COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Sant’Agostino

 

[Omelie 111-124]

 

OMELIA 111

Che anch'essi in noi siano una cosa sola.

Allo stesso modo che prega per noi, colui che è morto per noi, così vive per noi affinché siamo in essi una cosa sola.

[Gioire nella speranza.]

1. Il Signore solleva i suoi discepoli ad una speranza, che più grande non si potrebbe concepire. Ascoltate ed esultate in questa speranza; perché questa vita terrena non merita di essere amata, ma soltanto tollerata, per esercitare la pazienza nella tribolazione (cf. Rm 12, 12). Ascoltate, dico, e considerate a quale altezza il Signore solleva la nostra speranza. Parla Gesù Cristo, parla il Figlio unigenito di Dio, coeterno e uguale al Padre; parla colui che per noi si è fatto uomo, ma non è diventato, come ogni uomo, menzognero (cf. Sal 115, 11); parla la Via, la Vita, la Verità (cf. Gv 14, 6); parla colui che ha vinto il mondo (Gv 16, 33), e parla di coloro per i quali ha riportato la vittoria sul mondo. Ascoltate, credete, sperate, desiderate quanto egli dice: Padre, quelli che mi hai dato, voglio che siano anch'essi con me dove sono io (Gv 17, 24). Chi sono questi che dice gli sono stati dati dal Padre? Non sono forse quelli di cui altrove dice: Nessuno viene a me, se il Padre che mi ha mandato non lo attrae (Gv 6, 44)? Ormai, se qualche profitto abbiamo tratto da questo Vangelo, sappiamo come anche il Figlio compie insieme al Padre le opere che attribuisce solo al Padre. Coloro dunque che egli ha ricevuto dal Padre, sono quelli stessi che egli ha scelti dal mondo, e che ha scelti affinché non siano più del mondo, come egli stesso non è del mondo. E li ha scelti affinché siano anch'essi il mondo che crede e sa che Cristo è stato mandato da Dio Padre, affinché il mondo sia liberato dal mondo, e il mondo che viene riconciliato con Dio non venga condannato insieme al mondo irriducibilmente ostile a Dio. Così infatti si è espresso all'inizio di questa orazione: Hai dato a lui potestà sopra ogni carne - cioè sopra ogni uomo - affinché dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato (Gv 17, 2). Con queste parole egli dimostra di aver ricevuto sì la potestà sopra ogni uomo, potestà che gli consente di liberare chi vuole e di condannare chi vuole, dato che sarà lui a giudicare i vivi e i morti; ma dimostra altresì che gli sono stati dati tutti coloro a cui avrebbe procurato la vita eterna. Così infatti egli dice: affinché dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questo significa che non gli sono stati dati coloro ai quali non darà la vita eterna, quantunque gli sia stata data la potestà anche sopra di essi, in quanto gli è stata data la potestà sopra ogni carne, cioè sopra ogni uomo. In questa maniera il mondo riconciliato con Dio sarà liberato dal mondo ostile a Dio, in quanto sopra di questo egli eserciterà il suo potere mandandolo alla morte eterna, mentre, sull'altro, eserciterà il suo potere facendolo suo e comunicandogli la vita eterna. Il buon pastore ha fatto questa promessa a tutte le sue pecore, l'augusto capo ha assicurato questo premio a tutte le sue membra: che dove è lui saremo anche noi con lui. E' impossibile che non si compia la volontà che il Figlio onnipotente ha espresso al Padre onnipotente. Con essi infatti è anche lo Spirito Santo, ugualmente eterno, ugualmente Dio, unico Spirito di ambedue e volontà sostanziale dell'uno e dell'altro. E' vero che, come ci riferisce il Vangelo, nell'imminenza della passione il Signore ha detto: Non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu, Padre, (Mt 26, 39) come se una cosa sia o fosse stata la volontà del Padre e un'altra cosa la volontà del Figlio; ma quella era la voce della nostra infermità, anche quando rimaniamo fedeli, che il nostro Capo ha fatto sua allorché si è caricato del peso dei nostri peccati. Anche se la umana debolezza non ci consente di comprendere, sia pronta la nostra pietà a credere che una sola è la volontà del Padre e del Figlio, e che uno solo è anche il loro Spirito; e nell'unità dei tre riconosciamo la Trinità.

2. Abbiamo già detto, come ce lo ha permesso la brevità imposta al nostro discorso, quanto sicura sia questa promessa e a chi è stata fatta. Cerchiamo ora di vedere, per quanto ci è possibile, qual è il contenuto della promessa che egli ha fatto. Quelli che mi hai dato - dice - voglio che siano anch'essi dove sono io. Tenendo conto della sua origine come creatura umana dalla stirpe di David secondo la carne (cf. Rm 1, 3), neppure lui era ancora dove poi sarebbe stato. Ma egli ha potuto dire: dove sono io, perché ci rendessimo conto che era talmente prossima la sua ascensione in cielo, da poter dire di essere già dove presto sarebbe asceso. Nello stesso modo si era espresso parlando con Nicodemo: Nessuno è salito in cielo, se non chi dal cielo è disceso, il Figlio dell'uomo che è in cielo (Gv 3, 13). Neppure allora disse: che sarà in cielo, ma disse: che è in cielo, in quanto nell'unità della persona Dio è uomo e l'uomo è Dio. Egli ci ha dunque promesso che saremo in cielo, poiché in cielo ha elevato la forma di servo che prese dalla Vergine, e l'ha collocata alla destra del Padre. E' la speranza di un così grande bene che fa dire all'Apostolo: Iddio, ricco in misericordia, a motivo del grande amore con cui ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere in Cristo - per grazia siete stati salvati! - e con lui ci ha risuscitati e fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù (Ef 2, 4-6). Ecco in qual senso si possono intendere le parole del Signore: Voglio che siano anch'essi dove sono io. Parlando di sé egli dice di essere già lassù in cielo, mentre per noi esprime la volontà che siamo lassù con lui, ma non dice che vi siamo già. L'Apostolo, invece, presenta la volontà del Signore come un fatto compiuto. Egli infatti non dice: Ci risusciterà e ci farà sedere nei cieli, ma con lui ci ha risuscitati e fatti sedere nei cieli, considerando già compiuto ciò di cui con tanta certezza attende il compimento. Tenendo conto invece della forma di Dio, nella quale il Figlio è uguale al Padre, se secondo tale natura vogliamo intendere l'espressione: siano anch'essi con me dove sono io, si deve allontanare dall'anima ogni idea di immagini corporali, ogni cosa che rappresenti alla mente l'idea di lunghezza, di larghezza, di spessore, qualsiasi cosa che abbia un colore dovuto alla luce materiale, o che sia estesa nello spazio, finito o infinito che sia. Da tutte queste cose, per quanto è possibile, bisogna distogliere lo sguardo e l'attenzione della mente. E non bisogna mettersi a cercare dove sia il Figlio uguale al Padre, perché nessuno può trovare un luogo dove non sia. Chi vuole cercare, cerchi piuttosto di essere con lui; non potrà essere ovunque come lui, ma ovunque potrà essere con lui. Gesù disse al ladrone che pendeva dalla croce espiando la sua pena, e che in grazia della sua confessione ottenne salvezza: Oggi sarai con me in paradiso (Lc 23, 43). In quanto uomo la sua anima sarebbe discesa quel giorno agli inferi e la sua carne sarebbe stata deposta nel sepolcro; ma in quanto Dio era certamente anche in paradiso. E quindi l'anima del ladrone, assolta dai suoi delitti e già resa beata per la sua grazia, anche se non poteva essere ovunque come Cristo, tuttavia, in quello stesso giorno poteva essere con lui in paradiso, da dove colui che è sempre ovunque non si era mai allontanato. Per questo il Signore non si accontentò di dire: Voglio che siano anch'essi dove sono io, ma ha aggiunto: con me. Essere con lui, questo è il massimo bene. Anche gli infelici possono essere dove egli è, dato che ovunque uno si trovi c'è sempre anche lui, ma soltanto i beati sono con lui, perché soltanto da lui essi possono attingere la loro beatitudine. Non è forse con tutta verità che si dice a Dio: Se salgo in cielo, tu ci sei; se scendo nell'abisso, lì ti trovo (Sal 138, 8)? Cristo non è forse la Sapienza di Dio, che per la sua purezza penetra e riempie ogni cosa (Sap 7. 24)? Ma la luce risplende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno compresa (cf. Gv 1, 5). Prendiamo un esempio qualsiasi dalla realtà visibile, anche se questa appartiene ad un ordine diverso: un cieco, anche se c'è la luce dov'egli si trova, non è tuttavia con la luce, ma è assente alla luce che è presente; altrettanto si può dire di uno senza fede o empio, o anche di chi è fedele e pio, che però non sia ancora in grado di contemplare la luce della sapienza; pur essendo per lui impossibile trovarsi in alcun luogo dove non sia anche Cristo, tuttavia non è con Cristo, almeno per quanto riguarda la visione. Non c'è dubbio infatti che l'uomo religioso e fedele è con Cristo per mezzo della fede. E' in questo senso che Cristo dice: Chi non è con me, è contro di me (Mt 5, 8), mentre rivolgendosi al Padre dice: Quelli che mi hai dati, voglio che siano anch'essi con me dove sono io. Qui certamente intendeva parlare di quella visione, nella quale lo vedremo così come egli è (1 Io 3, 2).

3. Nessuno voglia offuscare il senso di queste parole, che è tanto chiaro, con le nubi della contraddizione. Le parole che seguono, del resto, vengono a confermarle. Infatti, dopo aver detto: Voglio che siano anch'essi con me dove sono io proseguendo subito aggiunge: affinché vedano la mia gloria, quella che mi hai dato, perché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo (Gv 17, 24). Dice: affinché vedano, non dice: affinché credano. Tratta del premio della fede, non della fede in se stessa. Se la fede è definita con tanta esattezza nella lettera agli Ebrei: prova delle realtà che non si vedono (Eb 11, 1), perché non si potrà definire il premio della fede come la visione delle realtà che si sono credute e sperate? Quando vedremo la gloria che il Padre ha dato al Figlio (anche se in questo passo intende parlare non della gloria che il Padre ha dato al Figlio generandolo uguale a sé, ma della gloria che il Padre ha dato al Figlio, diventato Figlio dell'uomo, dopo la sua morte in croce), quando, dunque, vedremo questa gloria del Figlio, è allora che avrà luogo il giudizio dei vivi e dei morti, è allora che sarà tolto di mezzo l'empio perché non veda la gloria del Signore (cf. Is 26, 10). Quale gloria, se non quella per cui egli è Dio? Beati infatti i puri di cuore, perché essi vedranno Dio (cf. Mt 5, 8); gli empi non sono puri di cuore, e perciò non lo vedranno. Essi andranno allora al supplizio eterno; così sarà tolto di mezzo l'empio, affinché non veda la gloria del Signore. I giusti, invece, andranno alla vita eterna (cf. Mt 25, 46). E in che consiste la vita eterna? La vita eterna consiste in questo - dice il Signore - che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17, 3); non come lo conoscono coloro che non sono puri di cuore, i quali tuttavia potranno vederlo nella forma di servo glorificato quando verrà a giudicare; ma come sarà conosciuto dai puri di cuore, quale solo vero Dio, Figlio in unità col Padre e lo Spirito Santo, essendo la Trinità il solo vero Dio. Se dunque prendiamo questa frase: Voglio che siano anch'essi con me dove sono io, nel senso che il Figlio di Dio è Dio coeterno e uguale al Padre, vuol dire che noi saremo con Cristo nel Padre: lui a modo suo, noi a modo nostro, dovunque si trovi il nostro corpo. Dato che il luogo è il posto occupato da ciascuna cosa, se si potesse chiamare luogo anche quello che contiene realtà non materiali, si potrebbe dire che il luogo eterno dove sempre Cristo risiede è il Padre stesso, e il luogo del Padre è il Figlio. Io - dice infatti il Signore - sono nel Padre e il Padre è in me (Gv 14, 10) e in questa orazione: Come tu, Padre, sei in me ed io in te. E il nostro luogo sono essi stessi, poiché così continua: affinché anch'essi siano una sola cosa in noi (Gv 17, 21). E noi, a nostra volta, siamo il luogo di Dio, perché siamo il suo tempio: proprio per questo prega colui che è morto per noi, e che per noi vive, affinché, cioè, noi siamo una cosa sola in loro, dato che è stato costruito nella pace il suo luogo, e la sua abitazione in Sion (Sal 75, 3); e Sion siamo noi. Ma chi è capace di immaginare questi luoghi e ciò che essi contengono, astraendo da dimensioni di spazio o da estensioni corporee? E' già un fatto positivo negare, respingere e scartare ogni immagine di tal genere che si affacci alla mente, perché vuol dire che si ha già, per quanto è possibile, l'idea di una certa luce nella quale queste immagini appaiono negative, da rifiutare, da scartare; e vuol dire che di questa luce si è ormai certi e si è cominciato ad amarla, per cui ci si mette in cammino e si tende verso le realtà interiori. E se l'anima, ancora debole e non sufficientemente pura per penetrare quelle realtà, si sente respinta, non senza gemiti d'amore e lacrime di desiderio, attenda pazientemente di venir purificata dalla fede, e con una vita santa si prepari ad abitare nel luogo dove Cristo abita.

4. In che modo, dunque, potremo non essere con Cristo dove egli è, dal momento che saremo con lui nel Padre, in cui egli è? L'Apostolo non ce l'ha nascosto, anche se abbiamo solo la speranza e non siamo ancora in possesso della realtà. Egli infatti dice: Se siete risuscitati con Cristo, cercate le cose che stanno in alto, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; abbiate la mente alle cose dell'alto, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti - dice - e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio (Col 3, 1-3). Ecco che frattanto la nostra vita, mediante la fede e la speranza, si trova dove si trova Cristo, è con lui perché è con Cristo in Dio. Ecco che è già come un fatto compiuto quanto egli ha chiesto rivolgendosi al Padre: Voglio che siano anch'essi con me dove sono io (Gv 17, 24). Ora questo è vero mediante la fede. Quando lo sarà mediante la visione? Quando Cristo, vita vostra, apparirà, anche voi allora apparirete con lui nella gloria (Col 3, 4). Allora appariremo quello che allora saremo; allora apparirà che non invano l'abbiamo creduto e sperato, prima di esserlo. Realizzerà tutto questo colui al quale il Figlio, dopo aver detto: affinché vedano la mia gloria, quella che mi hai dato, dice subito dopo: perché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo. In lui il Padre ha amato anche noi prima della fondazione del mondo, perché è allora che ha predestinato ciò che realizzerà alla fine del mondo.

5. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto (Gv 17, 25). E' perché sei giusto che il mondo non ti ha conosciuto. Che se il mondo predestinato alla dannazione non l'ha conosciuto, è stato per colpa sua; mentre il mondo, che Dio per mezzo di Cristo ha riconciliato a sé, lo ha conosciuto, non per merito proprio ma per la sua grazia. E conoscere il Padre, che altro è se non la vita eterna? Quella conoscenza che non ha dato al mondo dannato, l'ha data invece al mondo riconciliato. E' per questo che il mondo non ti ha conosciuto, perché sei giusto, e a causa dei suoi demeriti non gli hai concesso di conoscerti. Invece il mondo che ti sei riconciliato, ti ha conosciuto, perché sei misericordioso, e gli hai concesso perciò di conoscerti, non per suo merito ma per la grazia con cui lo hai soccorso. Prosegue: Io, però, ti ho conosciuto. Egli stesso è la fonte della grazia perché, Dio per natura, è anche, per grazia ineffabile, uomo nato dalla Vergine per opera dello Spirito Santo. E' dunque per lui (poiché la grazia di Dio ci viene per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore) che anche questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato (Gv 17, 25). Questi, sono il mondo riconciliato con Dio. E' perché tu mi hai mandato che essi ti hanno conosciuto, e quindi è per effetto della grazia che ti hanno conosciuto.

 

OMELIA 112

Gesù arrestato.

Bastò la sua voce che disse "Sono io!", a colpire, respingere e abbattere sì numerosa turba armata e furente d'odio.

1. Dopo aver riferito il grande e lungo discorso che il Signore, prossimo ormai a versare il sangue per noi, tenne dopo la cena ai discepoli che erano allora con lui, e dopo aver riportato l'orazione che rivolse al Padre, l'evangelista Giovanni così comincia il racconto della Passione: Detto questo, Gesù andò con i suoi discepoli di là del torrente Cedron, dove c'era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel posto, perché spesso Gesù si ritirava là con i suoi discepoli (Gv 18, 1-2). L'ingresso del Signore e dei suoi discepoli nel giardino, di cui parla l'evangelista, non avvenne subito appena finita l'orazione, a proposito della quale dice: Appena Gesù ebbe pronunciato queste parole. Nel frattempo accaddero altri fatti, che, se sono omessi da questo evangelista, sono però ricordati dagli altri, così come, del resto, si trovano nella narrazione di Giovanni molti particolari di cui tacciono gli altri evangelisti. Se uno poi vuole rendersi conto come concordino tra loro, e come uno non contraddica la verità annunciata dall'altro, non deve cercare le prove in questi nostri discorsi, ma in altri nostri studi specifici. E non è stando in piedi e ascoltando un discorso che si possono approfondire le cose, ma stando comodamente seduti, leggendo o ascoltando con molta attenzione e serio impegno chi legge. Tuttavia, sia che si giunga a tale accertamento in questa vita, sia che non vi si possa giungere per qualche impedimento, prima ancora di conoscere si deve credere che il racconto di un evangelista, che gode presso la Chiesa di autorità canonica, non può essere in contraddizione con se stesso né con quanto altrettanto veracemente un altro evangelista riferisce. Vediamo dunque ora la narrazione del nostro san Giovanni, che abbiamo preso a commentare, senza confrontarla con quella degli altri, e senza soffermarci sui punti che sono chiari, per poterlo fare dove il testo lo richieda. Le parole dell'evangelista: Detto questo, Gesù andò con i suoi discepoli di là dal torrente Cedron, dove c'era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli, non dobbiamo intenderle come se subito dopo il discorso e l'orazione Gesù sia entrato nel giardino; ma le parole: Dette Gesù queste cose, vogliono dire semplicemente che Gesù entrò nel giardino non prima di aver concluso il suo discorso e completata la sua orazione.

2. Conosceva anche Giuda, il traditore, quel posto. L'ordine logico delle parole è questo: Quel posto era ben noto al traditore perché - nota l'evangelista - spesso Gesù si ritirava là con i suoi discepoli. Il lupo, coperto di pelle di pecora, e, per misteriosa disposizione del padre di famiglia, tollerato in mezzo alle pecore, studiò il luogo, dove per un po' di tempo potesse disperdere il piccolo gregge, insidiando il pastore. Giuda, dunque, conducendo la coorte e guardie fornite dai gran sacerdoti, arriva là con lanterne, torce e armi (Gv 18, 3). La coorte non era formata di Giudei ma di soldati romani. Ciò significa che era stata inviata dal governatore romano, come se si trattasse di arrestare un colpevole, in difesa dell'ordine costituito, cosicché nessuno osasse impedire l'arresto; quantunque quel dispiegamento di forze fosse sufficiente a spaventare, nonché a mettere in fuga chiunque avesse osato difendere Cristo. Talmente era nascosta la sua potenza, e talmente era palese la sua debolezza, che ai nemici erano parse sufficienti queste misure nei confronti di Cristo, contro il quale niente sarebbe servito se egli non avesse voluto. Ma egli, che era buono, si serviva dei malvagi come strumenti per compiere il bene, traendo così il bene dal male per far diventare buoni i malvagi e discernere i buoni dai malvagi.

3. Allora Gesù, - prosegue l'evangelista -, che sapeva tutto ciò che stava per accadergli, si avanzò e disse loro: Chi cercate? Gli risposero: Gesù il Nazareno. Dice loro Gesù: Sono io! Anche Giuda, il traditore, stava con loro. Come, dunque, ebbe detto loro: Sono io, indietreggiarono e caddero in terra (Gv 18, 4-6). Dove sono ora la coorte dei soldati, e le guardie dei grandi sacerdoti e dei farisei? Dov'è il terrore che doveva essere prodotto da tutto quel dispiegamento di forze? E' bastata una voce che ha detto: Sono io! a colpire, senza alcun dardo, a respingere e ad atterrare tutta quella folla, inferocita dall'odio e terribilmente armata. Nella carne infatti si nascondeva Dio, e il giorno eterno era talmente occultato dalle membra umane che le tenebre, per ucciderlo, dovettero cercarlo con lanterne e torce. Sono io, egli dice, e atterra gli empi. Che cosa farà quando verrà a giudicare, colui che ha fatto questo quando doveva essere giudicato? Quale sarà la sua potenza quando verrà per regnare, se era tanta quando stava per morire? Anche adesso, per mezzo del Vangelo, Cristo fa sentire ovunque la sua voce: Sono io, e i Giudei aspettano l'Anticristo per indietreggiare e cadere in terra, perché, disertando le cose celesti, aspirano a quelle terrene. E' certo che i persecutori andarono, guidati dal traditore, per arrestare Gesù; trovarono colui che cercavano e udirono la sua voce: Sono io: perché non lo presero, ma indietreggiarono e caddero in terra, se non perché così volle colui che poteva tutto ciò che voleva? Ma in verità, se egli non si fosse mai lasciato prendere, essi certamente non avrebbero potuto compiere ciò per cui erano andati, ma nemmeno lui avrebbe potuto effettuare ciò per cui era venuto. Essi lo cercavano, nella loro crudeltà, per metterlo a morte; egli cercava noi per salvarci con la sua morte. Egli ha dato una prova della sua potenza a coloro che invano hanno tentato di arrestarlo; lo prendano ormai, affinché egli possa compiere la sua volontà per mezzo di essi che lo ignorano.

4. Di nuovo egli domandò: Chi cercate? Essi dissero: Gesù il Nazareno. Rispose Gesù: Vi ho detto che sono io! Se dunque cercate me, lasciate che costoro se ne vadano. Così si adempiva la parola da lui detta: Di coloro che mi hai dato, non ho perduto nessuno (Gv 18, 7-9). Disse: Se cercate me, lasciate che costoro se ne vadano. Egli ha di fronte a sé dei nemici che obbediscono ai suoi ordini: lasciano andare quelli che Gesù volle sottrarre alla morte. Ma non sarebbero forse morti più tardi? E perché egli li avrebbe perduti, se fossero morti allora? E' perché essi allora non credevano ancora in lui nel modo che credono tutti quelli che non si perdono.

[Colui che beve il calice ne è anche l'autore.]

5. Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la sguainò e colpì il servo del sommo sacerdote mozzandogli l'orecchio destro. Il servo si chiamava Malco (Gv 18, 10). Solo Giovanni riferisce il nome di questo servo, così come soltanto Luca riferisce che il Signore gli toccò l'orecchio e lo guarì (cf. Lc 22, 51). Malco vuol dire "colui che regnerà". Che significa quindi questo orecchio mozzato per difendere il Signore e dal Signore guarito, se non l'orecchio rinnovato mediante la rimozione di quanto fa parte dell'uomo vecchio, affinché si ascolti in novità di spirito e non in vetustà di lettera (cf. Rm 7, 6)? Se uno ha ricevuto da Cristo un tale beneficio, potrà dubitare che regnerà con Cristo? Il fatto poi che a ottenere questo beneficio sia stato un servo, è simbolo dell'antica Alleanza che non generava che schiavi, come Agar (cf. Gal 4, 24). Nella guarigione ottenuta c'era anche l'annuncio della libertà. Il Signore tuttavia disapprovò il gesto di Pietro, e gli proibì di procedere oltre, dicendo: Rimetti la spada nel fodero. Non berrò il calice che il Padre mi ha dato? (Gv 18, 11). E' certo che quel discepolo, con il suo gesto, aveva voluto soltanto difendere il maestro, senza riflettere sul significato che esso poteva assumere. Era quindi opportuno che Pietro ricevesse una lezione di pazienza e che l'episodio fosse riferito a nostro ammaestramento. Quanto al calice della passione, che dice offertogli dal Padre, trova conferma nelle parole dell'Apostolo: Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato alla morte per tutti noi (Rm 8, 31-32). In verità, anche colui che lo beve è l'autore di questo calice, come appunto dice il medesimo Apostolo: Cristo ci ha amato e ha offerto se stesso per noi come oblazione e sacrificio a Dio in odore di soavità (Ef 5, 2).

6. Allora la coorte, il tribuno e le guardie dei Giudei si impadronirono di Gesù e lo legarono (Gv 18, 12). Si impadronirono di colui al quale prima neppure avevano potuto avvicinarsi. Egli era il giorno, ed essi le tenebre, e tenebre rimasero perché non ascoltarono l'invito: Avvicinatevi a lui e sarete illuminati (Sal 33, 6). Se si fossero avvicinati a lui in questo modo, lo avrebbero preso non per ucciderlo ma per accoglierlo nel loro cuore. Ma siccome lo presero in ben altro modo, si allontanarono da lui ancora di più; e legarono colui dal quale piuttosto avrebbero dovuto essere sciolti. E forse, tra coloro che caricarono Cristo di catene, vi era qualcuno che più tardi, da lui liberato, disse: Tu hai spezzato le mie catene (Sal 115, 16). Per oggi basta così. Il seguito, se Dio vorrà, ad un altro discorso.

 

OMELIA 113

Gesù percosso.

Non era certo impotente colui che creò il mondo, ma preferì insegnarci la pazienza con cui si vince il mondo.

1. Dopo che i persecutori, valendosi del tradimento di Giuda, ebbero preso e legato il Signore, che ci amò e offrì se stesso per noi (cf. Ef 5, 2), e che il Padre non risparmiò ma consegnò a morte per tutti noi (cf. Rm 8, 32); affinché ci rendessimo conto che Giuda non è da lodare per l'utilità del suo tradimento, ma da condannare per la sua volontà criminale, lo condussero - stando al racconto dell'evangelista Giovanni - prima da Anna, - e dice il motivo -: poiché costui era suocero di Caifa, il quale era sommo sacerdote in quell'anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: Conviene che un sol uomo muoia per il popolo (Gv 18, 13-14). Matteo, volendo abbreviare la narrazione, si limita a dire che Gesù fu condotto da Caifa (cf. Mt 26, 57), in quanto egli fu condotto prima da Anna solo perché questi era suocero di Caifa, il che fa pensare che ciò sia avvenuto per volere di Caifa stesso.

[Pietro rinnegò Cristo dicendo di non essere suo discepolo.]

2. Seguivano Gesù Simon Pietro e un altro discepolo (Gv 18, 15). Non è facile identificare quest'altro discepolo, dato che l'evangelista tace il suo nome. Giovanni è solito indicare se stesso in questo modo, aggiungendo: quello che Gesù amava (Gv 13, 23; 19, 26). Sicché è probabile che anche qui si tratti di lui. Chiunque egli sia, andiamo avanti: Ora quel discepolo, che era conosciuto dal sommo sacerdote, entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote; Pietro, invece, rimase fuori, alla porta. Uscì dunque l'altro discepolo che era conosciuto dal sommo sacerdote, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro. La serva portinaia disse a Pietro: Non saresti anche tu dei discepoli di quest'uomo? Egli rispose: Non lo sono (Gv 18, 15-17). Ecco che la colonna solidissima trema tutta al primo colpo di vento. Dove sono quelle audaci promesse e quella grande sicurezza di sé? Dove sono finite quelle parole: Perché non posso seguirti adesso? Darò la mia vita per te? (Gv 13, 37). E' così che si segue il maestro, negando di essere suo discepolo? E' così che si dà la vita per il Signore, tirandosi indietro per paura della voce di una serva? Ma c'è da meravigliarsi che Dio abbia predetto la verità e che l'uomo si sia ingannato sul proprio conto? Però, davanti all'apostolo Pietro che ormai comincia a rinnegare Cristo, dobbiamo osservare che rinnega Cristo non solo chi dice che lui non è Cristo, ma anche chi, essendo cristiano, dice di non esserlo. Il Signore infatti non disse a Pietro: Tu negherai di essere mio discepolo; ma semplicemente: Mi rinnegherai (Mt 26, 34). Pietro dunque ha rinnegato Cristo, negando di essere suo discepolo. Ma in questo modo che altro ha fatto, se non rinnegare di essere cristiano? Quantunque infatti i discepoli di Cristo non si chiamassero ancora cristiani, in quanto cominciarono a chiamarsi così per la prima volta ad Antiochia dopo l'Ascensione (cf. At 11, 26), tuttavia esisteva già la realtà che poi sarebbe stata denominata così, ed esistevano già i discepoli che poi sarebbero stati chiamati cristiani, e che ai posteri assieme al nome trasmisero anche la loro comune fede. Chi dunque negò di essere discepolo di Cristo, negò la realtà che va sotto il nome di cristiano. Quanti, in seguito, e non dico vecchi o donne avanzate negli anni, che la stanchezza di questa vita poteva facilmente portare a disprezzare la morte per la confessione di Cristo; quanti in seguito, e non soltanto giovani d'ambo i sessi, dai quali pare legittimo attendersi forza d'animo, ma anche fanciulli e fanciulle e una schiera incalcolabile di santi martiri, con fortezza e violenza entrarono nel regno dei cieli, dimostrando di saper fare ciò che non seppe colui che dal Signore aveva ricevuto le chiavi del regno dei cieli (cf. Mt 16, 19). Ecco perché ha detto: Lasciate che costoro se ne vadano, quando si offrì per noi colui che ci redense col suo sangue, in modo che si adempisse quanto aveva detto: Di coloro che mi hai dato, non ho perduto nessuno (Gv 18, 8-9; 17, 12). Se Pietro fosse uscito da questa vita dopo aver rinnegato Cristo, certamente si sarebbe perduto.

3. Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché era freddo, e si scaldavano (Gv 18, 18), Non si era d'inverno, e tuttavia faceva freddo, come spesso accade durante l'equinozio di primavera. Anche Pietro stava con loro e si scaldava. Allora il sommo sacerdote interrogò Gesù circa i suoi discepoli e la sua dottrina. Gesù gli rispose: Io ho parlato apertamente al mondo; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si radunano, e non ho mai detto nulla in segreto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto (Gv 18, 18-21). Sorge qui una questione non trascurabile: in che senso il Signore Gesù afferma: Io ho parlato apertamente al mondo, e soprattutto in qual senso dice: Non ho mai detto nulla in segreto? Non ha detto forse in quest'ultimo discorso, rivolto ai discepoli dopo la cena: Vi ho parlato di queste cose in parabole: viene l'ora in cui non vi parlerò più in parabole, ma vi intratterrò apertamente sul Padre mio (Gv 16, 25)? Se, dunque, agli stessi suoi più intimi discepoli non aveva parlato apertamente, ma aveva annunziato loro il momento in cui avrebbe parlato apertamente, in che senso dice di aver parlato apertamente al mondo? Inoltre, anche secondo la testimonianza degli altri evangelisti, egli parlò certo più apertamente con i suoi discepoli, quando si trovava solo con loro lontano dalla folla, che con quanti non erano suoi discepoli; è ad essi infatti che spiegò il significato delle parabole che agli altri invece esponeva, senza spiegarle. Che significa dunque: Non ho mai detto nulla in segreto? E' da intendere che abbia detto: Io ho parlato apertamente al mondo, come per dire: Molti mi hanno ascoltato. E si può dire che in un senso ha parlato apertamente, in un altro senso no: ha parlato apertamente nel senso che molti ascoltavano, e non apertamente nel senso che molti non intendevano le sue parole. E, d'altra parte, quando si rivolgeva in disparte ai discepoli, non per questo si può dire che parlasse in segreto. Non parla in segreto chi parla davanti a tante persone, dal momento che sta scritto che sulla bocca di due o tre testimoni è garantita la verità d'ogni cosa (Dt 19, 15), E questo vale soprattutto per chi, parlando a poche persone, vuole, per loro mezzo, far conoscere a molti quello che dice. E non è proprio questa l'intenzione del Signore, quando parla ai discepoli che erano ancora pochi, e dice loro: Ciò che vi dico nella tenebra ditelo nella luce, e quel che udite all'orecchio predicatelo sui tetti (Mt 10, 27)? Perciò, anche quanto egli sembrava dire in segreto, in un certo senso non era detto in segreto; egli non insegnava con l'intento d'imporre, a quelli che ascoltavano, il segreto di quanto apprendevano, ma, al contrario, perché lo predicassero ovunque. Si può dunque dire una cosa apertamente e insieme non apertamente, in segreto e insieme non in segreto, secondo quanto fu detto: anche quanti vedono, guardino ma non vedano (Mc 4, 12), Essi vedono perché parla apertamente, non in segreto; e insieme non vedono perché parla non apertamente, ma in segreto. Ora, quelle cose, che avevano udito e non avevano inteso, erano tali che ragionevolmente e sinceramente non potevano essere incriminate. Difatti ogniqualvolta gli avevano posto delle domande insidiose, per trovare in lui qualche motivo d'accusa, egli rispose loro sventando tutte le loro insidie e polverizzando ogni calunnia. Perciò dice al gran sacerdote: Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto.

 

OMELIA 114

Non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi.

O empia cecità! Temono di venir contaminati dall'abitazione altrui, non temono di contaminarsi col proprio delitto.

1. Vediamo ora che cosa avvenne attorno al Signore o, meglio, della persona di nostro Signore Gesù Cristo nel pretorio del procuratore Ponzio Pilato, secondo il racconto dell'evangelista Giovanni. Egli ritorna al suo racconto, che aveva interrotto per riferire il rinnegamento di Pietro. Dopo aver detto che Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote (Gv 18, 24), era tornato nell'atrio dove aveva lasciato Pietro che si scaldava presso il fuoco, e, terminato il racconto delle sue negazioni, che arrivarono a tre, dice: Poi conducono Gesù da Caifa nel pretorio (Gv 18, 28). Aveva detto che a Caifa era stato mandato da Anna, suo collega e suocero. Ma se lo conducono da Caifa, perché lo portano nel pretorio? L'evangelista vuole semplicemente dirci che lo portano là dove abitava il procuratore Pilato. O Caifa, per qualche motivo urgente, si era recato al pretorio presso il procuratore lasciando la casa di Anna, dove ambedue si erano dati convegno per ascoltare Gesù, lasciando Gesù al suocero perché lo interrogasse, oppure Pilato aveva fissato il suo pretorio nella stessa casa di Caifa. Probabilmente questa casa era tanto grande da poter ospitare distintamente il padrone e il giudice.

2. Era l'alba, ed essi - quelli che conducevano Gesù - non vollero entrare nel pretorio, cioè in quella parte della casa occupata da Pilato, se quella era la casa di Caifa. L'evangelista spiega il motivo per cui non vollero entrare nel pretorio: per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua (Gv 18, 28). Erano cominciati i giorni degli azzimi, durante i quali essi non potevano entrare nell'abitazione di uno straniero senza contaminarsi. O empia cecità! Temevano di contaminarsi entrando nell'abitazione di uno straniero, e non temevano di contaminarsi con il loro delitto. Temevano la contaminazione del pretorio di un giudice straniero, non temevano la contaminazione del sangue innocente del loro fratello, per non parlare che della colpa di cui era gravata la loro cattiva coscienza. Il fatto di aver condotto a morte il Signore e di aver ucciso colui che era l'autore della vita, non imputiamolo alla loro coscienza ma alla loro ignoranza.

3. Allora Pilato uscì fuori verso di loro, e domandò: Che accusa portate contro quest'uomo? Essi gli risposero: Se non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato (Gv 18, 29-30). Si interroghino e rispondano i liberati dagli spiriti immondi, i malati guariti, i lebbrosi mondati, i sordi che odono, i muti che parlano, i ciechi che vedono, i morti che sono risorti, e, quel che è più, gli stolti diventati sapienti, e dicano essi se Gesù è un malfattore. Ma parlavano così quelli, a proposito dei quali egli stesso per mezzo del profeta aveva predetto: Mi ricambiavano male per bene (Sal 34, 12).

[I Giudei uccisero Cristo, anche se indirettamente.]

4. Disse loro Pilato: Prendetelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge! Gli risposero i Giudei: A noi non è permesso mettere a morte nessuno (Gv 18, 31). Che stanno dicendo quei pazzi crudeli? Forse che essi non uccidevano colui che presentavano perché fosse ucciso? Forse che la croce non uccide? A tal punto diventano stolti coloro che, invece di seguire, perseguitano la Sapienza. Che significa: A noi non è permesso mettere a morte nessuno? Se è un malfattore, perché non è lecito? Forse la legge consentiva loro di risparmiare i malfattori e, soprattutto, chi distoglieva i fedeli dal culto di Dio, come ritenevano facesse il Cristo (cf. Dt 13, 15)? Ma è da intendere che essi dissero non esser loro permesso mettere a morte nessuno a causa della santità del giorno di festa, che avevano già cominciato a celebrare: era per questo motivo che temevano di contaminarsi entrando nel pretorio. A tal punto, Israeliti falsi, vi siete induriti? A tal punto, per eccesso di malvagità, avete perduto ogni sentimento, da non ritenervi macchiati del sangue innocente, solo perché avete chiesto ad altri di versarlo? Sarà forse Pilato a uccidere, con le sue mani, colui che gli avete consegnato perché lo metta a morte? Se non aveste voluto che fosse ucciso, se non gli aveste teso insidie, se non aveste procurato col denaro che vi fosse consegnato, se non l'aveste arrestato, legato, consegnato e messo nelle mani di Pilato perché lo mettesse a morte, se a gran voce non aveste chiesto la sua morte, allora potreste vantarvi di non averlo ucciso voi. Se invece, a tutto ciò che avete fatto prima, aggiungete anche il grido: Crocifiggilo, crocifiggilo! (Gv 19, 6), ebbene, ascoltate che cosa grida a sua volta contro di voi il profeta: Uomini, i cui denti son lance e saette, e la cui lingua una spada affilata (Sal 56, 5). Ecco con quali armi, con quali saette, con quale spada avete voi ucciso il Giusto, anche se dicevate che a voi non era permesso mettere a morte nessuno. Questo il motivo per cui ad arrestare Gesù non andarono i gran sacerdoti, ma mandarono altri. Tuttavia l'evangelista Luca, nel suo racconto, a questo punto afferma: Gesù disse a coloro che erano venuti contro di lui, gran sacerdoti, capi delle guardie del tempio ed anziani: Come contro un brigante siete usciti (Lc 22, 52)... Anche se i gran sacerdoti non andarono personalmente, ma mandarono altri ad arrestare Gesù, di fatto andarono essi stessi nelle persone di coloro che eseguivano i loro ordini. E così tutti quelli che con empia voce gridarono che Cristo fosse crocifisso, anche se non direttamente, nondimeno furono essi a uccidere Cristo, per mezzo di colui che dalle loro grida fu indotto a compiere un tale delitto.

5. Se nelle parole che l'evangelista Giovanni aggiunge: Così si adempiva la parola che Gesù aveva detto indicando di quale morte avrebbe dovuto morire (Gv 18, 32), volessimo vedere un'allusione alla morte di croce (quasi che i Giudei dicendo: A noi non è permesso mettere a morte nessuno, avessero voluto dire che una cosa è uccidere e un'altra cosa crocifiggere), non vedo come queste parole possano essere una risposta pertinente e logica a Pilato, il quale aveva detto: Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge. Non avrebbero potuto prenderlo e crocifiggerlo essi stessi, se intendevano con tal genere di supplizio evitare la morte di qualcuno? Ma chi non vede quanto sia assurdo ritenere che fosse permesso di crocifiggere a coloro ai quali non era permesso di mettere a morte nessuno? D'altra parte il Signore stesso parlava della sua morte, della sua morte in croce, come di una vera uccisione, secondo quanto leggiamo in Marco: Ecco che noi saliamo a Gerusalemme, e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai gran sacerdoti e agli scribi; e lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani; lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno, lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà (Mc 10, 33-34). Esprimendosi così, il Signore indicò di quale morte sarebbe morto; non volendo tanto riferirsi alla sua morte in croce, quanto al fatto che i Giudei lo avrebbero consegnato ai pagani, cioè ai Romani. Pilato infatti era romano, ed erano stati i Romani a mandarlo in Giudea come procuratore. Così si sarebbe adempiuta la parola di Gesù, che cioè lo avrebbero ucciso i pagani una volta che fosse stato loro consegnato, come egli appunto aveva predetto; perciò quando Pilato, che era il giudice romano, volle restituirlo ai Giudei, perché lo giudicassero secondo la loro legge, si sentì rispondere: A noi non è permesso di mettere a morte nessuno. Così si adempì la predizione di Gesù, che aveva detto che i Giudei lo avrebbero consegnato ai pagani perché fosse messo a morte. E i pagani, in questo delitto, sono meno colpevoli dei Giudei, i quali in tal modo credettero di potersi scagionare della sua morte, dimostrando così, non la loro innocenza, ma la loro demenza.

 

OMELIA 115

Il mio regno non è di questo mondo.

Non è di questo mondo, perché in questo mondo è peregrinante. Sino alla fine del mondo sono mischiati insieme il grano e la zizzania. Alla fine del mondo, quando la messe sarà matura, i mietitori purificheranno il regno da tutti gli scandali, il che non avrebbe senso se il regno non fosse in questo mondo.

1. In questo discorso dobbiamo vedere e commentare ciò che Pilato disse a Cristo e ciò che Cristo rispose a Pilato. Dopo aver detto ai Giudei: Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge, e dopo che essi ebbero risposto: A noi non è permesso mettere a morte nessuno, Pilato entrò di nuovo nel pretorio, chiamò Gesù e gli disse: Tu sei il re dei Giudei? Gesù rispose: Dici questo da te, oppure altri te l'hanno detto sul conto mio? Il Signore sapeva bene ciò che domandava a Pilato e sapeva ciò che gli avrebbe risposto Pilato; tuttavia volle che parlasse, non perché avesse bisogno di apprendere, ma perché fosse scritto quanto voleva che giungesse a nostra conoscenza. Pilato rispose: Sono io forse giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che hai fatto? Rispose Gesù: Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, affinché non fossi consegnato ai Giudei; ora invece il mio regno non è di quaggiù (Gv 18, 31.33-36). E' questo che il buon Maestro ha voluto che noi sapessimo; ma prima bisognava dimostrare quanto fosse infondata l'opinione che del suo regno avevano sia i gentili che i Giudei, dai quali Pilato l'aveva appresa. Essi ritenevano che fosse reo di morte per aver preteso un regno che non gli apparteneva; oppure perché sia i Romani che i Giudei dovevano prendere misure contro il suo regno perché avverso a loro, in quanto i regnanti di solito sono gelosi di quanti potrebbero regnare al loro posto. Il Signore avrebbe potuto rispondere subito alla prima domanda del procuratore: Tu sei il re dei Giudei?, dicendo: il mio regno non è di questo mondo. Ma egli, chiedendo a sua volta se quanto Pilato domandava, lo diceva da sé oppure l'avesse sentito dire da altri, volle dimostrare, attraverso la risposta di Pilato, che erano i Giudei a formulare tale accusa contro di lui. Egli mostra così la vanità dei pensieri degli uomini (cf. Sal 93, 11), che ben conosceva, e rispondendo loro, Giudei e gentili insieme, in modo più esplicito e diretto, dopo la reazione di Pilato dice: Il mio regno non è di questo mondo. Se avesse risposto così alla prima domanda di Pilato, poteva sembrare che egli rispondesse non anche ai Giudei ma ai soli gentili, come se fossero solo questi ad avere di lui una tale opinione. Ma dal momento che risponde: Sono io forse giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me, Pilato allontana da sé il sospetto che fosse stato proprio lui a dire che Gesù aveva affermato di essere il re dei Giudei, dimostrando che lo aveva sentito dire dai Giudei. Dicendo poi: Che hai fatto?, lascia intendere abbastanza chiaramente che quel fatto gli veniva imputato come un delitto; come a dire: Se non sei re, che hai fatto per essere consegnato a me? Quasi non fosse strano che venisse consegnato al giudice per essere punito, chi diceva di essere re; qualora poi non l'avesse detto, sarebbe dovuto sembrare strano che fosse compito del Giudice chiedergli cos'altro avesse fatto di male per meritare di essere consegnato a lui.

[Nel regno del Figlio diletto.]

2. Ascoltate dunque, Giudei e gentili; ascoltate, circoncisi e incirconcisi; ascoltate, regni tutti della terra: Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo: Il mio regno non è di questo mondo. Non lasciatevi prendere dall'assurdo timore di Erode che, alla notizia della nascita di Cristo, si allarmò, e per poter colpire lui uccise tanti bambini (cf. Mt 2, 3 16), mostrandosi così crudele più nella paura che nella rabbia. Il mio regno - dice il Signore - non è di questo mondo. Che volete di più? Venite nel regno che non è di questo mondo; venite credendo, e non vogliate diventare crudeli per paura. E' vero che in una profezia, Cristo, riferendosi a Dio Padre, dice: Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo (Sal 2, 6), ma questo monte e quella Sion, di cui parla, non sono di questo mondo. Quale è infatti il suo regno se non i credenti in lui, a proposito dei quali dice: Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo? anche se egli voleva che essi rimanessero nel mondo, e per questo chiese al Padre: Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal male (Gv 17, 16 15). Ecco perché anche qui non dice: Il mio regno non è in questo mondo, ma dice: Il mio regno non è di questo mondo. E dopo aver provato la sua affermazione col dire: Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, affinché non fossi consegnato ai Giudei, non dice: Ora il mio regno non si trova quaggiù, ma dice: il mio regno non è di quaggiù. Il suo regno infatti è quaggiù fino alla fine dei secoli, portando mescolata nel suo grembo la zizzania fino al momento della mietitura, che avverrà appunto alla fine dei tempi, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, a togliere via dal suo regno tutti gli scandali (cf. Mt 13, 38-41). E questo non potrebbe certo avvenire, se il suo regno non fosse qui in terra. Tuttavia, esso non è di quaggiù, perché è peregrinante nel mondo. E' precisamente agli appartenenti al suo regno che egli si riferisce quando dice: Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo (Gv 15, 19). Erano dunque del mondo, quando ancora non facevano parte del suo regno, e appartenevano al principe del mondo. E' quindi del mondo tutto ciò che di umano è stato sì creato dal vero Dio, ma che è stato generato dalla stirpe corrotta e dannata di Adamo; è diventato però regno di Dio, e non è più di questo mondo, tutto ciò che in Cristo è stato rigenerato. E' in questo modo che Dio ci ha sottratti al potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio dell'amor suo (cf. Col 1, 13). Ed è appunto di questo regno che egli dice: Il mio regno non è di questo mondo, e anche: Il mio regno non è di quaggiù.

3. Gli disse allora Pilato: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici, io sono re (Gv, 18, 37). Il Signore non esita a dichiararsi re, ma la sua espressione: tu lo dici, è così misurata che non nega di essere re (re, si intende, di un regno che non è di questo mondo), ma neppure afferma di esserlo in quanto ciò potrebbe far pensare che il suo regno sia di questo mondo. Tale infatti lo considerava Pilato che gli aveva chiesto: Dunque tu sei re? Gesù risponde: Tu lo dici, io sono re. Usa l'espressione: Tu lo dici, come a dire: Tu hai una mentalità carnale e perciò non puoi esprimerti che così.

4. E prosegue: Io per questo son nato, e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità (Gv 18, 37). Non dobbiamo considerare lunga la sillaba del pronome, là dove dice: per questo son nato, come se avesse voluto dire: sono nato in questa condizione; ma dobbiamo considerarla breve, cioè come se avesse detto: per questo son nato, come appunto poi dice: per questo son venuto nel mondo. Nel testo greco, infatti, questa espressione non è affatto ambigua. Risulta quindi chiaramente che il Signore parla qui della sua nascita temporale mediante la quale, essendosi incarnato, è venuto nel mondo; non della sua nascita senza principio, per cui è Dio, per mezzo del quale il Padre ha creato il mondo. Egli afferma di essere nato per questo, e di essere venuto nel mondo, nascendo dalla Vergine, per questo, per rendere cioè testimonianza alla verità. Ma, siccome la fede non è di tutti (cf. 2 Thess 3, 2), soggiunge: Chiunque è dalla parte della verità, ascolta la mia voce (Gv 18, 37). La ascolta, s'intende, con l'udito interiore, cioè obbedisce alla mia voce: e questo è come dire che crede in me. Rendendo testimonianza alla verità, Cristo rende testimonianza a se stesso; è proprio lui che afferma: Io sono la verità (Gv 14, 6), e in un altro passo: Io rendo testimonianza a me stesso (Gv 8, 18). Dicendo ora: Chiunque è dalla parte della verità, ascolta la mia voce, vuole sottolineare la grazia con la quale egli, secondo il suo disegno, ci chiama. A proposito di questo disegno l'Apostolo dice: Noi sappiamo che a quelli che amano Dio, tutto coopera per il bene, a quelli cioè che sono stati chiamati secondo il disegno di Dio (Rm 8, 28); cioè secondo il disegno di colui che chiama, non di coloro che sono chiamati. L'Apostolo esprime questo concetto ancor più chiaramente quando dice: Collabora al Vangelo con la forza di Dio. E' lui infatti che ci ha salvati e ci ha chiamati con la sua santa vocazione, non in base alle nostre opere ma secondo il suo proposito e la sua grazia (2 Tim 1, 8-9). Se infatti consideriamo la natura nella quale siamo stati creati, chi non è dalla verità, dato che è la verità che ha creato tutti gli uomini? Ma non a tutti la verità concede di ascoltarla, nel senso di obbedire alla verità e di credere in essa: certo senza alcun merito precedente, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia. Se il Signore avesse detto: Chiunque ascolta la mia voce, è dalla verità; si poteva pensare che uno è dalla verità per il fatto che obbedisce alla verità. Ma egli non dice così, bensì: Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. Non è, costui, dalla verità perché ascolta la sua voce, ma ascolta la sua voce perché è dalla verità, avendogli la verità stessa concesso questa grazia. E che altro vuol dire questo, se non che è per grazia di Cristo che si crede in Cristo?

5. Gli dice Pilato: Che cosa è la verità? E non aspetta la risposta; ma detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: Io non trovo in lui nessun motivo di condanna. Ma è per voi consuetudine che io vi rilasci qualcuno in occasione della Pasqua. Volete che vi rilasci il re dei Giudei? Credo che quando Pilato rivolse al Signore la domanda: Che cosa è la verità?, gli sia subito venuta in mente la consuetudine dei Giudei secondo la quale si era soliti rilasciare ad essi un condannato in occasione della Pasqua; e forse per questo motivo non aspettò che Gesù gli rispondesse che cosa fosse la verità, preoccupato com'era di non perder tempo, dato che si era ricordato di quell'usanza con cui avrebbe potuto rilasciarlo cogliendo l'occasione della Pasqua. Che seriamente volesse liberare Gesù, è evidente. Tuttavia non riuscì a levarsi dalla mente l'idea che Gesù era il re dei Giudei, come se la Verità stessa, sulla cui natura egli aveva interrogato il Signore, avesse fissato nel suo cuore, come poi nel titolo della croce, questo dato di fatto. Ma, udite queste parole, i Giudei si misero a gridare di nuovo: Non costui, ma Barabba! Barabba era un brigante (Gv 18, 38-40). Non vi rimproveriamo, o Giudei, per l'usanza che avete di liberare un malfattore in occasione della Pasqua, ma per il fatto che volete uccidere un innocente. E, tuttavia, se ciò non fosse avvenuto, non ci sarebbe stata la vera Pasqua. Nel loro errore i Giudei possedevano l'ombra della verità e, per mirabile disposizione della divina sapienza, servendosi di uomini caduti nell'errore, si compì la verità di quell'ombra, allorché Cristo come una pecora fu immolato affinché si realizzasse la vera Pasqua. Seguono gli oltraggi e i maltrattamenti inflitti a Cristo da parte di Pilato e della sua coorte, di cui ci occuperemo in un altro discorso.

 

OMELIA 116

Cristo oltraggiato.

Così il grano veniva seminato nell'ignominia, per germogliare rigoglioso nella gloria.

[La sua potenza, e la sua pazienza.]

1. I Giudei avevano chiesto con urli che Pilato in occasione della Pasqua liberasse, non Gesù ma il brigante Barabba, non il salvatore ma l'uccisore, non l'autore della vita ma l'omicida. Allora Pilato prese Gesù e lo flagellò (Gv 19, 1). E' da credere che Pilato abbia fatto questo solo con l'intenzione di placare la crudeltà dei Giudei, in modo che essi, ritenendosi soddisfatti di tali maltrattamenti, desistessero dal proposito di farlo morire. E' con questa intenzione che il procuratore permise alla sua coorte di infliggere a Gesù quanto racconta l'evangelista. Può darsi che non solo lo abbia permesso ma lo abbia ordinato, quantunque l'evangelista non lo dica. Egli si limita a raccontare che cosa fecero i soldati in seguito, ma non dice che fosse per ordine di Pilato. E i soldati - dice - intrecciarono una corona di spine e gliela posero sul capo, lo rivestirono di un mantello purpureo e avanzandosi verso di lui dicevano: Salve, re dei Giudei! e gli davano schiaffi (Gv 19, 2-3). Così si adempiva ciò che Cristo aveva predetto di se stesso, insegnando ai martiri a sopportare tutto ciò che ai persecutori fosse piaciuto di far loro subire. Occultando per breve tempo la sua tremenda maestà, voleva anzitutto proporre alla nostra imitazione un grande esempio di pazienza; il suo regno che non era di questo mondo, vinceva così il mondo superbo, non con sanguinose lotte, ma con l'umiltà della pazienza; questo grano, che doveva moltiplicarsi, veniva seminato in mezzo a così orribili oltraggi, per germogliare mirabilmente nella gloria.

2. Pilato, uscito di nuovo fuori, disse: Ecco, ve lo conduco fuori perché sappiate che non trovo in lui alcun motivo di condanna. Gesù uscì portando la corona di spine e il manto di porpora. E Pilato dice loro: Ecco l'uomo! (Gv 19, 4-5). Qui si ha la prova che non fu all'insaputa di Pilato che i soldati avevano oltraggiato Gesù, sia che egli lo abbia ordinato, sia che lo abbia soltanto permesso. Abbiamo già detto per qual motivo aveva agito così: perché i nemici di Gesù, provando gusto a bere tutte queste ingiurie, non sentissero ulteriormente la sete di sangue. Gesù esce verso di loro portando la corona di spine e il manto di porpora, non splendido di gloria, ma coperto di obbrobrio. Pilato dice loro: Ecco l'uomo!, come a dire: Se siete gelosi del re, ebbene risparmiatelo, ora che lo vedete ridotto così; è stato flagellato, è stato coronato di spine, è stato ricoperto di una veste ignominiosa, è stato schernito in modo crudele, è stato schiaffeggiato; si raffreddi l'odio di fronte a tanta ignominia. Ma invece di raffreddarsi, l'odio dei Giudei si accende maggiormente e diventa feroce.

3. Nel vederlo, i gran sacerdoti e le guardie gridavano: Crocifiggilo, crocifiggilo! Disse loro Pilato: Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessun motivo di condanna. Gli risposero i Giudei: Noi abbiamo una legge, e secondo questa legge deve morire, perché ha detto di essere il Figlio di Dio (Gv 19, 6-7). Ecco un motivo di odio ancora maggiore. Infatti, sembrava un piccolo motivo quello della potestà regia che, secondo loro, Gesù aveva usurpato; e tuttavia Gesù non aveva usurpato nessuno dei due titoli, perché è vera l'una e l'altra: egli è il Figlio unigenito di Dio, ed è il re da lui costituito sopra Sion, il suo monte santo. E avrebbe ben potuto dimostrare l'una e l'altra cosa, solo che ora voleva mostrare come la sua pazienza era tanto più grande quanto più grande era la sua potenza.

4. Quando Pilato sentì questa parola ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: Donde sei tu? Ma Gesù non gli diede risposta (Gv 19, 8-9). Confrontando il racconto di tutti gli evangelisti, risulta che nostro Signore Gesù Cristo non ha taciuto soltanto questa volta, ma anche davanti ai gran sacerdoti, davanti a Erode al quale secondo Luca, Pilato lo mandò perché lo interrogasse, e davanti allo stesso Pilato (cf. Mt 26, 63; 27, 14; Mc 14, 61; 15, 5; Lc 23, 7-9; Gv 19, 9). Gesù taceva; non per nulla era stato predetto di lui: Come agnello condotto al macello, restò muto e non aprì la sua bocca (Is 53, 7), come precisamente è avvenuto quando non rispose a chi lo interrogava. Egli rispose, è vero, ad alcune delle domande che gli furono rivolte; e pertanto è per quelle alle quali non volle rispondere che è stato paragonato all'agnello, appunto perché, nel suo silenzio, non fosse considerato colpevole ma innocente. Tutte le volte che non aprì bocca dinanzi ai suoi giudici, si comportò appunto come agnello che tace davanti al tosatore, cioè: non come un colpevole conscio dei propri peccati e confuso innanzi all'accusa, ma come un mansueto che viene immolato per la colpa degli altri.

5. Pilato allora gli disse: A me non parli? Non sai che io ho potere di rilasciarti e ho potere di crocifiggerti? Rispose Gesù: Non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha una colpa maggiore (Gv 19, 10-11). Ecco che questa volta il Signore ha risposto. E tuttavia ogni volta che ha taciuto non si è comportato come un reo o un falso, ma come agnello, cioè come un uomo semplice e mansueto che non apre bocca. Quando non risponde, tace come pecora; quando risponde, insegna come pastore. Teniamo conto dunque di quanto ci dice, di quanto per mezzo dell'Apostolo ci insegna, e cioè che non v'è autorità se non da Dio (Rm 13, 1); e ancora che è più colpevole chi per odio consegna un innocente all'autorità perché venga messo a morte, che non l'autorità stessa che uccide per paura di un'altra autorità superiore. Sì, perché l'autorità che Dio aveva dato a Pilato, era soggetta all'autorità di Cesare. E' per questo che il Signore dice: non avresti nessun potere su me, qualunque sia quello che hai, se questo stesso potere non ti fosse stato dato dall'alto. Ma siccome io conosco il limite del tuo potere, e so che il tuo potere non è tale da consentirti di agire liberamente, per questo chi mi ha consegnato a te ha una colpa maggiore. Chi mi ha consegnato lo ha fatto per odio, e tu stai esercitando su di me questo potere per paura. E' vero, mai si deve uccidere un uomo, soprattutto se è innocente, per paura; tuttavia, è un delitto più grave uccidere per odio che per paura. Per questo il maestro della verità non dice: Chi mi ha consegnato a te lui sì che è colpevole, come se Pilato fosse esente da ogni colpa. Egli dice che chi lo ha consegnato a Pilato ha una colpa maggiore, per fare intendere al procuratore che anch'egli è responsabile. Pilato non è innocente per il solo fatto che i Giudei sono più colpevoli di lui.

6. Da quel momento Pilato cercava di rilasciarlo (Gv 19, 12). Che significa da quel momento? Che prima non cercava di rilasciarlo? Leggi ciò che sta scritto prima e troverai che già dapprima Pilato cercava di mettere in libertà Gesù. Da quel momento va inteso così: Per questo, cioè per questo motivo, per non addossarsi la colpa di uccidere quell'innocente che gli era stato consegnato, anche se la colpa sarebbe stata minore di quella dei Giudei che glielo avevano consegnato perché lo uccidesse. Da quel momento, dunque, cioè appunto per non commettere questo peccato, e non soltanto da ora, ma fin da principio, egli cercava di rilasciarlo.

7. I Giudei però gridavano: Se rilasci costui non sei amico di Cesare: chiunque dice di essere re si mette contro Cesare (Gv 19, 12). I Giudei ritenevano che la paura di Cesare avrebbe indotto Pilato a mettere a morte Cristo molto più efficacemente della minaccia contenuta nelle parole di prima: Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio. Il timore della loro legge non lo aveva indotto a uccidere Gesù, mentre il timore che egli fosse Figlio di Dio lo aveva ancor più trattenuto. Adesso però non poteva permettersi di disprezzare Cesare, da cui derivava il suo potere, così come aveva disprezzato la legge di un popolo straniero.

8. E l'evangelista continua dicendo: Pilato, udite queste parole, fece portar fuori Gesù e si assise nel tribunale, nel luogo detto Litostroto, in ebraico Gabbathà. Era la Preparazione della Pasqua verso l'ora sesta (Gv 19, 13-14). Circa l'ora in cui il Signore fu crocifisso, dato che un altro evangelista dice: Era circa l'ora terza quando lo crocifissero (Mc 15, 25), si è molto discusso. Quando saremo arrivati al racconto della crocifissione, affronteremo tale questione, se il Signore vorrà e secondo le nostre possibilità. Dopo essersi seduto in tribunale, Pilato disse ai Giudei: Ecco il vostro re! Allora quelli gridarono: Via, via, crocifiggilo! Dice loro Pilato: Metterò in croce il vostro re? (Gv 19, 14-15). Pilato tenta ancora di superare il terrore di Cesare che i Giudei gli avevano messo addosso, e attraverso la cattiva figura che essi ci avrebbero fatto (è per questo che dice: Metterò in croce il vostro re?) cerca di ammansire coloro che attraverso le umiliazioni inferte al Cristo non era riuscito a calmare. Ma si lascia subito vincere dalla paura.

9. Infatti, risposero i gran sacerdoti: Non abbiamo altro re che Cesare! Allora egli lo consegnò loro perché fosse crocifisso (Gv 19, 15-16). Sarebbe infatti sembrato che egli si volesse mettere apertamente contro Cesare, se davanti alla loro dichiarazione di avere come re soltanto Cesare, si fosse ostinato nell'imporre un altro re, lasciando impunito uno che essi gli avevano consegnato per farlo mettere a morte, avendo osato aspirare al regno. Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso. Ma era forse questo che desiderava anche prima quando diceva: Prendetelo voi e crocifiggetelo, o ancor prima: Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge? Ma allora perché essi non vollero crocifiggerlo, ma risposero a Pilato: A noi non è permesso di mettere a morte nessuno (Gv 18, 31)? Perché in tutti i modi insistettero affinché fosse messo a morte non da loro, ma dal procuratore, rifiutandosi appunto di prenderlo per ucciderlo, se adesso lo prendono per ucciderlo? O, se non è così, perché l'evangelista dice che Pilato lo consegnò loro perché fosse crocifisso? C'è dunque una differenza? Certamente. L'evangelista, infatti, non dice: Allora lo consegnò loro perché lo crocifiggessero; ma: perché fosse crocifisso, cioè, perché fosse crocifisso secondo la sentenza e sotto la responsabilità del procuratore. Ma l'evangelista precisa che lo consegnò loro, per mostrare che essi erano implicati nel delitto dal quale cercavano di rimanere estranei; Pilato, infatti, non sarebbe giunto alla condanna, se non fosse stato per soddisfare quello che vedeva essere il loro vivo desiderio. Ciò che segue: Presero, dunque Gesù, e lo condussero fuori, può essere senz'altro riferito ai soldati che erano agli ordini del procuratore; perché poi più esplicitamente l'evangelista dice: I soldati, quando ebbero crocifisso Gesù (Gv 14, 23). Se l'evangelista attribuisce tutta la colpa ai Giudei, lo fa a ragion veduta, in quanto ottennero ciò che ostinatamente avevano sollecitato, e furono essi i veri autori della sentenza che estorsero a Pilato. Ma di questo in un altro discorso.

 

OMELIA 117

Quello che ho scritto, ho scritto.

Pilato quello che ha scritto ha scritto, perché il Signore quello che ha detto ha detto.

1. Era circa l'ora sesta, quando presero il Signore Gesú Cristo, dopo che egli era stato giudicato e condannato dal tribunale di Pilato, e lo condussero fuori. Portandosi egli stesso la croce si avviò verso il luogo detto Calvario, che in ebraico si dice Golgotha, dove lo crocifissero (Gv 19, 17-18). Perché allora l'evangelista Marco dice: Era circa l'ora terza quando lo crocifissero (Mc 15, 25)? Perché il Signore venne crocifisso all'ora terza dalla lingua dei Giudei, all'ora sesta per mano dei soldati. Per farci intendere che l'ora quinta era già trascorsa, ed era già cominciata l'ora sesta quando Pilato sedette in tribunale, Giovanni dice che era circa l'ora sesta; e intanto che Gesú veniva condotto al Calvario, intanto che veniva crocifisso insieme ai due briganti, intanto che avvenivano presso la croce le cose che gli evangelisti raccontano, si compì l'ora sesta. A cominciare da quest'ora fino all'ora nona, secondo la testimonianza dei tre evangelisti, Matteo, Marco, Luca, il sole cominciò ad oscurarsi e si fece buio (cf. Mt 27, 45; Mc 15, 33; Lc 23, 44). Ma siccome i Giudei cercavano di scaricare la responsabilità dell'uccisione di Cristo sui Romani, cioè su Pilato e i suoi soldati, Marco non riferisce l'ora in cui i soldati crocifissero Cristo, che era circa l'ora sesta, mentre annota con particolare cura l'ora terza, nella quale i Giudei gridarono davanti a Pilato: Crocifiggilo, crocifiggilo! (Gv 19, 6). Con ciò Marco vuol farci intendere che a crocifiggere Gesú non furono soltanto i soldati che lo appesero al legno all'ora sesta, ma anche i Giudei che all'ora terza gridarono che fosse crocifisso.

2. Si può anche risolvere la questione relativa all'ora della crocifissione, dicendo che qui non si tratta dell'ora sesta del giorno, in quanto nemmeno Giovanni dice: Era circa l'ora sesta del giorno, o semplicemente: era circa l'ora sesta; ma dice: Era la parasceve di Pasqua, verso l'ora sesta (Gv 19, 14). Parasceve si traduce in latino: Preparazione, e i Giudei, anche quelli che si esprimono meglio in latino che in greco, per indicare i loro riti, volentieri ricorrono a questa parola greca. Era, dunque, la preparazione della Pasqua. Ma la nostra Pasqua - come dice l'Apostolo - è Cristo che è stato immolato (1 Cor 5, 7). Ora se noi calcoliamo la preparazione di questa Pasqua a partire dall'ora di notte (allora infatti sembra che i sacerdoti abbiano deciso l'immolazione del Signore dicendo: E' reo di morte (Mt 26, 66), per cui si può dire che la preparazione della vera Pasqua, cioè dell'immolazione di Cristo, adombrata dalla Pasqua giudaica, cominciò da quando egli venne interrogato nella casa del pontefice e i sacerdoti decretarono che fosse immolato); se prendiamo dunque come punto di partenza quell'ora di notte che si ritiene fosse l'ora nona, troviamo che da quell'ora terza, in cui secondo la testimonianza dell'evangelista Marco Cristo fu crocifisso, intercorrono sei ore, tre di notte e tre di giorno. Era quindi circa l'ora sesta di questa parasceve di Pasqua, cioè della preparazione dell'immolazione di Cristo, che era cominciata all'ora nona di notte. Quando Pilato sedette in tribunale era trascorsa l'ora quinta ed era cominciata la sesta. Era ancora la preparazione della Pasqua, che era incominciata all'ora nona di notte, e si attendeva che si compisse l'immolazione di Cristo che ebbe luogo, secondo Marco, all'ora terza del giorno, non all'ora terza della preparazione. L'ora terza del giorno comincia cioè sei ore dopo l'ora nona della notte, e corrisponde all'ora sesta, non del giorno ma della preparazione della Pasqua. Delle due soluzioni di questa difficile questione, ognuno scelga quella che vuole. Per un criterio di scelta si veda la nostra elaboratissima trattazione Sulla concordanza degli Evangelisti. E se qualcuno riuscirà a trovare altre soluzioni, contribuirà a difendere la solidità della verità evangelica contro le vuote calunnie degli increduli e degli empi. Torniamo, dopo questa breve digressione, alla narrazione dell'evangelista Giovanni.

[Spettacolo, empietà, ludibrio.]

3. Presero dunque Gesú, il quale, portandosi egli stesso la croce, si avviò verso il luogo detto Calvario, che in ebraico si dice Golgotha, dove lo crocifissero. Gesú si avviò verso il luogo dove sarebbe stato crocifisso, portandosi egli stesso la croce. Quale spettacolo! Grande ludibrio agli occhi degli empi, grande mistero a chi contempla con animo pio. Agli occhi degli empi è uno spettacolo terribile e umiliante, ma chi sa guardare con sentimenti di devozione, trova qui un grande sostegno per la sua fede. Chi assiste a questo spettacolo con animo empio, non può che irridere il re che, invece dello scettro, porta la croce del suo supplizio; la pietà invece contempla il re che porta la croce alla quale egli sarà confitto, ma che dovrà essere poi collocata perfino sulla fronte dei re. Su di essa egli sarà disprezzato agli occhi degli empi, e in essa si glorieranno i cuori dei santi. Paolo, infatti, dirà: Non accada mai che io mi glori d'altro che della croce del Signore Gesú Cristo (Gal 6, 14). Cristo esaltava la croce portandola sulle sue spalle, e la reggeva come un candelabro per la lucerna che deve ardere e non deve essere posta sotto il moggio (cf. Mt 5, 15). Dunque, portando egli stesso la croce, si avviò verso il luogo detto Calvario, che in ebraico si dice Golgotha. Qui lo crocifissero, e con lui due altri, di qua e di là, e Gesú nel mezzo (Gv 19, 17-18). Questi due, come apprendiamo dalla narrazione degli altri evangelisti, erano briganti. Cristo fu crocifisso insieme ad essi, anzi in mezzo ad essi (cf. Mt 27, 38; Mc 15, 27; Lc 23, 33), compiendosi cosí la profezia che aveva annunciato: Fu annoverato tra i malfattori (Is 53, 12).

4. E Pilato vergò pure un'iscrizione, e la fece apporre sulla croce. C'era scritto: Gesú Nazareno, il re dei Giudei. Questa iscrizione molti Giudei la poterono leggere, perché il luogo dove fu crocifisso Gesú era vicino alla città; ed era scritta in ebraico, in greco e in latino (Gv 19, 19-20). Erano queste le tre lingue principali di allora: l'ebraico a causa dei Giudei che si gloriavano della legge di Dio; il greco perché era la lingua dei saggi; il latino perché era parlato dai Romani, il cui impero si estendeva a moltissime, anzi a quasi tutte le nazioni.

5. E i sommi sacerdoti dei Giudei dissero a Pilato: Non scrivere: Re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei. Rispose Pilato: Quello che ho scritto, ho scritto (Gv 19, 21-22). O forza ineffabile dell'azione divina, anche nel cuore di quelli che non se ne rendono conto! Non è azzardato dire che una certa voce segreta, silenziosamente eloquente, ha fatto risuonare nell'anima di Pilato ciò che tanto tempo prima era stato profetato nel libro dei Salmi: Non alterare l'iscrizione del titolo (Tt Ps 56 e 57). Ecco, lui non altera l'iscrizione del cartello posto sulla croce: quello che ha scritto ha scritto. Ma anche i gran sacerdoti che volevano fosse alterata, cosa dicevano? Non scrivere: Re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei. Che state dicendo, o insensati? Perché volete impedire ciò che in nessun modo potete cambiare? Potete forse impedire che sia vero ciò che Gesú afferma: Io sono il re dei Giudei? Se non si può alterare ciò che Pilato ha scritto, si potrà alterare ciò che la verità ha detto? E poi Cristo è re soltanto dei Giudei o anche di tutte le genti? E' certamente re di tutte le genti. Infatti, dopo aver detto nella profezia: Io sono stato da lui costituito re sopra Sion, il suo monte santo; promulgherò il decreto del Signore, affinché nessuno, sentendo parlare del monte Sion, pensi che sia stato costituito re soltanto dei Giudei, subito aggiunge: il Signore mi ha detto: Figlio mio sei tu, oggi ti ho generato: chiedimi e ti darò le genti in retaggio, in tuo possesso i confini della terra (Sal 2, 6-8). Egli stesso, del resto, rivolgendosi personalmente ai Giudei, ha detto: Ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche quelle devo condurre, e ascolteranno la mia voce e si farà un solo gregge, un solo pastore (Gv 10, 16). Quale grande significato dobbiamo dunque vedere in questa iscrizione, che reca: Il re dei Giudei, dato che Cristo è il re di tutte le genti? Dobbiamo renderci conto che l'olivastro è stato fatto partecipe della pinguedine dell'olivo, e non che l'olivo è diventato partecipe dell'amarezza dell'olivastro (cf. Rm 11, 17). Poiché certamente compete a Cristo il titolo dell'iscrizione: Il re dei Giudei, chi bisogna intendere per Giudei se non la discendenza di Abramo, i figli della promessa, che sono anche figli di Dio? Perché non i figli della carne - dice l'Apostolo - sono figli di Dio, ma i figli della promessa vengono considerati come vera discendenza (Rm 9, 7-8) E tutte le altre genti sono coloro cui diceva: Se siete di Cristo, siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa (Gal 3, 29). Cristo dunque è il re dei Giudei, ma dei Giudei circoncisi nel cuore, secondo lo spirito e non secondo la lettera; è il re di coloro che traggono la loro gloria non dagli uomini ma da Dio (cf. Rm 2, 29), che appartengono alla Gerusalemme che è libera, che è la nostra madre celeste, la Sara spirituale che scaccia la schiava e i figli di lei dalla casa della libertà (cf. Gal 4, 22-31). Ecco perché Pilato quello che ha scritto ha scritto: perché il Signore quello che ha detto ha detto.

 

OMELIA 118

Presero le vesti e ne fecero quattro parti, e la tunica.

Le quattro parti in cui furono divise le vesti simboleggiano le parti del mondo in cui è diffusa la Chiesa. Mentre la tunica tirata a sorte significa l'unità delle parti, garantita dal vincolo della carità.

1. Con l'aiuto del Signore, in questo discorso commenteremo ciò che avvenne presso la croce, dopo che egli fu crocifisso. I soldati poi, com'ebbero crocifisso Gesú, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora questa tunica era senza cucitura, tessuta per intero dall'alto in basso. Perciò dissero tra loro: Non la stracciamo, ma tiriamo a sorte a chi tocchi. Perché si adempisse la Scrittura: Si divisero tra loro i miei vestiti e sulla mia tunica hanno tirato a sorte (Gv 19, 23-24). Si fece quanto i Giudei avevano voluto. Non furono essi a crocifiggere Gesú, ma i soldati agli ordini di Pilato, esecutori della sua sentenza. E tuttavia, se si tiene conto della loro ostinata volontà, delle insidie, dei maneggi, del fatto che glielo consegnarono e come finalmente riuscirono con urli a strappargli la sentenza, certamente dobbiamo dire che, ben più dei soldati, a crocifiggere Gesú furono i Giudei.

2. Ma non possiamo non soffermarci sul particolare che furono divise e tirate a sorte le vesti del Signore. Tutti e quattro gli evangelisti ricordano questo episodio, ma solo Giovanni ne parla diffusamente; e mentre gli altri tre ne parlano indirettamente, Giovanni ne parla di proposito e dettagliatamente. Matteo dice: Quando l'ebbero crocifisso, si divisero le sue vesti tirandole a sorte (Mt 27, 35). Marco: Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte la parte di ciascuno (Mc 15, 24). Luca: Dividendosi poi le sue vesti, le tirarono a sorte (Lc 23, 34). Giovanni, invece, precisa anche in quante parti divisero le sue vesti: in quattro, per prenderne ciascuno una parte. Donde risulta che erano quattro i soldati che avevano ricevuto dal procuratore l'ordine di crocifiggere Gesú. Lo dice chiaramente: I soldati, com'ebbero crocifisso Gesú, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una parte per ciascun soldato, e la tunica. E' sottinteso che presero anche la tunica. In altri termini: Presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e presero anche la tunica. Giovanni cosí si esprime per farci intendere che le altre vesti non furono tirate a sorte. Tirano a sorte soltanto la tunica, che avevano preso insieme alle altre vesti, ma che non dividono come fanno con le altre vesti. L'evangelista ne spiega il motivo: Ora quella tunica era senza cucitura, tessuta per intero dall'alto in basso. E dice anche perché decisero di tirarla a sorte: Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocchi. Appare cosí che essi avevano diviso le altre vesti in parti uguali, per cui non fu necessario tirarle a sorte; della tunica invece, che era tutta d'un pezzo, non sarebbero riusciti ad avere ciascuno una parte senza stracciarla; per avere poi solo degli stracci. Appunto per evitare questo, preferirono tirarla a sorte di modo che toccasse ad uno solo. La testimonianza profetica concorda perfettamente con la narrazione dell'evangelista Giovanni, come questi del resto sottolinea, soggiungendo: Perché si adempisse la Scrittura: Si divisero tra loro i miei vestiti e sulla mia tunica hanno tirato a sorte (cf. Sal 21, 19). Non dice: sorteggiarono le mie vesti, ma si divisero le mie vesti; e neppure dice che si divisero le sue vesti tirandole a sorte. Parlando delle altre vesti non dice affatto che siano state sorteggiate, mentre dice chiaramente: Hanno tirato a sorte la mia veste, riferendosi alla tunica che era rimasta. A proposito della tunica vi dirò quanto il Signore mi ispirerà, non appena avrò respinto le accuse che possono sorgere contro la concordanza degli evangelisti, dimostrando che nessuna parola degli altri evangelisti è in contrasto con la narrazione di Giovanni.

3. Matteo infatti, dicendo: Si divisero le sue vesti tirandole a sorte, ci fa intendere che anche la tunica, che fu tirata a sorte, faceva parte delle vesti che furono divise; sì, perché essendosi messi a dividere tutte le vesti, di cui faceva parte anche la tunica, pure su di essa gettarono la sorte. E' quanto dice anche Luca: Dividendosi le sue vesti, le tirarono a sorte; mentre erano intenti a dividersi le sue vesti, arrivarono alla tunica, che sorteggiarono, in modo da completare tra loro la divisione di tutte le vesti del Signore. L'unica differenza tra quanto dice Luca (dividendosi le sue vesti, gettarono le sorti) e quanto dice Matteo (si divisero le sue vesti tirandole a sorte) sta nel fatto che Luca, dicendo sorti, usa il plurale invece del singolare, variante non insolita nelle sante Scritture. Peraltro in alcuni codici di Luca si trova sorte al singolare. Soltanto il racconto di Marco sembra presentare qualche difficoltà. Dicendo infatti: Si divisero le sue vesti, tirando a sorte la parte di ciascuno, sembra voler dire che furono tirate a sorte tutte le vesti e non soltanto la tunica. Ma qui, come altrove, l'oscurità nasce dalla brevità. Egli dice: tirandole a sorte, come se volesse dire che le tirarono a sorte mentre le dividevano, cosa che effettivamente avvenne; infatti la divisione di tutte le sue vesti non sarebbe stata completa se la sorte non avesse chiarito a chi doveva toccare la tunica, risolvendo, o meglio prevenendo ogni motivo di discussione. L'espressione di Marco: tirando a sorte la parte di ciascuno, si riferisce alla tunica, non a tutte le vesti che furono divise. I soldati tirarono a sorte a chi dovesse toccare la tunica, di cui, peraltro, Marco non ci spiega come fosse tessuta e come, dopo aver fatto la spartizione delle vesti, essendo rimasta la tunica, per non stracciarla decisero di tirarla a sorte. Ecco perché egli dice che tirarono a sorte la parte di ciascuno per vedere a chi dovesse toccare la tunica. In conclusione viene a dire che i soldati si divisero le sue vesti, tirando a sorte per vedere a chi doveva toccare la tunica che era rimasta dopo la spartizione degli abiti in parti uguali.

[Uno per tutti, perché l'unità è in tutti.]

4. Qualcuno si domanderà che cosa significhi la divisione delle vesti in quattro parti e il sorteggio della tunica. La veste del Signore Gesú Cristo, divisa in quattro parti, raffigura la sua Chiesa distribuita in quattro parti, cioè diffusa in tutto il mondo, che appunto consta di quattro parti e che gradualmente e concordemente realizza la sua presenza nelle singole parti. E' per questo motivo che, altrove, il Signore dice che invierà i suoi angeli per raccogliere gli eletti dai quattro venti (cf. Mt 24, 31), cioè dalle quattro parti del mondo: oriente, occidente, aquilone e mezzogiorno. Quanto alla tunica tirata a sorte, essa significa l'unità di tutte le parti, saldate insieme dal vincolo della carità. E' della carità, infatti, che l'Apostolo dice: Voglio mostrarvi una via ancor più eccellente (1 Cor 12, 31); e altrove dice: e possiate conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza (Ef 3, 19); e ancora: Al di sopra di tutte le cose rivestitevi della carità la quale è il vincolo della perfezione (Col 3, 14). Se dunque la carità è la via più eccellente, se essa sorpassa ogni conoscenza, ed è al di sopra di tutti i precetti, giustamente la veste che la raffigura, si dice che è tessuta dall'alto. Essa è senza cucitura, cosí che non si può dividere; e tende all'unità, perché raccoglie tutti in uno. Cosí quando il Signore interrogò gli Apostoli, che erano dodici, cioè tre volte quattro, Pietro rispose a nome di tutti: Tu sei il Cristo Figlio del Dio vivente; e gli fu detto: A te darò le chiavi del regno dei cieli (Mt 16, 16 19), come se soltanto lui avesse ricevuto la potestà di legare e di sciogliere. Ma siccome Pietro aveva parlato a nome di tutti, anche la potestà che ricevette, la ricevette unitamente a tutti, come rappresentante dell'unità stessa. Ricevette la potestà uno per tutti, perché l'unità è in tutti. Cosí anche qui l'evangelista, dopo aver detto che la tunica era tessuta dall'alto in basso, aggiunge: per intero. Se per intero lo riferiamo a ciò che la tunica significa, possiamo ben dire che nessuno è privo di questa unità, se appartiene al tutto. E' da questa totalità, indicata dal termine greco, che la Chiesa prende il nome di "cattolica". La sorte poi che cosa sta a indicare se non la grazia di Dio? Cosí, in uno la grazia perviene a tutti, in quanto la sorte esprime il favore di tutti, dato che è nell'unità che la grazia perviene a tutti. E quando si tira a sorte non si tiene conto dei meriti delle singole persone, ma ci si affida all'occulto giudizio di Dio.

5. Il fatto che tutto questo sia stato compiuto da uomini malvagi, non cioè dai seguaci di Cristo, ma dai suoi persecutori, non significa che non possa raffigurare qualcosa di buono. Che dire infatti della stessa croce, che anch'essa certamente venne fabbricata e inflitta a Cristo dai nemici e dagli empi? E tuttavia bisogna ammettere che in essa vengono raffigurate le dimensioni di cui parla l'Apostolo: larghezza, lunghezza, altezza, profondità (Ef 3, 18). E' larga nella trave orizzontale su cui si estendono le braccia del crocefisso, e significa le opere buone compiute nella larghezza della carità; è lunga nella trave verticale che discende fino a terra, sulla quale sono fissati i piedi e il dorso, e significa la perseveranza attraverso la lunghezza del tempo sino alla fine; è alta nella sommità che si eleva al di sopra della trave orizzontale, e significa il fine soprannaturale al quale sono ordinate tutte le opere, poiché tutto quanto noi facciamo in larghezza e lunghezza, cioè con amore e perseveranza, deve tendere all'altezza del premio divino. E' profonda, infine, in quella parte della trave verticale che viene conficcata in terra; essa è nascosta e sottratta agli sguardi umani, ma tuttavia da essa sorge e si eleva verso il cielo la parte visibile della croce: significa che tutte le nostre buone azioni e tutti i beni scaturiscono dalla profondità della grazia di Dio, che sfugge alla nostra comprensione e al nostro giudizio. Ma anche se la croce di Cristo non significasse altro che quello che l'Apostolo dice: Coloro che appartengono a Cristo, hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri (Gal 5, 24), questo sarebbe già un bene immenso. E tutto questo non può che essere frutto dello spirito buono, che nutre desideri contrari a quelli della carne, cosí come la croce di Cristo è stata fabbricata dal nemico, cioè dallo spirito del male. E infine qual è il segno di Cristo, che tutti conoscono, se non la croce di Cristo? Senza questo segno, che si pone sulla fronte dei credenti, che si traccia sull'acqua in cui vengono rigenerati o sull'olio della cresima con cui vengono unti o sul pane del sacrificio con cui vengono nutriti, nessuno di questi riti è valido. Perché allora non possiamo dire che anche le azioni dei malvagi possono rivestire un significato buono, dal momento che nella celebrazione dei misteri di Cristo ogni bene soprannaturale viene a noi attraverso il segno della sua croce, che fu opera di uomini malvagi? Con questo basta. Quello che segue, se Dio ci aiuterà, lo vedremo un'altra volta.

 

OMELIA 119

La croce una cattedra.

La croce alla quale erano confitte le membra di Cristo morente, diventò la cattedra del suo insegnamento.

1. Dopo che il Signore fu crocifisso e dopo che i soldati si divisero le sue vesti tirando a sorte la tunica, vediamo il seguito del racconto dell'evangelista Giovanni. Questo dunque fecero i soldati. Presso la croce di Gesú stavano sua madre e la sorella di lei, Maria di Cleofa e Maria Maddalena. Vedendo la madre, e accanto a lei il discepolo che egli amava, Gesú disse a sua madre: Donna, ecco tuo figlio. Poi disse al discepolo: Ecco tua madre. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa (Gv 19, 24-27). Questa è l'ora della quale Gesú, nel momento di mutare l'acqua in vino, aveva parlato alla madre, dicendo: Che c'è tra me e te, o donna? La mia ora non è ancora venuta (Gv 2, 4). Egli aveva annunciato quest'ora, che non era ancora giunta, e nella quale, morendo, avrebbe riconosciuto colei dalla quale aveva ricevuto questa vita mortale. Allora, quando stava per compiere un'opera divina, sembrava allontanare da sé, come una sconosciuta, la madre, non della divinità ma della sua debolezza umana; al contrario, ora che stava sopportando sofferenze proprie della condizione umana, raccomandava con affetto umano colei dalla quale si era fatto uomo. Allora colui che aveva creato Maria, si manifestava nella sua potenza; ora colui che Maria aveva partorito, pendeva dalla croce.

2. C'è qui un insegnamento morale. Egli stesso fa ciò che ordina di fare, e, come maestro buono, col suo esempio insegna ai suoi che ogni buon figlio deve aver cura dei suoi genitori. Il legno della croce al quale erano state confitte le membra del morente, diventò la cattedra del maestro che insegna. E' da questa sana dottrina che l'Apostolo apprese ciò che insegnava, dicendo: Se qualcuno non ha cura dei suoi, soprattutto di quelli di casa, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1Tim 5, 8). Chi è più di casa dei genitori per i figli, o dei figli per i genitori? Il maestro dei santi offrì personalmente l'esempio di questo salutare precetto, quando, non come Dio ad una serva da lui creata e governata, ma come uomo alla madre che lo aveva messo al mondo e che egli lasciava, provvide lasciando il discepolo quasi come un altro figlio che prendesse il suo posto. Perché lo abbia fatto viene spiegato da ciò che segue. Infatti l'evangelista dice: e da quel momento il discepolo la prese in casa sua. E' di sé che egli parla. Egli è solito designare se stesso come il discepolo che Gesú amava. E' certo che Gesú voleva bene a tutti i suoi discepoli, ma per Giovanni nutriva un affetto tutto particolare, tanto da permettergli di poggiare la testa sul suo petto durante la cena (cf. Gv 13, 23), allo scopo, credo, di raccomandare a noi più efficacemente la divina elevazione di questo Vangelo che egli avrebbe dovuto proclamare.

[Si prese cura di Maria.]

3. Ma in che senso Giovanni prese con sé la madre del Signore? Non era egli forse uno di coloro che avevano detto al Signore: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito (Mt 19, 27)? Ma ad essi il Signore aveva anche risposto che qualunque cosa avessero lasciato per seguirlo, avrebbero ricevuto, in questo stesso mondo, cento volte tanto (cf. Mt 19, 29). Quel discepolo pertanto conseguiva il centuplo di quello che aveva lasciato, fra cui anche il privilegio di accogliere la madre del donatore. Il beato Giovanni aveva ricevuto il centuplo in quella società, nella quale nessuno diceva proprio qualunque suo bene, in quanto tutto era comune a tutti; come appunto si legge negli Atti degli Apostoli. E cosí gli Apostoli non avevano niente e possedevano tutto (cf. 2 Cor 6, 10). In che modo, dunque, il discepolo e servo ricevette la madre del suo maestro e Signore tra i suoi beni, in quella società dove nessuno poteva dire di avere qualcosa di suo? Poco più avanti, nel medesimo libro, si legge: Quanti possedevano terreni e case, li vendevano e ne portavano il ricavato e lo deponevano ai piedi degli Apostoli; ed esso veniva man mano distribuito a ciascuno proporzionalmente al bisogno (At 4, 34-35). Da queste parole si può arguire che a questo discepolo venne assegnato quanto personalmente egli aveva bisogno e in più quanto gli era necessario per il mantenimento della beata Maria, considerata come sua madre. Non è forse questo il senso più ovvio della frase: da quel momento il discepolo la prese in casa sua, che cioè egli prese su di sé l'incarico di provvedere a lei in tutto? Egli se la prese con sé, non nei suoi poderi, perché non possedeva nulla di proprio, ma tra i suoi impegni, ai quali attendeva con dedizione.

4. Continua: Dopo di ciò, sapendo che tutto era compiuto, affinché la Scrittura si adempisse, Gesú disse: Ho sete! C'era là un vaso di aceto. E i soldati, inzuppata una spugna nell'aceto, la posero in cima ad una canna d'issopo, e gliel'accostarono alla bocca. Quando Gesú ebbe preso l'aceto disse: tutto è compiuto! E, chinato il capo, rese lo spirito (Gv 19, 28-30). Quale uomo è in grado di disporre le proprie cose, come dimostrò quest'uomo di poter disporre tutte le circostanze della sua passione? Ma questi è il mediatore tra Dio e gli uomini. E' colui del quale sta scritto: E' un uomo, ma chi lo riconoscerà?, perché gli uomini che eseguivano tutte queste cose, non lo riconoscevano come uomo Dio. Colui che appariva come uomo, nascondeva la sua divinità: l'umanità visibile accettava le sofferenze della passione, che la divinità nascosta disponeva in tutti i particolari. Vide dunque che si era compiuto tutto ciò che doveva accadere prima di prendere l'aceto e di rendere lo spirito; e affinché si adempisse anche la Scrittura che aveva predetto: Nella mia sete mi hanno fatto bere aceto (Sal 68, 22), disse: Ho sete: come a dire: Fate anche questo, datemi ciò che voi siete. I Giudei stessi erano aceto, essi che avevano degenerato dal buon vino dei patriarchi e dei profeti; e il loro cuore era come la spugna, piena di cavità tortuose e subdole, spugna imbevuta dell'iniquità di questo mondo, attinta come da un vaso ricolmo. E l'issopo, sopra il quale posero la spugna imbevuta d'aceto, è un'umile pianta dotata di virtù purgative, immagine dell'umiltà di Cristo, che i Giudei avevano insidiato e credevano di aver eliminato. Ecco perché il salmo dice: Purificami con issopo e sarò mondo (Sal 50, 9). Noi veniamo purificati dall'umiltà di Cristo: se egli non si fosse umiliato facendosi obbediente fino alla morte di croce (cf. Fil 2, 8), il suo sangue non sarebbe stato versato per la remissione dei peccati, cioè per la nostra purificazione.

5. E non ci deve sorprendere il fatto che essi abbiano potuto accostare la spugna alle labbra di Cristo, che, essendo in croce, stava ben sollevato da terra. Giovanni omette un particolare, ricordato invece dagli altri evangelisti: si ricorse ad una canna (cf. Mt 27, 48; Mc 15, 36), per fare arrivare fino in cima alla croce la bevanda di cui era intrisa la spugna. La canna era simbolo della Scrittura, che si adempiva con quel gesto. Allo stesso modo infatti che si dà il nome di lingua all'idioma greco o latino, o a qualsiasi altro che sia composto di suoni articolati con la lingua, cosí si può dare il nome di "canna" (penna) alle lettere che, appunto, si scrivono con la canna. E' molto più comune chiamare col nome di lingua l'insieme dei suoni articolati dalla voce umana che chiamare canna le lettere scritte: per cui chiamare canna la Scrittura acquista un maggior significato mistico, appunto perché è un uso meno comune. Un empio popolo commetteva queste crudeltà, e Cristo misericordioso le sopportava. Chi faceva tutto questo non sapeva quel che faceva, mentre colui che tutto sopportava non solo sapeva quello che essi facevano e perché lo facevano, ma dal male che essi facevano egli sapeva trarre il bene.

6. Quando Gesú ebbe preso l'aceto disse: Tutto è compiuto! Che cosa era compiuto, se non ciò che la profezia tanto tempo prima aveva predetto? E siccome non rimaneva nulla che ancora si dovesse compiere prima che egli morisse, siccome aveva il potere di dare la sua vita e di riprenderla di nuovo (cf. Gv 10, 18), essendosi compiuto tutto ciò che aspettava si compisse, chinato il capo, rese lo spirito. Chi può addormentarsi quando vuole, cosí come Gesú è morto quando ha voluto? Chi può deporre la sua veste, cosí come egli ha deposto la carne quando ha voluto? Chi può andarsene quando vuole, cosí come egli è morto quando ha voluto? Quanta speranza, e insieme quanto timore, deve infonderci la potenza di colui che verrà per giudicarci, se tanto potente si è manifestato nella sua morte!

 

OMELIA 120

Un soldato gli aprì il fianco con una lancia...

Fu aperta la porta della vita, da cui sgorgarono i sacramenti della Chiesa, senza i quali non si accede alla vita eterna. O morte per cui i morti rivivono! C'è qualcosa di più puro di questo sangue? Qualcosa di più salutare di questa ferita?

1. Vediamo nella narrazione dell'evangelista che cosa è avvenuto dopo che il Signore Gesù, compiute tutte quelle cose che nella sua prescienza sapeva che dovevano compiersi prima della sua morte, rese, quando volle, lo spirito. I Giudei, poiché era la Preparazione, affinché i corpi non rimanessero sulla croce di sabato - era un giorno solenne quel sabato - chiesero a Pilato che venissero spezzate le gambe ai crocifissi e fossero portati via (Gv 19, 31). Non erano le gambe che si dovevano togliere, ma i corpi, cui appunto venivano spezzate le gambe per provocarne la morte e poterli così deporre dalla croce; e questo affinché non fosse turbato quel gran giorno di festa dagli orrori del prolungato supplizio dei crocifissi.

[L'evangelista usa un verbo ben appropriato.]

2. Vennero, dunque, i soldati e spezzarono le gambe al primo, poi all'altro che era crocifisso insieme con lui. Giunti a Gesù, vedendolo già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli aprì il costato con la lancia, e subito ne uscì sangue ed acqua (Gv 19, 32-34). L'evangelista ha usato un verbo significativo. Non ha detto: colpì, ferì il suo costato, o qualcosa di simile. Ha detto: aprì, per indicare che nel costato di Cristo fu come aperta la porta della vita, donde fluirono i sacramenti della Chiesa, senza dei quali non si entra a quella vita che è la vera vita. Quel sangue è stato versato per la remissione dei peccati; quell'acqua tempera il calice della salvezza, ed è insieme bevanda e lavacro. Questo mistero era stato preannunciato da quella porta che Noè ebbe ordine di aprire nel fianco dell'arca (cf. Gn 6, 16), perché entrassero gli esseri viventi che dovevano scampare al diluvio, con che era prefigurata la Chiesa. Sempre per preannunciare questo mistero, la prima donna fu formata dal fianco dell'uomo che dormiva (cf. Gn 2, 22), e fu chiamata vita e madre dei viventi (cf. Gn 3, 20). Indubbiamente era l'annuncio di un grande bene, prima del grande male della prevaricazione. Qui il secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, perché così, con il sangue e l'acqua che sgorgarono dal suo fianco, fosse formata la sua sposa. O morte, per cui i morti riprendono vita! Che cosa c'è di più puro di questo sangue? Che cosa c'è di più salutare di questa ferita?

3. E chi ha veduto ne dà testimonianza, e la sua testimonianza è veritiera, ed egli sa che dice il vero, affinché anche voi crediate (Gv 19, 35). Non dice l'evangelista: affinché anche voi sappiate, ma: affinché crediate. Sa, infatti, chi ha veduto; e chi non ha veduto creda alla sua testimonianza. Alla natura della fede appartiene più il credere che il vedere. Infatti, che cosa vuol dire credere se non prestar fede? Questo, infatti, accadde perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato un sol osso; e ancora un'altra Scrittura dice: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (Gv 19, 36-37; cf. Ex 12, 46; Zach 12, 10). Giovanni cita due testimonianze della Scrittura, una per ciascun fatto che ha narrato. Quando aveva detto: Giunti a Gesù, vedendolo già morto, non gli spezzarono le gambe, trova conferma nella profezia: Non gli sarà spezzato un sol osso. Così era prescritto a quelli che nell'antica legge ricevettero l'ordine di celebrare la Pasqua con l'immolazione dell'agnello, che, come ombra, aveva preceduto la Passione del Signore. Per questo l'Apostolo dice: La nostra Pasqua è Cristo che è stato immolato (1 Cor 5, 7), secondo quanto anche il profeta Isaia aveva predetto: Come agnello è stato condotto al macello (Is 53, 7). E nello stesso modo, la seconda testimonianza dell'evangelista: uno dei soldati gli aprì il costato, trova conferma nell'altra profezia: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto, dove c'è la promessa che Cristo tornerà nella stessa carne nella quale è stato crocifisso.

4. Dopo di ciò, Giuseppe da Arimatea, un discepolo di Gesù ma occulto per timore dei Giudei, domandò a Pilato di portar via il corpo di Gesù e Pilato diede il permesso. Venne dunque Giuseppe e portò via il corpo di Gesù. Venne anche Nicodemo, quello che in principio era andato da Gesù di notte, portando una miscela di mirra e di aloe: circa cento libbre (Gv 19, 38-39). L'espressione in principio non va riferita all'ultima proposizione, come se l'evangelista avesse voluto dire: portando in principio una miscela di mirra e di aloe, ma a quella anteriore. In principio, infatti, Nicodemo era andato da Gesù di notte, come lo stesso Giovanni narra nei primi capitoli del suo Vangelo (cf. Gv 3, 1-2). Da questo possiamo arguire che Nicodemo non si era recato da Gesù soltanto quella volta, ma che quella fu la prima volta. In seguito aveva frequentato Gesù assiduamente, per ascoltare la sua parola e diventare così suo discepolo, come è stato accertato e come ormai tutti sanno, dopo il ritrovamento del corpo di santo Stefano Essi presero, dunque, il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende con gli aromi, com'è usanza di seppellire presso i Giudei (Gv 19, 40). Non senza motivo, credo, l'evangelista ha voluto precisare il modo in cui fu sepolto, dicendo: com'è usanza di seppellire presso i Giudei. Con ciò egli ha voluto, se non m'inganno, inculcarci che nelle onoranze funebri, ci si deve attenere ai costumi propri di ciascun popolo.

5. Ora, nel luogo dove Gesù era stato crocifisso, c'era un giardino e nel giardino c'era un sepolcro nuovo, nel quale nessuno ancora era stato deposto. Allo stesso modo che nel seno della vergine Maria né prima né dopo di lui alcun altro era stato concepito, così in quel sepolcro né prima né dopo di lui alcun altro fu deposto. Là dunque, a causa della Preparazione dei Giudei, essendo il sepolcro vicino, deposero Gesù (Gv 19, 41-42). Giovanni intende dire che la sepoltura fu affrettata per non farsi sorprendere dalla sera, quando ormai, a causa della preparazione, che i Giudei da noi chiamano in latino "cena pura", non era consentito attendere a tali uffici.

6. Il primo giorno della settimana, Maria Maddalena si reca al sepolcro sul mattino, che era ancora buio, e vede la pietra tolta dal sepolcro (Gv 20, 1). Il primo giorno della settimana è quello che, in memoria della risurrezione del Signore, i cristiani chiamano "giorno del Signore", e che Matteo, solo tra gli Evangelisti, ha chiamato primo giorno della settimana (Mt 28, 1). Corre allora da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e dice loro: Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'han messo (Gv 20, 2). In alcuni codici, anche greci, c'è: Hanno portato via il mio Signore; particolare che mette maggiormente in risalto lo slancio affettivo e la devozione di Maria Maddalena, ma che non si trova nella maggioranza dei codici che abbiamo potuto consultare.

 

OMELIA 121

Non mi toccare!

Non rimanere ad una fede infantile, ma sforzati di raggiungere una fede più matura.

1. Maria Maddalena era andata a dire ai discepoli Pietro e Giovanni che il Signore era stato tolto dal sepolcro. Recatisi al sepolcro, essi avevano trovato soltanto le bende con le quali era stato avvolto il corpo di Gesù; e che altro essi poterono credere se non quanto Maria aveva detto ed essa stessa aveva creduto? I discepoli poi rientrarono a casa; cioè tornarono dove abitavano e da dove erano corsi al sepolcro. Maria invece si fermò vicino al sepolcro, fuori, in pianto. Tornati via gli uomini, il sesso più debole rimase legato a quel luogo da un affetto più forte. Gli occhi che avevano cercato il Signore e non lo avevano trovato, si empirono di lacrime, dolenti più per il fatto che il Signore era stato portato via dal sepolcro, che per essere stato ucciso sulla croce, perché ora di un tal maestro, la cui vita era stata loro sottratta, non rimaneva neppure la memoria. Era il dolore che teneva la donna avvinta al sepolcro. E mentre piangeva, si chinò e guardò dentro al sepolcro. Non so perché abbia fatto questo. Sapeva infatti che non c'era più quello che cercava, in quanto essa stessa era andata ad informare i discepoli che era stato portato via; ed essi erano venuti e, non solo guardando, ma anche entrando avevano cercato il corpo del Signore e non lo avevano trovato. Che cosa cerca dunque piangendo Maria Maddalena, chinandosi per guardare di nuovo nel sepolcro? Forse il troppo dolore le impediva di credere ai suoi occhi e a quelli degli altri? O non fu piuttosto una ispirazione divina che la spinse a guardare di nuovo? Essa dunque guardò, e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno al capo e l'altro ai piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Perché uno sedeva al capo e l'altro ai piedi? Forse, dato che angeli vuol dire messaggeri, volevano indicare, in questo modo, che il Vangelo di Cristo deve essere annunziato come da capo a piedi, dal principio alla fine? Ed essi le dicono: Donna, perché piangi? Risponde loro: Perché hanno portato via il mio Signore e non so dove l'hanno deposto (Gv 20, 10-13). Gli angeli non volevano che piangesse; e in questo modo, che altro annunziavano se non il gaudio futuro? Dicendo: Perché piangi?, era infatti come se volessero dire: Non piangere! Ma essa spiega il motivo delle sue lacrime, credendo che quelli non lo conoscessero. Hanno portato via - risponde - il mio Signore. Chiama suo Signore il corpo esanime del suo Signore, richiamandosi a tutto per indicare una parte, così come noi tutti confessiamo che Gesù Cristo unigenito di Dio e nostro Signore, che è Verbo e anima e corpo, fu crocifisso e fu sepolto, sebbene sia stato sepolto soltanto il suo corpo. E non so dove l'hanno deposto. Era questo per lei il motivo più grande di dolore: il non saper dove trovare conforto al suo dolore. Ma ormai era venuta l'ora in cui il pianto si sarebbe tramutato in gaudio, come in qualche modo le avevano annunziato gli angeli, dicendole di non piangere.

[La Chiesa proveniente dalle genti.]

2. Finalmente, detto questo si volta indietro e vede Gesù in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le dice Gesù: Donna, perché piangi? Chi cerchi? Ella, pensando che fosse il giardiniere, gli dice: Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove l'hai deposto ed io andrò a prenderlo. Gesù le dice: Maria! Voltandosi essa gli dice: Rabboni! che significa Maestro (Gv 20, 14-16). Non si rimproveri la donna per aver chiamato signore il giardiniere, e Maestro Gesù. Nel primo caso chiede un favore, nel secondo caso riconosce una persona; nel primo caso si mostra gentile con un uomo al quale chiede un favore; nel secondo caso esprime la sua devozione al Maestro che le ha insegnato a discernere le cose umane e quelle divine. Chiama signore uno di cui non è serva, intendendo arrivare, per suo mezzo, a colui che è veramente il suo Signore. Dicendo: Hanno portato via il mio Signore, usa il termine Signore in senso diverso da quello che usa quando dice: Signore, se l'hai portato via tu. Anche i profeti chiamavano signori quelli che erano soltanto degli uomini; ma ben altro era il senso che essi davano a questo termine quando dicevano: Signore è il suo nome (Sal 67, 5). Ma perché questa donna, che già si era voltata per guardare Gesù quando credeva che egli fosse il giardiniere e per parlare con lui, di nuovo, secondo il racconto dell'evangelista, si volta indietro per dirgli: Rabboni? Non è perché prima si era voltata soltanto col corpo e quindi lo aveva preso per quel che non era, mentre dopo si volta col cuore, e lo riconosce qual è in realtà?

3. Le dice Gesù: Non mi toccare, perché non sono ancora asceso al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (Gv 20, 17). C'è in queste parole qualcosa che dobbiamo considerare, sia pur brevemente, con molta attenzione. Sì perché, con questa risposta, Gesù voleva insegnare la fede a quella donna che lo aveva riconosciuto e chiamato Maestro: voleva, da buon giardiniere, seminare nel cuore di lei, come in un campo, il granello di senape. Ma perché le dice: Non mi toccare e, quasi adducendo il motivo di questa proibizione, aggiunge: perché non sono ancora asceso al Padre? Che vuol dire? Se non lo si può toccare mentre sta ancora in terra, come sarà possibile quando egli sarà assiso in cielo? E, del resto, prima di ascendere al cielo, egli stesso invitò i suoi discepoli a toccarlo, come attesta l'evangelista Luca: Toccatemi e constatate: uno spirito non ha carne ed ossa, come vedete che ho io (Lc 24, 39), o quando disse al discepolo Tommaso: Poni qui il tuo dito, e vedi le mie mani; porgi la tua mano, e mettila sul mio costato (Gv 20, 27). Chi potrebbe poi essere tanto assurdo da sostenere che il Signore volle, sì, essere toccato dai discepoli prima di ascendere al Padre, ma non volle essere toccato dalle donne se non dopo essere asceso al Padre? Per quanto uno faccia, non riuscirà a provare simile cosa. Si legge infatti nel Vangelo che anche le donne, dopo la risurrezione, prima che egli ascendesse al Padre, toccarono Gesù, e tra queste donne era la stessa Maria Maddalena. E' Matteo che lo racconta: Ed ecco che Gesù venne loro incontro dicendo: Salute! Esse si avvicinarono, gli strinsero i piedi e si prostrarono dinanzi a lui (Mt 28, 9). Questo episodio è stato omesso da Giovanni, ma è attestato da Matteo. Non ci resta che ammettere che si nasconde qui un mistero; lo si scopra o no, è sicuro che c'è. Penso quindi che il Signore abbia detto a Maria Maddalena: Non mi toccare, perché non sono ancora asceso al Padre, o perché in quella donna era raffigurata la Chiesa proveniente dai gentili, che non credette in Cristo se non dopo che egli era asceso al Padre; o perché voleva che si credesse in lui, cioè che lo si toccasse spiritualmente, convinti che egli e il Padre sono una cosa sola. Di uno che ha progredito nella fede si può dire che nell'intimo del suo spirito egli è asceso al Padre, in quanto è giunto a riconoscere che il Figlio è uguale al Padre. Chi invece non è ancora arrivato a questo, non lo tocca in modo autentico, in quanto non crede in lui come dovrebbe. Maria forse credeva in lui, ritenendo tuttavia che egli non fosse uguale al Padre, e per questo egli la richiama dicendole: Non mi toccare, cioè non credere in me secondo l'idea che ancora hai di me; non limitarti a fermare la tua attenzione su ciò che io sono diventato per te, trascurando la mia natura divina per mezzo di cui tu sei stata fatta. Come si può dire che ella non era più attaccata a lui sensibilmente se ancora lo piangeva come fosse stato soltanto un uomo? Non sono ancora asceso - dice - al Padre mio: allora veramente mi toccherai quando avrai creduto che, come Dio, io non sono inferiore al Padre. Ma va' dai miei fratelli e di' loro: Ascendo al Padre mio e Padre vostro. Non dice: Ascendo al Padre nostro, volendo far notare che è suo Padre in un senso e nostro in un altro: suo per natura, nostro per grazia. Dio mio e Dio vostro. Anche qui non dice: Dio nostro, perché anche in questo caso Dio è mio in un senso e vostro in un altro: è Dio mio perché come uomo io sono soggetto a lui, è Dio vostro per cui io sono mediatore tra voi e lui.

 

OMELIA 122

L'apparizione del Risorto sul lago di Tiberiade.

La pesca miracolosa adombra il mistero della Chiesa, quale sarà dopo la risurrezione dei morti.

1. Dopo averci raccontato come il discepolo Tommaso, attraverso le cicatrici delle ferite che Cristo gli offrì da toccare nella sua carne, vide ciò che non voleva credere e credette, l'evangelista Giovanni inserisce questa osservazione: Molti altri prodigi fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi invece sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio e, credendo, abbiate vita nel suo nome (Gv 20, 30-31). Questa è come l'annotazione conclusiva di questo libro; tuttavia si narra ancora come il Signore si manifestò presso il mare di Tiberiade, e come nella pesca adombrò il mistero della Chiesa quale sarà nella futura risurrezione dei morti. Credo che sia per sottolineare maggiormente questo mistero che Giovanni pose le parole succitate come a conclusione del libro, in quanto servono anche di introduzione alla successiva narrazione, alla quale, in questo modo, dà maggiore risalto. Così comincia la narrazione: Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade; e si manifestò così. Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, e i figli di Zebedeo e altri due dei suoi discepoli. Dice loro Simon Pietro: Io vado a pescare. Gli rispondono: Veniamo anche noi con te (Gv 21, 1-3).

2. Si è soliti chiedersi, a proposito di questa pesca dei discepoli, perché Pietro e i figli di Zebedeo siano tornati all'occupazione che avevano prima che il Signore disse loro: Seguitemi e vi farò pescatori di uomini (Mt 4, 19). Allora essi lo seguirono, lasciando tutto, per diventare suoi discepoli. Al punto che, quando quel giovane, al quale aveva detto: Va', vendi ciò che possiedi e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi, si allontanò triste, Pietro poté dirgli: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito (Mt 19, 21-22 27). Perché, dunque, essi ora lasciano l'apostolato e ritornano a essere ciò che erano prima tornando a fare ciò cui avevano rinunciato, quasi non tenendo conto dell'ammonimento che avevano ascoltato dalle labbra del Maestro: Nessuno che mette mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno dei cieli (Lc 9, 62)? Se gli Apostoli avessero fatto questo dopo la morte di Gesù e prima della sua risurrezione, potremmo pensare che essi fossero stati spinti a ciò dallo scoraggiamento che si era impadronito del loro animo. Del resto essi non avrebbero potuto tornare a pescare il giorno in cui Gesù fu crocifisso, perché in quel giorno rimasero totalmente impegnati fino al momento della sepoltura, che avvenne sul far della sera; il giorno seguente era sabato e, secondo la tradizione dei padri, dovevano osservare il riposo; e finalmente nel terzo giorno, il Signore risorto riaccese in loro la speranza che avevano cominciato a perdere. Ora però, dopo che lo hanno riavuto vivo dal sepolcro, dopo che egli ha offerto ai loro occhi e alle loro mani la realtà evidente della sua carne rediviva, che essi non solo hanno potuto vedere ma anche toccare e palpare; dopo che essi hanno guardato i segni delle sue ferite, e dopo che perfino l'apostolo Tommaso, che aveva detto che non avrebbe creduto se non avesse veduto e toccato, anch'egli ha confessato; dopo che hanno ricevuto lo Spirito Santo, da lui alitato su di essi, e hanno ascoltato le parole: Come il Padre ha mandato me, così io mando voi; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti (Gv 20, 21 23), essi tornano a fare i pescatori, non di uomini ma di pesci.

3. A quanti dunque rimangono perplessi di fronte a questo fatto, si può fare osservare che non era affatto proibito agli Apostoli procurarsi di che vivere con il loro mestiere onesto, legittimo e compatibile con l'impegno apostolico, qualora non avessero avuto altra possibilità per vivere. Nessuno, certo, vorrà pensare o dire che l'apostolo Paolo era meno perfetto di coloro che avevano seguito Cristo lasciando tutto, per il fatto che egli, per non essere di aggravio a quelli che evangelizzava, si guadagnava da vivere con il lavoro delle sue mani (cf. 2 Thess 3, 8). Anzi, proprio in questo si nota la verità di quanto asseriva: Ho lavorato più di tutti costoro. E aggiungeva: non già io, bensì la grazia di Dio con me (1 Cor 15, 10), affinché risultasse evidente che doveva alla grazia di Dio se aveva potuto lavorare più degli altri spiritualmente e materialmente, predicando il Vangelo senza sosta. Egli tuttavia, a differenza degli altri, non si servì del Vangelo per vivere, mentre lo andava seminando più largamente e con più frutto attraverso tante popolazioni in mezzo alle quali il nome di Cristo non era stato ancora annunziato; dimostrando così che vivere del Vangelo, cioè trarre sostentamento dalla predicazione, non era per gli Apostoli un obbligo ma una facoltà. E' di questa facoltà che parla l'Apostolo quando dice: Se abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse una cosa straordinaria se mietiamo i vostri beni materiali? Se altri si valgono di questo potere su di voi, quanto maggiormente non lo potremmo noi? Ma noi - aggiunge - non abbiamo fatto uso di questo potere. E poco più avanti: Quelli che servono all'altare - dice - partecipano dell'altare. Alla stessa maniera anche il Signore ordinò a quelli che annunziano il Vangelo di vivere del Vangelo; quanto a me non ho usato alcuno di questi diritti (1 Cor 9, 11-15). Risulta dunque abbastanza chiaro che il vivere unicamente del Vangelo e mietere beni materiali in compenso dei beni spirituali che seminavano annunziando il Vangelo, era per gli Apostoli non un precetto ma una facoltà: cioè essi potevano accettare il sostentamento materiale e, quali soldati di Cristo, ricevere dai Cristiani il dovuto stipendio, come i soldati lo ricevevano dai Governatori delle province. E' a questo proposito che il medesimo generoso soldato di Cristo poco prima aveva detto: Chi mai si arruola a proprie spese? (1 Cor 9, 7). Tuttavia, proprio questo egli faceva, e perciò lavorava più di tutti gli altri. Se dunque il beato Paolo non volendo usare del diritto che aveva in comune con gli altri predicatori del Vangelo, e volendo militare a sue spese, onde evitare presso i non credenti in Cristo qualsiasi sospetto che il suo insegnamento fosse interessato, imparò un mestiere non confacente alla sua educazione, per potersi guadagnare il pane con le sue mani e non esser di peso a nessuno dei suoi ascoltatori; perché dobbiamo meravigliarci se il beato Pietro, che già era stato pescatore, tornò al suo lavoro, non avendo per il momento altra possibilità per vivere?

4. Ma qualcuno osserverà: E come mai non aveva altra possibilità per vivere, se il Signore aveva promesso: Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saran date in più (Mt 6, 33)? Questo episodio sta a dimostrare che il Signore mantiene la sua promessa. Chi altri infatti fece affluire i pesci nella rete perché fossero presi? E' da credere che non per altro motivo li ridusse al bisogno, costringendoli a tornare alla pesca, se non perché voleva che fossero testimoni del miracolo che aveva predisposto per sfamare i predicatori del suo Vangelo, mentre mediante il misterioso significato del numero dei pesci, si proponeva di far crescere il prestigio del Vangelo stesso. E a proposito, vediamo ora che cosa il Signore ha riservato a noi.

5. Dice Simon Pietro: Io vado a pescare. Gli rispondono - quelli che erano con lui -: Veniamo anche noi con te. Uscirono, e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla. Era ormai l'alba quando Gesù si presentò sulla riva; i discepoli tuttavia non si erano accorti che era Gesù. E Gesù disse loro: Figlioli, non avete qualcosa da mangiare? Gli risposero: No. Ed egli disse loro: Gettate la rete a destra della barca, e ne troverete. La gettarono, e non potevano più tirarla per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: E' il Signore! Simon Pietro all'udire "è il Signore!" si cinse la veste, poiché era nudo, e si buttò in mare. Gli altri discepoli vennero con la barca, perché non erano lontani da terra se non duecento cubiti circa, tirando la rete con i pesci. Appena messo piede a terra, videro della brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: Portate dei pesci che avete preso adesso. Allora Simon Pietro salì nella barca, e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si strappò (Gv 21, 3-11).

6. E' un grande mistero questo, nel grande Vangelo di Giovanni; e, per metterlo maggiormente in risalto, l'evangelista lo ha collocato alla conclusione. Siccome erano sette i discepoli che presero parte a questa pesca: Pietro, Tommaso, Natanaele, i due figli di Zebedeo e altri due di cui si tace il nome; mediante il numero sette stanno ad indicare la fine del tempo. Sì, perché tutto il tempo si svolge in sette giorni. A questo si riferisce il fatto che sul far del giorno Gesù si presentò sulla riva: la riva segna la fine del mare, e rappresenta perciò la fine del tempo, la quale è rappresentata anche dal fatto che Pietro trasse la rete a terra, cioè sulla riva. Il Signore stesso, quando espose una parabola della rete gettata in mare, dette questa spiegazione: Una volta piena - disse - i pescatori l'hanno tirata a riva. E spiegò che cosa fosse la riva, dicendo: Così sarà alla fine del mondo (Mt 13, 48-49).

[Il mistero della Chiesa adombrato nelle due scene di pesca.]

7. Ma quella parabola consisteva nell'enunciazione di un pensiero, non veniva espressa mediante un fatto. Qui, invece, è mediante un fatto che il Signore ci presenta la Chiesa quale sarà alla fine del tempo, così come con un'altra pesca ha presentato la Chiesa quale è nel tempo presente. Il fatto che egli abbia compiuto la prima pesca all'inizio della sua predicazione, questa seconda, invece, dopo la sua risurrezione, dimostra che quella retata di pesci rappresentava i buoni e i cattivi di cui ora la Chiesa è formata; questa invece rappresenta soltanto i buoni che formeranno definitivamente la Chiesa, quando, alla fine del mondo, sarà compiuta la risurrezione dei morti. Inoltre, nella prima pesca, Gesù non stava, come ora, sulla riva del mare, quando ordinò di gettare le reti per la pesca; ma salito in una delle barche, quella che apparteneva a Simone, pregò costui di scostarsi un po' da terra, poi, sedutosi, dalla barca istruiva le folle. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: Va' al largo e calate le reti per la pesca (Lc 5, 3-4). E il pesce che allora pescarono fu raccolto nelle barche, perché non furono tirate le reti a terra come avviene ora. Per questi segni, e per altri che si potrebbero trovare, in quella pesca fu raffigurata la Chiesa nel tempo presente; in questa, invece, è raffigurata la Chiesa quale sarà alla fine dei tempi. E' per questo motivo che la prima pesca fu compiuta prima della risurrezione del Signore, mentre questa seconda è avvenuta dopo; perché nel primo caso Cristo raffigurò la nostra vocazione, nel secondo la nostra risurrezione. Nella prima pesca le reti non vengono gettate solo a destra della barca, a significare solo i buoni, e neppure solo a sinistra, a significare solo i cattivi. Gesù dice semplicemente: Calate le reti per la pesca, per farci intendere che i buoni e i cattivi sono mescolati. Qui invece precisa: Gettate la rete alla destra della barca, per indicare quelli che stavano a destra, cioè soltanto i buoni. Nel primo caso la rete si strappava per indicare le scissioni; nel secondo caso, invece, siccome nella suprema pace dei santi non ci saranno più scissioni, l'evangelista ha potuto rilevare: e benché i pesci fossero tanti - cioè così grossi - la rete non si strappò. Egli sembra alludere alla prima pesca, quando la rete si strappò, per far risaltar meglio, dal confronto con quella, il risultato positivo di questa pesca. Nel primo caso presero tale quantità di pesce che le due barche, stracariche, affondavano (cf. Lc 5, 3-7), cioè minacciavano di affondare: non affondarono, ma poco ci mancò. Donde provengono alla Chiesa tutti i mali che deploriamo, se non dal fatto che non si riesce a tener testa all'enorme massa che entra nella Chiesa con dei costumi del tutto estranei alla vita dei santi e che minacciano di sommergere ogni disciplina? Nel secondo caso, invece, gettarono la rete a destra della barca, e non potevano più tirarla per la grande quantità di pesci. Che significa: non riuscivano più a tirarla? Significa che coloro che appartengono alla risurrezione della vita, cioè alla destra, e finiscono la loro vita nelle reti del cristianesimo, appariranno soltanto sulla riva, cioè alla fine del mondo, quando risorgeranno. Per questo i discepoli non riuscivano a tirare la rete per rovesciare nella barca i pesci che avevano presi, come invece avvenne di quelli per il cui peso la rete si strappò e le barche rischiarono di affondare. La Chiesa possiede tutti questi pesci che sono a destra della barca, ma che rimangono nascosti nel sonno della pace, come nel profondo del mare, sino alla fine della vita, allorché la rete, trascinata per un tratto di circa duecento cubiti, giungerà finalmente alla riva. Il popolo dei circoncisi e dei gentili, che nella prima pesca era raffigurato dalle due barche, qui è raffigurato dai duecento cubiti - cento e cento quanti sono gli eletti di ciascuna provenienza -, poiché facendo la somma, il numero cento passa a destra. Infine, nella prima pesca, non si precisa il numero dei pesci, e noi possiamo vedere in ciò la realizzazione della profezia che dice: Voglio annunziarli e parlarne, ma sono tanti da non potersi contare (Sal 39, 6); qui invece si possono contare: il numero preciso è centocinquantatré. Dobbiamo, con l'aiuto del Signore, spiegare il significato di questo numero.

[Significato del numero 153.]

8. Volendo esprimere la legge mediante un numero, qual è questo numero se non dieci? Sappiamo con certezza che il Decalogo, cioè i dieci comandamenti furono per la prima volta scritti col dito di Dio su due tavole di pietra (cf. Dt 9, 10). Ma la legge, senza l'aiuto della grazia, ci rende prevaricatori, e rimane lettera morta. E' per questo che l'Apostolo dice: La lettera uccide, lo Spirito vivifica (2 Cor 3, 6). Si unisca dunque lo spirito alla lettera, affinché la lettera non uccida coloro che non sono vivificati dallo spirito; ma siccome per poter adempiere i comandamenti della legge, le nostre forze non bastano, è necessario l'aiuto del Salvatore. Quando alla legge si unisce la grazia, cioè quando alla lettera si unisce lo spirito, al dieci si aggiunge il numero sette. Il numero sette, come attestano i venerabili documenti della sacra Scrittura, è il simbolo dello Spirito Santo. Infatti, la santità o santificazione è attribuita propriamente allo Spirito Santo; per cui, anche se il Padre è spirito e il Figlio è spirito (in quanto Dio è spirito: cf. Io 4, 24) ed anche se il Padre è santo e il Figlio è santo, tuttavia lo Spirito di ambedue si chiama con suo proprio nome Spirito Santo. E dov'è che per la prima volta nella legge si parla di santificazione, se non a proposito del settimo giorno? Dio infatti non santificò il primo giorno in cui creò la luce, né il secondo in cui creò il firmamento, né il terzo in cui separò il mare dalla terra e la terra produsse alberi e piante, né il quarto in cui furono create le stelle, né il quinto in cui Dio fece gli animali che si muovono nelle acque e che volano nell'aria, e neppure il sesto in cui creò gli animali che popolano la terra e l'uomo stesso; santificò, invece, il settimo giorno, in cui egli riposò dalle sue opere (cf. Gn 2, 3). Giustamente, quindi, il numero sette è il simbolo dello Spirito Santo. Anche il profeta Isaia dice: Riposerà in lui lo Spirito di Dio; passando poi ad esaltarne l'attività e i suoi sette doni, dice: Spirito di sapienza e d'intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo riempirà dello spirito del timore di Dio (Is 11, 2-3). E nell'Apocalisse non si parla forse dei sette spiriti di Dio (cf. Ap 3, 1), pur essendo unico e identico lo Spirito che distribuisce i suoi doni a ciascuno come vuole (cf 1 Cor 12, 11)? Ma l'idea dei sette doni dell'unico Spirito è venuta dallo stesso Spirito, che ha assistito lo scrittore sacro perché dicesse che sette sono gli spiriti. Ora, se al numero dieci, proprio della legge, aggiungiamo il numero sette, proprio dello Spirito Santo, abbiamo diciassette. Se si scompone questo numero in tutti i numeri che lo formano, e si sommano tutti questi numeri, si ha come risultato centocinquantatré: se infatti a uno aggiungi due ottieni tre, se aggiungi ancora tre e poi quattro ottieni dieci, se poi aggiungi tutti i numeri che seguono fino al diciassette otterrai il risultato sopraddetto; cioè se al dieci, che hai ottenuto sommando tutti i numeri dall'uno al quattro, aggiungi il cinque, ottieni quindici; aggiungi ancora sei e ottieni ventuno; aggiungi il sette e avrai ventotto; se al ventotto aggiungi l'otto, il nove e il dieci, avrai cinquantacinque; aggiungi ancora undici, dodici e tredici, e sei a novantuno; aggiungi ancora quattordici, quindici e sedici, e avrai centotrentasei; e se a questo numero aggiungi quello che resta, cioè quello che abbiamo trovato all'inizio, il diciassette, avrai finalmente il numero dei pesci che erano nella rete. Non si vuol dunque indicare, col centocinquantatré, che tale è il numero dei santi che risorgeranno per la vita eterna, ma le migliaia di santi partecipi della grazia dello Spirito Santo. Questa grazia si accorda con la legge di Dio come con un avversario, affinché la lettera non uccida ciò che lo Spirito vivifica, e in tal modo, con l'aiuto dello Spirito, si possa compiere ciò che per mezzo della lettera viene comandato, e sia perdonato quanto non si riesce a compiere. Quanti partecipano di questa grazia sono indicati da questo numero, cioè vengono rappresentati in figura. Questo numero è, per di più, formato da tre volte il numero cinquanta con l'aggiunta di tre, che significa il mistero della Trinità; il cinquanta poi è formato da sette per sette più uno, dato che sette volte sette fa quarantanove. Vi si aggiunge uno per indicare che è uno solo lo Spirito che si manifesta attraverso l'operazione settenaria; e sappiamo che lo Spirito Santo fu mandato sui discepoli, che lo aspettavano secondo la promessa che loro era stata fatta, cinquanta giorni dopo la risurrezione del Signore (cf. At 2, 2-4; 1, 4).

9. Con ragione dunque l'evangelista dice che i pesci erano grossi e tanti, e precisamente centocinquantatré. Egli dice infatti: e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. Il Signore, dopo aver detto: Non sono venuto per abolire la legge, ma per portarla a compimento (Mt 5, 17), con l'intenzione di dare lo Spirito Santo che consentisse di adempiere la legge (come aggiungendo il sette al dieci), poco dopo dice: Chi, dunque, violerà uno solo di questi comandamenti, anche i minimi, e insegnerà agli uomini a far lo stesso, sarà considerato minimo nel regno dei cieli; chi, invece, li avrà praticati e insegnati, sarà considerato grande nel regno dei cieli (Mt 5, 19). Quest'ultimo potrà far parte del numero dei grossi pesci. Il minimo invece, che distrugge con i fatti ciò che insegna con le parole, potrà far parte di quella Chiesa che viene raffigurata nella prima pesca, fatta di buoni e di cattivi, perché anch'essa viene chiamata regno dei cieli. Il regno dei cieli - dice il Signore - è simile a una gran rete gettata in mare e che raccoglie ogni genere di pesci (Mt 13, 47). Con questo vuole intendere tanto i buoni quanto i cattivi, che dovranno essere separati sulla riva, cioè alla fine del mondo. Inoltre, per far vedere che quelli che chiama minimi, cioè coloro che vivendo male distruggono il bene che insegnano con le parole, sono dei reprobi e quindi saranno completamente esclusi dal regno dei cieli, dopo aver detto: sarà considerato minimo nel regno dei cieli, immediatamente aggiunge: poiché vi dico che, se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5, 20). Scribi e farisei sono quelli che siedono sulla cattedra di Mosè, e a proposito dei quali egli dice: Fate quello che vi dicono, non vi regolate sulle loro opere: dicono, infatti, e non fanno (Mt 23, 2-3); distruggono con i costumi quanto insegnano con le parole. Di conseguenza, chi è minimo nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa del tempo presente, non entrerà nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa futura, perché, insegnando ciò che poi trasgredisce, non potrà far parte della società di coloro che fanno ciò che insegnano. Costui, perciò, non farà parte del numero dei grossi pesci, in quanto solo chi farà e insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. E siccome sarà stato grande qui in terra, potrà essere anche là dove l'altro, il minimo, non potrà essere. La grandezza di coloro che qui sono grandi, lassù sarà tale, che il più piccolo di loro è maggiore di chi sulla terra è più grande di tutti (cf. Mt 11, 11). Tuttavia, coloro che qui sono grandi, coloro cioè che nel regno dei cieli, dove la rete raccoglie buoni e cattivi, compiono il bene che insegnano, saranno ancora più grandi nel regno eterno dei cieli; essi, che sono destinati alla risurrezione della vita, sono raffigurati nei pesci pescati dal lato destro della barca. Segue il racconto della colazione che il Signore consumò con questi sette discepoli, e di ciò che egli disse subito dopo, e infine della conclusione di questo Vangelo. Di tutto questo parleremo, se Dio vorrà; ma non possiamo farlo entrare in questo discorso.

 

OMELIA 123

La triplice confessione di Pietro.

Alla triplice negazione corrisponde la triplice confessione. Sia prova d'amore pascere il gregge del Signore, come fu indizio di timore rinnegare il Pastore.

1. Il Vangelo dell'apostolo Giovanni si conclude con la terza apparizione del Signore ai suoi discepoli dopo la risurrezione. Ci siamo soffermati, come abbiamo potuto, sulla prima parte, fino al momento in cui l'evangelista racconta che furono pescati centocinquantatré pesci da parte dei discepoli ai quali Gesù si manifestò, e che la rete, sebbene i pesci fossero grossi, non si strappò. Dobbiamo ora esaminare ciò che segue, e spiegare, con l'aiuto del Signore, quanto esige una attenzione maggiore. Terminata dunque la pesca, dice loro Gesù: Venite a far colazione. E nessuno dei discepoli osava domandargli: Chi sei? sapendo che era il Signore (Gv 21, 12). Se lo sapevano, che bisogno c'era di domandarglielo? E se non c'era bisogno, perché l'evangelista dice: non osavano, come se avessero bisogno di farlo ma non osassero per timore di qualche cosa? Ecco il senso di queste parole: tanta era l'evidenza della verità nella quale Gesù si manifestava ai discepoli, che nessuno di loro osava, nonché negarla, neppure metterla in dubbio. Se qualcuno infatti avesse avuto qualche dubbio, avrebbe dovuto fargli delle domande. L'evangelista dicendo: nessuno osava domandargli: Chi sei?, è come se dicesse: nessuno osava dubitare che fosse lui.

[Il pesce simbolo di Cristo.]

2. Gesù si avvicina, prende il pane, lo porge ad essi, e così il pesce (Gv 21, 13). Ecco che l'evangelista ci dice in che cosa consisteva la loro colazione, della quale vogliamo dire qualcosa di soave e salutare, se egli si degnerà ammettere anche noi a questo banchetto. Nella narrazione precedente Giovanni dice che i discepoli, scesi a terra, vedono della brace con del pesce sopra, e del pane (Gv 21, 9). Non si deve pensare che anche il pane stesse sopra la brace, ma vi si deve sottintendere solo il verbo vedono. Se ripetiamo il verbo dov'è sottinteso, l'intera frase suona così: Vedono della brace con del pesce sopra, e vedono del pane; o meglio: Vedono preparata della brace con sopra del pesce, e vedono anche del pane. Su invito del Signore, portano anche del pesce che essi hanno preso; e quantunque l'evangelista non dica che essi lo abbiano fatto, tuttavia dice espressamente che il Signore dette loro quest'ordine. Il Signore infatti disse: Portate qua di quei pesci che avete preso adesso (Gv 21, 10). Chi può pensare che i discepoli non abbiano obbedito al suo ordine? La colazione che il Signore preparò ai sette discepoli, si componeva dunque del pesce che essi avevano visto sopra la brace, e al quale egli aggiunse alcuni pesci di quelli che essi avevano preso, e del pane che, come narra l'evangelista, essi avevano veduto sulla riva. Il pesce arrostito è il Cristo sacrificato; egli è anche il pane disceso dal cielo (cf. Gv 6, 41); a lui viene incorporata la Chiesa per partecipare della sua eterna beatitudine. E' per questo che il Signore aveva detto: Portate qua di quei pesci che avete preso adesso, affinché quanti nutriamo questa speranza, per mezzo di sette discepoli, nei quali in questo passo si può ravvisare l'universalità dei fedeli, prendessimo coscienza di essere in comunione con così grande sacramento e di essere partecipi della medesima beatitudine. E' con questa colazione del Signore con i suoi discepoli che Giovanni, sebbene avesse da dire molte altre cose di Cristo, conclude il suo Vangelo, rapito, credo, nella contemplazione di sublimi realtà. Qui infatti, nella pesca dei centocinquantatré pesci, viene adombrata la Chiesa quale essa si manifesterà quando sarà formata soltanto dai buoni; e questa colazione è l'annuncio, per quanti credono, sperano e amano, della loro partecipazione a così grande beatitudine.

3. Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli, dopo la sua risurrezione dai morti (Gv 21, 14). Questo tre non si deve riferire tanto al numero delle apparizioni di Gesù, quanto ai giorni in cui esse ebbero luogo. La prima ebbe luogo il primo giorno in cui Gesù risuscitò; la seconda otto giorni dopo, quando il discepolo Tommaso vide e credette; la terza è oggi in cui opera questo miracolo dei pesci. L'evangelista però non dice quanti giorni dopo ebbe luogo questa apparizione. Se contiamo il numero delle apparizioni, vediamo che nel primo giorno non si manifestò una sola volta, come attestano concordemente tutti e quattro gli evangelisti; ma, come si è detto, Giovanni non conta il numero delle apparizioni, ma i giorni in cui egli apparve, per cui risulta che il terzo giorno è quello della pesca. Come prima apparizione dobbiamo considerare, quasi un tutt'uno, quelle avvenute nel giorno della risurrezione, anche se il Signore è apparso più volte, e a più persone; la seconda otto giorni dopo; e questa è la terza. Successivamente si manifestò tutte le volte che volle sino al quarantesimo giorno nel quale ascese al cielo, anche se non sono state registrate tutte.

[Conclusione della vicenda di Pietro.]

4. Quand'ebbero fatto colazione, Gesù dice a Simon Pietro: Simone di Giovanni, mi ami più di questi? Gli risponde: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli dice: Pasci i miei agnelli. Gli dice di nuovo: Simone di Giovanni, mi ami tu? Gli risponde: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli dice: Pasci i miei agnelli. Gli dice per la terza volta: Simone figlio di Giovanni, mi vuoi bene? Pietro si rattristò che per la terza volta Gesù gli dicesse: Mi vuoi bene? E rispose: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene. Gesù gli disse: Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi da te stesso, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vorresti. E questo gli disse indicando la morte con la quale avrebbe glorificato Dio (Gv 21, 15-19). Così chiuse la vita terrena l'apostolo che lo aveva rinnegato e lo amava. La presunzione lo aveva innalzato, il rinnegamento lo aveva umiliato, le lacrime lo avevano purificato; superò la prova della confessione, ottenne la corona del martirio. E così ottenne, nel suo perfetto amore, di poter morire per il nome del Signore, insieme al quale, con disordinata impazienza, si era ripromesso di morire. Sostenuto dalla risurrezione del Signore, egli farà quanto nella sua debolezza aveva prematuramente promesso. Bisognava infatti che prima Cristo morisse per la salvezza di Pietro, perché Pietro a sua volta potesse morire per la predicazione di Cristo. Del tutto intempestivo fu quanto aveva intrapreso l'umana presunzione, dato che questo ordine era stato stabilito dalla stessa verità. Pietro credeva di poter dare la sua vita per Cristo (cf. Gv 13, 37): colui che doveva essere liberato sperava di poter dare la sua vita per il suo liberatore, mentre Cristo era venuto per dare la sua vita per tutti i suoi, tra i quali era anche Pietro. Ed ecco che questo è avvenuto. Ora ci è consentito di affrontare per il nome del Signore anche la morte con fermezza d'animo, con quella vera che egli stesso dona, non con quella falsa che nasce dalla nostra vana presunzione. Noi non dobbiamo più temere la perdita di questa vita, dal momento che il Signore, risorgendo, ci ha offerto in se stesso la prova dell'altra vita. Ora è il momento, Pietro, in cui non devi temere più la morte, perché è vivo colui del quale piangevi la morte, colui al quale, nel tuo amore istintivo, volevi impedire di morire per noi (cf. Mt 16, 21-22). Tu hai preteso di precedere il condottiero, e hai avuto paura del suo persecutore; ora che egli ha pagato il prezzo per te, è il momento in cui puoi seguire il redentore, e seguirlo senza riserva fino alla morte di croce. Hai udito la parola di colui che ormai hai riconosciuto verace; predisse che lo avresti rinnegato, ora predice la tua passione.

5. Ma prima il Signore domanda a Pietro ciò che già sapeva. Domanda, non una sola volta, ma una seconda e una terza, se Pietro gli vuol bene; e altrettante volte niente altro gli affida che il compito di pascere le sue pecore. Così alla sua triplice negazione corrisponde la triplice confessione d'amore, in modo che la sua lingua non abbia a servire all'amore meno di quanto ha servito al timore, e in modo che la testimonianza della sua voce non sia meno esplicita di fronte alla vita, di quanto lo fu di fronte alla minaccia della morte. Sia dunque impegno di amore pascere il gregge del Signore, come fu indice di timore negare il pastore. Coloro che pascono le pecore di Cristo con l'intenzione di volerle legare a sé, non a Cristo, dimostrano di amare se stessi, non Cristo, spinti come sono dalla cupidigia di gloria o di potere o di guadagno, non dalla carità che ispira l'obbedienza, il desiderio di aiutare e di piacere a Dio. Contro costoro, ai quali l'Apostolo rimprovera, gemendo, di cercare i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo (cf. Fil 2, 21), si leva forte e insistente la voce di Cristo. Che altro è dire: Mi ami tu? Pasci le mie pecore, se non dire: Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno e non il tuo; se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai tempi difficili, i quali sono amanti di se stessi, con tutto quel che deriva da questa sorgente d'ogni male. L'Apostolo infatti, dopo aver detto: Vi saranno uomini amanti di se stessi, così prosegue: saranno amanti del denaro, vanagloriosi, arroganti, bestemmiatori, disobbedienti ai genitori, ingrati, scellerati, empi, senz'amore, calunniatori, incontinenti, spietati, non amanti del bene, traditori, protervi, accecati dai fumi dell'orgoglio, amanti del piacere più che di Dio; gente che ha l'apparenza di pietà, ma che ne ha rinnegato la forza (2 Tim 3, 1-5). Tutti questi mali derivano, come da loro fonte, da quello che per primo l'Apostolo ha citato: saranno amanti di se stessi. Giustamente il Signore chiede a Pietro: Mi ami tu?, e alla sua risposta: Certo che ti amo, egli replica: Pasci i miei agnelli; e questo, una seconda e una terza volta. Dove anche si dimostra che amare [diligere] è lo stesso che voler bene [amare]; l'ultima volta, infatti, il Signore non dice: Mi ami?, ma: Mi vuoi bene? Non amiamo dunque noi stessi, ma il Signore, e nel pascere le sue, pecore, non cerchiamo i nostri interessi, ma i suoi. Non so in quale inesplicabile modo avvenga che chi ama se stesso e non Dio, non ama se stesso, mentre chi ama Dio e non se stesso, questi ama se stesso. Poiché chi non può vivere di se stesso, non può non morire amando se stesso: non ama dunque se stesso, chi si ama in modo da non vivere. Quando invece si ama colui da cui si ha la vita, non amando se stesso uno si ama di più, appunto perché invece di amare se stesso ama colui dal quale attinge la vita. Non siano dunque amanti di se stessi coloro che pascono le pecore di Cristo, per non pascerle come proprie, ma come di Cristo. E non cerchino di trarre profitto da esse, come fanno gli amanti del denaro; né di dominarle come i vanagloriosi o vantarsi degli onori che da esse possono ottenere, come gli arroganti; né come i bestemmiatori presumere di sé al punto da creare eresie; né, come i disobbedienti ai genitori, siano indocili ai santi padri; né, come gli ingrati, rendano male per bene a quanti vogliono correggerli per salvarli; né, come gli scellerati, uccidano l'anima propria e quella degli altri; né come gli empi, strazino le viscere materne della Chiesa; né, come i disamorati, disprezzino i deboli; né, come i calunniatori, attentino alla fama dei fratelli; né, come gli incontinenti, si dimostrino incapaci di tenere a freno le loro perverse passioni; né, come gli spietati, siano portati a litigare; né, come chi è senza benignità, si dimostrino incapaci a soccorrere; né, come fanno i traditori, rivelino agli empi ciò che si deve tenere segreto; né, come i procaci, turbino il pudore con invereconde esibizioni; né, come chi è accecato dai fumi dell'orgoglio, si rendano incapaci d'intendere quanto dicono e sostengono (cf. 1 Tim 1, 7); né, come gli amanti del piacere più che di Dio, antepongano i piaceri della carne alle gioie dello spirito. Tutti questi e altri simili vizi, sia che si trovino riuniti in uno stesso uomo, sia che si trovino sparsi qua e là, pullulano tutti dalla stessa radice, cioè dall'amore egoistico di sé. Il male che più d'ogni altro debbono evitare coloro che pascono le pecore di Cristo, è quello di cercare i propri interessi, invece di quelli di Gesù Cristo, asservendo alle proprie cupidigie coloro per i quali fu versato il sangue di Cristo. L'amore per Cristo deve, in colui che pasce le sue pecore, crescere e raggiungere tale ardore spirituale da fargli vincere quel naturale timore della morte a causa del quale non vogliamo morire anche quando vogliamo vivere con Cristo. Lo stesso Apostolo ci dice infatti che brama essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (cf. Fil 1, 23). Egli geme sotto il peso del corpo, ma non vuol essere spogliato, ma piuttosto sopravvestito, affinché ciò che è mortale in lui sia assorbito dalla vita (cf. 2 Cor 5, 4). E il Signore a Pietro che lo amava predisse: quando sarai vecchio stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vorresti. E questo gli disse indicando la morte con la quale avrebbe glorificato Dio. Stenderai le tue mani, dice il Signore, cioè sarai crocifisso; ma per giungervi un altro ti cingerà e ti porterà non dove tu vuoi, ma dove tu non vorresti. Prima predice il fatto, poi il modo. Non è dopo la crocifissione, ma quando lo portano alla croce che Pietro è condotto dove non vorrebbe; perché una volta crocifisso, non è più condotto dove non vorrebbe, ma al contrario, va dove desidera andare. Egli desiderava essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, ma, se fosse stato possibile, avrebbe voluto entrare nella vita eterna evitando le angosce della morte. E' contro il suo volere che lo costringono a subire queste angosce, mentre è secondo il suo desiderio che ne viene liberato. Egli va alla morte con ripugnanza, e la vince secondo il suo desiderio, e si libera dal timore della morte, talmente naturale che neppure la vecchiaia vale a liberarne Pietro, tanto che di lui dice il Signore: Quando sarai vecchio, verrai portato dove tu non vorresti. Per nostra consolazione il Salvatore stesso volle provare in sé anche questo sentimento, dicendo: Padre, se è possibile passi da me questo calice (Mt 26, 39), lui che era venuto proprio per morire, e per il quale la morte non era una necessità, ma un atto della sua volontà, e in suo potere era dare la sua vita e riprenderla di nuovo. Ma per quanto grande sia l'orrore per la morte, deve essere vinto dalla forza dell'amore verso colui che, essendo la nostra vita, ha voluto sopportare per noi anche la morte. Del resto, se la morte non comportasse alcun orrore, non sarebbe grande, com'è, la gloria dei martiri. Se il buon pastore, che offrì la sua vita per le sue pecore (cf. Gv 10, 18 11), ha potuto suscitare per sé tanti martiri da queste medesime pecore, con quanto maggiore ardore devono lottare per la verità fino alla morte, e fino a versare il proprio sangue combattendo contro il peccato, coloro ai quali il Signore affidò le sue pecore da pascere, cioè da formare e da guidare? E, di fronte all'esempio della sua passione, chi non vede che i pastori debbono stringersi maggiormente al Pastore e imitarlo, proprio perché già tante pecore hanno seguito l'esempio di lui, cioè dell'unico Pastore sotto il quale non c'è che un solo gregge, e nel quale anche i pastori sono pecore? Egli ha fatto sue pecore tutti coloro per i quali accettò di patire, e al fine di patire per tutti si è fatto egli stesso pecora.

 

OMELIA 124

Tu seguimi!

La Chiesa sa che le sono state raccomandate dal Signore due vite: una nella fede, l'altra nella visione; una peregrinante, l'altra gloriosa; una in cammino, l'altra in patria. Una rappresentata dall'apostolo Pietro, l'altra da Giovanni.

1. Perché il Signore, quando si manifestò per la terza volta ai discepoli, disse all'apostolo Pietro: Tu seguimi, mentre riferendosi all'apostolo Giovanni disse: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che importa? Non è una questione da poco. Al suo esame e, nella misura che il Signore ci concede, alla sua soluzione dedichiamo l'ultimo discorso di questa nostra trattazione. Dopo aver dunque predetto a Pietro con qual genere di morte avrebbe glorificato Dio, il Signore gli dice: Seguimi. Pietro, voltatosi, vede venirgli appresso il discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si chinò sul suo petto e disse: Signore, chi è che ti tradisce? Pietro dunque vedendolo, dice a Gesù: Signore, e lui? Gesù gli risponde: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi. Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto; ma Gesù non gli disse: non muore, ma: se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa (Gv 21, 19-23). Ecco in quali termini il Vangelo pone questa questione, la cui profondità impegna non superficialmente la mente di chi la consideri. Perché a Pietro, e non agli altri che si trovavano insieme con lui, il Signore dice: Seguimi? Senza dubbio anche gli altri discepoli lo seguivano come maestro. Che se poi si dovesse intendere che Gesù volesse riferirsi al martirio, forse fu soltanto Pietro a patire per la verità cristiana? Non c'era forse tra quei sette l'altro figlio di Zebedeo, il fratello di Giovanni, che dopo l'ascensione del Signore fu ucciso da Erode (cf. At 12, 2)? Si potrà osservare che, siccome Giacomo non fu crocifisso, giustamente soltanto a Pietro il Signore dice: seguimi, in quanto egli ha affrontato non solo la morte, ma, come Cristo, la morte di croce. Accettiamo questa interpretazione, se non è possibile trovarne una migliore. Ma perché, riferendosi a Giovanni, il Signore dice: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che importa? e poi ripete: Tu seguimi, quasi non voleva che anche l'altro lo seguisse, in quanto voleva che restasse fino al suo ritorno? Come interpretare queste parole in modo diverso da come le hanno interpretate i fratelli allora presenti, che cioè quel discepolo non sarebbe morto, ma sarebbe rimasto in questa vita fino al ritorno del Signore? Tuttavia, lo stesso Giovanni rifiuta questa conclusione, dichiarando apertamente che non era questo il pensiero del Signore. Perché infatti avrebbe soggiunto: Gesù non gli disse: non muore, se non perché non rimanesse nel cuore degli uomini una errata interpretazione?

2. Ma chi vuole può insistere nel dire che è vero quanto dice Giovanni, che cioè il Signore non aveva affermato che quel discepolo non sarebbe morto, ma che, tuttavia, tale è il senso delle parole, che, come narra l'evangelista, Gesù disse a Pietro. Chi dice questo arriva a sostenere che l'apostolo Giovanni vive tuttora, e che, nella sua tomba che si trova ad Efeso, egli giace addormentato, non morto. Costoro adducono come prova il fatto che in quel luogo la terra si solleva insensibilmente, e sembra quasi ribollire, e con sicurezza e ostinazione sostengono che tale fenomeno è dovuto al suo respiro. Non manca chi lo crede, come non manca chi sostiene che anche Mosè vive tuttora, in quanto sta scritto che non si conosce il luogo della sua sepoltura (cf. Dt 34, 6), e si sa che apparve col Signore sul monte assieme ad Elia (cf. Mt 17, 3), del quale si legge che non morì ma fu rapito in cielo (cf. 2 Re 2, 11). Essi dicono questo come se il corpo di Mosè non avesse potuto esser sepolto in un luogo sconosciuto agli uomini del suo tempo, e non avesse potuto risuscitare in un dato momento grazie alla potenza divina, quando insieme con Elia fu veduto accanto a Cristo; così come temporaneamente risuscitarono molti corpi di santi al momento della passione di Cristo e, come sta scritto, apparvero a molti nella città santa dopo la sua risurrezione (cf. Mt 27, 52-53). Tuttavia, se taluni, come dicevo, affermano che Mosè vive ancora, sebbene la Scrittura, che pure dice che non si conosce il luogo della sua tomba, attesti chiaramente che egli morì, è tanto più comprensibile che, basandosi su queste parole del Signore: Voglio che lui rimanga finché io venga, qualcuno creda che Giovanni non è morto ma dorme sotto terra. Qualcuno giunge a dire (come si legge in certi scritti apocrifi) che l'evangelista si fece costruire una tomba, e, quando, pur essendo egli in perfetta salute, la fossa fu scavata e la tomba preparata con ogni cura, egli vi si adagiò come in un letto, e subito spirò. Sarà per questo che quanti interpretano così le parole del Signore, ritengono che non sia morto, ma si sia adagiato come un morto, e, considerato morto, sia stato sepolto mentre dormiva, e così rimanga fino al ritorno di Cristo; e che egli sia rimasto vivo ne sarebbe prova il movimento della terra, che, a quanto si dice, si solleva dal profondo fino alla superficie del tumulo, sotto l'effetto della sua respirazione. Non è il caso di stare a combattere questa credenza; quelli che conoscono il luogo vadano ad accertarsi se la terra si solleva realmente da se stessa, oppure per effetto di qualche altra causa: la verità è che questo fatto mi è stato riferito da persone attendibili.

3. Lasciamo per ora questa opinione, che non possiamo confutare con prove sicure, per evitare, se non altro, che ci venga chiesto perché la terra sembra in qualche modo vivere e respirare sopra un cadavere sepolto. Ma forse che si risolve questa grossa questione, supponendo che per un miracolo, quale l'Onnipotente può compiere, un corpo vivo può rimanere addormentato tanto a lungo sotto terra in attesa della fine del mondo? Questa supposizione, anzi, rende la questione più difficile e più imbarazzante. Perché, infatti, Gesù avrebbe accordato al discepolo, che prediligeva tanto da permettergli di chinarsi sul suo petto, come straordinario privilegio un sonno così prolungato, mentre ha liberato il beato Pietro (per mezzo dell'insigne gloria del martirio) dal peso del corpo, concedendogli la grazia che l'apostolo Paolo dice di aver tanto desiderato e cioè di essere sciolto da questo corpo per essere con Cristo (Fil 1, 23)? Se invece - ciò che è più credibile - san Giovanni fa notare che il Signore non disse: non morirà, proprio perché non gli si attribuisse una simile interpretazione delle parole del Signore; e se il suo corpo giace esanime nella tomba come quello di tutti gli altri morti, e se risponde a verità la notizia che la terra sulla sua tomba si solleva e si abbassa, rimane da decidere se tale fenomeno si verifica per onorare la morte gloriosa, in quanto essa non è stata resa gloriosa dal martirio (Giovanni infatti non fu ucciso dai persecutori per la sua fede), oppure per qualche altro motivo che a noi sfugge. Rimane tuttavia da chiarire la ragione per la quale il Signore, riferendosi ad un uomo che sarebbe morto, disse: Voglio che rimanga finché io venga.

4. Ma chi non sentirà il bisogno di chiedersi, a proposito di questi due apostoli, Pietro e Giovanni, come mai il Signore prediligeva Giovanni, dal momento che era Pietro ad amare di più il Signore? Ogni qualvolta infatti Giovanni parla di sé, tace il proprio nome, e per far capire che si tratta di lui, mette questa indicazione: il discepolo che Gesù amava, come se Gesù amasse lui solo, per distinguersi con questa indicazione dagli altri, tutti certamente da Gesù amati. Che altro vuol farci intendere, con questa espressione, se non che egli era il prediletto? Lungi da noi ogni dubbio circa tale affermazione. E, del resto, quale maggiore prova poteva Gesù dare della sua predilezione all'uomo che insieme agli altri condiscepoli era partecipe della grazia sublime della salvezza, se non quella di concedergli di riposare sul petto del Salvatore stesso? Quanto al fatto che l'apostolo Pietro abbia amato Cristo più degli altri, ci sono molte prove che lo dimostrano. Senza andarle a cercare troppo lontano, risulta in modo abbastanza evidente nel discorso precedente, allorché il Signore gli rivolse la domanda: Mi ami più di questi? (Gv 21, 15). Il Signore certamente lo sapeva, e tuttavia glielo domandò, in modo che anche noi, che leggiamo il Vangelo, conoscessimo, attraverso la domanda dell'uno e la risposta dell'altro, l'amore di Pietro per il Signore. Il fatto però che Pietro abbia risposto: Sì, ti amo, senza aggiungere che lo amava più degli altri, dimostra che Pietro ha risposto ciò che sapeva di se stesso. Non poteva sapere infatti quanto lo amassero gli altri, dato che non poteva vedere nel loro cuore. Però con le parole precedenti: Signore, tu sai tutto (Gv 21, 16), chiaramente lascia capire che il Signore sapeva già che cosa avrebbe risposto Pietro alla sua domanda. Il Signore dunque sapeva non solo che lo amava, ma anche che lo amava più degli altri. Ebbene, se ci domandiamo quale sia il migliore tra questi due apostoli, colui che amava di più Cristo o colui che lo amava di meno, chi esiterà a rispondere che migliore era colui che lo amava di più? E ancora, se ci domandiamo quale sia il migliore tra questi due apostoli, colui che era amato di più da Cristo, o colui che lo era di meno, non possiamo non rispondere che migliore era colui che più era amato da Cristo. Nel primo caso si antepone Pietro a Giovanni, nel secondo Giovanni a Pietro. Perciò propongo un altro confronto: chi è il migliore tra questi due discepoli: quello che ama Cristo meno del suo condiscepolo e più del suo condiscepolo è amato da Cristo, oppure quello che è amato da Cristo meno del suo condiscepolo benché più del suo condiscepolo ami Cristo? Qui la risposta tarda a venire e la difficoltà è aumentata. Per quanto so io, risponderei così: è migliore colui che ama di più Cristo, mentre è più felice colui che da Cristo è più amato. Con tale risposta però non riesco a vedere come si possa difendere il modo di agire del nostro Liberatore, che sembra amare meno chi lo ama di più, e amare di più chi lo ama di meno.

[Le due vite.]

5. Cercherò dunque, contando sulla misericordia manifesta di colui la cui giustizia è così nascosta, di risolvere una questione tanto ardua con le forze che egli stesso vorrà concedermi. Finora, infatti, l'abbiamo esposta, ma non risolta. E come premessa alla soluzione che cerchiamo, ricordiamoci che noi conduciamo una vita misera in questo corpo mortale che appesantisce l'anima (cf. Sap 9, 15). Quanti però siamo già redenti per mezzo del Mediatore e abbiamo lo Spirito Santo come pegno, abbiamo nella speranza la vita beata, anche se non la possediamo ancora nella realtà. Ora, la speranza che si vede non è più speranza: difatti una cosa che uno vede, come potrebbe ancora sperarla? Se pertanto noi speriamo ciò che non vediamo, l'attendiamo mediante la pazienza (cf. Rm 8, 24-25). E' nei mali che uno soffre, non nei beni che gode, che la pazienza è necessaria. E' questa la vita, di cui sta scritto: Non è forse una lotta la vita dell'uomo sulla terra? (Gb 7, 1) nella quale ogni giorno gridiamo al Signore: Liberaci dal male (Mt 6, 13); è questa vita terrena che l'uomo deve sopportare, nonostante il perdono dei peccati, pur essendo il peccato la prima causa della sua miseria. La pena infatti si protrae più della colpa; perché se la pena finisse con il peccato, saremmo portati a minimizzare la colpa. E' dunque come prova della miseria che ci è dovuta, o come mezzo per emendare una vita proclive al male, o per esercitare la pazienza che tanto ci è necessaria, che l'uomo è soggetto a punizioni temporali, anche se gli sono stati rimessi i peccati per i quali era reo della dannazione eterna. Questa è la condizione, lacrimevole ma non deplorevole, di questi giorni cattivi che passiamo in questa vita mortale, sospirando di vedere giorni buoni in quella eterna. Una tal cosa infatti proviene dalla giusta ira di Dio, di cui la Scrittura dice: L'uomo nato di donna ha vita corta ed è soggetto all'ira (Gb 14, 1); anche se l'ira di Dio non è come quella dell'uomo, che è perturbazione dell'animo agitato, ma tranquilla decisione del giusto castigo. Tuttavia, in questa ira, Dio non soffoca, come sta scritto, la sua misericordia (cf. Sal 76, 10); tanto che, oltre alle consolazioni che non cessa di procurare al genere umano, nella pienezza del tempo da lui prestabilito Dio ha mandato il suo unigenito Figlio (cf. Gal 4, 4), per cui mezzo aveva creato l'universo, affinché, rimanendo Dio diventasse uomo, e l'uomo Cristo Gesù fosse mediatore tra Dio e gli uomini (cf. Gal 4, 4). Mediante la fede in lui, unita al lavacro di rigenerazione, siamo prosciolti da tutti i peccati, cioè dal peccato originale contratto mediante la generazione (soprattutto per liberarci da esso è stato istituito il sacramento di rigenerazione) e da tutti gli altri peccati che si commettono vivendo male. E' in questo modo che siamo liberati dall'eterna dannazione: e vivendo nella fede, nella speranza e nella carità, pellegrinando in questo mondo in mezzo a faticose e pericolose prove, ma anche sostenuti dalle consolazioni materiali e spirituali che Dio elargisce, noi camminiamo verso la visione beatifica, perseverando in quella via che Cristo ha fatto di se stesso per gli uomini. Ma anche camminando su questa via che è egli stesso, gli uomini non sono immuni da quei peccati che provengono dalla fragilità di questa vita. Per questo il Signore indica un salutare rimedio nell'elemosina, che deve suffragare l'orazione che egli stesso ha insegnato: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6, 12). E' ciò opera della Chiesa, beata nella speranza pur operando in questa vita travagliata; e Pietro, per il primato apostolico di cui godeva, ne rappresentava simbolicamente l'universalità. Considerato nella sua persona, Pietro per natura, era soltanto un uomo, per grazia era un cristiano, per una grazia speciale era un apostolo, anzi il primo tra essi. Ma quando il Signore gli disse: A te darò le chiavi del regno dei cieli, e ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche nei cieli (Mt 16, 19), egli rappresentava la Chiesa universale, che in questo mondo è scossa da prove molteplici, come da insistenti nubifragi, torrenti e tempeste; eppure non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui, appunto, Pietro deriva il suo nome. Non è la pietra che trae il suo nome da Pietro, ma è Pietro che lo trae dalla pietra; così come non è il nome Cristo che deriva da cristiano, ma il nome cristiano che deriva da Cristo. E il Signore disse: Su questa pietra costruirò la mia Chiesa (Mt 16, 18), perché Pietro gli aveva detto: Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente (Mt 16, 16). E' dunque su questa pietra, da te confessata, che io costruirò - dice il Signore - la mia Chiesa. La pietra infatti era Cristo (cf. 1 Cor 10, 4); sul quale fondamento anch'egli, Pietro, è stato edificato. Sì, perché nessuno può porre un fondamento diverso da quello che è stato posto che è Cristo (cf. 1 Cor 3, 11). La Chiesa dunque, che è fondata su Cristo, ha ricevuto da lui nella persona di Pietro le chiavi del regno dei cieli, cioè la potestà di legare e di sciogliere i peccati. Ciò che la Chiesa è in Cristo in senso proprio, Pietro lo è, in senso figurato, nella pietra; per cui, in senso figurato, Cristo è la pietra, e Pietro è la Chiesa. Questa Chiesa, quindi, rappresentata da Pietro finché vive in mezzo al male, amando e seguendo Cristo viene liberata dal male; benché lo segua di più nella persona di coloro che combattono per la verità fino alla morte. Tuttavia seguimi (Gv 21, 19) è l'invito rivolto alla totalità della Chiesa, a quella totalità per la quale Cristo patì; per cui lo stesso Pietro dice: Cristo patì per noi, lasciandoci l'esempio affinché seguiamo le sue orme (1 Pt 2, 21). Ecco perché il Signore gli dice: seguimi. Esiste però un'altra vita, immortale, libera da ogni male: lassù vedremo faccia a faccia ciò che qui si vede come in uno specchio e in maniera oscura (cf. 1 Cor 13, 12), anche quando si è fatta molta strada verso la visione della verità. La Chiesa conosce due vite, che le sono state rivelate e raccomandate da Dio, delle quali una è nella fede, l'altra nella visione; una appartiene al tempo della peregrinazione, l'altra all'eterna dimora; una è nella fatica, l'altra nel riposo; una lungo la via, l'altra in patria; una nel lavoro dell'azione, l'altra nel premio della contemplazione; una che si tiene lontana dal male e compie il bene, l'altra che non ha alcun male da evitare ma soltanto un grande bene da godere; una combatte con l'avversario, l'altra regna senza contrasti; una è forte nelle avversità, l'altra non ha alcuna avversità da sostenere; una deve tenere a freno le passioni della carne, l'altra riposa nelle gioie dello spirito; una è tutta impegnata nella lotta, l'altra gode tranquilla, in pace, i frutti della vittoria; una chiede aiuto nelle tentazioni, l'altra, libera da ogni tentazione, trova il riposo in colui che è stato il suo aiuto; una soccorre l'indigente, l'altra vive dove non esiste alcun indigente; una perdona le offese per essere a sua volta perdonata, l'altra non subisce offese da perdonare, né ha da farsi perdonare alcuna offesa; una è colpita duramente dai mali affinché non abbia ad esaltarsi nei beni, l'altra gode di tale pienezza di grazia ed è così libera da ogni male che senza alcuna tentazione di superbia aderisce al sommo bene; una discerne il bene dal male, l'altra non ha che da contemplare il Bene. Quindi una è buona, ma ancora infelice, l'altra è migliore e beata. La prima è simboleggiata nell'apostolo Pietro, l'altra in Giovanni. La prima si conduce interamente quaggiù fino alla fine del mondo, quando avrà termine; il compimento dell'altra è differito alla fine del mondo, ma, nel mondo futuro, non avrà termine. Perciò a Pietro il Signore dice: Tu seguimi. A proposito invece dell'altro: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi (Gv 21, 22). Che significa questo? Per quanto so e posso capire, ecco il senso di queste parole: Tu seguimi, sopportando, come ho fatto io, i mali del tempo presente; quello invece resti finché io venga a rendere a tutti i beni eterni. In modo più esplicito si potrebbe dire: L'attività perfetta mi segua ispirandosi all'esempio della mia passione; la contemplazione già iniziata attenda il mio ritorno, perché quando verrò essa raggiungerà il suo compimento. La religiosa pienezza della pazienza segue Cristo fino alla morte, la scienza invece resta finché verrà Cristo, perché solo allora si manifesterà la sua pienezza. Qui nella terra dei mortali, noi sopportiamo i mali di questo mondo; lassù, nella terra dei viventi, contempleremo i beni del Signore. Però la frase: Voglio che lui rimanga finché io venga, non è da intendere nel senso di continuare a stare, o di dimorare qui, ma nel senso di aspettare e di sperare, perché la vita eterna, che in Giovanni viene simboleggiata, non raggiunge ora il suo compimento, ma lo raggiungerà quando sarà venuto Cristo. Ciò che viene raffigurato, invece, per mezzo di Pietro, al quale vien detto: Tu seguimi, se non si compie nel tempo presente, non si raggiunge ciò che si spera. In questa vita attiva quanto più amiamo Cristo, tanto più facilmente veniamo liberati dal male. Ma Cristo ci ama meno nelle condizioni in cui siamo ora, e perciò ce ne libera affinché non abbiamo ad essere sempre così. Nello stato in cui saremo allora, ci amerà di più, perché in noi non vi sarà più niente che gli sia sgradito, e che egli debba allontanare da noi. Qui in terra il suo amore tende a guarirci e a liberarci da ciò che egli in noi non ama. Quindi ci ama meno qui, perché non vuole che qui rimaniamo; ci ama di più lassù, perché vuole che là andiamo, e da dove vuole che mai ci allontaniamo. Amiamo Cristo come Pietro, per essere liberati da questa condizione mortale; chiediamo di essere da Cristo amati come Giovanni, per ricevere la vita immortale.

6. Ma in questo modo si dimostra perché Cristo abbia amato Giovanni più di Pietro, non perché Pietro abbia amato Cristo più di Giovanni. Infatti, se Cristo ci amerà nel secolo futuro (dove vivremo per sempre con lui) più di quanto ci ama ora in questo secolo da cui egli ci libera per farci stare sempre insieme con lui, non si spiega perché dovremo amarlo meno quando saremo migliori, dato che assolutamente non potremo essere migliori se non amandolo di più. Perché dunque Giovanni lo amava meno di Pietro, se rappresentava quella vita in cui si deve amare molto di più? La spiegazione sta proprio nelle parole del Signore, il quale parlando di Giovanni dice: Voglio che lui rimanga, cioè che aspetti che io venga. Ciò significa che ancora non possediamo questo amore che, allora, sarà molto più grande di ora; adesso non l'abbiamo ancora, ma speriamo di averlo quando egli verrà. Questo è quanto dice nella sua lettera il medesimo apostolo: Ancora non si è manifestato quel che saremo; sappiamo che quando si manifesterà, saremo somiglianti a lui, poiché lo vedremo così com'è (1 Io 3, 2). Quando lo vedremo, allora lo ameremo di più. Ma quanto al Signore, egli ama di più quella che sarà nel futuro la nostra vita, perché egli nella sua predestinazione la conosce già quale sarà in noi, e il suo amore si propone di condurci ad essa. Orbene, essendo tutte le vie del Signore misericordia e verità (cf. Sal 24, 10), riconosciamo la nostra miseria presente perché ne sentiamo il peso; e perciò amiamo di più la misericordia del Signore, da cui ci ripromettiamo la liberazione dalla nostra miseria, e dalla stessa misericordia imploriamo ogni giorno la remissione dei nostri peccati, e l'otteniamo. Questo viene simboleggiato in Pietro, che ama di più ed è amato di meno, perché Cristo ci ama meno quando siamo miseri di quando saremo felici. Anche noi ora amiamo meno la contemplazione della verità, quale allora sarà possibile, perché ancora non la conosciamo né la possediamo; questa viene rappresentata da Giovanni, che ama di meno, e che perciò attende che il Signore venga per metterlo in possesso della verità e per completare in noi l'amore che gli è dovuto. Giovanni però è amato di più perché rappresenta ciò che rende eternamente beati.

[Nessuno divida questi due apostoli.]

7. Nessuno, tuttavia, divida questi due insigni apostoli. Tutti e due vivevano la vita che si personificava in Pietro, e tutti e due avrebbero vissuto la vita che in Giovanni era raffigurata. In Pietro veniva indicato che si deve seguire il Signore, in Giovanni che si deve rimanere in attesa di lui; ma tutti e due, mediante la fede, sopportavano i mali presenti di questa misera vita, e tutti e due aspettavano i beni futuri della vita beata. E non soltanto essi; questo è quanto fa la santa Chiesa tutta intera, la sposa di Cristo che attende di essere liberata da queste prove, per entrare in possesso della felicità eterna. Queste due vite, la terrena e l'eterna, sono raffigurate rispettivamente in Pietro e in Giovanni: per la verità tutti e due camminarono in questa vita temporale per mezzo della fede, e tutti e due godono nella vita eterna della visione di Dio. Fu quindi a vantaggio di tutti i fedeli inseparabilmente appartenenti al corpo di Cristo, che Pietro, il primo degli Apostoli, per guidarli in questa tempestosa vita, ricevette, con le chiavi del regno dei cieli, la potestà di legare e di sciogliere i peccati; e del pari fu per condurre gli stessi fedeli al porto tranquillo di quella vita intima e segreta, che l'evangelista Giovanni riposò sul petto di Cristo. Non è infatti soltanto Pietro, ma tutta la Chiesa che lega e scioglie i peccati; né Giovanni fu il solo ad attingere, come ad una fonte, dal petto del Signore, per comunicarla a noi, la verità sublime del Verbo che era in principio Dio presso Dio, e le altre verità sulla divinità di Cristo, quelle sublimi sulla Trinità e sulla unità delle tre persone divine, che nel regno dei cieli potremo contemplare faccia a faccia, mentre ora, finché non verrà il Signore, possiamo vedere solo come in uno specchio, in immagine. Anzi è il Signore stesso che diffonde il suo Vangelo in tutto il mondo, affinché tutti ne bevano, ciascuno secondo la propria capacità. Taluni, anche interpreti non disprezzabili della Sacra Scrittura, sono dell'opinione che Giovanni sia stato da Cristo prediletto perché non si sposò e visse castissimo fin dalla puerizia. Questo motivo non risulta chiaramente dalle Scritture canoniche; tuttavia questa opinione trova conferma nel fatto che Giovanni rappresenta quella vita in cui non vi saranno nozze.

8. Questi è il discepolo che attesta queste cose e che le ha scritte, e sappiamo che la sua testimonianza è vera. Ci sono ancora molte altre cose fatte da Gesù, che se fossero scritte una per una, il mondo stesso non basterebbe, penso, a contenere i libri che se ne scriverebbero (Gv 21, 24-25; 20, 30). L'espressione non va intesa nel senso che nel mondo non v'è spazio sufficiente per contenere questi libri; come sarebbe possibile, infatti, scriverli nel mondo se il mondo non avesse la capacità di contenerli? Probabilmente si tratta della capacità dei lettori, non sufficiente a comprenderli. E' frequente il caso che, pur rispettando la verità delle cose, le parole risultino esagerate. Ciò accade non quando si espongono cose dubbie od oscure, adducendone le cause e i motivi, ma quando si aumenta o si attenua ciò che è chiaro, pur senza scostarsi dai limiti della verità. Allora le parole sono talmente esagerate rispetto alla realtà delle cose indicate che appare chiaro che chi parla non ha alcuna intenzione di trarre in inganno. Egli sa fino a che punto sarà creduto; e chi ascolta sa come interpretare certe espressioni esagerate in un senso o in un altro. Non solo gli autori greci, ma anche quelli latini, chiamano questo modo di esprimersi col termine greco di iperbole. Il quale modo di esprimersi non si incontra soltanto in questo passo ma in molti altri passi delle sacre Scritture: ad esempio, là dove, si legge: Mettono la loro bocca nel cielo (Sal 72, 9); e ancora: Il vertice dei capelli di coloro che camminano nelle loro iniquità (Sal 67, 22); e così in molti altri passi delle divine Scritture: si tratta sempre di tropi, cioè di modi di dire. Di queste cose vi parlerei più diffusamente, se l'evangelista, terminando il suo Vangelo, non m'inducesse a terminare anche il mio discorso.