CAPITOLO 7
Le liste di Laghi
Nelle
settimane di agosto e settembre del 1976 che seguirono l'incontro con il
Ministro Harguindeguy, Pio Laghi sviluppò un'attività frenetica, spinto dalla
sua decisione di intercedere per il maggior numero possibile di detenuti e
"desaparecidos" dei quali veniva a conoscenza. Con il diffondersi
della notizia che la Nunziatura era sensibile ai drammi delle vittime della
repressione, il numero di persone che ricorrevano a lui era aumentato,
obbligandolo a un lavoro sempre più impegnativo.
Iniziò
così la faticosa elaborazione di schede nominative alla quale collaborava, con
volontà commovente, un anziano sacerdote italiano, Padre Luigi Parussini, oggi
scomparso. Erano elenchi in cui apparivano, da una parte, persone i cui parenti
si erano presentati alla Nunziatura chiedendo aiuto e, dall'altra, i nomi e le
circostanze di persone che erano stati presentati alla Segreteria Generale
dell'Episcopato. L'ufficio si trovava nel vecchio edificio di via Paraguay 1867
ed era presieduto da Monsignor Galán, l'amico e collaboratore di Laghi. Alla
compilazione partecipava il presbitero Jaime Garmendia. Una volta ultimate le
liste, Laghi ‑ senza perdere tempo ‑ le portava al Ministero degli
Interni.
Il 2 dicembre 1976, per esempio, Garmendia mandava a
Padre Parussini, con la preghiera di consegnarle a Laghi, la settima lista di
"desaparecidos" e la quinta di detenuti. E nella lettera che
accludeva c'era una frase che da una chiara idea del compito febbrile che, con
quella minima coordinazione che le circostanze permettevano, il Nunzio e
Monsignor Galán realizzavano: "Da parte nostra faremo il possibile, ma ‑
come già le avrà anticipato Monsignor Galan ‑ il lavoro è enorme e quando
saremmo stati sopraffatti, ricorreremo a Lei"[1].
E' la prova indiscussa che la Nunziatura e la Segreteria
Generale della Conferenza Episcopale lavoravano in piena armonia per
intercedere in favore delle vittime della repressione. Tale azione presentava
un'infinità di ostacoli, difficilmente superabili. Si pensi, semplicemente,
alle decine di persone che ricorrevano ad ambedue le sedi, e che, spesso,
aspettavano per strada, sfidando anche per ore l'inclemenza dell'inverno, con
la speranza di trovare un interlocutore che prestasse attenzione alle loro
sventure e le facesse sentire meno sole nelle loro tenebre.
Qualcuno potrebbe interpretare quelle liste come semplici
formalità, come espedienti prescelti per tutelarsi dal severo giudizio della
Storia. Ma non fu assolutamente così. In molti casi Laghi le completò con
l'invio di lettere personalizzate o inoltrando ulteriori richieste presso le
autorità del regime, che a volte visitava accompagnato dai familiari del
detenuto o del "desaparecido". E quando non trovava adeguata
accoglienza, cosa che succedeva con frequenza, iniziava egli stesso la ricerca
delle vittime in quel groviglio inestricabile che era la dittatura militare.
Dopo l'incontro col generale Harguindeguy di cui s'è
detto, Laghi compilò un nuovo elenco, questa volta composto da 14 nomi di
detenuti e "desaparecidos", i cui familiari si erano rivolti soltanto
alla Nunziatura Apostolica. Porta la data del 2 agosto 1976 e appaiono i nomi
di Domingo Vicente Torres, Fabián Eduardo Resta, Gustavo Pastik, Jorge La
Cioppa, Franca Jarach, Carlos Zamorano Vega, Hugo Alberto Goyeneche, Julia
Dublanski, Carlos Alberto Gil, Alberto D'Agostino, Armando Bernardo, Susana
Libedinsky, Raul Horacio Trigo e Nelida del Valle Santervaz.
Di nuovo, Laghi lo portò personalmente al Ministro ed
ebbe con lui un'altra conversazione segnata da un'atmosfera quasi glaciale. Gli
espose i precedenti che era riuscito a raccogliere sulle circostanze in cui
ognuno di loro era stato arrestato. "Spero che il suo operato sia
fruttuoso, rimango in attesa di sue notizie", gli aveva detto Laghi,
congedandosi.
Quattordici giorni dopo, il 16 agosto, con una
sorprendente solerzia, il capo militare gli rispose facendogli presente che
solo due di quelle persone erano detenute "a disposizione del Potere
Esecutivo". Si trattava di Torres e Resta (quest'ultimo era un
adolescente, poiché la nota chiarisce che "nonostante la sua giovane età,
stampava materiale propagandistico per una delle organizzazioni
terroriste"). Delle altre dodici, affermava che il suo dicastero non
sapeva nulla, sebbene ci tenesse a chiarire che, per otto di loro, i familiari
già avevano inoltrato relative denunce di scomparsa. Vale la pena, senza
ulteriori commenti, trascrivere il paragrafo con cui Harguindeguy concludeva la
lettera , da cui si percepisce un vago tono di monito, diretto al Nunzio. La
lettera costituisce un documento eloquente, quasi una radiografia etica e
morale, non solo per capire che tipo fosse Harguindeguy, ma l'intera classe dei
capi militari. Scriveva Harguindeguy: "Come Vostra Eccellenza saprà, in
ogni momento e circostanza, è stata preoccupazione costante di questo Ministero
la difesa dei diritti umani inerenti a ogni cittadino per far sì che viva
degnamente, protetto dalle nostre leggi. Per questo garantiamo la libertà e la
pace di tutti coloro che vogliano vivere in pace e libertà"[2].
Questa frase è tutto un programma. Padroni della vita e
della morte, i militari si sentivano Dio in terra, con sufficiente autorità da
escludere dalla loro clemenza quei dodici disgraziati e tutti quelli che
avessero una visione diversa di quello che significava, per loro, "vivere
in pace e libertà".
Ma il 10 agosto, sei giorni prima che Harguindeguy
scrivesse questi deliri, Laghi già era tornato alla carica e gli aveva inviato
una nuova lista, la Terza, e questa volta con 35 nomi raccolti in quei giorni,
accompagnata da una missive con cui chiedeva "il rispetto dei diritti
umani e civili delle persone per le quali si reclama giustizia".
La risposta di Harguindeguy a questa lettera e del 31
dello stesso mese. Con grande sorpresa di Laghi, non si faceva riferimento
soltanto ai 35 detenuti e "desaparecidos" che egli aveva menzionati
venti giorni prima, ma vi si includevano altri 17 casi, di cui 15, come
Monsignor Mullen segnala a Laghi in un memorandum interno del 4 settembre, erano
"nomi mai segnalati dalla Nunziatura Apostolica", ossia sconosciuti.
Si trattava d'un inaspettato e provvidenziale presente, che Laghi dovette
attribuire più alla sue pertinace insistenza che alla generosa disponibilità
del Ministro. Dalle liste nere dei "desaparecidos", erano emersi 15
nomi dimenticati da tutti, fatta eccezione dei loro familiari. Era una
conquista esaltante, un vero trionfo.
Gli altri due casi riguardavano persone per le quali
Laghi aveva interceduto personalmente presso Harguindeguy. Una era Maria
Gabriela Sartori. I1 Nunzio aveva esposto la sua situazione in una lista
inviata il 20 agosto e in favore della quale avrebbe fatto sentire la sua voce
a dicembre dello stesso anno, apponendo il suo nome nella quinta lista di
detenuti. L'altra era Selva María Ocampo, sequestrata insieme a un'amica, Inés
Nocetti, la cui segnalazione da parte del Nunzio Laghi era arrivata sul tavolo
di lavoro di Harguindeguy la stessa mattina in cui quest'ultimo stava
preparando la sua risposta, come si deduce da un semplice confronto delle due
lettere. Le due giovani, anche loro, erano diventate "PEN".
Disgraziatamente, per lo meno della seconda, non si seppe più nulla.
In quanto ai "suoi" 35 detenuti e
"desaparecidos", i cui nominativi Laghi aveva indicato nell'elenco del
10 agosto, la risposta del Ministro degli Interni non era stata affatto
incoraggiante. Diceva che di 23 di loro non aveva "alcuna
informazione". Dei rimanenti dodici, invece, sottolineava che dieci erano
"detenuti a disposizione del Potere Esecutivo per svolgimento di attività
sovversive", e si segnalavano i luoghi di detenzione, mentre gli altri due
già "erano stati messi in libertà ed espulsi del Paese".
Con l'ammissione, da parte delle autorità, che queste
dieci persone erano nelle loro mani, Laghi aveva ottenuto qualcosa che in
quelle atroci ore aveva un valore inestimabile e la cui importanza ancora
(siamo nei primi mesi della dittatura) non era stata chiaramente avvertita: una
volta che il regime aveva ammesso che erano nelle loro mani, aumentava enormemente
la possibilità di salvare le loro vite.
Infatti, non erano più semplici e anonimi
"desaparecidos". Erano passati ad essere "PEN". La grande
differenza, che arrivava con una carica di remote speranze, era che i familiari
sapevano che erano vivi, anche perché Laghi lo comunicava subito. Avevano
varcato quella debole soglia che separava la vita dalla morte.
Tra il 10 ed il 20 d'agosto, Laghi aveva continuato a
ricevere gente, mentre per il quotidiano e stretto contatto che manteneva con
la Segreteria Generale della CEA gli erano pervenuti, come un diluvio, nomi di
altre persone di cui si era persa ogni traccia. Una volta ordinati questi nuovi
casi, il 20 agosto il Nunzio inviò al Ministro Harguindeguy una nuova lista (la
quarta) con nomi e cognomi di altri 61 detenuti e "desaparecidos",
per la cui sorte intercedeva: "Segnalando a Vostra Eccellenza questi
nominativi, riaffermo la speranza che il Ministero degli Interni farà il
possibile in difesa dei fondamentali diritti umani e civili nei casi a cui si
allude, per restituire la pace e la serenità a queste famiglie distrutte".
Per sette di loro avrebbe rafforzato la sua preghiera con lettere personali che
inviò nei giorni seguenti.
Merita soffermarsi su due dei casi inclusi in questo
elenco, perché risultano emblematici sul grado di sfrenata pazzia che aveva
obnubilato le menti dei militari e perché uno di essi si tradusse in un
increscioso malinteso tra la famiglia di un "desaparecido" e Laghi.
Si tratta di due soldati di leva, Luis Daniel García e Luis
Pablo Steimberg. Entrambi appartenevano alla classe 1955 e prestavano servizio
nella Compagnia del Collegio Militare, il cui direttore era il generale
Reynaldo Bignone, diventato sei anni più tardi l'ultimo Presidente del
"Processo". Mentre stavano facendo uso della loro licenza annuale,
erano stati sequestrati e fatti sparire.
Laura Kogan, moglie di García, denunciò l'accaduto così:
"Non era trascorsa ancora un'ora del 12 agosto 1976, quando fummo
svegliati da forti colpi contro la porta dell'appartamento in cui vivevamo,
Luis Daniel corse ad aprirla e si trovò di fronte sei persone, vestite con
uniformi da combattimento dell'Esercito, che si identificarono come membri
della Compagnia del Collegio Militare alla quale egli apparteneva". García
protestò ma tutto fu in vano. Se lo portarono via. Due giorni prima, uguale
sorte aveva avuto Luis Pablo Steimberg. Lo avevano sequestrato il 10 agosto
verve le 20.30 in una strada della città di Moron, non lontano da Buenos Aires.
Aveva lasciato casa sua con il proposito di assistere, con il coscritto Mario
Molfino, un suo commilitone della stessa Compagnia del Collegio Militare, a una
proiezione cinematografica.
I familiari dei due ragazzi si rivolsero al Collegio
Militare, ma le autorità liquidarono la questione dicendo che, per loro, Garcia
e Steimberg avevano disertato[3].
Ma la mamma di Luis Pablo non si arrese. La sua disperazione la portò a non
lasciare nulla di intentato. E dopo la presentazione degli usuali e inutili
"habeas corpus", la signora Sara Steimberg si recò alla Nunziatura,
dove fu ricevuta da Laghi il 10 settembre, un mese dopo il sequestro.
Fatte le presentazioni ed esposto il caso, Laghi si alzò
e andò a cercare una cartella dove teneva registrati parecchi casi di vittime
della repressione. Tra loro si trovavano i dati di Juan Pablo. Dopo aver
comunicato alla madre che già si era interessato per conto suo del problema con
il Ministro degli Interni (sollecito che avrebbe ripetuto dopo quell'incontro),
le disse di stare tranquilla perché suo figlio era vivo, sebbene "non
potesse garantire per il suo futuro, dato che questo dipendeva dal
"pazzo" (sic) che comandava la prigione dove si trovava".
Anni dopo, la signora avrebbe dichiarato: "Gli
chiedemmo come conosceva quei dati e ci rispose che, in quanto diplomatico,
incontrava i militari e, grazie ai colloqui che aveva con loro, poteva
verificare certe situazioni". E la donna aggiunse: "Noi insistemmo e
gli chiedemmo se poteva far qualcosa per la vita di mio figlio. Rispose che la
sua funzione di ambasciatore agevolava alcune pratiche, ma ne limitava
altre". Secondo Sara Steimberg, Laghi non le concesse un'ulteriore
udienza.
La madre del "desaparecido" accusò Laghi di
corresponsabilità, adducendo che, nonostante conoscesse molto bene quanto
accadeva in quel pozzo nero che divorava vite umane e avesse accesso a
informazioni provenienti dall'interno delle Forze Armate, non denunciò
pubblicamente le efferatezze che si commettevano, preferendo il cauto (e
raramente utile) iter delle pratiche di ufficio.
Laghi si difese in un'intervista che concesse alla
rivista "Il Regno", il 15 luglio 1997. Disse: "Diedi alla
signora Steimberg alcune informazioni che ero riuscito a raccogliere attraverso
i canali del lavoro diplomatico e cioè che il ragazzo, a un mese dal sequestro,
era ancora vivo. Purtroppo, come dissi alla signora, non potevo assicurarle di
avere la forza per arrivare a capo della questione. Questo dice anche
dell'occasionalità e fragilità delle mie informazioni. Nella mia qualifica di
Nunzio, interpellavo i cappellani militari e delle carceri e i Vescovi stessi
per avere informazioni. Andavo ordinando e accumulando le molte informazioni
che ricevevo nella speranza che esse fossero utili almeno per qualcuno. Trovo
amaro sopportare che questo mio intendimento venga frainteso al punto da farne
l'esatto opposto: una conoscenza diretta volta ad approvare e a collaborare
alle sofferenze altrui"[4].
Tredici giorni dopo il suo incontro con la signora
Steimberg (il 23 settembre 1976) Laghi ricevette dal Ministero degli Interni
una lista con 56 nomi e cognomi di persone, intitolata "Dati richiesti
dalla Nunziatura Apostolica". Si spiegava che sei di queste erano a
disposizione del Potere Esecutivo, ossia diventate "PEN" e pertanto
momentaneamente in salvo, e che per altre 26 si erano "chieste notizie'' a
diversi organismi militari e di sicurezza Alle 24 restanti, si poneva loro la
fatidica etichetta: "non si possiedono informazioni di nessun tipo".
Significava che erano scomparse[5].
Una di loro era il soldato luis Pablo Steimberg.
* * *
"Se arrivi vivo al 77 ti salvi". Era questa la frase che, verso la metà del 1976, circolava tra guerriglieri e compagni. Sbigottiti, sotto pressione, sempre più impotenti a reagire all'offensiva generalizzata e sfrenata delle forze di sicurezza, cercavano di salvare il salvabile nella catastrofe che si profilava ineluttabile. Cominciavano a intravedere il fantasma della sconfitta.
Con questo "tam tam" sotterraneo carico di
angoscia e smarrimento, si dava un significato quasi provvidenziale all'arrivo
del nuovo anno. Si mescolavano superstizione e voglia di vivere, la certezza
della disfatta con la speranza di salvare la pelle. A molti attivisti, la
durezza della repressione e i racconti allucinanti che giungevano alle loro
orecchie sulle sparizioni, le torture e ogni sorta di crudeltà, avevano fatta
passare la voglia di aderire ancora alla Grande Utopia e si rimettevano al più
elementare degli istinti: quello di salvare la propria vita.
Ma c'erano altri, invece, che ostinatamente si impegnavano
a continuare la lotta. Per loro, l'esistenza si era trasformata in un inferno.
Vivevano come bestie braccate, cambiando casa quasi tutti i giorni, con un
faggottello di roba sulla spalla, diffidando di tutti, perfino di quanti
condividevano la loro ideologia, fiutando il pericolo della cattura o della
delazione. Erano militanti d'un esercito in rotta.
Alcuni, i più fanatici e ideologizzati, continuavano a
dire: "Bisogna resistere, non lasciarsi andare alla disperazione; anche
Fidel Castro, quando sbarcò a Cuba, aveva solo tredici uomini al suo fianco e
riportò la vittoria finale". Ma erano pochi a credere a quell'illusione.
Così, quasi come macabra congettura, si contavano a uno a
uno i giorni che mancavano alla fine dell'anno, senza intuire che il 1977
sarebbe stato peggiore, perché si sarebbe definito il completo disfacimento
delle organizzazioni armate, il relativo smantellamento dei loro appoggi
logistici e la proliferazione massiccia del sistema delle sparizioni. In
effetti, con l'anno che arrivava il "Processo" militare avrebbe
raggiunto il suo massimo consolidamento, appoggiata anche dal diffuso consenso
che gli dava la società argentina.
Nel 1977, la dittatura militare sarebbe arrivata al
culmine della sua efficienza, grazie al pieno funzionamento di una grande
infrastruttura repressiva, messa in piedi con rapidità ma anche con scrupoloso
rigore. Parliamo dei 340 centri clandestini di detenzione, per i quali
passarono migliaia di uomini e donne, in prigionie che molte volte si
protrassero per anni o dalle quali non fecero mai ritorno.
Lì vissero la loro detenzione. Lì si trovavano quando le
autorità rispondevano negativamente alle richieste di notizie per gli
"habeas corpus" presentati. Lì venivano vessati e torturati, mentre
le autorità dicevano al mondo intero che erano fuggiti all'estero o erano stati
vittime di regolamenti di conti tra "sovversivi". E i pochi
superstiti sopravvissero alla meglio, in condizioni disumane, fino a quando,
con la fine del regime ed il ritorno dell'Argentina alla democrazia ,
recuperarono la libertà.
I1 simbolo di questa struttura angariante sarebbe stato,
col passar del tempo, la Scuola Superiore di Meccanica dell'Armata (ESMA), che
condensò tutti gli orrori immaginabili. Per essa passarono 5.000 persone sequestrate,
torturate ed eliminate dal "Grupo de Tareas" o contingente operativo
che aveva la sua base nell'edificio a tre piani con una soffitta e un'enorme
cantina adibita a prigione. Qui i detenuti venivano rinchiusi, tenuti giornate
intere con gli occhi bendati o incappucciati, con catene ai polsi e alle
caviglie, senza acqua né luce e torturati metodicamente.
Gli ufficiali e i sottufficiali che agivano da
carcerieri, scherzando in modo macabro con le parole, avevano coniato un nuovo
frasario sull'ESMA. La strada che conduceva alla camera della tortura era stata
ribattezzata "Strada della Felicità". I sequestrati erano chiamati
"Cappucci" o "Cappuccetti", per il copricapo che dovevano portare per non guardare negli occhi i
loro guardiani. L'enorme camerata dove erano lasciati agonizzare e morire
portava il nome "E1 Dorado". Quando i cadaveri erano inceneriti, con
l'uso di benzina e pneumatici, si parlava di "Notti di Asado", la
tipica grigliata argentina. In molti casi, i condannati a morte ricevevano un "Trasferimento",
la più orripilante delle pratiche: essa consisteva nel gettare nel mare, da
aerei o elicotteri, prigionieri vivi e previamente intontiti con iniezioni.
Ma agli inizi del 1977, al di fuori del circolo militare
specifico e dei responsabili del potere, poco si sapeva di tante efferatezze e
aberrazioni. Si parlava con crescente insistenza dei sequestri, delle case
saccheggiate, delle brutalità gratuite inferte ai familiari dei ricercati, ma
ancora non si sapeva niente delle torture, dei "voli", degli
"asados" e di un'altra pratica esecrabile, che solo con il passar del
tempo e emersa in tutta la sua ripugnante dimensione: il sequestro di neonati,
figli di detenuti, che erano consegnati ad altre famiglie
"affidabili" perché crescessero ‑come quei mostri volevano ‑
"in ambienti convenienti per la loro salvezza". Sono stati centinaia
i casi segnalati dalle 'Abuelas de Plaza de Mayo", che per anni svolsero
il doloroso compito di identificare questi piccoli "desaparecidos".
E' ingiusto e avventato affermare con certezza che i
membri dell'Episcopato che elogiavano pubblicamente il "Processo", in
nome della crociata contro il "comunismo ateo", fossero al corrente
di tutto questo. Ma che alcuni religiosi sapessero, sembra ormai fuori di
dubbio[6].
I cappellani militari erano più informati di chiunque
altro. E se oggi qualcuno cercasse di scagionarli, argomentando che ignoravano
ciò che era in atto, il meno che può dirsi è che furono colpevoli d'un
imperdonabile peccato di omissione, data la loro appartenenza al Vicariato
Castrense. E questo vale, particolarmente, nei casi dei Monsignori Tortolo e
Bonamin, al vertice del medesimo. La maggioranza dell'Episcopato prese
coscienza lentamente e dolorosamente che non ci si trovava di fronte ad abusi
più o meno occasionali ma, all'attuazione di un vero e proprio progetto di
annientamento. Per non pochi di loro fu un autentico trauma. Per il Nunzio
Laghi, la situazione era ancora più difficile e incresciosa. Non poteva rompere
con il governo militare, poiché il suo ruolo istituzionale non era quello di
esercitare la denuncia pubblica, ma di esortare l'Episcopato argentino a
intervenire. Tuttavia, dal momento che vide come si moltiplicavano davanti ai
suoi occhi le testimonianze di tante esperienze drammatiche, accantono ogni
atteggiamento passivo e mise a disposizione dei perseguitati le sue migliori
energie e la sua più fervida immaginazione.
E' opportuna una precisazione: in quel cupo 1977, il
nostro Rappresentante Pontificio non aveva ancora chiara conoscenza della
gravità e della barbarie della repressione. Quando si rivolgeva alle autorità
militari per ottenere informazioni sulle denunce che gli giungevano, riceveva
solo risposte evasive. Gli veniva detto che la persona cercata era passata alla
clandestinità; era stata vittima di qualche regolamento di conti tra bande
terroriste rivali; aveva abbandonato il paese; o, semplicemente, era
sconosciuta al Ministero degli Interni. Quindi, lo scoraggiavano con piste
false che aumentavano il suo disorientamento quando cercava di reperire
informazioni presso i Comandi delle tre Forze Armate, gli organismi di
sicurezza o gli svariati ministeri. Per lui, queste ricerche erano fonte di
maggior confusione e di una angoscia ancora più grande.
Restava in piedi il suo sistematico ricorso al Ministro
degli Interni, in quanto autorità militare superiore e competente nell'azione
repressiva. Ma dobbiamo sottolineare quanto era inconsueto e fuori luogo il
ricorso a questa via istituzionale. In nessun paese al mondo, per alcun motivo,
un ambasciatore ricorre direttamente a un funzionario di tale competenza per
esporgli le proprie richieste. Il suo canale logico è sempre il Ministero degli
Affari Esteri del Governo a cui ha presentato le sue Lettere Credenziali. Il
suo ripetuto appello al generale Harguindeguy e ai componenti della Giunta
Militare, quando questi accettavano di riceverlo o quando qualche circostanza
sociale o protocollare facilitava l'incontro, erano vere e proprie anomalie. E
ancora più fuori del normale era il suo peregrinare da un'autorità militare
all'altra, chiedendo, ricavando informazioni, verificando dati e muovendosi
alla cieca, vittima di una beffa orchestrata con cinica disinvoltura. Non e
difficile immaginare la sua delusione. Non solo risultavano scoraggianti i suoi
tentativi di localizzare i "desaparecidos". Lo erano anche le sue
pressioni per ottenere regolari inchieste e processi, la concessione della
libertà vigilata o il permesso per uscire dal Paese in favore di quei numerosi
detenuti a disposizione del Potere Esecutivo ("PEN") che languivano
nelle carceri, senza accuse concrete a loro carico. Era il medesimo stato
d'animo che invadeva quei rappresentanti del clero che cercavano di far
qualcosa per alleviare tante sofferenze, mediante l'impegno pastorale o attraverso
denunce e reclami che facevano giungere alla Conferenza Episcopale.
Questi Vescovi erano guardati con mal celata ostilità dal
regime, il quale cercava di ostacolare in tutti i modi sia le loro nomine e
promozioni che le loro attività. Tuttavia il Nunzio Laghi anche in questo
campo, non si fece mai intimorire. Raccontò Monsignor Casaretto a uno degli
autori: "Il 1° dicembre 1978 il Nunzio mi chiamò per informarmi della mia
nomina a Vescovo di Rafaela. Io accettai e, immediatamente, fu data comunicazione
al Governo che doveva ‑ come è prassi approvarla o esprimere le sue
obbiezioni. Ma passavano le settimane e il Governo non rispondeva . Monsignor
Laghi, spazientito, mi chiamò e mi disse: "Questi signori si credono
padroni del mondo, ma io non sono disposto ad accettare che vogliano imporsi
alla Chiesa, perciò se presentano qualche obbiezione alla tua nomina ti
proporrò come Vescovo Ausiliare di Santa Fe e come Amministratore Apostolico di
Rafaela; per queste due cariche non è neppure necessario informarli. I Vescovi
li nomina il Papa, non i generali e io sono qui per far rispettare questo
principio." Questa mia esperienza personale è una prova inconfutabile
della fermezza che il Nunzio aveva di fronte alla intollerabile invadenza del
regime."
Tra la fine del 1976 e l'inizio del 1977, la Commissione
Esecutiva della CEA (formata dai Cardinali Primatesta e Aramburu e da Monsignor
Zaspe) elaborò documenti, pratiche, incontri e denunce che dimostrano
l'esistenza di un forte fermento tra i Vescovi, spinti dalle pressioni di
quella coraggiosa e irriducibile minoranza costituita da Hesayne, Laguna,
Esposito, De Nevares, Novak, Casaretto e altri. Questi Vescovi sostenevano con
fermezza che la Chiesa doveva esprimere al potere militare la sua denuncia per
la sistematica violazione dei diritti umani. Un dettaglio: tutti loro, eccetto
De Nevares, erano stati candidati da Laghi.
Ma questi fermenti del vertice della CEA si sarebbero
attenuati l'anno seguente (1978) con due fatti che condizionarono tutta
l'attività politica argentina e, in certo senso, tolsero dal centro di
attenzione il problema dei "desaparecidos": la certezza che la
vittoria armata contro i "sovversivi" era irreversibile e l'emergenza
che si venne a creare nelle Forze Armate per il crescente pericolo d'una guerra
col Cile dovuta al problema del Canale di Beagle, considerate sempre più
ineluttabile.
Il 7 maggio del 1977, l'Assemblea della Conferenza
Episcopale approvò la divulgazione di una Lettera Pastorale in cui si alludeva
"al carattere cristiano che il governo delle Forze Armate vuole imprimere
al suo agire", ma veniva sottolineata la contraddizione di tale impegno
con una lunga lista di anomalie che elencava: scomparse, sequestri, torture,
lunghe detenzioni senza chiaro motivo e detenzioni che "non contemplano il
rispetto di primordiali necessita umane, senza escludere l'assistenza
religiosa"[7].
Il documento, malgrado la sua moderazione, provocò grande
fastidio al vertice militare e fu motivo di intense analisi e discussioni. Non
mancò la presa di posizione dell'ala dura" del regime, che preparò una
risposta severa e ammonitrice. Ma, alla fine, prevalse il criterio di agire con
ipocrita prudenza e di rendere pubblica una dichiarazione nella quale il
Presidente Videla avrebbe accettato di "riflettere" sulle
preoccupazioni formulate dalla Chiesa, ma avrebbe chiarito le "vere cause
delle scomparse", attribuibili soltanto in maniera marginale e occasionale
all'operato delle Forze Armate[8].
Secondo il dittatore, scomparivano coloro che avevano
scelto una delle cinque seguenti alternative: la clandestinità, l'imboscamento,
lo scontro armato con altre organizzazioni eversive tradotto nella loro
eliminazione, il suicidio per disperazione e, solo al quinto posto, la
possibilità di esser stato vittima di "qualche isolato eccesso imputabile
alle Forze Armate".
La esternazione del cattolicissimo Videla fu una doccia
fredda per i Vescovi. Una posizione così netta e inappellabile non poteva che
limitare ancora di più le loro possibilità d'azione. Attenuare gli effetti
della repressione o, per lo meno, ottenere informazioni valide per mitigare il
dolore di tante famiglie distrutte diventava, in questo clima di menzogna e di
impunità, un impegno quasi disperato.
Probabilmente, nessun Vescovo fu invaso di quel sentimento
di impotenza e di frustrazione come i tre prelati amici del Nunzio Laghi,
Monsignori Galán, Laguna ed Esposito, che facevano parte della
"Commissione Speciale di Collegamento" creata di comune accordo tra
la Giunta Militare e la CEA per stabilire una sorta di dialogo più o meno
organico e permanente con i militari sul problema dei
"desaparecidos". I1 meccanismo consisteva in pranzi periodici
(generalmente mensili) dei tre Vescovi con il Segretario Generale della
Presidenza e braccio destro del presidente Videla, Generale José Rogelio
Villarreal, e con i Segretari Generali delle tre Forze Armate. In ogni
occasione i tre Vescovi presentavano ai loro interlocutori le denunce su
scomparse che, a centinaia, si riversavano sulle diocesi del Paese.
Monsignor Laguna ha ricordato che fu una delle esperienze
più frustranti della sua vita pastorale: "Devo dirlo con tutta la
crudeltà: quello che facevano era prenderci in giro, (...) mai potemmo ottenere
un dato, nemmeno minimo, su nulla"[9].
E Monsignor Galán, in una lunga chiacchierata con uno degli autori, ricordò
tutta l'irrequietezza e l'impotenza che esternavano i tre prelati quando
abbandonavano quelle inutili riunioni, con la delusione che invadeva il loro
animo. Monsignor Laguna si è posto, con grande rigore morale, un doloroso e
profondo "esame di coscienza personale sul ruolo che ebbe in
quell'emergenza", per concludere: ''Avrei dovuto rompere con tutta
chiarezza ogni tipo di relazione".
Ed è qui che, nella sua autocritica, Monsignor Laguna
chiama in causa Laghi: "Quanta fu la mia dedizione per salvare le persone?
Poca. Quelle che Dio mise sulla mia strada, in forma casuale, furono sempre
salvate grazie all'intervento di altri, e mai senza la azione preziosissima del
Nunzio Apostolico Monsignor Laghi".
Non c'è alcuna ragione per non asserire che, verso Laghi,
i suoi interlocutori al potere tenevano esattamente lo stesso atteggiamento di
supremo disprezzo ‑ sebbene untuosamente raffinato dalle riverenze
formali che gli dispensavano per il suo ruolo di rappresentante del Papa ‑
che dispensavano a Laguna, Esposito e Galán. La verità è che gli facevano
perdere tempo, ironizzavano sul suo darsi da fare, sulla sua buona fede, si
prendevano gioco di lui.
"I militari erano veri carri armati, avvolti in
corazze d'acciaio e con un totale disprezzo per la vita altrui, durezza della
quale si vantavano senza nessun ritegno", ricorda il giornalista Jacobo
Timerman, che ebbe ripetute (e traumatiche) occasioni per constatarlo. Ed
aggiunge: "Per di più, erano pronti per la sconfitta che avevano inflitto
all'eversione, sembravano tigri inferocite".
Solo in alcune circostanze nel Presidente Videla quella corteccia blindata pareva cedere. Alcune volte, dopo aver ascoltato ciò che Laghi diceva sul senso antievangelico che la violazione dei diritti umani presupponeva, commentò: "Sa, Monsignore, che l'altra notte non ho dormito pensando a quanto Lei mi disse al riguardo?". Dopo, vittima di qualche crisi di coscienza, Videla andava a confessarsi dal suo cappellano militare di fiducia, Padre José Menestrina. E, confortato dall'assoluzione ricevuta, tornava al suo abituale cinismo operativo.
* * *
Per Laghi il quadro della situazione era avvilente,
confuso, sprovvisto di speranze immediate, cupo. In più di un'occasione si
chiese che tipo di cristiani potevano esser quei militari che, con la scusa di
difendere Cristo, non esitavano ad andare a braccetto con il demonio,
seguendone i consigli.
Lo incuriosiva pure quel meccanismo misterioso che
soggiaceva alla società argentina e che lui ‑ come straniero non
riusciva ad afferrare in pienezza. Vedeva con i suoi occhi e ascoltava con le
sue orecchie come la Giunta Militare, ovunque si recasse, fosse oggetto di
accoglienze entusiasmanti. Toccava con mano tutti i giorni come vasti settori
sociali, e quasi tutti i giornali, i canali della televisione, le radio e tutti
i mezzi di comunicazione, appoggiavano con entusiasmo il regime. E non solo
perché incombeva su di loro la censura ufficiale: sembravano sinceri, convinti
del loro sostegno. Aveva pure assistito all'indifferenza (a volte tramutata in
aperta ostilità) che la gente dispensava alle persone che si appellavano agli
organismi internazionali dei diritti umani che, in mezzo a mille difficoltà,
agivano nel Paese. Lo stesso disinteressato distacco ricevevano quei familiari
di detenuti e "desaparecidos" che, sfidando il freddo e la pioggia,
aspettavano per giornate intere nei giardini della case di ritiro spirituale di
"Maria Ausiliatrice", a San Miguel, per chiedere alla CEA notizie dei
parenti scomparsi.
I1 Nunzio constatava giornalmente che erano molti gli
argentini sinceramente persuasi che i militari li avevano salvati dal baratro e
che il paese era vittima di una diabolica cospirazione internazionale, nella
quale il presidente americano Jimmy Carter, tenace difensore dei diritti umani,
aveva finito per allearsi con il comunismo. E quando alcuni dei suoi presunti
orditori visitarono l'Argentina ‑ tali i casi del Segretario di Stato
Cyrus Vance e della Segretaria dei Diritti Umani Patricia Derian ‑ furono
ricevuti con una diffusa e mal celata ostilità.
Nel caso di Laghi, tutto questo era aggravato da dati
oggettivi e concreti, che gli arrivavano dal medesimo Vaticano e che egli non
poteva ignorare né sottovalutare. Il più significativo fu l'udienza personale
che il Papa Paolo VI concesse il 10 ottobre 1977 all'ammiraglio Massera e a sua
moglie. L'incontro, che non era stato gestito dalla Nunziatura di Buenos Aires
ma dall'ambasciatore argentino presso la Santa Sede, dottor Rubén Blanco, si svolse
nel Palazzo Apostolico con tutto lo splendore protocollare che si riservava ai
capi di Stato.
Quell'udienza privata era la prova più eclatante che la
Santa Sede non aveva, al momento, la più remota intenzione di rompere le sue
normali relazioni con il governo argentino. Anzi, dal Vaticano ‑ per lo
meno in via ufficiale ‑ non arrivavano ancora segnali che potessero far
pensare che si stava alle soglie di un irrigidimento contro il regime militare
e meno ancora di una condanna esplicita per la sua condotta nel campo dei
diritti umani. Era ancora lontano il 23 ottobre 1979, quando Giovanni Paolo II
avrebbe lanciato da Piazza San Pietro la prima denuncia pubblica sulla
questione dei "desaparecidos". La ragione di Stato vaticana pagava
costi come l'accoglienza acritica che Paolo VI riservò a uno dei maggiori
responsabili della tragedia argentina, impartendogli la sua benedizione
apostolica.
L'ambigua condotta della Segreteria di Stato rispetto al dramma argentino si riflette chiaramente nella risposta data il 10 luglio 1976 alla relazione che aveva inviato il Vicariato Castrense ‑ di cui si e parlato in un Capitolo precedente ‑ e che dipingeva un quadro di pseudo‑normalità circa le condizioni dei prigionieri politici. Da un lato il Cardinal Villot esortava Monsignor Tortolo (il suo autore) a "intensificare i suoi sforzi" per migliorare il trattamento dei detenuti e per accelerare "i procedimenti giudiziari", mettendo sotto implicita e velata discussione le affermazioni del Vicario Castrense. Ma dall'altro, chiedeva a Laghi che trasmettesse la sua "gratitudine per le informazioni fornite", "l'apprezzamento per l'impegno (di Tortolo) nello svolgimento della sua missione conforme alle istanze evangeliche" e la riconoscenza per "l'opera che sta svolgendo a favore dei prigionieri".
Lette più di vent'anni dopo, queste ultime frasi possono
apparire una burla, una presa in giro. Ma non lo erano. La diplomazia vaticana
rispetto al caso argentino aveva scelto, almeno nei primi anni del regime, una
doppia strada che lasciava aperta la porta ad un ampio margine di ambiguità. La
relazione che citiamo è un chiaro esempio, giacché mentre esortava il Vicario
Castrense a intensificare il suo impegno umanitario, al contempo lodava il suo
atteggiamento complice, che era consone con la condotta che non pochi
cappellani militari e parte dell'Episcopato mantenevano verso il dramma in
pieno svolgimento.
Nella Curia vaticana c'era un porporato argentino che non
riusciva facilmente ad adattarsi alla politica che la Segretaria di Stato
riservava al problema. Era il Cardinale Eduardo Pironio, che per la sua
nazionalità e la sua posizione strategica[10] era oggetto di numerose richieste
provenienti dai parenti dei detenuti e dei "desaparecidos".
Gli organismi difensori dei diritti umani lo hanno
criticato con durezza perché il Cardinale evitò scrupolosamente di incontrarsi
con loro e con le vittime della repressione (cosa che nemmeno il Primate
argentino, Cardinale Aramburu, fece mai mentre, ogni volta che visitava
l'Argentina, veniva ricevuto regolarmente in udienza dal Presidente Videla. A
Pironio si attribuisce la seguente dichiarazione formulata il 2 settembre 1979
nel corso di una visita a Mar del Plata, che riporto il quotidiano
"Clarin": "Oggi l'Argentina è più capita e rispettata in Europa
(.. .), è vero, ci sono coloro che vogliono vedere solo la parte negativa, ma è
indiscutibile che la sua immagine sia quanto mai positiva".
Gesti e parole che erano dei veri e propri infortuni, ma
che non possono bastare per valutare negativamente questo porporato, giacché
non si tiene in dovuto conto la pietosa preoccupazione che Pironio mostrò
sempre per le vittime e per i drammi di cui veniva a conoscenza. Cercava sempre
di sensibilizzare la Curia vaticana sulla situazione argentina e non mancava di
chiedere l'intervento al Presidente Videla, quando aveva occasione
d'incontrarlo in favore delle vittime della repressione i cui casi erano
arrivati alla sua conoscenza. Pironio inoltro anche le sue richieste tramite la
Nunziatura di Buenos Aires. E Laghi le accolse, avviandole al Ministero degli
Interni e ad altre autorità preposte.
L'impegno comune di Pironio e Laghi non può sorprendere.
Nei risvolti più oscuri del "PRN" si stabilì fra loro una reciproca e
quasi fraterna collaborazione che si mantenne fino al trasferimento a
Washington di "Don Pio", come il Cardinale chiamava affettuosamente
il Nunzio. E quando gli attacchi contro Laghi si fecero più duri, a metà del
1997, Pironio ‑ già gravemente ammalato ‑ gli inviò una lettera che
costituisce una prova inconfutabile della mutua stima che si professavano:
"Ti sono vicino in questa dolorosa e ingiusta campagna dei giornali e mi
associo alla dichiarazione dei Vescovi argentini. Ti conosco bene e so quanto
hai fatto in quei momenti cosi difficili, un forte abbraccio da tuo fratello e
amico in Cristo e Maria Santissima"'[11].
Parole di simile stima ed incoraggiamento, in quelle
circostanze di amarezza e inquietudine, giunsero al Cardinale Laghi dal 1991
Prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica da quei Vescovi
argentini che erano stati in prima fila quando si tratto di difendere i diritti
umani calpestati. Due di loro gli avevano scritto, poco prima, esprimendogli
tutta la loro solidarietà. Si trattava di Monsignor Jorge Novak e Gerardo Tomas
Farrell, Vescovo e Coadiutore, rispettivamente, della Diocesi di Quilmes. Gli
dicevano: "Sappia che qui la seguiamo apprezzando per il servizio che
prestò alla Chiesa in Argentina, in occasione della Sua missione come Nunzio
Apostolico"[12].
In termini simili si sarebbe pronunziato, pochi giorni
più tardi, Monsignor Miguel Esteban Hesayne, oggi Vescovo Emerito di Viedma e
uno dei prelati che con maggior chiarezza e coraggio si oppose agli eccessi
della repressione. Era stato convocato come testimone contro Laghi nel processo
iniziato dalle Madri di Plaza de Mayo per il suo comportamento quando era a
capo della Nunziatura. Hesayne gli scrisse per dirgli che "a nessuna
persona né istituzione" aveva dato il suo nome per quella causa. E
aggiunse: "D'altra parte, l'occasione è propizia per ricordare che il
Cardinale Pio Laghi, quando fu Nunzio in Argentina, interpose generosamente i
suoi buoni uffici, tutte le volte che gliene venne fatta richiesta, in favore
dei perseguitati dalla dittatura militare, salvando così numerose vite
umane"[13]. Monsignor
Hesayne terminava con una espressione augurale: "Con questo voglio unirmi
anche alla testimonianza che hanno fornito due Vescovi argentini, i Monsignor
Jaime de Nevares e Jorge Novak, con i quali abbiamo difeso senza sosta i
diritti umani violati dalla dittatura militare".
* * *
Ma torniamo a quei mesi terribili del biennio 1976‑77
e ritroviamo Laghi e i suoi amici nella travagliata e difficoltosa compilazione
delle liste che ‑ con ostinata tenacia ‑ spediva o portava personalmente
al Ministero degli Interni. Giorno dopo giorno, i casi si moltiplicavano e in
non pochi momenti si sentivano sopraffatti e impotenti. La dimensione del
dramma che intravedevano incominciava a essere enorme. E le loro possibilità di
tramutare in fatti concreti il loro impegno pastorale e umanitario, poche. Ma
non arretrarono mai! Andarono avanti con irriducibile caparbietà. Ci ha
raccontato Monsignor Galán: "Molte volte, ci lasciavamo andare allo
scoramento, davamo l'impressione di voler abbassare le braccia, così immane era
il compito che avevamo davanti, ma era allora che Monsignor Laghi ci spronava,
ci incitava a continuare, perché era nostro dovere e perché era giusto, da
cristiani, svolgerlo fino dove le nostre possibilità lo consentissero".
Si può avere un'idea di questo operato ricordando che
dall'agosto del 1976 fino al dicembre del 1977 Laghi presentò alle autorità
quattordici liste di "desaparecidos" e undici di detenuti, chiedendo
rispettivamente per 1.130 persone sparite nel nulla, delle quali non si aveva
informazione alcuna, e per 434 che si trovavano nelle carceri, e che il regime
aveva riconosciuto di averle nelle sue mani.
Gli elenchi dei "desaparecidos" che giacciono
nell'Archivio della Nunziatura Apostolica a Buenos Aires, portano le date 27
agosto, 2 ottobre, 1 e 21 dicembre dell'anno 1976 e 11 febbraio, 6 aprile, 6 e
30 giugno, 21 luglio, 30 agosto, 29 settembre e 8 novembre del 1977. Si trovano
anche una lista senza data, con i nomi di 42 persone, tra le quali il capo
guerrigliero dell'ERP, Carlos Santucho, e la sua sorella Manuela, e un'altra,
con i nomi di 88 persone, compilata del mese di novembre 1976. Per quanto
riguarda le liste di detenuti, sono datate 30 agosto, 21 settembre, 2 e 21
dicembre del 1976 e 11 luglio,30 agosto e 1 novembre 1977. La serie è
completata da altri quattro elenchi redatti nel novembre 1976 e nel febbraio,
giugno e luglio 1977, che non riportano la data precise. Nelle liste appaiono
diversi casi dei quali si parlerà, documentatamente, nel prossimo capitolo. Qui
ci occuperemo soltanto di alcuni di quelli per i quali Laghi si adoperò in
maniera particolarmente intensa, giacché aveva preso a cuore i loro drammi, ma ‑
nel caso dei "desaparecidos"‑ senza riuscire ad avere alcun
successo, come sarebbe stata la norma per le persone scomparse.
Uno fu quello di un giovane di 22 anni, Alvaro Martìn
Colombo. Era uno studente di Legge all'Università di Buenos Aires e delegato
sindacale, che sognava, con irriducibile ostinazione, una società più giusta.
Sequestrato il 19 novembre 1976, la sua disavventura aveva commosso Laghi, che
non solo introdusse il suo nome nell’ottava lista di "desaparecidos"
che inviò a Harguindeguy un mese dopo, il 21 dicembre, ma lo spinse a condurre
personalmente degli accertamenti, documentati in una relazione che inviò alla
Segreteria di Stato, a fine gennaio, protocollata con il numero 132/ 76.
In essa (si conserva copia nell'Archivio della Nunziatura
Apostolica di Buenos Aires) raccontava ai suoi superiori tutto ciò che aveva
fatto per cercare di individuare dove Alvaro Martín fosse finito, specificando
anche che era intervenuto presso il generale Villarreal, Segretario Generale
della Presidenza, in occasione della cena offerta a Natale dal Corpo
diplomatico al presidente Videla. Ma non ebbe fortuna. Di Alvaro Martín non si
seppe mai nulla.
Lo stesso destino fu riservato a Julio Ricardo Rawa
Jasinski, che aveva 24 anni e che studiava egli pure Legge nella medesima
Università. Il 12 agosto 1977 era stato sequestrato. Nel capitolo dedicato alle
"Testimonianze" abbiamo raccolto quella di suo padre, carica di
particolare drammaticità. Vale la pena leggerla attentamente, poiché e
illuminante sulle difficoltà che, in quel clima di assoluta follia, doveva
affrontare chi intercedeva per qualche sequestrato.
Il terzo caso che colpisce particolarmente è quello
dell’odontoiatra Enrique Caracoche, su cui venne intessuto un dramma
all'interno del dramma. Nella prima richiesta che la Nunziatura inoltrò a suo
riguardo, il 13 luglio 1976, con la postilla che del "suo problema"
si interessava anche il Cardinale Pironio, Laghi chiedeva al Ministero degli
Interni notizie di Caracoche. Ma sbagliava, attribuendogli il nome di Miguel.
In realtà, il prigioniero si chiamava Enrique Martín Caracoche e si trovava detenuto
dal 26 marzo nell'Unità Carceraria n.5 di Sierra Chica, a disposizione del
Potere Esecutivo. Dalle informazioni raccolte dalla Nunziatura Apostolica, si
deduceva chiaramente che Caracoche era completamente innocente ed era stato
vittima di una "falsa denuncia per antipatie personali", cosa molto
frequente all'epoca.
L'odontoiatra aveva militato nella Gioventù Peronista
fino al 1974, ma se ne era distanziato per la scelta in favore della lotta
armata fatta da un settore della medesima, concretamente i
"Montoneros". Per chiarire la sua posizione, dato che ai militari era
arrivata una denuncia anonima contro di lui, il dottor Caracoche si era
presentato spontaneamente alla polizia il 26 marzo del 1976, due giorni dopo il
colpo di Stato militare. Le sue spiegazioni non gli servirono a niente. Finì
nel carcere di Sierra Chica, dove patì ogni tipo di sofferenze. A dicembre,
Caracoche apparirà nella quinta lista di detenuti che il Nunzio Laghi
consegnerà a Harguindeguy, con la puntigliosa specificazione che si trattava
d'un penoso malinteso.
A nulla servì lo sfortunato dentista rimase prigioniero
del regime per lunghi e interminabili mesi, pagando anche egli per colpe che
mai aveva commesso.
[1] Lettera del presbitero Jaime Garmendia, in servizio temporaneo presso la Segreteria Generale della CEA, a Padre Lulgi Parussini, della Nunziatura Apostolica, del 2 dicembre 1976 (Prot. N. 1968/76. Copia in possesso degli autori. Vedere Documenti allegati.
[2] Vedere Documenti allegati.
[3] Così sostiene il generale Reynaldo Bignone nel suo libro "El Ultimo de Facto ". Buenos Aires, Editorial Planeta, 1992, pag. 37.
[4] Vedere il già citato articolo "Santa Sede‑Argentina: Vicenda Ingiusta e Amara', di Lorenzo Prezzi e Gianfranco Brunelli. "Il Regno" è una pubblicazione cattolica molto rispettata, per il suo rigore e obiettività nel trattare le questioni relative alla Chiesa.
[5] Lista inviata dal Ministero degli Interni alla Nunziatura Apostolica il 23 settembre 1976. Archivio della Nunziatura Apostolica.
[6] In una conversazione con uno degli autori, Monsignor Laguna riferì di una durissima discussione che ebbe con Monsignor Tortolo, per la difesa che questo avanzava circa l'uso della tortura, argomentando che le guerre moderne erano guerre sottili in cui l'informazione giocava un ruolo decisivo. Pertanto, per vincerle, era imprescindibile ottenere la maggior quantità di informazioni, legittimando il ricorso a qualsiasi mezzo. Inoltre Tortolo sosteneva la necessità di cambiare i canoni esistenti sui valori della guerra, archiviando quelli tradizionali. Ricordò Monsignor Laguna: "Divenni una furia e dissi a Monsignore che stava dicendo degli spropositi, poiché Paolo VI aveva detto che la tortura è sempre intrinsecamente perversa, quale che sia il suo obiettivo" E aggiunsi: "Gli dissi anche una cosa molto dura: che perfino è inammissibile salvare una moltitudine al prezzo della tortura di una sola persona, perché significherebbe cambiare la natura etica e morale delle cose " Il nastro inciso di questa conversazione e in possesso degli autori.
[7] Lettera Pastorale "Reflexion Cristiana para el Pueblo de la Patria', diramata dalla CEA il 7 maggio 1977.
[8] "La Razon", 13 maggio 1977.
[9] Vedere Monsignor Laguna, op.cit. pag.92‑95.
[10] Nel 1977, il Cardinal Eduardo Pironio aveva nella Curia Vaticana l 'incarico di Prefetto della Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari. Che fosse uno dei porporati che Paolo VI ascoltava di più lo prova il fatto che, in poco più di un anno, il Pontefice lo ricevette quattro volte in udienza privata: i giorni 16 giugno 1977 e 26 gennaio, 23 febbraio e 6 luglio 1978. Quest'ultima ebbe luogo un mese prima della morte di Paolo VI, il 6 agosto.
[11] Lettera del Cardinal Pironio al Cardinal Laghi del 24 maggio 1997. Vedere Documenti allegati.
[12] Fax di Monsignori Jorge Novak e Gerardo Tomás Farrell al Cardinale Laghi del 21 maggio 1997. Copia in possesso degli autori.
[13] Lettera di Monsignor Miguel Esteban Hesayne al Cardinale Laghi del 17giugno 1997. Copia in possesso degli autori.