Esegesi biblica e Teologia: la questione dei metodi

P. ALBERT VANHOYE, S J

Professore al Pontificio Istituto Biblico (Roma)

Estratto da " SEMINARIUM ", A. XXXI (1991), n.2

Secondo la formula ben conosciuta della Costituzione Dogmatica "Dei Verbum ", lo studio della Bibbia deve essere " come l'anima della Sacra Teologia " (DV 24) Ne risulta che la questione dei metodi esegetici riveste una importanza fondamentale per il lavoro teologico Questa questione non manca di complessità e suscita quindi attualmente parecchie discussioni Senza poter entrare in tutti i dettagli, questo modesto articolo vorrebbe esprimere alcune osservazioni in proposito.

1. Anzitutto è utile notare che la frase del Concilio Vaticano II riprende, con alcune modifiche, un'affermazione dell'Enciclica " Providentissimus " di Leone XIII, ripetuta senza modifiche nell'Enciclica " Spiritus Paraclitus " di Benedetto XV. Leone XIII dichiara " sommamente auspicabile e necessario che l'uso della stessa Divina Scrittura influisca su tutto l'insegnamento della teologia e ne sia quasi l'anima ". Accanto a diverse modifiche che possono essere considerate puramente stilistiche (come ad es " Sacra Pagina " che subentra nella Dei Verbum al posto di "Divina Scriptura ", per evitare una ripetizione), un cambiamento più sostanziale si osserva su un punto importante mentre Leone XIII si accontentava di parlare dell'" uso " della Bibbia nelle discipline teologiche, il Concilio ne presenta lo " studio " come dovendo essere e " veluti anima Sacrae Theologiae ".

Questa nuova formulazione rende più esplicito il rapporto necessario tra la teologia e l'esegesi. Infatti se per "usare" la Scrittura basta citarla in qualche traduzione corretta non e possibile " studiarla" senza mettersi alla scuola degli esegeti. In fin dei conti la frase del Concilio richiede dunque che l'esegesi sia come l'anima della teologia. Tal richiesta — e doveroso notarlo — non va intesa in senso unilaterale cioè come un obbligo imposto ai soli teologi di tenersi al corrente delle ricerche esegetiche ma comprende anche conseguenze corrispondenti per gli stessi esegeti cattolici: essi debbono praticare l'esegesi in modo tale che possa effettivamente essere "come l'anima della Teologia "; essi debbono avere dell'esegesi un concetto che sia confacente a questa alta missione ed adoperare dei me lodi di studio adeguati.

Non si può dire che tutti gli esegeti cattolici si mostrino consapevoli di questa esigenza e vi si conformino. Anzi sembra persino irrealistico richiedere uniformemente che tutti vi si conformino. In fatti la complessità dello studio esegetico del testi biblici è divenuta tale che non è possibile a ciascun esegeta affrontarla interamente.

La divisione del lavoro è imprescindibile.

2. La prima tappa dello studio scientifico di uno scritto biblico consiste, come per tutti gli scritti antichi, nello stabilirne il tenore esatto, nella misura del possibile. Questo è il compito della critica testuale, molto più complicato per i testi della Bibbia che non per quelli della letteratura profana o della patristica o della teologia medioevale, a causa dell'immensa quantità e varietà dei testimoni (papiri, codici, citazioni (traduzioni antiche, ecc.) che occorre ricercare, esaminare, valutare e confrontare. Questa disciplina è affare di specialisti accuratamente formati, che siano in grado non solo di applicare con discernimento un certo numero di regole, ma anche di promuovere il progresso della metodologia, mai definitivamente fissata.

Quale rapporto deve mettere l'esperto cattolico di critica testuale biblica tra il suo lavoro e la teologia? La tendenza spontanea sarà forse di rispondere " Nessun rapporto, qui la teologia non c'entra La critica testuale ha le proprie regole e i propri criteri, che vanno seguiti con completa autonomia e oggettività, senza nessuna preoccupazione teologica aprioristica " Una tale risposta è certamente valida nel suo rifiuto di interferenze teologiche aprioristiche. La serietà scientifica e l'onesta richiedono il perfetto rispetto dell'autonomia di ciascuna disciplina nel proprio ambito. Nel secolo scorso, questa esigenza non pare sia stata fedelmente osservata né da una parte né dall'altra, cioè: gli avversari della Chiesa adoperavano la critica testuale come un'arma per scalzare la fede cattolica e le autorità della Chiesa ritenevano necessario, per proteggere la fede, l'anatematizzare certe conclusioni della critica testuale.

Tuttavia la suddetta risposta, non e completamente valida, per che si basa su un concetto astratto di scienza senza tener conto di certi elementi della situazione effettiva. Nella realtà, infatti, la critica testuale non può essere completamente autonoma né " oggettiva ", perché nelle sue scelte, accanto agli argomenti di critica esterna, come il numero e la qualità dei testimoni di una certa lezione variante, entrano anche argomenti di critica interna, ad es. la maggiore o minore coerenza di una variante con l'insieme del pensiero dell'auto re. Per portare un giudizio in casi del genere, l'esperto tiene necessariamente conto di una sua visione d'insieme, di una sua " precomprensione " La cosa non solo non menta nessun rimprovero, ma è perfino doverosa, perché fa parte delle operazioni necessarie al discernimento. Non si tratta di soggettivismo antiscientifico, bensì d'impegno personale conforme alle esigenze della ricerca. Evidentemente, il peso attribuito per la decisione alla visione d'insieme va definito con la massima prudenza, per evitare un possibile soggettivismo, e la stessa visione d'insieme deve essere fondata validamente sui testi. D'altra parte, non saranno frequenti i casi in cui un ricorso alla visione d'insieme potrà essere determinante. Nondimeno il principio sta fermo la pura " oggettività " è soltanto un sogno o una illusione, anche quando si tratta di una disciplina tanto " neutrale " quanto sembra essere la critica testuale.

3. Dopo la tappa della critica testuale viene quella della critica letteraria che esamina i testi per distinguervi eventualmente diverse fonti o diversi strati di composizione, Iniziano nel XVII secolo, questo genere di studio ha portato ad osservazioni importanti, specialmente per quanto riguarda il Pentateuco e più tardi i vangeli. Gli esegeti hanno dimostrato la complessità della preistoria dei testi che leggiamo nella Bibbia, il che ha condotto a un concetto meno semplice della loro composizione e autenticità. La teologia ha dovuto rinunciare a un certo modo di comprendere l'ispirazione dei testi biblici e il loro inserimento nella storia, per ammettere che l'azione divina si è realizzata in maniera più segreta, con un maggior rispetto dei condizionamenti umani, il che corrisponde meglio al mistero dell'incarnazione. II Pentateuco non è stato dettato o suggerito a Mosè dallo Spirito Santo in poche sedute decisive, ma rispecchia la lenta evoluzione di diverse tradizioni nelle quali, sotto la guida dello Spirito Santo, si esprimevano e progredivano la fede e la vita religiosa del popolo eletto. In modo analogo i vangeli non ci presentano il verbale degli atti e detti di Gesù steso direttamente da quattro autori ispirati, ma sono il prodotto di diverse tradizioni di catechesi evangelica, la cui formazione ha subito influssi vari secondo la differenza degli ambienti e delle circostanze.

Conoscere la storia della formazione di un testo può aiutare molto a interpretarlo con maggior precisione ed esattezza. Ne fanno l'esperienza — per citare un caso moderno nella vita della Chiesa — gli studiosi che s'impegnano nell'analisi dei testi dell'ultimo Concilio. Paragonando le stesure successive di un documento conciliare, possono definire meglio il significato della stesura finale. La critica letteraria dei testi biblici non manca quindi d'interesse per la loro interpretazione. Le difficoltà però sono enormi, perché non possediamo le stesure successive di uno stesso testo (eccetto in alcuni casi, come quello delle Cronache, che riprendono il contenuto dei libri di Samuele e del Re), ma soltanto il testo finale. Il lavoro consiste quindi in un'analisi del testo finale orientata verso il discernimento di tracce di stesure anteriori o di fonti adoperate dal redattore finale. Alcuni risultati d'insieme hanno ottenuto, come si sa, un largo consenso, ma non si può dire altrettanto delle ipotesi più dettagliate, che propongono di distinguere in un dato testo 5 o 6 strati diversi, fra i quali vengono divisi versetti e frammenti di versetti. E' chiaro che la probabilità di tali ipotesi non può essere alta.

D'altra parte, il fatto che questo genere di studio richiede ricerche minuziose e discussioni approfondite ha come conseguenza che tutta l'energia di certi esegeti ne viene assorbita. Ciò che doveva essere un lavoro previo in vista di una più accurata interpretazione del testo diventa un'attività a se stante, che sostituisce l'esegesi propria mentre detta. Una volta fatta la distribuzione degli elementi del testo in vari strati o fonti, il compito dell'esegeta viene considerato terminato. In tale caso, è semplicemente impossibile che lo studio del testo biblico sia " come l'anima della teologia ", giacché, invece di rendere alla Bibbia tutta la sua vitalità e attualità, la fa letteralmente a pezzi per mezzo di una vivisezione spietata. Fortunatamente, non mancano tra gli esegeti autori che esprimono una sana reazione contro questa riduzione del lavoro esegetico.

D'altra parte, la critica letteraria non si consacra più esclusivamente alla distinzione delle fonti e degli strati, ma ha preso un orientamento più costruttivo con lo studio dei generi letterari, che ha permesso notevoli progressi nell'interpretazione metodica dei testi. L’enciclica Divino afflante Spirito (30 settembre 1945) ha riconosciuto la fecondità di questo genere di ricerche (cfr. LB 558) e ha incoraggiato gli esegeti cattolici a progredire in questa via (cfr. LB 560) Nell'esegesi dei vangeli, una evoluzione analoga ha condotto gli esegeti a essere attenti alla diversità delle forme letterarie adoperate dalle tradizioni. Questo nuovo orientamento, che ha preso il nome di " Formgeschichte " è stato completato, dopo alcuni decenni, dalla " Redaktionsgeschichte ", che porta l'attenzione sul modo in cui le piccole unità letterarie, messe in evidenza dalla " Formgeschichte ", sono state adoperate dai diversi evangelisti secondo prospettive significative. In vece di apparire come semplici compilatori, gli evangelisti si rivelano autori dotati di spiccata personalità. Ciascuno ha i propri orientamenti spirituali e dottrinali. Arrivata a questo punto, l'evoluzione recente della critica letteraria biblica si manifesta finalmente molto feconda per la teologia.

4. Sin dall'inizio un altro aspetto del metodo storico critico completava le ricerche di critica letteraria e doveva avere, per l'interpretazione dei testi, lo stesso genere di utilità. Gli studiosi, cioè, si sono applicati alla ricostruzione del contesto storico in cui ciascuno degli scritti biblici e venuto all'esistenza. A questo scopo vengono utilizzati tutti i dati raggiungibili grazie all'archeologia, l'epigrafia, la papirologia, lo studio delle culture e letterature antiche. Anche gli stessi testi biblici vengono naturalmente adoperati come documenti storici utili a tale ricostruzione.

Di per sé, la cosa è normale, anzi, necessaria. Infatti, per capire correttamente un testo, occorre situarlo nel suo contesto storico. Tuttavia, in questo genere di ricerca si avvera spesso una certa tendenza alla confusione metodologica, che si estende poi dall'esegesi alla teologia. Di nuovo, ciò che dovrebbe essere un lavoro previo in vista di una migliore comprensione del testo ispirato diventa la meta oltre la quale non si va. Lo studio dei testi biblici serve solo a fornire elementi per una i costruzione storica, alla quale viene attribuita una autorevolezza decisiva. Invece di aiutare il teologo a leggere e capire la Scrittura ispirata, l'esegeta l'induce a farne a meno e a basare i suoi studi sulla ricostruzione scientifica della storia antica. Così viene edificata una cristologia " da basso " , oppure una ecclesiologia di genere analogo, in particolare per la questione dei ministeri.

Tale confusione metodologica, evidentemente, non è ammissibile. La ricerca storica è una disciplina che merita ogni rispetto e ha grandissima importanza per tante altre discipline, tra le quali l'esegesi e la teologia. Ma né l'esegesi né la teologia si possono confondere con la ricerca storica. Lo scopo dell'esegesi non è di ricostruire la storia d'Israele o quella della Chiesa primitiva, ma di approfondire il senso della Scrittura ispirata. Per raggiungere questo scopo, gli studi storici sono indispensabili perché la Scrittura ispirata non trasmette una rivelazione astratta, bensì una rivelazione radicata nella stona. Per interpretare correttamente i testi biblici, occorre quindi situarli nel loro contesto storico. Nondimeno il punto di riferimento fondamentale deve essere la Parola di Dio, non una ricostruzione della storia. Similmente, per la teologia le conoscenze storiche sono indispensabili, ma non costituiscono la base delle conclusioni, la base e la Parola di Dio.

5. La chiarezza metodologica è diventata meno facile ai nostri giorni col fatto dei rapporti più stretti tra esegesi e scienze profane. Attualmente un gran numero di metodi o " approcci " viene proposto e praticato per l'interpretazione dei testi in genere e dei testi biblici in particolare. Si possono distinguere approcci letterari, approcci ispirati alle " scienze dell'uomo " e approcci ideologici.

Poiché, nell'esegesi biblica, oggetto dello studio sono i testi, gli approcci letterari appaiono convenienti. Vengono praticate l'analisi retorica, l'analisi narrativa e l'analisi semiotica, per limitarci ai settori più importanti. Ciascuna di queste discipline ha i propri strumenti di lavoro, le proprie regole, il proprio vocabolario, più o meno esotico. Ciascuna mette in rilievo aspetti interessanti del testo studiato.

Poiché nei testi biblici vengono riferiti fatti in cui sono coinvolti gruppi umani e persone umane, per meglio interpretare questi fatti è utile ricorrere alle " scienze dell'uomo ", quali la sociologia, la psicologia e la psicanalisi.

E' anche possibile usare approcci ideologici. A differenza dei precedenti, questi non prendono il loro punto di partenza nel desiderio di conoscere meglio la Bibbia, ma piuttosto in quello di sfruttarla a profitto di una ideologia. Poiché la Bibbia esercita un influsso profondo su una moltitudine di persone, chi vuole propagare una ideologia ha grande interesse a sfruttarla. Vengono quindi proposte svariatissime " letture " della Bibbia, ad es. femminista, liberazionista e perfino materialista. In questo ultimo caso e quanto mai manifesto che non si tratta di esegesi del testo, bensì di ricerca tendenziosa. Lo scopo non è di meglio conoscere il contenuto del testo biblico, il quale esprime valori spirituali, bensì di trovarvi alcuni elementi che potessero entrare in una costruzione ideologica materialista, la cui ispirazione è direttamente opposta al messaggio principale della Bibbia. Negli altri casi menzionati la situazione è diversa e richiede perciò un giudizio più sfumato.

La molteplicità attuale degli approcci adoperati nell'esegesi biblica mette in rilievo un fatto positivo, quello della stupenda ricchezza interna della Bibbia. I testi biblici presentano una infinità di aspetti interessanti storici e dottrinali profani e religiosi sociali e personali, artistici e amministrativi, affettivi e oggettivi, ecc. Non si finisce mai di analizzarli. Semmai un teologo concepisse ancora la Bibbia come un insieme di " argomenta probantia " destinati alle discussioni teologiche, gli basterebbe un contatto con la produzione esegetica attuale per fargli perdere questa illusione. La Bibbia non è un manuale astratto, è un mondo traboccante di vita con tanti aspetti diversi spesso contrastanti tra di loro, come nella vita.

Detto ciò, torniamo al nostro problema, quello di un'esegesi che possa essere "come l'anima della teologia". Quale degli approcci appena menzionati corrisponde a questa richiesta? Di per sé, nessuno. Tutti s'interessano al lato umano dei testi biblici; li studiano come qualsiasi altra letteratura. Tuttavia occorre riconoscere che se l’esegeta ha la preoccupazione di mettere in rilievo il messaggio religioso del testo studiato, questi approcci gli lasciano la possibilità di farlo, dandogli nuovi strumenti, che possono rivelarsi utilissimi in proposito.

D'altra parte, alcuni approcci moderni, finora non menzionati, corrispondono più direttamente alla richiesta fatta. E' il caso dell'approccio " canonico ", attento a definire il senso che risulta, per un dato testo biblico, dal fatto che si trova ormai inserito nel canone degli scritti biblici. Possiamo citare anche l'approccio moderno " patristico ", che rifiuta di rinchiudere l'esegesi nelle prospettive strette del metodo storico-critico e cerca nella tradizione patristica strumenti atti a illuminare i testi biblici.

6. Per il momento, questi ultimi due approcci sembrano piuttosto marginali. La tendenza generale, provocata dai rapporti tra esegeti credenti ed esegeti o scienziati non credenti, va nel senso di un atteggiamento puramente scientifico, cioè neutrale in materia di fede. Ne risulta che l'esegesi, invece di essere una disciplina teologica, " fides quaerens intellectum ", si riduce ad essere soltanto uno studio scientifico di testi antichi.

Tal è la posizione espressa in un articolo recente, il quale contiene d'altronde molte riflessioni valide. Notiamo che l'autore non pretende di esporre un suo modo particolare d'intendere il lavoro esegetico, ma vuole spiegare semplicemente ai colleghi teologi la maniera in cui attualmente l'esegesi viene normalmente capita e praticata. Il titolo dell'articolo annuncia una presentazione dell'esegesi critica " come disciplina teologica "; in realtà pero, l'autore esprime una netta dicotomia tra esegesi critica e teologia. La definizione data dall'esegesi critica fa sì che essa non è più una disciplina teologica. L'autore, infatti, mette una distinzione radicale tra l'esegesi critica, " che contempla il testo in se stesso, nel momento della sua produzione e a monte della tradizione — biblica o ecclesiale — che lo recepirà ", e, d'altra parte, " l'ermeneutica credente ", la quale " recepisce il testo nella totalità della tradizione biblica ed ecclesiale, e alla luce della fede ". Per questa distinzione, egli si appella alla Dei Verbum n. 12, senza accorgersi che questo testo conciliare definisce il lavoro esegetico con l'unione di queste due dimensioni. Infatti, dopo aver affermato la necessità di studiare i generi letterari, la Dei Verbum aggiunge che " per ricavare con esattezza il senso dei testi sacri, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede " (DV 12). Tutto questo, secondo il Concilio, fa parte integrante del lavoro esegetico propriamente detto, giacché si tratta di " ricavare con esattezza il senso dei testi sacri ". Quindi entra nel compito dell'esegeta. Il seguito del paragrafo lo dice esplicitamente:" E' compito degli esegeti contribuire secondo queste norme alla più profonda intelligenza ed esposizione nel senso della Sacra Scrittura ".

Invece, l'autore citato chiede all'esegeta di " cancellare la propria soggettività, di tenere in sospeso la sua fede e i suoi dubbi ". " Poiché l'esegesi è esercizio autonomo della ragione umana, essa non può dare un posto alla fede nelle sue operazioni e nei suoi criteri". Secondo l'autore, l'esegeta deve cercare solo il senso umano del testo, con i soli criteri dell'umana ragione. " Arrivato a una rappresentazione del senso umano e contingente del testo, l'esegeta passa la staffetta al teologo, ermeneuta integrale, al quale tocca a mostrare come questo senso umano è effettivamente parola di Dio ". Una tale divisione del lavoro non corrisponde affatto alla dottrina del Concilio e si trova fortemente contestata anche da esegeti non cattolici. B. S. Childs, ad esempio, ha fatto osservare che se l'esegesi non si fa " all'interno di un quadro esplicito di fede ", essa non potrà essere utile alla teologia, giacché " è impossibile costruire un ponte da un contenuto descrittivo neutrale alla realtà teologica ".

7. A mio parere, l'articolo che sto discutendo non ha considerato seriamente il problema della precomprensione dei testi biblici e, d'altra parte, ha parlato in modo troppo, generico della fede.

Tutti sappiamo che non è possibile accostarsi a un testo con un cervello vuoto, tabula rasa. Inevitabilmente, il lettore o l'uditore viene con una qualche precomprensione e questo è anche necessario per poter capire qualcosa del testo o del messaggio. Un cieco nato non può capire un discorso sui colori di un quadro perché non ha nessuna precomprensione in materia di colori. E' evidente, d'altra parte, che non qualsiasi precomprensione è ugualmente valida come punto di partenza per l'interpretazione di un dato testo. Orbene, quando si tratta della Bibbia, che riferisce esperienze religiose e fa appello alla capacità religiosa dell'uomo, quale sarà la precomprensione più adatta? Una precomprensione neutrale, che non ha altri criteri se non quelli della ragione? O la precomprensione data da un'esperienza di fede? Non c'è dubbio! Per interpretare la Bibbia, il punto di partenza più valido è l'esperienza di fede, trasmessa dalla stessa Tradizione che ha dato origine ai testi biblici. Nella Prima ai Corinzi, l'apostolo Paolo dichiara apertamente che " l'uomo naturale (psychikos) non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui e non le può intendere, perché l'indagine va fatta in modo spirituale " (1 Cor 2, 14). Chi non ha questa giusta precomprensione può tuttavia studiare i testi da altri punti di vista e raggiungere risultati molto interessanti e istruttivi, d'indole filologica, letteraria, storica, psicologica, ecc. L'essenziale, però, gli sfugge. Come dice l'enciclica " Providentissimus ", con molte referenze a simili dichiarazioni dei Padri, " essendo essi privi della vera fede, non pervengono al midollo della Scrittura, ma ne rosicchiano solo la corteccia" (EB 113). Che peccato, se anche gli esegeti cattolici si limitassero a " rosicchiare la corteccia " della Scrittura ispirata!

Detto ciò, occorre aggiungere qualche distinzione a proposito della precomprensione di fede e, di conseguenza, ammettere la validità, fino a un certo punto, di diverse osservazioni espresse nell'articolo discusso.

Anche se è necessaria come punto di partenza, una precomprensione porta con sé il rischio d'influire troppo sull'interpretazione. Il lettore è tentato di interpretare il testo secondo le proprie idee. Uno sforzo metodico è necessario per definire il senso del testo " al momento della sua produzione ", come dice l'articolo. Questo non significa " a monte della tradizione biblica o ecclesiale ", perché la tradizione (biblica per i testi dell'Antico Testamento, ecclesiale per quelli del Nuovo) è anteriore ai testi biblici, i quali ne sono il frutto. Lo sforzo non deve quindi tendere a prescindere dalla tradizione in genere, ma solo a precisare lo stato della tradizione al tempo della produzione del testo studiato, prescindendo dagli elementi che sono entrati ulteriormente nella tradizione. A un testo pre-esilico non si può attribuire, " al momento della sua produzione ", un significato che dipendesse dalla tradizione post-esilica. A un testo neotestamentario non si può attribuire la precisione cristologica delle definizioni elaborate nei concili, dopo tre secoli, e più, di riflessione teologica.

L'esegeta deve dunque saper distinguere la precomprensione di fede e lo sviluppo storico della dottrina della fede. Per interpretare i testi biblici, non ha nessun motivo di " tenere in sospeso la sua fede ", che gli da la precomprensione più adatta ai testi, però si trova nella necessità di tenere in sospeso le sue idee sulla concettualizzazione successiva della fede, per non attribuirla anacronisticamente ai testi biblici. Deve anche essere pronto, se il lavoro esegetico porta a questa conclusione, ad abbandonare certe opinioni che sembravano legate alla fede, opinioni personali oppure opinioni comuni. La Bibbia non contraddice mai la grande Tradizione di fede dalla quale essa è nata, ma può benissimo contraddire alcune tradizioni, che saranno frutto di una evoluzione umana non abbastanza fedele alla Parola di Dio. Il discernimento in proposito si rivela spesso difficile e penoso, ma costituisce una delle condizioni necessarie per il progresso autentico della teologia.

Conclusione

L'esegesi praticata come disciplina teologica, condotta cioè nella fede e con serietà scientifica, ha normalmente il duplice risultato di nutrire la fede e di purificarla. La nutre, nella misura in cui procura una comprensione più esatta e più completa delle espressioni ispirate della fede, prese al momento stesso della loro produzione e studiate poi in tutti i loro aspetti. La purifica, perché obbliga a tener maggior conto del radicamento umano della Scrittura ispirata e a rinunciare a certi modi di idealizzare la rivelazione, secondo le tendenze spontanee della religiosità o del pensiero umano. Questo duplice risultato riveste un'importanza primaria per le altre discipline teologiche, che possono così trovare una base più sicura e una ispirazione più genuina e più ampia.