COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Sant’Agostino

 

[Omelie 101-110]

 

OMELIA 101

Sofferenza e gioia della donna che partorisce.

La Chiesa partorisce ora gemendo, un giorno partorirà esultando: ora partorisce pregando, un giorno lodando Dio.

1. Queste parole del Signore: Ancora un poco e non mi vedrete più, e un altro poco e mi vedrete, perché vado al Padre (Gv 16, 16), prima che si realizzassero erano talmente oscure per i discepoli, che dalle domande che si facevano a vicenda, dimostravano chiaramente di non averne capito il senso. Il Vangelo infatti prosegue dicendo: Allora, alcuni dei suoi discepoli dissero fra loro: Che è questo che ci dice: Ancora un poco e non mi vedrete più, e un altro poco e mi rivedrete, e vado al Padre? Dicevano perciò: Che cosa è questo poco di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire (Gv 16, 17-18). Il motivo che li teneva sospesi erano appunto queste parole: Ancora un poco e non mi vedrete, e un altro poco e mi rivedrete. Siccome precedentemente non aveva detto: un poco, ma aveva detto: Vado al Padre e non mi vedrete più (Gv 16, 10), sembrò che parlasse loro apertamente, e in proposito non si eran fatta tra loro alcuna domanda. Ciò che ai discepoli era sembrato tanto oscuro e subito diventò chiaro, è chiaro ormai anche per noi: poco dopo infatti ci fu la sua passione ed essi non lo videro più; ma poi, dopo un altro breve intervallo di tempo, egli risuscitò, e lo videro di nuovo. Il senso della frase: Ormai non mi vedrete, in cui usando l'avverbio ormai vuol far capire che non lo vedranno più, lo abbiamo già spiegato, quando abbiamo sentito il Signore che diceva dello Spirito Santo: redarguirà il mondo quanto a giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più: cioè i discepoli non avrebbero più visto il Cristo nella sua condizione mortale.

2. Gesù, conoscendo che volevano interrogarlo - prosegue l'evangelista - disse loro: Vi chiedete l'un l'altro che significa ciò che ho detto: Ancora un poco e non mi vedrete, e un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico: voi piangerete e farete cordoglio, ma il mondo si rallegrerà; voi vi rattristerete, ma la vostra tristezza si muterà in gioia (Gv 16, 19-20). Questo può prendersi nel senso che i discepoli si sono rattristati per la morte del Signore, e immediatamente si sono rallegrati per la sua risurrezione; il mondo, invece, con cui sono indicati i nemici che misero a morte Cristo, hanno esultato per la morte di Cristo, proprio quando i discepoli erano nella tristezza. Per mondo si può anche intendere la malvagità di questo mondo, cioè degli amici di questo mondo, secondo quanto l'apostolo Giacomo dice nella sua lettera: Chi vuole essere amico del mondo, si costituisce nemico di Dio (Gc 4, 4). E' questa inimicizia contro Dio che non risparmiò neppure il di lui Unigenito.

3. Il Signore continua: Quando la donna partorisce è triste perché è giunta la sua ora, ma quando ha partorito il bambino, dimentica l'ambascia per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Anche voi adesso siete tristi, ma io vi rivedrò e il vostro cuore gioirà, e la vostra gioia nessuno ve la potrà rapire (Gv 16, 21-22). Non mi sembra che questa immagine sia difficile da intendere; essa è trasparente, avendo egli stesso spiegato perché l'abbia scelta. Il travaglio del parto è immagine di tristezza, il parto invece di gaudio, di solito tanto più grande quando nasce un maschio invece di una femmina. Quanto alle parole: la vostra gioia nessuno ve la potrà rapire, dato che Gesù stesso è la loro gioia, sono in perfetta armonia con ciò che dice l'Apostolo: Una volta risuscitato dai morti, Cristo non muore più, e la morte non ha più dominio sopra di lui (Rm 6, 9).

4. Fin qui il passo del Vangelo che stiamo spiegando, non presenta alcuna difficoltà; ma le parole che seguono richiedono maggiore attenzione. Che significa infatti: In quel giorno non mi farete più nessuna domanda (Gv 16, 23)? Il latino "rogare" non significa solo chiedere per ottenere qualcosa, ma fare una domanda per ottenere una risposta; nel testo greco da cui è tradotto quello latino, c'è un verbo che possiede ambedue i significati, così che l'ambiguità rimane; e ancorché si risolvesse, non si risolverebbe ogni difficoltà. Leggiamo infatti nel Vangelo che, dopo la risurrezione, Cristo fu interrogato e pregato. Al momento in cui stava per ascendere al cielo, i discepoli gli chiesero quando si sarebbe manifestato e quando sarebbe stato ripristinato il regno d'Israele (cf. At 1, 6); quando poi era ormai in cielo, fu pregato da santo Stefano di ricevere il suo spirito (cf. At 7, 58). E chi oserà dire o pensare che se Cristo fu pregato quando era ancora sulla terra, non lo si debba pregare ora che sta in cielo? Lo si doveva pregare quando era mortale e non lo si dovrà pregare ora che è immortale? Preghiamolo, carissimi, preghiamolo perché sciolga il nodo di questo problema, facendo luce nei nostri cuori affinché possiamo vedere il senso delle sue parole.

5. Credo che le parole: Io vi rivedrò e il vostro cuore gioirà, e la vostra gioia nessuno ve la potrà rapire, non debbano riferirsi al tempo in cui, risorto, mostrò ai discepoli la sua carne risuscitata, in modo che essi potessero vederla e toccarla (cf. Gv 20, 27); ma piuttosto a quel tempo a proposito del quale aveva detto: Colui che mi ama sarà amato dal Padre mio, e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui (Gv 14, 21). Sì, ormai era risorto, ormai si era mostrato ai discepoli nella sua carne, ormai sedeva alla destra del Padre quando il medesimo apostolo Giovanni, autore di questo Vangelo, nella sua lettera così scriveva: Dilettissimi, fin d'ora siamo figli di Dio, e ancora non si è manifestato ciò che saremo: sappiamo che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1 Io 3, 2). Questa visione non appartiene a questa vita, ma a quella futura; non a questa temporale, ma a quella eterna. Questa è la vita eterna, - afferma colui che è la vita - che conoscano te unico vero Dio, e il tuo inviato, Gesù Cristo (Gv 17, 3). Di questa visione e di questa conoscenza l'Apostolo dice: Vediamo ora come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in maniera imperfetta, mentre allora conoscerò come sono conosciuto (1 Cor 13, 12-13). Questo che è il frutto del suo travaglio, la Chiesa lo partorisce al presente nel desiderio, allora lo partorirà nella visione; ora gemendo, allora esultando; ora pregando, allora lodando Dio. E' appunto maschio, perché a questo frutto della contemplazione è ordinato tutto l'impegno dell'azione; questo solo, infatti, è libero in quanto viene cercato per se stesso, e non è subordinato ad altro. Ad esso è ordinata l'azione: infatti tutto ciò che di buono si compie si riferisce a questo, perché in ordine a questo si compie; esso invece non è ordinato ad altro: si raggiunge e si possiede solo per se stesso. Esso, dunque, rappresenta il fine che soddisfa tutte le nostre aspirazioni. Sarà perciò un fine eterno, perché non ci potrà bastare che un fine senza fine. E' quello che fu ispirato a Filippo, quando esclamò: Mostraci il Padre, e ci basta (Gv 14, 8). E il Figlio promise di mostrarsi assieme al Padre, rispondendo: Non credi che io sono nel Padre e che il Padre è in me? (Gv 14, 10). E' precisamente di questa gioia, che sazierà ogni nostro desiderio, che il Signore ha voluto parlarci dicendo: La vostra gioia nessuno ve la potrà rapire.

[Questo "poco tempo" ci sembra lungo, perché dura ancora.]

6. Tenendo conto di questo, credo si possano intendere meglio anche le parole precedenti: Ancora un poco e non mi vedrete più, e un altro poco e mi vedrete. E' breve infatti tutto questo spazio in cui si svolge il tempo presente; per cui il medesimo evangelista nella sua lettera dice: E' l'ultima ora (1 Io 2, 18). Perciò le parole che egli aggiunge perché vado al Padre, vanno riferite alla frase precedente: ancora un poco e non mi vedrete più, e non a quella successiva: e un altro poco e mi vedrete. Sì, perché, andando al Padre, egli si sarebbe sottratto ai loro sguardi. E perciò non disse questo riferendosi al fatto che sarebbe morto e che quindi essi non lo avrebbero potuto vedere se non dopo la risurrezione; ma in quanto essi non lo avrebbero visto perché sarebbe andato al Padre; cosa che fece quando, risorto e rimasto con loro quaranta giorni, salì al cielo (cf. At 1, 3 9). A quelli dunque, che allora lo vedevano fisicamente, disse: Ancora un poco e non mi vedrete più, perché sarebbe andato al Padre, e in seguito non lo avrebbero più visto nella carne mortale come lo vedevano quando parlava così. Le parole poi che aggiunse: e un altro poco e mi vedrete, sono una promessa per tutta la Chiesa, così come lo sono le altre: Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo (Mt 28, 20). Il Signore non ritarda il compimento della sua promessa: ancora un poco e lo vedremo, lassù dove non avremo più nulla da chiedergli, più nessuna domanda da fargli, perché non rimarrà alcun desiderio insoddisfatto, nulla di nascosto da cercare. Questo breve intervallo di tempo a noi sembra lungo, perché dura ancora; allorché sarà finito, ci accorgeremo quanto sia stato breve. La nostra gioia, quindi, non sia come quella del mondo, il quale, come dice il Signore, godrà; tuttavia nel travaglio di questo desiderio, non dobbiamo essere tristi senza gioia, ma, come dice l'Apostolo, dobbiamo essere gioiosi nella speranza, pazienti nella tribolazione (Rm 12, 12). Del resto, anche la donna in travaglio, alla quale siamo paragonati, gioisce per il bambino che attende più di quanto non sia triste per il suo dolore presente. Sia questa la conclusione del nostro discorso. Le parole che seguono pongono una questione assai spinosa, e non vogliamo coartarle nei limiti del tempo che ci rimane, per poterle spiegare, se il Signore vorrà, con più calma.

 

OMELIA 102

Il Padre ci ama perché noi abbiamo amato Cristo.

Noi amiamo Dio perché per primo egli ci ha amati. Cioè, noi amiamo perché siamo amati. Insomma, amare Dio è dono di Dio.

1. Ora dobbiamo spiegare quelle parole del Signore: In verità, in verità vi dico: qualunque cosa chiederete al Padre nel nome mio, egli ve la darà (Gv 16, 23). Nei precedenti commenti a questo discorso del Signore, abbiamo osservato, a proposito di quelli che domandano qualcosa al Padre nel nome di Cristo e non l'ottengono, che non è chiedere nel nome del Salvatore ciò che si chiede contro l'ordine della salvezza. Infatti l'espressione: nel mio nome, non è da prendere secondo il suono materiale delle parole, ma nel senso vero e reale che il nome di Cristo contiene e annuncia. Chi dunque ha di Cristo un'idea che non corrisponde alla realtà dell'unigenito Figlio di Dio, non chiede nel nome di lui, anche se pronuncia le lettere e le sillabe che compongono il nome di Cristo, perché quando si mette a pregare chiede nel nome di colui che ha in testa. Chi invece ha di Cristo un'idea conforme a verità, chiede nel nome di lui, e se la sua domanda non è contraria alla sua eterna salvezza, egli ottiene ciò che chiede. Tuttavia ottiene quando deve ottenere. Vi sono infatti delle cose che non vengono negate, ma vengono differite per essere concesse al momento opportuno. Così in quelle parole: egli ve la darà, dobbiamo intendere quei benefici che sono destinati a coloro che pregano rettamente. Tutti i giusti vengono esauditi quando domandano a proprio vantaggio, non quando domandano in favore dei loro amici o nemici o di qualsiasi altro: il Signore non dice infatti genericamente darà, ma: vi darà.

[La gioia completa.]

2. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e riceverete, affinché la vostra gioia sia completa (Gv 16, 24). Questa gioia completa di cui parla, non è certamente una gioia carnale, ma è la gioia spirituale; e sarà completa solo quando ad essa non ci sarà più nulla da aggiungere. Qualunque cosa dunque si chiede in ordine al conseguimento di questa gioia, la si deve chiedere nel nome di Cristo, se davvero comprendiamo il valore della grazia divina, se davvero chiediamo la vita beata. Chiedere altra cosa, è chiedere nulla; non perché ogni altra cosa sia nulla, ma perché qualunque altra cosa si possa desiderare è, in confronto a questa, un nulla. Non si può certo dire che l'uomo come tale sia nulla, anche se l'Apostolo dice: Se uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla... (Gal 6, 3); tuttavia in confronto con l'uomo spirituale, che sa di essere quello che è per grazia di Dio, chiunque aspira a cose vane, è nulla. E' questo probabilmente il senso della frase: In verità, in verità vi dico: qualunque cosa domanderete al Padre in nome mio, ve la darà, se con l'espressione qualunque cosa si intende non qualsiasi cosa, ma ciò che, nei confronti della beatitudine eterna, abbia qualche importanza. Ciò che segue: Finora non avete chiesto nulla nel mio nome, si può intendere in due modi: nel senso che essi non avevano chiesto nulla sino allora in nome suo, perché ancora non avevano conosciuto il suo nome come deve essere conosciuto; oppure nel senso che quanto sino allora avevano chiesto era nulla in confronto alla vita eterna che dovevano chiedere. E' dunque per impegnarli a chiedere nel suo nome, non ciò che è nulla, ma la gioia completa (dato che chiedere qualcosa di diverso, è come chiedere nulla) che li esorta dicendo: Chiedete e riceverete, affinché la vostra gioia sia completa; cioè a dire: Chiedete nel mio nome ciò che può rendere perfetta la vostra gioia, e l'otterrete. La divina misericordia, infatti, non defrauderà i suoi eletti che sono perseveranti nel chiedere questo bene.

3. Vi ho parlato di queste cose in parabole: viene l'ora in cui non vi parlerò più in parabole, ma vi intratterrò apertamente sul Padre (Gv 16, 25). Starei per dire che quest'ora di cui parla è la vita futura, nella quale lo vedremo svelatamente, faccia a faccia, come dice san Paolo; di modo che le parole: Vi ho parlato di queste cose in parabole, coincidono con quelle dell'Apostolo stesso: Vediamo adesso, in maniera oscura, come in uno specchio (1 Cor 13, 12). Mentre la frase: vi intratterrò sul Padre mio significa che è per mezzo del Figlio che si vedrà il Padre, come egli stesso altrove dice: Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo (Mt 11, 27). Ma questo senso apparentemente è in contrasto con quello che segue: In quel giorno, voi chiederete nel mio nome (Gv 16, 26). Che cosa potremo chiedere infatti nella vita futura, allorché saremo giunti nel regno, dove saremo somiglianti a lui poiché lo vedremo così com'è (cf. 1 Io 3, 2), quando il nostro desiderio sarà saziato nell'abbondanza di ogni bene (cf. Sal 102, 5)? Come appunto dice anche un altro salmo: Sarò saziato, quando si manifesterà la tua gloria (Sal 16, 15). Chiedere è segno di indigenza, che scomparirà quando ogni nostro desiderio sarà saziato.

4. Quindi, per quanto posso capire, non rimane altro se non intendere le parole di Gesù nel senso che egli promise ai suoi discepoli di farli diventare da uomini carnali e dominati dai sensi quali erano, uomini guidati dallo Spirito; quantunque non ancora in quella condizione in cui saremo quando avremo anche un corpo spirituale, ma quella in cui era colui che diceva: Parliamo un linguaggio di sapienza con i perfetti (1 Cor 2, 6); e aggiungeva: Non ho potuto parlare a voi come a degli spirituali, ma come a persone carnali (1 Cor 3, 1); e ancora: Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo ma lo Spirito che viene da Dio, affinché possiamo conoscere le cose che da Dio ci sono state graziosamente donate. E di queste cose noi parliamo non con discorsi insegnati dall'umana sapienza, ma con discorsi insegnati dallo Spirito, agli spirituali adattando cose spirituali. L'uomo animale però non accoglie le cose dello Spirito di Dio (1 Cor 2, 12-14). Ora, essendo l'uomo "animale" incapace d'intendere le cose che sono dello Spirito di Dio, quanto si riferisce alla natura di Dio lo concepisce come qualcosa di corporeo, estesissimo ed immenso quanto si vuole, luminoso e bello quanto si vuole, ma sempre corporeo, appunto perché incapace di concepire altre cose che non siano corporali. E per questo, tutto ciò che la Sapienza dice della sostanza incorporea e immutabile di Dio, sono per lui soltanto delle parabole; e non perché le consideri soltanto delle parabole, ma perché ha la stessa maniera di pensare di coloro che ascoltano le parabole senza comprenderle. Ma quando da uomo spirituale comincia a giudicare ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno, anche se in questa vita conosce ancora oscuramente e parzialmente, egli tuttavia, senza bisogno di sensi o di immagini che riflettano in qualche modo le sembianze corporali, validamente guidato dall'intelligenza spirituale, comprende che Dio non è corpo bensì spirito; così che, quando ascolta il Figlio che parla apertamente del Padre, si rende conto che colui che parla è della medesima sostanza del Padre. Allora quelli che chiedono, chiedono nel suo nome, perché al sentire il suo nome, non pensano ad una cosa diversa da quella che questo nome significa; né, per leggerezza o debolezza di mente, immaginano che il Padre sia in un determinato luogo e il Figlio in un altro e davanti al Padre, a pregarlo per noi, e che quindi ciascuno occupi un determinato posto nello spazio. Né immaginano che il Verbo dica per noi delle parole a colui del quale egli è Verbo, come se vi fosse una certa distanza tra la bocca di chi parla e l'orecchio di chi ascolta; ed altre cose simili, che gli uomini guidati dai sensi o anche dalla pura ragione si costruiscono nella loro fantasia. Gli uomini guidati dallo Spirito, invece, quando pensano a Dio, se alla loro mente si presentano immagini corporali, subito le respingono e le cacciano via dai loro occhi interiori come mosche importune, e docilmente accolgono quella luce purissima, alla cui testimonianza e al cui giudizio si persuadono dell'assoluta falsità delle immagini corporee che si presentano al loro sguardo interiore. Così possono rendersi conto che nostro Signore Gesù Cristo, in quanto uomo intercede per noi presso il Padre, in quanto Dio ci esaudisce insieme al Padre. E questo credo sia il senso delle sue parole: E non vi dico che io pregherò il Padre per voi (Gv 16, 26). Solamente l'occhio spirituale dell'anima può giungere ad intendere che il Figlio non prega il Padre, ma, insieme, e Padre e Figlio esaudiscono quelli che pregano.

[L'amore con cui amiamo Dio, viene da Dio.]

5. Lo stesso Padre infatti vi ama, perché voi mi avete amato (Gv 16, 27). Egli ci ama perché noi lo amiamo, o non è invece che noi lo amiamo perché egli ci ama? Ci risponda, nella sua lettera, lo stesso evangelista: Noi amiamo Dio - egli dice - perché egli ci ha amato per primo (1 Io 4, 10). E' dunque perché siamo stati amati che noi possiamo amarlo. Amare Dio è sicuramente un dono di Dio. E' lui che amandoci quando noi non lo amavamo, ci ha dato di amarlo. Siamo stati amati quando eravamo tutt'altro che amabili, affinché ci fosse in noi qualcosa che potesse piacergli. E non ameremmo il Figlio se non amassimo anche il Padre. Il Padre ci ama perché noi amiamo il Figlio; ma è dal Padre e dal Figlio che abbiamo ricevuto la capacità di amare e il Padre e il Figlio: lo Spirito di entrambi ha riversato nei nostri cuori la carità (cf. Rm 5, 5), per cui, mediante lo Spirito amiamo il Padre e il Figlio, e amiamo lo Spirito stesso insieme al Padre e al Figlio. E così possiamo ben dire che questo nostro amore filiale con cui rendiamo onore a Dio, è opera di Dio, il quale vide che era buono; e quindi egli ha amato ciò che ha fatto. Ma non avrebbe operato in noi nulla che meritasse il suo amore, se non ci avesse amati prima di operare alcunché.

6. E avete creduto che io sono uscito da Dio. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; adesso lascio il mondo e torno al Padre (Gv 16, 27-28). Senza dubbio lo abbiamo creduto. Né deve sembrarci incredibile che, venendo nel mondo, egli sia uscito dal Padre senza abbandonare il Padre, e, lasciando il mondo, torni al Padre senza abbandonare il mondo. E' uscito dal Padre perché è dal Padre, è venuto nel mondo, perché ha mostrato al mondo il corpo che ha preso dalla Vergine. Ha lasciato il mondo con la sua presenza corporale, è tornato al Padre con l'ascensione della sua umanità, ma senza abbandonare il mondo che egli guida con la sua presenza.

 

OMELIA 103

La vittoria sul mondo.

Bisogna aver fiducia nell'annuncio di Cristo. Egli, infatti, non avrebbe vinto il mondo, se il mondo potesse vincere le sue membra.

1. In tutto il Vangelo risulta da molti indizi come fossero i discepoli di Cristo quando egli, prima della passione, parlava di cose grandi con loro che erano piccoli. Ma ne parlava con un linguaggio adattato, cosicché anch'essi, pur essendo piccoli, sentissero parlare di quelle cose grandi; non avendo infatti ricevuto ancora lo Spirito Santo, come lo ricevettero dopo la risurrezione quando il Signore lo alitò su di loro e quando scese dall'alto, avevano il gusto delle cose umane più che non di quelle divine. E perciò dissero ciò che ora abbiamo sentito leggere: Dicono i suoi discepoli: Ecco, adesso parli apertamente e non dici alcuna parabola. Ora sappiamo che sai tutto, e non hai bisogno che qualcuno ti interroghi: perciò crediamo che sei uscito da Dio (Gv 16, 29-30). Il Signore poco prima aveva detto: Vi ho parlato di queste cose in parabole: viene l'ora in cui non vi parlerò più in parabole. Come mai allora essi dicono: Ecco, adesso parli apertamente e non dici alcuna parabola? Forse era già venuta l'ora in cui non avrebbe più parlato loro in parabole? Ma che non fosse ancora venuta quell'ora, lo dimostra il seguito delle sue parole, che sono queste: Vi ho parlato di queste cose in parabole: viene l'ora in cui non vi parlerò più in parabole, ma vi intratterrò apertamente sul Padre mio. In quel giorno voi chiederete nel mio nome, e non vi dico che io pregherò il Padre per voi: lo stesso Padre, infatti, vi ama, perché voi mi avete amato e avete creduto che io sono uscito da Dio. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; adesso lascio il mondo e torno al Padre (Gv 16, 25-28). Con queste parole chiaramente annuncia l'ora in cui non parlerà più in parabole, ma li intratterrà apertamente sul Padre; e aggiunge che in quell'ora essi chiederanno nel suo nome, mentre egli non pregherà il Padre per loro dato che il Padre stesso li ama, in quanto essi hanno amato Cristo e hanno creduto che egli è uscito dal Padre ed è venuto nel mondo, e che di nuovo lascerà il mondo per tornare al Padre. Perché dunque, di fronte alla sua promessa- dell'ora in cui non parlerà più in parabole, essi dicono: Ecco, adesso parli apertamente e non dici alcuna parabola, se non perché le sue parole sono parabole soltanto per coloro che non le intendono, ed essi le intendevano talmente poco da non rendersi neppure conto che non le intendevano? Essi erano ancora pargoli, incapaci di giudicare spiritualmente le cose che ascoltavano e che si riferivano, non al corpo, ma allo spirito.

2. Sicché, facendo constatare la loro età ancora infantile e debole secondo l'uomo interiore, Gesù risponde loro: Adesso credete? Ecco, viene l'ora, anzi è venuta, in cui vi disperderete, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me (Gv 16, 31-32). Poco prima aveva detto: Lascio il mondo e torno al Padre, e ora dice: Il Padre è con me. Come si può andare da uno con il quale già si è? Una tale affermazione è parola per chi intende, parabola per chi non la intende; in questa maniera, peraltro, non rifiuta totalmente ciò che i piccoli non capiscono, e, sebbene non possa offrir loro solido nutrimento, perché non ne sono ancora capaci, almeno non li priva di latte. Grazie a questo alimento i discepoli riconoscevano che egli sapeva tutto e che non v'era bisogno che alcuno lo interrogasse. Però ci si può chiedere perché hanno detto così. Parrebbe che essi piuttosto avrebbero dovuto dire: Non hai bisogno d'interrogare nessuno; e non come hanno detto: Non hai bisogno che qualcuno ti interroghi. Avevano detto: Ora sappiamo che sai tutto. E' normale che venga interrogato chi sa tutto da chi non sa, affinché l'interrogante abbia le risposte che vuole da chi sa tutto, e non sia invece colui che sa tutto a porre delle domande come se avesse bisogno di apprendere qualcosa. Perché dunque i discepoli, sapendo che il Maestro sapeva tutto, invece di dire, come a noi pare: Non hai bisogno di interrogare nessuno, hanno preferito dire: Non hai bisogno che qualcuno ti interroghi? O meglio, come ha potuto verificarsi l'una e l'altra cosa: che il Signore li ha interrogati ed è stato da loro interrogato? La questione si risolve facilmente, in quanto erano loro, non lui, che avevano bisogno di interrogarlo e di essere interrogati. Egli, infatti, non li interrogava per apprendere qualcosa da loro, ma piuttosto per insegnare loro qualcosa. E quelli che lo interrogavano per apprendere da lui, erano loro che avevano bisogno di imparare da colui che sapeva tutto. E' chiaro dunque che egli non aveva bisogno che qualcuno lo interrogasse. Quando al contrario veniamo interrogati da chi vuol sapere qualcosa da noi, è dalle sue domande che noi apprendiamo che cosa vuole imparare; abbiamo dunque bisogno di essere interrogati da parte di coloro cui vogliamo insegnare qualcosa, per poter conoscere le domande alle quali dobbiamo rispondere; mentre il Signore, che sapeva tutto, non aveva bisogno neppure di questo: non aveva bisogno delle loro domande per conoscere quello che volevano sapere, in quanto, già prima di essere interrogato, conosceva i desideri di quelli che volevano interrogarlo. E se accettava di essere interrogato, era per manifestare, sia a quanti erano presenti allora sia a quanti avrebbero più tardi ascoltato o letto le sue parole, gli atteggiamenti di quelli che lo interrogavano, perché in tal modo venissero a conoscere gli ostacoli che dovevano sormontare, e i lenti passi con cui ci si avvicinava a lui. Ma, mentre per lui che era Dio non costituiva grande cosa prevedere i pensieri umani e quindi non aveva bisogno di essere interrogato, lo era invece per quei piccoli, tanto che esclamarono: Per questo crediamo che tu sei uscito da Dio. Cosa invece ben più grande - per arrivare a comprendere la quale voleva che si sforzassero di crescere - fu che, avendo i discepoli ammesso con tutta verità: Sei uscito da Dio, il Signore affermò: Il Padre è con me; affinché, pensando al Figlio uscito dal Padre, non pensassero che si fosse allontanato da lui.

[La pace scopo di tutto.]

3. Il Signore conclude questo discorso così lungo e così importante dicendo: Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazione, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo! (Gv 16, 33). Questa tribolazione sarebbe iniziata in quel modo da lui annunciato quando, per dimostrare che essi, bambini com'erano, incapaci ancora di intendere e di discernere una cosa da un'altra, consideravano parabola tutto quanto egli aveva esposto di grande e di divino, disse: Adesso credete? Ecco, viene l'ora, anzi è venuta, in cui vi disperderete, ciascuno per conto suo. Tale l'inizio della tribolazione, che però non sarebbe continuata con la medesima violenza. Se infatti aggiunge: Mi lascerete solo, è perché nelle tribolazioni che il mondo infliggerà loro dopo la sua ascensione, non si abbattano al punto da abbandonarlo, e li esorta a rimanere in lui per avere pace in lui. Quando il Signore fu catturato, i discepoli lo abbandonarono, non soltanto materialmente, ma anche spiritualmente, rinnegando la fede. A questo si riferiscono le parole: Adesso credete? Ecco, viene l'ora, anzi è venuta, in cui vi disperderete, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; come a dire: Allora sarete talmente sconvolti che abbandonerete colui nel quale ora credete. Caddero, infatti, in tale disperazione che giunsero alla morte, se così si può dire, della loro fede anteriore. Ciò appare evidente in Cleofa, il discepolo che parlando, senza saperlo, con il Signore risorto, nel raccontargli quanto era accaduto, gli dice: Noi speravamo che fosse colui che deve redimere Israele (Lc 24, 21). Ecco, fino a che punto lo avevano abbandonato: perdendo anche quel po' di fede con cui prima avevano creduto. Invece, nelle tribolazioni che dovettero subire dopo la risurrezione del Signore, siccome avevano ricevuto lo Spirito Santo, non lo abbandonarono; e benché fuggissero di città in città, non fuggirono lontano da lui, ma in mezzo alle tribolazioni che ebbero nel mondo, pur di avere in lui la pace, non furono disertori da lui ma posero in lui il loro rifugio. Una volta ricevuto lo Spirito Santo, si verificò in loro quanto il Signore disse: Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo. Essi ebbero fiducia e vinsero. In grazia di chi vinsero, se non in grazia di lui? Egli non avrebbe vinto il mondo, se il mondo avesse sconfitto le sue membra. Per questo l'Apostolo dice: Siano rese grazie a Dio che ci concede la vittoria; e subito aggiunge: per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo (1 Cor 15, 57), il quale aveva detto ai suoi: Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo.

 

OMELIA 104

Il dono della pace.

Tutto quello che il Signore ha detto era perché i discepoli avessero pace in lui, ed è essenzialmente per questo che noi siamo Cristiani.

1. Prima di queste parole che con l'aiuto del Signore ci accingiamo ora a commentare, Gesù aveva detto: Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me (Gv 16, 33), intendendo con ciò riferirsi non solo a ciò che aveva detto loro immediatamente prima, ma anche a tutto ciò che disse fin da quando li prese con sé come discepoli e soprattutto a quel lungo e mirabile discorso che tenne loro dopo la cena. Con tali parole egli sottolinea lo scopo del suo discorso, affinché essi coerentemente rapportino a tale scopo tutto il suo insegnamento, e soprattutto quelle cose che ha detto quando era ormai sul punto di morire per loro, e che sono come le sue ultime parole, quelle che pronunciò dopo che il discepolo traditore si era allontanato da quella sacra Cena. Ci ha tenuto a dichiarare che lo scopo che lo aveva indotto a tenere quel discorso era perché trovassero pace in lui, che è poi lo scopo di tutta la vita cristiana. Questa pace non è soggetta ai limiti del tempo, ma sarà il fine d'ogni nostra santa intenzione e azione. E' in ordine a questa pace che noi veniamo iniziati con i suoi sacramenti, che cresciamo alla scuola delle sue mirabili opere e parole, che abbiamo ricevuto il pegno del suo Spirito, che crediamo e speriamo in lui, e, nella misura che egli ce lo concede, ardiamo di amore per lui. Questa pace ci consola in ogni prova e ci libera da ogni prova; in vista di questa pace sosteniamo coraggiosamente ogni tribolazione e in essa, liberi da ogni tribolazione, felicemente regneremo. Col tema della pace molto opportunamente conclude le sue parole, che ai discepoli ancora limitati nella loro intelligenza erano sembrate parabole, ma che essi avrebbero capito bene quando egli avrebbe dato loro, come aveva promesso, lo Spirito Santo: a proposito del quale così si era espresso: Queste cose vi ho detto stando in mezzo voi; ma sarà il Paracleto, lo Spirito Santo che il Padre invierà nel mio nome, a insegnarvi tutte queste cose e a ricordarvi tutto ciò che vi ho detto (Gv 14, 25-26). Quella sarebbe stata l'ora in cui, come aveva promesso, non avrebbe più parlato in parabole ma li avrebbe intrattenuti apertamente sul Padre. Allora queste sue stesse parole, grazie alla rivelazione dello Spirito Santo, non sarebbero state più dei proverbi. E per il fatto che lo Spirito Santo avrebbe parlato nei loro cuori, non per questo avrebbe taciuto l'unigenito Figlio, il quale anzi disse che proprio in quell'ora li avrebbe intrattenuti apertamente sul Padre, di modo che, comprendendole, quelle cose non sarebbero state più per loro delle parabole. Ma questo stesso fatto, come cioè possano simultaneamente parlare nel cuore dei fedeli il Figlio di Dio e lo Spirito Santo, o per meglio dire, la Trinità stessa che opera inseparabilmente, è una parola comprensibile per quelli che intendono, rimane una parabola per quelli che non intendono.

[Ci fece conoscere l'orazione che fece per noi.]

2. Dopo aver dunque dichiarato perché aveva detto quelle cose, affinché cioè avessero pace in lui mentre nel mondo avrebbero avuto tribolazione, e dopo averli esortati ad avere fiducia, dato che egli aveva vinto il mondo, terminato il discorso che ad essi era rivolto, rivolse la parola al Padre, e cominciò a pregare. Così infatti prosegue l'evangelista: Così parlò Gesù; poi, levati gli occhi al cielo, disse: Padre, è venuta l'ora; glorifica tuo Figlio (Gv 17, 1). Il Signore unigenito e coeterno al Padre, avrebbe potuto, anche nella sua forma di servo e in quanto servo, se fosse stato necessario, pregare in silenzio; ma egli volle manifestarsi in atteggiamento di preghiera al Padre, non dimenticando di essere nostro maestro. Ha voluto perciò farci conoscere l'orazione che per noi rivolse al Padre: i discepoli dovevano infatti trovare motivo di edificazione non soltanto nel discorso che un tale maestro ad essi rivolgeva, ma anche nell'orazione per essi rivolta al Padre: è stata un'edificazione per quelli che erano là ad ascoltare, e lo è per noi che leggiamo cose che essi hanno scritto. Pertanto, dicendo: Padre, è venuta l'ora; glorifica tuo Figlio, ci dimostra che i tempi e i momenti di tutte le azioni che egli stesso compiva o lasciava compiere erano disposti da lui che non è soggetto al tempo; in quanto le cose avvenire, ciascuna a suo tempo, hanno la loro causa efficiente nella sapienza di Dio che non conosce tempo. Non si pensi dunque che quell'ora fosse stabilita dal fato, mentre era stata disposta dalla volontà di Dio. Né fu la necessità derivante dalle stelle a decidere la passione di Cristo: poiché le stelle non potevano certo costringere il loro creatore a morire. Come non fu il tempo che spinse Cristo alla morte, ma fu lui a decidere il tempo della sua morte, come decise il tempo della sua nascita dalla Vergine, insieme al Padre, da cui è nato al di fuori di ogni tempo. Secondo questa vera e sana dottrina, anche l'apostolo Paolo dice: Allorché venne la pienezza del tempo, Iddio inviò il suo Figlio (Gal 4, 4); e Dio per bocca del profeta dice: Nel tempo accettevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso (Is 49, 8); e a sua volta l'Apostolo: Ecco ora il tempo ben accetto, ecco ora il giorno della salvezza (2 Cor 6, 2). Dica dunque: Padre, è venuta l'ora, colui che insieme al Padre ha regolato tutti i tempi. E' come se dicesse: Padre, è venuta l'ora, che insieme abbiamo stabilito per la mia glorificazione presso gli uomini e per gli uomini; glorifica il Figlio tuo affinché il Figlio glorifichi te.

3. Taluni dicono che la glorificazione del Figlio da parte del Padre consiste nel fatto che non lo ha risparmiato, ma lo ha consegnato alla morte per noi tutti (cf. Rm 8, 32). Ma se si può chiamare glorificazione la passione, tanto più la risurrezione. Infatti nella passione risalta piuttosto la sua umiltà che la sua gloria, secondo la testimonianza dell'Apostolo che dice: Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. E proseguendo, l'Apostolo parla della glorificazione di Cristo in questi termini: Perciò Iddio lo ha sovraesaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio degli esseri celestiali, di quelli terrestri e sotterranei, e ogni lingua proclami che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre. Questa la glorificazione di nostro Signore Gesù Cristo, che ha avuto inizio con la sua risurrezione. La sua umiliazione, dunque, viene dall'Apostolo descritta nel passo che incomincia con: annientò se stesso, prendendo la forma di servo, e termina con le parole: alla morte di croce; la sua gloria è descritta nel passo che inizia con: Dio l'ha esaltato, e termina con le parole: è nella gloria di Dio Padre (Fil 2, 7-11). Se si confronta il testo greco, da cui sono stati tradotti in latino gli scritti degli Apostoli, si vedrà che là dove noi leggiamo gloria, in greco si legge ; da deriva il verbo , che l'interprete latino traduce con clarifica, quando potrebbe, con altrettanta esattezza, dire glorifica. E così anche nella lettera dell'Apostolo, al posto di gloria si sarebbe potuto mettere il sinonimo clarità. E, per conservare il suono delle parole, come da clarità deriva clarificazione, così da gloria deriva glorificazione. Orbene, il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, per giungere allo splendore e alla gloria della risurrezione, ha dovuto passare attraverso l'umiliazione della passione; se infatti non fosse morto, non sarebbe potuto risuscitare dai morti. E' l'umiltà che gli ha meritato lo splendore della gloria, e la gloria è il premio dell'umiltà. Questo avvenne nella forma di servo, perché nella forma di Dio, Cristo sempre fu e sarà nella gloria; anzi non si può dire fu, come se non vi fosse più, né che sarà nella gloria, come se adesso non ci fosse ancora; perché la sua gloria è senza inizio e senza fine. Perciò le parole: Padre, è venuta l'ora; fa risplendere la gloria di tuo Figlio, hanno questo significato: E' venuta l'ora di seminare nell'umiltà; non indugiare a far risplendere il frutto della gloria. Ma che senso ha quel che segue: affinché il Figlio glorifichi te? Forse che anche il Padre passò attraverso l'umiliazione della carne e della passione, per cui occorreva che poi fosse glorificato? In che senso dunque il Figlio doveva glorificarlo, se la sua eterna gloria non poté essere diminuita dalla forma umana, né avrebbe potuto essere accresciuta nella sua forma divina? Ma non voglio limitare la questione a questo discorso, che non può essere ulteriormente protratto.

 

OMELIA 105

La vita eterna è conoscere Dio.

Se la vita eterna consiste nel conoscere Dio, tanto più viviamo quanto più progrediamo nella conoscenza di Dio.

1. Risulta chiaramente che il Padre ha glorificato il Figlio nella sua forma di servo, risuscitandolo da morte e collocandolo alla sua destra: è un fatto di cui nessun cristiano può dubitare. Ma siccome il Signore non ha detto soltanto: Padre, glorifica tuo Figlio, ma ha aggiunto: affinché tuo Figlio glorifichi te (Gv 17, 1), giustamente ci chiediamo in che modo il Figlio abbia glorificato il Padre, dato che la gloria del Padre non si era abbassata fino ad assumere forma umana né poteva essere accresciuta nella sua perfezione divina. Se però la gloria del Padre non può diminuire né aumentare in se stessa, tuttavia essa, agli occhi degli uomini, era in qualche modo minore quando Dio era conosciuto soltanto nella Giudea (cf. Sal 75, 2), e non ancora dall'oriente all'occidente i suoi servi lodavano il nome del Signore (cf. Sal 112, 3 1). Ma quando con l'annuncio del Vangelo di Cristo, il Padre fu fatto conoscere anche fra i gentili per mezzo del Figlio, allora avvenne che anche il Figlio glorificò il Padre. Se il Figlio fosse soltanto morto e non fosse anche risorto, certamente non sarebbe stato glorificato dal Padre né a sua volta egli avrebbe glorificato il Padre; adesso invece, glorificato dal Padre mediante la risurrezione, il Figlio glorifica il Padre attraverso la predicazione della sua risurrezione. Ciò risulta chiaro anche dalla successione delle parole: Glorifica il Figlio tuo, affinché il Figlio glorifichi te; come a dire: Risuscitami, affinché per mezzo mio tu possa essere conosciuto in tutto il mondo.

2. Sempre più chiaramente mostra in che modo il Figlio glorificherà il Padre: Siccome gli hai dato potere sopra ogni carne, affinché dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato (Gv 17, 2). Dice "ogni carne" per dire ogni uomo, indicando una parte per il tutto; così come per la parte superiore viene indicato tutto l'uomo, là dove l'Apostolo dice: Ogni anima sia soggetta alle autorità che presiedono (Rm 13, 1). Che significa ogni anima, se non ogni uomo? E si deve intendere che il Padre ha dato a Cristo potestà sopra ogni carne in quanto uomo, poiché, in quanto Dio, ogni cosa è stata creata per mezzo di lui (cf. Gv 1, 3), ed in lui sono state fatte le cose che stanno in cielo e in terra, le visibili come le invisibili (cf. Col 1, 16). Secondo il potere che gli hai dato - dice dunque il Signore - sopra ogni carne, così tuo Figlio ti glorifichi, cioè ti faccia conoscere ad ogni carne che gli hai dato. Tu gli hai dato infatti questo potere affinché dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato.

[Dov'è perfetta conoscenza, ivi è la massima glorificazione.]

3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17, 3). L'ordine delle parole è il seguente: che conoscano te e colui che hai mandato, Gesù Cristo come il solo vero Dio. Di conseguenza vi è compreso anche lo Spirito Santo, perché è lo Spirito del Padre e del Figlio, essendo l'amore sostanziale e consostanziale di ambedue. Il Padre e il Figlio non sono due dèi, come non sono tre dèi il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, ma la Trinità stessa è un unico vero Dio. Neppure, il Padre è la stessa persona del Figlio, né il Figlio la stessa persona del Padre, e neanche lo Spirito Santo è la persona del Padre e del Figlio. Il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo sono tre persone distinte, ma la Trinità è un solo Dio. Se dunque il Figlio ti glorifica in modo corrispondente al potere che tu gli hai dato sopra ogni carne, e tu glielo hai dato affinché dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato, e se la vita eterna consiste nel conoscere te, ebbene il Figlio ti glorifica facendoti conoscere a tutti coloro che gli hai dato. Se, pertanto, la vita eterna è conoscere Dio, tanto più tendiamo verso la vita quanto più progrediamo nella conoscenza di Dio. Nella vita eterna non moriremo: la conoscenza di Dio sarà perfetta quando la morte non ci sarà più. Allora Dio sarà sommamente glorificato, con quella gloria suprema che in greco vien chiamata da cui deriva , che alcuni traducono in latino clarifica, cioè fa risplendere la gloria, altri glorifica. Gli antichi hanno definito la gloria, che rende gloriosi gli uomini, in questi termini: la fama che uno costantemente gode, accompagnata da lode. E se l'uomo viene lodato quando si crede alla fama che gode, come dovrà essere lodato Dio quando potremo vederlo qual è? Perciò il salmo dice: Beati coloro che abitano nella. tua casa; nei secoli dei secoli ti loderanno (Sal 83, 5). La lode di Dio non avrà fine là dove la conoscenza di Dio sarà perfetta; e poiché la conoscenza di Dio sarà perfetta, allora massimamente risplenderà la sua gloria e sarà da noi pienamente glorificato.

4. Ma prima Dio viene glorificato qui in terra quando, attraverso la predicazione, gli uomini vengono a conoscerlo e la fede dei credenti gli rende testimonianza. Questo è il senso delle parole che seguono: Io ti ho glorificato sulla terra compiendo l'opera che mi hai dato da fare (Gv 17, 4). Non dice: che mi hai comandato, ma: che mi hai dato da fare, manifestando così l'intenzione di voler mettere in risalto il carattere della grazia. Che cosa ha, infatti, la natura umana, anche quella unita al Figlio unigenito, che non abbia ricevuto? Non ha forse ricevuto il dono di non compiere alcun male e di compiere ogni bene, quando fu assunta nell'unità della persona dal Verbo per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose? Ma come può il Signore dire di aver compiuto l'opera a lui affidata, quando ancora gli rimane da superare la prova della passione, con la quale soprattutto, avrebbe offerto ai suoi martiri l'esempio da seguire, come appunto dice l'apostolo Pietro: Cristo patì per noi, lasciandoci l'esempio, affinché seguiamo le sue orme (1 Pt 2, 21)? Perché sicuramente compirà ciò che dice di aver compiuto. Così, come molto tempo prima, nella profezia, usò verbi al passato in ordine ad avvenimenti che sarebbero accaduti molti anni dopo: Mi hanno trafitto mani e piedi, hanno contato tutte le mie ossa (Sal 21, 17-18). Non disse: Trafiggeranno e conteranno. E in questo stesso Vangelo, Cristo dice: Tutto ciò che ho udito dal Padre mio, l'ho fatto conoscere a voi (Gv 15, 15) rivolgendosi a quelli stessi cui poi dice: Ho ancora molte cosa da dirvi, ma adesso non siete in condizione di portarle (Gv 16, 12). Colui che aveva predestinato tutto il futuro nelle sue cause certe ed immutabili, aveva già fatto quanto avrebbe fatto, come appunto dice di lui il profeta: Egli ha fatto tutte le cose future (Is 45, 11 sec. LXX).

5. E' in questo senso che prosegue: E adesso glorificami tu, Padre, presso di te, con la gloria che, prima che il mondo fosse, avevo presso di te (Gv 17, 5). Prima aveva detto: Padre, è venuta l'ora; glorifica il Figlio tuo, affinché il Figlio glorifichi te, indicando con l'ordine delle parole che prima il Padre dovrà glorificare il Figlio, affinché il Figlio a sua volta glorifichi il Padre; mentre ora dice: Io ti ho glorificato sulla terra, ho compiuto l'opera che mi hai dato da fare; e adesso glorificami, come se egli per primo avesse glorificato il Padre, dal quale chiede poi di essere glorificato. E' da intendere, quindi, che sopra ha usato ambedue i verbi con significato di futuro, e nell'ordine anche della loro realizzazione: Glorifica il Figlio tuo affinché il Figlio glorifichi te; adesso invece usa il passato in ordine ad un evento futuro, dicendo: Io ti ho glorificato sulla terra, ho compiuto l'opera che mi hai dato da fare. Aggiunge poi: E adesso glorificami tu, Padre, presso di te, come se in seguito avesse dovuto essere glorificato dal Padre che egli per primo aveva glorificato: cosa vuol significare, esprimendosi così, se non che con le precedenti parole: Io ti ho glorificato sulla terra, si era espresso come se avesse già fatto ciò che avrebbe dovuto fare? Ora invece chiede al Padre che faccia quanto è necessario perché il Figlio possa a sua volta glorificare il Padre: chiede al Padre che glorifichi il Figlio, affinché il Figlio possa glorificare il Padre. Insomma, se per una cosa futura mettiamo anche il verbo al futuro, dove invece del futuro il Signore ha messo il passato, non ci sarà più nessuna oscurità, come se egli avesse detto: Io ti glorificherò sulla terra, compirò l'opera che tu mi hai dato da fare; e adesso glorificami tu, Padre, presso di te. Queste parole risultano chiare come quelle di prima: Glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te. Voglion dire la stessa cosa, solamente che qui si precisa anche il modo di questa glorificazione, mentre nella frase precedente non se ne parla; come se quella frase dovesse trovare la spiegazione in questa per coloro che potevano chiedersi in che modo il Padre possa glorificare il Figlio, e soprattutto in che modo il Figlio possa glorificare il Padre. Dicendo, infatti, che egli glorificherà il Padre sulla terra e che il Padre lo glorificherà presso di sé, egli indica il modo dell'una e dell'altra glorificazione. Infatti egli ha glorificato il Padre sulla terra, annunciandolo ai popoli; il Padre a sua volta ha glorificato il Figlio presso di sé, collocandolo alla sua destra. E' per questo che, parlando della glorificazione del Padre, nell'espressione: Io ti ho glorificato, ha preferito usare il verbo al passato, per far vedere che nella predestinazione era già un fatto compiuto e come tale da ritenersi quello che con tutta certezza si sarebbe compiuto in futuro, e cioè che, avendolo il Padre glorificato presso se stesso, anche il Figlio, a sua volta, avrebbe glorificato il Padre sulla terra.

6. Però questa predestinazione nella sua glorificazione, con la quale il Padre lo ha glorificato, la rivela più apertamente quando aggiunge: con la gloria che avevo presso di te, prima che il mondo fosse. L'ordine dei concetti è il seguente: che avevo presso di te, prima che il mondo fosse. Anche qui vale l'espressione: e adesso glorificami tu; cioè, come allora anche adesso, come allora nella predestinazione così adesso nel suo compimento; compi nel mondo ciò che era già presso di te prima che il mondo fosse; compi a suo tempo ciò che prima di tutti i tempi hai deciso. Taluni hanno creduto che questo doveva intendersi nel senso che la natura umana assunta dal Verbo si dovesse trasformare nel Verbo, e che quindi, l'uomo dovesse tramutarsi in Dio; anzi, esprimendo meglio il loro pensiero, l'uomo dovesse perdersi in Dio. Non si vorrà infatti dire che con questo cambiamento dell'uomo il Verbo di Dio venga raddoppiato, o quanto meno accresciuto, così da diventare due ciò che era uno, o più grande ciò che era più piccolo. Ora, se la natura umana si muta e si trasforma nel Verbo, mentre il Verbo di Dio rimane ciò che era e grande com'era, dov'è l'uomo se proprio non scompare?

 

OMELIA 106

La conoscenza è legata alla fede.

I discepoli cominciarono a conoscere veramente, non quando ascoltarono le parole di Cristo, ma quando le accolsero nel loro cuore e vi aderirono, cioè quando cominciarono a credere.

1. Commenteremo ora, con l'aiuto del Signore, queste parole che fanno parte della sua orazione: Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato traendoli dal mondo (Gv 17, 6). Se queste parole si riferiscono solamente ai discepoli con i quali aveva cenato e ai quali, prima di cominciare la sua orazione, aveva detto tante cose, sembra non abbiano relazione con quella manifestazione di gloria - o glorificazione, come altri traducono - con cui il Figlio fa risplendere la gloria, o glorifica il Padre. Quanta e quale gloria era infatti l'essersi manifestato a dodici anzi undici mortali? Se invece con le parole: Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato traendoli dal mondo, ha voluto intendere tutti, anche quelli che in futuro avrebbero creduto in lui, tutti gli appartenenti a quella grande Chiesa che si sarebbe raccolta da tutte le genti, e della quale nel salmo si canta: Ti canterò in una grande assemblea (Sal 34, 18), allora sì che si realizza questa glorificazione con cui il Figlio glorificò il Padre, facendo conoscere il suo nome a tutte le genti e a tante generazioni umane. E il senso di queste parole: Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato traendoli dal mondo, corrisponde al senso di quell'altra: Io ti ho glorificato sulla terra (Gv 17, 4) e nella quale, come in questa, usa il passato al posto del futuro, perché egli sa che ciò dovrà necessariamente avvenire essendo predestinato; perciò dice d'aver già compiuto quanto, senza alcun dubbio, avrebbe compiuto in avvenire.

2. Ma è più verosimile che egli dica queste parole: Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato traendoli dal mondo, riferendosi a coloro che erano già suoi discepoli, non a tutti quelli che avrebbero creduto in lui, come risulta dalle parole che seguono. Infatti, detto questo, egli aggiunge: Erano tuoi, e me li hai dati, e hanno custodito la tua parola. Essi, ora, sanno che tutto ciò che mi hai dato viene da te, perché le parole che mi hai date le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute e hanno riconosciuto davvero che sono uscito da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato (Gv 17, 6-8). Benché anche queste parole si sarebbero potute applicare a tutti i futuri fedeli, come già realizzate nella speranza, pur essendo ancora future; tuttavia quello che segue ancor più ci induce a ritenere che queste cose si riferivano solamente ai discepoli che aveva allora. Dice infatti: Quando ero con loro, io stesso li conservavo nel nome tuo; quelli che mi hai dati li ho custoditi; e nessuno di loro è perito, tranne il figlio della perdizione, affinché la Scrittura si adempisse (Gv 17, 12). Allude a Giuda, che lo tradì, l'unico dei dodici Apostoli che si è perduto. Poi continua: Ma ora io vengo a te (Gv 17, 13). Quindi è chiaro che dicendo: Quando ero con loro, io stesso li conservavo nel tuo nome egli parla della sua presenza fisica, come se già con tale presenza non fosse più insieme con loro. In questo modo, dicendo: Ora io vengo a te, annuncia imminente la sua ascensione: è sul punto di ascendere alla destra del Padre, donde verrà a giudicare i vivi e i morti nuovamente con la sua presenza corporale, in base alle norme della fede e della sana dottrina. Con la presenza spirituale, infatti, sarebbe rimasto con loro dopo la sua ascensione e con tutta la Chiesa in questo mondo fino alla consumazione dei secoli (cf. Mt 28, 20). Perciò in queste parole: Quando ero con loro, io stesso li conservavo nel tuo nome, non possono essere compresi se non quei credenti che aveva già cominciato a conservare con la sua presenza corporale e che, privati fra poco di questa, avrebbe continuato a conservare, insieme al Padre, con la sua presenza spirituale. Aggiunge però anche gli altri suoi seguaci, dicendo: Non prego per questi soltanto, ma anche per coloro che crederanno in me per mezzo della loro parola (Gv 17, 20); dove più chiaramente appare che quando prima aveva detto: Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato, non parlava di tutti gli uomini che avrebbero creduto, ma soltanto di quelli che erano là ad ascoltarlo.

[La gloria del Padre estesa a tutti gli uomini.]

3. E così, dall'inizio della sua orazione, quando levati gli occhi al cielo, disse: Padre, è venuta l'ora; glorifica il tuo Figlio affinché tuo Figlio glorifichi te, fino a quando poco dopo disse: e adesso glorificami tu, Padre, presso di te, con la gloria che, prima che il mondo fosse, avevo presso di te (Gv 17, 1-5), intendeva parlare di tutti i suoi fedeli, nei quali glorifica il Padre facendolo ad essi conoscere. Infatti quando dice: affinché il Figlio glorifichi te, indica subito in che modo ciò dovrà avvenire, aggiungendo: siccome gli hai dato potere sopra ogni carne, affinché dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17, 2-3). Infatti non può il Padre venire glorificato mediante la conoscenza che di lui potranno avere gli uomini, se non si conosce anche colui per mezzo del quale egli viene glorificato, per mezzo del quale cioè viene conosciuto dai popoli. Questa è la glorificazione del Padre, realizzata non solo in quegli Apostoli, ma in tutti gli uomini, che sono membra del corpo il cui Capo è Cristo. E non si possono certo restringere ai soli Apostoli le parole: siccome gli hai dato potere sopra ogni carne, affinché dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Esse si estendono a tutti coloro ai quali viene concessa la vita eterna per aver creduto in lui.

4. Vediamo ora cosa dice dei suoi discepoli che erano là ad ascoltarlo: Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato. Vuol dire allora che, pur essendo Giudei, non conoscevano il nome di Dio? Ma non si trova forse nei salmi questo versetto: Iddio è conosciuto in Giudea, grande è il suo nome in Israele (Sal 75, 2)? Ho manifestato, quindi, il tuo nome a questi qui che mi hai dato traendoli dal mondo, e che mi ascoltano mentre dico questo; ma non ho manifestato loro quel tuo nome con cui sei chiamato Dio, bensì quello con cui sei invocato "Padre mio". E questo nome non poteva essere manifestato agli uomini se non fosse stato lo stesso Figlio a manifestarlo. Infatti, in quanto è chiamato Dio di tutte le creature, questo nome non ha potuto rimanere del tutto ignorato neppure alle genti, anche prima che credessero in Cristo. Tale infatti è l'evidenza della vera divinità, che essa non può rimanere del tutto nascosta alla creatura razionale che sia ormai capace di ragionare. Fatta eccezione di pochi, nei quali la natura è troppo depravata, tutto il genere umano riconosce Dio come autore di questo mondo. E così, come creatore di questo mondo che si offre al nostro sguardo in cielo e sulla terra, Dio era noto a tutte le genti, anche prima che abbracciassero la fede di Cristo. In quanto poi unico Dio degno di culto, da non mescolarsi sacrilegamente col culto di false divinità, Iddio era conosciuto in Giudea. Ma in quanto Padre di Cristo, per mezzo del quale toglie i peccati del mondo, questo suo nome, prima sconosciuto a tutti, lo stesso Cristo lo ha manifestato adesso a coloro che il Padre gli ha dato traendoli dal mondo. Ma in che senso lo ha manifestato, se ancora non è venuta l'ora di cui aveva parlato prima dicendo: Viene l'ora in cui non vi parlerò più in parabole, ma vi intratterrò apertamente sul Padre mio (Gv 16, 25)? Si può considerare manifestazione un discorso in parabole? Perché allora dice: vi intratterrò apertamente, se non perché in parabole non è apertamente? Si dice apertamente una cosa quando non la si nasconde con parabole, ma si manifesta con parole. In che senso allora aveva già manifestato quanto ancora non ha detto apertamente? Bisogna dunque ammettere che ha usato il passato al posto del futuro, come in quella frase: Tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi (Gv 15, 15). Era una cosa che non aveva ancora fatta, ma ne parlava come se già avesse fatto ciò la cui realizzazione sapeva che era stata immutabilmente prestabilita.

5. Che significa: quelli che mi hai dati traendoli dal mondo? Era stato detto di loro che non erano del mondo: effetto, in essi, non della generazione ma della rigenerazione. E che significa ciò che segue: Erano tuoi, e me li hai dati? C'è stato forse un tempo in cui erano del Padre ma non dell'unigenito suo Figlio, e c'è stato un tempo in cui il Padre ha avuto qualcosa che il Figlio non avesse? No di certo. C'è stato però un tempo in cui come Dio il Figlio aveva qualcosa che come uomo ancora non aveva; sì, perché come uomo non era ancora nato da sua madre, quando già, insieme al Padre, possedeva ogni cosa. Perciò dicendo: Erano tuoi, non pone una separazione tra Dio Padre e Dio Figlio, dato che il Padre non ha mai avuto nulla che non avesse anche il Figlio; ma vuole attribuire, come è solito fare, tutto il suo potere a colui dal quale egli stesso procede. Infatti, da chi ha l'essere ha anche il potere; ed ha posseduto sempre una cosa e l'altra insieme, perché mai c'è stato un momento in cui era e non avesse il potere. Perciò il Padre ha sempre condiviso tutto il suo potere col Figlio, perché colui che non è mai stato senza potere, non è mai stato senza il Padre, né mai il Padre è stato senza il Figlio. E come il Padre eterno è onnipotente, così il Figlio coeterno è onnipotente; e se è onnipotente, è anche onnitenente. Sarebbe appunto questa la traduzione letterale, se volessimo rendere con proprietà il greco , che i latini non avrebbero tradotto "onnipotente" invece che "onnitenente", se i due termini non fossero sinonimi. Che cosa dunque ha potuto avere l'eterno onnitenente che nel medesimo tempo non avesse il coeterno onnitenente? Dicendo poi: e me li hai dati, dimostra che egli come uomo ha ottenuto di poterli avere; egli infatti che sempre è stato onnipotente, non sempre è stato uomo. Perciò, mentre sembra attribuire al Padre il fatto di averli ottenuti (in quanto tutto ciò che esiste è dal Padre dal quale anch'egli proviene), tuttavia egli stesso se li è dati. Cioè, Cristo, in quanto Dio insieme al Padre, ha dato gli uomini a Cristo in quanto uomo e non uguale in ciò al Padre. Insomma, colui che ora dice: Erano tuoi, e me li hai dati, precedentemente aveva detto ai discepoli: Io vi ho scelti dal mondo (Gv 15, 19). Si calpesti qui, e scompaia ogni pensiero grossolano. Il Figlio dice che il Padre gli ha dato, traendoli dal mondo, quegli stessi uomini ai quali altrove dice: Io vi ho scelti dal mondo. Come uomo il Figlio ha ricevuto dal Padre, che li ha tratti dal mondo, quegli stessi uomini che come Dio il Figlio scelse dal mondo assieme al Padre; il Padre infatti non li avrebbe potuti dare al Figlio, se non li avesse scelti. Così come il Figlio non si separa dal Padre quando dice: Io vi ho scelti dal mondo, perché li scelse insieme al Padre, così neppure si separa dal Padre dicendo: Erano tuoi, in quanto essi erano ugualmente del Figlio. Adesso, tuttavia, come uomo il medesimo Figlio riceve quelli che non erano suoi, nello stesso modo in cui come Dio ha ricevuto la forma di servo, che non era sua.

6. Continua dicendo: E hanno custodito la tua parola. Essi, ora, hanno conosciuto che tutto ciò che mi hai dato viene da te; cioè essi sanno che io vengo da te. Il Padre infatti gli ha dato tutto, quando lo ha generato perché avesse tutto. Perché le parole che mi hai date le ho date a loro, ed essi le hanno ricevute; cioè le hanno comprese e ritenute. La parola, infatti, si riceve quando con l'intelligenza se ne penetra il significato. E hanno veramente conosciuto che sono uscito da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. Anche qui bisogna sottintendere l'avverbio veramente. Aggiungendo infatti: e hanno creduto, il Signore spiega le parole precedenti, e cioè: hanno veramente conosciuto. Essi hanno veramente creduto ciò che hanno veramente conosciuto; e così l'affermazione: sono uscito da te corrisponde a quell'altra: tu mi hai mandato. E per evitare che, basandosi sulla sua frase: hanno veramente conosciuto, qualcuno pensi che questa conoscenza sia già per visione e non per fede, spiegandola aggiunge: e hanno creduto, sottintendendo veramente; e così ci rendiamo conto che hanno veramente conosciuto è lo stesso che hanno veramente creduto. Non però in quel modo che aveva indicato poco prima dicendo: Adesso credete? Ecco, viene l'ora, anzi è venuta, in cui vi disperderete, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo (Gv 16, 31-32). Ora, egli dice, essi hanno creduto veramente, cioè come si deve credere: in modo inconcusso, sicuro, stabile, forte; in modo da non fuggirsene più ciascuno per conto suo, lasciando Cristo solo. I discepoli non erano ancora arrivati ad essere come Cristo li definisce usando il verbo al passato, come se già lo fossero; ma predice quali saranno quando avranno ricevuto lo Spirito Santo, il quale, secondo la sua stessa promessa, insegnerà loro ogni cosa. Come poté dire il Signore che avevano osservato le sue parole, prima di ricevere lo Spirito Santo, quasi che l'avessero fatto per davvero, quando il primo fra loro per tre volte rinnegò il Maestro (cf. Mt 26, 69-74), pur dopo aver ascoltato dalla sua bocca cosa doveva attendersi chi lo avesse rinnegato davanti agli uomini (cf. Mt 10, 33)? Egli dunque diede a loro, secondo la sua espressione, le parole che il Padre gli aveva date; ma soltanto quando le accolsero non più esteriormente mediante le orecchie del corpo, ma spiritualmente nei loro cuori, allora veramente le accolsero perché veramente le conobbero. E le hanno veramente conosciute perché hanno veramente creduto.

7. Ma con quali parole potrà l'uomo spiegare in che modo il Padre ha dato al Figlio quelle parole? Certo, il problema mi sembra più semplice, se si crede che le ha ricevute dal Padre in quanto è il Figlio dell'uomo. E anche così, chi potrà spiegare come e quando le ha apprese dopo esser nato dalla Vergine, se è inspiegabile la sua medesima generazione nel seno della Vergine? Se poi si ritiene che abbia ricevuto queste parole dal Padre in quanto è generato dal Padre e coeterno al Padre, si escluda allora ogni idea di tempo, che ci porterebbe a pensare che egli sia esistito prima di averle, e per averle abbia dovuto riceverle. Infatti tutto ciò che Dio Padre ha dato a Dio Figlio, glielo ha dato generandolo. Il Padre, così come gli ha dato l'essere, gli ha dato quelle parole, senza delle quali il Figlio non sarebbe. Infatti, come poteva in altro modo dare le parole al Verbo, nel quale in modo ineffabile il Padre ha detto tutto? Il seguito bisognerà rimandarlo ad altro discorso.

 

OMELIA 107

La pienezza della gioia.

E' lo scopo di tutto ciò che Cristo ha detto e ha fatto. Si potrà raggiungere nel secolo futuro, a condizione però che si viva in questo secolo con pietà, giustizia e temperanza.

1. Parlando al Padre dei discepoli che già aveva, il Signore tra l'altro dice: Io per essi prego; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato (Gv 17, 9). Per mondo qui vuole intendere coloro che vivono seguendo le concupiscenze del mondo, e non li ha raggiunti la grazia sì da essere scelti dal mondo. Dice di voler pregare, non per il mondo, ma per coloro che il Padre gli ha dato; poiché, già per il fatto che il Padre li ha dati a lui, essi non appartengono più a quel mondo per il quale egli non prega.

2. Soggiunge: perché sono tuoi. Il Padre infatti non li ha perduti per averli dati al Figlio, come il Figlio stesso proseguendo dice: e tutto ciò che è mio è tuo, e ciò che è tuo è mio (Gv 17, 10). Da queste parole appare chiaramente in che senso all'unigenito Figlio appartenga tutto ciò che appartiene al Padre; precisamente perché anch'egli è Dio, ed è nato dal Padre uguale a lui; e quindi non nel senso in cui il padre della parabola dice a uno dei due figli, al maggiore: Tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo (Lc 15, 31). Questo vale per tutti i beni creati che sono inferiori alla creatura santa e razionale, e che pure sono soggetti alla Chiesa; a quella Chiesa universale cui appartengono anche il figlio maggiore e quello minore, insieme a tutti i santi angeli ai quali, nel regno di Cristo e di Dio, noi saremo uguali (cf. Mt 22, 30). Le parole: tutto ciò che è mio è tuo, e ciò che è tuo è mio, includono anche le creature razionali, che sono soggette solo a Dio, cosicché a Dio sono soggetti quegli esseri che sono soggetti a tali creature. Queste creature poi, che appartengono a Dio Padre, non apparterrebbero anche al Figlio se il Figlio non fosse uguale al Padre; poiché è a queste creature razionali che il Signore si riferisce quando dice: non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi, e tutto ciò che è mio è tuo, e ciò che è tuo è mio. Non è lecito ai santi, dei quali ha parlato così, appartenere ad altri che a colui dal quale sono stati creati e santificati; e di conseguenza, tutto ciò che appartiene ad essi, appartiene a colui al quale essi stessi appartengono. Appartenendo dunque e al Padre e al Figlio, dimostrano l'uguaglianza tra il Padre e il Figlio, ai quali essi ugualmente appartengono. Ma quanto a ciò che il Signore aveva detto parlando dello Spirito Santo: Tutto ciò che ha il Padre è mio; ecco perché vi ho detto che prenderà del mio per comunicarvelo (Gv 16, 15), lo ha detto riferendosi a ciò che appartiene alla divinità stessa del Padre in cui già è uguale, avendo egli stesso tutto ciò che il Padre ha. Né l'espressione: prenderà del mio significa che lo Spirito Santo, a sua volta, dovrà ricevere da una creatura soggetta al Padre e al Figlio ciò che annuncia; ma lo riceverà dal Padre, dal quale procede e dal quale è nato anche il Figlio.

3. E in essi io sono glorificato. Il Signore parla qui della sua glorificazione come di una cosa fatta, mentre ancora deve realizzarsi; poco prima, invece, aveva chiesto al Padre che si realizzasse. Ma domandiamoci se si tratta della medesima glorificazione a proposito della quale allora aveva detto: E adesso glorificami tu, Padre, con la gloria che, prima che il mondo fosse, avevo presso di te (Gv 17, 5). Presso di te è forse lo stesso che in essi? Forse per il fatto che è conosciuto da essi e per mezzo di essi, la conoscenza arriva a quanti hanno creduto alla loro testimonianza? Possiamo senz'altro ammettere che il Signore, dicendo che era glorificato in essi, si riferiva agli Apostoli; e, parlando come di una cosa già avvenuta, mostrò che così era predestinato, e che era da tenersi per certa la sua realizzazione futura.

4. E io non sono più nel mondo; essi, invece, sono nel mondo (Gv 17, 11). Se si tiene conto del momento in cui parlava, erano ancora nel mondo, sia i discepoli di cui stava parlando sia egli stesso. E non possiamo e non dobbiamo intendere queste parole come riferite al progresso della vita spirituale, pensando che essi erano ancora nel mondo appunto per la loro mentalità ancora mondana, mentre egli non era più del mondo a motivo della sua sapienza divina. Egli ha usato qui un'espressione che non autorizza questa interpretazione. Non ha detto infatti: Io non sono nel mondo; ma ha detto: Non sono più nel mondo, dimostrando così che un tempo è stato nel mondo e che ora non vi è più. Potremo allora credere che c'è stato un tempo in cui Cristo ha avuto la mentalità del mondo, e che adesso, liberato dall'errore, non ce l'ha più? A chi potrà venire in mente un pensiero così empio? Rimane dunque una sola interpretazione, che cioè egli non sarebbe più stato nel mondo con la sua presenza corporale come c'era prima, e che la sua partenza era imminente mentre la loro sarebbe avvenuta in un secondo tempo, dichiarando così di non essere più nel mondo mentre essi c'erano ancora; benché, di fatto, sia lui che gli Apostoli fossero tuttora nel mondo. Si è espresso così, adattandosi come uomo agli uomini, usando il loro abituale modo di esprimersi. Non diciamo noi abitualmente di uno che sta per partire, che egli non è più qui con noi? E diciamo questo soprattutto di chi sta per morire. Cionondimeno, il Signore, prevedendo le difficoltà che avrebbero potuto incontrare quanti avrebbero letto queste cose, aggiunge: mentre io vengo a te, spiegando così il significato della frase precedente: Io non sono più nel mondo.

5. Raccomanda dunque al Padre coloro che, con la sua partenza, sta per lasciare, dicendo: Padre santo, conserva nel nome tuo quelli che mi hai dato (Gv 17, 11). E' come uomo che egli prega Dio per i suoi discepoli, che da Dio ha ricevuto. Ma bada a quello che segue: Affinché siano uno come noi. Non dice: Affinché con noi siano una cosa sola, oppure affinché siamo una cosa sola, noi e loro, come una cosa sola siamo noi; dice: Affinché siano una cosa sola come noi. Siano uno nella loro natura, come siamo uno noi nella nostra natura. Ciò non sarebbe vero se non lo dicesse in quanto egli è Dio, della stessa natura del Padre, per cui in altra circostanza ha detto: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10, 30). Non potrebbe dirlo in quanto uomo, come invece altrove ha detto: Il Padre è più grande di me (Gv 14, 28). Ma siccome l'unica e medesima persona è Dio e uomo, vediamo l'uomo nel fatto che prega, vediamo Dio nel fatto che sono un'unica cosa, lui e quello che egli prega. Ma in seguito avremo ancora occasione di ritornare con più calma su questo argomento.

[Se accettiamo la sua umiltà, ci eleva alla sua gloria.]

6. Quando ero con loro, io stesso li conservavo nel nome tuo (Gv 17, 12). Ora che io vengo a te, dice, conservali nel tuo nome, in cui anch'io li conservavo quando ero con loro. Il Figlio, come uomo, custodiva i suoi discepoli nel nome del Padre, quando egli era fisicamente presente tra loro, ma anche il Padre custodiva nel nome del Figlio coloro di cui esaudiva le preghiere che gli rivolgevano nel nome del Figlio. Proprio in questo senso il Figlio aveva detto loro: In verità, in verità vi dico: qualunque cosa chiederete al Padre in nome mio, l'avrete (Gv 16, 23). Non dobbiamo prendere queste parole in senso troppo materiale, come se cioè il Padre e il Figlio ci custodiscano a turno dandosi il cambio dentro di noi per custodirci, come se uno prendesse il posto dell'altro che se ne va. In realtà il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo ci custodiscono insieme, perché sono un solo vero e beato Dio. Ma la sacra Scrittura non ci eleva se non abbassandosi fino a noi, così come il Verbo fatto carne è disceso per elevarci, non è caduto per rimanere a terra. Se abbiamo riconosciuto colui che è disceso, leviamoci in alto con lui che ci innalza, e persuadiamoci che egli, parlandoci così, vuole distinguere le persone, non separare le nature. Quando dunque il Figlio custodiva i suoi discepoli con la sua presenza corporale, il Padre non aspettava, per custodirli, di succedere al Figlio che se ne andava; ma ambedue li custodivano con la potenza spirituale; e quando il Figlio sottrasse ad essi la sua presenza corporale, continuò, insieme al Padre, a custodirli spiritualmente. Quando infatti il Figlio come uomo li prese in custodia, non li tolse alla custodia paterna; e quando il Padre li affidò al Figlio perché li custodisse, non fece questo senza di lui. Li diede al Figlio in quanto uomo, ma non glieli diede senza il medesimo Figlio, Dio anche lui.

7. Il Figlio prosegue e dice: Quelli che mi hai dato, li ho custoditi; e nessuno di loro è perito, tranne il Figlio della perdizione, affinché la Scrittura si adempisse (Gv 17, 12). Il traditore di Cristo viene chiamato figlio della perdizione, predestinato alla perdizione, secondo la predizione della Scrittura, contenuta soprattutto nel salmo centootto.

8. Ma ora io vengo a te, e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, affinché essi abbiano in se stessi la mia gioia, nella sua pienezza (Gv 17, 13). Ecco che afferma di parlare nel mondo, colui che prima aveva detto: Io non sono più nel mondo. Già lo abbiamo spiegato; o meglio, abbiamo fatto notare la spiegazione che egli stesso ha dato. Ora, siccome non se n'era ancora andato, era ancora qui; e siccome la sua partenza era imminente, in certo modo non era più qui. Di quale gioia poi intenda parlare, dicendo: affinché essi abbiano in se stessi la mia gioia, nella sua pienezza, lo ha già spiegato prima, quando ha detto: affinché siano uno come noi. Questa sua gioia, questa gioia cioè che proviene da lui, deve raggiungere in loro la pienezza; è per questo motivo, dice, che ha parlato nel mondo. Ecco la pace e la beatitudine eterna, per conseguire la quale bisogna vivere con saggezza, giustizia e pietà nel secolo presente.

 

OMELIA 108

Consacrali nella verità.

Essere consacrati nella verità, vuol dire essere consacrati in Cristo, il quale giustamente ha detto: "Io sono la via, la verità e la vita".

1. Sempre rivolgendosi al Padre, e pregando per i suoi discepoli, il Signore dice: Io ho dato loro la tua parola, e il mondo li ha presi in odio. Non ne avevano ancora fatto esperienza con i patimenti che in seguito sarebbero loro toccati; ma, secondo il suo solito, dice queste cose annunciando il futuro con il verbo al passato. Indica poi il motivo per cui il mondo li odierà: perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo (Gv 17, 14). Questo, di non essere del mondo, è stato loro concesso in virtù della rigenerazione, perché in forza della generazione erano del mondo, e per questo il Signore aveva detto prima: Io vi ho scelti dal mondo (Gv 15, 19). Fu quindi un dono il fatto che essi, come il Signore, non fossero del mondo, avendoli il Signore liberati dal mondo. Egli invece non appartiene mai al mondo, in quanto, anche nella forma di servo, è nato per opera di Spirito Santo, in virtù del quale essi sono rinati. E così, se essi non sono più del mondo, perché sono rinati ad opera dello Spirito Santo, egli non è mai stato del mondo, perché è nato per opera dello Spirito Santo.

2. Non ti chiedo - dice - che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal male. Benché non fossero più del mondo, tuttavia era ancora necessario per loro rimanere nel mondo. Ribadisce il medesimo concetto: Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Santificali nella verità (Gv 17, 15-17). E' in questo modo che saranno salvati dal male, come ha chiesto prima. Ci si può domandare in che senso non fossero più del mondo, se ancora non erano stati santificati nella verità; o se già lo erano, perché il Signore chiede che siano santificati. Non forse per il fatto che, santificati già nella verità, avevano da progredire nella santità, diventando più santi; la qual cosa non sarebbe avvenuta senza l'aiuto della grazia di Dio, che santifica il progredire come santifica l'inizio? Perciò anche l'Apostolo dice: Colui il quale cominciò in voi l'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù (Fil 1, 6). E così gli eredi del Nuovo Testamento vengono santificati nella verità di cui le santificazioni operate nel Vecchio Testamento non erano che ombre. Essi vengono santificati nella verità, cioè in Cristo, il quale con tutta verità dice: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6). E così quando dice: La verità vi renderà liberi, poco dopo spiegando la sua affermazione, aggiunge: Se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi (Gv 8, 32-36), per mostrare la piena identità tra ciò che prima chiama verità e ciò che poi chiama Figlio. E così qui, dicendo: Santificali nella verità, che altro vuol dire se non: santificali in me?

3. Con quel che segue il Signore non fa che inculcare più apertamente questo concetto. La tua parola - dice - è verità (Gv 17, 17). Che altro vuol dire se non: Io sono la verità? Il testo greco dice , il termine che si trova nel Prologo, là dove si dice: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. E noi sappiamo con certezza che il Verbo è lo stesso unigenito Figlio di Dio, che si è fatto carne e abitò fra noi (Gv 1, 1 14); per cui si sarebbe potuto anche mettere, come difatti in alcuni codici è stato messo: il tuo Verbo è verità; così come in alcuni codici si legge anche: In principio era la Parola. Sia in questo passo che in quello, nel testo greco si trova . Concludendo, il Padre santifica nella verità, cioè nel suo Verbo, nel suo Unigenito, i suoi eredi, che sono pure coeredi del Verbo.

4. Riferendosi sempre agli Apostoli, il Signore proseguendo dice al Padre: Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo (Gv 17, 18). Chi ha mandato, se non i suoi Apostoli? Apostolo, infatti, è una parola greca che si traduce in latino "inviato". Iddio quindi ha mandato il proprio Figlio non nella carne di peccato, ma in carne che rassomiglia a quella di peccato (cf. Rm 8, 3); e il Figlio ha inviato coloro che erano nati nella carne di peccato, ma che egli aveva santificati purificandoli dalla macchia del peccato.

[In che modo Cristo santifica sé e noi.]

5. Ma siccome il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, è diventato capo della Chiesa, essi sono diventati membra del suo corpo. Perciò aggiunge: e per essi io santifico me stesso (Gv 17, 19). Che vuol dire: per essi io santifico me stesso, se non questo: io li santifico in me, in quanto essi sono io? Egli parla infatti di coloro che, come ho già detto, sono sue membra, membra di quel corpo che unito al capo forma un solo Cristo. E' l'insegnamento dell'Apostolo, quando parla della discendenza di Abramo: Se siete di Cristo, siete dunque discendenza di Abramo. Poco prima aveva detto: La Scrittura non dice "ai discendenti", come se si trattasse di molti, ma "e alla tua discendenza", come a uno solo, cioè Cristo (Gal 3, 29 16). Ora, se la discendenza di Abramo è Cristo, che altro vuol dire l'Apostolo dicendo ai fedeli: Voi siete discendenza di Abramo, se non questo: voi siete Cristo? Sempre in questo senso va inteso quest'altro testo del medesimo Apostolo: In questo momento gioisco nelle mie sofferenze per voi e completo nella mia carne ciò che manca alle tribolazioni di Cristo (Col 1, 24). Non dice: ciò che manca alle mie tribolazioni, ma: alle tribolazioni di Cristo, perché egli era membro di Cristo, e, attraverso le persecuzioni di cui era oggetto, per parte sua completava nella sua carne le tribolazioni che Cristo, nell'intero suo corpo, doveva sopportare. La qual cosa risulterà chiaramente anche qui, se fai attenzione a quel che segue. Prima aveva detto: per loro santifico me stesso; e per farci intendere che avrebbe santificato loro in sé, subito aggiunge: perché siano anch'essi santificati nella verità (Gv 17, 19). Che altro vuol dire se non "in me", dato che la verità è quel Verbo che fin da principio era Dio? In quel medesimo Verbo fu santificato anche il Figlio dell'uomo fin dall'inizio della sua creazione quando il Verbo si è fatto carne, poiché il Verbo e l'uomo sono diventati una sola persona. Egli allora si è santificato in se stesso, cioè ha santificato se stesso in quanto uomo in sé Verbo, poiché il Verbo e l'uomo sono un solo Cristo, che santifica l'uomo nel Verbo. E riferendosi alle sue membra egli dice: per loro io santifico me stesso. Io per essi: affinché cioè giovi pure a loro (poiché anch'essi sono io) così come ha giovato a me stesso (in quanto sono uomo anche senza loro); santifico me stesso: in me io santifico loro come se fossero me stesso, poiché anch'essi sono io per l'unione che hanno con me. Perché siano anch'essi santificati nella verità. Che vuol dire anch'essi se non che come me siano santificati in quella verità che io stesso sono? In seguito non parla più soltanto degli Apostoli, ma inizia a parlare anche delle altre membra del suo corpo. Ma di questo, se il Signore vorrà, tratteremo in un altro discorso.

 

OMELIA 109

La preghiera per tutti i credenti in Cristo.

Quelli che erano con lui, predicarono agli altri ciò che udirono da lui, e così la loro parola è giunta fino a noi e dovunque si trova la Chiesa, e giungerà ai posteri ovunque si troveranno, affinché tutti si possa credere in Cristo.

[L'orazione estesa a tutti i credenti.]

1. Il Signore Gesù, nell'imminenza ormai della sua passione, pregò a lungo per i suoi discepoli, che chiamò anche Apostoli. Con essi aveva consumato l'ultima cena, uscito che fu il traditore reso manifesto per mezzo del boccone di pane, e con essi, dopo l'uscita di Giuda, prima di pregare per loro, si era intrattenuto a lungo. Ad essi ora aggiunge anche gli altri che avrebbero creduto in lui, e così dice al Padre: Non prego soltanto per questi - cioè per i discepoli che si trovavano là con lui - ma anche per coloro che crederanno in me per mezzo della loro parola (Gv 17, 20). Con queste parole egli ha inteso abbracciare tutti i suoi, non soltanto quelli allora esistenti, ma anche quelli che sarebbero venuti dopo. Tutti quelli infatti che in seguito credettero in lui, senza dubbio credettero per mezzo della parola degli Apostoli, e per mezzo di tale parola continueranno a credere fino al suo ritorno. Infatti agli Apostoli il Signore aveva detto: Voi stessi mi sarete testimoni, perché siete con me fin da principio (Gv 15, 27). E' per mezzo di loro che il Vangelo fu annunciato, anche prima di essere scritto; e chiunque crede in Cristo, crede al Vangelo. E così per coloro che avrebbero creduto in lui per mezzo della parola degli Apostoli, non si devono intendere soltanto quelli che ascoltarono direttamente gli Apostoli, quando essi erano ancora in vita; ma anche tutti quelli che sono venuti dopo la loro scomparsa, quindi anche noi che siamo venuti al mondo molto tempo dopo, e che tuttavia abbiamo creduto in Cristo per mezzo della loro parola. Gli Apostoli predicarono agli altri la parola che avevano ascoltata dal Signore mentre erano con lui: e in questo modo, la loro parola è giunta fino a noi, affinché anche noi potessimo credere; è giunta dovunque si trova la sua Chiesa, e giungerà a quanti in seguito crederanno, chiunque essi siano, dovunque essi si trovino.

2. Se non badiamo attentamente alle sue parole, potremmo avere l'impressione che Gesù in questa preghiera abbia trascurato qualcuno dei suoi. Se infatti, come abbiamo visto, prima ha pregato per quelli che si trovavano là con lui, successivamente anche per quelli che avrebbero creduto in lui per mezzo della loro parola, si potrebbe pensare che egli non abbia pregato per coloro che non si trovavano con lui in quel momento né in seguito avrebbero creduto in lui per mezzo della loro parola ma che tuttavia avevano creduto in lui prima, sia per mezzo loro sia per mezzo di qualcun altro. Forse che in quel momento c'era con lui Natanaele? Forse che c'era Giuseppe d'Arimatea, quello che andò da Pilato a chiedere il suo corpo e che, secondo la testimonianza dello stesso evangelista Giovanni, era già suo discepolo (cf. Gv 19, 38)? C'era forse sua Madre e le altre donne che, a quanto dice il Vangelo, erano già sue discepole? C'erano forse con lui in quel momento coloro ai quali spesso si riferisce lo stesso evangelista dicendo: Molti credettero in lui (Gv 2, 23; 4, 39; 7, 31; 8, 30; 10, 42)? Da dove era venuta fuori, infatti, la moltitudine che osannava a lui agitando rami, parte precedendolo e parte seguendolo mentre egli sedeva sul giumento, e gridava: Benedetto colui che viene nel nome del Signore (Mt 21. 9: Ps 117, 26), e in mezzo alla quale si trovavano i bimbi dei quali egli disse che era stato predetto: Dalla bocca dei bimbi e dei lattanti ricavi la tua lode (Mt 21, 16; Sal 8, 3)? E donde erano usciti quei cinquecento fratelli, ai quali, riuniti insieme, egli non sarebbe apparso dopo la risurrezione se non avessero già creduto in lui (cf. 1 Cor 15, 6)? E donde erano usciti quei centonove (dato che insieme agli undici Apostoli erano centoventi), i quali riuniti insieme, dopo la sua ascensione attesero e ricevettero lo Spirito Santo promesso (cf. At 1, 15; 2, 4)? Donde venivano tutti questi, se non dalla grande folla di cui parla l'evangelista dicendo: Molti credettero in lui? Non pregò per questi il Salvatore, allorché pregò per quelli che erano con lui in quel momento e per gli altri che ancora non avevano creduto in lui per mezzo della loro parola, ma che avrebbero creduto in seguito? Questi, invece, non erano con lui in quel momento, ma avevano già creduto in lui prima. Non parlo del vecchio Simeone, che credette in lui ancora bambino, della profetessa Anna (cf. Lc 2, 25-38), di Zaccaria e di Elisabetta, che lo avevano vaticinato prima che nascesse dalla Vergine (cf. Lc 1, 41-45 67-79); e non parlo del loro figlio Giovanni, il precursore, l'amico dello sposo, che lo riconobbe per illuminazione dello Spirito Santo e lo predicò prima che egli si presentasse, e, una volta presentatosi, lo additò perché fosse riconosciuto anche dagli altri (cf. Gv 1, 19-36; 3, 26-36). Non parlo di questi giusti, perché mi si potrebbe obiettare che non c'era bisogno di pregare per costoro, in quanto essi da tempo avevano lasciato questa vita carichi di meriti, e da tempo avevano raggiunto la pace eterna. Altrettanto si può dire dei giusti dell'Antico Testamento. Chi di loro infatti si sarebbe potuto salvare dalla condanna, sopraggiunta a tutta la massa perduta a causa di un sol uomo, se, illuminati dallo Spirito Santo, non avessero creduto nell'unico mediatore tra Dio e gli uomini, che doveva venire nella carne? Ma forse era necessario che il Signore pregasse solo per gli Apostoli, e non per tanti altri che vivevano allora in questo mondo, e che già prima avevano creduto in lui, ma non si trovavano con lui in quel momento? Chi oserà dire simile cosa?

3. Dobbiamo dunque intendere che ancora non credevano in lui come egli voleva si credesse; dal momento che Pietro stesso, cui pure il Signore aveva reso una grande testimonianza in risposta alla professione di fede che egli aveva fatto dicendo: Tu sei il Cristo Figlio del Dio vivo (Mt 16, 16), pretendeva che il Signore non morisse, anziché credere nella sua risurrezione da morte, per cui si meritò di essere da lui chiamato Satana (cf. Mt 16, 23). E così troviamo una fedeltà maggiore in coloro che erano già morti, i quali, illuminati dallo Spirito Santo, non esitarono a credere che Cristo sarebbe risorto, che non in quei discepoli i quali, dopo aver creduto che egli avrebbe liberato Israele, di fronte alla morte perdettero tutta la speranza che avevano riposto in lui. Ecco dunque cosa dobbiamo concludere: che dopo la risurrezione, dopo che fu elargito lo Spirito Santo, dopo che gli Apostoli furono ammaestrati, confermati e costituiti come primi dottori nella Chiesa, per mezzo della loro parola anche gli altri credettero in Cristo come bisognava credere, cioè mantenendo salda la fede nella sua risurrezione. E perciò, anche quelli che sembrava avessero già creduto in lui, facevano parte di coloro per i quali pregò dicendo: Non prego per questi soltanto, ma anche per coloro che crederanno in me per mezzo della loro parola.

4. Ma non possiamo considerare risolta questa difficoltà se non esaminiamo il caso dell'apostolo Paolo e il caso di quel ladrone, crudele nel delitto quanto fedele sulla croce. Paolo dichiara di esser diventato apostolo non da parte di uomini né per mezzo di uomo ma per mezzo di Gesù Cristo; e, parlando del suo Vangelo, dice: Né da uomo lo ricevetti, né fui ammaestrato da alcuno, ma per mezzo di una rivelazione di Gesù Cristo (Gal 1, 1 12). In che senso allora faceva parte di coloro dei quali il Signore dice: crederanno in me per mezzo della loro parola? Il ladrone, dal canto suo, credette nel momento in cui veniva meno la fede, già così debole, in quelli stessi che dovevano insegnarla. E così neppure lui credette in Gesù Cristo per mezzo della loro parola; e tuttavia credette al punto da confessare che colui che vedeva crocifisso, non solo sarebbe risorto, ma altresì avrebbe regnato, dicendo: Ricordati di me, quando verrai nel tuo regno (Lc 23, 42).

5. Perciò, se si deve credere che il Signore Gesù in questa orazione pregò per tutti i suoi, che vivevano allora o che sarebbero venuti nel futuro in questa vita terrena che è una continua lotta (Gb 7, 1), dobbiamo intendere che la loro parola, di cui parla, è la parola stessa della fede che essi predicarono nel mondo, che fu chiamata "loro parola" perché da loro, per primi e principalmente, fu predicata. Già essi la predicavano sulla terra, quando Paolo ricevette questa medesima loro parola per rivelazione di Gesù Cristo. Ecco perché confrontò con essi il Vangelo che egli già a sua volta predicava, per timore di correre o di aver già corso invano; e quelli, in segno di comunione, gli dettero le loro destre, in quanto in lui riconobbero la loro parola che già predicavano e sulla quale erano fondati, benché non fossero stati essi a dargliela (cf. Gal 2, 29). A proposito di questa parola della risurrezione di Cristo, il medesimo Apostolo dice: Sia io, sia essi, così predichiamo, e così voi avete creduto (1 Cor 15, 11); e ancora: Questa è la parola della fede che noi predichiamo. Poiché se confessi con la tua bocca che Gesù è Signore e nel tuo cuore credi veramente che Iddio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo (Rm 10, 8-9). E negli Atti degli Apostoli si legge che Dio ha accreditato Cristo davanti a tutti col risuscitarlo da morte (cf. At 17, 31). Il Signore chiama questa parola della fede, parola degli Apostoli, in quanto per mezzo di essi, che a lui erano strettamente uniti, per primi e più di ogni altro fu predicata. Ma per il fatto che vien chiamata la "loro" parola, non vuol dire che non sia la parola di Dio, come appunto l'Apostolo stesso dice ai Tessalonicesi, che hanno ricevuto, egli afferma, la parola della fede non come parola di uomini ma, come è veramente, quale parola di Dio (1 Thess 2, 13). E' parola di Dio, dunque, perché è Dio che l'ha donata; vien chiamata parola degli Apostoli perché a loro per primi e precipuamente Dio l'ha affidata. In questo senso anche il buon ladrone possedeva nella sua fede la loro parola; la quale, appunto, fu chiamata parola degli Apostoli in quanto a loro per primi e precipuamente fu affidato l'incarico di predicarla. Sicché, quando le vedove dei Greci si lamentarono perché, nell'assistenza quotidiana, venivano trascurate - e questo ancor prima che Paolo credesse in Cristo - gli Apostoli che erano vissuti insieme con Cristo, osservarono: Non è conveniente che noi trascuriamo la parola di Dio, per servire alle mense (At 6, 2). Fu allora che, per non essere distolti dal ministero della Parola, decisero di eleggere i diaconi. Giustamente quindi viene chiamata parola degli Apostoli quella che è la parola della fede, per mezzo della quale credettero in Cristo quanti in qualunque modo l'hanno ascoltata, e in Cristo crederanno quanti l'ascolteranno. Il nostro Redentore quindi, rivolgendosi al Padre, pregò per tutti quelli che ha redenti, sia quelli che erano presenti allora, sia quelli che sarebbero venuti dopo. Pregando per gli Apostoli che si trovavano con lui, aggiunse nella sua preghiera anche quelli che per mezzo della loro parola avrebbero creduto in lui. Il seguito della sua preghiera, lo vedremo in un altro discorso.

 

OMELIA 110

Li hai amati come hai amato me.

Il Padre ci ama nel Figlio, perché in lui ci ha eletti prima della creazione del mondo. Colui che ama l'Unigenito, ama altresì le membra di lui che ha adottato in vista di lui e per mezzo di lui.

1. Il Signore Gesù, dopo aver pregato per i suoi discepoli che erano allora presenti, e dopo aver esteso la sua preghiera a tutti gli altri dicendo: Non prego soltanto per questi, ma anche per coloro che crederanno in me per mezzo della loro parola (Gv 17, 20), come se gli avessimo chiesto per qual motivo si rivolgesse al Padre e che cosa intendeva chiedere, subito aggiunge: affinché tutti siano una cosa sola come tu, Padre, sei in me ed io in te, affinché anch'essi siano una cosa sola in noi (Gv 17, 21). Poco prima, pregando solamente per i discepoli che aveva con sé, aveva detto: Padre santo, conservali nel nome tuo quelli che mi hai dato, affinché siano una cosa sola, come noi (Gv 17, 11). Ora chiede anche per noi quanto aveva chiesto prima per gli Apostoli, affinché tutti, noi e loro, siamo una cosa sola. E' da notare però diligentemente che il Signore non ha detto: affinché tutti insieme siamo una cosa sola, ma: affinché tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me ed io in te (sottinteso: siamo una cosa sola, come esplicitamente dirà più avanti). Anche prima aveva detto riguardo ai discepoli che erano con lui: affinché siano uno come noi. Il Padre è nel Figlio e il Figlio nel Padre, così da essere una cosa sola, perché sono della medesima sostanza divina; noi invece possiamo essere in loro, tuttavia non possiamo essere una cosa sola con loro, poiché non siamo della stessa sostanza divina di cui essi sono, dato che il Figlio è Dio come il Padre. E' vero che, in quanto uomo, il Figlio è della nostra medesima sostanza; ma qui egli vuole rimarcare quella verità che in altra occasione ha affermato: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10, 30); vuole cioè rimarcare che la sua natura è quella medesima del Padre. Perciò, anche se il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono in noi, non dobbiamo credere che essi appartengono alla nostra stessa natura. Sì, essi sono in noi e noi in loro, ma in modo che essi sono una cosa sola nella loro natura, e noi una cosa sola nella nostra. E precisamente essi sono in noi, come Dio nel suo tempio; noi invece siamo in loro come la creatura nel suo Creatore.

2. Dopo aver detto: affinché anch'essi siano una cosa sola in noi, aggiunge: cosicché il mondo creda che tu mi hai mandato (Gv 17, 21). Che significa questo? Forse che il mondo crederà solo quando saremo tutti una cosa sola nel Padre e nel Figlio? Ma non è questa la pace perpetua, e quindi più il premio della fede che non la fede stessa? Saremo una cosa sola, infatti, non per poter credere, ma perché avremo creduto. E' vero che anche in questa vita, in virtù della comune fede, quanti crediamo nell'unico Salvatore siamo una cosa sola, secondo l'affermazione dell'Apostolo: Tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3, 28). Ma anche in questo caso, l'essere una cosa sola non è condizione ma effetto della fede. Cosa vuole intendere il Signore dicendo: Che tutti siano una cosa sola, affinché il mondo creda? Tutti vuol dire il mondo dei credenti. Coloro che saranno una cosa sola e il mondo che crederà, dato che gli uni e gli altri saranno una sola cosa, non sono realtà diverse, poiché, evidentemente, le parole: che tutti siamo una cosa sola, son dette di coloro cui erano state rivolte le altre: Non prego soltanto per questi, ma anche per coloro che crederanno in me per mezzo della loro parola; soggiungendo subito: affinché tutti siano una cosa sola. Chi sono questi tutti se non il mondo, e non il mondo ostile ma quello fedele? Poco prima infatti aveva detto: non prego per il mondo (Gv 17, 9), e ora prega per il mondo affinché creda. Esiste, infatti, un mondo del quale l'Apostolo dice: Non dobbiamo essere condannati con questo mondo (1 Cor 11, 32). Per questo mondo il Signore non prega; ben sapendo quale sorte ad esso toccherà. Ma esiste anche un mondo del quale sta scritto: Non è venuto il Figlio dell'uomo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvo per mezzo di lui (Gv 3, 17); e del quale l'Apostolo dice: Era Dio che in Cristo riconciliava a sé il mondo (2 Cor 5, 19). Per questo mondo Cristo prega dicendo: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E' appunto in virtù di questa fede che il mondo viene riconciliato a Dio, quando crede in Cristo come mandato da Dio. Come dovremo dunque intendere le parole del Signore: anch'essi siano una cosa sola in noi, cosicché il mondo creda che tu mi hai mandato? Non certo nel senso che la fede del mondo dipenda dal fatto che essi saranno una cosa sola, come se il mondo dovesse credere quando vedrà che essi sono una cosa sola: infatti per "mondo" si intendono tutti quelli che credendo diventeranno una cosa sola. Ma, come pregando ha detto: affinché tutti siano uno e, sempre pregando: affinché essi in noi siano uno, così dice anche: affinché il mondo creda. La preghiera infatti: affinché tutti siano uno ha lo stesso senso dell'altra: affinché il mondo creda, perché è credendo che il mondo diventerà uno: saranno perfettamente uno coloro che, essendo uno per natura, ribellandosi all'uno, avevano perduto la loro unità. Se, insomma, per la terza volta sottintendiamo il verbo "prego", o, meglio, se facciamo dipendere tutto da questo verbo, il senso di questo passo diverrà chiaro: Prego affinché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me ed io in te; prego affinché anch'essi siano uno in noi; prego affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. Inoltre ha precisato: in noi, perché si tenga ben presente che se noi diventiamo una cosa sola in virtù della fede e della carità, lo dobbiamo, non a noi, ma alla grazia di Dio. E' quanto c'insegna l'Apostolo, quando, dopo aver detto: Un tempo foste tenebra, mentre adesso siete luce, affinché nessuno se ne attribuisca il merito, aggiunge: nel Signore (Ef 5, 8).

3. Ed ora, il nostro Salvatore, che pregando il Padre aveva dimostrato di essere uomo, per dimostrare che, essendo Dio come il Padre, è in grado di esaudire egli stesso la sua preghiera, dice: E io ho dato loro la gloria che tu mi hai dato (Gv 17, 22). Qual'è questa gloria, se non l'immortalità che in lui la natura umana avrebbe conseguito? Neppure lui, infatti, l'aveva ancora ricevuta; però, al solito, in virtù dell'immutabile predestinazione, indica il futuro con dei verbi al passato. Egli infatti sa che ormai sarà glorificato, cioè risuscitato dal Padre, e a sua volta glorificherà noi risuscitandoci alla fine dei tempi. E' un concetto simile a quello da lui espresso altrove: Come il Padre risuscita i morti e li fa vivere, così anche il Figlio fa vivere chi vuole (Gv 5, 21). E quali morti fa vivere, se non gli stessi che il Padre risuscita? Tutte le cose infatti che il Padre fa, non altre cose ma le stesse fa anche il Figlio; e non le fa in altro modo, ma similmente le fa (Gv 5, 19). Quindi anche la sua stessa risurrezione egli ha operato insieme al Padre, come egli dichiarò: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere (Gv 2, 19). Pertanto s'intende, benché non lo dica, che anche lui si è data la gloria dell'immortalità, che dice di aver ricevuto dal Padre. Spesso infatti egli dice che il Padre da solo compie ciò che egli stesso compie insieme al Padre, per attribuire a colui, dal quale procede, tutto ciò che lui è. Ma qualche volta, senza nominare il Padre, si attribuisce ciò che egli fa insieme al Padre, affinché impariamo a non separare il Figlio dalle opere del Padre, allorché senza nominare se stesso attribuisce qualcosa all'opera del Padre; così come non dobbiamo separare il Padre dalle opere del Figlio quando vengono attribuite al Figlio senza menzionare il Padre; perché essi operano sempre congiuntamente. Quando il Figlio parla delle opere del Padre tacendo di sé, offre a noi un salutare esempio di umiltà; quando, invece, parla delle sue opere senza nominare il Padre, ci richiama alla sua uguaglianza con il Padre, affinché nessuno lo consideri a lui inferiore. Esprimendosi così, anche in questo caso dimostra che egli, sebbene dica: la gloria che tu mi hai dato, non è estraneo all'opera del Padre, in quanto quella gloria egli se l'è data anche da se stesso. E neppure presenta il Padre estraneo alla sua opera, quando dice: ho dato a loro la gloria, in quanto anche il Padre l'ha data loro. E inseparabili sono, non soltanto le opere del Padre e del Figlio, ma anche quelle dello Spirito Santo. Ora, come in virtù della preghiera che egli rivolge al Padre per tutti i suoi vuole che tutti siano una cosa sola, così vuole, non meno, che ciò si compia in virtù del suo dono, perciò dice: Io ho dato loro la gloria che tu mi hai dato. E subito aggiunge: affinché siano uno come noi siamo uno.

4. Così ha proseguito: Io in loro e tu in me, affinché siano perfetti nell'unità (Gv 17, 23). In questi termini concisi, egli si presenta come mediatore tra Dio e gli uomini. Dicendo così, non vuol dire che il Padre non è in noi, o che noi non siamo nel Padre, avendo anche annunciato in un altro passo: Noi verremo a lui, e faremo dimora presso di lui (Gv 14, 23). E in questa preghiera, poco prima, non aveva detto, come dice ora: Io in loro e tu in me, oppure: essi in me e io in te; ma aveva detto: Tu in me ed io in te, e anch'essi in noi. Quel che ora dice, lo dice in quanto mediatore, analogamente a quanto dice l'Apostolo: Voi siete di Cristo, Cristo poi è di Dio (1 Cor 3, 23). Dicendo inoltre: Affinché siano perfetti nell'unità, vuol farci intendere che la riconciliazione, che si compie per mezzo di lui mediatore, ha come scopo di farci godere la beatitudine perfetta alla cui pienezza niente si potrà aggiungere. E quanto a ciò che segue: affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato (Gv 17, 23), credo non sia da prendere come una ripetizione della precedente frase: affinché il mondo creda. Qualche volta, infatti, si mette "conoscere" al posto di "credere", come nel passo precedente: Hanno veramente conosciuto che sono uscito da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato (Gv 17, 8). Hanno creduto corrisponde all'espressione: hanno conosciuto. Ma qui, siccome parla della vita beata, è da intendere la conoscenza quale si avrà nella visione, non quella che abbiamo ora mediante la fede. Appare infatti nelle parole del Signore un ordine logico ben preciso. Prima ha detto: affinché il mondo creda, mentre qui dice: affinché il mondo conosca. E anche se aveva pregato il Padre: affinché tutti siano uno e affinché siano uno in noi, non aveva tuttavia aggiunto: e siano perfetti nell'unità, ma aveva così concluso: cosicché il mondo creda che tu mi hai mandato. Qui, invece, dopo aver detto: affinché siano perfetti nell'unità, non aggiunge: affinché il mondo creda, ma chiede al Padre: che il mondo conosca che tu mi hai mandato. Infatti finché crediamo ciò che non vediamo, non siamo ancora così perfetti nell'unità, come lo saremo quando ci sarà concesso di vedere ciò che crediamo. Giustamente, quindi, prima dice: affinché il mondo creda, e dopo: affinché il mondo conosca. Tuttavia, nel primo come nel secondo caso, soggiunge: che tu mi hai mandato, affinché teniamo presente che ora noi, riguardo alla inseparabile carità del Padre e del Figlio, crediamo ciò che, mediante la fede, tendiamo a conoscere. Se invece avesse detto: affinché conoscano che tu mi hai mandato, sarebbe stato lo stesso che dire: affinché il mondo conosca. Essi stessi infatti sono il mondo, non il mondo che rimane ostile, quale è quello predestinato alla dannazione; ma il mondo che da nemico è diventato amico, per il quale Dio era nel Cristo nell'atto di riconciliare il mondo a sé. Perciò ha detto: Io in loro e tu in me, come a dire: Io in coloro ai quali tu mi hai mandato, e tu in me, intento a riconciliarti per mio mezzo il mondo.

[Non può il Padre non amare le membra del suo Unigenito.]

5. Sicché prosegue: e li hai amati come hai amato me (Gv 17, 23). Sì, il Padre ci ama nel Figlio, perché in lui ci ha eletti prima della fondazione del mondo (cf. Ef 1, 4). Chi ama il Figlio unigenito, non può fare a meno di amare anche le sue membra, che in lui e per lui egli ha adottato. Ma per il fatto che il Signore dice: Li hai amati come hai amato me, non vuol dire che noi siamo pari all'unigenito Figlio, per mezzo del quale siamo stati creati e ricreati. Non sempre infatti esprime uguaglianza chi dice che questo è come quello: talvolta indica solo che una cosa c'è perché c'è l'altra, altre volte invece indica che una cosa è tale che ne derivi l'altra. Chi oserà dire infatti che gli Apostoli furono inviati nel mondo da Cristo nello stesso modo in cui egli fu inviato in terra dal Padre? Per non parlare di altri motivi di differenza che sarebbe troppo lungo ricordare, essi furono inviati quando già erano uomini, mentre Cristo fu inviato in terra perché diventasse uomo. E, tuttavia, poco prima ha detto: Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo (Gv 17, 18), ma come a dire: poiché tu hai mandato me, io ho mandato loro. Così in questo passo egli, dicendo: Li hai amati come hai amato me, non vuol dire altro che questo: Li hai amati perché hai amato me. Il Padre che ama il Figlio, non può non amare le membra del Figlio, e non per altro motivo le ama, se non perché ama il Figlio. Ama il Figlio in quanto Dio, perché lo ha generato uguale a sé; e lo ama anche in quanto uomo, perché lo stesso Verbo unigenito si è fatto carne; cioè a causa del Verbo gli è cara la carne del Verbo. E ama noi perché siamo le membra di colui che ama; e affinché diventassimo membra del Figlio, in vista di questo ci ha amati prima che noi fossimo.

6. Perciò l'amore con cui Dio ama è incomprensibile e non va soggetto a mutamento. Egli non ha cominciato ad amarci solo quando siamo stati riconciliati a lui per mezzo del sangue di suo Figlio; ma ci ha amati prima della fondazione del mondo, chiamando anche noi ad essere suoi figli insieme all'Unigenito, quando ancora non eravamo assolutamente nulla. Il fatto dunque che noi con la morte del Figlio siamo stati riconciliati a Dio, non va ascoltato e non va preso nel senso che egli ha cominciato allora ad amare chi prima odiava, così come il nemico si riconcilia col nemico e i due divengono poi amici, e prendono ad amarsi a vicenda come a vicenda si odiavano. Noi siamo stati riconciliati con chi già ci amava, con il quale, a causa del peccato, noi eravamo nemici. Dimostri l'Apostolo se dico o no la verità. Egli afferma: Iddio dimostra il suo amore verso di noi per il fatto che, proprio mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5, 8-9). Iddio nutriva amore per noi anche quando, comportandoci da nemici nei confronti di lui, noi commettevamo l'iniquità; e, tuttavia, a suo riguardo è stato detto con tutta verità: Tu, o Signore, hai in odio tutti quelli che operano l'iniquità (Sal 5, 7). Per cui, in un modo mirabile e divino, egli ci amava anche quando ci odiava; odiava quanto in noi egli non aveva fatto, ma siccome la nostra iniquità non aveva distrutto totalmente l'opera sua, egli sapeva odiare in ognuno di noi quanto era opera nostra, e insieme amare l'opera sua. E ciò si può applicare per tutto il resto, dato che con tutta verità a lui sono rivolte queste parole: Tu non odi niente di ciò che hai fatto (Sap 11, 25). Se infatti avesse odiato qualcosa non l'avrebbe voluta, né potrebbe sussistere una cosa che l'Onnipotente non avesse chiamato all'esistenza: e non l'avrebbe chiamata se nella cosa che odia non ci fosse stato almeno qualcosa che egli potesse amare. Con ragione odia il male e lo riprova perché contrario alla regola della sua arte; tuttavia anche in ciò che è contaminato dal male, ama o la grazia con cui lo risana, o il suo giudizio con cui lo condanna. Così Dio non odia niente di quanto ha creato, poiché come autore della natura, non del peccato, odia il male che egli non ha creato; ed egli è altresì autore del bene che ricava dal male, sia risanandolo con la sua misericordia, sia facendolo servire ai suoi piani segreti. Assodato dunque che Dio non odia nulla di quanto ha fatto, chi potrà adeguatamente parlare dell'amore che egli nutre per le membra del suo Unigenito? E, soprattutto, chi potrà degnamente parlare dell'amore che porta al suo Unigenito stesso, nel quale sono state create tutte le cose visibili e invisibili, e che egli ama in modo perfettamente corrispondente al posto che ognuna di esse occupa nel piano della creazione? Con l'abbondanza della sua grazia conduce le membra del suo Unigenito all'uguaglianza con i santi angeli; siccome però l'Unigenito è il Signore dell'universo, è senza dubbio anche il Signore degli angeli: per la sua natura divina è uguale, non agli angeli, ma addirittura al Padre, e per la grazia che possiede in quanto uomo, non trascende forse l'eccellenza di tutti gli angeli, essendo in lui la carne e il Verbo una sola persona?

7. Non manca chi sostiene che noi uomini siamo superiori agli angeli, in quanto, si dice, Cristo è morto per noi, non per gli angeli. Ma questo significa vantarsi della propria empietà. Infatti, come dice l'Apostolo, Cristo al momento fissato morì per gli empi (Rm 5, 6). Questo fatto non mette in risalto il nostro merito, ma la misericordia di Dio. Come ci si può gloriare di aver contratto una infermità talmente detestabile che poteva essere guarita soltanto con la morte del medico? La morte di Cristo non è una gloria fondata sui nostri meriti, ma è la medicina per i nostri mali. Non riteniamoci superiori agli angeli solo perché, avendo anch'essi peccato, non è stato pagato per la loro salvezza un tale prezzo, quasi che a loro sia stato elargito qualcosa di meno che a noi. E pur ammettendo che sia stato così, c'è da chiedersi se ciò sia avvenuto perché noi eravamo superiori o perché eravamo caduti più in basso. Siccome però ci risulta che il Creatore di tutti i beni non ha concesso agli angeli cattivi alcuna grazia per la loro redenzione, perché almeno da questo non deduciamo che tanto più grave è stata giudicata la loro colpa in quanto più elevata era la loro natura? Essi erano tenuti più di noi a non peccare, in quanto erano migliori di noi. Sta di fatto che offendendo il Creatore, in modo tanto più esecrabile si dimostrarono ingrati al beneficio, quanto più ricchi di grazia erano stati creati. Né si accontentarono di averlo abbandonato per conto loro, ma diventarono anche i nostri tentatori. Ecco dunque il grande beneficio che ci accorderà colui che ci ha amati come ha amato Cristo: che per amore dello stesso Gesù Cristo, di cui ha voluto fossimo le membra, diventiamo uguali in santità agli angeli (cf. Lc 20, 36) e in un certo modo loro compagni, noi che per natura siamo stati creati inferiori e che ancor più indegni ci siamo resi a causa del peccato.