CAPITOLO 8

 

La solitudine del Nunzio

 

Perché la Santa Sede era così titubante e non condannava apertamente, senza indugi, i colpevoli del dramma argentino? In tutto il biennio 1977‑78 l'orientamento della Segreteria di Stato fu quello di una ponderata prudenza. Non si può parlare di acquiescenza, e meno ancora di complicità, come hanno ripetutamente fatto gli organismi difensori dei diritti umani: certamente si trattò di un'avveduta cautela che rivelava fino a che punto la Santa Sede, e forse lo stesso Paolo VI, davano ancora ascolto alla posizione maggioritaria dell'Episcopato argentino, contraria all'idea di provocare rotture con il regime.

 

Paolo VI, dai rapporti che arrivavano alla Segreteria di Stato dalla Nunziatura, dai contatti abbastanza assidui con il Cardinal Pironio (a cui era legato da un'antica amicizia) e dalle assai numerose richieste e denunce che giungevano in Vaticano, era ben informato sul problema che lo coinvolgeva particolarmente.

 

Ma i Vescovi argentini che riceveva in Vaticano o che inviavano per conto loro rapporti alla Segreteria di Stato, fornivano un panorama opposto. Uno dei più enfatici era Monsignor Antonio Plaza, Arcivescovo di La Plata, una delle Diocesi argentine più importanti. Già abbiamo evidenziato come nell'udienza privata che Paolo VI gli concesse il 20 gennaio 1977, Plaza insistette nel sostenere che le violazioni dei diritti umani in Argentina erano "chiacchiere" e facevano parte di una "campagna del marxismo contro il Paese".

 

Monsignor Plaza sfatava le accuse; il Vicario Castrense Tortolo negava che le carceri fossero un inferno; il Pro Vicario Bonamín continuava con le sue elucubrazioni alla Torquemada per giustificare gli abusi e il Cardinale Aramburu si rifiutava di ricevere i rappresentanti degli organismi difensori dei diritti umani. Ma c’era molto di più. Monsignor Sansierra affermava che in Argentina i diritti umani venivano salvaguardati con cura; Monsignor Bolatti diceva pubblicamente che si dovevano ringraziare i militari perché avevano impedito "che i marxisti prendessero il potere"[1] e Monsignor Rómulo García, Vescovo di Mar del Plata, si lamentava perché il Governo militare era "vittima di campagne improvvisate e organizzate da coloro che negano la libertà"[2].

 

La maggioranza dei Vescovi parlava così, ripetendo quasi in coro la stessa versione. E' vero che non tutti si pronunciarono in tal senso. Ma quello che più alzava la voce era un coro compatto e concorde, che metteva a tacere coloro che denunciavano il reale stato delle cose. Addirittura, si verificarono casi incredibili, come quello di Monsignor Horacio Bozzoli, Vescovo di San Martín, che si presentò alla Santa Sede chiedendo che si mettesse a tacere la Radio Vaticana, colpevole di parlare con troppa e fastidiosa insistenza della repressione in Argentina[3].

 

Rispetto a questa situazione il Nunzio non poteva ignorare la posizione della maggioranza dell'Episcopato. Seguitava a inviare i suoi resoconti alla Segreteria di Stato, ma non poteva non tenere conto dei modi e dei mezzi con cui i rappresentanti più illustri dell'Episcopato cercavano di influire su Paolo VI e di convincerlo a non condannare esplicitamente il regime.

 

Laghi e il suo amico Monsignor Hesayne, allora Vescovo di Viedma, ebbero occasione di valutare le conseguenze di questa politica il 15 maggio del 1978, quando Paolo VI, già malfermo in salute, li ricevette separatamente nella sua biblioteca privata. Laghi avvertì nel Pontefice una preoccupazione maggiore a quella notata un anno prima, il 23 maggio 1977, nella precedente udienza private. Ma osservò anche che si dibatteva in un dilemma interiore, condizionato come era dalle pressioni dell'Episcopato argentino. A1 vecchio Papa ‑ sarebbe morto tre mesi dopo ‑ già mancavano le forze per prendere in mano la situazione e imporsi non soltanto all'Episcopato, ma anche alle resistenze della Segreteria di Stato, il cui titolare, il Cardinal francese Jean Villot, considerava con prudente diffidenza tutto ciò che accadeva in Argentina, in Cile e in quei paesi lontani del mondo latinoamericano, cosi diverso e lontano dalla sua cultura.

 

Monsignor Laghi tornò a Buenos Aires con una visione chiara di questa realtà vaticana. Ma non devio minimamente dalle sue intenzioni e dal suo operato, pur sentendosi solo, specialmente nell'ambito del corpo diplomatico accreditato, che in fin dei conti era l'ambiente in cui era chiamato a svolgere la sue missione. Dai suoi colleghi ambasciatori, ai quali giungevano notizie degli abusi in atto, si coglieva solo silenzio. Non equivaleva a connivenza ma era, sicuramente, comoda acquiescenza. Erano pochi gli ambasciatori tra i quali poteva trovare interlocutori disponibili ad assecondarlo nel suo impegno. Uno di loro, come già segnalato, era l'ambasciatore del Venezuela, Ernesto Santander.

 

Di recente era arrivato nel Paese (novembre 1977) il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti, Raul Castro. Il governo di Jimmy Carter aveva dato mandato a Castro, come priorità assoluta, di rafforzare la posizione in difesa dei diritti umani, esposta senza eufemismi in tutti i fori internazionali dal segretario di Stato, Cyrus Vance, dall'assessore presidenziale per gli Affari Interamericani, Bob Pastor e dalla Signora Patricia Derian. Castro ne aveva parlato al Congresso, prima della sua partenza per Buenos Aires, in un discorso che gli valse in Argentina una sarcastica e poco entusiasmante accoglienza. Nonostante i ripetuti scontri che ebbe con il potere militare, Castro non esitò a protestare ripetutamente per la questione dei diritti umani. Ma il regime rimase sordo e insensibile. Questo atteggiamento ebbe molto a che vedere con la reazione del Congresso degli Stati Uniti, che sospese tutte le rimesse di armi destinate all'Argentina, approvando l'emendamento Humphrey‑Kennedy alla legge di assistenza militare ad altri Paesi. Fu questo uno dei maggiori insuccessi internazionali subiti dal "PRN".

 

Ma, nei fatti, l'ambasciata americana non riuscì ad arrecare nulla di rilevante ai fini della salvezza di vite umane, malgrado il forte impegno di Castro, sicuramente per la rigida e quasi inviolabile vigilanza a cui era sottomessa. Lo stesso accadeva all'ambasciata del Messico, fortemente nel mirino del regime, perché in essa si erano rifugiati l'ex presidente Héctor Cámpora, che aveva impresso una forte svolta a sinistra al suo breve operato tra maggio e luglio del 1973, i suoi figli, e il dirigente della Gioventu Peronista, Juan Manuel Abal Medina, che avrebbe battuto tutti i record di permanenza come esiliato in una legazione diplomatica. Ad agosto del 1981, quando lo lasciarono uscire dal Paese, aveva superato comodamente la performance del leader peroviano Victor Haya de la Torre, rimasto 1.219 giorni rifugiato nell'ambasciata di Colombia a Lima.

 

In quanto ai rappresentanti degli Stati europei, fatta eccezione della Svezia, seguivano le istruzioni dei rispettivi Governi, molto poco attivi in favore dei perseguitati. L'interesse per i "desaparecidos", per lo meno nei primi tempi del regime, si esauriva con la presentazione di richieste presso le autorità o, a volte, presso la Nunziatura Apostolica, con la richiesta che si utilizzasse quest'ultimo canale per intercedere in favore di qualche connazionale in difficoltà.

 

Ancora oggi non si riesce a capire come una dittatura tanto feroce e brutale come quella argentina sia potuta rimanere al potere sette anni, con una certa disinvoltura, se non si tengono in considerazione due fattori: il consenso che ricevette dalla società argentina almeno fino al 1982 (quando i militari persero contro l'Inghilterra la guerra delle Malvine) e la tolleranza, per non dire l'appoggio, che trovò in buona parte della comunità internazionale.

 

Il caso più clamoroso fu quello dell'Unione Sovietica, che appoggiava apertamente il Governo militare, tramite il sostegno incondizionato del partito Comunista argentino. Fra il 1977 e il 1980, le vendite del grano argentino all'URSS batterono tutti i record grazie anche a una successione di ottimi raccolti (solo quello del 1977 raggiunse 12 milioni di tonnellate). Così il Cremlino sabotava apertamente l'appello degli Stati Uniti di punire l'Argentina non comprando i suoi cereali. E realizzava fantastici affari sulla pelle di tanti disgraziati che avevano sacrificato la loro vita in difesa dei principi di giustizia e uguaglianza, esaltati dalla teoria marxista. Ma, nel suo appoggio al regime argentino, l'Unione Sovietica non fu sola. Quasi tutti i Paesi‑fossero comunisti, "occidentali e cristiani", o del Terzo Mondo ‑ continuavano a mantenere normali relazioni diplomatiche con l'Argentina. Lo stesso fecero i paesi dell'America Latina appartenenti all'Organizzazione degli Stati Americani (OSA). E la stessa politica di amicizia svolse la Cuba di Fidel Castro. Solo nel settembre del 1979, quando le efferatezze dei militari argentini erano diventate uno scandalo internazionale, la Commissione per i Diritti Umani dell'OSA visitò Buenos Aires, trovando in molti interlocutori, compresa la gerarchia ecclesiastica, vaghe giustificazioni all'operato dei militari.

 

Nel caso della legazione italiana a Buenos Aires, quando Laghi era giunto in Argentina aveva trovato come ambasciatore il Conte Tesauro De Rege, sostituito nel 1977 da Enrico Carrara, che stette a capo della delegazione in Argentina nel periodo "caldo" delle scomparse, fino al 1980. Carrara soffriva le conseguenze di una caduta da cavallo e a volte la sua memoria si indeboliva. Forse anche per questo la sua gestione diplomatica circa la questione dei "desaparecidos" non ebbe particolare rilevanza, anche se non può dimenticarsi che le istruzioni dettate dalla Farnesina erano improntate a una rigorosa prudenza. Erano gli anni dell'apogeo della loggia massonica P2, che influiva fortemente sul Governo italiano. Licio Gelli, socio e stretto amico dell'ammiraglio Massera, era il principale punto di riferimento del regime in Italia.

 

L'Ambasciata aveva compilato un elenco di 297 "desaparecidos" italiani o di origine italiana, che per lo "ius sanguinis" avevano il legittimo diritto ad aspirare alla cittadinanza italiana. L'elenco fu diffuso il 1° maggio 1984 sulle pagine del "Corriere della Sera" e provocò in Italia un grande scompiglio. La lista fu posteriormente allungata da una valanga di denunce che motivò l'apertura di un processo per "strage e delitti contro l'umanità", ancora in corso, contro sette alti militari argentini, tra i quali il generale Suárez Mason.

 

Dalle liste elaborate dalla Nunziatura che sono arrivate in nostro possesso (purtroppo incomplete) e dalle testimonianze che siamo stati in grado di raccogliere, possiamo dire che il Nunzio Laghi si interessò per 23 persone accluse in quell'elenco, sia adoperandosi personalmente o, semplicemente, aggiungendo i loro nomi nelle liste che inviava al Ministero degli Interni. Di alcuni di loro già abbiamo parlato, come i casi del giovane Julio Rawa Jasinsky e dell'avvocato Roberto Sinigaglia[4].

 

Possiamo raccontare e documentare altri tre casi non compresi in quell'elenco elaborato dall'ambasciata italiana. Uno è quello dei fratelli Domenico e Filippino Antonio Favazza, di Gaggi (Messina), che erano stati arrestati a Buenos Aires il 14 settembre 1977 ed erano scomparsi. Il nonno si era rivolto al Papa Paolo VI il 6 febbraio 1978 chiedendo il suo intervento.

 

Quando il sollecito fu rivolto a Laghi da Monsignor Caprio, Sostituto della Segreteria di Stato vaticana, il Nunzio si era già occupato del caso "presso le autorità competenti argentine" e, non avendo ottenuto risposta, si preparava a reclamare nuovamente presso il Ministero degli Interni, come si apprende dalla lettera del 16 febbraio 1978 (n.476/78 della Nunziatura). In questo nuovo intervento, Laghi ebbe successo. I fratelli Favazza furono rilasciati il 25 febbraio e il Nunzio lo comunicò pochi giorni dopo a Monsignor Caprio[5].

 

La seconda vicenda fu quella di Oscar Hugo Laconi, detenuto dal mese di agosto del 1977 "a disposizione del Potere Esecutivo" (era un "PEN") accusato di svolgere "attività eversive". Essendo figlio di italiani e in possesso pertanto della doppia cittadinanza, aveva deciso di attenersi all'articolo 10 della Legge n.21.650 e chiedere di poter abbandonare l'Argentina, raggiungendo l'Italia dove sua madre Teresa Azcona era disposta ad accoglierlo. Per Laghi, ottenere il suo rilascio non fu impresa facile. Dopo aver esposto verbalmente il suo caso, redasse una missiva personale che inoltrò al Generale e Ministro Harguindeguy il 10 aprile 1979. Dovette aspettare un bel po' di tempo, ma finalmente ottenne una risposta favorevole[6]. E Laconi fu autorizzato a partire.

 

Il terzo caso fu quello di Juan Carlos Catini, detenuto dalla fine del 1977 e rinchiuso nel carcere di San Nicolás e per il quale si era interessato il Vescovo di Fermo, negli stessi termini di Laconi. Per aiutarlo, Laghi agì in tre direzioni: 1) richiese all'Incaricato di Affari dell'Ambasciata italiana a Buenos Aires, ministro Massimo Curcio, la concessione per Catini dell’“opzione di uscire dal paese e raggiungere l'Italia" (che comunicò ai suoi parenti di Sant'Elpidio a Mare, Ascoli Piceno, il 22 settembre 1978); 2) mandò una lettera al Vescovo di San Nicolas, in Argentina, chiedendogli che intercedesse per il detenuto presso le autorità militari competenti affinché ottenesse garanzie per l’incolumità del detenuto; 3) incontrò il Generale Harguindeguy per interessarlo del caso.

 

Ignoriamo quale sia stato l'epilogo, ma che Laghi si fosse interessato per questi tre e per altri cittadini italiani o con diritto di cittadinanza, è inconfutabile. Purtroppo, non sono in nostro possesso altre prove per dimostrarlo, ma ci è utile la testimonianza di colui che fu, dal settembre del 1976, Console generale italiano a Buenos Aires, Franco Mistretta, destinatario di numerose suppliche di persone che chiedevano notizie di familiari scomparsi, la maggior parte dei quali aventi diritto alla cittadinanza italiana.

 

Venti anni dopo, già a capo della Congregazione per l'Educazione Cattolica, il Cardinale Laghi avrebbe ricevuto una lettera di Mistretta, Console Generale italiano a NewYork, che in data 22 aprile 1997 gli scriveva: "Il mio fugace ritorno in Argentina mi rinverdì i ricordi di quegli anni del suo grandissimo lavoro a favore delle famiglie dei "desaparecidos", così come i suoi appelli alla Giunta Militare, avviati sempre con cuore e intelligenza". E qualificava, infine, come "assurde" e "totalmente false" le accuse che al momento gli venivano rivolte.

 

Ha raccontato Mistretta a uno degli autori: “Ricordo perfettamente il Nunzio Laghi sempre preoccupato, agitato per la questione dei "desaparecidos". Per molte persone coordinammo un'azione congiunta, essendo i familiari ricorsi tanto al Consolato come alla Nunziatura. Il primo obiettivo era ottenere che il Governo riconoscesse che teneva queste persone in carcere, facendole uscire così dalla clandestinità. Iniziava quindi il secondo lavoro, che consisteva nel presentare un "habeas corpus" e cercare di farli fuggire dal Paese, nel nostro caso con l'Italia come destinazione dove in genere avevano qualche familiare disposto ad accoglierli”.

 

Altre ambasciate e consolati agivano nello stesso modo in favore dei cittadini in possesso della loro nazionalità. Il Governo rispondeva con note verbali in cui esponeva i risultati delle verifiche fatte, che erano per lo più evasive e scoraggianti. Soltanto verso la fine del 1977, le autorità decisero di concentrare tutti i tramiti in un solo organismo operativo nella sede del Governo e scelto come canale riconosciuto per consegnare le denunce le circostanze in cui si erano registrate le scomparse.

 

Si tenga presente che, quando accadde quanto esposto, era già trascorso quasi un anno e mezzo dal giorno in cui Laghi aveva aperto le porte della Nunziatura ai familiari delle vittime e avanzato le sue prime richieste alla dittatura militare, cercando così di salvare le prime vite.

 

* * *

 

Nonostante il clima poco propizio che trovava nella comunità diplomatica di Buenos Aires, Laghi continuava per la sua strada. Le sue erano giornate estenuanti, che iniziavano all'alba, quando pregava nella cappellina della Nunziatura sotto la protezione dell'immagine della Vergine di Lujan, e terminavano intorno a mezzanotte.

 

Riceveva gente, prendeva appunti, scriveva lettere in una lingua spagnola approssimativa, con non pochi errori grammaticali, compilava le liste che mandava al Generale Harguindeguy, faceva verifiche telefoniche (non sapendo ancora che il telefono della Nunziatura era sotto controllo). Non mancava agli incontri sociali che potevano trasformarsi in buone occasioni per intercedere in favore di qualcuno. Insomma, cercava di ficcare il naso ‑ fino a dove poteva – in quel pantano senza fondo che erano le viscere del potere militare.

 

Almeno una volta ogni due settimane, chiedeva udienza a Harguindeguy e si presentava a lui con qualche nuova domanda scritta su carta intestata della Nunziatura. A volte, si recava alla Casa Rosada accompagnato perfino da qualche parente di detenuti o "desaparecidos", ma solo con relazione diretta di consanguineità, ossia, genitori, fratelli o figli, modalità adottata per evitare dispersioni e dar maggior credito alle sue richieste. Infine, cercava di arrivare al presidente Videla, agli altri membri della Giunta Militare e alle alte cariche militari, non solo quando gli impegni protocollari glielo consentivano.

 

Le risposte più comuni dei suoi interlocutori in divisa, erano ironie, burle e consigli di questo tipo: "Lei ci fa degli appunti che noi ascoltiamo con attenzione, ma perché non parliamo, Monsignore, di quanto sta accadendo in Italia, il suo Paese, con le Brigate Rosse? Con loro, dovrebbero agire come facciamo noi, vedrebbe come il problema si risolverebbe in pochi mesi". Ma in Italia si era scelta la strada contraria. Come si ricorda nel prologo della relazione "Nunca Mas", un membro dei Servizi di Sicurezza italiani propose al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di torturare un terrorista che "sapeva molto". La risposta del militare fu: "L'Italia può permettersi di perdere Aldo Moro, ma non di instaurare la tortura"[7].

 

Ci ha raccontato il rabbino Leòn Klenicki: “Avevo un rapporto molto stretto con Pio Laghi; gli mandavo i nomi di prigionieri e di gente che era nei campi di concentramento; andavo a trovarlo al palazzo della Nunziatura e parlavamo dei casi che erano arrivati a mia conoscenza. Molte volte mi diceva: "Questo caso è chiuso, per questo detenuto non possiamo fare niente; per quest'altro invece ci sono speranze, si può tentare qualcosa, ti suggerisco di parlare col tal dei tali, mentre io mi muovo in altre direzioni”[8].

 

Ma i risultati, in pratica, erano deludenti, soprattutto per i "desaparecidos". Erano sfumati nel nulla e tutte le richieste erano vane. Laghi lo notava e lo faceva notare ai pochi prelati che lo circondavano. Di fronte agli scomparsi, l'impermeabilità del potere era assoluta. Insistere era vano e insensato. I1 suo operato poteva acquistare un senso concreto e positivo soltanto a favore dei detenuti (i cosiddetti "PEN") o di quelle persone che, ricercate dai repressori, si nascondevano o tentavano di lasciare il Paese. Perciò inizio a orientare i suoi sforzi e le sue preoccupazioni verso vie alternative, non rinunciando tuttavia ai suoi abituali reclami.

 

Poter salvare una vita, una sola, era già una conquista esaltante e valida per giustificare tanti sforzi, per far dimenticare il suo amor proprio ferito da quegli interlocutori in divisa e orgogliosi nella loro insopportabile tracotanza, che lo trattavano con un misto di spavalderia e di cinismo. Preferiva sopportare, regalando loro un sorriso in cambio delle loro ironie, pur di strappare loro la minima promessa di assistenza, umanitaria o di benevola "grazia" verso una delle vittime, come poteva esser quella di portare un messaggio di speranza a uno di quei disgraziati che, per mesi e mesi, rimanevano isolati nelle loro celle senza alcun contatto con l'esterno.

Non si arrendeva. E tutte le volte tornava alla carica, giustificando la sua insistenza con una delle sue frasi latine preferite, imparate nell'Istituto Salesiano di Facnza: "Gutta cavat lapidem, non vi, sed sacpe cadendo". Ossia: "La goccia d'acqua consumò la pietra non con la forza, ma con la continuità della sue caduta".

 

A suo favore giocava una circostanza: il potere militare non lo sopportava, ma lo rispettava. Laghi iniziò a sfruttare pragmaticamente tale apprezzamento formale che le autorità gli riservavano. Un uomo al suo fianco che lo accompagnava all'aeroporto o a un'ambasciata, finché fosse rimasto in sua compagnia, era un uomo intoccabile. Nessuno osava intercettarlo né ostacolarlo. Fu questa consapevolezza che lo spinse a maturare la ricerca di nuove vie che, a fianco di quelle fino ad allora battute, gli permettessero di tradurre in fatti concreti il suo servizio pastorale di aiuto ai perseguitati. E grazie alla sua "protezione", non poche persone riuscirono a mettere al sicuro la propria vita.

 

Ma quel momento non era ancora arrivato. In quei primi mesi del 1977 ci sono alcune vicende che meritano di esser raccontate. Una è quella di Carlos Zamorano Vega, dirigente e Procuratore Generale del Comitato Centrale del Partito Comunista nella provincia patagonica di Chubut, finito in carcere già a dicembre del 1974. Laghi iniziò a interessarsi di Zamorano Vega nel 1976 e continuò a farlo caparbiamente per molto tempo. Già nel primo elenco della Nunziatura, del 2 agosto 1976, appariva il suo nome, con l'espressa richiesta di informazioni circa il luogo in cui si trovava. Harguindeguy gli aveva risposto con lettera del 16 agosto dicendogli che, come di altre persone, "non aveva alcun riscontro" su di lui. Non era vero, perché Zamorano Vega era detenuto nel carcere penale di Rawson e il Ministero degli Interni lo sapeva molto bene. I1 7 settembre, con una nuova lettera, Laghi insisteva nel voler sapere dove il dirigente comunista si trovava. La sua cocciutaggine ebbe finalmente successo: il 15 ottobre 1976, il Ministro lo informò che Zamorano Vega era "a disposizione del Potere Esecutivo" ("PEN") per Decreto n. 1761/76.

 

Era un trionfo. Le autorità militari avevano riconosciuto che Zamorano Vega era nelle loro mani e, avevano anche precisato il luogo di detenzione. La doppia ammissione lo metteva al riparo di eventuali e irreparabili "trasferimenti". Ma il Nunzio Apostolico non si ritenne ancora soddisfatto e riscrisse nome e cognome dell'interessato altre due volte, in due nuove liste che inoltrò al generale Harguindeguy, una il 21 dicembre di quell'anno 1976 e la seconda in giugno, senza data precisa (si tratta della quinta e la settima lista di detenuti), incalzando il Ministero degli Interni "a compiere i passi pertinenti al fine di restituire il sig. Zamorano Vega ed altre persone ai suoi familiari e parenti".

 

La nostra indagine su Zamorano si esaurisce qui. Ignoriamo quanto tempo rimase in carcere e quando fu liberato. Ma nessuno può discutere che, rispetto al suo caso, Laghi agì con sollecitudine ed energia encomiabili, senza limitare i suoi sforzi alla provvidenziale individuazione del suo luogo di detenzione e senza sentirsi condizionato dalla militanza ideologica del prigioniero, di cui era perfettamente al corrente.

 

Un simile atteggiamento ebbe con due fratelli tacciati di esser associati con l'ERP, l'organizzazione guerrigliera di orientamento trotzkista. Parliamo dei fratelli Carlos Alberto e Alba Rosa Lanzillotto, che nella provincia de la Rioja erano molto legati a Monsignor Angelelli e svolgevano un intenso lavoro culturale di marcata impronta sociale. Entrambi erano stati strappati con la forza dalla loro famiglia all'alba del 24 marzo 1976, in un'operazione militare che provocò la morte per infarto della loro madre. Intanto i repressori avevano fatto saltare con una bomba la casa di un'altra sorella.

 

Carlos Alberto rimase prigioniero tre anni e mezzo, nonostante fosse stato prosciolto dal giudice federale de La Rioja, con un destino che abitualmente correvano i "PEN". Intanto, Alba Rosa fu liberata quindici giorni più tardi. Con suo marito, il poeta Ariel Ferraro, fuggì precipitosamente poco prima che una pattuglia militare tentasse di arrestarli di nuovo. Cominciarono così un disperato pellegrinaggio per sfuggire alla persecuzione del regime, che continuo anche in Uruguay, dove la "lunga mano" del regime tentò di raggiungerli con una richiesta di estradizione. Alla fine, dopo una rocambolesca fuga, ottennero asilo politico in Spagna.

 

Per Carlos Alberto Lanzillotto, che era rimasto in carcere, Pio Laghi si era rivolto a Harguideguy, l'11 luglio 1977, includendolo nella nona lista di detenuti (codificata col n. 2160/77), che aveva elaborato con dati propri e con altri offerti dalla Segreteria Generale della Conferenza Episcopale. La sua petizione era anche in favore di Ricardo Leopoldo Mercado Luna, Ligia Verónica ed Elena Beatriz Matta. Vi si può leggere: "Si insiste in questa richiesta e si chiede una particolare attenzione a quanto sostiene la sig.a Nelly E. Ocampo de Mercado Luna (NDA: sicuramente la moglie del primo citato), la quale asserisce che il giudice federale de La Rioja che si è occupato del loro caso dispose il proscioglimento provvisorio dei nominati, ragione valida per chiedere la libertà dei medesimi".

 

La richiesta non fu accolta. In effetti, Lanzillotto e, presumibilmente, i suoi compagni di sventura, dovettero continuare ancora per due anni e mezzo a soffrire detenzione e maltrattamenti, come tanti altri "PEN". Frattanto, la tragedia devastava la famiglia, giacché due sorelle gemelle minori, Ana Maria e Maria Cristina, che avevano abbracciato la militanza armata nell'ERP, furono sequestrate e assassinate. Ana Maria Lanzillotto aveva formato coppia con Domingo Menna, uno dei più stretti collaboratori di Mario Santucho, il leader più in vista dell'ERP, e quando venne imprigionata era incinta di otto mesi. Selvaggiamente torturata a Campo de Mayo, passò a far parte dei "desaparecidos"[9]. Maria Cristina fu portata via con il marito Carlos Benjamín Santillan e il suo cuore cedette durante una sessione di tortura con scosse elettriche.

 

Non sono gli unici esempi per cui il Nunzio Laghi intercedeva senza badare se le vittime fossero di sinistra o di destra, comunisti o semplici oppositori al regime, influenti o anonimi, cattolici o ebrei. Prendiamone a caso altri, che ebbero un epilogo felice, sia perché i suoi interventi personali furono coronati dal successo, sia perché il ricorso alle liste inviate al Ministero degli Interni ebbe effetti positivi. E' un campionario incompleto poiché ‑ come già indicato ‑ abbiamo potuto documentare soltanto un numero limitato di casi. Ma questi forniscono un quadro abbastanza esauriente su come Laghi lavorò.

 

Uno e quello dell'ex Ministro del "Benessere Sociale" del governo di Isabel Perón, Rodolfo Alberto Roballos, incarcerato nella prigione di Villa Devoto. Furono le indefesse e personali azioni del Nunzio Apostolico e di Monsignor Octavio Derisi che ottennero la sua libertà 22 mesi dopo la sua incarcerazione, nell'agosto del 1977, come lo stesso Roballos riconobbe in una lettera inviata al giornale "La Naciòn" l'11 aprile del 1995 e in cui dice che "solo (sottolineato nell'originale) l'operato di entrambi (Laghi e Derisi) conseguì la mia liberazione dalle prigioni sotterranee di Devoto"[10].

 

Questo era un ex ministro, un personaggio assai noto. Ma ci furono altre persone totalmente anonime per i quali Laghi si prodigò con pari intensità. Per esempio, Osvaldo Bonano, appartenente a un'umile famiglia di Villa Ballester, una località confinante con la capitale argentina. Il 21 dicembre 1977, la zia del medesimo, Victoria Bonano, inviò a Laghi una lettera, piena di errori ortografici ma anche di sincere riconoscenza, in cui, dopo avergli augurato "Buon Natale e prospero Anno Nuovo" e ringraziato per i "fastidi causati per il nostro immenso dolore", gli comunicava che il giovane, il cui nome era stato inserito dal Nunzio nell'ottava lista di detenuti inviata a Harguindeguy, "è stato posto in libertà e si è nuovamente integrato nella società e nel lavoro"[11].

 

Un altro è il caso di Enrique Appel, di cui si era interessato Laghi. Sua moglie, Cecilia A. de Appel, gli comunicò la sua liberazione e lo ringraziò con alcune righe "per le parole e la fede che trasmise in momenti di profonda amarezza" e per i passi compiuti, conclusi con successo. Nella lettera, di proprio pugno, il Nunzio aggiunse: "Liberato"[12].

 

Un terzo è quello della giovane Nilda Clara Bramardo. Sua madre, Clara Delfino, scrisse al Nunzio per informarlo della liberazione di sua figlia, chiedergli "scusa per tutti i fastidi arrecati" e ringraziarlo "profondamente per la dedizione, attenzione e comprensione che ci ha dispensato e l'incoraggiamento offertoci nelle ore difficili che ci e toccato vivere"[13].

 

Ma raramente le cose andavano così. Spesso, quello che Laghi riceveva era silenzio, sdegno o piste false, dopo le arcinote assicurazioni che il Ministero degli Interni non aveva nessun precedente sulla persona che si cercava. Questo, in non poche occasioni, rispondeva a verità, giacché la struttura della repressione era molto dispersiva (ogni Arma agiva per conto suo, autonomamente, senza informare le altre) e questo trasformava le ricerche in un lavoro frustrante.

 

Era inutile protestare, bussare a porte, appellarsi alle sue conoscenze, rivolgersi ai presunti rapitori. Una vicenda scoraggiante fu quella dell'avvocato Daniel Victor Antokoletz, professore universitario e giurista, fondatore dell'Associazione Argentina di Diritto Internazionale. Antokoletz pagò a caro prezzo la sua attiva militanza negli organismi dei diritti umani e come difensore di numerosi prigionieri politici. Il 10 novembre 1976, la mattina presto, le "Forze di Sicurezza" irruppero a casa sua e lo portarono via, con la moglie Liliana Maria Andres. Quando questa chiese ai poliziotti le ragioni del procedimento, gli risposero che suo marito era un "ideologo dell'eversione" e, per di più, "era ebreo". Niente di più assurdo, giacché questo non rispondeva assolutamente a verità.

 

La donna dichiarò sette anni dopo alla CONADEP (Fascicolo n. 1386) che entrambi furono portati all'ESMA e messi in celle separate. In occasione di un breve e unico incontro con suo marito, accertò che veniva ripetutamente e sistematicamente torturato. La signora Liliana Andres fu liberata il 17 novembre e, da quel momento, cominciò il suo peregrinare per tutti gli organismi competenti ufficiali e militari, dopo aver presentato ben cinque ricorsi di "habeas corpus" alla giustizia ordinaria. Arrivò fino al Vicariato Castrense e alla Commissione Permanente della CEA che, senza interessarsi ulteriormente, inserì il cognome Antokoletz in una delle liste le cui copie venivano inviate periodicamente al Nunzio.

 

Così, Laghi lo inserì nell'ottava lista di "desaparecidos" che mandò a Harguindeguy il 21 dicembre, specificandogli che si trattava di un "prestigioso e incensurato avvocato difensore di prigionieri politici, di 39 anni, portato via a viva forza e senza spiegazione alcuna dal suo domicilio in Guatemala 460, 6° piano, appartamento 27, il 10 novembre". In uno dei resoconti inviati al Cardinale Villot, Laghi gli disse che si era interessato di lui personalmente presso Harguindeguy, "perché è un caso che ferisce la nostra sensibilità cristiana". Tutti i suoi appelli non servirono a nulla. Da allora, Antokoletz forma parte della legione dei "desaparecidos".

 

La stessa sorte subì Floreal Edgardo Avellaneda, un ragazzo di soli 14 anni, che fu preso come ostaggio con sua madre Iris Etelvina Pereyra, dopo che un "commando" entro nella sua casa, sfondando la porta, alle 2 del mattino del 15 aprile 1976. In realtà, cercavano il capo famiglia, che era fuggito. Non avendolo trovato si portarono via madre e figlio, che furono rinchiusi nel commissariato di Villa Martelli, dove li interrogarono sulla sorte del papà Avellaneda. Insoddisfatti delle loro risposte, i poliziotti li torturarono. La donna avrebbe dichiarato più tardi che alle sedute di tortura partecipo il cappellano militare Francisco Priorello[14].

 

Di fronte all'inutilità di quelle barbarie, perché la madre e il figlio erano all'oscuro di tutto, i militari decisero di separarli. La signora finì nel carcere di Olmos, che dipendeva dal Comando degli Istituti Militari, e il ragazzo fu trasferito con destinazione ignota. Per la signora si fece avanti il Nunzio Laghi il 2 ottobre 1976 e tredici giorni dopo, il 15, Harguindeguy rispose, informandolo che era detenuta a disposizione del PEN per Decreto 203/76. Era una risposta incoraggiante, giacché aumentavano le possibilità di avere salve la vita. Invece, non ci fu nessuna informazione su Floreal Edgardo. Il suo cadavere fu ritrovato qualche mese dopo, il 16 maggio 1977, con altri sette, che galleggiavano nel Rio de la Plata, in acque giurisdizionali uruguayane. La notizia fu pubblicata dal quotidiano "Ultima Ora", di Montevideo. Il Tribunale Federale n. 4 di San Martin formulò una rogatoria diplomatica all 'Uruguay, mentre la Prefettura Navale lo identificò grazie al tatuaggio a forma di cuore con le iniziali “F” “A”.

 

Il ragazzo era stato selvaggiamente torturato. Gli avevano spezzato il collo e lo avevano buttato nel fiume con mani e piedi legati[15]. Mamma Iris, allora nel carcere di Olmos, era all'oscuro di tutto.

 

* * *

 

Per Laghi uno degli aspetti più dolorosi del suo compito fu quello di occuparsi, con risultati avvilenti, dei "fratellini" della Confraternita del Vangelo, perseguitati con particolare crudeltà dal regime, fino al loro virtuale annientamento. Solo due di loro, il padre irlandese Patrick Rice e il francese Henri del Solan, poterono raccontare i loro sequestri, le loro torture e le loro prigionie. Alla fine, furono espulsi con destinazione Europa, il primo nel settembre 1976, grazie all'intervento dell'ambasciata d'Irlanda a Buenos Aires, e il secondo nel febbraio 1978.

 

La Confraternita del Vangelo fu fondata in Francia nel 1933 da padre Voillaume, come ramo dell'Associazione Charles de Foucauld. I suoi membri ("fratellini") seguono la linea spirituale segnata da questo mistico francese, assassinato nel 1916 in Africa. La loro caratteristica, oltre a un'intensa vita di preghiera, è provvedere alle proprie necessità materiali attraverso il lavoro. Così, svolgono qualsiasi attività, anche le più umili, e vivono in comunità periferiche, condividendo la penuria e le privazioni dei loro assistiti. Erano presenti in Argentina dal 1960, ma i militari al potere definirono le loro attività come "eversive" e decisero senza esitazioni la loro eliminazione.

 

Per uno di essi, Monsignor Laghi intercedette più di una volta. Si tratta del "fratellino" Pablo Gazzarri, che lavorava nella parrocchia di Nuestra Señora del Carmen di Villa Urquiza, un quartiere di Buenos Aires, ed era in procinto di entrare nella Confraternita. Da seminarista, aveva avuto come assistente spirituale il Cardinale Pironio che dopo il suo sequestro, il 27 novembre 1976, cercò invano di ottenere informazioni dalle autorità sul luogo dove fosse finito. Gazzarri fu visto per l'ultima volta, barbaramente torturato, nell'ESMA. Laghi si interessò a lui e lo incluse nelle due liste di "desaparecidos", inviate a Harguindeguy il 21 dicembre 1976 e 1'11 febbraio 1977.

 

Ma quest'ultima arrivò tardi. Nei primi giorni di gennaio, Padre Gazzarri era stato "trasferito". Di lui non si è saputo più niente. Molto probabilmente, fu uno di quei disgraziati buttati, sotto l'effetto dei narcotici, nell'Oceano Atlantico. Sorte simile subì Padre Nelio Rougier, sequestrato nel settembre 1975 e per il quale Laghi si interessò, ma senza ottenere alcun successo. Poco prima, erano stati rapiti anche il sacerdote-taxista Carlos Armando Bustos e il sacerdote‑spazzino uruguayano, Mauricio Silva Iribarnegaray ("desaparecidos", rispettivamente, il 9 aprile e il 14 giugno 1977).

 

A metà del 1977, nessuno dei quindici "fratellini" della Confraternita del Vangelo che quattro anni prima svolgevano la loro missione pastorale in Argentina era ancora al suo posto. In un anno e mezzo, la Confraternita era stata annientata.

 

La loro tragica vicenda non fece altro che confermare in Laghi la certezza che il rapporto tra i suoi interventi umanitari e i risultati conseguiti ‑ specialmente nell'ambito dei "desaparecidos"‑ era sconfortante. Poco gli giovava la frase di Mateo Alemán, secondo il quale "il soccorso nelle situazioni di massima necessità, sebbene poco, aiuta molto". Non poteva chiudere la via intrapresa delle richieste e sollecitazioni tramite i canali ufficiali e ufficiosi che aveva aperto; ma incominciò a capire che doveva diversificare i suoi sforzi e trovare altre vie d'intervento umanitario. Dai primi mesi del 1978 incominciò a lavorare in questo senso, mentre si consolava con le lettere di riconoscenza e le testimonianze di gratitudine che riceveva da quelli che aveva aiutato. Per loro, la sua mano tesa era stata una sorgente d'acqua in quel deserto di sofferenze.

 

E Monsignor Laghi continuò a chiedere, con ostinazione; cercando di lenire il dispiacere che gli causavano le risposte scritte a firma del generale Harguindeguy o del suo Sottosegretario, il colonnello Jose Ruiz Palacios, che ripetevano quasi tutte una formula intrisa di ipocrisia.

 

Ad esempio, il 9 giugno 1977 Ruiz Palacios rispondeva a due lettere inoltrate da Laghi nei giorni 27 aprile e 10 maggio, informandolo sulla situazione di un ulteriore gruppo di "desaparecidos", sequestrati e detenuti, di cui si ignorava la sorte. Di quegli elenchi, l'ufficiale gli indicava che undici persone (Héctor Horacio Crea, Héctor Gustavo López, Luis Angel Pereyra, Vicente Antonio Amicone, Victor Bautista Musso, Norma Gladys Luque de Musso, Marta Carolina Abrales, Luigi Farina, Rubén Oscar Romanok, Cristina Beatriz Arévalo Luca e Marcos Bechis) erano detenute a disposizione del Potere Esecutivo. La lettera ministeriale concludeva con le formule rituali che avevano il sapore ‑ e Laghi lo sapeva bene ‑ di una burla. Diceva: "In quanto ai "desaparecidos", la profonda preoccupazione manifestata da Vostra Eccellenza e condivisa da questo Ministero per cui, tenendo in dovuto conto i dati offerti (da VE.) si sono adottate le misure del caso affinché gli organismi tecnici competenti in ambito giurisdizionale, approfondiscano le indagini di prassi per il loro ritrovamento".

 

Quelle parole erano il colmo della sfrontatezza. Laghi ne era consapevole. Ma continuò a insistere. Si adoperò per persone che avevano ricoperto cariche politiche rilevanti durante l'epoca peronista, come Duilio Brunello, dirigente della Gioventu Peronista e militante del gruppo guerrigliero "Montonero", Juan Carlos Dante Gullo[16], e il sindacalista José Rodíguez, di SMATA. Per loro a nulla era servito che i giudici li dichiarassero immuni da colpe e accuse. Erano finiti nelle carceri di Villa Devoto, Sierra Chica e Rawson, rispettivamente, poiché il Governo li aveva inseriti nella categoria dei "PEN" ("a disposizione del Potere Esecutivo") e messi, per la loro "pericolosità", in stato di isolamento.

 

Il Nunzio Laghi protestò altresì per le disdicevoli confusioni e gli errori, come quello di cui fu vittima Carlos Labolita, confinato a Sierra Chica e per il quale si interessò presso il Ministero degli Interni nel giugno del 1977, insieme ad altri tre casi di detenuti, inserendolo nella settima lista di detenuti. Quello di Labolita è un caso di una crudeltà che ha dell'inverosimile. Sua moglie si era presentata alle autorità militari perché, nell'arrestarlo, lo avevano confuso con suo figlio Alberto, di 23 anni, che già era stato sequestrato ed era un "desaparecido" dal 25 aprile precedente. Una drammatica negligenza che finì per annientare una famiglia già duramente colpita.

 

Monsignor Laghi intercedette per un personaggio come Alberto Quieto, presumibilmente imparentato strettamente con il massimo dirigente delle FAR, l’organizzazione guerrigliera marxista che svolgeva la sua azione armata preferibilmente nell'ambito rurale, e interpose i suoi buoni uffici per il giornalista Claudio César Adur e sua moglie Bibiana Martini, sequestrati l'11 novembre 1976 (lettera n. 3214/78) e per i membri del Raggruppamento Sindacale di Scrittori Joaquin Alvárez, Federico Moreija, Andrés Fidalgo, Juan Alberto Costa ed Enrique Molina y Vedia).

 

Si prodigò in favore del parroco del paesino di Ramallo, Padre Luis López Molina, nel carcere di San Nicolás dal 23 giugno 1976; per la signora Olga Cañueto, moglie dell'ex deputato nazionale Miguel Zavala Rodríguez, che per le autorità era morto il 22 dicembre 1976 "in uno scontro armato con le Forze di Sicurezza", eufemismo che nascondeva la sue fucilazione per strada.

 

Intervenne in favore dell'ex presidente del Banco de la Nación Argentina durante il governo di Isabel Perón, dottor Luis Miguel Caballero, la cui detenzione sarebbe durata per tutto il Processo. La moglie, Irma C. di Caballero, aveva fatto giungere a Laghi una lunga lettera, intrisa di commovente dignità, chiedendo il suo personale intervento. Parlava del suo marito così: "In questi due ultimi anni lo abbiamo visto vivere in silenzio, nell'oscurità e nella tristezza, tra le quattro pareti della sua cella, questo calvario assurdo, constatazione di come nella nostra cara Argentina ancora esistono persone dignitose che, come mio marito, vivono private del bene più sacro all'uomo: la libertà".

 

Nell'adoperarsi per Caballero, Laghi chiese udienza al Ministro Harguindeguy, che gliela concesse il 16 aprile 1979. Il militare lo informò che l'ex funzionario peronista, sebbene non più a disposizione del Potere Esecutivo per decreto n.948 del 16 aprile 1977, "era ancora detenuto per essere sotto processo, insieme ad altri, giacchè doveva rispondere per una causa di malversazione di fondi pubblici aperta nel Tribunale Civile, Criminale e Correzionale Federale n.2 della Capitale Federale". Per conseguenza, Laghi non poté andare avanti con la sua petizione e comunicò il suo insuccesso alla donna, con una breve nota, il 3 maggio seguente.

 

Il Nunzio Apostolico non disattese la causa di poveri diavoli, senza la minima rilevanza sociale o politica e la cui militanza nell'eversione era assolutamente improbabile. Tale e il caso di un ragazzo di 15 anni, Ricardo Hernán Cabello, manovale appartenente ad una famiglia proletaria di Bernal, al cui sostegno contribuiva con i suoi scarsi guadagni. Immaginare un ragazzetto di quell'età dedito alla violenza terrorista e un vero sproposito. Malgrado tutto, il 25 agosto 1977 una pattuglia dell'Esercito lo aveva sottratto dalla sua abitazione e, sei mesi più tardi, era ancora prigioniero nel Commissariato di San Justo, senza processo ne causa in atto, semplicemente "a disposizione del Potere Esecutivo". Sua madre, dopo aver avuto notizia del figlio da un agente di polizia, si era presentata al Ministero degli Interni, dove le avevano suggerito di lasciare una lettera spiegando l'accaduto.

 

Disperata per tanta indifferenza, la signora Maria Elena Pérez Donoso de Cabello era ricorsa alla Nunziatura, dove Laghi la ricevette. Ascolto il suo racconto, prese nota di tutti i particolari del fatto[17] e mandò l’ennesima lettera al Generale Harguindeguy, chiedendogli il rilascio di Ricardo Hernán. Non ricevette alcun riscontro. Allora tornò alla carica con una Nota protocollata col n. 976/78, senza data, in cui chiese nuovamente notizie del ragazzo, che ancora era nel Commissariato di San Justo, in pessime condizioni igieniche e con addosso gli stessi panni che indossava il giorno del suo arresto e, senza che gli venisse assegnato neanche il carcere dove essere recluso. Sul destino finale di Ricardo Hernan non siamo riusciti ad avere informazioni.

 

Invece, come già detto, è accertato che Julio Rawa Jasinski, studente universitario, poeta e sognatore convinto, sequestrato il 12 di agosto 1977, passò a ingrossare la lunga schiera dei "desaparecidos". Suo padre, un eroe polacco di guerra che aveva scelto l'Argentina come seconda patria, ha raccontato il suo andirivieni tra i generali, a fianco del Nunzio Laghi, che fece tutto il possibile per sapere qualcosa di suo figlio. La qualità spirituale e morale di quel giovane emerge, nitidamente, dalle lettere che inviava a sua madre, prima di venire sequestrato. In esse le chiedeva perdono per le sofferenze che le stava causando e per "non poter tornare a vivere nell'indifferenza ne soccombere di fronte agli ostacoli che la scelta fatta presentava”[18].

 

Alcune settimane prima del sequestro di Rawa Jasinski, precisamente il 6 giugno 1977, Laghi aveva aggiunto in una lista mandata al Ministero degli Interni[19] il nome e cognome di Jorge Bonafini, sequestrato 1'8 febbraio 1977 e da allora "desaparecido".

 

Non poteva immaginare in quel momenta, nemmeno remotamente, che sua madre, Hebe Bonafini, come presidente dell'Associazione Madri della Plaza de Mayo, si sarebbe trasformata ‑ anni dopo ‑ nel suo più tenace e implacabile accusatory.



[1] In Fermín Mignone, op.cit.pag. 118.

[2] "La Nación" 27 maggio 1978.

[3] Vedere “Il Regno”, ibidem, pag.390.

[4] Di quell'elenco di nominativi preparato dall'ambasciata italiana, si possono documentare i seguenti interventi di Laghi presso le autorità militari in favore di:

- Jorge La Cioppa (il 16 agosto 1976 il Generale e Ministro Harguindeguy risponde alla sua requisitoria dicendogli che di lui “non si possiedono antecedenti”);

- Alba Rosa Lanzillotto de Menna (appare nella nona lista di detenuti confezionata dalla Nunziatura Apostolica e consegnata al Ministero degli Interni l'11 luglio 1977);

- Roberto Senigaglia, Guillermo Juan Bettanin ed Esther Moretti (lista di "Desaparecidos" inviata al Ministero degli Interni il 13 agosto 1976, n.1510/6). Nel caso di Senigaglia, Laghi insiste con due lettere (registrate con i numeri 267/76 e 2988/76) consegnate personalmente al Generale Harguindeguy;

- Rosa Mabel Arone (lista di "Desaparecidos" consegnata al Ministero degli Interni il 4 dicembre 1978, n.3214/78);

- Enrico Aggio, Maria Rosa Grillo e Josè Antonio Rossi (per i primi due Laghi mando lettere al Ministero degli Interni il 16 settembre 1976, e per tutti e tre ricevette risposta il 23 del medesimo mese, con la stessa formula: "Non si posseggono antecedentii");

- Miguel Grieco (lettera al Ministero degli Interni del 4 dicembre 1978, n.3521/78);

- Hector Daniel Cassattaro ed Olga Elvira Menotti de Cazenave (XVIII Lista di "Desaparecidos" del 24febbraio 1978);

- Luis Rodolfo e Maria Cristina D'Amico (quinta lista di detenuti del 21 dicembre 1976);

- Pantaleon Daniel e Guillermo Lucas (lettera al Ministero degli Interni registrata con n. 976/78);

- Julio Rawa Jasinski (diversi interventi personali presso il potere, compreso un ripetuto ricorso al Presidente Jorge Rafael Videla);

- Daniel Alberto Manzotti (lettera al Ministero degli Interni del 31 agosto 1977);

- Jorge Infantino (era scomparso il 22 novembre 1977, il 5 dicembre successivo Laghi portò personalmente al Generale Harguindeguy una lettera chiedendo informazioni sulla sua sorte, come consta dalla minuta protocollata n. 4563/77. Archivio della Nunziatura Apostolica);

- Jorge Bonafini (XI lista di "Desaparecidos" del 6 giugno 1977);

- Giuseppe Ugo Agosti, Francesco Host Venturi e Miguel Angel Spinella (varie pratiche personali, testimonianza offerta agli autori dal diplomatico Franco Mistretta).

Queste 23 persone, come le altre accluse nell'elenco composto dall'ambasciata italiana a Buenos Aires, scomparvero senza che fino ad oggi si sappia nulla di loro.

[5] Rapporto del Nunzio Pio Laghi al Sostituto della Segreteria di Stato, Monsignor Giuseppe Caprio, del 25febbraio 1978 (n. 605/ 78). Archivio della Nunziatura Apostolica.

[6] Copia in possesso degli autori. Vedere documento allegato.

[7] In “Nunca Mas”, op.cit., pag. 7.

[8] Testimonianza del rabbino León Klenicki in “La Nación” del 29 novembre 1998, sezione 7, pag.3.

 

[9] Nel suo libro "Le Irregolari" Buenos Aires Horror Tour, Roma, Edizioni e/o 1998, pag. 89, Massimo Carlotto racconta che una ex detenuta di Campo de Mayo, Patricia Erb, cittadina nordamericana, salvata per l 'intervento dell'ambasciata del suo Paese, ha riferito che Anna Maria Lanzillotto partorì, nonostante le torture, un bimbo robusto e sano, che non si sa dove sia finito. Della ragazza non si seppe più nulla.

[10] Vedere documento allegato. Il dottor Roballos rinnovò la sua riconoscenza al Nunzio Laghi per aver recuperato la libertà in una Lettera di Lettori pubblicata dal quotidiano "La Nación " il 13 luglio 1997.

[11] Copia in possesso degli autori. Vedere documento allegato.

[12] Copia in possesso degli autori.

[13] Copia in possesso degli autori. Vedere documento allegato.

[14] In Fermín Mignone, op.cit., pags. 33‑34

[15] Vedere "Nunca Mas" Op. cit. pag 240.

[16] C'è una lettera datata il 13 febbraio 1978 (che porta il codice DEPS EC N. 4/78) con la quale il Ministero degli Interni informa Laghi, con riferimento al suo interessamento per Dante Gullo, che quest’ultimo si trovava rinchiuso nell'Unita di Sierra Chica, sotto processo istruito dal giudice federale Jorge Luque. Nella missiva si indica a Laghi che l'interessato era "legato all'eversione, come Vostra Eccellenza Reverendissima sicuramente dovrebbe sapere" (sic).

[17] Vedere documento allegato.

[18] Vedere "Dal Silenzio', ibidem, pag.94.

[19] XI Lista di “Desaparecidos”, inviata al Ministero degli Interni il 6 giugno 1977, specificando giorno e circostanze in cui Jorge Bonafini e altre persone erano state sequestrate e chiedendo indagini per la loro individuazione. Archivio della Nunziatura Apostolica.