LE TRADIZIONI LITURGICHE

DELL’ORIENTE E DELL’OCCIDENTE

 

Non solo gli avvenimenti ecclesiali, ma anche quelli politici, geografici, linguistici, hanno influito sullo sviluppo della liturgia. L’unità della Chiesa, garantita anche dall’unità politica dell’Impero sotto Costantino, subì una prima frattura con la divisione dell’Impero alla morte di Teodosio (395):

8L’Impero Romano d’Oriente, con sede a Costantinopoli, espresse la fede apostolica sancita dai grandi concili ecumenici (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia);[1] dal VII al XII secolo, sotto la pressione dell’Islam, subì un lento declino fino alla sua definitiva scomparsa nel 1453.

8L’Impero Romano d’Occidente, con sede a Ravenna, sopravvisse ben poco perché, sotto la spinta delle invasioni barbariche, fu estinto dal re germanico Odoacre nel 476. Nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, la Chiesa di Roma resta la sola struttura sociale e politica capace di sopravvivere. I Vescovi prendono in mano i poteri pubblici inesistenti. I Pontefici, come Gregorio Magno, intraprendono una forte azione evangelizzatrice delle popolazioni barbariche del nord, soprattutto della Gran Bretagna. Clodoveo, re dei Franchi, si converte al cattolicesimo e organizza le missioni verso l’Est dell’Europa, in particolare verso i Germani che, convertiti al cristianesimo dal goto Ulfila, erano però seguaci dell’eresia ariana.[2] Solo con l’Impero di Carlo Magno l’Occidente trova una sua unità politica e religiosa con notevoli ripercussioni anche sulla formazione di una liturgia comune.

Ebbene, proprio a motivo di queste differenze politiche, geografiche, e soprattutto linguistiche, si svilupparono ben presto, in Oriente e in Occidente, una serie di famiglie liturgiche che ora cercheremo di descrivere per sommi capi, ben sapendo della complessità della loro origine, sviluppi, interrelazioni.

Ci muoveremo ricordando il canone 6 del Concilio di Nicea (325) che affermava l’equiparazione spirituale dei quattro patriarcati apostolico-petrini: Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e Roma. Ben presto queste sedi diventarono centro di famiglie liturgiche ben caratterizzate, con una organizzazione liturgica che si stabilizza mediante la formulazione di preghiere e riti.

 

I.                   Le liturgie Orientali.

Si raggruppano attorno ai due principali patriarcati: quello di Antiochia e quello di Alessandria.[3]

1.1.               La famiglia antiochena.

Il patriarcato di Antiochia è il centro più antico e culturalmente predominante tra i patriarcati orientali.[4] In campo liturgico influì notevolmente su Costantinopoli, capitale dell’Impero, la «Nuova Roma», soprattutto durante l’episcopato di S. Giovanni Crisostomo (397-404). Antiochia estese la sua influenza anche verso Est, verso la Siria, dove la cultura e le lingue semite avevano conservato una loro identità resistendo all’influenza ellenistica. All’interno della tradizione antiochena si svilupparono, pertanto, due gruppi liturgici: verso oriente il siro-orientale e sulla costa mediterranea il siro-occidentale (sotto l’influenza greca di Costantinopoli).

1.1.1.         Il gruppo siro-orientale.

Si sviluppò nei territori dell’altopiano mesopotamico, dove ancora si conservavano le antiche culture semitiche non influenzate dall’ellenismo proveniente da Costantinopoli. A motivo di una certa ostilità politica verso Bisanzio (da cui bizantini), e per la difficoltà di comunicazione con la cultura ellenistica, non accettarono le risoluzioni del concilio di Efeso (431) e di Calcedonia (451) e rimasero prevalentemente sotto l’influenza di Nestorio e di Teodoro di Mopsuestia; esprimono quindi una teologia nestoriana.[5]

I riti più significativi di questo gruppo sono:

a.       Il rito siro-caldeo. E’ la più arcaica delle tradizioni liturgiche cristiane ed ancora oggi ha una liturgia in lingua aramaica. Si sviluppò all’interno dell’Impero persiano e poi nel califfato di Bagdad (attuale Iraq). L’anafora eucaristica degli apostoli Addai e Mari è molto vicina alle berakot giudaiche per la benedizione della mensa.[6] Per l’ufficiatura si avvale delle composizioni di S. Efrem il Siro. In Iraq esiste una forte comunità cattolica di rito caldeo.

b.       Il rito siro-malabarico. Attraverso la via della seta, la liturgia siro-caldea si diffuse verso oriente fino alla Cina e all’India del sud (Kerala), dove si venera la tomba di S. Tommaso Apostolo. Con la conquista portoghese del sec. XVI questa liturgia subì una forte latinizzazione. Una parte di questi cristiani si staccò da Roma e col nome di Malankaresi, con un prioprio rito, aderì al patriarcato siro-antiocheno. Pio XI nel 1934 permise ai cattolici Malabaresi il ripristino dell’antico rito caldeo.

 

 

 

 

1.1.2.         Il gruppo siro-occidentale.

Il gruppo liturgico siro-occidentale, anch’esso legato alla matrice liturgica antiochena, è caratterizzato da uno sviluppo molto grande della poesia liturgica in cui si esprime tutta la teologia. Le espressioni più diffuse di questo gruppo sono:

a.        il rito bizantino, così chiamato perché sviluppatosi soprattutto nella città imperiale di Bisanzio (Costantinopoli). E’ il rito più diffuso e rappresentativo dell’Oriente cristiano, comune a milioni di fedeli, soprattutto Ortodossi, ma anche Cattolici.[7] Questa liturgia si esprime attraverso l’anafora di s. Giovanni Crisostomo (nelle domeniche di quaresima e in alcune grandi vigilie si recita l’anafora di s. Basilio). La lingua originale è il greco (antico); i libri liturgici sono però tradotti anche nelle lingue moderne: in slavo al tempo della conversione della Russia,[8] poi in Romeno, in Serbo, in arabo, ecc. e oggi anche nelle lingue moderne. L’espansione di questa liturgia nel mondo slavo si deve soprattutto alla missione dei santi Cirillo e Metodio. La «divina liturgia», che si svolge dietro una «iconostasi», è concepita come «la venuta del cielo sulla terra» ed una anticipazione della parusìa.

b.       Il rito “giacobita”. Dal nucleo liturgico bizantino-greco si staccò nel VI secolo la liturgia giacobita;[9] essa tradusse la liturgia bizantina in siriaco (oggi si usa ampiamente anche l’arabo). Questo rito si caratterizza per l’ampiezza degli elementi gestuali e poetici (composizioni attribuite a S. Efrem il Siro). Tutt’oggi fa uso di una ventina di anafore.

c.        Il rito maronita. Sorge tra le comunità monastiche della Siria centrale, nella valle dell’Oronte, e si ispira alla figura di un asceta del V secolo, Mar Maron. Non accettarono la bizantinizzazione e si dovettero rifugiare sui monti del Libano. Nel 1215 sancirono l’unione con la Chiesa di Roma professando la fede cattolica. Nel XVIII secolo questo rito subì infelici latinizzazioni. Oggi la lingua più usata è l’arabo e fa uso di circa quindici anafore.

d.       Il rito armeno. Ha origini molto antiche, all’inizio del IV secolo, con una lingua propria. Nel medioevo ci furono tentativi di unione con Bisanzio e con Roma (da qui una certa contaminazione bizantina e latina dei riti, che si caratterizzano tuttavia per magnificenza di apparato e finezza di esecuzione). La musica è tra le più affascinanti dell’Oriente, dove traspare la nobile melanconia di un popolo che ha incredibilmente sofferto.

 

 

1.2.            La famiglia alessandrina.

I cristiani del patriarcato di Alessandria rifiutarono la maggior parte delle definizioni del concilio di Calcedonia (451) e costituirono, come ad Antiochia, una Chiesa monofisita che conserverà il rito primitivo di Alessandria, per molti aspetti più vicino a Roma che a Bisanzio.

Attualmente si esprime in due riti principali:

a.       Il rito copto.[10] Originariamente si esprimeva in greco (Anafora di s. Marco), ma dal secolo IX utilizza l’antica lingua egiziana, dando molto spazio all’arabo. L’anafora più diffusa è quella copta di s. Basilio (un’altra di s. Gregorio di Nazianzo si usa solo nelle feste grandi del Signore).

b.      Il rito etiopico. Nato da un ceppo misto alessandrino-siriaco-gerosolimitano, è squisitamente popolare e africano (uso del tamburo e della danza; si circoncidono i bambini prima del battesimo). Si deve probabilmente a questa sua forte inculturazione la sua sopravvivenza in mezzo a pressioni islamiche. Fa uso di circa 14 anafore (due di esse sono mariane, una delle quali inizia con le parole dolce profumo).[11]

 

II.                Le liturgie occidentali.

Presso le tombe degli apostoli Pietro e Paolo e dei martiri, la sede patriarcale di Roma fu il principale centro di irradiazione del cristianesimo in occidente. La liturgia romana, nonostante il suo forte influsso in tutto l’occidente, non fu tuttavia l’unica espressione del culto cristiano. Come già si è visto per l’oriente, anche in occidente sorsero ben presto differenti manifestazioni liturgiche dovute alla diversità di situazioni storico-geografiche in cui vennero a trovarsi le varie comunità cristiane. A Milano si stabilizzò una liturgia ambrosiana, nelle Gallie una liturgia gallicana, in Spagna una liturgia ispanica. Non mancarono altre forme minori di espressione liturgica.

 

2.1.               Il rito romano.

La prima comunità cristiana di Roma si organizzò liturgicamente attorno al suo vescovo, il successore di Pietro. L’espressione linguistica di questa prima comunità fu il greco, almeno fino alla metà del IV secolo; come pure fu scritto in greco il più completo e valido documento liturgico della Chiesa cristiana del III secolo, la Apostoliché parádosis (Traditio apostolica) attribuita al presbitero romano Ippolito.

Per motivi pastorali e spirituali (per essere vero dialogo con Dio, è necessario che l’orante comprenda quello che prega: cf 1 Cor 14,9-19), nel giro di 50 anni la liturgia romana passò dal greco al latino, non senza difficoltà e resistenze.

Durante il IV-VI secolo si formò un nucleo di preghiere liturgiche romane caratterizzate dalla lingua cultuale dei romani: brevità, incisività, chiarezza, austerità; il linguaggio è conciso, obiettivo e quasi giuridico, che rifiuta ogni caratterizzazione poetica e sentimentale del rito. Queste preghiere furono codificate nei libri liturgici come i Sacramentari e gli Ordines Romani (ne parleremo nel prossimo articolo).

Ben presto la liturgia di Roma si estese con grande accoglienza in tutte le altre Chiese d’Italia, salvo che a Milano dove, con s. Ambrogio, prende corpo una liturgia ambrosiana. Al di là delle Alpi erano sorte nelle varie Chiese locali espressioni liturgiche proprie, con forte presenza della matrice romana. Solo al tempo di Carlo Magno (IX secolo) ci fu una imposizione della liturgia romana in tutto l’impero fino a soppiantare le liturgie locali. Questa esportazione oltralpe non fu però indolore: a contatto con le liturgie locali (franco-gallicana, germanica) la liturgia romana si mescolò con elementi che le erano estranei.

L’unica prece eucaristica della liturgia romana, il Canone romano, resterà in vigore fino al 1968, quando furono introdotte altre tre Preci eucaristiche.

La liturgia romana si estese anche alle Chiese del nord Africa, le quali tuttavia conservarono un certo margine di autonomia e creatività. S. Agostino ci dice che ogni vescovo poteva comporre testi propri; prima però doveva farli esaminare da confratelli competenti.

Con la scoperta delle terre del nuovo Mondo e con le Missioni in Asia e Africa, la liturgia romana è stata l’espressione comune dell’unità di fede dei Cattolici.

 

2.2.               Il rito ambrosiano.

Dal secolo VIII fu fatto risalire a s. Ambrogio (374-397) e perciò fu detto rito ambrosiano. Dallo stesso s. Ambrogio sappiamo che egli, pur desideroso di seguire sostanzialmente la liturgia del vescovo di Roma, amava tuttavia una certa libertà di scelta tra altre fonti liturgiche legittime. Pertanto, attorno al nucleo della liturgia romana, vi sono nel rito ambrosiano molti elementi propri, sia per la Messa che per l’Ufficio e il Rituale. Risente di influssi provenienti dall’oriente, come pure dalla Gallia e dalla Spagna. Ponendosi come baluardo contro l’arianesimo, è una liturgia fortemente cristocentrica che accentua l’Umanità-Divinità di Cristo. E’ l’unica liturgia occidentale che sopravvisse lungo i secoli ai vari tentativi di soppressione o assimilazione. Dopo il Vaticano II sono stati riformati, anche nella liturgia ambrosiana, tutti i libri liturgici.

 

2.3.               Il rito gallicano.

Sorge verso il VI secolo nel sud della Gallia, quale espressione di quella autonomia e creatività ecclesiale che caratterizza le comunità ecclesiali di quell’epoca. Le composizioni liturgiche gallicane sono più sciolte e meno dense di quelle romane, a discapito tuttavia della essenzialità espressiva e di quella stretta componente trinitaria che caratterizza invece la liturgia romana (come pure le liturgia della tradizione orientale).

Non sopravvisse all’adozione del rito romano da parte di Carlomagno; probabilmente non tanto a motivo di una imposizione, quanto piuttosto per la sua stessa debolezza. Le principali espressioni della liturgia gallicana sono il Messale Gothicum e il Messale Bobbiense che si possono datare, nella loro fase conclusiva, all’VIII secolo.

 

2.4.               Il rito ispanico.

Si sviluppò in Spagna a partire dal VI secolo. Ebbe la sua massima estensione durante il regno dei Visigoti (sec. VII): da qui anche il nome di liturgia visigotica o mozarabica.[12] Era celebrato in tutta la penisola iberica e nella zona dei Pirenei orientali. Rimase in vigore fino alla sua soppressione ad opera di Gregorio VII (1073-1085); solo a Toledo continuò ad essere celebrato, tanto che alla fine del sec. XV l’arcivescovo di Toledo, il Card. Ximenes de Cisneros, ordinò l’edizione dei due principali libri liturgici: il Messale e il Breviario. Ancora oggi, nella cattedrale di Toledo, ogni giorno si celebra l’Ufficio e la Messa secondo il rito mozarabico.

 

Conclusione.

Nel presentare i vari riti cristiani dell’Oriente e dell’Occidente, abbiamo avuto come guida alcuni passaggi del Vaticano II, da tener presenti:

8Sacrosanctum Concilium: «Il sacrosanto concilio, in fedele obbedienza alla tradizione, dichiara che la santa madre Chiesa considera di uguale diritto e con pari onore tutti i riti legittimamente riconosciuti, e vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati, e desidera che, ove sia necessario, vengano prudentemente riveduti in modo integrale nello spirito della sana tradizione e venga dato loro nuovo vigore secondo le circostanze e le necessità del nostro tempo» (SC 4);

8Unitatis redintegratio: «Tutti sappiano che il conoscere, venerare, conservare e sostenere il ricchissimo patrimonio liturgico e spirituale degli Orientali è di somma importanza per custodire fedelmente la pienezza della tradizione cristiana e per attuare la riconciliazione dei Cristiani d’Oriente e d’Occidente» (UR 15).

8Orientalim Ecclesiarum: «La Chiesa santa e cattolica, che è il corpo mistico di Cristo, si compone di fedeli, che sono organicamente uniti nello Spirito Santo dalla stessa fede, dagli stessi sacramenti e dallo stesso governo e che unendosi in vari gruppi, congiunti dalla gerarchia, costituiscono le chiese particolari o riti. Tra loro vige una mirabile comunione, di modo che la varietà nella Chiesa non solo non nuoce alla sua unità, ma, anzi, la manifesta; è infatti volontà della Chiesa cattolica che in futuro rimangano salve e integre le tradizioni di ogni Chiesa particolare o rito, e ugualmente essa vuole adattare il suo stile di governo alle varie necessità dei tempi e dei luoghi» (OE 2); «Queste Chiese particolari, sia d’Oriente che d’Occidente, sebbene siano in parte tra loro differenti nei riguardi dei cosiddetti riti, cioè per liturgia, per disciplina ecclesiastica e patrimonio spirituale […] godono di pari dignità, così che nessuna di loro prevale sulle altre a motivo del rito, e inoltre godono degli stessi diritti e sono tenute agli stessi doveri…» (OE 3).

 

Paolo Giglioni   (Febbraio 1999).



[1] Teodosio I, con l’editto di Tessalonica del 380 proibisce l’arianesimo in Oriente; nel 391 lo stesso Teodosio I proibisce tutti i culti pagani e impone il cristianesimo (secondo la dottrina di Atanasio) quale religione di Stato.

[2] Tradusse la Bibbia in gotico (il Codex argenteus di Uppsala).

[3] Fa eccezione Gerusalemme; dopo la sua distruzione ad opera di Adriano nel 135 e con la dispersione di ebrei e cristiani (diaspora), non riuscì più ad esprimere una consistente tradizione liturgica. Nel IV secolo, con i pellegrinaggi e la costruzione delle basiliche Costantiniane del S. Sepolcro e di Betlemme, conobbe una forte rinascita cristiana. Nel 637 fu definitivamente occupata e islamizzata dal Califfo Omar I.

[4] Distinta dall’Antiochia di Pisidia in Asia Minore (cf At 13,14. 50-51), Antiochia di Siria, sul fiume Oronte, era capitale della provincia romana di Siria e residenza del governatore. Fu considerata la terza città dell’Impero, dopo Roma e Alessandria. E’ qui che per la prima volta i fedeli di Gesù sono detti cristiani (At 11,26). Fu anche la prima sede di Pietro.

[5] Secondo Nestorio, in Cristo, le due nature umana e divina, sarebbero così separate da riconoscere in lui anche due persone separate: il Verbo, Figlio di Dio, e l’uomo, Gesù di Nazaret, figlio di Maria. Da qui la negazione del titolo di Theotókos (“madre di Dio”) alla Madonna, per sostituirlo con Christotókos (“madre di Cristo”).

[6] L’Anafora, (dal greco aná-fero = portare in alto, far salire) è l’equivalente della nostra Prece eucaristica (o Canone) presso le liturgie Orientali.

[7] I Cattolici che vivono in Oriente seguono prevalentemente le antiche liturgie proprie di quei territori, già consolidate prima dello scisma d’Oriente del 1054 che vide la separazione tra la Chiesa Ordossa e quella Romana. Pertanto, la maggior parte dei Riti Orientali sono comuni sia agli Ortodossi sia ai Cattolici. In questi Paesi solo una minoranza di Cattolici segue il Rito latino.

[8] Nel 957 il battesimo di Olga, vedova del principe Igor; nel 988 battesimo di Vladimiro I il santo, che aveva sposato la principessa bizantina Anna; Kiev diventò il maggiore centro religioso con sede metropolitana.

[9] Così chiamata dal suo fondatore, Giacomo Baradai (+ 577).

[10] Il termine copto deriva dalla parola araba qubt (che traduce il greco aigyptios) e sta ad indicare, appunto, l'egiziano.

[11] Questa forte impronta mariana delle liturgia etiopica si riversa poi nell’uso quotidiano per cui le persone, incontrandosi, si salutano con Maria ti ama!

[12] L’aggettivo mozarabes fu applicato ai cristiani che vivevano sotto il giogo dei musulmani; deriva dalla parola araba mohaides e significa «soggiogati» (tributari degli arabi).