro Duffau, professore di
catechesi a Belgrano R e un altro di 40 anni, Alfredo Kelly, direttore del
Seminario e professore nel Collegio delle Serve del Santissimo Sacramento.
Erano tre uomini buoni, mansueti, pacifici, impegnati nella "Pastorale dei
Poveri", per la quale lavoravano nei quartieri periferici, ma lontani dal
poter esser tacciati minimamente come predicatori della violenza. I seminaristi
più giovani li stimavano molto. Fra loro, vi erano Salvador Barbeito, di 29
anni, catechista, professore di Filosofia e Psicologia e preside del Collegio
San Martín, ed Emilio Barletti, di 25 anni.
A Belgrano R ‑ quartiere di borghesia medio‑alta ‑ non pochi giudicavano il loro operato con diffidenza e si facevano eco di un commento abbastanza diffuso di presunte (e mai confermate) connessioni con i guerriglieri Montoneros. "Tanto i loro amici come i loro parrocchiani erano concordi nell'affermare che sempre avevano predicato la pace e condannato la violenza", come riferisce la relazione "Nunca Mas". In realtà, questa diffidenza formava parte di un clima abbastanza diffuso tra le famiglie più agiate dei quartieri ricchi di Buenos Aires, che vedevano con mal celato sospetto l'attività di molti giovani cattolici che ogni mattina lasciavano la comodità delle loro abitazioni per recarsi nei quartieri poveri ‑ le cosiddette "villas miseria"‑ e portare avanti, con passione incrollabile, il loro impegno di promozione sociale e umana in favore dei più bisognosi.
La polizia era convinta che i sacerdoti della parrocchia
di San Patrizio lavoravano in collegamento con un gruppo che svolgeva la sua
attività nella parrocchia di Santa Maria del Pueblo, nel quartiere Belén, una
bidonville del Bajo Flores, e che aderiva alla cosiddetta "Teologia della
Liberazione". Poche settimane prima, una retata di militari aveva
sequestrato parecchi dei suoi membri, tra i quali la religiosa Mónica Quinteiro
e la giovane Mónica María Candelaria Mignone, figlia di uno dei principali
difensori dei diritti umani in Argentina, lo scomparso Emilio Fermín Mignone
(morì il 23 dicembre 1998). Erano accusati di complicità con i gruppi
guerriglieri. Lo stesso addebito che le autorità facevano ai Padri Pallottini
di San Patrizio.
L'eccidio accadde alle 2 circa di domenica 4 luglio, nel
pieno di una notte fredda anche se stellata. Davanti alla parrocchia in cui i
sacerdoti vivevano si fermò una vettura Peugeot 504 di colore nero, con quattro
persone a bordo. Parcheggiata poco lontano, c'era una volante della Polizia
Federale, occupata da poliziotti armati, che controllava la strada. Le due
vetture si scambiarono dei segnali, accendendo e spegnendo ripetutamente i
fari, dopodiché la volante della Polizia abbandonò il luogo. I vicini, che
spiando dalle finestre seguivano i movimenti delle vetture, non ebbero il
minimo dubbio che gli occupanti delle due vetture agivano in perfetta
sincronia, sotto la regia di un unico coordinamento.
In realtà, la volante era lì perché il familiare di un
alto capo militare, che viveva a pochi passi dalla parrocchia, (il generale
Martinez, allora governatore della provincia di Neuquen) aveva telefonato al
Commissariato 37, chiedendo il suo invio perché temeva un attentato terrorista.
Cosi, ritirata la vettura della polizia, la "patota" ‑ come
chiamavano nel gergo poliziesco questi commandi che agivano nell'oscurità ‑
ebbe "luce verde", ossia totale libertà per passare all'azione.
L'irruzione nella casa parrocchiale fu veloce, un'azione da veri
professionisti. Quando uno dei Padri Pallottini aprì la porta, richiamato dal
campanello che suonava insistentemente, si trovò davanti a un gruppo di
sconosciuti che gli puntava contro delle mitragliette. Entrarono e svegliarono
gli altri quattro religiosi che stavano dormendo. Dopo averli insultati e
percossi con le armi, gli assassini li obbligarono a inginocchiarsi e li
uccisero con colpi alla nuca. Fu una vera esecuzione di gruppo, consumata con
brutale ferocia. I cadaveri dei Padri Leaden, Dufau e Kelly e dei seminaristi
Barbeito e Barletti rimasero stesi a terra, coperti di sangue, uno accanto
all'altro.
Con le luci dell'alba, le prime persone che arrivarono
alla parrocchia trovarono le porte spalancate e i cinque corpi massacrati,
coperti precariamente da alcune coperte. I muri erano stati imbrattati con
scritte ingiuriose che poco dopo furono prontamente cancellate dalla polizia
che sopraggiunse. Fu pure rimosso un tappeto, macchiato di sangue, che mostrava
scritte rivendicative. Stesso destino ebbero carte e documenti. Ma i
parrocchiani, malgrado la diligenza dei poliziotti, avevano potuto leggere:
"Questo succede per aver avvelenato le menti della nostra gioventù".
Su un'altra parete, avevano scritto "Preti comunisti" e altre frasi
dello stesso tenore. Ma la scritta più significativa diceva: "Così
vendichiamo i nostri compagni di Coordinacion Federal".
Era un'esplicita allusione al barbaro attentato
terrorista perpetrato venerdì 2 luglio, di cui abbiamo parlato nel Terzo
Capitolo, quando una bomba collocata nella sala da pranzo della Soprintendenza
della Polizia aveva causato quasi un centinaio di vittime, tra morti e feriti.
I1 nesso tra i due episodi era più che evidente: si trattava di una vendetta
per quel massacro.
La prima informazione di quanto era accaduto arrivò alla
Nunziatura poco prima delle ore 8, quando Monsignor Laghi, con Monsignor Galán ‑
giunto lì da poco ‑ e Padre Martínez, si accingevano a salire a bordo
dell'automobile con cui dovevano recarsi alla località di Campana per la
cerimonia con la quale il Nunzio avrebbe ordinato Monsignor Alfredo Esposito
quale Vescovo della prima Diocesi creata durante la sua missione diplomatica,
quella di Zárate‑Campana. Squillò il telefono e Padre Martinez rispose.
Dall'altro capo della linea qualcuno lo informò di ciò che era accaduto a San
Patrizio, ma senza fornirgli ulteriori precisazioni.
Ricevuta la tragica notizia, Monsignor Laghi cambiò
immediatamente programma: invece di andare a Campana, ordinò all'autista di
dirigere la macchina alla parrocchia del quartiere di Belgrano R. dove arrivò
prima delle nove. Assistette a uno spettacolo straziante, davanti al quale
rimase attonito. C'erano enormi macchie di sangue sul pianerottolo, nel punto
dove l'esecuzione era stata consumata. Negli angoli della parrocchia,
abbracciate, varie persone piangevano sconsolate. Cercò di rivolgere alcune
domande agli altri religiosi, che si erano radunati sul luogo, ma ebbe scarso
successo: singhiozzavano, tremanti, e non riuscivano a spiegare con chiarezza
quello che era accaduto. Pensando che la preghiera avrebbe potuto riportare un
po' di calma e serenità, Monsignor Laghi si inginocchiò e iniziò a pregare a
voce alta. Poco dopo, arrivò il Cardinale Primate di Buenos Aires, Juan Carlos
Aramburu, elevato alla porpora nel Concistoro indetto da Paolo VI pochi giorni
prima.
A Campana lo aspettavano, e Laghi non poté rimandare
ancora la partenza. "Quel viaggio, che richiedeva più di due ore di
macchina, fu terribile, eravamo immersi in un silenzio cupo, pervasi da una
sensazione di dolore e spavento", ricorda oggi Monsignor Galán. Giunto
alla Curia della nuova Diocesi, chiese di telefonare a Buenos Aires. Mentre gli
fornivano ulteriori particolari sulla terribile vicenda, il suo viso si
adombrava. Quindi ebbe un breve scambio di opinioni con Monsignori Laguna e
Casaretto, sopraggiunti nel frattempo. Ma la cerimonia non poteva più
attendere. Stavano aspettando altri Vescovi, sacerdoti, parrocchiani della
Diocesi e giornalisti che erano arrivati per dar conto dell'evento. Già la
notizia del massacro dei Padri Pallottini si era diffusa tra i presenti. Molti
piangevano, sommessamente. La costernazione era indescrivibile.
Dopo aver dato lettura del Decreto Pontificio, con cui si
nominava Vescovo Monsignor Esposito, il Nunzio sorprese tutti. Prese la parola
e improvvisò, con voce rotta dal dolore, un'emozionante omelia con parole di
aperta condanna per quello che era successo. Si rammaricò di quell'assassinio,
lo deplorò con frasi durissime e auspicò un rapido chiarimento, in merito alle
responsabilità degli esecutori e mandanti. Riconobbe, con doloroso realismo,
che l'accertamento della verità sarebbe stato molto difficile "per la
situazione di illegalità che imperversa nel Paese" e per la libertà di
azione di "alcuni gruppi armati che sembrano godere di un'inammissibile
protezione da parte del potere", pur senza trascurare di dare rilievo al
fatto che il massacro "non poteva o non doveva rimanere impunito".
Non lo disse esplicitamente, ma lasciò intravedere che
nutriva già forti certezze su chi fossero stati gli autori dell'efferato
delitto, grazie alle informazioni che aveva raccolto nelle poche ore trascorse
dalla tragedia. Era sicuro che non si trattava di un tragico malinteso ma della
mano esecutrice di sicari appartenenti a organismi ufficiali e della polizia.
Tuttavia, e nonostante il carattere pubblico della
cerimonia dell'ordinazione episcopale, le sue parole di condanna e di denuncia
non vennero registrate il giorno seguente dalle cronache dei giornali, che
diedero conto della vicenda. Non fu pubblicata nemmeno una parola. La censura, imperante
in Argentina, anche questa volta, aveva agito con prontezza contro Laghi.
I1 funerale dei Padri Pallottini ebbe luogo la sera di quella stessa domenica, nella parrocchia San Patrizio, e fu un'impressionante espressione collettiva di dolore. Non poteva essere altrimenti perché l'episodio fu il più grave e doloroso che si registrò nella storia della Chiesa argentina. I cinque feretri vennero allineati e la cerimonia religiosa fu officiata dall'Arcivescovo Aramburu, con cui concelebrarono i Vescovi ausiliari e circa 60 sacerdoti. Tra i prelati presenti c'era anche Monsignor Laghi.
Durante la cerimonia, fece irruzione il comandante del Primo Corpo d'Armata, generale Suárez Mason, seguito da un gruppo di ufficiali che si accomodarono nel posto riservato alle autorità, tra le quali era già presente il Ministro degli Affari Esteri, contrammiraglio Cèsar Guzzetti. Suárez Mason era il vero e indiscusso "signore della guerra" di Buenos Aires e dintorni, odiato e temuto per la sua crudeltà e spregiudicatezza. Aveva ai suoi ordini non solo l'unità militare più potente dell'Esercito argentino ma anche la Polizia Federale a cui appartenevano sicuramente i sicari. I1 suo arrivo provocò un momento di mal celata tensione, che si acutizzò quando Suárez Mason si alzò e si fece avanti per ricevere la comunione. Nella Chiesa calò il più completo silenzio. I fedeli presenti non riuscivano a credere che il capo militare fosse capace di un gesto simile, carico di sfrontatezza, solo spiegabile per la sua criminale superbia.
Allora
Laghi, che era a pochi passi, non ne poté più e, indignato, disse a voce
sufficientemente alta da essere udita dagli astanti più prossimi: "Dio
mio, ma come si può accettare una cosa simile, e inaudita e inconcepibile,
invece di dargli la Santa Comunione, bisognerebbe sferrargli un pugno in piena
faccia"[16]. Suárez
Mason ascoltò benissimo ma, pur se con il volto rosso dall'ira, non si
scompose. Solo quando tornò al suo posto, rivolse uno sguardo carico di
disprezzo e di odio al Nunzio che aveva osato pronunciare quelle parole. Ma
Laghi non abbassò lo sguardo.
[1]
Lettera Pastorale Collettiva della
Conferenza Episcopale Argentina del 15 maggio 1976.
[2]
Vedere Lorenzo Prezzi e Gianfranco
Brunelli, "Santa Sede‑Argentina: Vicenda Ingiusta ed Amara ".
In "Il Regno'', 15 luglio 1997, pag.390.
[3] "La
Prensa', 31 gennaio del 1978.
[4]
Susana Falcón, "20 Años de
Memorias de la Impuniday el Olvido. Argentina, 1976‑1996". Buenos
Aires, 1997, pag. 39.
[5]
Lettera del Presidente della Conferenza
Episcopale Argentina, Monsignor Adolfo Tortolo, al Ministro degli Interni del
Processo, generale Albano Harguindeguy, del 14 giugno 1976. In Conferencia
Episcopal Argentina, "La Iglesia y los Derechos Humanos". Buenos
Aires, 1984, pag. 24
[6]
Disse Massera: "Noi, quando agiamo
come potere politico, continuiamo ad essere cattolici ed i sacerdoti cattolici,
quando agiscono come potere spirituale, continuano ad essere cittadini. Sarebbe
un peccato di superbia pretendere che gli uni e gli altri fossero infallibili
nei loro giudizi e nelle loro decisioni. Tuttavia, prendendo come fonte del
nostro agire l'amore, essenza della nostra stessa religione, non abbiamo
problemi e le relazioni sono ottime, come si addice ai cristiani".
Intervista concessa alla rivista "Famiglia Cristiana', riprodotta da
"Clarìn" il 13 marzo 1977.
[7]
Dichiarazione di Alexander Rawa
Jasinski, padre di un "desaparecido',a uno degli autori.
[8]
Monsignor Coveney è attualmente Nunzio
Apostolico in Nuova Zelanda.
[9]
Intervista concessa da Adolfo Pérez
Esquivel il 25 luglio 1997 a Radio Cultura di Buenos Aires. Il nastro
registrato è in possesso degli autori.
[10]
Intervista concessa dal giornalista
Jacobo Timerman a uno degli autori.
[11]
Relazione di Monsignor Tortolo alla
Nunziatura Apostolica datata 6 giugno 1976 a Paraná e registrata il 23 di tale
mese, con il numero 1295/76. Copia in possesso degli autori.
[12]
Lettera del Cardinale Villot al Nunzio
Apostolico Pio Laghi del 10 luglio 1976.
[13]
Omelia di Monsignor Victorio Bonamin
pronunciata il 23 settembre 1975.
[14]
Testimonianza di padre Enzo Giustozzi
agli autori.
[15]
Testimonianza di Monsignor Jorge
Casaretto a uno degli autori
[16]
Non risponde a verità la notizia che
ebbe una certa diffusione nel senso che Laghi si rifiutò di dare l'Eucaristia
al generale Suárez Mason, come testimoniò il giornalista Roberto Cox, direttore
del quotidiano "Buenos Aires Herald''