CAPITOLO 9

 

I "Pellegrinaggi"

 

- Monsignore, sono la persona di cui probabilmente già le hanno parlato ...

- Ah, si, aspettavo la sua chiamata, incominciavo a preoccuparmi ...

- Sa, non ho potuto mettermi in contatto prima, Lei capisce...

- Certo...

- Bene, vorrei sapere se già è stata fissata una data per il pellegrinaggio...

- Si, sarà venerdì prossimo a partire dalle 14.00. Lei deve trovarsi per quell'ora nel luogo indicato. Noi passeremo a prenderLa...

-        Grazie, Monsignore, sarò lì...

 

A partire dal 1978, conversazioni come questa vennero registrate dai servizi di spionaggio del regime militare che tenevano sotto controllo il telefono della Nunziatura Apostolica. A un capo del telefono parlavano Monsignor Laghi o uno dei suoi Segretari; all'altro estremo, un profugo della repressione. Dialogavano in cifrato, evasivamente, esprimendosi con mille precauzioni, per ingannare e disorientare gli sbirri della dittatura che, allora, sorvegliavano tutti i movimenti e i contatti della rappresentanza diplomatica vaticana.

Il Nunzio aveva già compreso che intercedere presso i capi militari per le vittime, sia mediante l'invio delle ormai consuete liste o attraverso pratiche scritte o personali, sortiva effetti limitati. Il regime era, nella gran maggioranza dei casi, assolutamente impermeabile ai suoi appelli. E' vero che aveva ottenuto alcune liberazioni restituendo così serenità e sollievo a famiglie fortemente colpite. Ma questi casi erano stati pochi. Di fronte a lui veniva innalzato sistematicamente un muro fatto di omissioni e silenzi, di alzate di spalle e gesti di indifferenza. E quando alludeva ai "desaparecidos", le risposte dei militari erano pervase da un mal celato fastidio.

 

Come si poteva osare attribuire loro la responsabilità delle sparizioni? Non erano loro, i generali, gli autentici crociati che difendevano la fede cattolica, rischiando in prima per­sona? E chi credeva di essere quel diplomatico vaticano che osava mettere il naso in cose che non erano di sua competenza?

 

Quella strada era frustrante. Il Nunzio Laghi sentiva che doveva fare di più per dare il suo contributo in favore di quell'umanità dolente e distrutta, che sfilava per il vecchio palazzetto della Avenida Alvear, donato alla Chiesa argentina da una dama patrizia, la signora Adelita Aràoz de Olmo, all'inizio del secolo. Nel suo animo capì che era arrivato il momento di impegnarsi in prima persona, affrontando anche rischi fisici per aiutare i suoi fratelli.

 

Ma subito si rese conto che non era un'impresa facile. Gli sbirri del regime lo sorvegliavano. Non c'era spostamento che, subdolamente, non venisse controllato con maggiore o minore discrezione. Molte volte, una macchina senza targa, su cui viaggiavano poliziotti in borghese, seguiva la sua, con discrezione e a prudente distanza. Non solo registravano le sue conversazioni telefoniche; arrivavano anche ad aprirgli la corrispondenza.

Sorte peggiore era riservata a coloro che si recavano in Nunziatura per esporre al Nunzio il loro dramma. Dovevano superare rigorosi ed esasperanti controlli. A molti, con le più banali delle scuse, le guardie sbarravano il passo e li obbligavano a tornare a casa. In più di un'occasione, era dovuto scendere in strada il Nunzio in persona per ottenere che venisse loro permesso di entrare, cosa che succedeva soltanto dopo una severissima e snervante supervisione dei documenti. Laghi aveva iniziato a vivere quell'esperienza in modo del tutto inusuale, sentendosi una sorta di cospiratore seguito e assediato, guardato a vista in tutti i suoi movimenti.

In questa nuova fase del suo operato, il prelato orientò i suoi sforzi umanitari in due direzioni. Da una parte, si ingegnò per fare in modo che i perseguitati potessero entrare in alcune delle poche ambasciate straniere che si mostravano disponibili ad offrire loro asilo politico. Dall'altra, mise in piedi un'autentica rete di assistenza per accompagnare e fare uscire del Paese persone "a rischio" dai due Aeroporti della città di Buenos Aires (l'Internazionale di Ezeiza, da dove partono i voli intercontinentali, e il cosiddetto 'Aeroparque", destinato ai collegamenti interni e con i paesi limitrofi).

 

Ma, quando si trattava della fuga all'estero, sorgeva frequentemente un problema in più: molte di queste persone non avevano passaporto. Per loro, ottenerlo era una impresa difficile, a volte disperata. In quell'Argentina assediata, quel documento era diventato, per molti, un sinonimo di salvezza. Consapevole di questo, Laghi si prodigò, attraverso contatti riservatissimi che aveva stabilito, affinché funzionari della Polizia Federale consegnassero, senza interporre eccessive difficoltà, i passaporti a quelle persone nei confronti delle quali non esisteva un mandato di cattura.

 

Si capisce subito che, in uno Stato poliziesco come quello, non era facile avviare questo tipo di operazioni senza suscitare i sospetti delle autorità. Laghi lo sapeva e per questo organizzò quella rete umanitaria con infinita oculatezza, coinvolgendo un numero minimo di persone. Il fatto che il telefono della Nunziatura fosse sotto controllo ("pinchado", si dice in Argentina) complicò ulteriormente le cose. Laghi venne a conoscenza di questa circostanza quando un amico gli consegnò una cassetta con le sue conversazioni. La aveva ricevuta, misteriosamente, da un anonimo membro dei servizi di spionaggio.

 

Così, uno dei problemi maggiori era comunicare con il fuggiasco senza che le autorità militari sospettassero quale fosse il vero significato della conversazione, giacché qualsiasi indizio si sarebbe tradotto, inevitabilmente, nella scoperta e nell'arresto della persona coinvolta. In seguito, avrebbe saputo che le intercettazioni telefoniche alla Nunziatura venivano fatte, a rotazione, ogni mese, dall'Esercito, Marina, Forza Aerea e Ministero degli Affari Esteri. In più di un'occasione il prelato vaticano protestò con il governo e personalmente con Videla per questo inaudito procedimento, riscontrando nel dittatore, prima, un atteggiamento di sorpresa e, poi, vaghe spiegazioni sulla dispersione dell'azione repressiva e l'autonomia con cui si destreggiavano le diverse Forze Armate. Invariabilmente, riceveva la promessa presidenziale di intervento per dare un taglio al meccanismo. Ma Videla non poté o non volle farlo mai.

 

L'unica cosa che Laghi ottenne fu quella di essere vittima di una crudele burla. Il primo giorno di ogni mese, nella Nunziatura si presentava un militare in borghese che lasciava presso la portineria del palazzo una busta chiusa indirizzata al Nunzio. Dentro, c'era una cassetta con le sue conversazioni incise. Era un modo disinvolto di rendergli noto che lo spionaggio "sapeva che lui sapeva" ma, soprattutto, che la sua indignazione e le sue proteste a nulla servivano, erano tempo perduto.

In quella situazione, Laghi comprese che per aiutare la gente doveva prendersi gioco di questi controlli e ricorrere a stratagemmi, facendo ricorso alla sua fervida fantasia. Fu così che nacquero i "pellegrinaggi", quelli che furono, alla fine, veri appuntamenti con la salvezza. In alcuni casi portarono alla libertà. In altri, aprirono porte di ambasciate e permisero a molti di ottenere il provvidenziale asilo diplomatico.

La parola chiave era "peregrinación" (pellegrinaggio), inserita in frasi evasive o in codice, con le quali si indicava l'ora e il giorno della sua realizzazione, che iniziava con l'incontro del perseguitato in un luogo scelto previamente, al quale Laghi o qualche suo collaboratore si recavano con la massima segretezza. Prelevato il fuggiasco, il traguardo successivo era la destinazione scelta per metterlo in salvo. Aeroporti e ambasciate erano le via di fuga preferite. Meno utilizzata era la fuga tramite il battello di linea che attraversava il Rio de la Plata con destinazione Montevideo, perché Laghi sapeva che le forze di sicurezza argentine e uruguayane agivano di comune intesa, come dopo avrebbero rivelato i risultati della tenebrosa "Operazione Condor".

 

I "pellegrinaggi" furono operazioni che, al principio, dovettero superare molte difficoltà, soprattutto quando a capo della loro organizzazione si trovò Monsignor Kevin Mullen, che a metà del 1976 aveva sostituito Monsignor Coveney alla Segreteria della Nunziatura. Il meccanismo sarebbe stato perfezionato e dotato di un alto livello di efficienza con l'arrivo di Monsignor Celli come nuovo Segretario della Nunziatura. Collaboravano nelle operazioni anche Monsignor Galàn, oggi Arcivescovo di La Piata, Padre Parussini, l'autista Francisco, che conduceva la vettura della Nunziatura con targa diplomatica, e alcuni civili che oggi preferiscono mantenere l'anonimato e si sono limitati a narrare agli autori questi episodi.

Monsignor Laghi contava anche, in certe occasioni, sulle informazioni che gli fornivano alcuni uomini della Forza Aerea, addetti al controllo negli aeroporti, che avevano accesso alle liste di persone ricercate dalle forze di sicurezza. Così, grazie alle loro soffiate, il Nunzio non fece correre rischi inutili a coloro che si affidavano a lui e figuravano in quegli elenchi, rimandando la fuga ad altre occasioni o cercando altre alternative. Ma ci furono situazioni nelle quali dovette agire in maniera precipitosa, quasi al buio, senza ricevere alcuna "luce verde" dagli ufficiali di fiducia. Fu quando dovette affrontare casi estremi di persone braccate, disperate, per le quali il "pellegrinaggio" non poteva attendere. E Laghi li aiutò, con animo angosciato e trepidante, anche a causa dei rischi che implicava.

 

In che modo il Nunzio Laghi e i suoi collaboratori aggiravano il controllo di frontiera? Dei diversi itinerari e destinazioni, il più delicato e compromettente conduceva all'Aeroporto Internazionale di Ezeiza. Laghi, accompagnato da qualche collaboratore e dal profugo che aveva "prelevato" in qualche punto della città, si dirigeva con la sua macchina all'aeroscalo e con passo svelto e deciso si dirigeva verso il Salone VIP Ovviamente, durante il tragitto nessuno osava intercettarlo ne domandargli chi erano le persone che lo accompagnavano. Al contrario, i militari che si accorgevano della presenza del Rappresentante Pontificio, si prodigavano in riverenze ed espressioni di assoluta disponibilità.

 

Una volta nella Sala VIP e dopo essersi seduto con il suo accompagnatore a fianco di persone assolutamente insospettabili, attendeva che l'impiegato della compagnia aerea si accostasse per richiedere i passaporti e i biglietti, cosa che sempre faceva cerimoniosamente. Quando gli era richiesta, Laghi consegnava allora la documentazione d'imbarco del fuggiasco, che andava così a confondersi con i documenti presentati dagli altri VIP in partenza.

In questo modo, si eludeva il controllo individuale e minuzioso della Polizia di Frontiera, destinato ai passeggeri della classe economica, che per la persona ricercata sarebbe stato funesto. In effetti, con quello stratagemma il passaporto sospetto finiva confuso tra quelli che avevano presentato personaggi autorevoli che non destavano alcun sospetto e, conseguentemente, erano oggetto di ispezioni sommarie e di gruppo. Recuperato il passaporto, con la provvidenziale carta d'imbarco già nelle sue mani, Laghi accompagnava il "protetto" fino al controllo dell'Ufficio Migrazioni e spesso arrivava con lui addirittura fino allo sportello del velivolo, percorrendo insieme il braccio che ad esso conduceva. Soltanto allora lo congedava con abbracci e manifestazioni di grande effusione, come se si trattasse di una persona alla quale era legato da vincoli di profonda amicizia.

 

Solo quando le ruote si staccavano dall'asfalto e la prua del velivolo puntava al nord, nella maggioranza dei casi verso l'Europa, Laghi si lasciava andare a un profondo sospiro di sollievo e, con il cuore ancora palpitante, tornava alla sua vettura per far rientro in Nunziatura. Il "pellegrinaggio" era riuscito.

Ma c'erano molte persone per le quali ottenere il passaporto era un'illusione. Bastava solo essere "sospettati di qualcosa" perché anche il fatto di recarsi in Questura per rinnovarlo si tramutasse in una trappola fatale. Questo successe al futuro Premio Nobel della Pace, Adolfo Pérez Esquivel. Andò in Questura a ritirare il suo passaporto e fu arrestato. Rimase in carcere per due anni e mezzo, senza venire mai interrogato e ignorando la causa della sua detenzione. Per questa gente c'era una unica scelta: la fuga verso i Paesi vicini, come Uru­guay e Brasile. Il Cile veniva scartato, e non solo perché lì c'era Pinochet: era in atto un duro braccio di ferro tra il suo regime e quello argentino per la contesa del Beagle, e i cileni avevano rafforzato i controlli alla frontiera..

 

Per entrare in Uruguay e in Brasile era sufficiente presentare la carta d'identità. In Argentina non c'era l'esigenza di un suo periodico rinnovo, per cui molti di questi documenti erano vecchi e notevolmente deteriorati, per cui non risultavano facilmente leggibili. Questo permetteva, in molti casi, ai loro titolari di passare inosservati. I controlli all'Aeroparque, inoltre, erano più superficiali e sommari rispetto a quelli che si facevano a Ezeiza, per i voli intercontinentali. Per queste operazioni di più corto raggio, Laghi e i suoi uomini ripetevano la prassi, accompagnando fino ad Aeroparque i presunti "pellegrini".

 

C'era anche un'altra via di fuga, quella di terra, e consisteva in un viaggio in autobus o in macchina di 1.500 chilometri, fino alla città di Puerto Iguazù, alla frontiera col Brasile. Sempre assistiti da persone di assoluta fiducia, i fuggiaschi potevano entrare in territorio brasiliano, dove potevano mettersi in contatto con centri di solidarietà che permettevano loro di ricorrere all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite o agli organismi difensori dei diritti umani che in Brasile e in Uruguay erano molto attivi, pure agendo tra mille difficoltà.

La lista di persone che fuggirono dall'Argentina ricorrendo a questi "pellegrinaggi" scrupolosamente organizzati, non è breve. "Peccato che molta gente alla quale si offrì quell'assistenza umanitaria sia reticente: emergerebbero tanti casi rivelatori di quanto fece la Nunziatura Apostolica per aiutare a salvare le vite di coloro che a essa ricorrevano", commentò Monsignor Celli a uno degli autori, in una conversazione svoltasi nel Palazzo Apostolico vaticano[1].

 

In realtà, più che di disinteresse si tratta di un riserbo che, in molte persone, è assai comprensibile. Nella maggior parte dei casi, gli scampati hanno cancellato dalle loro menti ciò che era loro accaduto, facendo calare una chiusura psicologica che, con il passare degli anni, si è resa più ermetica e inviolabile. E oggi si mostrano restii a rispolverare quelle drammatiche esperienze, con un atteggiamento di salvaguardia della propria intimità che merita il massimo rispetto. Molte volte nemmeno i familiari di quei profughi erano al corrente di come si fosse concluso il "pellegrinaggio". Per ragioni di stretta necessità, coloro che erano riusciti a scappare e a mettersi in salvo mantenevano un assoluto silenzio, omettendo qualsiasi riferimento epistolare o telefonico sul loro recapito. Ben sapevano come funzionava quello Stato poliziesco, per averlo sofferto sulla propria pelle.

 

Lo stesso Nunzio Apostolico, prima di accomiatarsi dal fuggiasco, si preoccupava di metterlo in guardia: "Non le venga in mente neanche in sogno di telefonarmi, meno ancora di scrivermi, perché ogni sorta di comunicazione verrà intercettata. Lei si raccomandi a Dio e si rifaccia una vita, che io pregherò per lei".

E così, la conferma che quei "pellegrinaggi" avevano avuto successo giungeva alla Nunziatura sotto forma di inaspettati e anonimi "regali", diretti a Laghi o a Celli. Un flacone d'acqua di Colonia proveniente da Parigi, una bottiglia di eccellente vino Chianti inviato da Milano, qualche pacchetto di aromatico caffè dal Brasile giunto da San Paolo o da Porto Alegre, erano tacite e riconoscenti testimonianze di coloro che stavano cercando di ricostruirsi una vita in esilio, lontani dalla terra d'origine e da familiari e amici, ma che non dimenticavano la solidarietà trovata in Nunziatura.

Ne sono testimonianze ricordi, oggetti, regali, lettere, aneddoti, episodi curiosi, quasi sempre pervasi da un'enorme umanità. Per esempio, Monsignor Celli conserva nel suo breviario, come "una delle immagini che, quotidianamente, mi riempiono di emozione" (sic) una sorta di santino in cui un prigioniero, su un rudimentale cartoncino, aveva disegnato con matita e carboncino il profilo di Gesù Cristo. Quando recuperò la propria libertà, lo fece arrivare alla Nunziatura come discreto e commosso segno di gratitudine per l'assistenza che questa gli aveva offerto.

 

Ci furono molte altre storie. Un'anziana signora che viveva a Caballito, un quartiere popolare di Buenos Aires e lavorava come impiegata domestica, era madre di un giovane militante del Sindacato dei Giornalai, accusato di mantenere legami con i guerriglieri delle FAP. Era riuscito a lasciare il paese via Puerto Iguazù associato a un "pellegrinaggio". Sua madre, una o due volte la settimana, si presentava alla portineria della Nunziatura e chiedeva, quasi implorante, che le lasciassero lavare e lucidare i marmi del palazzo, come ringraziamento per la salvezza di suo figlio, già allora al sicuro in Brasile. Un'altra donna, proveniente del quartiere di Lugano, lasciava tutti i giorni all'ingresso un umile mazzetto di fiori che era immancabilmente depositato ai piedi dell'immagine della Vergine di Lujàn, nella cappellina della Nunziatura.

Non mancarono casi raggelanti. Un giorno, il portiere ricevette da un anonimo passante una busta chiusa indirizzata a Monsignor Celli. Quando il prelato la aprì, vi trovò un portachiavi fatto con un osso. Glielo aveva mandato un uomo la cui moglie era scomparsa e per la quale la Nunziatura si era interessata senza alcun successo, poiché di lei non si ebbero più notizie. Dal carcere, percorrendo strade insondabili, aveva fatto giungere a suo marito quel ricordo - unico e ultimo - intagliato nell'osso che per settimane aveva messo nello squallido piatto di minestra che le porgevano i suoi carcerieri, cercando di dare al vitto un vago e improbabile sapore.

 

Una volta al mese, nella seconda classe di un treno che impiegava due giorni per arrivare alla stazione ferroviaria di Retiro, si recava nella Capitale una coppia che viveva in un paesino della provincia del Chaco, non lontano da Resistencia, a 1.200 chilometri a Nord. Venivano a visitare (o a tentare l'impresa, giacché i detenuti non potevano comunicare con l'esterno) il figlio in prigione. Durante il tragitto, il marito ebbe un attacco di cuore e morì. La moglie arrivò a Buenos Aires accompagnando la sua salma, con pochi soldi e senza sapere a chi rivolger. Qualcuno le disse di chiedere assistenza alla Nunziatura. Laghi intervenne e ottenne un permesso che all'epoca poteva considerarsi eccezionale: che si autorizzasse il detenuto ad assistere al funerale del padre. In manette e con due poliziotti in uniforme che lo controllavano, accanto alla madre in lacrime, partecipò alla cerimonia funebre. La stessa Nunziatura si fece carico di tutte le spese per garantire alla donna il ritorno, con il feretro del marito, al suo paese natio.

 

L'assistenza economica, così come l'acquisto dei biglietti aerei per i "pellegrini", erano cose che la Nunziatura doveva fare di frequente. Lo stesso succedeva con i problemi che affliggevano coloro che erano stati appena liberati e che, rilasciati nel cuore della notte, accorrevano al palazzo dell'Avenida Alvear, suonavano il campanello e chiedevano protezione. I repressori erano soliti rilasciare i detenuti per strada, poco prima dell'alba, privi di ogni cosa e quasi sempre sprovvisti di documenti, esponendoli così al rischio di finire nuovamente nelle mani di qualche pattuglia militare, poche ore dopo il loro rilascio dalla prigione. Questo, a volte, era il male minore, perché potevano avere anche la disgrazia di essere uccisi per strada come sospetti terroristi, in quanto "indocumentati".

 

Non mancarono casi comici, pur nella drammaticità della situazione. Ci fu un uomo di mezza età, accusato di connivenza con l'eversione, che finì in prigione e, non potendogli formulare accuse specifiche, i militari lo misero "a disposizione del Potere Esecutivo". Il prigioniero era sordo, invalidità a cui i suoi custodi non credevano. Perciò, continuavano a sottoporlo a ogni tipo di maltrattamenti. Sua moglie, dopo non pochi tentativi, riuscì a esporre la situazione del marito a Monsignor Laghi, chiedendogli che intercedesse affinché fosse sottoposto a visita medica per verificarne la sua sordità. Così, disse, i suoi aguzzini avrebbero messo fine alle vessazioni che gli infliggevano. Laghi chiese l'intervento del Ministero degli Interni e riuscì ad avere un permesso affinché uno specialista visitasse il prigioniero. La diagnosi confermò che la sordità era autentica. Ma la donna non si accontentò e incominciò a premere su Laghi affinché ottenesse la sua liberazione. Finalmente, gli fu concessa e, tanto Laghi come Celli, non dissimularono la loro gioia per aver potuto contribuire alla liberazione dell'uomo.

 

Ma grande fu la loro delusione quando, pochi mesi dopo, la donna -piangendo sconsolata- tornò alla Nunziatura. Gridava che "doveva" incontrare Laghi. Il Nunzio la riconobbe immediatamente e pensò al peggio. Sbagliava. La signora veniva a raccontargli, tra lacrime, che suo marito sordo l'aveva abbandonata, scappando con... una compagna di prigionia, che a sua volta era stata rimessa in libertà! Juan Feldman è oggi un settantenne che, a quei tempi, era proprietario di una splendida villa di campagna nell'esclusiva località di Don Torcuato, vicino a Buenos Aires. Era diventato amico di Laghi, che a volte accettava l'invito di passare la domenica a casa sua, per una partita a tennis o per gustare un buon piatto di

spaghetti "al dente" che il padrone di casa gli faceva preparare. Feldman ricorda che spesso il Nunzio Apostolico doveva sospendere la conversazione o interrompere la sua partita di tennis perché erano arrivati, nella macchina della Nunziatura, Padre Martìnez o altri collaboratori che volevano parlare con lui. Fuori, davanti al portone d'ingresso, quasi sempre con il motore acceso, stazionava la vettura con targa diplomatica, guidata dal fedele autista Francisco. Nel sedile posteriore, uno sconosciuto che, chiunque, avrebbe potuto considerare amico del Nunzio o del sacerdote. Non era così. Si trattava di una persona che, raccolta in un punto qualsiasi di Buenos Aires a bordo dell'auto della Nunziatura, aspettava che il Rappresentante Pontificio gli organizzasse la fuga.

Richiesto della sua presenza, Laghi si scusava con gli ospiti per affrettarsi a parlare con i visitatori. Conversavano a voce bassa per lunghi minuti. Quindi, rientrava nella villa, non senza aver detto prima a Feldman: 'Ah, caro Juan, quando si tratta di servire il prossimo, non esistono ne domenica ne giorni feriali".

 

Racconta Monsignor Laguna, attuale Vescovo di Morón: "Delle tre persone che io salvai, per nessuna di loro avrei potuto fare niente senza l'intervento di Monsignor Laghi. Due di loro, grazie al Nunzio, poterono lasciare il Paese, una con destinazione Madrid, l'altra per il Brasile. Il primo era un giovane ebreo, ingegnere, che era stato graziato dal breve governo di Héctor Camperà[2], e temeva di essere ricercato dalla Polizia. "Terrorizzato, partì da Ezeiza con un aereo della compagnia Iberia, io lo accompagnai, ma chi organizzò l'operazione fu Monsignor Laghi, grazie alle conoscenze che aveva all'aeroporto, Dio ci aiutò e tutto finì bene", ci ha raccontato Laguna.

L'altro fu un ragazzo di 18 anni proveniente dall'interno del Paese. Torturato selvaggiamente e quasi in fin di vita, lo avevano internato in un ospedale dal quale era scappato, cercando rifugio nella diocesi della città, il cui titolare era amico di Laguna: "Me lo consegnò e lo portammo da Laghi, che lo accompagnò all'Aeroparque e lo fece partire per il Brasile, utilizzando una carta d'identità molto consunta che io avevo trovato per strada, appartenente ad un altro ragazzo della stessa età. Oggi, è un professore universitario di altissimo livello e insegna alla Sorbona. Non posso divulgare i cognomi di queste due persone per salvaguardare il rispetto della "privacy" altrui"….[3].

L'altro servizio che prestava la Nunziatura era quello di favorire l'ingresso dei perseguitati in quelle ambasciate con i cui titolari Monsignor Laghi aveva stabilito una collaborazione che, in alcuni casi, si rivelò fruttuosa. Quelle che si mostravano inclini a dare asilo diplomatico alle persone che il Nunzio inviava loro erano, come già accennato, le Rappresentanze diplomatiche di Venezuela, Svezia e Messico, sebbene quest'ultima avesse una limitata possibilità d'azione, dovuto alla presenza tra le sue mura della famiglia dell'ex Presidente Campora e del suo amico e segretario, Abal Medina.

 

Possiamo raccontare almeno un caso che si risolse favorevolmente. Accadde ai tempi in cui Monsignor Laguna era Vescovo Ausiliare di San Isidro. Ricorse ai suoi buoni uffici il dottor Enrique Hermann Pfìster Frias, un giovane politico che, a soli 30 anni di età, nel 1975, era stato Ministro della Provincia di Salta, nel Nord dell'Argentina, durante il governo di Miguel Ragone. Pfìster Frias proveniva da una famiglia di antica tradizione peronista e aveva seguito il governatore Ragone nella sua breve amministrazione, che durò dal 25 maggio 1973 al 23 novembre 1974, quando la Presidente Isabel Perón commissariò la provincia, nella quale la violenza dilagava. Poche settimane dopo esser stato sollevato dal suo incarico, Ragone fu sequestrato in una strada centrale di Salta da un gruppo armato di estrema destra e scomparve, senza che si sapesse più nulla di lui. Pfister Frias, che era stato il suo collaboratore più stretto, scappò a Buenos Aires, convinto che la sua "desaparición" poteva essere questione di ore. Nella Capitale, utilizzando un nome falso, riuscì ad affittare un piccolo appartamento e, disperato, si mise in contatto con Mon-signor Laguna. Dato che la polizia lo cercava con accanimento, Laguna telefonò a Monsignor Casaretto, suo grande amico, e gli chiese che, provvisoriamente, lo nascondesse nella sua parrocchia.

 

Ecco il racconto di Monsignor Laguna: "Pfìster Frias aveva compreso che era arrivato il momento di tentare la salvezza lasciando il Paese, e così ebbe l'idea di cercare rifugio in qualche ambasciata. Io cercai di aiutarlo e mi diressi allora al Nunzio Laghi, tentando di spiegargli il caso al telefono. Mi interruppe bruscamente: "Per favore, non esser imprudente, queste cose non si risolvono per telefono, è meglio che tu e Jorge (per Casaretto) veniate in Nunziatura, anche se non so cosa potrò fare". Trovammo Laghi di pessimo umore, sicuramente perché le pressioni su di lui in quei giorni erano molto grandi. Ci ascoltò in silenzio, senza smettere di tamburellare le dita sulla scrivania, e rispose sinteticamente:

"Parlerò con l'ambasciatore del Venezuela: è un uomo di grandi qualità umane ma io non posso garantire nulla; tutte le ambasciate sono sotto rigoroso controllo e, ancor più, quella del Venezuela". E si alzò, congedandoci".

 

Continuò Monsignor Laguna: "Noi restammo lì, confusi, e io riuscì a farfugliare: "Ma Monsignore, anche se l'Ambasciatore desse il suo consenso, come lo facciamo entrare? Di queste cose noi non sappiamo nulla, è la prima volta che ci troviamo in una situazione simile". La risposta di Laghi fu tagliente, con quel tono perentorio che usava in certe occasioni: ''Ah, questo io non lo so, è un problema vostro, arrangiatevi come potete". Ma fu lui, più tardi, chi si occupò di tutti i particolari e Pfìster Frias, senza problemi, fu accolto nella legazione diplomatica".

 

In realtà, con una tempestività ed una efficienza che smentirono la sua apparente indifferenza, racconta ancora Laguna, Laghi aveva contattato l'ambasciatore Santander, lo aveva convinto della necessità di dare asilo politico al giovane fuggiasco e aveva convenuto con lui tutti i dettagli pratici, eseguiti senza alcun ripensamento. Le porte della rappresentanza venezuelana, nella centrale Avenida Santa Fé, si aprirono al momento giusto e Pfìster Frìas vi entrò. Vi rimase otto mesi come rifugiato.

Laguna riferì che la storia ebbe una conclusione simpatica perché proprio nella stessa Ambasciata sua moglie concepì un figlio con lui . Lasciò il Paese in occasione d'un viaggio che il Presidente Videla fece a Caracas. La pressione internazionale era così grande che, come prova di buona volontà, il regime decise di autorizzare la partenza di 5 o 6 persone che si erano messe in salvo nell'Ambasciata di Bue­nos Aires. Tra loro, Pfìster Frias, che oggi è un felice padre di famiglia (ha 6 figli) ed è tornato all'attività politica nella sua provincia, sempre nell'ambito del movimento peronista.

 

Dopo aver superato non poche difficoltà, lo abbiamo rintracciato telefonicamente a Salta. Ma è stato difficile avere con lui una conversazione serena, perché l'uomo continua a esser convinto che Laghi non ebbe nulla a che fare con la sua salvezza, che attribuisce unicamente a Monsignori Laguna e Casaretto. La spiegazione forse sta nel fatto che il detenuto, tornato in Argentina col ristabilimento della democrazia, non ebbe più contatti né con Laguna né con Casaretto, ed è ancora all'oscuro su come veramente andarono le cose. Malgrado il nostro racconto, continua a non credere di dovere la sua vita al provvidenziale intervento del Nunzio Laghi.

 

* * *

 

Se le cose furono difficili, divenivano maledettamente frustranti quando Laghi doveva intercedere per qualcuno dei non pochi sacerdoti che la dittatura imprigionò. Tutti questi, quasi senza eccezione, erano accusati di pronunciare omelie "in favore del comunismo" e di aver aderito alla campagna internazionale che presentava l'Argentina come un Paese dove si violavano sistematicamente i diritti umani. Quando intercedeva per loro davanti a qualche capo militare, il Rappresentante Pontifìcio doveva subire, dai suoi interlocutori, lunghe e pesanti prediche in cui si mischiavano dichiarazioni di fede cristiana con esortazioni ad agire senza pietà contro quanti, a loro parere, "cospiravano contro la società occidentale e cristiana". Lo incalzavano, con tono vagamente minatorio, a "stare attento" e a far sì che la Chiesa raddoppiasse i suoi sforzi per evitare "l'infiltrazione" di quanti, con parole e gesti, favorivano la diffusione del virus marxista.

 

Due di questi preti che i militari consideravano "sovversivi" erano Orlando Yorio e Francisco Jalics, gesuiti che vivevano

nel miserrimo quartiere del Bajo Flores, dove svolgevano la propria missione pastorale, ovviamente impegnata nella causa a favore dei più bisognosi. Furono sequestrati domenica 23 maggio 1976 mentre celebravano la messa e portati al campo di concentramento dell'ESMA, dove rimasero per tre giorni incatenati e sottoposti a durissimi interrogatori, ma, sembra, senza esser torturati. I loro carcerieri volevano informazioni sulle presunte attività sovversive di un gruppo di giovani cattolici che avevano svolto compiti di assistenza umanitaria e catechistica nel quartiere dove entrambi i preti agivano e che pochi giorni prima erano stati fatti scomparire[4]

 

La relazione "Nunca Mas" della CONADEP ha trascritto la testimonianza di padre Yorio su come si svolsero gli interrogatori. Vale la pena trascrivere alcuni brani, perché sono rivelatori del livello di pazzia raggiunto dai loro guardiani e della aberrante stoltezza con la quale interpretavano il messaggio evangelico:

 

"La persona che mi interrogava perse la pazienza e si arrabbiò dicendomi: "Lei non è un guerrigliero, non pratica la violenza, ma non si rende conto che andando a vivere lì, in mezzo ai poveri, e trasmettendo loro la sua cultura, non fa altro che spingerli verso il terrorismo e l'eversione. (...) Il giorno dopo, tornò un altro carceriere, che nel suo interrogatorio mi aveva trattato con rispetto, e mi disse: "Lei è un sacerdote idealista, sveglio, un mistico direi, che ha commesso un solo errore: ha interpretato troppo materialmente la dottrina di Cristo (...) Cristo parla dei poveri, ma allude ai poveri di spirito e Lei ha dato un'interpretazione materialista, andando a vivere di fatto con i poveri e dando loro la sua assistenza. In Argentina i poveri di spirito sono i ricchi e Lei, d'ora in avanti, dovrà aiutare loro, che sono spiritualmente i più bisognosi" ... (sic)[5].

 

Dall'ESMA i due religiosi furono trasferiti in una casa situata a Don Torcuato, dove rimasero prigionieri cinque mesi. In questo periodo di tempo, tanto l'Arcivescovato di Buenos Aires come la Nunziatura Apostolica si adoperarono per localizzarli, mentre le autorità negavano la loro detenzione, innescando il ben noto "balletto" di responsabilità che sempre svaniva nel nulla.

Finalmente, il 23 settembre, dopo esser stati anestetizzati e collocati su un elicottero, furono abbandonati in un campo aperto, vicino a Canuelas, un paesino lontano qualche centinaia di chilometri da Buenos Aires. Dopo parecchie vicissitudini, riuscirono a espatriare. Monsignor Casaretto, nella conversazione con uno degli autori a cui abbiamo già accennato, sostenne che nella loro partenza Laghi ebbe un ruolo importante: "Non che me lo abbia raccontato direttamente, lo seppi per altre vie, ma sono sicuro che fu così"[6].

 

Il ruolo del Nunzio Laghi fu spiegato a uno degli autori dal medesimo padre Yorio. Sprovvisti di documenti come si trovavano al momento del rilascio, i due gesuiti avevano cercato di mettersi al sicuro, ma Yorio venne a sapere che il presidente Videla aveva ordinato che fossero di nuovo arrestati. Allora ricorse al Provinciale dei Gesuiti, Jorge Bergoglio, attuale Arcivescovo di Buenos Aires, affinchè inoltrasse una domanda di asilo politico alla Nunziatura Apostolica.

 

La risposta di Laghi al Provinciale fu negativa[7], ma si offrì di aiutare i due gesuiti a lasciare il Paese. La loro situazione era paradossale: erano stati sequestrati da cinque mesi ma, siccome non esisteva contro di loro nessuna accusa ufficiale, non figuravano in alcun elenco di ricercati. Per questa ragione, non c'era nessun impedimento affinché avessero i loro passaporti. E in questa direzione Laghi indirizzò i suoi buoni uffici. Incaricò il suo Segretario, Monsignor Mullen, di accompagnare Yorio all'ufficio della Questura dove rilasciavano i documenti di espatrio. In un primo momento Monsignor Mullen, al quale si era aggiunto il segretario privato di Monsignor Bergoglio, si imbatté nella reticenza dei funzionari, che evidentemente avevano delle perplessità di fronte a Yorio.

Informato, Laghi fece altre sollecitazioni, compreso un ricorso al cappellano della Polizia Federale e poi ad alcuni ufficiali. Finalmente, dopo altre peripezie, ottenne la consegna dei passaporti ed entrambi i gesuiti poterono espatriare. Di padre Jalics (di origine ungherese ) l'ultima traccia che si ha è il suo ingresso nella Compagnia di Gesù in Germania, mentre Yorio appariva, all'inizio del 1999, come appartenente alla Diocesi argentina di Quilmes.

 

Una strada diversa, perché il religioso di cui parleremo passò ad integrare il nutrito elenco dei "desaparecidos", fu quella percorsa da Jorge Oscar Adur, un sacerdote dell'Assunzione, parroco di Nostra Signora dell'Unità, de La Lucila, che viveva con tre seminaristi in una casa molto povera del quartiere La Manuelita.

 

Secondo testimonianze che hanno richiesto l'anonimato, Adur quando seppe che uomini dell'ESMA lo cercavano, trovò rifugio nel monastero benedettino di Los Toldos. Da lì chiese la protezione di Laghi che, nel 1976, riuscì a fargli abbandonare il Paese attraverso l'aeroporto di Ezeiza, dove lo condusse personalmente, nascosto nella sua macchina protetta dall'immunità diplomatica. Adur potè così espatriare in Brasile ma, appena giunto, commise una follia: si fece fotografare con indosso una presunta uniforme di cappellano dell'organizzazione armata "Montoneros". Quando gliene chiesero spiegazione, rispose: "Così come esistono cappellani delle Forze Armate, io sono cappellano dei montoneros". Fu sequestrato nel luglio del 1980, a pochi giorni dalla visita di Giovanni Paolo II in Brasile, e a nulla servì che il suo caso fosse denunciato dalla Conferenza Episcopale Brasiliana. Di lui non si seppe più nulla.

 

Ci sono altri casi di sacerdoti che hanno potuto abbandonare il Paese grazie all'intervento del diplomatico vaticano, come quelli di padre Alcides Suppo e di un sacerdote di Reconquista, Rafael lacuzzi. Non è chiaro, invece, quanto influirono le pressanti richieste che Laghi fece per un altro religioso, il sacerdote nordamericano James Weeks, sequestrato con altri cinque seminaristi di Córdoba, il 3 agosto 1976, ed espulso dall'Argentina più di un anno dopo.

 

Tutt'altra fine fece Jorge Galli, sacerdote sequestrato nel novembre 1976 nella città di San Nicolàs. Per lui il Rappresentante Pontifìcio fece diverse richieste. Il suo nome si trova nelle due liste di "desaparecidos" che il Nunzio mandò al Ministero degli Interni l'11 febbraio e il 6 aprile dell'anno successivo. Il suo caso era stato presentato a Laghi da Monsignor De Nevares in occasione della visita che il Presule aveva fatto a Buenos Aires (era Vescovo della lontana Diocesi patagonica di Neuquén) a gennaio.

 

De Nevares è, sicuramente, il Vescovo argentino che -rimanendo fedele ai dettami evangelici- corse i rischi più grandi dovuti al suo ruolo di presidente onorario dell'Assemblea Permanente per i Diritti dell'Uomo (APDH) che agiva nella clandestinità. E fu lui il Vescovo che con maggiore determinazione difese Laghi quando cominciarono ad affiorare le calunnie e le imputazioni contro il suo operato in Argentina. In una dichiarazione che rese pubblica il 24 settembre 1984[8] ricordò che quando gli presentò il caso del prete scomparso Laghi "promise di occuparsene, cosa che fece, ma qualche settimana dopo mi disse che, purtroppo, era giunto alla conclusione che doveva esser morto, perché le sue ricerche erano risultate vane". E aggiunse: "Nessuno può accusare Laghi di rimanere indifferente di fronte alle sofferenze dei perseguitati".

 

* * *

 

II 1978 segnò un punto di svolta per il problema dei "desaparecidos", che perse d'interesse a causa della contesa tra Argentina e Cile per il Canale di Beagle. I due regimi dittatoriali erano disposti a dirimere la questione anche al prezzo di una folle guerra. L'Episcopato argentino si adattò a questa nuova atmosfera: nei suoi documenti non si parla più degli scomparsi e si fa riferimento ad altre questioni più "incalzanti", come la riconciliazione, il ritorno alla pace e anche... il Mondiale di Calcio che quell'anno si doveva giocare in Argentina.

 

Per Laghi, questo minore interesse per la questione era una complicazione in più. Adoperarsi per detenuti e "desaparecidos", con un regime che aveva la testa altrove, faceva diventare il suo operato ancora più arduo.

In vaticano, intanto, si registrava la tendenza opposta. Crescevano l'interesse e il turbamento che il problema provocava, dovuti anche alle denunce e alle richieste di intervento dei familiari delle vittime, ogni volta più frequenti e numerose. Questo si tradusse in un aumento della sensibilità della Santa Sede. I programmi della Radio Vaticana accennavano quasi tutti i giorni alla situazione argentina e denunciavano gli abusi della dittatura militare. Già si è parlato del goffo tentativo di Monsignor Bozzoli di farla tacere. Incominciavano a profilarsi nette differenze tra come la Santa Sede considerava l'argomento e come, invece, continuava a valutarlo il vertice dell'Episcopato argentino.

 

Sull'ambiguità di questa situazione, che condizionò permanentemente l'azione del Nunzio Laghi, c'è un caso emblematico, che merita di esser approfondito. E' quello della proposta che fece, per la Pasqua del 1978, Monsignor Luigi Bettazzi, Vescovo della Diocesi di Ivrea, a favore della creazione in Argentina di un "Vicariato della Solidarietà", che avrebbe convogliato tutte le denunce sulle scomparse e le violazioni dei diritti umani e potuto svolgere un ruolo importante per frenare gli abusi. Un organismo di questo tipo, per iniziativa dell'Arcivescovo di Santiago, era già stato istituito in Cile e aveva riportato un certo successo.

Monsignor Bettazzi era Presidente di "Pax Christi Internazionale" e l'idea gli era stata suggerita dai "Fratellini del Vangelo" che erano riusciti a fuggire dall'Argentina. In Europa, avevano trovato il deciso appoggio dell’"Association Internationale Charles de Foucauid"[9], che aveva inviato una lettera in lingua francese al Papa Giovanni Paolo II, appoggiando l'iniziativa di Monsignor Bettazzi. Vale la pena trascriverla, perché riflette la profonda disperazione che invadeva i suoi componenti per il destino dei fratelli argentini. Diceva: "L'estremo pericolo che corrono attualmente in quel Paese migliaia di persone, che vengono fatte prigioniere e minacciate di morte senza alcun elemento di prova, ci spaventa e ci desta un maggiore orrore perché queste estorsioni sono presentate come necessario per la sopravvivenza del mondo occidentale e cristiano". Continuava: "Coscienti della nostra impotenza, ci dirigiamo a Sua Santità in cui riponiamo le nostre speranze, perché sappiamo che solo la potenza e l'autorità spirituali di cui Vostra Santità dispone possono far sì che in Argentina cessino la tortura e la morte".

E concludeva con una durissima critica al vertice della CEA: Aderiamo totalmente alla richiesta dei nostri fratelli argentini in esilio e ci impegniamo a lavorare tra i cristiani affinché offrano il sostegno spirituale e materiale a questo organismo che dovrebbe esser creato" (...). I numerosi contatti che abbiamo con il mondo non ci fanno sopportare il silenzio crudele della gerarchia argentina. Per questo, Santità, La supplichiamo che dia ai nostri fratelli sofferenti il "segnale" che aspettano per ravvivare le loro speranze".

 

Pochi giorni dopo (il 25 aprile) si riuniva a Ivrea il Consiglio Direttivo di "Pax Christi" e appoggiava calorosamente l'iniziativa del suo Presidente. Firmarono i vice Presidenti, Monsignori Th.Gumbleton e il dottor M.A. Lucker, e tutti i mèmbri, tra cui i Monsignori O'Mahony e Van Keulen. "Pax Christi" indirizzò la proposta al Consiglio per gli Affari Pubblici della Segreteria di Stato, allora sotto la conduzione del futuro Cardinale Casaroli, che la inviò tramite la Nunziatura Apostolica di Buenos Aires alla Conferenza Episcopale Ar­gentina, con l'espressa richiesta che questa la analizzasse ed esprimesse la sua opinione sulla costituzione del Vicariato.

 

La CEA si oppose e ne diede comunicazione al Nunzio, che a sua volta trasmise la decisione alla Segreteria di Stato. Il 6 settembre 1978[10] il Sostituto della Segreteria, Monsignor Caprio, informò Monsignor Bettazzi che, per l'opposizione della Conferenza Episcopale Argentina, "non si considera opportuna la realizzazione di tale proposta".

La questione riacquistò attualità quando, a metà del 1997 e nel momento culminante degli attacchi che il Cardinale Laghi riceveva per il suo operato in Argentina, Monsignor Bettazzi inviò al porporato una lettera di amichevole solidarietà. Iniziava alludendo a una riflessione che gli aveva formulato un altro Rappresentante Pontifìcio accreditato in America Centrale sulle difficoltà che i Nunzi devono affrontare in Paesi "a rischio" e che, nel caso di Laghi, aveva un valore confortante: "II primo dovere è non farsi cacciare, perché, in tal caso, non potremmo più intervenire"[11].

Nella lettera c'è un passaggio significativo, che assomiglia a un' autocritica e dà la sensazione di un vago pentimento: "Le scrivo per dirle che ho sollecitato "Pax Christi" affinché sospenda temporaneamente alcune iniziative inerenti al comportamento della Chiesa in Argentina, anche in risposta alla lunga perseveranza delle Madri di Plaza de Mayo, che "Pax Christi", d'altro canto, ha "sponsorizzato" nella Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, a Ginevra". In altri termini, si avverte un' implicita delusione di Monsignor Bettazzi per l'operato delle Madri di Plaza de Mayo, che poche settimane prima avevano denunciato Laghi alla magistratura italiana come "complice della repressione". La lettera concludeva domandando a Laghi se fossero in suo possesso maggiori informazioni sulle ragioni che fecero sì che la iniziativa formulata da "Pax Christi" due decenni prima non avesse avuto successo./ Il Cardinale Laghi rispose tre giorni dopo, il 5 giugno. Dopo aver spiegato quanto già noto (che il veto alla creazione a Buenos Aires del Vicariato della Solidarietà era partito dalla Conferenza Episcopale Argentina e che, di conseguenza, la Segreteria di Stato aveva deciso di bloccarne la creazione), ricordava l'appoggio che egli, personalmente, aveva dato all'iniziativa quando ne aveva informato la CEA. "Se ben ricordo, dissi che sarebbe stata una cosa buona", scriveva Laghi.

 

Ma questo appoggio non aveva influito sulla negativa decisione finale. La lettera finiva ricordando a Monsignor Bettazzi che allora (1978) il Presidente della CEA era il Cardinale Primatesta, il Vicario Castrense Monsignor Tortolo e il Pro Vicario Monsignor Bonamìn. A questi due ultimi, Laghi si riferisce con poche parole, tinte di amarezza e rafforzate con opportuni segni di esclamazione: "Di ambedue (Tortolo e Bonamìn) avrà certamente sentito parlare e avrà conosciuto quale era la loro posizione!" (sic)[12].

 

Crediamo che quella fu, purtroppo, una nuova occasione, alla fine andata persa, perché l'Episcopato argentino prendesse con chiarezza le distanze dal regime militare. La creazione del Vicariato avrebbe attivato un organismo ufficiale che, alla luce del sole, si sarebbe occupato pubblicamente delle denunce su detenuti e "desaparecidos", abusi, torture e tutte le aberrazioni che la gente intendesse denunciare.

 

Avrebbe sostituito quello che, al margine della sua funzione specifica e con tutti i limiti che questa imponeva, la Nunziatura cercava di fare, nell'ambito di un'anomalia istituzionale che a nessuno sfugge.

 

Fu un grave errore. Un equivoco che forse si sarebbe potuto evitare se il Cardinale Juan Carlos Aramburu, come Primate argentino, avesse imitato il suo omologo cileno, Cardinale Silva Henriquez, uomo di grande apertura mentale che si schierò senza esitazioni contro gli abusi del regime del generale Augusto Pinochet. Silva Henriquez era cosciente che l'Episcopato cileno molto probabilmente non avrebbe approvato la creazione di un Vicariato di questo tipo a San­tiago, perché nel suo seno c'era una forte tendenza ad appoggiare il regime golpista. Ma agì per proprio conto. E con quel gesto coraggioso e previdente, diede al clero del suo Paese un contributo inestimabile, proteggendolo anticipatamente da eventuali critiche relative al suo ruolo durante la dittatura di Pinochet.

 

Oggi i risultati sono evidenti. In effetti, chi polemizza in Cile sul ruolo che il suo Episcopato ebbe durante gli anni della dittatura militare? Assolutamente nessuno. Invece, è opinione comune che l'Episcopato argentino non sia stato all'altezza delle circostanze. Il suo vertice non si rese conto delle possibilità che quella proposta gli apriva. Preferì mantenersi nella sua già insostenibile posizione, commettendo un nuovo e pesante sbaglio. Laghi cercò di evitarlo, ma nessuno gli diede ascolto. Un'occasione in più per alleviare il calvario di tanti sofferenti era andata smarrita.

 

Come tale la ricorda oggi Monsignor Bettazzi, vent'anni dopo: "L'esperienza del Cile ci era sembrata molto positiva, perché aveva garantito un freno alle violazioni dei diritti umani. Il riscontro negativo che arrivò da Buenos Aires alla Segreteria di Stato, che capimmo subito come frutto della posizione dell'Episcopato, ci lasciò amareggiati e sconcertati allo stesso tempo perché convinti che si stava commettendo un madornale errore" [13].

 

Amareggiato e sconcertato: così rimase il Vescovo di Ivrea. Ma non sorpreso... "No, sorpreso no, perché già alcuni esponenti del clero argentino mi avevano espresso il convincimento che, se si creava il Vicariato, si faceva un favore al comunismo" (sic).

 



[1] Conversazione di Monsignor Celli con uno degli autori, nel Palazzo Apostolico vaticano. Non esiste nastro registrato.

[2] I militari, al potere dal 1966, indissero le elezioni generali per I'11 marzo 1973, escludendo come candidato presidenziale al Generale Juan Domingo Perón, esiliato a Madrid. Dovendo prescindere dal suo leader, il giustizialismo presentò come candidato Héctor Càmpora, che ottenne il 50 per cento dei voti.

Ma il neo Presidente impresse un forte orientamento di sinistra al suo governo e, dopo soli 46 giorni, cadde in disgrazia con Perón -che era rientrato in Argentina- e dovette dimettersi. Furono indette nuove elezioni per il 23 settembre, nelle quali la for­mula composta da Perón e la sua terza moglie, Isabelita, ottenne una maggioranza schiacciante: la votò il 63 per cento degli argentini.

[3] Nastro registrato in possesso degli autori.

[4] Cfr. Capitolo 4, "II Massacro dei Pallottini".

[5] Vedere "NuncaMàs". Op.cit., pag. 355-56.

[6] Nastro registrato in possesso degli autori.

[7] Abbiamo chiesto informazioni al Cardinale Laghi circa quell'episodio. La sua risposta fu la seguente: "L'asilo politico non è materia di negoziato.

[8] Vedere "Clarin", 24 settembre 1984, Rag. 2.

[9] Emilio Fermin Mignone sbaglia quando nel suo libro già citato "Les Disparus d'Argentine" (pag.163) sostiene che l'idea di creare il Vicariato della Solidarietà in Argentina fu di Monsignor Jaime De Nevares, che la presentò formalmente all'Assemblea Episcopale, e fu poi respinta a maggioranza dai voti dei Vescovi argentini.

[10] Lettera n.225 del 6 settembre 1978 inviata a Monsignor Luigi Bettazzi, Vescovo di Ivrea, dal Sostituto della Segreteria di Stato, Mon signor Giuseppe Caprio.

[11] Lettera di Monsignor Bettazzi al Cardinal Pio Laghi del 2 giugno 1997. Copia in possesso degli autori.

[12] Lettera del Cardinal Pio Laghi a Monsignor Bettazzi del 5 giugno 1997. Copia in possesso degli autori.

[13] Intervista telefonica a Monsignor Bettazzi. Il nastro registrato è in possesso degli autori.