COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Sant’Agostino

 

[Omelie 51-60]

 

OMELIA 51

L'annunzio della morte e della vittoria.

Cristo era il grano di frumento che doveva morire per dare molto frutto. Morto a causa dell'infedeltà dei giudei, è fruttificato mediante la fede dei popoli.

1. In seguito alla risurrezione del morto di quattro giorni che il Signore compì fra lo stupore dei Giudei, alcuni di essi vedendo credettero in lui, altri per invidia si perdettero; sempre per quel buon odore che conduce alcuni alla vita e altri alla morte (cf. 2 Cor 2, 15). Dopo aver partecipato alla cena, in cui Lazzaro risuscitato da morte era commensale, e durante la quale fu versato sui suoi piedi l'unguento del cui profumo si era riempita la casa; dopo che i Giudei avevano concepito nel loro cuore perverso la vana crudeltà e lo stolto e delittuoso proposito di uccidere Lazzaro; dopo che di tutte queste cose, come abbiamo potuto e con l'aiuto del Signore, abbiamo parlato nei precedenti sermoni, invito ora la vostra Carità a considerare i frutti copiosi prodotti dalla predicazione del Signore prima della sua passione, e quanto numeroso sia stato il gregge delle pecore perdute della casa d'Israele, che ascoltò la voce del pastore.

2. Ecco le parole del Vangelo di cui avete appena ascoltato la lettura: L'indomani, la gran folla venuta per la festa, sentendo che Gesù si recava a Gerusalemme, prese i rami delle palme e gli andò incontro gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele (Gv 12, 12-13). Le palme sono un omaggio e un simbolo di vittoria; perché, morendo, il Signore avrebbe vinto la morte, e, mediante il trofeo della croce, avrebbe riportato vittoria sul diavolo principe della morte. Il grido "Osanna" poi, secondo alcuni che conoscono l'ebraico, più che altro esprime affetto; un po' come le interiezioni in latino: diciamo "ahi!" per esprimere dolore, "ah!" per esprimere gioia, "oh, che gran cosa!" per esprimere meraviglia. Al più "oh!" esprime un sentimento di ammirazione affettuosa. Così è per la parola ebraica "Osanna", che tale è rimasta in greco e in latino, essendo intraducibile; come quest'altra: Chi dirà "racha" a suo fratello (Mt 5, 22). La quale, come riferiscono, è una interiezione intraducibile che esprime un sentimento di indignazione.

[L'umiltà non è scapito della sua divinità.]

3. Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele. "Nel nome del Signore" sembra doversi intendere nel nome di Dio Padre, quantunque si possa intendere altresì nel nome di Cristo, dato che anch'egli è il Signore. Per questo altrove sta scritto: Il Signore fece piovere da parte del Signore (Gn 19, 24). Ma è il Signore stesso che ci aiuta a capire queste parole, quando dice: Io sono venuto nel nome del Padre mio, e non mi avete accolto; se un altro viene in nome proprio, lo accogliereste (Gv 5, 43). Maestro di umiltà è Cristo, che umiliò se stesso, fattosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (cf. Fil 2, 8). E non perde certo la divinità quando ci insegna col suo esempio l'umiltà: in quella egli è uguale al Padre, in questa è simile a noi. E in quanto è uguale al Padre ci ha creati perché esistessimo, in quanto è simile a noi ci ha redenti perché non ci perdessimo.

[Non promozione ma degnazione.]

4. La folla gli tributava questo omaggio di lode: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele. Quale atroce tormento doveva soffrire l'animo invidioso dei capi dei Giudei, nel sentire una così grande moltitudine acclamare Cristo come proprio re! Ma che cos'era mai per il Signore essere re d'Israele? Era forse una gran cosa per il re dei secoli diventare re degli uomini? Cristo non era re d'Israele per imporre tributi, per armare eserciti, per debellare clamorosamente dei nemici: egli era re d'Israele per guidare le anime, per provvedere la vita eterna, per condurre al regno dei cieli coloro che credono, che sperano, che amano. Che il Figlio di Dio quindi, uguale al Padre, il Verbo per mezzo del quale sono state create tutte le cose, abbia voluto essere re d'Israele, non fu una elevazione per lui ma un atto di condiscendenza verso di noi: fu un atto di misericordia non un accrescimento di potere. Colui infatti che in terra fu chiamato re dei Giudei, è in cielo il Signore degli angeli.

5. Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra. Qui vien narrato con grande concisione ciò che gli altri evangelisti raccontano con ricchezza di particolari (cf. Mt 21, 1-16; Mc 11, 1-11; Lc 19, 29-48). Giovanni conferma questo fatto con una testimonianza profetica, per sottolineare che i maligni capi dei Giudei non comprendevano che in lui si adempivano le profezie da essi conosciute: Gesù trovato un asinello, vi montò sopra, secondo quel che è scritto: Non temere, figlia di Sion: ecco, il tuo re viene, seduto su di un puledro d'asina (Gv 12, 14-15; Zach 9, 9). Fra quel popolo c'era la figlia di Sion (Sion è lo stesso di Gerusalemme); ripeto: in mezzo a quel popolo, cieco e riprovato, c'era tuttavia la figlia di Sion alla quale erano rivolte le parole: Non temere, figlia di Sion: ecco, il tuo re viene, seduto su di un puledro d'asina. Questa figlia di Sion, cui era rivolto l'oracolo profetico, era presente in quelle pecore che ascoltavano la voce del pastore; era presente in quella moltitudine che con tanta devozione cantava le lodi del Signore che veniva, e che lo seguiva compatta. Ad essa il profeta diceva: Non temere, cioè riconosci colui che acclami, e non temere quando lo vedrai soffrire; perché il suo sangue viene versato per cancellare il tuo peccato e ridonarti la vita. Il puledro di asina sul quale nessuno era ancora salito (è un particolare che troviamo negli altri evangelisti), simboleggia il popolo dei gentili, che ancora non avevano ricevuto la legge del Signore. E l'asina (ambedue i giumenti furono portati al Signore) simboleggia il suo popolo proveniente dalla nazione d'Israele, non certo quella parte che rimase incredula ma quella che riconobbe il presepe del Signore.

6. Sulle prime, i suoi discepoli non compresero questo, ma quando Gesù fu glorificato - cioè quando egli manifestò la potenza della sua risurrezione - si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui, e queste gli avevano tributato (Gv 12, 16), cioè non gli avevano tributato se non quanto di lui era stato scritto. Ripensando infatti alla luce delle Scritture le cose che si realizzarono tanto prima che durante la passione del Signore, si accorsero pure che egli si era seduto sul puledro dell'asina proprio come era stato predetto dal profeta.

7. La folla, che era con lui quando aveva chiamato Lazzaro dal sepolcro e lo aveva risuscitato dai morti, gli dava testimonianza. E anche perché aveva udito che egli aveva fatto questo miracolo, la folla gli andò incontro. I farisei, allora, si dissero: Vedete che non riusciamo a nulla! Ecco, il mondo gli è corso dietro (Gv 12, 17-19). La folla turbava la folla. Perché, o folla cieca, provi invidia nel vedere che il mondo va dietro a colui per mezzo del quale il mondo è stato fatto?

 

OMELIA 52

Il turbamento di Cristo.

Cristo ci ha trasferiti in sé; ha voluto provare in sé, il nostro capo, le emozioni e l'angoscia delle sue membra. Egli, il mediatore tra Dio e gli uomini, che ha suscitato in noi il desiderio delle cose supreme, ha voluto patire con noi le cose infime.

1. Dopo che il Signore Gesù Cristo, con le parole che abbiamo letto ieri, ebbe esortato coloro che lo servono a seguirlo; dopo aver predetto la sua passione dicendo che se il chicco di frumento non cade in terra e vi muore, resta solo, mentre se muore porta molto frutto (Gv 12, 24); dopo aver stimolato coloro che vogliono seguirlo nel regno dei cieli a odiare la loro anima in questo mondo per conservarla nella vita eterna; ancora una volta si mostrò condiscendente verso la nostra debolezza, pronunciando le parole con cui inizia la lettura di oggi: Ora l'anima mia è turbata (Gv 12, 27). Perché è turbata la tua anima, Signore? Poco fa hai detto: Chi odia la sua anima in questo mondo, la conserva per la vita eterna (Gv 12, 25). Vuol dire che tu ami la tua anima in questo mondo, e per questo essa è turbata vedendo avvicinarsi l'ora di uscire da questo mondo? Chi oserà affermare questo dell'anima del Signore? Gli è che lui, il nostro capo, ci ha trasferiti in sé, ci ha accolti in sé, facendo proprie le emozioni delle sue membra; e perciò non bisogna cercare fuori di lui la causa del suo turbamento: Egli stesso si turbò (Gv 11, 33), come nota l'evangelista in occasione della risurrezione di Lazzaro. Bisognava infatti che l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, così come ci sollevò alle più sublimi altezze, condividesse con noi le esperienze più umilianti.

[Dio sopra di noi, uomo per noi.]

2. L'ho sentito dire: E' venuta l'ora in cui il Figlio dell'uomo deve essere glorificato; se il chicco di frumento muore, porta molto frutto. Sento che dice: Chi odia la sua anima in questo mondo la conserverà per la vita eterna (Gv 12, 23-25). Non posso limitarmi ad ammirarlo, ma sono tenuto ad imitarlo. Poi le parole seguenti: Chi mi serve, mi segua; e dove sono io, ivi sarà anche il mio servitore (Gv 12, 26), mi infiammano a disprezzare il mondo, e tutta questa vita, per lunga che sia, mi appare un soffio e quasi nulla; e l'amore delle cose eterne svilisce quelle temporali. Tuttavia sento il medesimo mio Signore, che con quelle parole mi aveva strappato alla mia debolezza per trasferirmi nella sua forza, sento che dice: Ora l'anima mia è turbata. Che vuol dire? Come pretendi che l'anima mia ti segua, se vedo l'anima tua turbata? Come potrò io sostenere ciò che fa tremare la tua solidità? Su chi mi appoggerò se la pietra d'angolo soccombe? Mi pare di sentire nel mio animo ansioso la risposta del Signore che mi dice: Potrai seguirmi con più coraggio, poiché io mi sostituisco a te in modo che tu rimanga saldo: hai udito come tua la voce della mia potenza, ascolta in me la voce della tua debolezza; io che ti do la forza per correre, non rallento la tua corsa, ma facendo passare in me la tua angoscia ti apro il varco per farti passare. O Signore, mediatore, Dio sopra di noi, uomo per noi! riconosco la tua misericordia, perché tu così forte ti turbi volontariamente per amore, e quei molti che inevitabilmente si turbano per la loro debolezza, tu mostrando la debolezza del tuo corpo li consoli cosicché non cadano nella disperazione e periscano.

[Cristo glorificato nelle sue membra.]

3. Chi vuole seguirlo, ascolti ora per quale via bisogna seguirlo. Viene, per esempio, un momento terribile, si presenta questa alternativa: o commettere l'iniquità o subire il supplizio: l'anima debole, per la quale si turbò volontariamente l'anima invincibile del Signore, è turbata. Anteponi la volontà di Dio alla tua. Bada a ciò che ha soggiunto il tuo creatore e maestro, colui che ti fece e che per insegnare a te si è fatto egli stesso creatura. Si è fatto uomo colui che ha fatto l'uomo; ma rimanendo Dio immutabile, ha mutato in meglio l'uomo. Ascoltalo. Dopo aver detto: Ora l'anima mia è turbata, egli prosegue: E che dirò? Padre, salvami da quest'ora! Ma è per questo che sono giunto a quest'ora. Padre, glorifica il tuo nome (Gv 12, 27-28). Ti insegna cosa devi pensare, cosa devi dire, chi devi invocare, in chi sperare, e come devi anteporre la volontà divina, che è sicura, alla tua debole volontà umana. Non ti sembri perciò che egli cada dall'alto per il fatto che vuole sollevare te dal basso. Infatti si è lasciato anche tentare dal diavolo, dal quale certamente non si sarebbe fatto tentare se non avesse voluto, così come non avrebbe patito se non avesse voluto; e al diavolo rispose ciò che anche tu devi rispondere al tentatore (cf. Mt 4, 1-10). Egli certamente fu tentato ma senza pericolo alcuno, per insegnarti a rispondere al tentatore nel pericolo delle tentazioni, a non seguire il tentatore e a sfuggire il pericolo. Egli dice qui: Ora l'anima mia è turbata, così come altrove dirà: La mia anima è triste fino a morirne (Mt 26, 38); e ancora: Padre, se è possibile, passi da me questo calice (Mt 26, 39). Egli ha preso su di sé la debolezza umana, per aiutare chiunque sia come lui colto dalla tristezza e dall'angoscia, a ripetere le parole che egli soggiunge: Tuttavia si faccia non quello che voglio io ma quello che vuoi tu, Padre. E così, anteponendo la volontà divina alla volontà umana, l'uomo si eleva dall'umano al divino. Che significano le parole: Glorifica il tuo nome, se non questo: Glorificalo nella passione e nella risurrezione? Il Padre deve glorificare il Figlio, il quale a sua volta renderà glorioso il suo nome anche nelle prove dolorose somiglianti alle sue, che i suoi servi dovranno subire. Per questo fu scritto e fu detto a Pietro: Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorresti, per indicare con qual genere di morte avrebbe glorificato Dio (Gv 21, 18-19). E così in lui Dio glorifica il suo nome, perché in questo modo glorifica Cristo anche nelle sue membra.

4. Dal cielo venne allora una voce: L'ho glorificato e ancora lo glorificherò (Gv 12, 28). L'ho glorificato prima di creare il mondo, e ancora lo glorificherò quando risusciterà dai morti e ascenderà al cielo. Si può intendere anche in un altro modo: L'ho glorificato quando è nato dalla Vergine, quando operava prodigi, quando è stato adorato dai Magi guidati dalla stella, ed è stato riconosciuto dai santi pieni di Spirito Santo; quando ricevette l'attestazione dello Spirito che discese su di lui in forma di colomba, quando fu presentato dalla voce che risuonò dal cielo; quando si trasfigurò sul monte, quando compì tanti miracoli; quando guariva malati e mondava lebbrosi; quando con pochi pani nutrì tante migliaia di persone, e comandò ai venti e ai flutti, e risuscitò i morti. E ancora lo glorificherò quando risorgerà dai morti, e la morte non avrà più su di lui alcun potere, quando come Dio sarà esaltato sopra i cieli e la sua gloria si estenderà a tutta la terra.

5. La folla che stava là e aveva udito, diceva ch'era stato un tuono; altri dicevano: Un angelo gli ha parlato. Gesù riprese: Non per me è risuonata questa voce, ma per voi (Gv 12, 29-30). Fece osservare che quella voce non era per indicare a lui ciò che egli già sapeva, ma era diretta a coloro che avevano bisogno di una testimonianza. Come quella voce da parte di Dio non era risuonata per lui ma per gli altri, così la sua anima non si era volontariamente turbata per lui ma per gli altri.

6. Ascoltiamo il seguito: E' adesso - dice - il giudizio di questo mondo (Gv 12, 31). Quale giudizio dunque c'è ancora da aspettare per la fine del mondo? Il giudizio che avrà luogo alla fine del mondo sarà per giudicare i vivi e i morti, per assegnare il premio o la pena eterna. Di quale giudizio, dunque, si tratta ora? Già nelle precedenti letture ho cercato di spiegare alla vostra Carità che esiste un giudizio che non è di condanna ma di separazione, conforme a quanto dice un salmo: Giudicami, o Dio, e separa la mia causa dalla gente empia (Sal 42, 1). Imperscrutabili infatti sono i giudizi di Dio, come afferma un altro salmo: I tuoi giudizi sono abissi profondi (Sal 35, 7). E l'Apostolo esclama: O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi! (Rm 11, 33). Di tali giudizi fa parte anche questo di cui parla il Signore: E' adesso il giudizio di questo mondo: distinto da quel giudizio finale in cui definitivamente saranno giudicati i vivi e i morti. Il diavolo teneva in suo potere il genere umano e teneva soggetti i meritevoli di punizione con il chirografo dei loro peccati; egli regnava nel cuore degli infedeli e con l'inganno induceva i suoi prigionieri a rendere culto alla creatura al posto del Creatore. Ma per la fede in Cristo, fondata sulla morte e risurrezione di lui, per mezzo del suo sangue versato per la remissione dei peccati, migliaia di credenti si liberano dal dominio del diavolo e si uniscono al corpo di Cristo, e sotto un così augusto Capo le membra fedeli vengono animate da un medesimo Spirito, che è quello suo. Era di questo giudizio che intendeva parlare, di questa separazione, di questa cacciata del diavolo dai suoi redenti.

 

OMELIA 53

L'incredulità dei giudei.

Chi è talmente superbo da contare unicamente sulle risorse della sua volontà e da negare la necessità dell'aiuto divino per vivere bene, non può credere in Cristo. A nulla serve pronunciare il nome di Cristo e neppure ricevere i sacramenti di Cristo quando si fa resistenza alla fede di Cristo.

1. Dopo che il Signore preannunciò la sua passione e la sua morte feconda sulla croce, affermando che egli avrebbe attirato tutto a sé; dopo che i Giudei, comprendendo che egli alludeva alla sua morte, gli chiesero come si potesse conciliare questa morte con l'insegnamento della Scrittura, secondo cui il Cristo rimane in eterno, il Signore li esorta a profittare di quella poca luce rimasta in loro per giungere alla piena conoscenza del Cristo (quel po' di luce con cui avevano appreso che rimane in eterno), evitando così di essere sommersi dalle tenebre. Detto questo, si nascose a loro. Ecco quanto avete appreso dalle letture e dai commenti delle passate domeniche.

2. Segue il passo che oggi è stato letto: Benché Gesù avesse compiuto tanti segni in loro presenza, non credevano in lui; affinché si adempisse la parola del profeta Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra parola? e il braccio del Signore a chi è stato rivelato? (Gv 12, 37-38). Da queste parole risulta chiaramente che per braccio del Signore si intende il Figlio stesso di Dio. Non che Dio Padre possieda un corpo umano al quale il Figlio sia unito come un membro al corpo; ma è chiamato braccio del Signore, in quanto per suo mezzo tutto è stato fatto. Come tu chiami tuo braccio quello per mezzo di cui operi, così il Verbo di Dio è stato chiamato suo braccio, poiché per mezzo del Verbo ha creato il mondo. Perché l'uomo, se vuol compiere qualcosa, deve stendere il braccio, se non perché l'opera non risponde subito alla parola? Se l'uomo fosse in grado di compiere ciò che dice senza alcun movimento del corpo, la sua parola sarebbe il suo braccio. Ma il Signore Gesù, Figlio unigenito di Dio Padre, come non è un membro del corpo paterno così non è neppure una parola, che, pensata e pronunciata, passa via; perché, quando per mezzo di lui furon fatte tutte le cose, era già il Verbo di Dio.

[Il Figlio braccio del Padre.]

3. Quando, dunque, sentiamo dire che il Figlio di Dio è il braccio di Dio Padre, non ci lasciamo invischiare dall'abitudine di pensare in modo materiale; ma, per quanto ce lo consente la sua grazia, pensiamo alla forza e alla sapienza di Dio, per la quale tutto fu creato. Un tal braccio non si allunga quando si stende, né si raccorcia quando si contrae. Infatti il Figlio non è il Padre, eppure il Figlio e il Padre sono la stessa cosa; ed essendo il Figlio uguale al Padre, come il Padre è tutto dovunque. Non v'è alcun appiglio per l'errore detestabile di coloro che dicono che c'è solo il Padre, e, a seconda delle diverse operazioni, lo si chiama ora Figlio, ora Spirito Santo; e, appoggiandosi su queste parole, essi arrivano a dire: Ecco, vedete, c'è solo il Padre, se il Figlio è il suo braccio; perché l'uomo e il suo braccio non sono due persone, ma una sola. Non capiscono e non si rendono conto che anche nell'uso comune, quando si parla di cose visibili e note, si trasferiscono parole che significano una cosa a significarne un'altra, solo che esista una qualche somiglianza. Tanto più sarà lecito questo quando si tratta di esprimere in qualche maniera cose ineffabili, che assolutamente non si possono esprimere in termini propri. Così un uomo chiama suo braccio un altro uomo di cui si vale per eseguire le sue opere, e, se gli vien tolto, rammaricandosi dice: ho perduto il mio braccio; e a chi glielo ha tolto, dice: mi hai tolto il mio braccio. Intendano dunque in qual senso vien detto che il Figlio, per mezzo del quale il Padre ha creato ogni cosa, è il braccio del Padre: se non lo intenderanno e rimarranno nelle tenebre del loro errore, diventeranno simili a quei Giudei, dei quali è stato detto: E il braccio del Signore, a chi è stato rivelato?

4. Qui si presenta un altro problema; per affrontarlo in modo da scoprire e mettere in luce tutti i punti scabrosi che contiene, con la serietà che merita, credo non bastino le mie forze, né il tempo che abbiamo a disposizione, né la vostra capacità. Siccome però la vostra attesa non ci permette di passare oltre senza nemmeno un accenno, accontentatevi di ciò che riusciamo a dirvi; e se non riusciremo a soddisfare la vostra attesa, chiedete a colui che ci ha incaricati di piantare e di irrigare, la grazia di far crescere, poiché, come dice l'Apostolo: Né chi pianta è alcunché, né chi irriga, ma Dio che fa crescere (1 Cor 3, 7). Taluni mormorano tra loro, e, all'occasione, intervengono nelle discussioni in tono polemico dicendo: Che hanno fatto di male i Giudei, che colpa hanno, se era necessario che si adempisse la parola del profeta Isaia che disse: Signore, chi ha creduto alla nostra parola e il braccio del Signore a chi è stato rivelato? A costoro rispondiamo: Il Signore, che conosce il futuro, predisse per mezzo del profeta l'infedeltà dei Giudei; la predisse, non ne fu la causa. Per il fatto che Dio conosce i peccati futuri degli uomini, non costringe nessuno a peccare. Egli conosceva già, non i suoi, ma i loro peccati; non quelli d'altri, ma i loro. Infatti, se i peccati che egli previde commessi da loro non fossero stati effettivamente commessi da loro, Dio non avrebbe previsto conforme a verità. Ma siccome la sua prescienza non può cadere in errore, coloro che peccano sono proprio quelli che Dio conosceva che avrebbero peccato, non altri. Se dunque i Giudei caddero in peccato, non fu certo perché ve li spinse colui che aborre il peccato: Dio predisse che avrebbero peccato poiché a lui niente è nascosto. Se essi invece del male avessero voluto operare il bene, nessuno lo avrebbe loro impedito e ciò sarebbe stato ugualmente previsto da colui che conosce quello che ciascuno farà e quel che renderà a ciascuno secondo le opere.

5. Le parole seguenti del Vangelo sono ancor più gravi e pongono un problema ancor più complesso; l'evangelista infatti prosegue dicendo: Non potevano credere per la ragione che ancora Isaia aveva detto: Ha accecato i loro occhi e indurito il loro cuore, affinché non vedano con gli occhi e non intendano col cuore, e si convertano e io li guarisca (Gv 12, 39-40). Se non potevano credere - si dirà - che peccato commette uno che non fa ciò che non può fare? Se invece il loro peccato fu quello di non credere, vuol dire che potevano credere e non lo fecero. E se potevano credere, come mai il Vangelo dice: Non potevano credere per la ragione che ancora Isaia aveva detto: Ha accecato i loro occhi e indurito il loro cuore? Per cui - ciò che rende più spinosa la questione - la causa che impediva loro di credere risalirebbe a Dio che ha accecato i loro occhi e indurito il loro cuore. Tale effetto, infatti, secondo la testimonianza profetica della Scrittura, non viene attribuito al diavolo, ma addirittura a Dio. Ma, se anche riferissimo al diavolo l'aver accecato i loro occhi e indurito il loro cuore, non sarebbe facile dimostrare la colpevolezza di coloro che non hanno creduto, se di essi si dicesse che non potevano credere. E che dire dell'altra testimonianza del medesimo profeta, riferita dall'apostolo Paolo: Ciò che Israele cercava, non l'ha raggiunto; quelli invece che sono stati scelti, questi l'hanno raggiunto. Gli altri si sono accecati, come sta scritto: Iddio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non ascoltare fino al giorno d'oggi (Rm 11, 7; Is 6, 10)?

[Un'esclamazione di sgomento.]

6. Avete sentito, fratelli, quale questione ci si presenta, e certo vi rendete conto quanto sia profonda. Noi rispondiamo come possiamo. Non potevano credere perché il profeta Isaia lo aveva predetto, e lo aveva predetto perché Dio nella sua prescienza sapeva che ciò sarebbe avvenuto. Se mi si chiedesse poi perché "non potevano", rispondo: perché non volevano; sì, Dio previde la loro cattiva volontà, e colui al quale non può esser nascosto il futuro, lo preannunciò per mezzo del profeta. Ma il profeta - dici tu - adduce un'altra causa che non è la loro cattiva volontà. Quale causa adduce il profeta? Perché, dice, Iddio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non ascoltare, ha accecato i loro occhi e indurito il loro cuore. Rispondo dicendo che con la loro cattiva volontà essi hanno meritato anche questo. Dio acceca gli occhi e indurisce il cuore quando abbandona gli uomini e non li aiuta; il che può fare per un suo giudizio, occulto ma non ingiusto. Questo è un principio che la pietà dei fedeli deve custodire inconcusso e intangibile, come conferma l'Apostolo quando affronta questa difficilissima questione: Che diremo dunque? Che presso Dio c'è ingiustizia? Non sia mai! (Rm 9, 14). Ora, se in Dio assolutamente non ci può essere ingiustizia, dobbiamo credere che quando aiuta agisce per misericordia, e quando non aiuta agisce con giustizia, perché non opera temerariamente ma con retto giudizio. Che se i giudizi dei santi sono giusti, tanto più lo sono quelli di Dio che santifica e giustifica: sono certamente giusti, ma occulti. Pertanto, quando si presentano problemi come questi: perché uno è trattato in un modo e un altro in modo diverso, perché Dio acceca uno abbandonandolo e illumina un altro soccorrendolo con la sua grazia; non mettiamoci a sindacare il giudizio di un giudice così grande, ma pieni di sacro terrore con l'Apostolo esclamiamo: O profondità della ricchezza, della sapienza e scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie! (Rm 11, 33). I tuoi giudizi - dice il salmo - sono un abisso insondabile (Sal 35, 7).

7. Non si costringa dunque l'attesa della vostra Carità, o fratelli, a penetrare in questa profondità, a scrutare questo abisso, ad esplorare ciò che è ininvestigabile. Riconosco i miei limiti, e credo di conoscere anche i vostri. E' un problema che supera di molto la mia statura, che è al di là delle mie forze, e credo anche delle vostre. Ascoltiamo dunque insieme l'ammonimento della Scrittura: Non cercare cose che sono troppo alte per te, e non ti occupare di cose che superano le tue forze (Sir 3, 22). Non che la conoscenza di questi misteri ci sia negata, dato che Dio, nostro maestro, ci dice che non c'è nulla di occulto che non sarà svelato (Mt 10, 26); ma se proseguiamo il cammino intrapreso, come dice l'Apostolo, Dio non solo ci rivelerà ciò che ignoriamo e che pure dobbiamo sapere, ma altresì ciò che noi non abbiamo inteso rettamente (cf. Fil 3, 15-16). Il cammino che abbiamo intrapreso è il cammino della fede: perseveriamo fermamente in essa e ci introdurrà nei segreti del Re, dove sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (cf. Col 2, 3). Non era certo per invidia che il Signore Gesù Cristo diceva ai suoi grandi e particolarmente eletti discepoli: Ho ancora molte cose da dirvi, ma adesso non siete in condizione di portarle (Gv 16, 12). Dobbiamo camminare, progredire, crescere, affinché i nostri cuori diventino capaci di contenere quelle cose che adesso non siamo in grado di accogliere. E se l'ultimo giorno ci troverà in cammino, conosceremo lassù ciò che qui non siamo riusciti a conoscere.

[Libertà e grazia.]

8. Se poi c'è qualcuno che si sente di poter spiegare in modo migliore e più chiaro questo problema, ebbene senza dubbio io sono più disposto ad imparare che ad insegnare. Solo, però, stia attento a non difendere così accanitamente il libero arbitrio da essere costretto a sopprimere l'orazione, nella quale diciamo: Non c'indurre in tentazione (Mt 6, 13), e, d'altra parte, stia attento a non negare la libera volontà al punto da scusare il peccato. Ascoltiamo il Signore, che comanda e aiuta: comanda ciò che dobbiamo fare e ci aiuta affinché possiamo farlo. Perché ci sono alcuni che la troppa fiducia nella loro volontà leva in superbia, e altri che la troppa diffidenza per la loro volontà porta alla negligenza. I primi dicono: Perché dobbiamo rivolgerci a Dio per vincere la tentazione se questo dipende da noi? Gli altri dicono: Perché dobbiamo sforzarci di vivere bene se questo dipende da Dio? O Signore, o Padre che sei nei cieli, non c'indurre in nessuna di queste tentazioni, ma liberaci dal male. Ascoltiamo il Signore che dice: Io ho pregato per te, o Pietro, affinché non venga meno la tua fede (Lc 22, 32); e non pensiamo che la nostra fede dipenda talmente dal nostro libero arbitrio da non aver bisogno dell'aiuto divino. Ascoltiamo altresì l'evangelista che dice: Diede loro il potere di diventare figli di Dio (Gv 1, 12), ma d'altra parte non pensiamo che non dipenda in alcun modo da noi il credere; in un caso come nell'altro riconosciamo l'intervento della grazia di Dio. Dobbiamo infatti rendere grazie perché ci è stato concesso questo potere, e dobbiamo pregare perché la nostra debolezza non soccomba (cf. Gal 5, 6). E' questa la fede che opera mediante l'amore, secondo la misura che il Signore ha assegnato a ciascuno (cf. Rm 12, 3), affinché chi si gloria, non si glori in se stesso ma nel Signore (cf. 1 Cor 1, 31).

 

OMELIA 54

Cristo rivelatore del Padre.

Ha suscitato in noi un forte desiderio di penetrare nella sua intimità. E' necessario crescere per capire, e per crescere bisogna camminare, e camminare vuol dire progredire finché si arriva.

1. In seguito alle parole che nostro Signore Gesù Cristo pronunciò e ai tanti segni prodigiosi che egli compì, alcuni tra i Giudei, che erano predestinati alla vita eterna e che egli chiamò sue pecore, credettero; altri invece non credettero, né potevano credere per il fatto che, secondo un occulto ma non ingiusto giudizio di Dio, erano stati accecati e induriti, essendo stati abbandonati da colui che resiste ai superbi mentre dà la sua grazia agli umili (cf. Gc 4, 6). Di quelli poi che avevano creduto, alcuni lo confessavano al punto da andargli incontro con rami di palme, accogliendolo con lodi e canti di gioia; altri invece, anche tra i notabili, non osavano dichiararsi, per non essere scacciati dalla sinagoga; e sono questi che l'evangelista ha bollato dicendo che preferivano la gloria degli uomini alla gloria di Dio (Gv 12, 43). Anche tra quelli che non avevano creduto ve n'erano alcuni che avrebbero creduto in seguito, e questi il Signore li aveva già presenti quando disse: Allorché avrete levato in alto il Figlio dell'uomo, allora conoscerete che io sono (Gv 8, 28); altri invece sarebbero rimasti nella loro incredulità, nella quale hanno imitatori i Giudei di oggi la cui nazione, dopo essere stata annientata a conferma delle profezie riguardanti il Cristo, è stata dispersa in quasi tutto il mondo.

[Non si può credere nel Padre senza credere nel Figlio.]

2. In tale situazione, e nell'imminenza ormai della sua passione, Gesù gridò e disse - così è cominciata la lettura di oggi -: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; e chi vede me, vede colui che mi ha mandato (Gv 12, 44-45). Già in altra occasione aveva detto: La mia dottrina non è mia ma di colui che mi ha mandato (Gv 7, 16). Parole che noi abbiamo interpretato nel senso che per sua dottrina intendeva il Verbo del Padre, che è egli stesso, e che dicendo La mia dottrina non è mia ma di colui che mi ha mandato, voleva far capire che egli non procedeva da se stesso, ma aveva origine da un altro: Dio da Dio, Figlio del Padre; il Padre invece non è Dio da Dio, ma Dio Padre del Figlio. E come dobbiamo intendere queste sue parole: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato, se non nel senso che egli appariva agli uomini come uomo, mentre rimaneva occulto come Dio? E affinché non credessero che egli era soltanto ciò che essi vedevano, e volendo esser creduto tale e quale il Padre, chi crede in me - dice - non crede in me, cioè in quello che vede, ma in colui che mi ha mandato, cioè nel Padre. Ma chi crede nel Padre dovrà necessariamente credere che egli è Padre; e chi crede che egli è Padre di conseguenza ammette che ha un Figlio; quindi chi crede nel Padre, necessariamente dovrà credere anche nel Figlio. Ma qualcuno potrebbe ritenere che il Figlio unigenito è chiamato Figlio di Dio alla maniera di quanti sono chiamati figli di Dio per grazia, non per natura, secondo che dice l'evangelista: ha dato loro il potere di diventare figli di Dio (Gv 1, 12), e dei quali il Signore stesso, citando la testimonianza della legge, dice: Chi crede in me, non crede in me, affinché non si creda in Cristo solamente come uomo. Crede dunque in me - egli sembra affermare - chi non crede in me secondo ciò che vede di me, ma crede in colui che mi ha mandato; e così, credendo nel Padre, creda anche che egli ha un Figlio uguale a se stesso e perciò creda veramente in me. Infatti chi pensa che il Padre abbia soltanto figli secondo la grazia, figli che sono sue creature, che non sono il Verbo ma che per mezzo del Verbo furono create; chi pensa che il Padre non abbia un Figlio a lui uguale e con lui coeterno, nato da sempre, ugualmente immutabile, in nessuna cosa dissimile e inferiore; chi pensa così non crede nel Padre che lo ha mandato, perché ciò che pensa non corrisponde al Padre che lo ha inviato.

3. Perciò dopo aver detto: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato, affinché non si pensasse che voleva presentare il Padre come Padre dei molti figli rigenerati per grazia, e non del Verbo unico ed uguale a sé, aggiunge subito: E chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Dice forse: Chi vede me, non vede me ma colui che mi ha mandato, come prima aveva detto: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato? Si era espresso così per non essere creduto soltanto Figlio dell'uomo, come appariva; ora invece si esprime in quest'altro modo per essere creduto uguale al Padre. E così dice: Chi crede in me, non crede a ciò che vede di me, ma crede in colui che mi ha mandato. O meglio, quando crede nel Padre che mi ha generato uguale a sé, deve credere in me non secondo ciò che vede di me, ma come in colui che mi ha mandato; e a tal punto non c'è differenza tra me e lui, che chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Certamente Cristo Signore inviò i suoi Apostoli, come lo indica il loro stesso nome: infatti, come in greco sono chiamati angeli coloro che in latino si chiamano messaggeri, la parola greca apostoli si traduce in latino con inviati. Tuttavia, mai nessun apostolo oserebbe dire: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha inviato; in nessun modo potrebbe dire: chi crede in me. Noi crediamo all'apostolo, ma non crediamo nell'apostolo; poiché l'apostolo non giustifica l'empio. E' a colui che crede in chi giustifica l'empio che la fede viene computata in giustizia (cf. Rm 4, 5). L'apostolo potrà dire: Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato; oppure: Chi ascolta me, ascolta colui che mi ha mandato; è questo infatti che il Signore disse agli Apostoli: Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato (Mt 10, 40). Infatti il signore viene onorato nel servo e il padre nel figlio; ma il padre come presente nel figlio e il signore nel servo. Il Figlio unigenito invece ha potuto dire: Credete in Dio, e credete in me (Gv 14, 1); e come dice ora: Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato. Dicendo così non allontana da sé la fede dei credenti, ma vuole che il credente non si limiti alla sua forma di servo; infatti se uno crede nel Padre che lo ha mandato, senza dubbio crede anche nel Figlio, in quanto sa che il Padre non è senza il Figlio, e crede in lui come uguale al Padre, secondo quanto segue: E chi vede me, vede colui che mi ha mandato.

4. Proseguiamo: Io sono venuto nel mondo per essere la luce, affinché chiunque crede in me, non resti nelle tenebre (Gv 12, 46). In altra occasione egli disse ai suoi discepoli: Voi siete la luce del mondo. Una città non può star nascosta se è situata su di un monte; né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e risplende per tutti quelli che sono in casa. Similmente risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre che è nei cieli (Mt 5, 14-16). Non disse ai discepoli: Voi come luce siete venuti nel mondo, affinché chiunque crede in voi non resti nelle tenebre. Posso garantire che questo non si trova in nessuna parte del Vangelo. Sì, è vero, tutti i santi sono luci, ma in quanto vengono illuminati da lui mediante la fede: se si allontanassero da lui cadrebbero nelle tenebre. La luce, invece, da cui essi sono illuminati, non può allontanarsi da se medesima, perché essa è assolutamente indefettibile. Noi crediamo quindi alla luce illuminata, come è il profeta e come è l'apostolo. Crediamo a lui, cioè al profeta e all'apostolo, ma non in lui che viene illuminato. Con lui crediamo in quella luce che lo illumina, in modo da essere anche noi illuminati, non dal profeta o dall'apostolo, ma, insieme al profeta e all'apostolo, dalla luce che li illumina. Però dicendo: affinché chiunque crede in me non resti nelle tenebre, il Signore esplicitamente dichiara che ha trovato tutti nelle tenebre; e per non rimanere nelle tenebre in cui sono stati trovati, essi debbono credere nella luce che è venuta nel mondo, poiché è per mezzo di essa che il mondo è stato creato.

[Misericordia e giustizia.]

5. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo giudico (Gv 12, 47). Penso che ricordiate quanto avete ascoltato nelle precedenti letture; e chi l'avesse dimenticato, lo richiami alla memoria; e se mai allora eravate assenti, ma ora siete presenti, ascoltate come si esprime il Figlio. Egli dice: Io non lo giudico. In un'altra occasione aveva detto: Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio (Gv 5, 22), mentre qui dice: "ora non giudico". Perché non giudica ora? Attenzione a ciò che segue: Perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo (Gv 12, 47), cioè per rendere salvo il mondo. Ora è infatti il tempo della misericordia, poi verrà quello del giudizio, poiché io canterò la tua misericordia e il tuo giudizio, o Signore (Sal 100, 1).

6. Ma notate anche cosa dice del medesimo giudizio futuro: Chi rigetta me e non accetta le mie parole, ha chi lo giudica: la parola che ho annunciato, quella lo giudicherà nell'ultimo giorno (Gv 12, 48). Non dice: Chi rigetta me e non accetta le mie parole, io non lo giudicherò nell'ultimo giorno. Se avesse detto questo, evidentemente avrebbe contraddetto la sua precedente affermazione: Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio. Siccome però ha detto: Chi rigetta me e non accetta le mie parole ha chi lo giudica, per chi aspettava di capire chi fosse questo giudice, ha aggiunto: La parola che ho annunciato, quella lo giudicherà nell'ultimo giorno, facendo capire abbastanza chiaramente che sarà egli stesso a giudicare nell'ultimo giorno. Quindi ha parlato di sé, si è annunciato, ha posto se stesso come porta per la quale egli stesso, come pastore, entra nell'ovile delle pecore. E così quelli che non lo hanno ascoltato saranno giudicati in un modo, e quelli che lo hanno ascoltato e hanno disprezzato la sua parola, in un altro. Quanti infatti hanno peccato senza la legge - dice l'Apostolo -, senza legge pure periranno; quanti invece hanno peccato avendo la legge, per mezzo della legge saranno giudicati (Rm 2, 12).

[Il Verbo rivela la volontà del Padre.]

7. Perché io - dice - non ho parlato da me (Gv 12, 49). Dice che non ha parlato da se stesso, appunto perché egli non è da se stesso. Una cosa, questa, che vi abbiamo detto più volte, e consideriamo a voi troppo nota per doverla insegnare; ma vogliamo solo ricordarvela. Ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso, mi ha prescritto ciò che dovevo dire e annunciare (Gv 12, 49). Non ci preoccuperemmo se sapessimo di parlare alle stesse persone che ci hanno ascoltato precedentemente, e ricordano ciò che hanno ascoltato; ci saranno però alcuni che non ci hanno ascoltato, e nelle stesse condizioni si trovano quelli che hanno dimenticato; per amore di questi, quanti ricordano abbiano pazienza se ci soffermiamo alquanto. In che modo il Padre esprime la sua volontà al suo unico Figlio? Di quale parola si serve per parlare al Verbo se lo stesso Figlio è il Verbo unico de] Padre? Forse gli parla per mezzo di un angelo? Ma è per mezzo del Verbo che sono stati creati gli angeli. Forse per mezzo di una nube? Ma quando si rivolse così al Figlio, non fu per lui che si fece sentire quella voce - come egli stesso ebbe a dire - ma perché fosse udita dagli altri. Forse per mezzo di un suono articolato dalle labbra? Ma Dio non ha corpo e tra il Padre e il Figlio non vi è spazio occupato da aria che vibri e faccia giungere la voce all'orecchio. Non sia mai che immaginiamo simili cose di questa sostanza incorporea ed ineffabile. Il Figlio unico è il Verbo del Padre e la Sapienza del Padre, nella quale sono contenuti tutti gli ordini del Padre. Non ci fu mai un tempo in cui il Figlio ignorasse gli ordini del Padre, da dover avere in un determinato momento ciò che prima non aveva. Quanto ha lo ha ricevuto dal Padre con la nascita, in quanto il Padre glielo ha comunicato generandolo. Egli è la vita, e ha ricevuto la vita nascendo, non esistendo prima senza vita. Anche il Padre ha la vita, ed è ciò che ha: e tuttavia egli non l'ha ricevuta, in quanto non ha origine da nessuno. Il Figlio invece ha ricevuto la vita, avendogliela comunicata il Padre dal quale ha origine. Ed egli stesso è ciò che ha: ha la vita ed è la vita. Ascolta ciò che dice: Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato al Figlio d'aver la vita in se stesso (Gv 5, 26). Forse ha dato la vita ad uno che già esisteva e non l'aveva? No, ma colui che ha generato la vita gliel'ha comunicata nell'atto di generarlo, sicché la vita ha generato la vita. E siccome ha generato una vita identica, non diversa, perciò il Figlio dice: Come il Padre ha in se stesso la vita, così ha dato al Figlio d'aver la vita in se stesso. Gli ha dato la vita, perché, generando la vita, che cosa gli ha dato se non di essere la vita stessa? E poiché la sua nascita è eterna, sempre è esistito il Figlio che è la vita e non è mai stato senza vita; e siccome la sua nascita è eterna, colui che è nato è la vita eterna. Allo stesso modo il Padre non ha dato un comandamento che il Figlio non avesse; ma, come ho detto, nella sapienza del Padre, cioè nel Verbo del Padre, sono contenuti tutti i comandamenti del Padre. Il Signore dice che questo comandamento gli è stato dato, perché colui al quale fu dato non è da sé: dare al Figlio una cosa senza della quale egli non è mai esistito, è lo stesso che generare il Figlio che sempre è esistito.

8. E continua: E io so che il suo comandamento è vita eterna (Gv 12, 50). Se dunque il Figlio stesso è la vita eterna e il comandamento del Padre è vita eterna, che altro ha voluto dire se non che egli stesso, il Figlio, è il comandamento del Padre? Sicché quando aggiunge: Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me (Gv 12, 50), non dobbiamo prendere l'espressione le ha dette a me nel senso che il Padre abbia detto delle parole all'unico suo Verbo, come se il Verbo di Dio avesse bisogno di parole di Dio. Il Padre dunque ha parlato al Figlio, così come ha dato la vita al Figlio; non gli ha detto qualcosa che non sapesse o che non avesse, ma gli ha detto e gli ha dato ciò che il Figlio stesso è. Che significa perciò la frase: io dico ciò che il Padre mi ha detto, se non questo: io dico ciò che è vero? Allo stesso modo che il Padre glielo ha detto in quanto è verace, così il Figlio a sua volta lo dice in quanto è verità. Colui che è verace ha generato la verità. E che aveva da dire ancora alla verità? Non era infatti una verità imperfetta da aver bisogno di altra verità. Il Padre, dunque, ha parlato alla verità nel senso che ha generato la verità. A sua volta la verità parla così come le è stato detto, e solo a chi è in grado di intendere rivela la sua origine. Perché gli uomini credessero ciò che ancora non riuscivano a comprendere sono risuonate le parole su una bocca di carne, disperdendosi: attraverso l'aria hanno fatto sentire il loro suono scandito nel tempo. Ma al contrario le cose di cui i suoni erano segno, sono passate nella memoria di quanti hanno udito, e, mediante la scrittura che è un segno visibile, sono pervenute fino a noi. Non è in questo modo che parla la verità: essa parla interiormente alla mente che intende, istruendola senza bisogno di suoni, inondandola di luce spirituale. Chi riesce a vedere in questa luce l'eterna sua nascita, può intendere quella parola che il Padre ha rivolto al Figlio, per dirgli ciò che voleva rivelare a noi. Egli ha acceso in noi un ardente desiderio della sua intima dolcezza: ma è crescendo che diventiamo capaci d'intendere, ed è camminando che cresciamo, ed è progredendo che camminiamo in modo da raggiungere la meta.

 

OMELIA 55

Li amò sino alla fine.

Cristo stesso è il fine: non in senso di arresto ma di compimento: fine in senso di meta, non in senso di morte. E così Cristo, che si è immolato, è la nostra Pasqua, perché in lui si compie il nostro "passaggio".

1. La cena del Signore narrata da Giovanni merita di essere col suo aiuto spiegata e commentata con particolare cura. Noi cercheremo di farlo secondo la capacità che il Signore stesso ci avrà concesso. Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13, 1). Pasqua, fratelli, non è, come alcuni ritengono, una parola greca, ma ebraica; ma è sorprendente la coincidenza di significato nelle due lingue. Patire, in greco, si dice , per cui si è creduto che Pasqua volesse dire Passione, come se questa parola derivasse appunto da patire; mentre nella sua lingua, l'ebraico, Pasqua vuol dire "passaggio", per la ragione che il popolo di Dio celebrò la Pasqua per la prima volta allorché, fuggendo dall'Egitto, passò il Mar Rosso (cf. Es 14, 29). Ora però quella figura profetica ha trovato il suo reale compimento, quando il Cristo come pecora viene immolato (cf. Is 3, 7), e noi, segnate le nostre porte col suo sangue, segnate cioè le nostre fronti col segno della croce, veniamo liberati dalla perdizione di questo mondo come lo furono gli Ebrei dalla schiavitù e dall'eccidio in Egitto (cf. Es 12, 23); e celebriamo un passaggio sommamente salutare, quando passiamo dal diavolo a Cristo, dall'instabilità di questo mondo al solidissimo suo regno. E per non passare con questo mondo transitorio, passiamo a Dio che permane in eterno. Innalzando lodi a Dio per questa grazia che ci è stata concessa, l'Apostolo dice: Egli ci ha strappati al potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio dell'amor suo (Col 1, 13). Sicché, interpretando la parola Pasqua, che, come si è detto, in latino si traduce "passaggio", il santo evangelista dice: Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre. Ecco la Pasqua, ecco il passaggio! Passaggio da che, e a che cosa? Da questo mondo al Padre. Nel Capo è stata data alle membra la speranza certa di poterlo seguire nel suo passaggio. Che sarà dunque degli infedeli e di tutti coloro che sono estranei a questo Capo e al suo corpo? Non passano forse anch'essi, dal momento che non rimangono qui? Passano, sì, anch'essi; ma una cosa è passare dal mondo e un'altra è passare col mondo, una cosa passare al Padre e un'altra passare al nemico. Anche gli Egiziani infatti passarono il mare, ma non lo attraversarono per giungere al regno, bensì per trovare nel mare la morte.

[L'amore lo condusse alla morte.]

2. Dunque, sapendo Gesù che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Sì, li amò perché anch'essi, da questo mondo dove si trovavano, passassero, in virtù del suo amore, al loro Capo che da qui era passato. Che significa infatti sino alla fine se non fino a Cristo? Cristo - dice l'Apostolo - è il fine di tutta la legge, a giustizia di ognuno che crede (Rm 10, 4). Cristo è il fine che perfeziona, non la fine che consuma; è il fine che dobbiamo raggiungere, non la fine che corrisponde alla morte. E' in questo senso che bisogna intendere l'affermazione dell'Apostolo: La nostra Pasqua è Cristo che è stato immolato (1 Cor 5, 7). Egli è il nostro fine, e in lui si compie il nostro passaggio. Mi rendo conto che questa frase del Vangelo può anche essere interpretata in senso umano, nel senso cioè che Cristo amò i suoi fino alla morte, credendo che questo sia il significato dell'espressione: li amò sino alla fine. Questa è un'opinione umana, non divina: non si può dire infatti che ci amò solo fino a questo punto colui che ci ama sempre e senza fine. Lungi da noi pensare che con la morte abbia finito di amarci colui che non è finito con la morte. Se perfino quel ricco superbo ed empio anche dopo la morte continuò ad amare i suoi cinque fratelli (cf. Lc 16, 27-28), si potrà pensare che Cristo ci abbia amato soltanto fino alla morte? No, o carissimi, non sarebbe, col suo amore, arrivato fino alla morte, se poi con la morte fosse finito il suo amore per noi. Forse l'espressione li amò sino alla fine va intesa nel senso che li amò tanto da morire per loro, secondo la sua stessa dichiarazione: Non c'è amore più grande, che dare la vita per i propri amici (Gv 15, 13). L'espressione dunque li amò sino alla fine, può avere questo senso: fu proprio l'amore a condurlo alla morte.

3. E fatta la cena, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, il proposito di tradirlo, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava, Gesù si leva da mensa, depone le vesti, prende un panno e se ne cinge. Poi, versa acqua nel catino e si mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si era cinto (Gv 13, 2-5). Non dobbiamo intendere quel "fatta la cena" nel senso che la cena fosse già consumata e terminata; si cenava ancora, quando il Signore si alzò e lavò i piedi ai discepoli. Di fatti poi si rimise a tavola, e più tardi porse il boccone al suo traditore; sicché la cena non era ancora terminata, se in tavola c'era ancora del pane. Fatta la cena vuol dire che essa era pronta ed era in tavola per essere consumata dai commensali.

[Giuda venditore del Redentore.]

4. Ma continuiamo: Quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, il proposito di tradirlo. Forse domandi che cosa era stato messo in cuore a Giuda; appunto questo: il proposito di tradirlo. Si tratta di una suggestione spirituale, che non avviene attraverso l'orecchio ma attraverso il pensiero, e quindi non materialmente ma spiritualmente. Infatti ciò che si dice spirituale, non sempre si deve intendere in senso positivo. L'Apostolo ci parla di spiriti del male che abitano nelle regioni celesti, contro i quali noi, dice, siamo in lotta (cf. Ef 6, 12); e non vi sarebbero influssi spirituali malefici se non esistessero spiriti maligni. Il termine spirituale deriva infatti da spirito. Ma chi può dire come avviene questo fenomeno, che le suggestioni diaboliche possono penetrare in fondo al cuore umano e mescolarsi ai suoi pensieri, tanto che l'uomo è indotto a considerarle proprie? Non v'è dubbio che anche le buone suggestioni, derivanti dallo spirito buono, seguono una via altrettanto segreta e spirituale. L'importante è il consenso che la coscienza darà a quelle buone o a quelle cattive, alle prime se soccorsa dall'aiuto divino, alle seconde se privata per sua colpa del medesimo aiuto. Il diavolo aveva dunque già operato nel cuore di Giuda istigando il discepolo a tradire il Maestro, non avendo Giuda saputo riconoscere Dio in lui. Giuda era andato alla cena col proposito di spiare il Pastore, di insidiare il Salvatore, di vendere il Redentore. Con tale animo si era presentato alla cena: Gesù vedeva e tollerava, e Giuda credeva di poter nascondere le sue intenzioni, ingannandosi sul conto di colui che voleva ingannare. Frattanto Gesù, che ben leggeva nel cuore di Giuda, a sua insaputa si serviva di lui per i propri disegni.

5. Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani. Quindi anche il traditore stesso. Se infatti non avesse avuto in mano anche lui, non avrebbe potuto servirsene come voleva. Il traditore quindi era già stato consegnato nelle mani di colui che egli intendeva tradire; così col tradimento si accingeva a compiere un male che, a sua insaputa, si sarebbe convertito in bene ad opera della stessa vittima del suo tradimento. Il Signore infatti sapeva molto bene che cosa doveva fare per gli amici, egli che pazientemente si serviva dei nemici; e il Padre gli aveva dato in mano tutte le cose, in modo che si servisse di quelle cattive per mandare ad effetto quelle buone. Inoltre sapeva che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava, e come non aveva lasciato Dio quando da Dio era venuto a noi, così non avrebbe lasciato noi, quando sarebbe tornato a Dio.

6. Sapendo dunque tutte queste cose, si alza da tavola, depone le vesti, prende un panno e se ne cinge. Poi, versa acqua nel catino e si mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si era cinto. Dobbiamo, o carissimi, considerare diligentemente l'intenzione dell'evangelista. Accingendosi a parlare della profonda umiltà del Signore, ha voluto prima richiamare la nostra attenzione alla sua grandezza. E' per questo che dice: Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava. Avendogli dunque il Padre dato tutto nelle mani, egli si mette a lavare, non le mani ma i piedi dei discepoli: pur sapendo di essere venuto da Dio e di tornare a Dio, compie l'ufficio non di Dio Signore ma di uomo servo. Era con l'intenzione di sottolineare l'umiltà di Cristo che l'evangelista ha voluto parlare prima del suo traditore, che era venuto avendo già quel proposito ben conosciuto dal Signore; e questo particolare mostra come il Signore sia giunto al massimo dell'umiltà, non disdegnando di lavare i piedi a colui le cui mani già vedeva impegnate in sì grande delitto.

[La sua passione per la nostra purificazione.]

7. Ma perché meravigliarsi che si sia alzato da tavola e abbia deposto le vesti colui che, essendo nella forma di Dio, annientò se stesso? E che meraviglia se prese un panno, e se ne cinse, colui che prendendo la forma di servo è stato trovato come un uomo qualsiasi nell'aspetto esterno (cf. Fil 2, 6-7)? Che meraviglia se versò acqua nel catino per lavare i piedi dei discepoli colui che versò il suo sangue per lavare le sozzure dei peccati? Che meraviglia se col panno di cui si era cinto asciugò i piedi, dopo averli lavati, colui che con la carne di cui si era rivestito sostenne il cammino degli Evangelisti? Per cingersi di un panno depose le vesti che aveva; mentre, per prendere la forma di servo, quando annientò se stesso, non depose la forma che aveva ma soltanto prese quella che non aveva. Si sa, che per esser crocifisso fu spogliato delle sue vesti e, morto, fu avvolto in un lenzuolo; e tutta la sua passione è la nostra purificazione. Nell'imminenza quindi della passione e della morte, ha voluto rendere questo servizio, non solo a quelli per i quali stava per morire, ma anche a colui che lo avrebbe tradito per farlo morire. Tanto importante è per l'uomo l'umiltà, che la divina maestà ha voluto raccomandarla anche con il suo esempio. L'uomo superbo si sarebbe perduto per sempre, se Dio non fosse venuto a cercarlo umiliandosi. E' venuto infatti il Figlio dell'uomo a cercare e a salvare ciò che era perduto (Lc 19, 10). L'uomo si era perduto per aver seguito la superbia del tentatore; segua dunque, ora che è stato ritrovato, l'umiltà del Redentore.

 

OMELIA 56

La lavanda dei piedi.

Sempre ci lava i piedi, colui che sempre intercede per noi; e ogni giorno abbiamo bisogno di lavarci i piedi, cioè di dirigere i nostri passi sulla via della salvezza.

1. Essendosi messo a lavare i piedi dei discepoli, il Signore venne a Simon Pietro, il quale gli dice: Signore, tu lavare i piedi a me? (Gv 13, 6). Chi non si spaventerebbe nel vedersi lavare i piedi dal Figlio di Dio? Sebbene sia segno di temeraria audacia per il servo contraddire il Signore, per l'uomo opporsi a Dio, tuttavia Pietro preferì questo piuttosto che lasciarsi lavare i piedi dal suo Signore e Dio. Né dobbiamo credere che Pietro sia stato il solo a spaventarsi e a rifiutare il gesto del Signore, quasi che gli altri, prima di lui, avessero accettato volentieri e senza scomporsi quel servizio. Le parole del Vangelo, veramente, si lascerebbero più facilmente intendere nel senso che Gesù comincia a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno di cui si era cinto, e subito dopo viene a Simon Pietro, facendo supporre che il Signore avesse già lavato i piedi a qualcuno, e che, dopo, fosse arrivato al "primo" degli Apostoli. Chi non sa infatti che il beatissimo Pietro era il primo degli Apostoli? In realtà non è da pensare che sia arrivato a lui dopo aver lavato i piedi ad altri, ma che abbia cominciato da lui. Quando, dunque, cominciò a lavare i piedi dei discepoli, si appressò a colui dal quale doveva cominciare, cioè a Pietro; e allora Pietro rimase senza fiato, come sarebbe rimasto senza fiato qualsiasi altro di loro, e disse: Signore, tu lavare i piedi a me? Tu? A me? E' meglio meditare che tentare di spiegare queste parole, nel timore che la lingua sia incapace di esprimere quanto l'anima è riuscita a concepire.

[La protesta di Pietro.]

2. Ma Gesù risponde, e gli dice: Ciò che io faccio, tu adesso non lo comprendi: lo comprenderai dopo. E tuttavia, sgomento per l'altezza di quel gesto del Signore, Pietro non lascia fare ciò di cui ancora non comprende il motivo: ancora non accetta, ancora non tollera che Cristo si umili ai suoi piedi. Non mi laverai - gli dice - i piedi in eterno. Che significa in eterno? Significa: mai accetterò, mai sopporterò, mai permetterò una cosa simile. Si dice infatti che una cosa non accadrà in eterno se non accadrà mai. Allora il Salvatore vince la riluttanza del malato spaventandolo col pericolo che corre la sua salute. Gli risponde: Se non ti laverò, non avrai parte con me. Gli dice: Se non ti laverò, pur trattandosi soltanto dei piedi, così come si usa dire: "mi calpesti", quando soltanto i piedi vengono calpestati. Ma Pietro combattuto fra l'amore e il timore, spaventato più all'idea di perdere Cristo che di vederselo umiliato ai suoi piedi, Signore - dice - non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo! (Gv 13, 7-9). Cioè, davanti a questa minaccia, io ti do da lavare tutte le mie membra; non solo non ti sottraggo più quelle inferiori, ma ti presento altresì quelle superiori. Purché tu non mi rifiuti di aver parte con te, non ti rifiuto nessuna parte del mio corpo che tu voglia lavare.

3. Gli risponde Gesù: Chi si è lavato, non ha bisogno che di lavarsi i piedi; ed è tutto mondo (Gv 13, 10). Può darsi che qualcuno colpito, si domandi: Se è del tutto mondo, che bisogno ha di lavarsi i piedi? Il Signore però sapeva quel che diceva, anche se la nostra debolezza non riesce a penetrare i suoi segreti. Tuttavia, nella misura che egli si degna istruirci ed educarci con la sua legge, per quel poco che mi è dato di capire e di esprimere, tenterò con il suo aiuto, di dare una risposta a questo problema profondo. Anzitutto non mi è difficile dimostrare che nelle parole del Signore non vi sono contraddizioni. Non si può forse dire, parlando correttamente, che uno è del tutto mondo eccetto che nei piedi? Sarebbe più elegante dire: è del tutto mondo, ma non i piedi; il che è lo stesso. E' questo che il Signore dice: Non ha bisogno che di lavarsi i piedi, perché è del tutto mondo. Vale a dire: è interamente pulito, eccetto i piedi, oppure: ha bisogno di lavarsi soltanto i piedi.

4. Ma perché questa frase? che vuol dire? e perché è necessario ricercarne il significato? E' il Signore che così si esprime, è la verità che parla: anche chi è pulito ha bisogno di lavarsi i piedi. A che cosa vi fa pensare, fratelli miei? A che cosa se non a questo, che l'uomo nel santo battesimo è lavato tutto intero compresi i piedi, tutto completamente; ma siccome poi deve vivere nella condizione umana, non può fare a meno di calcare con i piedi la terra? Gli stessi affetti umani, di cui non si può fare a meno in questa vita mortale, sono come i piedi con cui ci mescoliamo alle cose terrene; talmente che, se ci dicessimo immuni dal peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi (cf. 1 Io 1, 8). Ogni giorno ci lava i piedi colui che intercede per noi (cf. Rm 8, 34); e ogni giorno noi abbiamo bisogno di lavarci i piedi, cioè di raddrizzare i nostri passi sulla via dello spirito, come confessiamo quando nell'orazione del Signore diciamo: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6, 12). Se infatti - come sta scritto - confessiamo i nostri peccati, colui che lavò i piedi ai suoi discepoli senza dubbio è fedele e giusto da rimetterceli e purificarci da ogni iniquità (1 Io 1, 9), cioè da purificarci anche i piedi con cui camminiamo sulla terra.

[Cristo purifica la sua Chiesa.]

5. La Chiesa dunque, che Cristo purifica con il lavacro dell'acqua mediante la parola, è senza macchia e senza rughe (cf. Ef 5, 26-27) in coloro che subito dopo il lavacro di rigenerazione vengono sottratti al contagio di questa vita, cosicché, non calpestando la terra, non hanno bisogno di lavarsi i piedi; non solo: lo è pure in coloro ai quali la misericordia del Signore ha concesso di emigrare da questo mondo anche con i piedi lavati. Ma anche ammesso che la Chiesa sia pura in coloro che dimorando in terra vivono degnamente, questi tuttavia hanno bisogno di lavarsi i piedi, non essendo del tutto senza peccato. Perciò il Cantico dei Cantici dice: Mi son lavati i piedi; dovrò ancora sporcarmeli? (Ct 5, 3). La Sposa dice così in quanto, per raggiungere Cristo, deve camminare sulla terra. Si presenta qui un'altra difficoltà. Cristo non è forse lassù in alto? Non è forse asceso in cielo, dove siede alla destra del Padre? Non esclama l'Apostolo: Se siete risuscitati con Cristo, cercate le cose che stanno in alto, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; abbiate la mente alle cose dell'alto, non a quelle della terra (Col 3, 1-2)? Come mai allora, per raggiungere Cristo, siamo costretti a camminare coi piedi in terra, dal momento che occorre piuttosto avere il cuore in alto verso il Signore, per poter essere sempre con lui? Vedete bene, o fratelli, che oggi non abbiamo il tempo per affrontare con calma una tale questione. Anche se voi non ve ne rendete conto, io vedo che occorre un serio approfondimento. Perciò vi chiedo di rimandarla piuttosto che trattare la questione con fretta e superficialmente, non defraudando ma rinviando la vostra attesa. Il Signore, che oggi ci fa vostri debitori, ci concederà di pagare il debito.

 

OMELIA 57

La voce della sposa del Cantico dei Cantici.

Quando noi, Chiesa, annunciamo il Vangelo, o Cristo, camminiamo sulla terra e ci sporchiamo i piedi per venire ad aprire la porta a te.

[La paura di sporcarsi i piedi.]

1. Memore del mio debito, credo sia venuto il momento di pagarlo. Mi conceda di pagarlo colui che mi ha concesso di contrarlo. Chi mi ha donato la carità della quale sta scritto: Non abbiate debiti verso nessuno, se non quello dell'amore scambievole (Rm 13, 8), mi conceda altresì il dono della parola di cui mi riconosco debitore verso quelli che amo. Sì, ho tenuto sospesa la vostra aspettativa per spiegarvi, come mi è possibile, in che modo si possa andare a Cristo camminando per terra, mentre ci vien comandato di cercare le cose che stanno in alto, non quelle della terra (cf. Col 3, 1-2). Cristo infatti è in alto, assiso alla destra del Padre; ma è certo che egli è anche qui in terra, per cui disse a Saulo, che in terra infieriva: Perché mi perseguiti? (At 9, 4). Ci siamo posti questo problema osservando che il Signore lavò i piedi ai discepoli, benché i discepoli fossero puliti e non avessero bisogno che di lavarsi i piedi. In quel fatto ci sembrava di dover capire che mediante il battesimo viene lavato, sì, l'uomo tutto intero; ma, siccome poi deve vivere in questo mondo calcando quasi la terra con gli affetti umani, quasi fossero piedi, - e ciò avviene in ogni momento della sua vita - ne contrae quei debiti per cui deve supplicare: Rimetti a noi i nostri debiti (Mt 6, 12). E così viene purificato da colui che lavò i piedi ai suoi discepoli (cf. Gv 13, 5), e che mai cessa di intercedere per noi (cf. Rm 8, 34). A questo punto ci sono venute in mente le parole che dice la Chiesa nel Cantico dei Cantici: Mi son lavati i piedi; come potrò ancora sporcarmeli? (Ct 5, 3): parole che essa dice quando vuole andare ad aprire al più bello tra i figli degli uomini, che è venuto da lei e bussa chiedendo che gli si apra la porta (cf. Sal 44, 3). Di qui è nata la questione che non abbiamo voluto sciupare trattandola con troppa fretta e che perciò noi abbiamo differita; la questione cioè come la Chiesa possa temere, camminando per raggiungere Cristo, di sporcarsi i piedi che ha lavato col battesimo di Cristo.

2. Dice la sposa: Io dormo, ma il mio cuore veglia. Sento il mio diletto che bussa alla porta. Si sente la voce dello sposo, che dice: Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, mia perfetta; ho la testa pregna di rugiada, i riccioli zuppi di gocce notturne. E lei risponde: Ho svestito la tunica; come indossarla ancora? mi son lavati i piedi; come sporcarmeli di nuovo? (Ct 5, 2-3). Mirabile arcano, sublime mistero! Dunque essa teme di sporcarsi i piedi, andando ad aprire a colui che ha lavato i piedi ai suoi discepoli? Sì, ha paura, perché deve camminare sulla terra per andare a lui, che ancora sta in terra non avendo abbandonato i suoi che qui sono rimasti. Non ha detto egli stesso: Ecco, io sono con voi sino alla fine dei secoli (Mt 28, 20)? E non ha detto anche: Vedrete i cieli aperti, e gli angeli di Dio salire e discendere sopra il Figlio dell'uomo (Gv 1, 51)? Se salgono verso di lui perché è su in alto, come potrebbero poi a lui discendere se non fosse anche qui in terra? Dice perciò la Chiesa: Mi son lavati i piedi; dovrò ancora sporcarmeli? Ella parla così in coloro che, purificati d'ogni macchia, possono dire: Desidero di essere sciolto da questo corpo ed essere con Cristo; d'altra parte rimanere nella carne è più necessario per voi (Fil 1, 23-27). Parla così in coloro che predicano Cristo e gli aprono la porta, affinché, per mezzo della fede, egli abiti nel cuore degli uomini (cf. Ef 3, 17). Parla così in quanti esitano a lungo prima di assumere un ministero che non si reputano sufficientemente idonei a svolgere senza pericolo di colpa, nel timore che, dopo aver predicato agli altri, vengano riprovati essi stessi (cf. 1 Cor 9, 27). E' infatti più sicuro ascoltare la verità che predicarla; perché, quando si ascolta si custodisce l'umiltà, mentre quando si predica è difficile che non si insinui in chiunque quel tanto di vanagloria che basta a sporcare i piedi.

3. Teniamo conto, dunque, dell'esortazione dell'apostolo Giacomo: Sia ognuno pronto ad ascoltare, tardo a parlare (Gc 1, 19). A sua volta, un altro uomo di Dio dice: Fammi udire la tua lieta e gioconda parola, ed esulteranno le ossa da te fiaccate (Sal 50, 10). E' quanto vi dicevo prima: Quando si ascolta la verità, si custodisce l'umiltà. E un altro ancora dice: L'amico dello sposo, che gli sta vicino e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo (Gv 3, 29). Gustiamo il piacere che proviamo nell'ascoltare la Verità che parla dentro di noi senza strepito alcuno. E così, quando la Verità risuona esteriormente attraverso la voce del lettore o del predicatore, di chi la proclama o la spiega, attraverso l'insegnamento, l'incoraggiamento e l'esortazione di chi ne ha l'incarico, come anche attraverso i canti ed i salmi, tutti coloro che attendono a queste diverse mansioni stiano attenti a non sporcarsi i piedi con il desiderio della lode umana, cercando di piacere agli uomini. Chi, invece, volentieri e religiosamente li ascolta, non è tentato di vantarsi delle fatiche altrui, e, lungi dal gonfiarsi d'orgoglio, gode di ascoltare la voce della verità del Signore con una gioia che è propria solo all'umiltà. E' nella persona di quanti volentieri e umilmente amano ascoltare, e conducono una vita tranquilla dedita a dolci e salutari occupazioni, che la santa Chiesa trova le sue delizie e dice: Io dormo, ma il mio cuore veglia. Che vuol dire: io dormo, ma il mio cuore veglia, se non, mi riposo per ascoltare? il mio tempo libero non è destinato a coltivare la pigrizia, ma a raggiungere la sapienza. Io dormo, ma il mio cuore veglia: mi tengo libero da ogni preoccupazione per contemplarti come mio Signore (cf. Sal 45, 1). La sapienza dello scriba si deve al suo tempo libero; e chi non si disperde nell'azione diventa saggio (Sir 38, 24). Io dormo, ma il mio cuore veglia, cioè sospendo le occupazioni ordinarie e la mia anima s'immerge nell'amore divino.

[La voce di Cristo bussa alla porta.]

4. Se non che, mentre nella persona di quanti così soavemente e umilmente riposano la Chiesa gusta le sue delizie, ecco che bussa colui che dice: Ciò che io vi dico nelle tenebre, voi ditelo in piena luce; e ciò che ascoltate all'orecchio, predicatelo sopra i tetti (Mt 10, 27). La sua voce bussa alla porta gridando: Aprimi, sorella mia, mia amata, colomba mia, perfetta mia; ho la testa piena di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne. Come a dire: Tu riposi e la porta è chiusa dinanzi a me, tu godi nella quiete riservata a pochi mentre, per il moltiplicarsi dell'iniquità, la carità di molti si raffredda (cf. Mt 24, 12). La notte è immagine dell'iniquità; la rugiada e le gocce notturne sono coloro che si raffreddano e cadono, facendo raffreddare il capo del Cristo, cioè impediscono che Dio sia amato: Dio, infatti, è il capo di Cristo (cf. 1 Cor 11, 3). Costoro vengono portati sui capelli, cioè sostenuti solo con i sacramenti visibili senza giungere ad una partecipazione profonda e piena. Egli bussa per scuotere dalla loro quiete gli uomini santi dediti alla meditazione, e grida: Aprimi, tu che, in virtù del sangue che ho versato per te, sei mia sorella, in forza dell'unione che ho realizzato con te sei la mia amata, grazie al dono dello Spirito Santo sei la mia colomba, in virtù della mia parola che con maggior pienezza hai ascoltato nella tua meditazione sei la mia perfetta: aprimi e predicami. Come potrò entrare in coloro che mi hanno chiuso la porta, se non c'è chi mi apre? E come potranno udire, se non c'è chi predica? (cf. Rm 10, 14).

5. E così coloro che prediligono la calma meditazione delle cose divine e rifuggono dalla fatica e dalle difficoltà dell'azione, non ritenendosi capaci di esercitare il ministero attivo in modo irreprensibile, vorrebbero, se fosse possibile, che i santi Apostoli e gli antichi predicatori della verità risuscitassero per affrontare ancora l'iniquità dilagante, a causa della quale si è raffreddato il fervore della carità. Ma, a nome di coloro che già sono usciti dal corpo e si sono spogliati della tunica della carne (benché da essa non siano separati per sempre), la Chiesa risponde: Ho deposto la tunica, come posso rimettermela? Un giorno essa riprenderà questa tunica, e, in coloro che ne sono stati spogliati, la Chiesa si rivestirà della carne; non però adesso, adesso che occorre riscaldare coloro che sono freddi; ciò accadrà soltanto quando risorgeranno i morti. Trovandosi perciò in difficoltà per mancanza di predicatori, e ricordando quei suoi membri, sani nella dottrina e santi nei costumi ma ormai spogli del loro corpo, la Chiesa geme e dice: Ho deposto la tunica, come posso rimettermela? Come possono, ora, rivestirsi della carne di cui sono state spogliate quelle mie membra che, annunciando fervidamente il Vangelo, riuscirono ad aprire la porta a Cristo?

[La sposa si alza e gli apre.]

6. Poi, rivolgendosi a quelli che in qualche modo potrebbero annunziare il Vangelo, che potrebbero guadagnare e guidare il popolo e così aprire la porta a Cristo, ma che temono di cadere esponendosi ai pericoli dell'azione, dice: Mi sono lavati i piedi, dovrò sporcarmeli di nuovo? Se uno infatti non pecca nel parlare, è un uomo perfetto. Ma chi è perfetto? chi è che in qualche modo non vien meno in questo dilagare di iniquità e raffreddarsi di carità? Mi sono lavati i piedi, dovrò sporcarmeli di nuovo? Inoltre, leggo ed ascolto: Fratelli miei, non vogliate essere in molti a far da maestri, sapendo che vi toccherà un più severo giudizio; tutti infatti manchiamo in molte maniere (Gc 3, 1-2). Mi son lavati i piedi, dovrò sporcarmeli di nuovo? Ma ecco, mi alzo e apro. O Cristo, lavami i piedi, rimetti a noi i nostri debiti, poiché non si è spenta del tutto la nostra carità, poiché anche noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6, 12). Quando ti ascoltiamo, esultano con te in cielo le ossa umiliate (cf. Sal 50, 10). Ma quando ti predichiamo, camminiamo con i piedi in terra per venire ad aprirti la porta. E perciò, se ci rimproverano ci turbiamo, se ci lodano ci gonfiamo d'orgoglio. Lava i nostri piedi che prima erano puliti, ma che si sono sporcati camminando sulla terra per venire ad aprirti. Per oggi basta, o carissimi. Se siamo stati meno felici nel parlare, o troppo preoccupati delle vostre lodi, impetrate da Dio, con le vostre orazioni a lui gradite, la purificazione dei nostri piedi.

 

OMELIA 58

L'esempio da imitare.

Lavare i piedi, su l'esempio di Cristo, è un esercizio di umiltà che, mentre costringe il corpo a piegarsi, coltiva nell'animo sentimenti di rispetto e di amore fraterno.

1. Già abbiamo spiegato alla vostra Carità, come il Signore ci ha concesso, le parole che egli rivolse ai suoi discepoli nell'atto di lavar loro i piedi: Chi si è lavato, non ha bisogno che di lavarsi i piedi, perché è tutto mondo (Gv 13, 10). Vediamo ora quello che segue: E voi siete mondi, ma non tutti. Di questa frase non dobbiamo cercare il significato perché l'evangelista stesso ce lo ha spiegato, aggiungendo: Sapeva, infatti, chi lo tradiva, perciò disse: Non tutti siete mondi (Gv 13, 11). Niente di più chiaro; perciò andiamo avanti.

2. Quando, dunque, ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto? (Gv 13, 12). E' giunto il momento di mantenere la promessa che aveva fatto a san Pietro e che aveva differita quando, a lui che si era spaventato e gli aveva detto: Non mi laverai i piedi in eterno, il Signore aveva risposto: Quello che io faccio tu adesso non lo comprendi: lo comprenderai, però, dopo (Gv 13, 7). Questo momento è giunto: è tempo che gli dica ciò che prima ha differito. Il Signore, dunque, si è ricordato che aveva promesso di rivelare il significato del suo gesto così inatteso, così straordinario, così sconvolgente, che se egli non li avesse spaventati tanto, non avrebbero mai permesso che il loro maestro e maestro degli angeli, il loro Signore e Signore dell'universo, lavasse i piedi dei suoi discepoli e servi. Ora, per l'appunto, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: Lo capirai dopo.

[Giova a noi servire alla verità.]

3. Voi mi chiamate - egli dice - Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono (Gv 13, 13). Dite bene perché dite la verità; sono infatti ciò che dite. All'uomo è stato rivolto l'ammonimento: Non ti lodi la tua bocca, ma ti lodi la bocca del tuo prossimo (Prv 27, 2). E' infatti pericoloso compiacersi, per chi deve stare attento alla superbia. Ma chi sta al di sopra di tutte le cose, per quanto si lodi non può innalzarsi più di quello che è: non si può certo accusare Dio di presunzione. E' a noi, non a lui, che giova conoscere Dio; e nessuno può conoscerlo, se lui, che si conosce, non si rivela. Se, per non apparire presuntuoso, avesse taciuto la sua lode, ci avrebbe privato della sua conoscenza. Nessuno, certo, può rimproverargli di essersi chiamato maestro, neppure chi lo considera soltanto un uomo; perché ognuno che sia esperto in una qualsiasi materia, si fa chiamare professore, senza che per questo venga considerato presuntuoso. Il fatto però che egli si chiami il Signore dei suoi discepoli, che anche di fronte al mondo sono uomini liberi, come si può tollerare? Ma qui è Dio che parla. Non corre nessun pericolo di elevarsi in superbia una tale altezza, non corre nessun pericolo di mentire la Verità. E' per noi salutare sottometterci a così eccelsa grandezza ed è utile servire alla Verità. Il fatto che egli si chiami Signore non costituisce una colpa per lui, ma è un vantaggio per noi. Si lodano le parole di quell'autore profano, che dice: Ogni arroganza è sempre odiosa, ma l'arroganza dell'ingegno e dell'eloquenza è insopportabile (Cicerone, in Q. Caecilium); e tuttavia lo stesso autore profano così parla della sua eloquenza: Se la giudicassi così, direi che è perfetta; senza timore di presunzione, perché è la verità (Cicerone, in Oratore). Se dunque quel maestro di eloquenza non doveva temere di essere arrogante nel dire la verità, come potrebbe avere questo timore la stessa Verità? Dica il Signore di essere il Signore, dica la Verità di essere la verità: se egli non dicesse ciò che è, io non potrei apprendere quanto mi è utile sapere. Il beatissimo Paolo che non era certo il Figlio unigenito di Dio, ma il servo e l'apostolo del Figlio unigenito di Dio, e che non era la verità ma solamente partecipe di essa, con franchezza e sicurezza dice: Se volessi vantarmi, non sarei insensato perché direi solo la verità (2 Cor 12, 6). Perché non è in se stesso, ma nella verità, a lui superiore, che umilmente e sinceramente si vanta, secondo quanto egli stesso raccomanda: Chi si vanta, si vanti nel Signore (cf. 1 Cor 1, 31). Ora, se un uomo che ama la sapienza, non teme di essere insensato gloriandosi in essa, dovrà forse temere di essere insensata la Sapienza stessa nel manifestare la sua gloria? Se non ebbe timore di essere arrogante colui che disse: Nel Signore si vanterà l'anima mia (Sal 33, 3), dovrà temere di esserlo la potenza del Signore, in cui l'anima del servo si vanta? Voi mi chiamate - dice - Signore e Maestro; e dite bene, perché lo sono. Appunto dite bene, perché lo sono; infatti se io non fossi ciò che voi dite, direste male anche lodandomi. Come può la Verità negare ciò che affermano i discepoli della Verità? Come può negare ciò che hanno appreso proprio da essa? Come può la fonte smentire ciò che proclama chi ad essa beve? Come può la luce nascondere quanto viene manifestando a chi vede?

[Serviamoci vicendevolmente.]

4. Se dunque - egli aggiunge - io, il Signore e il maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda. Vi ho dato, infatti, un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io (Gv 13, 14-15). Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi. Egli ti promise che l'avresti compreso dopo, allorché il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi. Abbiamo appreso, fratelli, l'umiltà dall'Altissimo; rendiamoci reciprocamente, e con umiltà, il servizio che umilmente ha compiuto l'Altissimo. E' un grande esempio di umiltà, il suo. A questo esempio si ispirano i fratelli che rinnovano anche esternamente questo gesto, quando vicendevolmente si ospitano; è molto diffuso questo esercizio di umiltà che così efficacemente viene espressa in questo gesto. E' per questo che l'Apostolo, presentandoci la vedova ideale, sottolinea questa benemerenza: essa pratica l'ospitalità, lava i piedi ai santi (1 Tim 5, 10). E i fedeli, presso i quali non esiste la consuetudine di lavare i piedi materialmente con le mani, lo fanno spiritualmente, se sono del numero di coloro ai quali nel canto dei tre giovani vien detto: Benedite il Signore, santi e umili di cuore (Dn 3, 87). Però è meglio, e più conforme alla verità, se si segua anche materialmente l'esempio del Signore. Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo. Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o, se già c'era, si alimenta il sentimento di umiltà.

5. Ma, a parte questa applicazione morale, ricordiamo di aver particolarmente sottolineato la sublimità di questo gesto del Signore, che, lavando i piedi dei discepoli, i quali già erano puliti e mondi, volle farci riflettere che noi, a causa dei nostri legami e contatti terreni, nonostante tutti i nostri progressi sulla via della giustizia, non siamo esenti dal peccato; dal quale peraltro egli ci purifica intercedendo per noi, quando preghiamo il Padre che è nei cieli che rimetta a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori (cf. Mt 6, 12). Vediamo come si concilia questo significato con le parole che egli aggiunge per motivare il suo gesto: Se, dunque, io, il Signore e il maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda. Vi ho dato, infatti, un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io. Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede (cf. Rm 8, 34). Ascoltiamo l'apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri (Gc 5, 16). E' questo l'esempio che ci ha dato il Signore. Ora, se colui che non ha, che non ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci rimette i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione rimetterci a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere quaggiù senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io, se non quanto l'Apostolo dice in modo esplicito: Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi dell'altro; come il Signore ha perdonato a voi, fate voi pure (Col 3, 13)? Perdoniamoci a vicenda i nostri torti, e preghiamo a vicenda per le nostre colpe, e così, in qualche modo, ci laveremo i piedi a vicenda. E' nostro dovere adempiere, con l'aiuto della sua grazia, questo ministero di carità e di umiltà; sta a lui esaudirci, purificarci da ogni contaminazione di peccato per Cristo e in Cristo, e di sciogliere in cielo ciò che noi sciogliamo in terra, cioè i debiti che noi avremo rimesso ai nostri debitori.

 

OMELIA 59

Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato.

Per raggiungete il Padre bisogna accogliere il Figlio da lui inviato.

[Maestro di umiltà con la parola e con l'esempio.]

1. Abbiamo ascoltato nel santo Vangelo le parole del Signore: In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è superiore a chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, beati sarete se le mettete in pratica (Gv 13, 16-17). Disse questo perché, avendo lavato i piedi dei discepoli, si era dimostrato maestro di umiltà con la parola e con l'esempio. Potremo ora, con il suo aiuto, esaminare meglio le cose che presentano qualche difficoltà, se non ci soffermeremo in quelle che sono chiare. Dopo aver detto dunque queste parole, il Signore aggiunse: Non parlo di tutti voi: io conosco quelli che ho eletti; ma si deve adempiere la Scrittura: Uno che mangia il pane con me, leverà il calcagno contro di me (Gv 13, 18). Cioè: mi calpesterà. L'allusione era evidente: si riferiva a Giuda il traditore. Il Signore dunque non lo aveva eletto, dato che con questa dichiarazione lo distingue da quelli che aveva eletti. Dicendo: Beati voi se mettete in pratica queste cose; non parlo di tutti voi, implicitamente dice che c'è tra loro chi non è beato e che non metterà in pratica queste cose. Io conosco quelli che ho eletti. E chi sono costoro se non quelli che saranno beati col mettere in pratica quanto ha ordinato e confermato con l'esempio colui che può rendere gli uomini beati? Giuda il traditore, egli dice, non è stato eletto. Come si spiega allora l'affermazione altrove riportata: Non vi ho io scelto tutti e dodici, eppure uno di voi è un diavolo (Gv 6, 71)? Oppure anch'egli è stato scelto per un compito per il quale era necessario, ma non per la beatitudine della quale egli dice: Beati voi se metterete in pratica queste cose? Questo non lo dice di tutti; egli infatti conosce quelli che ha eletti a partecipare a questa beatitudine. Di essi non fa parte colui che mangiando il pane del Signore, ha levato contro di lui il suo calcagno. Gli altri mangiavano il pane nutrendosi del Signore, Giuda mangiava il pane del Signore contro il Signore: quelli mangiavano la vita, questi la sua condanna. Chi mangia indegnamente - dice l'Apostolo - mangia la propria condanna (1 Cor 11, 29). Ve lo dico fin d'ora, prima che accada - continua il Signore - affinché, quando sarà accaduto, crediate che io sono (Gv 13, 19); che, cioè, io sono colui del quale profetizzò la Scrittura, laddove dice: Uno che mangia il pane con me, leverà il calcagno contro di me.

2. E prosegue: In verità, in verità vi dico: Chi accoglie colui che io manderò accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato (Gv 13, 20). Egli vuole forse farci intendere con queste parole che tra lui e quello che egli manda, c'è la medesima distanza che esiste tra lui e Dio Padre? Se così intendiamo le sue parole, non so quanti gradini dovremo ammettere seguendo, Dio non voglia, gli ariani. Essi infatti, ascoltando o leggendo queste parole del Vangelo, immediatamente si affrettano a fare quei gradini della loro dottrina, che certo non li conducono alla vita ma li precipitano nella morte. Subito dicono: Benché il Figlio abbia detto: Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me, tra l'apostolo del Figlio e il Figlio esiste la stessa distanza che c'è tra il Figlio e il Padre, quantunque egli abbia detto: Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Ma se dici così, o eretico, hai dimenticato i tuoi gradini. Se infatti, basandoti su queste parole del Signore, tra il Figlio e il Padre poni la medesima distanza che poni tra l'apostolo e il Figlio, dove metterai lo Spirito Santo? Hai dimenticato che siete soliti metterlo dopo il Figlio? Si verrà dunque a trovare tra l'apostolo e il Figlio; e allora il Figlio finirà col distare dall'apostolo molto più di quanto non dista dal Padre. O forse, per mantenere la medesima distanza tra il Figlio e l'apostolo, e tra il Padre e il Figlio, dirai che lo Spirito Santo è uguale al Figlio? Ma questo non volete ammetterlo. E allora, dove lo metterete, se tra il Figlio e il Padre voi ponete la medesima distanza che c'è tra l'apostolo e il Figlio? Vogliate dunque reprimere questa vostra temeraria audacia, e smettetela di appoggiarvi su queste parole per sostenere che tra il Figlio e l'apostolo c'è la medesima distanza che esiste tra il Padre e il Figlio. Ascoltate piuttosto quanto dice lo stesso Figlio: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10, 30). Con questa affermazione la Verità non vi lascia alcuna possibilità di pensare che ci sia distanza tra il Padre e l'Unigenito. Con questa affermazione Cristo elimina tutti i vostri gradini, la Pietra manda in frantumi le vostre scale gerarchiche.

[Il Padre e il Figlio sono della medesima natura.]

3. Ma ora che abbiamo respinto l'insinuazione degli eretici, in che senso dobbiamo intendere queste parole del Signore: Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato? Se noi intendiamo le parole: Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato nel senso che il Padre e il Figlio sono della medesima natura, logicamente, dato il parallelismo delle due frasi, dovremo intendere anche le altre parole: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me nel senso che anche l'apostolo ha la stessa natura del Figlio. E' possibile anche questa interpretazione, e non è sconveniente, considerando che il campione lieto di percorrere la sua via (cf. Sal 18, 6) è in possesso dell'una e dell'altra natura, dato che il Verbo si è fatto carne (cf. Gv 1, 14), cioè Dio si è fatto uomo. Si potrebbe quindi supporre che il Signore abbia detto: Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me in quanto era uomo; e abbia detto: Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato in quanto era Dio. Con queste parole non voleva richiamarsi all'unità di natura, ma piuttosto affermare l'autorità di colui che manda in colui che è mandato; di modo che ciascuno accolga colui che è stato mandato, considerando in lui chi lo ha mandato. Così, se tu consideri Cristo in Pietro, vi troverai il maestro del discepolo; se invece consideri il Padre nel Figlio, troverai il Genitore dell'Unigenito, e accoglierai, senza timore di sbagliare, colui che manda in colui che è mandato. Le parole del Vangelo che vengono dopo, non possono essere coartate nella ristrettezza del tempo che ci rimane. Perciò, o carissimi, se quanto avete ascoltato lo ritenete un sufficiente nutrimento per le anime fedeli, cercate di gustarlo e di trarne profitto; se lo trovate scarso, ruminatelo col desiderio di un nutrimento più abbondante.

 

OMELIA 60

Gesù si turbò nello spirito.

Colui che è morto per noi, ha voluto anche turbarsi per noi. E' la nostra debolezza che si esprime nel suo turbamento.

1. Non è un piccolo problema, o fratelli, quello che ci presenta il Vangelo di san Giovanni, quando dice: Dette queste cose, Gesù si conturbò nello spirito e dichiarò solennemente: In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà (Gv 13, 21). Il turbamento di Gesù, non nella carne ma nello spirito, era provocato da ciò che stava per dire: uno di voi mi tradirà? E' forse questa la prima volta che gli si affaccia alla mente il pensiero del tradimento, o soltanto ora ne ha la rivelazione, e perciò resta turbato dalla improvvisa scoperta di un male così grave? Non alludeva forse al tradimento quando poco prima diceva: Uno che mangia il pane con me, leverà il calcagno contro di me (Gv 13, 18)? E ancor prima non aveva detto: Voi siete mondi, ma non tutti? Allora l'evangelista aveva fatto notare: Egli sapeva infatti chi lo tradiva (Gv 13, 10-11). Del resto, molto prima aveva già segnalato il traditore, dicendo: Vi ho scelto io tutti e dodici; eppure uno di voi è un diavolo (Gv 6, 74). Perché dunque ora si conturbò nello spirito, alludendo scopertamente al traditore col dire: In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà? Forse si turbò nello spirito perché ormai stava per rivelare il traditore, che non sarebbe più rimasto nascosto a nessuno e tutti lo avrebbero identificato? Oppure, dato che il traditore era ormai sul punto di uscire, e tornare poi conducendo con sé i Giudei ai quali il Signore doveva essere consegnato, fu turbato per l'approssimarsi della passione, per il pericolo ormai imminente, per l'incombente mano del traditore di cui già conosceva l'animo? Il motivo per cui Gesù si turbò nello spirito, è quello stesso per cui egli precedentemente disse: Ora l'anima mia è turbata. E che devo dire: Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per quest'ora sono venuto (Gv 12, 27). Come dunque la sua anima si era turbata per l'approssimarsi della passione, così anche ora, nel momento in cui Giuda sta per uscire per poi tornare con i Giudei, al pensiero dell'imminenza di un sì nefando delitto del suo traditore, si turbò nello spirito.

[E' la nostra debolezza che si turba in lui.]

2. Si turba dunque colui che ha il potere di dare la sua vita e il potere di riprenderla (cf. Gv 10, 18). Si turba una tale potestà, si turba la rupe solidissima, o non piuttosto è turbata in lui la nostra debolezza? E' proprio così. Non veda il servo nulla di indecoroso nel suo Signore, ma il membro riconosca se stesso nel suo Capo. Colui che per noi è morto, per noi altresì si è turbato; colui che è morto per una decisione della sua potenza, in virtù di questa medesima potenza si è turbato; colui che trasfigurò il nostro umile corpo configurandolo al corpo della sua gloria (Fil 3, 21), ha anche trasfigurato in sé le emozioni della nostra debolezza partecipando alla nostra sofferenza mediante la commozione della sua anima. Perciò quando colui che è grande, forte, sicuro, invitto, ci appare turbato, non dobbiamo temere per lui, come se potesse venir meno: egli non perde se stesso ma cerca noi. Sì, dico, è proprio noi che egli cerca in questo modo. Nel suo turbamento dobbiamo vedere noi stessi, per non disperarci quando a nostra volta siamo turbati. Il turbamento di colui, che se non volesse non si turberebbe, è una consolazione per noi che ci turbiamo anche se non vogliamo.

[L'animo di un cristiano non può non turbarsi.]

3. Cadano tutti quegli argomenti dei filosofi, volti a dimostrare l'imperturbabilità del saggio. Dio ha reso stolta la sapienza di questo mondo (cf. 1 Cor 1, 20), e il Signore sa che i pensieri degli uomini sono pieni di vanità (cf. Sal 93, 11). Si turbi pure l'animo del cristiano, non per miseria ma per misericordia; abbia timore che gli uomini si perdano allontanandosi da Cristo, si rattristi quando vede uno perdersi perché si allontana da Cristo; senta il desiderio che gli uomini vengano guadagnati a Cristo, goda quando gli uomini vengono guadagnati a Cristo; tema anche per sé di perdere Cristo; si rattristi per essere lontano da lui; senta il desiderio di regnare con Cristo, e questa speranza lo riempia di letizia. Sono queste le quattro passioni che turbano l'anima: il timore, la tristezza, l'amore e la letizia. Un cristiano non deve temere di sentire, per giusti motivi, queste passioni, evitando di cadere nell'errore dei filosofi stoici e dei loro seguaci; i quali, come scambiano la vanità per verità così considerano l'insensibilità come fortezza d'animo, ignorando che l'animo dell'uomo, come qualsiasi membro del corpo, è tanto più malato quanto più è diventato insensibile al dolore.

4. Ma qualcuno dirà: E' ammissibile, anche di fronte alla morte, che l'animo del cristiano si turbi? Dov'è allora il desiderio di cui parla l'Apostolo, di dissolversi per essere con Cristo (cf. Fil 1, 23), se quando ciò avviene reca turbamento? A chi considera la stessa letizia un turbamento dell'anima, è facile rispondere. Che dire se il turbamento di fronte alla morte non è altro che letizia per l'approssimarsi della morte stessa? Ma questo è gaudio - essi osservano - e non si può chiamare letizia. Ma questo è affermare le stesse cose e allo stesso tempo voler loro cambiare il nome. Prestiamo piuttosto attenzione alla sacra Scrittura, e, basandoci su di essa, cerchiamo, con l'aiuto del Signore, di risolvere questo problema. Quando leggiamo: Così dicendo, Gesù si conturbò nello spirito, non possiamo dire che egli sia stato turbato dalla letizia, se non vogliamo essere smentiti da lui stesso, che altrove dice: L'anima mia è triste fino a morirne (Mt 26, 38). Altrettanto si deve intendere qui, quando il suo traditore è ormai sul punto di uscire solo per poi tornare subito con i complici: Gesù si conturbò nello spirito.

5. Sì, sono molto forti quei cristiani, se ve ne sono, che neppure di fronte alla morte si turbano; ma forse che sono più forti di Cristo? Chi sarebbe così stolto da affermarlo? Per qual motivo, dunque, egli si è turbato, se non per consolare le membra più deboli del suo corpo, cioè della sua Chiesa, con la volontaria partecipazione della sua debolezza, così che quanti dei suoi si sentono turbati nello spirito di fronte alla morte, guardando a lui, non debbano per questo considerarsi reprobi e non debbano lasciarsi prendere dalla disperazione, che è ben peggiore della morte? Quale bene dobbiamo dunque aspettarci e sperare dalla partecipazione alla sua divinità, se il suo turbamento ci tranquillizza e la sua debolezza ci sostiene? Qualunque sia il motivo del suo turbamento, o la compassione nel vedere Giuda perdersi o l'approssimarsi della sua morte, è comunque fuori dubbio che egli si è turbato non per debolezza d'animo ma volontariamente, affinché non dovesse sorgere in noi la tentazione della disperazione, quando non volontariamente ma per debolezza proviamo turbamento. Veramente egli aveva preso su di sé la debolezza della carne, quella debolezza che sarebbe stata consumata dalla risurrezione. Ma lui, che non era solamente uomo ma anche vero Dio, superava di gran lunga, quanto a fortezza d'animo, l'intero genere umano. Niente perciò lo costrinse a turbarsi, ma da se medesimo si turbò; cosa che l'evangelista dichiarò in modo esplicito in occasione della risurrezione di Lazzaro. Allora l'evangelista scrisse che egli si turbò da se stesso (cf. Gv 11, 33), affinché questo valesse anche là dove non è scritto esplicitamente così, e tuttavia si legge che egli si turbò. Sì, colui che liberamente aveva assunto l'uomo nella sua totalità, provò in se stesso, quando lo ritenne opportuno, la commozione propria della sensibilità umana.