LITURGIA
TERRENA E LITURGIA CELESTE
Essendo azione eminentemente "ecclesiale",
anche la Liturgia partecipa di quelle che sono le prerogative della Chiesa: “è
umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione
ma dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; e
tutto questo, però, in modo tale che quanto in essa è umano sia ordinato e
subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla
contemplazione, il presente alla città futura alla quale tendiamo” (SC 2).
Ecco perché nella Liturgia che noi celebriamo qui sulla
terra già partecipiamo, pregustandola, alla Liturgia celeste che viene
celebrata nella santa Gerusalemme dove il Cristo siede alla destra di Dio quale
ministro del santuario e del vero tabernacolo (cf Ap 21,2; Col 3,1; Eb 8,2).
Il Sommo Sacerdote sempre vivente.
Pur restando vero che il Signore Risorto per realizzare
nel nostro tempo la sua opera perenne di salvezza, si fa sempre presente nella
sua Chiesa ed in modo speciale nelle azioni liturgiche (SC 7; 35: praesens
semper adest et operatur), tuttavia non dobbiamo dimenticare che la vera
Liturgia è quella che Egli celebra quale nostro Sommo Sacerdote "sempre
vivente" in una perenne intercessione presso il Padre in nostro favore (Eb
7,25; Rm 8,34). Congiuntamente allo Spirito Santo, che intercede presso Dio in
favore dei santi (Rm 8,27), anche Cristo, Sacerdote eterno, esercita nel cielo
l’ufficio di mediatore e di intercessore a favore di coloro che per mezzo suo
si accostano a Dio: «Egli, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio
che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui
si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore»
(Eb 7,24-25).
La letteratura neotestamentaria
su questo tema è piuttosto abbondante. Si possono intravedere, alla base di
questi testi, almeno due grandi riferimenti a «figure» (typoi: Col 2,17)
già ben conosciute nella tradizione veterotestamentaria:
a.
quella del sommo sacerdote levitico che, una volta
all’anno, aveva accesso al santo dei santi nel giorno solenne della festa
dell’espiazione (kippur; cf Lev 16); egli portava del sangue tratto dal
sacrificio del capro espiatorio e lo versava sul coperchio dell’arca
dell’alleanza quale espiazione di tutti i peccati degli Israeliti (Lev 16,16).
Nella pienezza del tempo si è manifestata la «realtà» di queste figure, Cristo,
(cf Col 2,17); Egli non con il «sangue esterno» di capri o di vitelli, ma con
il proprio sangue, ha offerto se stesso senza macchia a Dio con uno Spirito
eterno per purificarci dalle opere morte e permetterci di servire il Dio
vivente (Eb 9,11-14);
b.
quella del Servo del Signore descritta nel
secondo carme del profeta Isaia (Is 49). Dice il Signore: «Si dimentica
forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle
sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti
dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani, le tue mura
sono sempre davanti a me» (Is 49,15-16). Nella pienezza del tempo Cristo
Signore Risorto sta sempre Vivente dinanzi al Padre in una perenne Liturgia di
intercessione a nostro favore. Nelle sue mani non c’è il disegno di una città,
Gerusalemme, ma c’è il segno della trafittura dei chiodi, il segno del suo
grande amore per noi.
In Cristo le «figure» si sono dunque realizzate. Noi «abbiamo
un avvocato (parakletos) presso il Padre: Gesù Cristo giusto» (1 Gv 2,1).
Egli è «il Vivente», colui che, morto, ora vive per sempre (Ap 1,18). «Cristo
infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello
vero, ma nel cielo stesso, per comparire al cospetto di Dio in nostro favore»
(Eb 9,24).
Accostiamoci con fiducia.
Avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio,
possiamo accostarci con cuore sincero nella pienezza della fede e con i cuori
purificati al santuario celeste dove Cristo è entrato inaugurando una via nuova
e vivente per noi attraverso il velo della sua carne (Eb 10,19-22) per ricevere
misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno (Eb
4,14-16). Anche noi possiamo avere accesso a questa Liturgia celeste: per mezzo
di Cristo possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo
Spirito (Ef 2,18); per la fede in Lui noi abbiamo il coraggio di avvicinarci in
piena fiducia a Dio (Ef 3,12). Noi che eravamo stranieri e nemici, siamo stati
riconciliati per mezzo della morte del suo corpo di carne e possiamo
presentarci santi, immacolati e irreprensibili al suo cospetto.
La Liturgia diventa così dono divino di grazia gratuita.
Nell’antica alleanza vigeva la legge per cui «nessun uomo può vedere Dio e
restare vivo» (Es 33,20). Mosè sul monte della teofania ha dovuto togliersi
i sandali dai piedi (Es 3,5) e coprirsi il volto; ha potuto vedere Dio solo di
spalle, perché il suo volto non lo si può vedere (Es 33,23).
Ma, da quando il Verbo eterno del Padre ha piantato la
sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,14), ci ha reso possibile l’incontro e la
visione del Dio invisibile, senza per questo venire annientati dalla sua
«gloria». «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è
nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).
Concedendoci la caparra del suo Spirito (2 Cor 1,22; Ef
1,13; 1 Gv 2,20.27), il Signore Risorto ha permesso anche a noi di poter
accedere alla visione della divina gloria, dal momento che la nostra patria è
nei cieli (Fil 3,20): «Ora vediamo come i uno specchio, in maniera confusa;
ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora
conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1 Cor 13,12: cf Mt
5,8; 1 Gv 3,2).
Con una sola voce.
La funzione dell’attuale Liturgia, quella della
Gerusalemme peregrinante, ha come funzione di metterci fin da ora in comunione
con la Liturgia perenne che si celebra nel santuario celeste, dinanzi alla
gloria di Dio e all’Agnello (Ap 5,12-13).
Non vi sono quindi due liturgie, una celeste e una
terrena, ma un'unica Liturgia partecipata da noi qui ora in maniera assetata
e da pellegrini sotto il peso "delle sofferenze del momento presente"
(Rm 8,18), e dai Santi in maniera saziata e da cittadini dei cieli già
"partecipi della gloria futura" (Rm 8,18); noi qui mediante il velo
dei "segni" sacramentali, loro ormai "faccia a faccia" nel
santuario celeste (1 Cor 13,12).
Questa visione della Liturgia terrena già partecipe della
Liturgia celeste viene ben espressa in ogni prefazio da quello che si chiama
«protocollo conclusivo» che dice: «Per questo mistero di salvezza, uniti
agli Angeli e ai Santi, cantiamo a una sola voce la tua gloria».
Partecipi del sacerdozio di Cristo, possiamo dunque
affermare che mentre siamo incamminati come pellegrini (Eb 13,14) verso la
Patria celeste, già ora il Signore Risorto ci fa partecipare della sua Liturgia
perenne in modo che il nostro canto di lode sia unito a quello degli Angeli e
dei Santi formando con loro un'unica voce nella speranza di essere un giorno
con loro nella Liturgia celeste senza fine nella casa del Padre.
Tra Liturgia terrena e
Liturgia celeste vi è pertanto un duplice legame:
teologico, a motivo della presenza dell'unico Signore e
Liturgo (Eb 8,2.6), il Signore Risorto (cf SC 7); a motivo della medesima
appartenenza a Cristo e alla carità di Dio e del prossimo che ci permette di
cantare, sia pure in grado e modo diverso, lo stesso inno di gloria; tutti
infatti quelli che sono di Cristo, avendo la comunione nel medesimo Spirito,
formano una sola Chiesa e sono pertanto tra loro uniti in Lui (Ef 4,16; LG 49);
cronologico, a motivo del già che noi abbiamo (Gal
5,25) in rapporto al non ancora che deve compiersi (1 Gv 3,2; Fil 3,21);
ci è data infatti la caparra dello Spirito
(Ef 1,14; 2 Cor 1,22; 5,5) che, principio di risurrezione (Rom 8,11), già ora
ci abilita ad un vero culto spirituale (Rm 12,1), ad un sacrificio vivente a
Dio gradito (Ef 5,2; Eb 9,14).
Il Vaticano II ha detto che "Mediante l'assemblea
liturgica la Chiesa manifesta più pienamente l'indole escatologica della sua
vocazione" (LG 48) ed "attua già su questa terra, in maniera
nobilissima, la sua unione con la Chiesa celeste" (LG 50).
Se dalla Liturgia noi attingiamo la ricchezza della
grazia divina, non dobbiamo tuttavia dimenticare che le «sorgenti» di
questa vita soprannaturale sono «lassù, dove Cristo siede alla destra di
Dio, dove la vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo
Sposo, comparirà rivestita di gloria (cf Col 3,1-4)» (Lumen gentium
6).
Nel tempo della Chiesa, lo Spirito Santo è all’opera.
Soprattutto mediante la predicazione del Vangelo (attività missionaria) ed il
ricorso ai mezzi della grazia sacramentale (attività liturgica), lo Spirito fa
ringiovanire la Chiesa, la rinnova continuamente, la fa partecipare fin da ora
alla cittadinanza (politeuma) «nei cieli» (Fil 3,20; LG 13.48), essendo
«la Gerusalemme di lassù nostra madre» (Gal 4,26; LG 6).
Nella comunione dei Santi.
L’espressione comunione dei Santi la troviamo già
nel Simbolo apostolico e poi nel Credo Niceno-Costantinopolitano quando si fa
la professione di fede dicendo «credo la comunione dei Santi». Con
questa espressione si vogliono esprimere almeno tre significati: anzitutto la
comunione ai beni spirituali della Chiesa (Sancta = le cose sante); in
secondo luogo la comunione che esiste tra le membra del corpo di Cristo, siano
esse in situazione di pellegrinaggio su questa terra, o di purificazione nel
purgatorio, o di beatitudine nel Paradiso (Sanctorum = i Santi); infine
la comunione allo Spirito Santo (Sancti = il Santo Spirito).
La Liturgia permette la realizzazione di questo
misterioso e reale vincolo di comunione. La Chiesa crede infatti che l’unione
in Cristo dei fratelli, la quale consiste in vincoli di carità, non
s’interrompe con la morte, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è
consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali. La fede dona ai cristiani
che vivono sulla terra la possibilità di comunicare in Cristo con i propri cari
già strappati dalla morte (GS 18). Questa comunicazione avviene attraverso
diverse forme di preghiera basate sulla fede della comunione-continuità tra
Liturgia terrena e Liturgia celeste.
Nella Liturgia terrena, soprattutto quando celebriamo il
sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste,
comunicando con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa Vergine
Maria, ma anche del beato Giuseppe e dei beati apostoli e martiri e di tutti i
santi (LG 50). Realmente, quando si celebra la Liturgia terrena, si manifesta
la volontà di unirla con quella celeste. Così, nel Canone Romano, questa
volontà appare non solo nell’orazione «In comunione con tutta la Chiesa»,
ma anche nel passaggio dal prefazio al canone e nell’orazione del canone «Ti
supplichiamo, Dio onnipotente», nella quale si chiede che l’offerta terrena
sia portata sull’altare sublime del cielo, al cospetto della maestà divina, per
le mani dell’angelo santo del divin sacrificio; da questo «admirabile
commercium» tra Liturgia celeste e Liturgia terrena viene a noi la certezza che
«su tutti noi che partecipiamo di questo altare… scenda la pienezza di ogni
grazia e benedizione del cielo».
Ma questa Liturgia celeste non consiste solo nella lode.
Il suo centro è l’Agnello che sta in piedi, come immolato (cf. Ap 5,6), cioè
«Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risorto, sta alla destra di Dio e
intercede per noi» (Rm 8,34; cf. Eb 7,25). Poiché le anime dei beati
partecipano a questa Liturgia d’intercessione, in essa hanno cura anche di noi
e del nostro pellegrinaggio, «poiché intercedono per noi e con la loro fraterna
sollecitudine aiutano grandemente la nostra debolezza». Poiché in questa unione
della Liturgia celeste e terrena diventiamo coscienti che i beati pregano per
noi, «è quindi sommamente giusto che amiamo questi amici e coeredi di Gesù
Cristo e anche nostri fratelli e insigni benefattori e che per essi rendiamo le
dovute grazie a Dio» (LG 50).
Inoltre, la Chiesa ci esorta con impegno a invocarli
umilmente e ricorrere alle loro preghiere, al loro potere e aiuto per ottenere
benefici da Dio, per mezzo del Figlio suo Gesù Cristo, nostro Signore, che è
l’unico Redentore e Salvatore. Questa invocazione dei Santi è un atto per cui
il fedele si affida fiduciosamente alla loro carità. Poiché Dio è la fonte
dalla quale si diffonde tutta la carità (cf. Rm 5,5), ogni invocazione dei
Santi è riconoscimento di Dio, quale fondamento supremo della loro carità, e tende,
come ultimo termine, a lui.
Concludendo possiamo dire che tutta la
vita cristiana è da vedere come una processione liturgica di peregrinanti (cf
la panegyrìa di Eb 12, 22) il cui scopo è, arrivando al termine dove è
la perfezione, di avvicinarci a Dio nel santuario celeste, e comparire dinanzi
a Lui. In questa Liturgia celeste ed in questo santuario, già ci hanno
preceduto coloro che «sono morti nel segno della fede» (Canone Romano).
La nostra Liturgia terrena, pur nella sua limitatezza e debolezza umana, già è
partecipazione reale di quella realtà celeste, grazie alla divina presenza, là
e qui, dell’unico Sommo Sacerdote, il Signore Risorto. Egli ci asperge col suo
sangue purificandoci dai nostri peccati, ci nutre col suo corpo per la
Risurrezione finale, ci da già il pegno della gloria futura
Sant’Agostino esprime questa nostra peregrinazione verso
la Liturgia celeste, con il celebre Discorso che si intitola «Canta e
cammina».
«Cantiamo qui
l`alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare un
giorno lassù, ormai sicuri. Perché qui siamo nell`ansia e nell`incertezza […]
Ora infatti il nostro corpo è nella condizione terrestre, mentre allora sarà in
quella celeste. O felice quell`alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza
e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi
risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però
nell`ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da
immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini,
lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto
per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta
per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla
pigrizia. Canta e cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene,
progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo l`Apostolo, alcuni che
progrediscono si, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi
camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede, devi avanzare nella retta
fede, devi progredire nella santità. Canta e cammina». (Dai «Discorsi» di
sant`Agostino, vescovo, Disc. 256, 1. 2. 3; PL 38, 1191-1193 [Ufficio delle
Letture, sabato XXIV per annum])
Prof. Paolo Giglioni
Marzo 2000