CAPITOLO 8
La solitudine del Nunzio
Perché la Santa Sede era così titubante e non condannava apertamente, senza indugi, i colpevoli del dramma argentino? In tutto il biennio 1977‑78 l'orientamento della Segreteria di Stato fu quello di una ponderata prudenza. Non si può parlare di acquiescenza, e meno ancora di complicità, come hanno ripetutamente fatto gli organismi difensori dei diritti umani: certamente si trattò di un'avveduta cautela che rivelava fino a che punto la Santa Sede, e forse lo stesso Paolo VI, davano ancora ascolto alla posizione maggioritaria dell'Episcopato argentino, contraria all'idea di provocare rotture con il regime.
Paolo
VI, dai rapporti che arrivavano alla Segreteria di Stato dalla Nunziatura, dai
contatti abbastanza assidui con il Cardinal Pironio (a cui era legato da
un'antica amicizia) e dalle assai numerose richieste e denunce che giungevano
in Vaticano, era ben informato sul problema che lo coinvolgeva particolarmente.
Ma
i Vescovi argentini che riceveva in Vaticano o che inviavano per conto loro
rapporti alla Segreteria di Stato, fornivano un panorama opposto. Uno dei più
enfatici era Monsignor Antonio Plaza, Arcivescovo di La Plata, una delle
Diocesi argentine più importanti. Già abbiamo evidenziato come nell'udienza privata
che Paolo VI gli concesse il 20 gennaio 1977, Plaza insistette nel sostenere
che le violazioni dei diritti umani in Argentina erano "chiacchiere"
e facevano parte di una "campagna del marxismo contro il Paese".
Monsignor Plaza sfatava le accuse; il Vicario Castrense
Tortolo negava che le carceri fossero un inferno; il Pro Vicario Bonamín
continuava con le sue elucubrazioni alla Torquemada per giustificare gli abusi
e il Cardinale Aramburu si rifiutava di ricevere i rappresentanti degli
organismi difensori dei diritti umani. Ma c’era molto di più. Monsignor
Sansierra affermava che in Argentina i diritti umani venivano salvaguardati con
cura; Monsignor Bolatti diceva pubblicamente che si dovevano ringraziare i
militari perché avevano impedito "che i marxisti prendessero il
potere"[1] e Monsignor
Rómulo García, Vescovo di Mar del Plata, si lamentava perché il Governo
militare era "vittima di campagne improvvisate e organizzate da coloro che
negano la libertà"[2].
La maggioranza dei Vescovi parlava così, ripetendo quasi
in coro la stessa versione. E' vero che non tutti si pronunciarono in tal
senso. Ma quello che più alzava la voce era un coro compatto e concorde, che
metteva a tacere coloro che denunciavano il reale stato delle cose.
Addirittura, si verificarono casi incredibili, come quello di Monsignor Horacio
Bozzoli, Vescovo di San Martín, che si presentò alla Santa Sede chiedendo che
si mettesse a tacere la Radio Vaticana, colpevole di parlare con troppa e
fastidiosa insistenza della repressione in Argentina[3].
Rispetto a questa situazione il Nunzio non poteva
ignorare la posizione della maggioranza dell'Episcopato. Seguitava a inviare i
suoi resoconti alla Segreteria di Stato, ma non poteva non tenere conto dei
modi e dei mezzi con cui i rappresentanti più illustri dell'Episcopato
cercavano di influire su Paolo VI e di convincerlo a non condannare
esplicitamente il regime.
Laghi e il suo amico Monsignor Hesayne, allora Vescovo di
Viedma, ebbero occasione di valutare le conseguenze di questa politica il 15 maggio
del 1978, quando Paolo VI, già malfermo in salute, li ricevette separatamente
nella sua biblioteca privata. Laghi avvertì nel Pontefice una preoccupazione
maggiore a quella notata un anno prima, il 23 maggio 1977, nella precedente
udienza private. Ma osservò anche che si dibatteva in un dilemma interiore,
condizionato come era dalle pressioni dell'Episcopato argentino. A1 vecchio
Papa ‑ sarebbe morto tre mesi dopo ‑ già mancavano le forze per
prendere in mano la situazione e imporsi non soltanto all'Episcopato, ma anche
alle resistenze della Segreteria di Stato, il cui titolare, il Cardinal
francese Jean Villot, considerava con prudente diffidenza tutto ciò che
accadeva in Argentina, in Cile e in quei paesi lontani del mondo
latinoamericano, cosi diverso e lontano dalla sua cultura.
Monsignor Laghi tornò a Buenos Aires con una visione
chiara di questa realtà vaticana. Ma non devio minimamente dalle sue intenzioni
e dal suo operato, pur sentendosi solo, specialmente nell'ambito del corpo
diplomatico accreditato, che in fin dei conti era l'ambiente in cui era
chiamato a svolgere la sue missione. Dai suoi colleghi ambasciatori, ai quali
giungevano notizie degli abusi in atto, si coglieva solo silenzio. Non
equivaleva a connivenza ma era, sicuramente, comoda acquiescenza. Erano pochi
gli ambasciatori tra i quali poteva trovare interlocutori disponibili ad
assecondarlo nel suo impegno. Uno di loro, come già segnalato, era
l'ambasciatore del Venezuela, Ernesto Santander.
Di recente era arrivato nel Paese (novembre 1977) il
nuovo ambasciatore degli Stati Uniti, Raul Castro. Il governo di Jimmy Carter
aveva dato mandato a Castro, come priorità assoluta, di rafforzare la posizione
in difesa dei diritti umani, esposta senza eufemismi in tutti i fori
internazionali dal segretario di Stato, Cyrus Vance, dall'assessore
presidenziale per gli Affari Interamericani, Bob Pastor e dalla Signora
Patricia Derian. Castro ne aveva parlato al Congresso, prima della sua partenza
per Buenos Aires, in un discorso che gli valse in Argentina una sarcastica e
poco entusiasmante accoglienza. Nonostante i ripetuti scontri che ebbe con il
potere militare, Castro non esitò a protestare ripetutamente per la questione
dei diritti umani. Ma il regime rimase sordo e insensibile. Questo atteggiamento
ebbe molto a che vedere con la reazione del Congresso degli Stati Uniti, che
sospese tutte le rimesse di armi destinate all'Argentina, approvando
l'emendamento Humphrey‑Kennedy alla legge di assistenza militare ad altri
Paesi. Fu questo uno dei maggiori insuccessi internazionali subiti dal
"PRN".
Ma, nei fatti, l'ambasciata americana non riuscì ad
arrecare nulla di rilevante ai fini della salvezza di vite umane, malgrado il
forte impegno di Castro, sicuramente per la rigida e quasi inviolabile vigilanza
a cui era sottomessa. Lo stesso accadeva all'ambasciata del Messico, fortemente
nel mirino del regime, perché in essa si erano rifugiati l'ex presidente Héctor
Cámpora, che aveva impresso una forte svolta a sinistra al suo breve operato
tra maggio e luglio del 1973, i suoi figli, e il dirigente della Gioventu
Peronista, Juan Manuel Abal Medina, che avrebbe battuto tutti i record di
permanenza come esiliato in una legazione diplomatica. Ad agosto del 1981,
quando lo lasciarono uscire dal Paese, aveva superato comodamente la
performance del leader peroviano Victor Haya de la Torre, rimasto 1.219 giorni
rifugiato nell'ambasciata di Colombia a Lima.
In quanto ai rappresentanti degli Stati europei, fatta
eccezione della Svezia, seguivano le istruzioni dei rispettivi Governi, molto
poco attivi in favore dei perseguitati. L'interesse per i
"desaparecidos", per lo meno nei primi tempi del regime, si esauriva
con la presentazione di richieste presso le autorità o, a volte, presso la
Nunziatura Apostolica, con la richiesta che si utilizzasse quest'ultimo canale
per intercedere in favore di qualche connazionale in difficoltà.
Ancora oggi non si riesce a capire come una dittatura
tanto feroce e brutale come quella argentina sia potuta rimanere al potere
sette anni, con una certa disinvoltura, se non si tengono in considerazione due
fattori: il consenso che ricevette dalla società argentina almeno fino al 1982
(quando i militari persero contro l'Inghilterra la guerra delle Malvine) e la
tolleranza, per non dire l'appoggio, che trovò in buona parte della comunità
internazionale.
Il caso più clamoroso fu quello dell'Unione Sovietica,
che appoggiava apertamente il Governo militare, tramite il sostegno
incondizionato del partito Comunista argentino. Fra il 1977 e il 1980, le
vendite del grano argentino all'URSS batterono tutti i record grazie anche a
una successione di ottimi raccolti (solo quello del 1977 raggiunse 12 milioni
di tonnellate). Così il Cremlino sabotava apertamente l'appello degli Stati
Uniti di punire l'Argentina non comprando i suoi cereali. E realizzava
fantastici affari sulla pelle di tanti disgraziati che avevano sacrificato la
loro vita in difesa dei principi di giustizia e uguaglianza, esaltati dalla
teoria marxista. Ma, nel suo appoggio al regime argentino, l'Unione Sovietica
non fu sola. Quasi tutti i Paesi‑fossero comunisti, "occidentali e
cristiani", o del Terzo Mondo ‑ continuavano a mantenere normali
relazioni diplomatiche con l'Argentina. Lo stesso fecero i paesi dell'America
Latina appartenenti all'Organizzazione degli Stati Americani (OSA). E la stessa
politica di amicizia svolse la Cuba di Fidel Castro. Solo nel settembre del
1979, quando le efferatezze dei militari argentini erano diventate uno scandalo
internazionale, la Commissione per i Diritti Umani dell'OSA visitò Buenos
Aires, trovando in molti interlocutori, compresa la gerarchia ecclesiastica,
vaghe giustificazioni all'operato dei militari.
Nel caso della legazione italiana a Buenos Aires, quando
Laghi era giunto in Argentina aveva trovato come ambasciatore il Conte Tesauro
De Rege, sostituito nel 1977 da Enrico Carrara, che stette a capo della
delegazione in Argentina nel periodo "caldo" delle scomparse, fino al
1980. Carrara soffriva le conseguenze di una caduta da cavallo e a volte la sua
memoria si indeboliva. Forse anche per questo la sua gestione diplomatica circa
la questione dei "desaparecidos" non ebbe particolare rilevanza,
anche se non può dimenticarsi che le istruzioni dettate dalla Farnesina erano
improntate a una rigorosa prudenza. Erano gli anni dell'apogeo della loggia
massonica P2, che influiva fortemente sul Governo italiano. Licio Gelli, socio
e stretto amico dell'ammiraglio Massera, era il principale punto di riferimento
del regime in Italia.
L'Ambasciata aveva compilato un elenco di 297
"desaparecidos" italiani o di origine italiana, che per lo "ius
sanguinis" avevano il legittimo diritto ad aspirare alla cittadinanza
italiana. L'elenco fu diffuso il 1° maggio 1984 sulle pagine del "Corriere
della Sera" e provocò in Italia un grande scompiglio. La lista fu
posteriormente allungata da una valanga di denunce che motivò l'apertura di un
processo per "strage e delitti contro l'umanità", ancora in corso,
contro sette alti militari argentini, tra i quali il generale Suárez Mason.
Dalle liste elaborate dalla Nunziatura che sono arrivate
in nostro possesso (purtroppo incomplete) e dalle testimonianze che siamo stati
in grado di raccogliere, possiamo dire che il Nunzio Laghi si interessò per 23
persone accluse in quell'elenco, sia adoperandosi personalmente o,
semplicemente, aggiungendo i loro nomi nelle liste che inviava al Ministero
degli Interni. Di alcuni di loro già abbiamo parlato, come i casi del giovane
Julio Rawa Jasinsky e dell'avvocato Roberto Sinigaglia[4].
Possiamo raccontare e documentare altri tre casi non
compresi in quell'elenco elaborato dall'ambasciata italiana. Uno è quello dei
fratelli Domenico e Filippino Antonio Favazza, di Gaggi (Messina), che erano
stati arrestati a Buenos Aires il 14 settembre 1977 ed erano scomparsi. Il
nonno si era rivolto al Papa Paolo VI il 6 febbraio 1978 chiedendo il suo
intervento.
Quando il sollecito fu rivolto a Laghi da Monsignor
Caprio, Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, il Nunzio si era già
occupato del caso "presso le autorità competenti argentine" e, non
avendo ottenuto risposta, si preparava a reclamare nuovamente presso il
Ministero degli Interni, come si apprende dalla lettera del 16 febbraio 1978
(n.476/78 della Nunziatura). In questo nuovo intervento, Laghi ebbe successo. I
fratelli Favazza furono rilasciati il 25 febbraio e il Nunzio lo comunicò pochi
giorni dopo a Monsignor Caprio[5].
La seconda vicenda fu quella di Oscar Hugo Laconi,
detenuto dal mese di agosto del 1977 "a disposizione del Potere
Esecutivo" (era un "PEN") accusato di svolgere "attività
eversive". Essendo figlio di italiani e in possesso pertanto della doppia
cittadinanza, aveva deciso di attenersi all'articolo 10 della Legge n.21.650 e
chiedere di poter abbandonare l'Argentina, raggiungendo l'Italia dove sua madre
Teresa Azcona era disposta ad accoglierlo. Per Laghi, ottenere il suo rilascio
non fu impresa facile. Dopo aver esposto verbalmente il suo caso, redasse una
missiva personale che inoltrò al Generale e Ministro Harguindeguy il 10 aprile
1979. Dovette aspettare un bel po' di tempo, ma finalmente ottenne una risposta
favorevole[6].
E Laconi fu autorizzato a partire.
Il terzo caso fu quello di Juan Carlos Catini, detenuto
dalla fine del 1977 e rinchiuso nel carcere di San Nicolás e per il quale si
era interessato il Vescovo di Fermo, negli stessi termini di Laconi. Per
aiutarlo, Laghi agì in tre direzioni: 1) richiese all'Incaricato di Affari
dell'Ambasciata italiana a Buenos Aires, ministro Massimo Curcio, la
concessione per Catini dell’“opzione di uscire dal paese e raggiungere
l'Italia" (che comunicò ai suoi parenti di Sant'Elpidio a Mare, Ascoli
Piceno, il 22 settembre 1978); 2) mandò una lettera al Vescovo di San Nicolas,
in Argentina, chiedendogli che intercedesse per il detenuto presso le autorità
militari competenti affinché ottenesse garanzie per l’incolumità del detenuto;
3) incontrò il Generale Harguindeguy per interessarlo del caso.
Ignoriamo quale sia stato l'epilogo, ma che Laghi si
fosse interessato per questi tre e per altri cittadini italiani o con diritto
di cittadinanza, è inconfutabile. Purtroppo, non sono in nostro possesso altre
prove per dimostrarlo, ma ci è utile la testimonianza di colui che fu, dal
settembre del 1976, Console generale italiano a Buenos Aires, Franco Mistretta,
destinatario di numerose suppliche di persone che chiedevano notizie di
familiari scomparsi, la maggior parte dei quali aventi diritto alla
cittadinanza italiana.
Venti anni dopo, già a capo della Congregazione per
l'Educazione Cattolica, il Cardinale Laghi avrebbe ricevuto una lettera di
Mistretta, Console Generale italiano a NewYork, che in data 22 aprile 1997 gli
scriveva: "Il mio fugace ritorno in Argentina mi rinverdì i ricordi di
quegli anni del suo grandissimo lavoro a favore delle famiglie dei
"desaparecidos", così come i suoi appelli alla Giunta Militare,
avviati sempre con cuore e intelligenza". E qualificava, infine, come
"assurde" e "totalmente false" le accuse che al momento gli
venivano rivolte.
Ha raccontato Mistretta a uno degli autori: “Ricordo
perfettamente il Nunzio Laghi sempre preoccupato, agitato per la questione dei
"desaparecidos". Per molte persone coordinammo un'azione congiunta,
essendo i familiari ricorsi tanto al Consolato come alla Nunziatura. Il primo
obiettivo era ottenere che il Governo riconoscesse che teneva queste persone in
carcere, facendole uscire così dalla clandestinità. Iniziava quindi il secondo
lavoro, che consisteva nel presentare un "habeas corpus" e cercare di
farli fuggire dal Paese, nel nostro caso con l'Italia come destinazione dove in
genere avevano qualche familiare disposto ad accoglierli”.
Altre ambasciate e consolati agivano nello stesso modo in
favore dei cittadini in possesso della loro nazionalità. Il Governo rispondeva
con note verbali in cui esponeva i risultati delle verifiche fatte, che erano
per lo più evasive e scoraggianti. Soltanto verso la fine del 1977, le autorità
decisero di concentrare tutti i tramiti in un solo organismo operativo nella
sede del Governo e scelto come canale riconosciuto per consegnare le denunce le
circostanze in cui si erano registrate le scomparse.
Si tenga presente che, quando accadde quanto esposto, era
già trascorso quasi un anno e mezzo dal giorno in cui Laghi aveva aperto le
porte della Nunziatura ai familiari delle vittime e avanzato le sue prime
richieste alla dittatura militare, cercando così di salvare le prime vite.
* * *
Nonostante il clima poco propizio che trovava nella
comunità diplomatica di Buenos Aires, Laghi continuava per la sua strada. Le
sue erano giornate estenuanti, che iniziavano all'alba, quando pregava nella
cappellina della Nunziatura sotto la protezione dell'immagine della Vergine di
Lujan, e terminavano intorno a mezzanotte.
Riceveva gente, prendeva appunti, scriveva lettere in una
lingua spagnola approssimativa, con non pochi errori grammaticali, compilava le
liste che mandava al Generale Harguindeguy, faceva verifiche telefoniche (non
sapendo ancora che il telefono della Nunziatura era sotto controllo). Non
mancava agli incontri sociali che potevano trasformarsi in buone occasioni per
intercedere in favore di qualcuno. Insomma, cercava di ficcare il naso ‑
fino a dove poteva – in quel pantano senza fondo che erano le viscere del
potere militare.
Almeno una volta ogni due settimane, chiedeva udienza a
Harguindeguy e si presentava a lui con qualche nuova domanda scritta su carta
intestata della Nunziatura. A volte, si recava alla Casa Rosada accompagnato
perfino da qualche parente di detenuti o "desaparecidos", ma solo con
relazione diretta di consanguineità, ossia, genitori, fratelli o figli,
modalità adottata per evitare dispersioni e dar maggior credito alle sue
richieste. Infine, cercava di arrivare al presidente Videla, agli altri membri
della Giunta Militare e alle alte cariche militari, non solo quando gli impegni
protocollari glielo consentivano.
Le risposte più comuni dei suoi interlocutori in divisa,
erano ironie, burle e consigli di questo tipo: "Lei ci fa degli appunti
che noi ascoltiamo con attenzione, ma perché non parliamo, Monsignore, di
quanto sta accadendo in Italia, il suo Paese, con le Brigate Rosse? Con loro,
dovrebbero agire come facciamo noi, vedrebbe come il problema si risolverebbe
in pochi mesi". Ma in Italia si era scelta la strada contraria. Come si
ricorda nel prologo della relazione "Nunca Mas", un membro dei
Servizi di Sicurezza italiani propose al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di
torturare un terrorista che "sapeva molto". La risposta del militare
fu: "L'Italia può permettersi di perdere Aldo Moro, ma non di instaurare
la tortura"[7].
Ci ha raccontato il rabbino Leòn Klenicki: “Avevo un
rapporto molto stretto con Pio Laghi; gli mandavo i nomi di prigionieri e di
gente che era nei campi di concentramento; andavo a trovarlo al palazzo della
Nunziatura e parlavamo dei casi che erano arrivati a mia conoscenza. Molte
volte mi diceva: "Questo caso è chiuso, per questo detenuto non possiamo
fare niente; per quest'altro invece ci sono speranze, si può tentare qualcosa,
ti suggerisco di parlare col tal dei tali, mentre io mi muovo in altre
direzioni”[8].
Ma i risultati, in pratica, erano deludenti, soprattutto
per i "desaparecidos". Erano sfumati nel nulla e tutte le richieste
erano vane. Laghi lo notava e lo faceva notare ai pochi prelati che lo
circondavano. Di fronte agli scomparsi, l'impermeabilità del potere era
assoluta. Insistere era vano e insensato. I1 suo operato poteva acquistare un
senso concreto e positivo soltanto a favore dei detenuti (i cosiddetti
"PEN") o di quelle persone che, ricercate dai repressori, si
nascondevano o tentavano di lasciare il Paese. Perciò inizio a orientare i suoi
sforzi e le sue preoccupazioni verso vie alternative, non rinunciando tuttavia
ai suoi abituali reclami.
Poter salvare una vita, una sola, era già una conquista
esaltante e valida per giustificare tanti sforzi, per far dimenticare il suo
amor proprio ferito da quegli interlocutori in divisa e orgogliosi nella loro
insopportabile tracotanza, che lo trattavano con un misto di spavalderia e di
cinismo. Preferiva sopportare, regalando loro un sorriso in cambio delle loro
ironie, pur di strappare loro la minima promessa di assistenza, umanitaria o di
benevola "grazia" verso una delle vittime, come poteva esser quella
di portare un messaggio di speranza a uno di quei disgraziati che, per mesi e
mesi, rimanevano isolati nelle loro celle senza alcun contatto con l'esterno.
Non si arrendeva. E tutte le volte tornava alla carica,
giustificando la sua insistenza con una delle sue frasi latine preferite,
imparate nell'Istituto Salesiano di Facnza: "Gutta cavat lapidem, non vi,
sed sacpe cadendo". Ossia: "La goccia d'acqua consumò la pietra non
con la forza, ma con la continuità della sue caduta".
A suo favore giocava una circostanza: il potere militare
non lo sopportava, ma lo rispettava. Laghi iniziò a sfruttare pragmaticamente
tale apprezzamento formale che le autorità gli riservavano. Un uomo al suo
fianco che lo accompagnava all'aeroporto o a un'ambasciata, finché fosse
rimasto in sua compagnia, era un uomo intoccabile. Nessuno osava intercettarlo
né ostacolarlo. Fu questa consapevolezza che lo spinse a maturare la ricerca di
nuove vie che, a fianco di quelle fino ad allora battute, gli permettessero di
tradurre in fatti concreti il suo servizio pastorale di aiuto ai perseguitati.
E grazie alla sua "protezione", non poche persone riuscirono a
mettere al sicuro la propria vita.
Ma quel momento non era ancora arrivato. In quei primi
mesi del 1977 ci sono alcune vicende che meritano di esser raccontate. Una è
quella di Carlos Zamorano Vega, dirigente e Procuratore Generale del Comitato
Centrale del Partito Comunista nella provincia patagonica di Chubut, finito in
carcere già a dicembre del 1974. Laghi iniziò a interessarsi di Zamorano Vega
nel 1976 e continuò a farlo caparbiamente per molto tempo. Già nel primo elenco
della Nunziatura, del 2 agosto 1976, appariva il suo nome, con l'espressa
richiesta di informazioni circa il luogo in cui si trovava. Harguindeguy gli
aveva risposto con lettera del 16 agosto dicendogli che, come di altre persone,
"non aveva alcun riscontro" su di lui. Non era vero, perché Zamorano
Vega era detenuto nel carcere penale di Rawson e il Ministero degli Interni lo
sapeva molto bene. I1 7 settembre, con una nuova lettera, Laghi insisteva nel
voler sapere dove il dirigente comunista si trovava. La sua cocciutaggine ebbe
finalmente successo: il 15 ottobre 1976, il Ministro lo informò che Zamorano
Vega era "a disposizione del Potere Esecutivo" ("PEN") per
Decreto n. 1761/76.
Era un trionfo. Le autorità militari avevano riconosciuto
che Zamorano Vega era nelle loro mani e, avevano anche precisato il luogo di
detenzione. La doppia ammissione lo metteva al riparo di eventuali e
irreparabili "trasferimenti". Ma il Nunzio Apostolico non si ritenne
ancora soddisfatto e riscrisse nome e cognome dell'interessato altre due volte,
in due nuove liste che inoltrò al generale Harguindeguy, una il 21 dicembre di
quell'anno 1976 e la seconda in giugno, senza data precisa (si tratta della
quinta e la settima lista di detenuti), incalzando il Ministero degli Interni
"a compiere i passi pertinenti al fine di restituire il sig. Zamorano Vega
ed altre persone ai suoi familiari e parenti".
La nostra indagine su Zamorano si esaurisce qui.
Ignoriamo quanto tempo rimase in carcere e quando fu liberato. Ma nessuno può
discutere che, rispetto al suo caso, Laghi agì con sollecitudine ed energia
encomiabili, senza limitare i suoi sforzi alla provvidenziale individuazione
del suo luogo di detenzione e senza sentirsi condizionato dalla militanza
ideologica del prigioniero, di cui era perfettamente al corrente.
Un simile atteggiamento ebbe con due fratelli tacciati di
esser associati con l'ERP, l'organizzazione guerrigliera di orientamento
trotzkista. Parliamo dei fratelli Carlos Alberto e Alba Rosa Lanzillotto, che
nella provincia de la Rioja erano molto legati a Monsignor Angelelli e
svolgevano un intenso lavoro culturale di marcata impronta sociale. Entrambi
erano stati strappati con la forza dalla loro famiglia all'alba del 24 marzo
1976, in un'operazione militare che provocò la morte per infarto della loro
madre. Intanto i repressori avevano fatto saltare con una bomba la casa di
un'altra sorella.
Carlos Alberto rimase prigioniero tre anni e mezzo,
nonostante fosse stato prosciolto dal giudice federale de La Rioja, con un
destino che abitualmente correvano i "PEN". Intanto, Alba Rosa fu
liberata quindici giorni più tardi. Con suo marito, il poeta Ariel Ferraro,
fuggì precipitosamente poco prima che una pattuglia militare tentasse di
arrestarli di nuovo. Cominciarono così un disperato pellegrinaggio per sfuggire
alla persecuzione del regime, che continuo anche in Uruguay, dove la
"lunga mano" del regime tentò di raggiungerli con una richiesta di
estradizione. Alla fine, dopo una rocambolesca fuga, ottennero asilo politico
in Spagna.
Per Carlos Alberto Lanzillotto, che era rimasto in
carcere, Pio Laghi si era rivolto a Harguideguy, l'11 luglio 1977, includendolo
nella nona lista di detenuti (codificata col n. 2160/77), che aveva elaborato
con dati propri e con altri offerti dalla Segreteria Generale della Conferenza
Episcopale. La sua petizione era anche in favore di Ricardo Leopoldo Mercado
Luna, Ligia Verónica ed Elena Beatriz Matta. Vi si può leggere: "Si
insiste in questa richiesta e si chiede una particolare attenzione a quanto
sostiene la sig.a Nelly E. Ocampo de Mercado Luna (NDA: sicuramente la moglie
del primo citato), la quale asserisce che il giudice federale de La Rioja che
si è occupato del loro caso dispose il proscioglimento provvisorio dei
nominati, ragione valida per chiedere la libertà dei medesimi".
La richiesta non fu accolta. In effetti, Lanzillotto e,
presumibilmente, i suoi compagni di sventura, dovettero continuare ancora per
due anni e mezzo a soffrire detenzione e maltrattamenti, come tanti altri
"PEN". Frattanto, la tragedia devastava la famiglia, giacché due
sorelle gemelle minori, Ana Maria e Maria Cristina, che avevano abbracciato la
militanza armata nell'ERP, furono sequestrate e assassinate. Ana Maria Lanzillotto
aveva formato coppia con Domingo Menna, uno dei più stretti collaboratori di
Mario Santucho, il leader più in vista dell'ERP, e quando venne imprigionata
era incinta di otto mesi. Selvaggiamente torturata a Campo de Mayo, passò a far
parte dei "desaparecidos"[9].
Maria Cristina fu portata via con il marito Carlos Benjamín Santillan e il suo
cuore cedette durante una sessione di tortura con scosse elettriche.
Non sono gli unici esempi per cui il Nunzio Laghi
intercedeva senza badare se le vittime fossero di sinistra o di destra,
comunisti o semplici oppositori al regime, influenti o anonimi, cattolici o
ebrei. Prendiamone a caso altri, che ebbero un epilogo felice, sia perché i
suoi interventi personali furono coronati dal successo, sia perché il ricorso
alle liste inviate al Ministero degli Interni ebbe effetti positivi. E' un
campionario incompleto poiché ‑ come già indicato ‑ abbiamo potuto
documentare soltanto un numero limitato di casi. Ma questi forniscono un quadro
abbastanza esauriente su come Laghi lavorò.
Uno e quello dell'ex Ministro del "Benessere
Sociale" del governo di Isabel Perón, Rodolfo Alberto Roballos,
incarcerato nella prigione di Villa Devoto. Furono le indefesse e personali
azioni del Nunzio Apostolico e di Monsignor Octavio Derisi che ottennero la sua
libertà 22 mesi dopo la sua incarcerazione, nell'agosto del 1977, come lo
stesso Roballos riconobbe in una lettera inviata al giornale "La
Naciòn" l'11 aprile del 1995 e in cui dice che "solo (sottolineato
nell'originale) l'operato di entrambi (Laghi e Derisi) conseguì la mia
liberazione dalle prigioni sotterranee di Devoto"[10].
Questo era un ex ministro, un personaggio assai noto. Ma
ci furono altre persone totalmente anonime per i quali Laghi si prodigò con
pari intensità. Per esempio, Osvaldo Bonano, appartenente a un'umile famiglia
di Villa Ballester, una località confinante con la capitale argentina. Il 21
dicembre 1977, la zia del medesimo, Victoria Bonano, inviò a Laghi una lettera,
piena di errori ortografici ma anche di sincere riconoscenza, in cui, dopo
avergli augurato "Buon Natale e prospero Anno Nuovo" e ringraziato
per i "fastidi causati per il nostro immenso dolore", gli comunicava
che il giovane, il cui nome era stato inserito dal Nunzio nell'ottava lista di
detenuti inviata a Harguindeguy, "è stato posto in libertà e si è
nuovamente integrato nella società e nel lavoro"[11].
Un altro è il caso di Enrique Appel, di cui si era
interessato Laghi. Sua moglie, Cecilia A. de Appel, gli comunicò la sua
liberazione e lo ringraziò con alcune righe "per le parole e la fede che
trasmise in momenti di profonda amarezza" e per i passi compiuti, conclusi
con successo. Nella lettera, di proprio pugno, il Nunzio aggiunse:
"Liberato"[12].
Un terzo è quello della giovane Nilda Clara Bramardo. Sua
madre, Clara Delfino, scrisse al Nunzio per informarlo della liberazione di sua
figlia, chiedergli "scusa per tutti i fastidi arrecati" e
ringraziarlo "profondamente per la dedizione, attenzione e comprensione
che ci ha dispensato e l'incoraggiamento offertoci nelle ore difficili che ci e
toccato vivere"[13].
Ma raramente le cose andavano così. Spesso, quello che
Laghi riceveva era silenzio, sdegno o piste false, dopo le arcinote
assicurazioni che il Ministero degli Interni non aveva nessun precedente sulla
persona che si cercava. Questo, in non poche occasioni, rispondeva a verità,
giacché la struttura della repressione era molto dispersiva (ogni Arma agiva
per conto suo, autonomamente, senza informare le altre) e questo trasformava le
ricerche in un lavoro frustrante.
Era inutile protestare, bussare a porte, appellarsi alle
sue conoscenze, rivolgersi ai presunti rapitori. Una vicenda scoraggiante fu
quella dell'avvocato Daniel Victor Antokoletz, professore universitario e
giurista, fondatore dell'Associazione Argentina di Diritto Internazionale.
Antokoletz pagò a caro prezzo la sua attiva militanza negli organismi dei
diritti umani e come difensore di numerosi prigionieri politici. Il 10 novembre
1976, la mattina presto, le "Forze di Sicurezza" irruppero a casa sua
e lo portarono via, con la moglie Liliana Maria Andres. Quando questa chiese ai
poliziotti le ragioni del procedimento, gli risposero che suo marito era un
"ideologo dell'eversione" e, per di più, "era ebreo".
Niente di più assurdo, giacché questo non rispondeva assolutamente a verità.
La donna dichiarò sette anni dopo alla CONADEP (Fascicolo
n. 1386) che entrambi furono portati all'ESMA e messi in celle separate. In
occasione di un breve e unico incontro con suo marito, accertò che veniva
ripetutamente e sistematicamente torturato. La signora Liliana Andres fu
liberata il 17 novembre e, da quel momento, cominciò il suo peregrinare per
tutti gli organismi competenti ufficiali e militari, dopo aver presentato ben
cinque ricorsi di "habeas corpus" alla giustizia ordinaria. Arrivò
fino al Vicariato Castrense e alla Commissione Permanente della CEA che, senza
interessarsi ulteriormente, inserì il cognome Antokoletz in una delle liste le
cui copie venivano inviate periodicamente al Nunzio.
Così, Laghi lo inserì nell'ottava lista di
"desaparecidos" che mandò a Harguindeguy il 21 dicembre,
specificandogli che si trattava di un "prestigioso e incensurato avvocato
difensore di prigionieri politici, di 39 anni, portato via a viva forza e senza
spiegazione alcuna dal suo domicilio in Guatemala 460, 6° piano, appartamento
27, il 10 novembre". In uno dei resoconti inviati al Cardinale Villot,
Laghi gli disse che si era interessato di lui personalmente presso
Harguindeguy, "perché è un caso che ferisce la nostra sensibilità
cristiana". Tutti i suoi appelli non servirono a nulla. Da allora,
Antokoletz forma parte della legione dei "desaparecidos".
La stessa sorte subì Floreal Edgardo Avellaneda, un
ragazzo di soli 14 anni, che fu preso come ostaggio con sua madre Iris Etelvina
Pereyra, dopo che un "commando" entro nella sua casa, sfondando la
porta, alle 2 del mattino del 15 aprile 1976. In realtà, cercavano il capo
famiglia, che era fuggito. Non avendolo trovato si portarono via madre e
figlio, che furono rinchiusi nel commissariato di Villa Martelli, dove li
interrogarono sulla sorte del papà Avellaneda. Insoddisfatti delle loro
risposte, i poliziotti li torturarono. La donna avrebbe dichiarato più tardi
che alle sedute di tortura partecipo il cappellano militare Francisco Priorello[14].
Di fronte all'inutilità di quelle barbarie, perché la
madre e il figlio erano all'oscuro di tutto, i militari decisero di separarli.
La signora finì nel carcere di Olmos, che dipendeva dal Comando degli Istituti
Militari, e il ragazzo fu trasferito con destinazione ignota. Per la signora si
fece avanti il Nunzio Laghi il 2 ottobre 1976 e tredici giorni dopo, il 15,
Harguindeguy rispose, informandolo che era detenuta a disposizione del PEN per
Decreto 203/76. Era una risposta incoraggiante, giacché aumentavano le
possibilità di avere salve la vita. Invece, non ci fu nessuna informazione su
Floreal Edgardo. Il suo cadavere fu ritrovato qualche mese dopo, il 16 maggio
1977, con altri sette, che galleggiavano nel Rio de la Plata, in acque
giurisdizionali uruguayane. La notizia fu pubblicata dal quotidiano
"Ultima Ora", di Montevideo. Il Tribunale Federale n. 4 di San Martin
formulò una rogatoria diplomatica all 'Uruguay, mentre la Prefettura Navale lo
identificò grazie al tatuaggio a forma di cuore con le iniziali “F” “A”.
Il ragazzo era stato selvaggiamente torturato. Gli
avevano spezzato il collo e lo avevano buttato nel fiume con mani e piedi
legati[15].
Mamma Iris, allora nel carcere di Olmos, era all'oscuro di tutto.
* * *
Per
Laghi uno degli aspetti più dolorosi del suo compito fu quello di occuparsi,
con risultati avvilenti, dei "fratellini" della Confraternita del
Vangelo, perseguitati con particolare crudeltà dal regime, fino al loro
virtuale annientamento. Solo due di loro, il padre irlandese Patrick Rice e il
francese Henri del Solan, poterono raccontare i loro sequestri, le loro torture
e le loro prigionie. Alla fine, furono espulsi con destinazione Europa, il
primo nel settembre 1976, grazie all'intervento dell'ambasciata d'Irlanda a
Buenos Aires, e il secondo nel febbraio 1978.
La
Confraternita del Vangelo fu fondata in Francia nel 1933 da padre Voillaume,
come ramo dell'Associazione Charles de Foucauld. I suoi membri
("fratellini") seguono la linea spirituale segnata da questo mistico
francese, assassinato nel 1916 in Africa. La loro caratteristica, oltre a
un'intensa vita di preghiera, è provvedere alle proprie necessità materiali
attraverso il lavoro. Così, svolgono qualsiasi attività, anche le più umili, e
vivono in comunità periferiche, condividendo la penuria e le privazioni dei
loro assistiti. Erano presenti in Argentina dal 1960, ma i militari al potere
definirono le loro attività come "eversive" e decisero senza
esitazioni la loro eliminazione.
Per uno di essi, Monsignor Laghi intercedette più di una
volta. Si tratta del "fratellino" Pablo Gazzarri, che lavorava nella
parrocchia di Nuestra Señora del Carmen di Villa Urquiza, un quartiere di
Buenos Aires, ed era in procinto di entrare nella Confraternita. Da
seminarista, aveva avuto come assistente spirituale il Cardinale Pironio che
dopo il suo sequestro, il 27 novembre 1976, cercò invano di ottenere
informazioni dalle autorità sul luogo dove fosse finito. Gazzarri fu visto per
l'ultima volta, barbaramente torturato, nell'ESMA. Laghi si interessò a lui e
lo incluse nelle due liste di "desaparecidos", inviate a Harguindeguy
il 21 dicembre 1976 e 1'11 febbraio 1977.
Ma quest'ultima arrivò tardi. Nei primi giorni di
gennaio, Padre Gazzarri era stato "trasferito". Di lui non si è
saputo più niente. Molto probabilmente, fu uno di quei disgraziati buttati,
sotto l'effetto dei narcotici, nell'Oceano Atlantico. Sorte simile subì Padre
Nelio Rougier, sequestrato nel settembre 1975 e per il quale Laghi si
interessò, ma senza ottenere alcun successo. Poco prima, erano stati rapiti
anche il sacerdote-taxista Carlos Armando Bustos e il sacerdote‑spazzino
uruguayano, Mauricio Silva Iribarnegaray ("desaparecidos",
rispettivamente, il 9 aprile e il 14 giugno 1977).
A metà del 1977, nessuno dei quindici
"fratellini" della Confraternita del Vangelo che quattro anni prima
svolgevano la loro missione pastorale in Argentina era ancora al suo posto. In
un anno e mezzo, la Confraternita era stata annientata.
La loro tragica vicenda non fece altro che confermare in
Laghi la certezza che il rapporto tra i suoi interventi umanitari e i risultati
conseguiti ‑ specialmente nell'ambito dei "desaparecidos"‑
era sconfortante. Poco gli giovava la frase di Mateo Alemán, secondo il quale
"il soccorso nelle situazioni di massima necessità, sebbene poco, aiuta
molto". Non poteva chiudere la via intrapresa delle richieste e
sollecitazioni tramite i canali ufficiali e ufficiosi che aveva aperto; ma
incominciò a capire che doveva diversificare i suoi sforzi e trovare altre vie
d'intervento umanitario. Dai primi mesi del 1978 incominciò a lavorare in
questo senso, mentre si consolava con le lettere di riconoscenza e le
testimonianze di gratitudine che riceveva da quelli che aveva aiutato. Per
loro, la sua mano tesa era stata una sorgente d'acqua in quel deserto di
sofferenze.
E Monsignor Laghi continuò a chiedere, con ostinazione;
cercando di lenire il dispiacere che gli causavano le risposte scritte a firma
del generale Harguindeguy o del suo Sottosegretario, il colonnello Jose Ruiz
Palacios, che ripetevano quasi tutte una formula intrisa di ipocrisia.
Ad esempio, il 9 giugno 1977 Ruiz Palacios rispondeva a
due lettere inoltrate da Laghi nei giorni 27 aprile e 10 maggio, informandolo
sulla situazione di un ulteriore gruppo di "desaparecidos",
sequestrati e detenuti, di cui si ignorava la sorte. Di quegli elenchi,
l'ufficiale gli indicava che undici persone (Héctor Horacio Crea, Héctor
Gustavo López, Luis Angel Pereyra, Vicente Antonio Amicone, Victor Bautista
Musso, Norma Gladys Luque de Musso, Marta Carolina Abrales, Luigi Farina, Rubén
Oscar Romanok, Cristina Beatriz Arévalo Luca e Marcos Bechis) erano detenute a
disposizione del Potere Esecutivo. La lettera ministeriale concludeva con le
formule rituali che avevano il sapore ‑ e Laghi lo sapeva bene ‑ di
una burla. Diceva: "In quanto ai "desaparecidos", la profonda
preoccupazione manifestata da Vostra Eccellenza e condivisa da questo Ministero
per cui, tenendo in dovuto conto i dati offerti (da VE.) si sono adottate le
misure del caso affinché gli organismi tecnici competenti in ambito
giurisdizionale, approfondiscano le indagini di prassi per il loro
ritrovamento".
Quelle parole erano il colmo della sfrontatezza. Laghi ne
era consapevole. Ma continuò a insistere. Si adoperò per persone che avevano
ricoperto cariche politiche rilevanti durante l'epoca peronista, come Duilio
Brunello, dirigente della Gioventu Peronista e militante del gruppo
guerrigliero "Montonero", Juan Carlos Dante Gullo[16],
e il sindacalista José Rodíguez, di SMATA. Per loro a nulla era servito che i
giudici li dichiarassero immuni da colpe e accuse. Erano finiti nelle carceri
di Villa Devoto, Sierra Chica e Rawson, rispettivamente, poiché il Governo li
aveva inseriti nella categoria dei "PEN" ("a disposizione del
Potere Esecutivo") e messi, per la loro "pericolosità", in stato
di isolamento.
Il Nunzio Laghi protestò altresì per le disdicevoli
confusioni e gli errori, come quello di cui fu vittima Carlos Labolita,
confinato a Sierra Chica e per il quale si interessò presso il Ministero degli
Interni nel giugno del 1977, insieme ad altri tre casi di detenuti, inserendolo
nella settima lista di detenuti. Quello di Labolita è un caso di una crudeltà
che ha dell'inverosimile. Sua moglie si era presentata alle autorità militari
perché, nell'arrestarlo, lo avevano confuso con suo figlio Alberto, di 23 anni,
che già era stato sequestrato ed era un "desaparecido" dal 25 aprile
precedente. Una drammatica negligenza che finì per annientare una famiglia già
duramente colpita.
Monsignor Laghi intercedette per un personaggio come
Alberto Quieto, presumibilmente imparentato strettamente con il massimo
dirigente delle FAR, l’organizzazione guerrigliera marxista che svolgeva la sua
azione armata preferibilmente nell'ambito rurale, e interpose i suoi buoni
uffici per il giornalista Claudio César Adur e sua moglie Bibiana Martini,
sequestrati l'11 novembre 1976 (lettera n. 3214/78) e per i membri del
Raggruppamento Sindacale di Scrittori Joaquin Alvárez, Federico Moreija, Andrés
Fidalgo, Juan Alberto Costa ed Enrique Molina y Vedia).
Si prodigò in favore del parroco del paesino di Ramallo,
Padre Luis López Molina, nel carcere di San Nicolás dal 23 giugno 1976; per la
signora Olga Cañueto, moglie dell'ex deputato nazionale Miguel Zavala
Rodríguez, che per le autorità era morto il 22 dicembre 1976 "in uno
scontro armato con le Forze di Sicurezza", eufemismo che nascondeva la sue
fucilazione per strada.
Intervenne in favore dell'ex presidente del Banco de la
Nación Argentina durante il governo di Isabel Perón, dottor Luis Miguel
Caballero, la cui detenzione sarebbe durata per tutto il Processo. La moglie,
Irma C. di Caballero, aveva fatto giungere a Laghi una lunga lettera, intrisa
di commovente dignità, chiedendo il suo personale intervento. Parlava del suo
marito così: "In questi due ultimi anni lo abbiamo visto vivere in
silenzio, nell'oscurità e nella tristezza, tra le quattro pareti della sua
cella, questo calvario assurdo, constatazione di come nella nostra cara
Argentina ancora esistono persone dignitose che, come mio marito, vivono
private del bene più sacro all'uomo: la libertà".
Nell'adoperarsi per Caballero, Laghi chiese udienza al
Ministro Harguindeguy, che gliela concesse il 16 aprile 1979. Il militare lo
informò che l'ex funzionario peronista, sebbene non più a disposizione del
Potere Esecutivo per decreto n.948 del 16 aprile 1977, "era ancora
detenuto per essere sotto processo, insieme ad altri, giacchè doveva rispondere
per una causa di malversazione di fondi pubblici aperta nel Tribunale Civile,
Criminale e Correzionale Federale n.2 della Capitale Federale". Per
conseguenza, Laghi non poté andare avanti con la sua petizione e comunicò il
suo insuccesso alla donna, con una breve nota, il 3 maggio seguente.
Il Nunzio Apostolico non disattese la causa di poveri
diavoli, senza la minima rilevanza sociale o politica e la cui militanza
nell'eversione era assolutamente improbabile. Tale e il caso di un ragazzo di
15 anni, Ricardo Hernán Cabello, manovale appartenente ad una famiglia
proletaria di Bernal, al cui sostegno contribuiva con i suoi scarsi guadagni.
Immaginare un ragazzetto di quell'età dedito alla violenza terrorista e un vero
sproposito. Malgrado tutto, il 25 agosto 1977 una pattuglia dell'Esercito lo
aveva sottratto dalla sua abitazione e, sei mesi più tardi, era ancora
prigioniero nel Commissariato di San Justo, senza processo ne causa in atto,
semplicemente "a disposizione del Potere Esecutivo". Sua madre, dopo
aver avuto notizia del figlio da un agente di polizia, si era presentata al
Ministero degli Interni, dove le avevano suggerito di lasciare una lettera
spiegando l'accaduto.
Disperata per tanta indifferenza, la signora Maria Elena
Pérez Donoso de Cabello era ricorsa alla Nunziatura, dove Laghi la ricevette.
Ascolto il suo racconto, prese nota di tutti i particolari del fatto[17]
e mandò l’ennesima lettera al Generale Harguindeguy, chiedendogli il rilascio
di Ricardo Hernán. Non ricevette alcun riscontro. Allora tornò alla carica con
una Nota protocollata col n. 976/78, senza data, in cui chiese nuovamente
notizie del ragazzo, che ancora era nel Commissariato di San Justo, in pessime
condizioni igieniche e con addosso gli stessi panni che indossava il giorno del
suo arresto e, senza che gli venisse assegnato neanche il carcere dove essere
recluso. Sul destino finale di Ricardo Hernan non siamo riusciti ad avere
informazioni.
Invece, come già detto, è accertato che Julio Rawa
Jasinski, studente universitario, poeta e sognatore convinto, sequestrato il 12
di agosto 1977, passò a ingrossare la lunga schiera dei
"desaparecidos". Suo padre, un eroe polacco di guerra che aveva
scelto l'Argentina come seconda patria, ha raccontato il suo andirivieni tra i
generali, a fianco del Nunzio Laghi, che fece tutto il possibile per sapere
qualcosa di suo figlio. La qualità spirituale e morale di quel giovane emerge,
nitidamente, dalle lettere che inviava a sua madre, prima di venire
sequestrato. In esse le chiedeva perdono per le sofferenze che le stava
causando e per "non poter tornare a vivere nell'indifferenza ne soccombere
di fronte agli ostacoli che la scelta fatta presentava”[18].
Alcune settimane prima del sequestro di Rawa Jasinski,
precisamente il 6 giugno 1977, Laghi aveva aggiunto in una lista mandata al
Ministero degli Interni[19]
il nome e cognome di Jorge Bonafini, sequestrato 1'8 febbraio 1977 e da allora
"desaparecido".
Non poteva immaginare in quel momenta, nemmeno
remotamente, che sua madre, Hebe Bonafini, come presidente dell'Associazione
Madri della Plaza de Mayo, si sarebbe trasformata ‑ anni dopo ‑ nel
suo più tenace e implacabile accusatory.
[1]
In Fermín Mignone, op.cit.pag. 118.
[2]
"La Nación" 27 maggio 1978.
[3]
Vedere “Il Regno”, ibidem, pag.390.
[4]
Di quell'elenco di nominativi preparato
dall'ambasciata italiana, si possono documentare i seguenti interventi di Laghi
presso le autorità militari in favore di:
- Jorge La Cioppa (il 16 agosto 1976 il Generale e
Ministro Harguindeguy risponde alla sua requisitoria dicendogli che di lui “non
si possiedono antecedenti”);
- Alba Rosa Lanzillotto de Menna (appare nella nona lista
di detenuti confezionata dalla Nunziatura Apostolica e consegnata al Ministero
degli Interni l'11 luglio 1977);
- Roberto Senigaglia, Guillermo Juan Bettanin ed Esther
Moretti (lista di "Desaparecidos" inviata al Ministero degli Interni
il 13 agosto 1976, n.1510/6). Nel caso di Senigaglia, Laghi insiste con due
lettere (registrate con i numeri 267/76 e 2988/76) consegnate personalmente al
Generale Harguindeguy;
- Rosa Mabel Arone (lista di "Desaparecidos"
consegnata al Ministero degli Interni il 4 dicembre 1978, n.3214/78);
- Enrico Aggio, Maria Rosa Grillo e Josè Antonio Rossi
(per i primi due Laghi mando lettere al Ministero degli Interni il 16 settembre
1976, e per tutti e tre ricevette risposta il 23 del medesimo mese, con la
stessa formula: "Non si posseggono antecedentii");
- Miguel Grieco (lettera al Ministero degli Interni del 4
dicembre 1978, n.3521/78);
- Hector Daniel Cassattaro ed Olga Elvira Menotti de
Cazenave (XVIII Lista di "Desaparecidos" del 24febbraio 1978);
- Luis Rodolfo e Maria Cristina D'Amico (quinta lista di
detenuti del 21 dicembre 1976);
- Pantaleon Daniel e Guillermo Lucas (lettera al
Ministero degli Interni registrata con n. 976/78);
- Julio Rawa Jasinski (diversi interventi personali
presso il potere, compreso un ripetuto ricorso al Presidente Jorge Rafael
Videla);
- Daniel Alberto Manzotti (lettera al Ministero degli
Interni del 31 agosto 1977);
- Jorge Infantino (era scomparso il 22 novembre 1977, il
5 dicembre successivo Laghi portò personalmente al Generale Harguindeguy una
lettera chiedendo informazioni sulla sua sorte, come consta dalla minuta
protocollata n. 4563/77. Archivio della Nunziatura Apostolica);
- Jorge Bonafini (XI lista di "Desaparecidos"
del 6 giugno 1977);
- Giuseppe Ugo Agosti, Francesco Host Venturi e Miguel
Angel Spinella (varie pratiche personali, testimonianza offerta agli autori dal
diplomatico Franco Mistretta).
Queste
23 persone, come le altre accluse nell'elenco composto dall'ambasciata italiana
a Buenos Aires, scomparvero senza che fino ad oggi si sappia nulla di loro.
[5]
Rapporto del Nunzio Pio Laghi al
Sostituto della Segreteria di Stato, Monsignor Giuseppe Caprio, del 25febbraio
1978 (n. 605/ 78). Archivio della Nunziatura Apostolica.
[6]
Copia in possesso degli autori. Vedere
documento allegato.
[7]
In “Nunca Mas”, op.cit., pag. 7.
[8]
Testimonianza del rabbino León Klenicki
in “La Nación” del 29 novembre 1998, sezione 7, pag.3.
[9]
Nel suo libro "Le Irregolari"
Buenos Aires Horror Tour, Roma, Edizioni e/o 1998, pag. 89, Massimo Carlotto
racconta che una ex detenuta di Campo de Mayo, Patricia Erb, cittadina
nordamericana, salvata per l 'intervento dell'ambasciata del suo Paese, ha
riferito che Anna Maria Lanzillotto partorì, nonostante le torture, un bimbo robusto
e sano, che non si sa dove sia finito. Della ragazza non si seppe più nulla.
[10]
Vedere documento allegato. Il dottor
Roballos rinnovò la sua riconoscenza al Nunzio Laghi per aver recuperato la
libertà in una Lettera di Lettori pubblicata dal quotidiano "La Nación
" il 13 luglio 1997.
[11]
Copia in possesso degli autori. Vedere
documento allegato.
[12]
Copia in possesso degli autori.
[13]
Copia in possesso degli autori. Vedere
documento allegato.
[14]
In Fermín Mignone, op.cit., pags. 33‑34
[15]
Vedere "Nunca Mas" Op. cit. pag 240.
[16]
C'è una lettera datata il 13 febbraio
1978 (che porta il codice DEPS EC N. 4/78) con la quale il Ministero degli
Interni informa Laghi, con riferimento al suo interessamento per Dante Gullo,
che quest’ultimo si trovava rinchiuso nell'Unita di Sierra Chica, sotto
processo istruito dal giudice federale Jorge Luque. Nella missiva si indica a
Laghi che l'interessato era "legato all'eversione, come Vostra Eccellenza
Reverendissima sicuramente dovrebbe sapere" (sic).
[17]
Vedere documento allegato.
[18]
Vedere "Dal Silenzio', ibidem,
pag.94.
[19]
XI Lista di “Desaparecidos”, inviata al
Ministero degli Interni il 6 giugno 1977, specificando giorno e circostanze in
cui Jorge Bonafini e altre persone erano state sequestrate e chiedendo indagini
per la loro individuazione. Archivio della Nunziatura Apostolica.