PREGARE BENE PER CREDERE BENE
Lex orandi - Lex credendi
Nel nostro corso di Introduzione alla Liturgia ci siamo fin qui occupati di spiegare il Capitolo primo della Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium (1963) dedicato ai«Principi generali per la riforma e l’incremento della sacra liturgia». In particolare ci siamo soffermati a commentare i primi due paragrafi che spiegano rispettivamente la «natura della liturgia e la sua importanza nella vita della Chiesa» (SC 5-13) e la «necessità di promuovere la educazione liturgica e la partecipazione attiva» (SC 14-20) essendo la liturgia «la prima e indispensabile sorgente dalla quale i fedeli possano attingere il genuino spirito cristiano» (SC 14).
Il terzo paragrafo è dedicato alla «riforma della sacra liturgia»; vengono date norme generali (SC 22-25) e norme particolari derivanti dalla natura gerarchica e comunitaria della liturgia (SC 26-32), dalla natura didattica e pastorale della liturgia (SC 33-36), dalle esigenze di adattamento all’indole e alle tradizioni dei vari popoli (SC 37-40).
Riprendiamo allora il nostro discorso analizzando proprio il terzo paragrafo che presenta le «norme generali» che presiedono alla riforma liturgica. Il testo spiega anzitutto il perché della riforma liturgica ed offre alcuni criteri per regolare tale riforma.
Perché la riforma liturgica?
La
riforma generale della liturgia ha come scopo primario di assicurare
maggiormente al popolo cristiano l’abbondante tesoro di grazie che la sacra
Liturgia racchiude. Questa infatti consta di una parte immutabile, perché di
istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei
tempo possono o anche devono variare, qualora in esse si fossero insinuati
elementi meno rispondenti alla intima natura della stessa Liturgia, o si
fossero resi meno opportuni.
L’intento
della riforma, pertanto, non è archeologico, ma pedagogico ed ecclesiale:
esprimere più chiaramente le sante realtà contenute nei testi e nei riti in
modo che, comprese nel loro profondo significato, il popolo cristiano possa
parteciparvi in maniera piena, attiva e comunitaria (SC 21).
A
motivo della natura e dell’importanza della sacra Liturgia nella vita della
Chiesa, tale riforma non può essere lasciata alla libera iniziativa dei singoli
fedeli, ma deve essere ordinata dalla competente autorità che risiede nella
Sede Apostolica. Si tratta di presiedere al delicato rapporto del «tutto fatto»
e del «tutto da fare», del giusto equilibrio tra tradizione e progresso. «Di
conseguenza nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, osi, di sua
iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica» (SC 22
§ 3). Viene da chiedersi: perché tanta severità? Una risposta adeguata deve
tener conto di almeno due principi: il primo riguarda la legittimità di un
giusto progresso nella Liturgia e quindi la possibilità di uno spazio di
creatività liturgica secondo la cultura locale; il secondo riguarda la serietà
e la difesa del patrimonio liturgico contro improprie manipolazioni. Partiamo
da questo secondo principio, che è poi fondamento di ogni agire liturgico, e
occupiamoci di quella regola che fin dall’antichità è stata chiamata lex
orandi, lex credendi.
Lex
orandi, lex credendi.
Con
questa espressione si è inteso regolare il rapporto tra Liturgia e fede, il
retto modo di pregare nella Chiesa al fine di salvaguardare la purezza della
fede.
La
formula “lex orandi - lex credendi”
è un’espressione abbreviata di un passo dell'Indiculus de gratia Dei (cf DS 238-42). E' questo un documento del
secolo V contro i pelagiani e semipelagiani, ove si raccolgono, intorno alle
questioni della grazia, una serie di testimonianze dei pontefici romani
anteriori, chiudendo il tutto con un argomento dedotto dalla Liturgia.
Il
documento fu compilato probabilmente da Prospero di Aquitania e rispecchia il
pensiero della curia romana.
Dal
punto di vista che ci interessa, il passo essenziale è il seguente:
“Consideriamo anche i sacramenti delle preghiere che fanno i vescovi, le quali,
tramandate dagli Apostoli, in tutto il mondo e in ogni Chiesa cattolica si
recitano in pari modo, affinché il modo obbligatorio di pregare determini il
modo obbligatorio di credere (ut legem
credendi lex statuat supplicandi).
Il
significato preciso della frase si deduce confrontandola col testo di 1 Tm
2,1-4 da cui dipende. Cioè: affinché dall'obbligo che ci fa l'Apostolo (1 Tim
2,1-4) e a cui soddisfano i vescovi nella Liturgia, di pregare per tutti
affinché a tutti sia data la grazia (lex
orandi), appaia chiaro anche l'obbligo di credere, contro i pelagiani e i
semipelagiani, che la grazia è necessaria per tutti (lex credendi).
Quando
pertanto si abbrevia il detto in lex
orandi lex credendi, si intende precisare il rapporto esistente tra fede e
Liturgia; e cioè: dal retto modo del pregare ne deriva un retto modo di
credere. Il fatto che da sempre nelle varie Chiese si sia pregato in un certo
modo e con certi contenuti, questo significa che quei contenuti possono entrare
con sicurezza nel deposito della fede della Chiesa. Non è possibile infatti che
il medesimo Spirito che assiste la Chiesa in preghiera e il Magistero, parli in
due maniere diverse. Il detto lex orandi
- lex credendi vuol dire anche che tra Liturgia e fede esiste questo
ulteriore rapporto: la Liturgia presuppone, esprime, esplicita, fa vivere,
fortifica la fede nei credenti; a volte addirittura precede
l'esplicitazione della fede divina e cattolica come è avvenuto sia per il dogma
dell'Immacolata concezione, sia per quello dell'Assunzione.
Dall'insieme
di queste osservazioni è più facile comprendere la cura con cui da sempre la
Chiesa ha vigilato sulle formule eucologiche della Liturgia tantoché anche
attualmente prima che un testo o la semplice traduzione del medesimo possano
entrare nell'uso liturgico hanno bisogno dell’approvazione dell’Organo
competente della Santa Sede. La Liturgia infatti è il primo catechismo della
fede.
Liturgia e didascalia.
In
una udienza Pio XI ebbe a dire: “La Liturgia è l'organo più importante del
magistero ordinario della Chiesa.. La Liturgia non è la didascalia di tale o
tal altro individuo, ma la didascalia della Chiesa”.
Una
tale espressione può peccare sia per eccesso, sia per difetto. Per difetto nel senso che la Liturgia,
in quanto luogo privilegiato dell’incontro tra Dio e l'uomo per mezzo di Cristo
mediatore e capo e nel possesso dello Spirito Santo che permette il ritorno al
Padre, è qualcosa di più che un semplice esercizio didascalico del magistero
della Chiesa. Essa è infatti, sotto il velo dei segni sensibili ed efficaci,
l'incontro vitale massimo tra l'uomo e Dio in Cristo. Essa è “culmen et fons” (SC 10) e quindi
trascende il semplice servizio didascalico della Chiesa.
Ciò
non impedisce che la Liturgia svolga anche un servizio didascalico soprattutto
quando insegna ed esorta ad attuare nella vita dei fedeli l'esercizio della
fede, speranza e carità: «esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante
la fede» (SC 10).
Per eccesso, nel senso che la Liturgia
nel suo insieme non è costruita in uno stile didattico. Più che comunicare
semplicemente concetti chiari e distinti, più che insegnare, si preoccupa di
sintonizzare tutto l'uomo concreto e d'immergerlo in un ambiente generale di
preghiera e di dedizione a Dio, in quell'ambiente di devotio che è l'anima del culto. La Liturgia è essenzialmente una
preghiera e non una forma di insegnamento. Che cosa dire, al riguardo, di certe
maxiliturgie che prolungano a dismisura la parte didattica iniziale relegando poi a qualche minuto la proclamazione eucologica solenne della Preghiera
eucaristica?
Ben
diversa invece è la grande efficacia didattica della Liturgia. Essa infatti,
più che insegnare, fa vivere la dottrina. Arriva alla mente non tanto per via
concettuale, ma per via sperimentale investendo non solo la ragione dell'uomo
ma anche tutte le sue altre facoltà affettive e sperimentali.
Liturgia e fede.
Oltre che espressione della fede, la Liturgia è
anche difesa della fede in quanto teologia pregata o teologia in
ginocchio. La lex orandi è una via molto facile per introdurre nel
sentire comune della fede del popolo di Dio elementi non corrispondenti alla
Rivelazione e alla Tradizione. Da una preghiera fatta male e con contenuti
impropri, ne deriverà inevitabilmente anche un modo di credere distorto e non
in sintonia con la fede cattolica.
Questa preoccupazione di salvaguardare la fede
attraverso una corretta espressione della preghiera liturgica, ha spinto il
Concilio a dire che neppure un sacerdote, di sua iniziativa, può aggiungere,
togliere, alterare, sostituire, le parti costitutive della Liturgia. Non per
questo vengono aboliti gli spazi di creatività: introduzioni, preghiera dei
fedeli, omelia. Ma quale impegno si dovrà mettere perché questi interventi
siano espressione della fede e non semplicemente espressioni di «chiacchieroni
impreparati». Al di là di ogni equivoco, questa espressione è di S. Agostino e
da lui attribuita a coloro che si avventuravano in improvvisazioni liturgiche
senza averne la necessaria competenza. Il fenomeno, pertanto, è abbastanza
antico.
Sempre
nello stesso periodo, verso l’anno 416, papa Innocenzo I scrisse una lettera al
Vescovo di Gubbio, dove deplorava che: “ciascuno ritiene opportuno seguire non
ciò che è stato tramandato, ma ciò che più gli piace; per cui ne deriva che in
alcune chiese o luoghi si vedono attuate nelle celebrazioni le cose più
diverse; e questo porta scandalo presso il popolo”.
Dobbiamo
riconoscere che non c’è proprio nulla di nuovo sotto il sole e che anche ai
nostri giorni le cose non vanno molto diversamente. Con la scusa del Concilio e
appellandosi ad un falso concetto di “creatività” si vuol ad ogni costo
“attualizzare” la Liturgia, almeno questi gli intenti migliori, portandola al
popolo in maniera semplice e comprensibile. Non sempre però i risultati sono
proporzionati alle premesse.
Intanto
si dimentica che la Liturgia è "dono" che Cristo, sacerdote eterno
del Padre, fa alla sua Chiesa mediante lo Spirito Santo. Per cui Cristo,
nell'azione dello Spirito, resta l'unico e vero Liturgo della Chiesa.
Sempre
per dono e vocazione (Ekklesia =
con-vocazione) siamo chiamati ad accettare questo dono e a conformare ad esso
la nostra mente e il nostro cuore in modo che "il Signore sia nel mio
cuore e nelle mie labbra" per poter celebrare degnamente i santi misteri.
Perché
non venga mai meno questa visione dell'azione liturgica, all'inizio della
Liturgia delle Ore sempre siamo invitati a pregare: “Domine labia mea aperies; et os meum annuntiabit laudem tuam"
(Signore apri le mie labbra, e la mia bocca annunzierà la tua lode).
Richiamare
questi principi e stigmatizzare una certa situazione non vuol dire
assolutamente sognare certi periodi di fissismo liturgico o auspicare il
ritorno ad una deleteria staticità liturgica che vede il prete factotum e l'assemblea spettatrice.
Si
vuol soltanto far presente che la Liturgia non è il banco di sperimentazione
delle varie teorie pseudo-sociali di gruppuscoli cosiddetti impegnati o il
teatrino di coloro che presumono di avere lo Spirito noleggiato al loro
piacimento. La Liturgia, occorre ripeterlo, è “dono” da accettare nell'ascolto
fedele della Parola che converte e nella risposta di azione di grazie al Padre
che, senza nostro merito ma unicamente per la ricchezza del suo perdono, ci
ammette a godere della sorte beata dei Santi per mezzo di Cristo nell’unità
dello Spirito Santo (si rilegga la conclusione del Nobis quoque nel Canone romano [“… non per i nostri meriti, ma per
la ricchezza del tuo perdono”] e la dossologia finale di ogni
"canone", cioè di ogni "regola" da imitare nell'azione
liturgica).
Ben
venga il nuovo, purché sia anche valido nel contenuto, espressione della fede
ecclesiale, bello nella forma, come si addice ai santi misteri. Ben venga il
nuovo, purché sia anche ricco di dottrina e di preghiera e non vuota verbosità
che polluisce da cuori incirconcisi. Come ci poniamo di fronte ai rimproveri
del Qoèlet che dice: "Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore
non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei
sulla terra; perciò le tue parole siano parche, poiché dalle molte preoccupazioni vengono i sogni e dalle molte chiacchiere il
discorso dello stolto'" (Qoèlet 5,1-2; cf Is 1,15; Sir 7,15; Mt 6,7;
7,21; 23,4; 1 Pt 4,7).
Erratissima,
dopo questo discorso, sarebbe la conclusione che, per non sbagliare, dobbiamo
soltanto accettare quello che ci viene ammannito. Parleremo del concetto di
"creatività" e come sia irrinunciabile per una Chiesa viva una tale
prerogativa.
Si
vuol soltanto ribadire che è presunzione edificare cose nuove senza neppure
avere la minima idea di come e di che cosa abbiano costruito coloro che prima
di noi hanno tradotto in preghiera il deposito della fede.
Un
buon artigiano, un buon pittore e qualsiasi altro, hanno bisogno di un lento
tirocinio prima di produrre l'opera d’arte. Scopo di questo corso vuol essere
quello di abituare ad una lettura attenta delle fonti liturgiche; saperne
cogliere i valori; saperne ricercare i temi principali attraverso i quali si
snoda la celebrazione del mistero di Cristo. Scopo non ultimo sarà anche quello
di arrivare, per chi ne avesse le doti, alla composizione di elementi nuovi da
utilizzare soprattutto nei pii esercizi e, a certe condizioni, nella stessa
celebrazione liturgica. Nella Liturgia non tutto è fatto, non tutto è sempre fa
dare
Né tutto fatto, né tutto da fare.
Non
va dimenticato che sono ormai diversi anni che è stata pubblicata la
Costituzione su la sacra Liturgia (4 dicembre 1963). Ad essa sono seguite
alcune Istruzioni per l'esatta
applicazione delle norme liturgiche. Nonostante tutta questa attività “promozionale”
assistiamo oggi a questa situazione:
a)
Ci sono ancora molti “conservatori” rimasti legati all'antica mentalità
rubricistica. Per loro tutto si riduce a fare ciò che è prescritto, e come è
prescritto. Non senza loro disagio, perché il vino nuovo in otri vecchi porta
sempre inconvenienti. Vorrebbero trovare la precisione di prima; lamentano
perciò “mancanza di chiarezza”. Per loro tutto è stato fatto, e una volta per
sempre. Una volta appreso un sistema di celebrazione, quello rimane poi per
sempre. Una Liturgia viva e partecipata, una Liturgia adattata in base alle
circostanze e secondo le possibilità offerte in abbondanza dai nuovi libri
liturgici, è tutta un'altra questione che essi non si sognano neppure di porre.
b)
All'estremo opposto ci sono quelli per cui la Liturgia tutta da fare. Provano
allergia per ogni testo imposto dall'alto e vogliono che, per una Liturgia
viva, tutto nasca dalla spontaneità. Per essi “la Liturgia è per l'uomo” e
non viceversa; ogni comunità pertanto “ha diritto” di crearsi una Liturgia a
sua immagine. In questi casi viene sempre fuori il discorso sullo Spirito Santo
del quale sembrano “abbonati” e alla cui libertà creativa si abbandonano. Per
essi è “sentito” soltanto quello che viene fatto “in casa”: pane nero e duro, ma
fatto in casa.
Il
dramma è nel fatto che il più delle volte né il sacerdote che si adegua a tali
compromessi sa come deve essere fatta una preghiera, né gli altri partecipanti
possono dire di attingere ad una autentica esperienza di preghiera.
Il
tutto finisce per ingenerare stanchezza e disagio, assuefazione e sazietà. Una
tale “Liturgia” non suscita risposte nella comunità (e come potrebbe?); si
dimostra dunque inefficace e non sono pochi quelli che mettono da parte ogni
Liturgia e si dedicano all’ “assistenzialismo” e all'impegno “politico”
presumendo che così si serva veramente il Signore.
Quello
che è il “culmine e la fonte” della vita della Chiesa è sostituito con un
impegno orizzontale. Una fede ridotta alla dimensione politica non sa più che
farsene dei riti ecclesiali, che vengono emarginati, perché “non vanno”.
Vorremmo
concludere questa riflessione ritornando all’inizio del nostro discorso:
pregare bene per credere bene. Prendere sul serio la Liturgia e curare ogni
forma di creatività nel contenuto e nelle forme. Una Liturgia intesa non come
azione privata, ma celebrazione che appartiene e coinvolge l’intero corpo della
Chiesa. Una Liturgia che sia evangelizzante, che nutra la fede, che spinga alla
missione.
Paolo
Giglioni
Novembre
2000