Klemens Stock S.I.

 

GESÙ

IL FIGLIO DI DIO

II messaggio di Giovanni

 

Edizioni ADP

 

 

Titolo originale dell'opera:

Jesus, der Sohn Gottes

© Tyrolia-Verlag Innsbruck-Wien 1987

Traduzione italiana di Giovanna Fozzer

Con approvazione ecclesiastica

© 1993 SEGRETARIATO NAZIONALE

DELL'APOSTOLATO DELLA PREGHIERA

00186 Roma - via degli Astalli, 16

Tel. (06) 678.60.65/679.83.86. Fax (06) 678.10.63

ISBN 88-7357-122-0

 

 

INTRODUZIONE

La liturgia prevede un anno di Matteo, uno di Marco e uno di Luca. Nelle domeniche del ciclo annuale vengono letti quasi continuativamente brani del Vangelo che è di turno in quell'anno. Non è previsto dunque dalla liturgia un anno di Giovanni. Eppure il suo Vangelo non è trascurato nella celebrazione eucaristica. Pur senza che vi sia un avvicendamento, ogni anno le feste proprie dell'anno liturgico sono improntate ad esso. Il brano evangelico che viene letto più frequentemente nel Tempo di Natale è il prologo di Giovanni. In molte domeniche della Quaresima e in quasi tutte le domeniche del Tempo pasquale ascoltiamo l'annuncio della Buona Novella secondo Giovanni. E brani di questo Vangelo vengono letti anche nei giorni feriali di parte del Tempo di Natale e della Quaresima e in quasi tutto il Tempo pasquale. Incontriamo il Vangelo di Giovanni nei momenti culminanti dell'anno liturgico: è il Vangelo delle solennità.

Il linguaggio di questo Vangelo può sembrare monotono e difficile; ma esso costituisce un séguito d'incontri pieni di tensione, ed è impossibile imbattersi in esso senza trovarsi immediatamente al centro della fede cristiana. Ogni sua pagina concerne il messaggio nuovo e inaudito su Dio, giunto a noi attraverso Gesù, il Figlio di Dio. Tramite Gesù, Dio viene conosciuto come colui che non vive solo con se stesso e a cui sono di fronte soltanto creature inferiori, ma come colui che è in se stesso unione vivente di Padre e Figlio. Dio manda nel mondo il Figlio suo e lo espone a morte, mostrando così la sovrabbondanza del suo amore e la sua sollecitudine per noi uomini: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (3,16). Gesù è stato mandato per sottrarci alla caduta nella transitorietà, nella vanità e nella morte. Egli dice di sé: Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (10,10). Il mezzo per avere la vita è la fede nel Figlio di Dio. Se crediamo in lui, se ci affidiamo e ci abbandoniamo con piena fiducia alla sua persona, usciamo dalla sfera della morte e della vanità. Con la sua mediazione siamo ammessi alla sua unione con Dio, che è vita incorruttibile, eterna, in vivente letizia.

Come nei tre volumi precedenti di spiegazione dei Vangeli di Marco, di Matteo e di Luca, anche in questo vengono presi in considerazione soprattutto i brani letti nella liturgia. Il messaggio evangelico dev'essere ricavato seguendo da vicino il testo evangelico. Le domande a fine capitolo vogliono ricordare che il Vangelo ci pone degli interrogativi e chiede in risposta la nostra conversione. Non vogliono essere altro che un invito a una riflessione in proprio.

IL VERBO DI DIO

(1,1-13)

Ognuno dei quattro Vangeli inizia in modo suo proprio. Matteo si collega alla storia della salvezza: presenta subito Gesù Cristo come figlio di Davide e figlio di Abramo. Presentando l'albero genealogico di Gesù, ne mette in rilievo l'appartenenza al popolo d'Israele e mostra come la storia di Dio e del suo popolo abbia in lui il proprio compimento e il proprio fine (cfr Mt 1,1-17). Marco fa riferimento all'attuale predicazione della Buona Novella, che ha questo contenuto: Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio. Con la sua opera Marco vuole mostrare il principio, ossia l'origine, il fondamento di tale predicazione (cfr Mc 1,1-15). Luca inizia il suo scritto al modo degli storici antichi, con un prologo. Vuole riferire tutto per ordine (1,3); perciò inizia con l'annuncio della nascita del Battista (1,5-25). Nel suo Vangelo il protagonista diventa figura centrale solo poco per volta, dopo che in 1,31 si è fatto per la prima volta il suo nome e in 2,11 si è detto quale sia la sua posizione. Il Vangelo di Giovanni, prima di chiamare, in 1,17, Gesù Cristo per nome, in 1,1-13 ne ha già definito le connotazioni essenziali e in 1,14-18 ha descritto forma, contenuti e presupposto della sua venuta sulla terra.

Per Giovanni Gesù Cristo è il Verbo. Con questa definizione egli vuole esprimere la più intima realtà di Gesù, il suo procedere da Dio e la sua importanza per noi uomini. Il popolo d'Israele conosce il proprio Dio come colui che gli parla: non come il Dio che si chiude distogliendosi nel silenzio, il Dio sconosciuto, lontano e che incute timore, ma come il Dio che si rivolge a lui e gli fa conoscere le sue intenzioni e la sua volontà. Ha parlato ad Abramo, lo ha chiamato e gli ha fatto la promessa della grande benedizione (Gn 12,1-3). Per mezzo di Mosè ha liberato il popolo dalla schiavitù e gli ha notificato la propria volontà soprattutto nelle "Dieci parole", o dieci comandamenti (decalogo). Per mezzo dei profeti è intervenuto nelle alterne vicende della storia del suo popolo. Ad essi ha rivolto la sua parola, perché la trasmettessero come parola d'ordine, di esortazione e di ammonizione, come parola di promessa e d'incoraggiamento. La parola di Dio è all'inizio di tutta la storia. Con la sua potente parola creatrice Dio ha chiamato a esistere ogni cosa: tutto deriva da questa parola. Per mezzo di essa Dio si rivolge alle sue creature, si rivela loro, le fa partecipi di tutto quanto è suo progetto e sua volontà nei loro riguardi. La parola di Dio ha donato l'essere e la vita. Essa si rivolge a noi, chiedendo il nostro impegno. È richiesta e promessa. Viene da Dio e fonda e determina il rapporto tra Dio e gli uomini.

Gesù Cristo non ha trasmesso soltanto come un profeta la parola di Dio, ma è egli stesso questa parola, la prima e ultima parola di Dio. In lui Dio si rivela in modo definitivo e pieno, ci parla e ci fa parte di sé. Nel suo rivolgersi a noi c'è sempre anche una richiesta, un chieder conto. Quali siano le caratteristiche di questo Verbo di Dio, da quale profondità venga, in quale rapporto stia con tutta la creazione, che cosa rappresenti per noi uomini il rapporto con lui, tutto questo viene descritto da Giovanni in 1,1-13.

La parola che in Gesù Cristo è stata trasmessa a noi uomini non risuona per poi estinguersi, ma è eterna e perenne come Dio: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio (1,1-2). Il rapporto della persona che è il Verbo di Dio con Dio stesso viene definito qui con tre affermazioni: il Verbo è eterno e increato come Dio; vive in perenne unità con Dio; è Dio al modo stesso in cui Dio è Dio. Queste tre affermazioni sono riassunte nel secondo versetto del Vangelo, ripetute e fissate come immutabili. Esse definiscono la più profonda sostanza, la qualità precipua e il genere di questa persona che è il Verbo di Dio, della quale il Vangelo ci riferisce il cammino sulla terra, le parole e le azioni. In tutto quanto Gesù compie si verifica questo: egli non è portatore di parole di Dio, ma è la parola stessa di Dio, salda e degna di fede come Dio nella sua divina profondità, nella sua divina altezza.

La Sacra Scrittura si apre con l'affermazione: In principio Dio creò il cielo e la terra (Gn 1,1). Il Vangelo di Giovanni invece non inizia con l'affermazione: In principio Dio creò il Verbo, bensì con l'affermazione: In principio era il Verbo. Come Dio, il Verbo non è creato, ma esiste da sempre, vive da prima della creazione, è senza principio e senza fine, eterno e insuperabile. Questo Verbo eterno è eternamente presso Dio. È un partner vivente di Dio ed è legato a lui con un'unione eterna e senza mediazione. Questa unione ha luogo sul medesimo piano divino; i partner sono uguali tra loro. Non si tratta perciò del rapporto tra Creatore e creatura. Il Verbo è di sostanza divina e di qualità divina, ha lo stesso grado di essere di Dio, è Dio, così come Dio è Dio. Solo a partire dal suo rapporto con Dio se ne può comprendere l'importanza e il valore, la potenza e la pienezza.

Della creazione Giovanni parla solo in seconda istanza. Eternamente e infinitamente prima del rapporto Creatore-creatura sta il rapporto Dio-Verbo di Dio. Il rapporto del Verbo con la creazione viene così definito: Tutto è stato fatto per mezzo di lui. Anche questa affermazione viene ripetuta e sottolineata: E senza di lui nulla è stato fatto di quanto esiste (1,3). Tutto il creato è dovuto al Verbo divino (cfr 1 Cor 8,6; Col 1, 16; Eb 1,2), dipende da lui nel suo esistere. Il Verbo vive in eterna unione con Dio; è legato alla creazione fin dall'origine di essa; è, nella sua essenza, Verbo di Dio. E quando viene nel mondo, non istituisce un nuovo rapporto con la creazione, non entra in un paese straniero, bensì viene nella sua proprietà (1,9-11). A partire già dai suoi rapporti fondamentali, egli mira a comunicare e a collegare, è il Verbo di Dio rivolto alla sua creazione.

II particolare rapporto del Verbo con gli uomini è caratterizzato da vita e luce. Nell'Antico Testamento si afferma: La tua parola è lampada ai miei passi, luce sul mio cammino (Sal 119,105) e: Sono profondamente afflitto, Signore. Dammi vita con la tua parola! (Sal 119,107). La proprietà fondamentale del Verbo è certamente la vita, l'infinita pienezza di vita, da cui è assente ogni ombra di morte e di limitazione. Il Verbo è caratterizzato dalla vita, così come Dio è il Dio vivente (cfr Gv 5,26). Tramite questa sua inesauribile pienezza di vita, egli diventa per gli uomini luce che illumina, rende tutto chiaro e rende possibile vivere e orientarsi. Tramite questa sua vita, tutto diventa chiaro e diventa ambito di vita; la morte, le sue tenebre e tutte le sue ombre vengono fugate. Per mezzo del Verbo, del suo chiaro splendore e del suo dare orientamento e mèta, diventa visibile agli uomini, destinati alla morte, quello che è vera vita e pienezza di vita.

Ma qui viene anche dichiarato per la prima volta che l'opera del Verbo deve affermarsi contro una forza ostile. Le tenebre circondano tutti i poteri che vogliono proteggere gli uomini dalla luce e ostacolarne l'influsso rischiaratore. Tutto il Vangelo parla del conflitto tra la luce e le tenebre. Ma la luce risplende e prevale; l'accenno a una grande minaccia termina con il gioioso e trionfante annuncio della vittoria, che anticipa l'esito della lotta: Le tenebre non hanno vinto la luce (1,5). La luce viva e apportatrice di vita continua a illuminare noi uomini.

Dopo un primo sguardo al testimone Giovanni (cfr pp. 21-23), viene ulteriormente spiegata la venuta del Verbo nel mondo (1,9-13). Egli viene come la vera luce, che è realmente e pienamente luce e che risplende per ogni uomo. Per ognuno egli dispiega la propria natura di luce, il proprio potere illuminante. Ma trova un'accoglienza discorde. L'evangelista afferma due volte di seguito che il Verbo di Dio è stato respinto. Egli era nel mondo, ma il mondo, che deve a lui la propria esistenza, non ha capito con chi aveva a che fare nella sua persona; la creatura è cieca e vuol essere cieca davanti al suo Creatore. Con "la sua gente" (Gv 1,11) viene indicato ancora il mondo umano in quanto proprietà del suo Creatore, oppure Israele in quanto popolo di Dio (cfr Sal 135,4). I suoi lo hanno lasciato fuori della porta, non hanno voluto averlo tra loro. L'intero Vangelo di Giovanni, da qui fino alla crocifissione di Gesù, farà menzione di tale rifiuto. Qui viene messo in evidenza il rapporto di coloro che rifiutano con il rifiutato: le creature non vogliono saperne del loro Creatore, che non solo le ha create, ma è anche sceso a cercarle nel loro mondo.

Ma il Verbo di Dio è stato anche accolto. Il suo accoglimento avviene per mezzo della fede e porta con sé il diventare figli di Dio. Credere in qualcuno significa dare a lui piena adesione e fiducia, basare tutto su di lui, affidarsi completamente a lui. Questa fede è una decisione personale dell'uomo, un atteggiamento della sua volontà. Nella fede l'uomo dispone di se stesso, s'impegna pienamente e si affida all'altro per il presente e per il futuro. Per Giovanni, la fede (credere in lui) è l'atteggiamento fondamentale che l'uomo deve avere nei confronti di Gesù. L'evangelista ne parla 33 volte e, con un'eccezione in 14,1 (fede in Dio), sempre in riferimento a Gesù. L'espressione "credere nel suo nome" è più rara (1,12; 2,23; 3,18; 1 Gv 5,13) ed è sempre riferita a Gesù. Essa significa porre tutta la propria fiducia in qualcuno in quanto è colui che viene designato con il suo nome. Il deciso affidarsi a una persona è guidato dal riconoscimento e dalla chiara coscienza di chi è colui al quale ci si affida. Come risulta da 3,18 (cfr 7 Gv 5,13), il nome del Verbo è "Figlio unigenito di Dio" (cfr 1,14.18). Noi dunque accogliamo il Verbo quando lo riconosciamo come Figlio unigenito di Dio e confidiamo pienamente in lui.

A tutti quelli che credono nel Verbo divino è dato il diritto di diventare figli di Dio. Il rapporto di un padre con i figli è caratterizzato dal fatto che egli trasmette loro la vita e che essi vivono un legame familiare personale. Figli di Dio sono quelli che hanno la vita da Dio e possono vivere in unione con lui. Che questa vita dei figli di Dio sia radicalmente diversa da quella terrena è dimostrato dal fatto che in essa viene decisamente escluso un insieme di fattori che contraddistinguono l'origine della vita terrena naturale (1,13). Nascendo di nuovo da Dio (cfr 3,3), noi diventiamo suoi figli, otteniamo la vita eterna, la partecipazione alla sua stessa vita. Questa nuova nascita dipende dalla fede nell'unigenito Figlio di Dio.

Il campo dei riferimenti determinato da Giovanni nel suo prologo è vasto. Egli chiama Gesù "il Verbo", collegandolo così con tutte le forme di sollecitudine di Dio per gli uomini, delle quali lo considera culmine e compimento. Determina le relazioni essenziali di questo Verbo con Dio, con tutto il creato e con gli uomini, e su questa base definisce le risposte alla sua venuta: rifiuto e accoglimento. Così diventa comprensibile anche il significato della sua venuta: il Verbo, che proviene dall'unione eterna con Dio ed è pari a lui, deve renderci partecipi, per mezzo della fede, della vita eterna di Dio. Questo è l'orizzonte da cui si dispiega tutta la storia di Gesù.

Domande

1. Come esperiamo e conosciamo il parlare umano (in quanto comunicazione, espressione di fiducia, incoraggiamento, apprezzamento ecc.) e il tacere (per necessità, mutismo, mancanza d'interesse, rancore ecc.)? Che significato ha per noi il Verbo di Dio?

2. Siamo in grado di percepire come molte volte noi siamo circondati dalle tenebre? Che cosa si frappone tra me e il mio Creatore, oscura quest'ultimo per me e impedisce una viva comunione? Molte cose infatti ci possono apparire più interessanti, più importanti, più convincenti e più promettenti dell'accoglimento di Dio che si dona.

3. Il prologo di Giovanni è il brano evangelico più letto nel Tempo di Natale. Quali aspetti della venuta di Cristo, che è il contenuto della festa natalizia, vengono messi in luce da questo brano?

IL VERBO FATTO CARNE

(1,14-18)

A parte il nome del testimone Giovanni (1,6), nella prima parte del prologo non troviamo nessun nome di persona. Dopo che l'evangelista ha detto tante cose sul Verbo di Dio, sul suo rapporto con Dio e sulla sua venuta nel mondo, sorgono delle domande: come è egli nel mondo? dove lo si trova? chi lo ha incontrato? che cosa ha da parteciparci? Nella seconda parte del prologo (1,14-18) i nomi di persona si sommano insieme; entra in scena un gruppo, caratterizzato come "noi" (1,1.4.16); tutto diventa più definito e comprensibile. Le affermazioni si accavallano e s'intrecciano. Prima di affermare che il Verbo fatto carne è pieno di grazia e verità (1,14), l'evangelista dice che noi abbiamo veduto la sua gloria (1,14). E prima di dire che noi abbiamo ricevuto tanto dalla sua pienezza, accenna alla testimonianza di Giovanni Battista (1,15). Questa testimonianza è di grande importanza per il vedere di questo gruppo caratterizzato come "noi" (cfr 1,29.30.36). L'evangelista deve riferire un'esperienza straordinaria, che mozza il respiro, e sembra esprimere questo nel susseguirsi delle affermazioni che si accavallano. L'unica grande esperienza, l'incontro con il Verbo fatto carne, la si vorrebbe esprimere tutta in una volta, mentre essa può essere comunicata soltanto gradualmente, per parti.

La venuta del Verbo come luce nel mondo (1, 9) si realizza nel suo "farsi carne", mentre di solito noi parliamo del suo "farsi uomo". Il termine "carne" nella Sacra Scrittura non indica una parte dell'uomo, o magari il suo corpo, bensì l'uomo nella sua interezza. Esso mette in risalto che l'uomo è debole e caduco, un essere a disposizione del dolore e della morte. "Farsi carne" vuol dire dunque che il Verbo di Dio è diventato un vero essere umano caduco e mortale e che come tale si è fatto presente nel mondo come luce e vita per gli uomini. Il Verbo increato, che sta in un eterno e vivente rapporto con Dio ed è Dio egli stesso, non cessa di essere questo Verbo di Dio, ma al tempo stesso diventa un uomo mortale.

Prima di fare il nome di quest'uomo, che è al tempo stesso il Verbo di Dio, vero uomo e vero Dio, Giovanni traccia i caratteri della sua permanenza presso gli uomini. Il Verbo non è passato soltanto fuggevolmente ed è subito sparito, ma ha vissuto per molto tempo in comunità con gli uomini: ha abitato in mezzo a loro. L'evangelista descrive anche il travolgente incontro avuto con lui: Abbiamo visto la sua gloria. Non un singolo uomo, bensì un gruppo ha potuto incontrare il Verbo di Dio fatto carne. Poiché parla di "noi", l'evangelista si considera di questo gruppo. Si tratta del gruppo dei discepoli, che hanno potuto vivere direttamente in comunione con Gesù e hanno potuto comprenderne la vera realtà (cfr 2,11; 20,30). Essi hanno visto la gloria dell'unigenito Figlio del Padre (1,14). L'Antico Testamento parla della "gloria di Dio" in occasione delle manifestazioni divine (cfr Es 24,16-17; Ez 1,28). Con questo termine non s'intende una qualsiasi magnificenza o gloria, bensì lo splendore luminoso in cui si esperisce la presenza di Dio. Nelle manifestazioni divine il Dio onnipotente e nascosto rivela la propria presenza. Allo stesso modo il Verbo di Dio, presente come uomo mortale e nascosto, diventa visibile ai discepoli nella sua vera realtà: essi hanno veduto la sua gloria. Colui che è vissuto familiarmente con loro, si è fatto conoscere loro come il Figlio unigenito, che ha come padre Dio stesso ed è su un piano di parità e di uguaglianza divina. In questa visione della gloria di Gesù, i discepoli sono stati raggiunti dalla manifestazione, dal luminoso mostrarsi della persona del Verbo, di ciò che più profondamente gli è proprio. E in questa visione si è manifestata loro la luce (1,4.9), in compiuta letizia (cfr 1 Gv 1,4).

Finora si è parlato del Verbo e di Dio. Ora diventa chiaro che nel Verbo si tratta del Figlio unico e impareggiabile di Dio, che il Padre ha mandato nel mondo. Il fatto che Gesù stia in un rapporto unico e incomparabile di figliolanza con Dio viene espresso da Giovanni in molti modi. Con una frequenza doppia rispetto agli altri evangelisti presi insieme, egli usa per Dio la definizione di "Padre" (122 volte). Nel suo Vangelo Dio viene menzionato come Padre degli uomini soltanto tre volte: due volte nella pretesa dei giudei respinta da Gesù (8,41-42) e una volta nel messaggio pasquale di Gesù ai discepoli (20,17. Cfr pp. 173-174). Inoltre, soltanto Gesù viene definito "Figlio di Dio"; gli uomini non sono chiamati "figli", bensì "creature" di Dio. Figlio di Dio in senso proprio, su un piano di uguaglianza e di parità con lui, è soltanto Gesù.

Il Verbo fatto carne, il Figlio mandato dal Padre nel mondo, è "pieno di grazia e di verità". Questa espressione sta a indicare quanto viene donato agli uomini con la presenza del Verbo, quanto i discepoli hanno ricevuto comprendendo chiaramente la persona del Verbo (1,16). Tramite Gesù si sono rese presenti la grazia e la verità; egli stesso è la grazia e la verità (1,17). Con "grazia" s'intende il dono benevolmente concesso; con "verità" la rivelazione di una realtà che finora era nascosta. Gesù stesso è "la verità": Io sono la via, la verità e la vita (14,6). Con quello che lui è ci fa conoscere un aspetto completamente nuovo di Dio: Chi ha visto me ha visto il Padre (14,9). Con il suo essere Figlio, egli è la rivelazione di Dio come Padre: non si può conoscere Gesù come Figlio di Dio senza conoscere contemporaneamente Dio come Padre di Gesù. Questo rendersi noto di Dio è di per sé un dono di grazia, espressione della sua benevola inclinazione verso gli uomini.

Che questo fatto costituisca una novità, lo dimostrano i successivi confronti con ciò che contraddistingue l'epoca dell'Antico Testamento. Per mezzo di Mosè è stata data la Legge. Mosè è un intermediario: ha ricevuto la Legge da Dio e l'ha trasmessa al popolo. Già la Legge è dono gratuito, parola di Dio, segno della sua sollecitudine; rivela la volontà di Dio, attraverso i suoi precetti e le sue promesse; annuncia quello che Dio stesso vuole fare, quello che Dio darà al suo popolo (cfr 1,45; 5,46); e nello stesso tempo fa sapere quello che il popolo deve fare, in conformità alla volontà di Dio. Anche i precetti di Dio vengono percepiti come segni della sua grazia: attraverso di essi Israele può conoscere quello che Dio desidera e vuole (cfr Sal 19; 119). Il massimo valore per l'uomo, il suo desiderio più profondo non è costituito dall'emancipazione della sua volontà. L'uomo che si lascia guidare da questo criterio sente il precetto di Dio come gravosa prescrizione, come limitazione del libero arbitrio; il suo atteggiamento è centrato sul proprio io e sulla propria libertà. Quando invece l'uomo accoglie il precetto di Dio come dono misericordioso, il suo desiderio più grande è l'unione con Dio. Egli rivela allora un atteggiamento centrato sul legame con Dio; si rallegra di conoscerne la volontà e vorrebbe, per così dire, leggergli negli occhi quelli che sono i suoi desideri. Già la Legge, dunque, era un grande dono.

Ma ciò che Dio fa pervenire agli uomini per mezzo di Gesù Cristo va oltre questo dono. Gesù Cristo non è un intermediario alla maniera di Mosè, il quale trasmette qualcosa che ha ricevuto. È per mezzo di Gesù in persona che è giunto nel mondo il dono misericordioso della verità, la rivelazione di ciò che finora era stato nascosto. Per mezzo di lui viene superato questo dato che era stato valido fino allora: Nessuno ha mai visto Dio (1,18). A nessuno, neanche a Mosè, era stato concesso un incontro diretto e una piena conoscenza di Dio. Nonostante tutto quello che aveva trasmesso a Mosè, Dio rimaneva essenzialmente il Dio nascosto e sconosciuto. Invece, il Figlio unigenito, che riposa sul cuore del Padre, ce lo ha fatto conoscere (1,18). Il compito principale di Gesù è quello di annunciarci questa conoscenza. Tuttavia l'evangelista non espone in maniera dettagliata il contenuto di tale annuncio; enumera piuttosto quello che contraddistingue e qualifica Gesù e sottolinea che Gesù, ossia colui che è stato appunto così qualificato, ce ne ha portato l'annuncio. Il dato che è agli antipodi di tale annuncio recato da Gesù è l'essere nascosto di Dio. Le tre proprietà che qualificano Gesù per trasmetterci l'annuncio riguardano il suo rapporto con Dio. Cosi si chiarisce anche che Gesù non porta l'annuncio di una qualche cosa, bensì di Dio, e che questo annuncio corrisponde alle suddette qualificazioni.

Nelle tre qualificazioni viene ripreso ciò che il prologo aveva già indicato come segni distintivi essenziali del Verbo: Gesù è il Figlio unigenito (cfr 1,14), ha un rapporto del tutto singolare con Dio per quanto concerne la propria origine, è Dio (cfr 1,1c). Si tratta dunque di un rapporto tra persone alla pari, che sono della medesima natura e indole. Il Verbo riposa sul cuore del Padre (oppure: è rivolto al suo cuore. Cfr 1, 1b). Questo rapporto è vissuto in cordiale, fiduciosa unità (cfr Gv 13,23; Lc 16,22-23). Ciò che viene annunciato su Dio e che è presente in queste qualificazioni della persona di Gesù ha questo significato: Dio è Padre, ha un Figlio che è uguale a lui e vive in un rapporto di intima e fiduciosa unione con lui. Così viene superata di gran lunga la conoscenza di Dio qual era data dalla Legge. L'Antico Testamento conosceva il Dio creatore, a cui erano contrapposte le sue creature, infinitamente diverse da lui. Secondo tale concezione, Dio stesso è "monolitico", solo con se stesso. Per mezzo di Gesù, invece, viene reso noto che proprio in Dio, sul piano divino, c'è comunione, c'è il rapporto di amore affettuoso e fiducioso tra Padre e Figlio. Gesù porta un messaggio su Dio, in cui egli stesso è questo messaggio. Gesù porta questo messaggio, affinché quanti credono in lui come Figlio partecipino al suo rapporto con Dio, diventino figli di Dio (1,12). Questa è la novità assoluta che Gesù ci fa conoscere. Qui sta la diversità tra la conoscenza e il rapporto con Dio nell'antica alleanza e la conoscenza e il rapporto con Dio nella nuova alleanza. Fino ad ora è stata valida l'affermazione: Nessuno mai ha visto Dio (1,18); ma ora, chi ha visto me ha visto il Padre(14,9).

Il prologo fa tre nomi: Giovanni, Mosè e Gesù. Così le sue affermazioni si legano a tre persone storiche. Giovanni è venuto come testimone della luce (1,7). Per mezzo di Mosè è stata data la Legge (1,17). Con Gesù sono venute nel mondo la grazia e la verità. Si tratta della persona storica di Gesù di Nazaret. Quando l'evangelista la nomina (1,17), ha già detto tutto quanto rende chiaro chi essa sia e quale significato abbia. Ma tutto quanto egli espone non è frutto di speculazione, bensì proviene da questa persona storica e si è dischiuso per i discepoli in un incontro sempre più profondo con essa. Il prologo riassume ciò che è stato dato ai discepoli nella visione della gloria di tale persona.

Soltanto Gesù è portatore di un titolo: è chiamato "il Cristo". Viene designato come l'ultimo re del popolo d'Israele donato da Dio, lui che è "la grazia e la verità". E alla fine del Vangelo Gesù stesso riassumerà così, davanti a Pilato, la sua posizione e il suo compito: Tu l'hai detto; io sono re. Per questo sono nato e sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità (18,37). Il compito messianico-regale di Gesù è quello di portare la verità, di rivelare nella sua realtà di Padre il Dio nascosto.

Giovanni vede l'opera e l'importanza di Gesù in modo completamente teocentrico. Il Verbo porta il messaggio su Dio: messaggio che s'identifica con la sua stessa persona. Tutto quanto l'evangelista afferma sul Verbo di Dio fatto carne, con le parole "luce, vita, gloria, grazia, verità", trova il suo significato nel messaggio su Dio. Il Figlio, che rivela Dio come Padre e la comunione in Dio, illumina il mondo, risplende di gloria, è rivelazione e sollecitudine piena di grazia e dona ai credenti la vita eterna.

Domande

1. In 1 Gv 2,23 leggiamo: Chiunque nega che Gesù sia il Figlio non possiede neppure il Padre; chi riconosce che egli è il Figlio possiede anche il Padre. Che significato ha per noi il rapporto di Gesù con Dio? In che cosa differisce la conoscenza di Dio nell'Antico Testamento da quella nel Nuovo Testamento?

2. Come si collega ciò che l'evangelista dichiara riguardo al Verbo di Dio con il Gesù di Nazaret storico?

3. Quali atteggiamenti sono presupposti al percepire la rivelazione della volontà di Dio come un peso o come un dono?

 

GIOVANNI, IL TESTIMONE

(1,19-28)

Noi chiamiamo questo personaggio "Giovanni Battista", secondo la consuetudine dei Vangeli sinottici. Anche il IV Vangelo ricorda continuamente che Giovanni ha battezzato; tuttavia non gli dà mai il titolo "il Battista". Ritiene che il suo compito si concentri nel far conoscere Gesù a Israele (1,31); e anche il suo battesimo ha questa funzione. Sin dalla prima menzione che fa di lui, il IV Vangelo lo definisce "il testimone della luce" (1,6-8). Questa missione di Giovanni di rendere testimonianza a Gesù è così importante che nel prologo egli viene nominato due volte come "testimone" (1,6-8) e in riferimento alla sua testimonianza (1,15). Perciò, stando al IV Vangelo, egli dovrebbe essere chiamato "Giovanni il testimone". La definizione che dà di lui la Chiesa orientale, "Giovanni il precursore", è aperta alla sua doppia missione di battezzatore e di testimone.

Quando un dato è accessibile in ogni tempo e a ogni uomo, non c'è bisogno di testimoni. Che saltare in alto dieci metri sia difficile, lo può constatare chiunque, non c'è bisogno di dimostrarlo. Ma esistono anche dati legati a un determinato luogo e a un determinato tempo, o che sono segreti e difficili da determinare e, quindi, accessibili soltanto a pochi. Per averne notizia certa, dobbiamo affidarci a testimoni degni di fede, a persone che hanno partecipato a quegli avvenimenti, o che hanno avuto accesso al segreto. Un classico ambito di testimonianza è il procedimento giudiziario. Generalmente i giudici non hanno assistito di persona agli avvenimenti che devono giudicare. Perciò devono affidarsi a testimoni, per spiegare come sono andate veramente le cose e com'è distribuita la responsabilità. Anche ogni nozione del passato e ogni conoscenza storica sono affidate a testimoni. È un dato di fatto fondamentale della nostra situazione di esseri umani che moltissime cose, anche molto importanti, ci siano accessibili solo per mezzo di testimoni.

Giovanni è il testimone della luce (1,6-8). È paradossale che proprio la luce abbia bisogno di un testimone. La luce vera risplende per ogni uomo (1,9), eppure gli uomini non vengono a trovarsi naturalmente nel suo splendore. Come un tesoro nascosto, essa dev'essere prima scoperta; soltanto dopo essa risplende e rende visibile tutto nella sua vera realtà. È caratteristico di Gesù che la sua vera realtà non si trovi soltanto in superficie e non sia accessibile con un qualsiasi approccio. Egli non s'impone, non fa violenza e non costringe nessuno; è sempre possibile evitarlo e prescindere da lui. Gesù è la luce che esige la libera decisione dell'uomo e non rende tale decisione superflua. A causa di questo suo essere nascosto, Gesù ha bisogno di testimoni. Giovanni è il suo primo testimone, lo rende accessibile nella sua vera realtà e lo manifesta come luce. Ma anche la sua testimonianza non è una prova stringente: tutti devono credere per mezzo di lui (1,7). La sua testimonianza è certa: chi crede a lui, giunge a Gesù come luce.

Battezzando, Giovanni ha fatto sensazione. Il battesimo era una cosa così inconsueta e così caratteristica di Giovanni, che il nome "Giovanni Battista" gli viene dato non soltanto nei Vangeli sinottici, ma anche dallo storico giudeo Flavio Giuseppe. 11 suo farsi battezzatore impone una domanda: a che cosa vuole arrivare Giovanni con ciò? chi ritiene di essere? Questa domanda gli viene posta da una delegazione giunta da Gerusalemme e dà luogo alla sua prima testimonianza. Facendo conoscere la provenienza e la composizione di questa delegazione (1,19.24) e il luogo in cui viene resa tale testimonianza (1,28), l'evangelista ne mette in rilievo il carattere ufficiale, per così dire notorio. Giovanni parla come testimone e rivendica la propria credibilità. Nella sua testimonianza mette a verbale chi egli non è (1,19-21), chi egli è (1,22-23) e chi verrà dopo di lui (1,25-27). Già nel prologo si diceva di lui: Non era lui la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce (1,8).

Giovanni dichiara innanzitutto chi egli non è. Su questo punto non era stato interrogato. Egli stesso sottolinea sin dall'inizio e con molto vigore: Io non sono il Cristo (1,20). Questo non lo si deve neppure pensare. Giovanni esclude anche di essere una delle altre figure che hanno un compito indipendente, a sé stante. Con altrettanta decisione dice chi egli è. La sua azione ha carattere soltanto preparatorio, ma è di assoluta importanza, essendo annunciata nella Scrittura e stabilita da Dio. Egli è solo una voce dal forte richiamo, ma annuncia la venuta del Signore ed esorta a prepararsi ad essa. È richiamo e preparazione a colui che viene dopo di lui. Su tale personaggio egli fa soltanto due affermazioni: è in mezzo a loro, ma essi non lo riconoscono; ha una tale dignità che Giovanni stesso non è degno neppure di prestargli il più umile servizio da schiavo. Nascondimento e dignità continueranno a caratterizzare Gesù. Egli è la luce che risplende nascostamente e, insieme, l'unica vera luce.

La testimonianza di Giovanni diventerà ancora più chiara. Finora egli ha descritto soprattutto il proprio compito; ma con ciò è diventato più chiaro quello che è essenziale riguardo a colui che viene dopo di lui.

Domande

1. Gesù non è la luce che splende palesemente: di conseguenza, quale libertà è attribuita all'uomo, e quale carico di responsabilità al cristiano?

2. Gesù è nascosto in mezzo a noi. Dove sono i suoi testimoni e che cosa possono fare per richiamare l'attenzione su di lui?

3. Giovanni esegue il suo compito. Siamo anche noi preparati a vedere e a eseguire il nostro?

 

LA TESTIMONIANZA DI GIOVANNI

(1,29-34)

Dal prologo e dalla testimonianza esplicativa di Giovanni veniamo preparati alla venuta di Gesù. Ora l'evangelista c'informa per la prima volta della sua comparsa. Non ne descrive però ancora l'operare, bensì espone come Giovanni lo vede venire e gli rende testimonianza. Questa testimonianza su Gesù è della massima importanza. Non è evidente, infatti, chi egli sia veramente; non basta vederlo per comprendere chi egli sia e che cosa porti. Giovanni è mandato come testimone. Della sua opera di testimone si è parlato già nel prologo (1,6-8.15) e di essa si occupa l'inizio del Vangelo. Giovanni dà testimonianza davanti alla delegazione mandata da Gerusalemme (1,19-28) e davanti ai propri discepoli (1,35-37). Qui tutto si concentra sul contenuto serrato e forte della sua testimonianza. Egli dice chi è Gesù e che cosa farà, e mostra come egli stesso sia stato reso capace di tale testimonianza da Dio.

Giovanni inizia e conclude la sua testimonianza indicando Gesù come "Agnello di Dio" (1,29) e come "Figlio di Dio" (1,34). Designa come azioni fondamentali di Gesù prendere su di sé il peccato del mondo e battezzare nello Spirito Santo. Il Figlio di Dio viene come Agnello di Dio: in questo modo viene definita la natura della sua venuta, il suo rapporto con gli uomini e con Dio e la sua opera per gli uomini. Gesù non viene con travolgente potenza e abbagliante splendore: è in mezzo agli uomini, ma gli uomini non lo conoscono (1,26). Neppure Giovanni lo conosceva prima che gli fosse stato rivelato (1,31.33). Perciò Gesù può essere facilmente ignorato e trascurato, come un agnello. Si presenta agli uomini del tutto esposto, indifeso e inerme, senza potenza né violenza (cfr Mt 10,16). Vuole conquistare la loro fede e il loro volontario consenso; non vuole costringerli o sopraffarli. In questo modo egli è anche esposto alla loro violenza e al loro arbitrio (cfr 18,36). Ma in quanto Agnello di Dio, egli appartiene anche completamente a Dio; Dio è il suo pastore. Proprio in quanto è colui che non accampa nessuna violenza, mentre si espone lui stesso alla violenza degli uomini, è al sicuro entro la sollecitudine di Dio suo pastore.

L'opera dell'Agnello di Dio che viene ricordata per prima, consiste nel prendere su di sé il peccato del mondo, togliendolo. Colui che viene nel mondo come Agnello di Dio ha di fronte a sé un mondo segnato dal peccato, dal comportamento sbagliato nei confronti di Dio. Dato che per le creature ogni pienezza di senso e ogni riuscita nella vita dipende dal loro corretto rapporto con Dio, il peccato significa concretamente per esse perdita di senso e morte. Gesù viene riconosciuto innanzitutto come colui che prende su di sé la totalità del peccato e libera tutto il creato dalla perdita di senso e dalla morte; sin dal principio egli si manifesta come il salvatore del mondo (4,42. Cfr 3,17).

Quando egli viene indicato come "l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo", viene richiamato alla memoria anche il Servo del Signore, di cui parla Isaia (52,13-53,12) e del quale si dice: II Signore fece ricadere su di lui la colpa di noi tutti. Maltrattato e umiliato, non aprì la sua bocca. Era come un agnello condotto al macello; e come pecora davanti ai suoi tosatori, non aprì la sua bocca [...?. Portò le colpe di molti e intercedette per i peccatori (53,6-7.12). Destinato a questo da Dio e da lui legittimato, il Servo del Signore porta al posto degli altri tutta la colpa e le sue conseguenze. In silenzio e senza fare opposizione, prende su di sé tutte le sofferenze e offre la propria vita. Così rende possibile la salvezza e la grazia. All'azione del Servo del Signore corrisponde l'opera di Gesù, che offre la sua vita per mandato del Padre (10,17-18) e, innalzato sulla croce, diventa segno di salvezza (3,14-15). Pertanto, la parola riguardante l'Agnello di Dio fa riferimento sin dall'inizio alla morte di Gesù e al suo significato salvifico per il mondo intero.

Come il Servo del Signore, anche Gesù porta al posto degli altri il peccato del mondo. Ma è significativo anche per Dio stesso che Gesù porti la colpa e la tolga. Apparendo a Mosè per rinnovare il patto, egli si era rivelato: Il Signore è un Dio misericordioso e clemente, indulgente, ricco di benevolenza e di fedeltà: conserva la sua benevolenza per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione (Es 34,6-7). Ciò che caratterizza Dio è la sua misericordia, che si manifesta nel togliere ogni colpa, senza che per questo ci sentiamo autorizzati a scherzare con lui. In quanto Agnello di Dio che è Figlio di Dio, Gesù opera come Dio e toglie le colpe del mondo: così in lui si manifesta la misericordia di Dio. Per incarico del Padre e al posto degli altri, prende su di sé la colpa di tutti gli uomini e offre la propria vita per loro; in nome del Padre e perché si adempia la misericordia divina, toglie tutte le colpe. Dio manifesta attraverso suo Figlio la sua misericordia e il suo amore proprio nei confronti del mondo che ha mancato contro di lui (cfr 3,16).

Colui che viene umile e indifeso come un agnello e offre al mondo questo inestimabile servizio di liberarlo dal peccato, è realmente il salvatore del mondo e, al tempo stesso, possiede una dignità incomparabile. Giovanni ha già dichiarato di non essere degno di rendere a questo personaggio il più umile servizio da schiavo (1,27); ora riprende una sua precedente testimonianza (1,15), nella quale diceva di lui: Dopo di me viene uno che mi è passato avanti, poiché era prima di me (1,30). Per quanto riguarda la sua opera durante la vita pubblica, Gesù viene dopo Giovanni, che gli rende testimonianza; ma è incomparabilmente superiore a Giovanni e lo supera di molto con la sua opera, finora nascosta. Tutto è stato fatto per mezzo di lui (1,3.10) ed egli è intervenuto anche nella storia d'Israele (cfr 8,56; 12,41). Fondamento di tutto questo è la sua vita da sempre in comunione di pari dignità con il Padre (cfr 1,1-2). Da questo fondamento discende il suo liberare dalla colpa e ogni suo operare.

Giovanni è anche in grado di riconoscere Gesù e lo annuncia come colui che battezza nello Spirito Santo (1,33). Egli invece battezza con acqua e il suo battesimo deve preparare gli uomini all'incontro con Gesù, in modo che possano conoscerlo. Gesù non soltanto toglie il peccato e risolleva il rapporto con Dio che era decaduto, ma dona anche, per mezzo dello Spirito, l'inesauribile vita di Dio e fonda un nuovo rapporto con lui. Il suo battesimo è purificazione e rinascita. Con esso inizia la vita nuova, di comunione con Dio, donata per mezzo del Figlio. Chi riceve questo battesimo ha accesso alla vita divina che il Padre e il Figlio conducono nella più affettuosa intimità e unione. Giovanni conclude così la sua testimonianza: Io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio (1,34). Così egli dichiara il fondamento di tutto quanto ha fatto conoscere in precedenza sulla posizione e l'opera di Gesù. Poiché Gesù è il Figlio di Dio e vive dall'eternità in comunione di pari dignità con Dio, in quanto Agnello di Dio può togliere il peccato di tutto il mondo e donare, per mezzo del battesimo nello Spirito, la partecipazione alla propria vita con il Padre.

Giovanni rende testimonianza a Gesù e nello stesso tempo mostra in che modo è legittimato come testimone. Sottolinea due volte che non aveva conoscenza di Gesù per proprio conto (1,31-33); non conosceva Gesù per idea e ispirazione propria. Ma da colui che lo ha mandato, cioè da Dio stesso, ha appreso come segno di riconoscimento la discesa dello Spirito (1,33) e, con l'aiuto di tale segno, ha riconosciuto Gesù come colui che battezza nello Spirito. La sua testimonianza riposa su quanto egli vede e sull'ammaestramento ricevuto da Dio. Tale ammaestramento gli comunica il significato di ciò che vede. Perciò Giovanni non testimonia soltanto quello che ha visto, ma anche quello che gli è diventato noto per quanto ha visto: la dignità e l'azione di Gesù.

Per il suo contenuto, la testimonianza di Giovanni rivela la posizione assolutamente unica e la missione di Gesù. Proprio all'inizio e alla fine del IV Vangelo viene messo in rilievo il significato irrinunciabile della testimonianza per l'approccio a Gesù, il quale non viene conosciuto per mezzo di visioni, di ispirazioni interiori o di prove esterne. Giovanni, il testimone, conduce a Gesù i propri discepoli (1,35-37), i quali diventano a loro volta testimoni (cfr 1,41.45; 19,35) e sono inviati a rendere testimonianza (cfr 17,18; 20,21).

Domande

1. Prima di ogni Comunione ripetiamo la frase detta da Giovanni: "Ecco l'Agnello di Dio!". Che cosa significa per noi?

2. Perché è necessaria la testimonianza riguardo a Gesù? Che cosa contraddistingue il testimone?

3. In quale mondo s'imbatte Gesù? Che cosa fa per esso?

 

PRIMO INCONTRO

(1,35-51)

II prologo e la testimonianza di Giovanni costituiscono un'unica serie di potenti affermazioni concernenti la persona di Gesù Cristo: egli è il Verbo increato, è Dio, partecipe della creazione, Vita, Luce vera, Verbo fatto carne; è il Figlio unigenito, la Grazia, la Verità; è infinitamente superiore a Giovanni in dignità; è l'Agnello di Dio, toglie il peccato del mondo, battezzerà nello Spirito Santo; è il Figlio di Dio. In forma concisa abbiamo appreso l'essenziale sul rapporto di Gesù con Dio e la sua importanza per gli uomini. Come si comporterà colui che è stato designato nei modi suddetti? Finora non abbiamo ascoltato nessuna parola detta da lui; ci è stato soltanto riferito che egli si è recato da Giovanni (1,29). Ma a partire da questo momento diventano centrali le sue azioni e le sue parole. Prima di ogni altra cosa, l'evangelista descrive come Gesù ha incontrato i suoi primi discepoli. Questi incontri sono molteplici e individualmente diversificati, ricchi d'atmosfera. Per il loro carattere personale, quieto e intenso, essi possono essere paragonati soltanto con gli incontri con il Risorto.

È Giovanni a dare l'avvio al primo incontro con Gesù. Egli adempie il suo compito di testimone e riconosce una seconda volta Gesù come "l'Agnello di Dio" (1,35-36). Questa testimonianza spinge due dei suoi discepoli a seguire Gesù. Giovanni è all'altezza della propria vocazione; non lega i propri discepoli a se stesso, ma li conduce a Gesù (cfr 3,27-30). Questi giungono a farsi una prima idea di Gesù in base alla confessione di Giovanni, ma ben presto faranno la loro esperienza personale di lui. È Gesù che si volge verso coloro che lo seguono senza fargli motto. La sua prima parola non è un'affermazione, bensì una domanda: Che cercate? (1,38). Gesù vede in loro uomini alla ricerca, che si sono messi in cammino. Non dà inizio a un insegnamento, ma a un colloquio. Essi non gli dicono che cosa cercano; forse non sono ancora in grado di esprimerlo a parole. Gli rispondono a loro volta con una domanda: Maestro, dove abiti? (1,38), nella quale possiamo scorgere la richiesta di un colloquio. Quello che essi cercano non può essere spiegato in una breve presa di contatto strada facendo; essi gli chiedono tempo, vorrebbero parlare in pace con lui. Gesù accoglie questa richiesta. Essi allora non soltanto vedono dove abita, ma quel giorno rimangono con lui, dando così inizio, come il seguito dimostrerà, a un legame con lui destinato a durare. L'indicazione dell'ora fatta dall'evangelista (1,39) potrebbe significare che l'ora di questo incontro fu per entrambi quella decisiva nella loro vita.

Di fondamentale importanza sono l'invito e la promessa di Gesù: Venite e vedrete (1,39). Qui tutto è destinato all'incontro vivo e personale. Gesù non affida a quelli che lo seguono un libro contenente dottrine e precetti da studiare e da osservare, ma li chiama a un rapporto personale di comunione con lui. A loro volta essi non possono rimanere a una distanza non impegnativa e in un semplice atteggiamento di spettatori, ma devono impegnarsi, andare con lui e porsi sulla sua strada. La conoscenza di Gesù non si può avere a distanza, bensì solo nella comunione con lui. Così Gesù annuncia a quelli che vanno con lui: Vedrete (cfr 1,50.51). La loro comunione con lui non sarà senza frutto: dal cercare essi passeranno al vedere. Quanto più si avvicineranno a lui, tanto più lo conosceranno, comprendendo personalmente. L'avvio però è stato dato dalla testimonianza di Giovanni. Alla fine si mette l'accento sul fatto che i discepoli hanno udito la parola di Giovanni e di conseguenza si sono fatti seguaci di Gesù (1,40).

L'esperienza di rapporto personale con Gesù suscita nuovi testimoni e conduce a lui nuovi discepoli. Qui giocano anche rapporti umani, parentela e conterraneità. Andrea, uno dei primi due discepoli, porta il proprio fratello Simone. Non lo incontra per caso, bensì lo cerca, per renderlo partecipe della sua nuova e travolgente scoperta: Abbiamo trovato il Messia (1,41). Egli deve trasmettere questa scoperta al fratello. Ma Andrea non si limita a testimoniare: conduce il fratello a incontrare direttamente Gesù. Questo incontro non dà luogo a una nuova dichiarazione riguardo a Gesù, ma dimostra che egli conosce gli uomini che ha davanti. Gesù dice infatti a Simone chi è e come si chiamerà in futuro. Il nuovo nome di Simone prende qui la forma originaria aramaica "Cefa", che verrà usata anche da Paolo (cfr 1 Cor 1,12 ecc.). Nel seguito del Vangelo incontreremo sempre la forma greca "Pietro", per lo più assieme al nome originario "Simone". Nell'incontro con Gesù i discepoli non soltanto conoscono lui, ma si rendono anche conto che egli li conosce e s'interessa a loro; vengono anche a conoscere il compito cui dovranno adempiere.

Molto breve è la descrizione di come Gesù inizia il rapporto con Filippo. Lo chiama semplicemente, dicendogli: Seguimi! (1,43). L'evangelista ricorda che Filippo era compaesano d'An-drea e di Pietro. Deve aver appartenuto alla loro cerchia ed esser -si imbattuto in Gesù. Anch'egli diventa subito testimone e si rivolge a Natanaele. Non indica Gesù con una definizione, ma afferma che in lui si è adempiuto quello che Mosè e i profeti avevano annunciato (1,45). In questo modo siamo rimandati a un altro aspetto essenziale di Gesù, al fatto cioè che egli non sovverte ciò che finora è stato valido in Israele, bensì lo porta a compimento. Mosè e i profeti lo hanno preparato e costituiscono un'ulteriore testimonianza per lui (cfr 5,39.46). Proprio chi vuole rimanere fedele ad essi, deve riconoscere Gesù.

Natanaele reagisce alla testimonianza di Filippo con scetticismo e con un forte pregiudizio: Proprio da Nazaret deve venire il Messia! Filippo non cerca di ribattergli con lunghe discussioni; le parole qui non servono. Gli rivolge l'invito: Vieni e vedi! (1,46). Lascia da parte le tue idee e i tuoi pregiudizi, affidati all'incontro con Gesù, poi fatti un giudizio! La vera conoscenza di Gesù può venire soltanto dall'incontro con lui. Allo stesso modo Gesù aveva detto ai due primi discepoli: Venite e vedrete! (1,39). Gesù aveva collegato l'invito con la promessa; Filippo invece dice soltanto: Vieni e apri gli occhi! Filippo non può fare nessuna promessa; ma sa che è decisivo l'incontro personale con Gesù, a cui vorrebbe portare Natanaele. Per Natanaele entrare in questa situazione è grazia; egli non riesce più a riprendersi dallo stupore. Qui di nuovo vediamo come Gesù conosca gli uomini (cfr 1,42): sa che Natanaele è un israelita in cui non c'è falsità, e sa di cose sue assolutamente personali. Non è possibile spiegare con sicurezza il significato dell'espressione Ti ho visto sotto il fico (1,48.50), ma proprio questa difficoltà potrebbe dimostrare che qui si tratta di qualche cosa di molto personale. Comunque Gesù la conosce, e questa sua conoscenza lo lega a Natanaele.

A partire dalla testimonianza di Giovanni (1,26-27.29-34.36), tutti coloro che hanno incontrato Gesù hanno fatto dichiarazioni sulla sua persona (1,41.45). Punto centrale è l'identità di Gesù. Quello che essi hanno riconosciuto di lui li destina a seguirlo e diventa contenuto della loro testimonianza. Tali dichiarazioni raggiungono il punto più alto con la confessione di Natanaele: Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele! (1,49). Questa confessione è rivolta direttamente a Gesù e sarà superata soltanto da quella che Tommaso rivolgerà al Risorto: Mio Signore e mio Dio! (20,28). Gesù riconosce la confessione di Natanaele come espressione della sua fede. È la prima volta che questo atteggiamento fondamentale viene attribuito a una determinata persona (cfr l,12;p.ll).

Ora Gesù fa la sua prima dichiarazione su se stesso in quanto Figlio dell'uomo. Questa dichiarazione è rivolta ai discepoli come una promessa, concretizza la promessa fatta ai due primi discepoli (1,39) e informa i discepoli di che cosa vedranno. Nel sogno di Betel Giacobbe aveva visto scendere e salire gli angeli di Dio e aveva riconosciuto il luogo in cui si trovava come luogo della presenza di Dio (Gn 28,12.16-17). Egli si trovava già in quel luogo, anzi vi aveva dormito, ma solo nel sogno ne riconosce il carattere. Così pure i discepoli sono già in compagnia di Gesù, ma capiranno solo più tardi che egli in persona è il luogo della presenza e della rivelazione di Dio. La loro comunione con Gesù, che è appena iniziata, è posta sotto il segno di questa promessa.

Prima di descrivere la vita pubblica di Gesù, l'evangelista descrive come egli abbia conquistato i suoi primi discepoli. Questi sono con lui sin dall'inizio, perché in futuro dovranno rendergli testimonianza (15,27). Nella suo racconto l'evangelista potrebbe aver introdotto qualcosa che i discepoli hanno capito soltanto più tardi; in ogni caso risulta evidente come il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli sia immediato, personale e vivo. Lo si potrebbe descrivere con le parole del buon pastore: Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me (10,14). Già il primo incontro dimostra che Gesù conosce i discepoli e che essi hanno imboccato la via per riconoscere pienamente il rapporto di Gesù con Dio.

Domande

1. Quanto varie e concrete sono qui le vie che conducono a Gesù? Che ruolo ha la testimonianza di altri, e che ruolo ha l'esperienza che si fa personalmente di Gesù?

2. Quali pregiudizi possono opporsi alla possibilità di riconoscere Gesù? C'è qualcosa che m'impedisce, dal punto di vista intellettuale o emozionale, di riconoscerlo come Figlio di Dio, pari a Dio?

3. Che cosa cerco nella comunione con Gesù? Che cosa lui ha indicato come significato e fine di tale comunione?

 

PIENEZZA DELLA GIOIA

(2,1-11)

In un banchetto di nozze Gesù trasforma in vino del migliore circa seicento litri d'acqua. Una festa di nozze durava in Israele sette giorni ed era accompagnata da musica e scherzi, balli e canti; in essa erano proverbiali gioia e giubilo, buon umore e letizia. Come ad ogni festa, le si addiceva il vino, che rallegra il cuore degli uomini (Sal 104,15; Gdc 9,13). Come "festa di nozze", anche "vino" è sinonimo di "gioia". Lo sposo deve preoccuparsi che i suoi ospiti abbiano vino a sufficienza (cfr 2,9-10). Alla festa cui partecipa Gesù il vino viene a mancare, così che la festa rischia di naufragare. La gioia si trasformerà presto in risentimento e derisione. Chi non può offrire abbastanza vino ai suoi ospiti deve subito lasciar perdere i festeggiamenti (cfr Lc 14,29-30)! Gesù salva la festa: procura vino del migliore in gran quantità, così che tutti possano continuare il banchetto in allegria. Sul significato di quanto egli ha operato, l'evangelista dice: Così Gesù diede inizio ai suoi segni a Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui (2,11). Quello che Gesù compie è considerato "segno", definito espressamente come il primo, e dunque all'inizio di una serie di simili azioni. Un segno non ha significato in se stesso — un'indicazione stradale non sta lì fine a se stessa - ; ma il segno deve accennare a qualcos'altro e condur-vi. Chi si ferma al segno, ne perde il significato. Gesù non compie queste azioni come fini a se stesse, bensì rende riconoscibile in esse la propria gloria, ossia ciò che lo contraddistingue nel profondo (cfr 1,14; p. 15). Egli raggiunge il suo scopo presso i discepoli che ha attratto a sé e che lo seguono. Rende loro chiaro con chi hanno a che fare nella sua persona ed essi credono in lui.

Alla trasformazione dell'acqua in vino seguono in Giovanni altri sei segni: la guarigione di un bambino gravemente ammalato, menzionata espressamente come secondo segno (4,43-54); la guarigione di un paralitico (5,1-9); la moltiplicazione miracolosa del cibo per cinquemila uomini (6,1-15); il camminare sulle acque (6,16-21); la guarigione di un cieco (9,1-12) e la risurrezione di Lazzaro (11,1-44). L'evangelista non fa il numero "sette", ma ricorda che Gesù fece molti altri segni [...] in presenza dei suoi discepoli (20,30). Con i sette segni che ha annotato, l'evangelista vuole rappresentare esemplarmente la pienezza e la molteplicità delle opere compiute da Gesù per soccorrere e per rivelarsi. Si tratta sempre di situazioni di necessità cui Gesù pone rimedio, e sempre il suo operare dona più vita: una vita più abbondante, più ricca e più gioiosa. Egli è venuto appunto perché gli uomini abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (10,10). Gesù salva la festa quando i partecipanti non hanno ancora notato che essa è in pericolo; risana i malati in fase acuta e i cronici; procura da mangiare a una grande folla in un luogo dove non c'è pane; raggiunge i suoi discepoli minacciati dal lago in tempesta; richiama in vita Lazzaro che era morto. Sempre Gesù dona più vita, e quindi più gioia; sempre rivela che egli è il Cristo, il Figlio di Dio, e che chi crede in lui ha la vita nel suo nome (cfr 20,31).

Gesù compie il suo primo segno in una festa e a favore di una festa tutta improntata alla vita e alla gioia: la gioia dei novelli sposi, la gioia dell'intera famiglia, la speranza di una nuova vita che si svilupperà da questo legame e che garantirà la continuità della famiglia. Com'è grande, ma anche fragile e a rischio, questa gioia! La coppia degli sposi che, come di rado nella vita, è al centro di un'affettuosa attenzione, può diventare subito dopo oggetto di derisione. Il vino è finito, la festa è in pericolo. Forse si tratta di povera gente che si è fatta carico dei molti inviti e della grande festa.

Qui entra in scena la madre di Gesù. Giovanni non la chiama mai con il suo nome "Maria". Se avessimo soltanto il IV Vangelo, non conosceremmo il nome di questa donna. Giovanni la chiama sempre "la madre di Gesù", mettendo in rilievo che ciò che la caratterizza in modo particolare è questo suo legame con Gesù: lo ha partorito, ha prestato tutte le cure materne al bambino che cresceva. Gesù finora ha trascorso la sua vita in famiglia assieme a lei. Con il suo comportamento Maria si rivela una donna pronta e saggia: tiene gli occhi aperti e nota la mancanza di vino. Comunica a Gesù quanto ha osservato, ma non esprime una richiesta; lascia che sia lui a fare quello che vuole; e tuttavia è fiduciosa che egli possa trovare un rimedio. Non prende come un rifiuto la prima reazione di Gesù; manda i servi da lui, anche questa volta senza prevenire quello che egli farà. Si rivolge a Gesù e rimanda a lui, lasciando a lui ogni decisione. Così dà occasione al primo segno di Gesù. Con questo segno Gesù inizia la sua vita pubblica e si rivela per la prima volta ai discepoli. Durante tutta la vita pubblica di Gesù, Maria non comparirà più. Ma sarà presente alla fine, così come lo è stata all'inizio. Starà accanto alla croce di Gesù, e in quell'occasione sarà Gesù che si rivolgerà a lei. L'ultimo suo atto d'amore sarà d'indicarla al discepolo come a suo figlio (19,25-27; pp. 162-164).

La risposta di Gesù: Che vuoi da me, donna? Non è ancora giunta la mia ora (2,4) non va intesa come un gesto scortese. Essa rende chiara la legge insita in quello che Gesù fa. Sempre, quando gli vengono rivolte delle preghiere, egli prende le distanze, ma per poi esaudirle (cfr 4,47-48; 11,1-6; Mc 7,24-30). Gesù non è uno che soccorra a richiesta: necessità umane e intervento di Gesù non vanno insieme di pari passo. La vera legge insita in quello che egli fa è la volontà del Padre, che stabilisce per lui l'ora del suo operare. Con la sua risposta, Gesù rende chiaro che non può farsi guidare semplicemente dalle necessità umane, ma deve seguire la volontà del Padre. Mette in gioco Dio. Se poi egli dà effettivamente l'aiuto richiesto, non lo fa solo per un'attenzione umana nei confronti di sua madre e dei partecipanti al banchetto, ma per adempiere la volontà di Dio. Questo inizio dei segni di Gesù è improntato da Dio.

Gesù fa quello che lo sposo non ha fatto: dà vino buono in abbondanza; si cura della gioia e salva la festa. Il suo operare va inteso come un segno. Egli non toglierà agli uomini la preoccupazione per il vino nelle loro feste terrene, come pure in seguito non li provvederà di pane terreno (cfr 6,26-27). È venuto invece a preparare loro la grande festa, a donare loro la pienezza della gioia che dura e che trova compimento nel banchetto celeste (cfr Mt 22,1-14). Con lui è giunto lo Sposo ed è cominciata la festa: il tempo della sua presenza sulla terra è già tempo di gioia (cfr Gv 3,28-30; Mc 2,19-20). Gesù trasforma l'acqua delle abluzioni in buon vino, porta il vino nuovo (Mc 2,22). Conduce al di là di quanto Dio ha dato finora al suo popolo. L'ultimo dono di Dio è comunione gioiosa, gaudio inesauribile, vita che non passa. Il fatto che Gesù doni il vino in questa festa di nozze è un segno di tutto questo. Così egli rivela di essere venuto a portare festa, gioia e vita. I discepoli riconoscono con fede che Gesù è sulla terra per questo e che questo si può trovare soltanto in lui. Questa gioia non la può dare il vino. ma può venire soltanto da Gesù. È la gioia della vita con lui e della comunione con lui. È la gioia che viene donata a chi si lega a lui e crede in lui.

Matteo pone all'inizio dell'attività di Gesù il discorso della montagna, che comincia con le otto beatitudini (5,3-10). Giovanni riferisce innanzitutto il dono del vino buono. Entrambi gli evangelisti sottolineano sin dal principio che Gesù porta la pienezza della gioia. Questo è l'inizio dei segni di Gesù (2,11); questo è il contenuto e il fine del suo operare.

Domande

1. In che cosa consiste la gioia che Gesù ha da dare? Chi ottiene di parteciparvi?

2. Che significato ha il fatto che questo segno sia posto all'inizio dei segni di Gesù?

3. Come si presenta il rapporto tra Gesù e Maria? Quali sono i tratti caratteristici dell'azione di Maria?

 

IN ONORE DEL PADRE

(2,13-25)

Gesù partecipa anche a un'altra festa. Non è la festa di una coppia di sposi celebrata dalla famiglia e da tutti i conoscenti nella cornice di un villaggio della Galilea, bensì la Pasqua, la massima festa d'Israele, in occasione della quale tutto il popolo si raduna a Gerusalemme. Israele commemora la liberazione dall'Egitto e rende grazie a Dio, che lo ha reso un popolo indipendente e il suo popolo. Qui Gesù non contribuisce a salvare e ad accrescere la gioia della festa, ma s'intromette nell'animata vita sulla piazza del tempio e ne disturba lo svolgersi dei commerci. Di questo egli deve rendere conto alle autorità competenti. Con parole velate, Gesù accenna alla mèta del suo cammino terrestre, alla sua passione e risurrezione. Come già nel segno di Cana, anche qui è presente un significato particolare per i discepoli di Gesù. Come attraverso quello che egli ha compiuto essi hanno conosciuto la sua gloria e hanno creduto in lui (2,11), così a partire dalla sua risurrezione essi capiranno e riconosceranno il significato della sua parola e della sua opera.

L'uomo che ha percorso così quietamente le vie del paese (1,29.36) e che ha salvato così efficacemente la festa di Cana, ora si mostra sotto tutt'altro aspetto. Lui, un pellegrino sconosciuto venuto dalla Galilea, afferra una frusta e interviene pesantemente nel tempio di Gerusalemme. Così comincia, secondo il Vangelo di Giovanni, l'azione di Gesù a Gerusalemme. Gli altri evangelisti spostano più in là l'accaduto (cfr Mc 11,15-18), ma anche per loro questa è la prima azione di Gesù a Gerusalemme. Sulla piazza del tempio Gesù si trova davanti un vero mercato: commercio di animali destinati a essere offerti come vittime e cambio delle monete particolari con cui andavano pagati i tributi per il tempio. Tutto dipende dal modo in cui Dio viene onorato nel tempio. Potrebbe anche essere pratico avere animali e monete subito alla mano e sotto il controllo delle autorità del tempio. Ma questo non va d'accordo con la concezione che Gesù ha della casa del Padre. Egli chiama Dio suo Padre e regola il proprio comportamento in base all'idea che ha della casa di Dio. Non tutto si può tollerare. Non tutto quanto è pratico o rende denaro è anche giusto. Commerciare ammali sacrificali è un'attività onorevole, ma va tenuta lontana dal luogo della presenza e della venerazione di Dio. Anche il commercio è sottomesso ai comandamenti di Dio; ma commercio e casa di Dio devono essere tenuti chiaramente distinti. Gesù vede gli abusi. Non è indifferente e non aspetta, ma interviene e definisce apertamente e decisamente la misura del proprio comportamento. Nella casa del Padre è la presenza del Padre che deve occupare pensieri e azioni; ogni altra cosa va eliminata e allontanata.

Con la domanda dei giudei: Quale segno ci mostri per fare queste cose? (2,18) si tocca il tema fondamentale di tutti i successivi contrasti con Gesù. Egli si è richiamato alla dignità della casa del Padre; questo non soddisfa i giudei, come non li soddisferà tutto quanto Gesù dirà e farà (cfr 6,30). Le parole e le opere di potenza di Gesù non saranno accettate da loro (cfr 5,16; 9,16), anzi li porteranno alla decisione di eliminarlo (11,45-53). I giudei considerano presuntuosi il gesto di Gesù e quanto egli rivendica; vogliono da lui altre prove. Gesù accenna loro, con parole velate, il segno tra tutti i segni, l'ultima e decisiva conferma della propria opera e della propria rivendicazione. Con le parole Distruggete questo tempio e in tre giorni lo ricostruirò (2,19), accenna alla propria morte violenta e alla risurrezione. Essi invece riferiscono queste parole al tempio di pietra e lo fraintendono (cfr 3,4). Gesù sta dicendo ai giudei: Potete uccidermi. Potete mettere così alla massima e ultima prova quello che io rivendico. Poi io compirò l'opera mia e mi rivelerò definitamente. Già qui, nel primo incontro, diventa evidente quali saranno le conseguenze del conflitto e quale sia la mèta del cammino di Gesù: la sua morte e la sua risurrezione. La risurrezione confermerà colui che per il suo operato e per la sua rivendicazione è stato condotto a morte violenta. Per mezzo di tale morte sarà innalzato il nuovo tempio. Gesù risorto è il "luogo" definitivo della presenza di Dio nel suo popolo e dell'adorazione di Dio da parte del suo popolo; è la perfetta "casa del Padre". I giudei non possono impedire che il suo zelo per Dio giunga al fine.

Gesù è sempre accompagnato dai discepoli. Proprio qui l'evangelista mette in luce la loro importanza. I discepoli sono coloro nei quali l'opera di Gesù raggiunge il fine, coloro che lo capiscono e credono in lui. Due volte, dopo che Gesù ha operato o parlato, viene detto: I suoi discepoli si ricordarono (2,17.22). Qui non si tratta di un ricordo che richiama semplicemente alla memoria il passato, bensì di un ricordo che d'un tratto lo fa capire a fondo. L'evangelista dichiara espressamente che tale comprensione nasce dalla risurrezione di Gesù. I discepoli hanno davanti a sé una lunga strada da fare, non solo per accompagnare Gesù, ma anche per capirlo. La vita in comune con lui non dà una comprensione istantanea e piena di lui. Per i discepoli è grazia rimanere su tale via con Gesù, portare dentro di sé quello che hanno vissuto, anche senza capirlo pienamente o capendolo a metà. Soltanto rimanendo in questa fedeltà e pazienza, essi potranno essere condotti a una piena comprensione. Solo la mèta del cammino di Gesù renderà possibile capire lui, le sue parole, le sue opere e l'intero suo percorso. Solo la sua risurrezione darà la luce che illumina ogni oscurità.

L'affermazione della Scrittura Lo zelo per la tua casa mi divorerà (2,17) è presa dal Sal 69, che è la preghiera di un innocente perseguitato. Questo salmo sarà richiamato altre due volte nel Vangelo di Giovanni (Gv 15,25 e 19,28-29), sempre in riferimento alla passione di Gesù. Anche in Gv 2,17 si afferma non soltanto che Gesù arde di zelo per la casa del Padre, ma anche che questo zelo lo porterà a morte. Ricordando, i discepoli capiranno la vera ragione della morte di Gesù e capiranno che questa morte trova riscontro nella parola di Dio. Nella morte di Gesù si tratta di Dio e di capire Dio. Gesù non muore perché ha peccato contro Dio, ma perché si è impegnato in modo unico per lui. Il contrasto di Gesù con i suoi oppositori concerne la concezione di Dio. Ciò diventa chiaro per la prima volta in questo conflitto sull'intervento di Gesù contro il mercato nel tempio.

Ricordando, i discepoli capiranno, con l'aiuto della Scrittura, la morte di Gesù e crederanno alla Scrittura; ma capiranno anche la parola di Gesù e crederanno a lui. La parola di Gesù acquisterà per loro lo stesso peso della parola della Scrittura, diventerà per loro parola di Dio. Prendendo le mosse dalla Scrittura, essi capiranno la ragione della morte di Gesù; prendendo le mosse dalla parola di Gesù, capiranno il significato del Risorto come "luogo" definitivo della presenza e della sollecitudine di Dio.

Proprio il Vangelo di Giovanni è ampiamente dominato dalla contrapposizione tra Gesù e i suoi oppositori. Sin dal primo incontro si manifestano gli elementi caratteristici di questa lotta, e quindi del Vangelo stesso: i contendenti, l'oggetto della contesa e la sua conclusione. Il conflitto concerne la giusta concezione di Dio: Gesù riconosce Dio come proprio padre; tutto quanto egli fa è ispirato da Dio e ne dà testimonianza; i suoi oppositori si sentono provocati da lui, esigono altre prove e lo respingono. I discepoli si lasciano guidare da lui, giungendo così alla fede e alla piena conoscenza. La folla è impressionata da quello che Gesù compie; ma Gesù ritiene che non ci si possa fidare di essa e la tiene a distanza. Il conflitto condurrà alla morte violenta di Gesù, che sarà pienamente confermato dalla risurrezione.

Domande

1. Secondo Gesù, non si può tollerare tutto. Quale concezione abbiamo noi della "casa del Padre" o, ad esempio, del compito e del fine che egli ha dato all'uomo? Improntiamo a questo il nostro agire?

2. Gli oppositori di Gesù esigono sempre prove ulteriori. In quali casi anche noi mettiamo delle riserve nella nostra fiducia in Gesù, poniamo condizioni ed esigiamo assicurazioni?

3. I discepoli percorrono una lunga strada assieme a Gesù. Siamo anche noi capaci di aspettare di essere condotti alla piena comprensione del cammino di Gesù e del nostro cammino?

 

LA NUOVA NASCITA, NECESSARIA E DONATA

(3,1-13)

Giovanni non ama elencare molti avvenimenti di seguito, ma descrivere con ampiezza e in profondità l'incontro di Gesù con rappresentanti di importanti gruppi. Il primo incontro di questo genere è la visita notturna di Nicodemo. Egli è un rappresentante del gruppo dirigente giudaico. A lui Gesù dice che è necessaria una seconda nascita, un inizio completamente nuovo (3,3-8). E davanti a lui Gesù si richiama alla propria conoscenza del tutto singolare e alla propria autorità celeste (3,9-13). A quanto Gesù espone circa la necessità di credere nel Figlio unigenito di Dio (3,14-21) riserveremo un capitolo a parte.

Nicodemo è un fariseo, un dirigente, un maestro in Israele (3,10) e, naturalmente, membro della più alta autorità, il sinedrio (cfr 7,45.50). Egli non considera contrario alla propria dignità recarsi da quel galileo. Non chiede a Gesù un ulteriore segno (cfr 2,18), ma è profondamente scosso dalle sue opere di potenza. Le interpreta nel loro vero significato: non soltanto come aiuto gradito a persone in situazione di necessità, ma come dimostrazioni che Dio stesso è con lui e sta dietro a quello che egli fa. Nicodemo si lascia guidare da queste opere e ne trae le conseguenze per l'autorità di Gesù come maestro. Riconosce in lui il "maestro venuto da Dio" (3,2).

Il fatto che Nicodemo si rechi da Gesù di notte sembra essere determinato da timore e da cautela. Questa sua prima visita di notte verrà ricordata anche quando egli si recherà al sepolcro di Gesù (19,39). Essa perciò è distintiva della sua persona. In quell'occasione si parlerà anche di Giuseppe d'Arimatea: Era un discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei giudei (19,38). Saranno proprio i discepoli occulti di Gesù a preoccuparsi della sua sepoltura, mentre quelli notori si nasconderanno (cfr 20,19). Nicodemo sembra rappresentare quei giudei che non riescono ancora a decidersi chiaramente per Gesù. Non vuole perdere il proprio status, non vuole rompere con gli appartenenti al suo stesso rango. Ma nello stesso tempo vuole conoscere più da vicino Gesù come maestro. Nonostante questo suo atteggiamento incerto, Gesù non lo respinge, anzi l'accetta e si fa suo maestro. Nicodemo rimarrà legato a Gesù anche in seguito: interverrà saggiamente in suo favore davanti al sinedrio (7,50) e contribuirà a una sua degna sepoltura.

Gesù parla dalla pienezza della sua autorità. È lui che decide il tema del colloquio, esprimendosi sulla domanda fondamentale: "Che cosa è necessario per entrare nel regno dei cieli?". Secondo i Vangeli sinottici, Gesù pone al centro del suo messaggio la. prossimità del regno di Dio, il fatto che Dio sta per dispiegare definitivamente la sua potenza misericordiosa. Parla anche delle condizioni che vanno osservate da parte degli uomini per poter giungere a godere pienamente di questa potenza e beneficiare di tutta la sua efficacia beatificante (per es. Mt 5,3.10.20; 18,3). Solo in essa l'uomo può raggiungere il senso e la pienezza della propria vita. Quindi per Gesù tutto dipende dal conoscere le condizioni per tale entrata e dal non mancarla,

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù parla del regno di Dio soltanto qui, all'inizio della sua predicazione (3,3.5). Al suo posto subentrerà ben presto quello che solo la potenza di Dio dona a noi uomini, la vita eterna, cioè la vita che non passa e che è l'unica vera ed effettiva vita (cfr 3,15.16.36). Così, invece di nominare la causa, in futuro si nominerà sempre la più importante conseguenza. Anche in Mc 9,43.45.47 viene chiaramente affermata la consequenzialità tra l'entrare nella vita e l'entrare nel regno dei cieli.

Gesù dice innanzitutto a Nicodemo, con dottrina vincolante, che per aver parte al regno dei cieli è necessaria una nuova nascita, un inizio del tutto nuovo, l'inizio di una vita completamente nuova. La vita presente non può trasformarsi semplicemente in vita nel regno di Dio. Per ottenere quest'ultima, è necessaria una nuova esistenza. Nicodemo è scosso da questa dichiarazione di Gesù come da un colpo di tamburo: è tutto confuso, non nega la necessità di questa nuova nascita, ma non sa immaginare come essa possa avvenire. Gesù lo aiuta ulteriormente: descrive la nuova nascita come un nascere dall'acqua e dallo Spirito. L'uomo non può darsi da sé questo nuovo inizio, né può riceverlo da altri esseri umani; l'ottiene per mezzo dello Spirito, per mezzo della potenza creatrice di Dio, e lo riceve nel battesimo. Questa nuova esistenza è un puro dono di Dio. Noi uomini, con il nostro operare, non soltanto non riusciamo a realizzare il regno di Dio, ma neppure i presupposti per appartenervi. Possiamo ottenere entrambi soltanto da Dio. Da parte nostra, possiamo soltanto mostrare la nostra povertà e riconoscere con gratitudine la bontà di Dio; lo Spirito di Dio, pieno di potenza, realizza questa nuova nascita. Nello stesso tempo Gesù mette in rilievo il carattere misterioso di questa realizzazione, che è sottratta a una piena intellezione umana. Rinvia al fatto che il vento viene percepito come reale e che tuttavia rimane proverbialmente inafferrabile (3,8. Cfr Qo 11,5).

L'ulteriore domanda di Nicodemo non ottiene un'ulteriore spiegazione. All'inizio egli aveva riconosciuto Gesù come maestro venuto da Dio (3,2); ora Gesù esige che sia veramente riconosciuta questa sua autorità e che sia accettata la sua testimonianza. Non introduce altre ragioni per le proprie affermazioni, bensì per la qualità del proprio testimoniare. Egli è disceso dal cielo; sa, perché è testimone oculare; conosce le cose di Dio. Perciò dobbiamo affidarci alla sua parola.

Domande

1. Che cosa ci dice il comportamento di Gesù nei confronti dell'esitante Nicodemo?

2. Noi sogniamo l'altra vita: come accogliamo quello che Gesù ci

comunica?

3. Riconosciamo che la nuova nascita è dono? Riconosciamo

l'autorità di Gesù?

 

L'INCREDIBILE AMORE

(3,14-21)

Finora dal colloquio di Gesù con Nicodemo siamo venuti a sapere che per poter partecipare al regno di Dio occorre un inizio completamente nuovo, che non possiamo procurarci da soli questo inizio di una nuova vita, ma che esso ci viene donato nel battesimo dalla potenza creatrice di Dio. Poi viene chiarito che in questo nuovo inizio noi non siamo passivi: esso esige da parte nostra la fede nel Figlio di Dio. Il nesso tra nascita da Dio e fede viene affermato anche in 1 Gv 5,1: Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio (cfr Gv 1,12-13). Neppure la fede è qualcosa di matrice umana. Gesù dimostra che la fede si fonda sulla prova di amore che Dio ha dato inviando suo Figlio. La nuova nascita da Dio e la fede nel Figlio di Dio ci conducono al senso e alla pienezza del nostro essere, alla vera vita che non passa. Senza di esse, invece, falliamo il senso di noi stessi.

Come evitare una fine improvvisa, una morte miseranda? Come mantenere e assicurare la nostra vita? Israele si trovava davanti a queste domande quando, sulla via attraverso il deserto, era minacciato dai molti serpenti velenosi (Nm 21,4-9). Dio allora è venuto in soccorso del suo popolo. Per suo incarico Mosè ha costruito un serpente di rame e l'ha appeso a un palo; chi veniva morso da un serpente e guardava il serpente di rame rimaneva in vita. Così si chiarisce il significato del Figlio di Dio innalzato sulla croce: colui che è innalzato sulla croce non è uno che sprofonda totalmente nel ludibrio; Dio ha stabilito che il Crocifisso sia il simbolo della salvezza, la fonte della vita. Non dobbiamo distogliere lo sguardo da lui e cercare di dimenticarlo; dobbiamo invece sollevare il nostro sguardo verso di lui e riconoscerlo come nostro salvatore. Non c'è altra via per la vita, né altra possibilità di sottrarsi alla morte se non in lui; l'unione con lui è la vita. Noi otteniamo tale unione credendo in lui, che è il Crocifisso, abbandonandoci e affidandoci completamente a lui. Confidando nel Crocifisso, riconosciamo l'amore smisurato di Dio e ci troviamo nella sfera d'azione della sua potenza vivificante.

Dietro il Crocifisso c'è Dio stesso. Egli lo ha donato e mandato per amore verso l'umanità intera, preoccupandosi per la sua salvezza. La croce di Gesù è, da un punto di vista esteriore, un segno di come egli era privo di potere, di come Dio l'aveva abbandonato e di come l'umana crudeltà aveva trionfato sulle sue rivendicazioni e sulle sue opere. Ma non appena diventa chiaro che Dio ha mandato Gesù e ha stabilito la sua via, la croce diventa simbolo dell'amore smisurato di Dio. Essa dimostra quanto lontano vada Dio nel suo amore e quanto lontano vada Gesù nella sua messa in gioco per noi uomini.

Amore significa interesse, partecipazione, sollecitudine, preoccupazione, sforzo e messa in gioco. L'amore vuole il bene del prossimo e cerca di favorirlo in ogni modo. La via e il destino del prossimo non gli sono affatto indifferenti, anzi esso impegna tutte le proprie forze per rendere possibile all'altro di vivere in gaudio e pienezza. Come stanno le cose con Dio? Ha forse egli creato il mondo e poi l'ha lasciato a se stesso? Si preoccupa di noi e del nostro destino, di come stiamo e di dove andiamo a finire? Noi siamo forse semplicemente affidati a noi stessi, lasciati all'arbitrio del nostro prossimo e alla gelida impassibilità delle leggi di natura? Finché riusciamo a tenere il capo fuor dell'acqua, va bene; ma quando andiamo a fondo, tutto è finito e nessuno se ne cura. Qual è la nostra vera situazione?

Il Crocifisso ci dà la risposta: Dio ama il mondo e vuole la salvezza del mondo. Il suo amore ha un'intensità e una misura tali che, se fosse possibile, si dovrebbe dire: Dio ama il mondo, noi uomini, più del suo stesso Figlio. Non si è distolto dal mondo lasciandolo a se stesso. Anzi, vi prende tale parte da abbandonare ad esso il proprio Figlio, da darlo in dono. I discepoli imparano a conoscere Gesù come il Figlio che sta in un rapporto unico con Dio, è legato a lui sul piano divino, sin dall'eternità, dalla familiarità più affettuosa (cfr 1,14.18). Dio manda all'umanità questo Figlio, a cui va tutto il suo amore. Non lo risparmia (cfr Rm 8,32), bensì lo espone ai pericoli di questa missione. Consente che cada in mano ai malfattori, che sia vittima della loro cecità e crudeltà e che sia crocifisso. Noi uomini abbiamo tanto valore ai suoi occhi, che egli mette a repentaglio il proprio Figlio per noi. Dio considera talmente necessario sottrarci alla perdizione, preservarci dalla rovina e condurci alla pienezza della vita, che si rivolge a noi tramite il proprio Figlio. Dopo la creazione, la Legge, i profeti e tutte le altre forme della sua sollecitudine, il Figlio è la sua ultima parola e il dono di valore supremo fatto a noi uomini. Il Figlio deve prendersi cura di noi personalmente, deve mostrarci la via della salvezza, deve conquistarci alla comunione con lui e alla vita eterna.

Dio rivela un'incredibile sollecitudine per noi uomini, preoccupandosi per la riuscita della nostra vita. Ma occorre anche dire chiaramente che noi, da parte nostra, rimaniamo nel pericolo: Dio non procura la nostra salvezza senza di noi, né contro la nostra volontà. Da parte nostra si richiede che ci apriamo a questa sollecitudine di Dio, che prendiamo sul serio questo suo amore incredibile, che crediamo nel Figlio di Dio crocifisso. Solo se siamo convinti che il Crocifisso è l'unico e prediletto Figlio di Dio, la potenza di questo amore di Dio può raggiungerci efficacemente e noi possiamo sbocciare pienamente alla sua luce e al suo calore. La nostra vita dipende dalla nostra fede.

Come potremmo non accogliere spontaneamente e pieni d'entusiasmo la luce splendente di questo amore di Dio? Come non correre incontro a questa luce, allietandoci della sua forza donatrice di vita? Ma a ciò si oppone lo strano fenomeno che gli uomini preferiscono le tenebre alla luce (3,19). Ci sono ragioni per fuggire la luce e cercare lo schermo delle tenebre, ragioni che risiedono nel comportamento umano. Chi fa il male evita istintivamente la luce; chi fa il bene affronta la luce e non la fugge, non ha nulla da nascondere. Non possiamo trascurare l'importanza che il nostro agire concreto ha per la nostra fede. "Bene" è quanto abbiamo fatto secondo Dio (3,21), ascoltando lui, cercando sinceramente di mettere in pratica la sua volontà; "male" è quando non agiamo secondo questi criteri, quando non cerchiamo Dio, ma perseguiamo in egoistica autoaffermazione i nostri piani e i nostri desideri, anche contro la volontà di Dio. Chi cerca soltanto se stesso, si chiude a Dio e corre il pericolo di rimanere chiuso anche alla luminosa rivelazione del suo amore. Gli manca il reale legame con Dio capace di determinare continuamente la sua vita. Se egli non prende prima sul serio la volontà di Dio, come potrà credere al suo amore? Questo amore lo allontanerebbe ancor più dal proprio egoismo e gli farebbe sentire ancor più la propria dipendenza da Dio! Chi invece cerca sempre il legame fattivo con Dio, è aperto alla luce del suo amore.

Gesù, il Crocifisso, non è un pensiero o una teoria, un'ipotesi o una fantasia, bensì un'autentica realtà storica. Tanto reale è l'amore di Dio!

Domande

1. Ho per lo meno un'idea dell'amore smisurato di Dio? Che grado di realtà hanno per me queste affermazioni? Le considero descrizione della realtà decisiva per me?

2. Che mondo è quello lasciato a se stesso e al suo destino? Che mondo è quello sostenuto dall'amore di Dio e dalla sua volontà di salvezza?

3. Mi rendo conto che nel messaggio di Gesù tutto si fonda su Dio e sulla fede?

 

INCONTRO INSPERATO

(4,1-42)

Nel colloquio con Nicodemo l'evangelista ha descritto l'incontro di Gesù con un rappresentante della classe dirigente giudaica. La grande scena successiva è costituita dall'incontro di Gesù con una donna samaritana. Giudei e samaritani vivevano rapporti tesi. I samaritani si consideravano i discendenti dei patriarchi (cfr 4,12.20) e il resto del regno d'Israele, che era stato distrutto dagli Assiri nel 722 a.C. Il loro dio era YHWH, il Dio d'Israele, ed essi si attenevano ai cinque libri di Mosè (= Pentateuco). I giudei di Gerusalemme li consideravano come una popolazione mista semipagana (cfr 2 Re 17,24-41); avevano vietato loro di partecipare alla ricostruzione del tempio dopo l'esilio (cfr Esd 4,1-24) e li detestavano come il popolo stolto che abita in Sichem (Sir 50,26). Gesù non si lascia influenzare da tali valutazioni. Ha accolto il rappresentante del sinedrio che, di nascosto, con il favor delle tenebre, si è recato da lui come da un maestro. Ora si rivolge a questa donna samaritana piuttosto ambigua (cfr 4,17-18), che lo incontra per caso nella chiara luce di mezzogiorno. Per entrambi Gesù mette in atto il compito assegnatogli dal Padre (cfr 4,34); a entrambi vuole mostrare la via verso la vita.

È Gesù che si rivolge alla donna, determina i temi del colloquio e porta la donna a quanto egli ha da dare. È sorprendente come questo colloquio si riallacci alla situazione dell'incontro e rimanga sempre legato alla reale situazione della donna: ella viene per attingere acqua (4,7-15), con la sua storia personale (4,16-18), in quanto samaritana (4,19-26). Gesù comincia col chiederle: Dammi da bere! (4,7) e la conduce a chiedere: Signore, dammi di quest'acqua! (4,15). Lui che, spossato dal cammino, non ha un recipiente per attingere e apparentemente dipende da lei per placare la sua sete, le dichiara di avere da dare qualcosa d'infinitamente migliore. La donna viene al pozzo e deve tornarvi sempre di nuovo; in ciò si rivela un tratto caratteristico della sua situazione e di quella di ogni uomo: per poter vivere, dobbiamo ricorrere all'acqua; senz'acqua non c'è vita. Non possiamo estinguere la nostra sete una volta per tutte assicurandoci la vita, ma dobbiamo bere sempre di nuovo (4,13). Che lo vogliamo o no, dipendiamo da questo. Anche la migliore acqua non può mantenerci se non nella vita che già abbiamo e non può salvarci dalla morte. A partire da questa situazione, Gesù afferma di avere qualcos'altro da dare, il dono di Dio, e motiva questo dono con l'identità ancora sconosciuta della propria persona (4,10). Si tratta qui delle due grandi realtà, che diventeranno sempre più chiare in seguito: ciò che Gesù ha da dare e chi egli è. Il dono di Gesù dipende dalla sua identità. Solo in quanto Gesù, come riconosceranno alla fine i samaritani, è il salvatore del mondo (4,42), giunge per suo tramite il dono di Dio. Gesù chiama il suo dono "acqua viva", "sorgente zampillante", la cui forza supera di gran lunga quella dell'acqua naturale, perché può estinguere la sete una volta per tutte e dare la vita eterna (4,14). Come per la vita terrena dipendiamo dall'acqua naturale, così per la vita eterna dipendiamo dal dono di Gesù. In che cosa consista questo dono, verrà chiarito nel seguito del colloquio (cfr 4,19-26).

Con l'invito Va' a chiamare tuo marito! (4,16), Gesù imprime un nuovo corso al colloquio, che fa progredire il riconoscimento della sua persona e conduce a quello che la donna comincia a intuire alla lontana, cioè con chi ha a che fare nella persona di Gesù. Egli le dimostra di conoscere la sua vicenda movimentata e il peccato in cui vive. Il fatto che Gesù sappia della persona di lei produce una profonda impressione sulla donna (4,29), e poi anche sui suoi conterranei (4,39,42). Poiché Gesù sa come stanno le cose di lei e tutto quello che ella ha fatto, la samaritana comincia a riconoscere chi è lui e lo chiama "profeta". Il giudeo che, con sua grande meraviglia, le ha chiesto da bere, ora è diventato per lei "un uomo di Dio"; la sua quotidiana andata al pozzo è diventata un incontro stupefacente e del tutto singolare.

La samaritana sottopone all'uomo di Dio la controversa questione che inquieta lei, come tutti i samaritani, e li separa dai giudei: qual è il vero luogo per adorare Dio? Gerusalemme o il monte Garizim, ai cui piedi si trova la sorgente di Giacobbe, presso la quale essi ora stanno conversando? La questione non riguarda una preghiera di domanda, bensì l'adorare Dio, riconoscendolo come Creatore e Signore. Questa adorazione si fa inginocchiandosi davanti a lui e baciando il terreno (cfr Ap 4,9-11; 7,11-12). Samaritani e giudei discutevano tra loro su quale luogo fosse stato destinato in particolare da Dio a ciò.

Nella sua risposta Gesù dichiara che d'ora in poi Dio non sarà più interessato al luogo dell'adorazione, bensì soltanto al modo in cui si adora. Egli cerca adoratori che lo adorino come Padre, in Spirito e Verità (4,23-24). Tramite Gesù, Dio si è rivelato in modo nuovo e definitivo (cfr 1,18; pp. 17-19). Perciò d'ora in poi, cioè dall'annuncio di Gesù in poi, sarà possibile conoscere Dio in modo nuovo e definitivo e riconoscerlo nell'adorazione come Padre. Noi dobbiamo compiere le nostre opere in Dio (3,21), prestandogli ascolto e cercando attentamente di fare la sua volontà. Così pure, l'adorazione gradita a Dio deve avvenire in Spirito e Verità: non come gli uomini se l'immaginano, bensì sostenuta dallo Spirito di Dio e illuminata dalla Verità, che in Gesù Cristo è venuta nel mondo (cfr 1,17). Noi uomini con le nostre forze non possiamo raggiungere Dio e riconoscerlo nella sua vera realtà. Siamo "carne", esseri deboli, vani, caduchi. Dio invece è "Spirito", pieno d'infinita e indistruttibile forza vitale. Noi con le nostre forze non possiamo raggiungere nessuna vera comprensione di Dio, né alcun giusto rapporto con lui. È dono di Dio che questo ci venga partecipato per mezzo di Gesù (4,10). In quanto egli ci dona lo Spirito e la Verità, è il Messia (4,26. Cfr 18,37), il salvatore del mondo (4,42). Così noi giungiamo al giusto rapporto con Dio, e in questo consiste la vita eterna (17,3). Solo se siamo rinati dallo Spirito (3,5) e accogliamo la Verità, la rivelazione di Dio tramite Gesù, possiamo adorare Dio nel modo giusto. Per noi è decisivo il giusto rapporto con Dio: Gesù ci indica e ci dona la giusta adorazione di Dio. Essa è la fonte che zampilla e non si esaurisce, l'acqua viva che estingue ogni sete e dona la vita eterna.

La samaritana comincia a intuire che Gesù è il Messia, atteso anche dai samaritani. È scossa soprattutto dal fatto che Gesù conosce la sua vita (4,29): questa è una realtà che ella può toccare con mano. Il compito che ancora ha davanti è comprendere più precisamente la persona e il dono di Gesù. La samaritana si comporta come i primi discepoli quando hanno incontrato per la prima volta Gesù (1,41.45). Evidentemente ella non pensa più al motivo per cui è venuta alla fonte: lascia la sua brocca, va al villaggio e richiama l'attenzione dei compaesani su Gesù. Comunica quanto le è accaduto nell'incontro con lui e diventa una specie di apostola, conducendo altre persone a Gesù.

Mentre si sviluppano così gli effetti del colloquio di Gesù con la samaritana, preparando l'accoglimento di lui da parte dei samaritani, Gesù ha un altro colloquio presso il pozzo (4,31-38). Dopo le parole rivolte a Natanaele, questa è la prima volta che egli si occupa espressamente dei suoi discepoli. Questi lo accompagnano e vengono ricordati continuamente, ma accade di rado che egli si rivolga esclusivamente ad essi. Soltanto i discorsi di addio saranno indirizzati interamente a loro. Con la donna venuta ad attingere acqua Gesù ha parlato del suo dono, l'acqua incomparabile; con i discepoli che tornano dopo aver comprato da mangiare (4,8) parla del cibo di cui egli stesso vive. Il dialogo ha due temi: Gesù dice ai discepoli da che cosa è improntato propriamente il suo operare (4,34) e per la prima volta afferma che essi sono partecipi della sua missione, e in che modo (4,38). Egli stesso non viene in nome proprio, né opera per volontà propria, ma viene come inviato del Padre e tutta la sua vita tende a fare la volontà del Padre. Tutto quanto egli annuncia e dona è contributo all'opera che il Padre ha iniziato (cfr 3,16) e che porta a compimento per mezzo del Figlio. Questo vale anche per l'opera di Gesù tra i samaritani, di cui si vedono già i frutti. Gesù invia a sua volta i discepoli (cfr 17,18; 20,21), che hanno parte alla sua opera e la continuano. Ma la vera fatica è di Gesù. Ciò che fanno i discepoli dipende completamente da ciò ha fatto in precedenza Gesù. In questa circostanza in cui - come di rado nel Vangelo di Giovanni - egli viene accolto e trova adesione, introduce i discepoli alla loro missione.

I primi discepoli sono rimasti con Gesù (1,39); i samaritani pregano Gesù di rimanere con loro. Solo nella continua e aperta comunione con lui si può avere esperienza di chi egli sia e di che cosa abbia da dare. I discepoli lo riconoscono come il Messia (1,41), i samaritani come il salvatore del mondo (4,42), come colui che è stato donato dall'amore del Padre e inviato a salvare il mondo (3,16-17).

Domande

1. Che cosa dice la condotta di vita della samaritana riguardo alla sua sete di vita e alle sue delusioni? Che cosa vuole darle Gesù?

2. Quali sono le situazioni del mio incontro con Gesù? Sono attento a quello che egli vuole darmi?

3. Come si accordano tra loro identità e dono di Gesù? Che significato ha la giusta adorazione?

 

AL DI SOPRA DELLA SALUTE

(5,1-18)

La piscina di Betzata, pochi minuti a nord della piazza del tempio, era divisa da un muro in due grandi vasche d'acqua di diversa misura. Ai quattro lati era circondata da porticati, e anche nel muro divisorio c'era un porticato. In questi cinque locali regnava l'atmosfera di una grande sala d'attesa; vi si raccoglievano tanto dolore e miseria, tanta speranza e delusione. I malati non contavano sull'aiuto di un medico che li risanasse, ma speravano nell'efficacia terapeutica dell'acqua. Era viva in loro la convinzione che il primo a entrare nell'acqua, quando essa veniva agitata, guariva (cfr 5,7).

Gesù si presenta in questa grande "sala d'attesa", tra i molti ammalati. Si dirige verso uno di loro particolarmente afflitto. Questi è ammalato da trentotto anni; non ha nessuno che lo aiuti, né può aiutarsi da solo. Egli diventa da un momento all'altro privilegiato. Gesù gli chiede: Vuoi guarire? Che strana domanda per un uomo che spera in questa guarigione da tanti anni e che proprio per questo sta in questa "sala d'attesa"! Forse egli pensa che Gesù voglia porlo subito nell'acqua agitata, prevenendo tutti. Ma Gesù non dipende da questo: è per la sua parola che questo malato guarisce subito e può eseguire il suo comando (5,8-9).

Gesù prende l'iniziativa di questa guarigione e in questa circostanza agisce subito (cfr 6,5; 9,6), perché vuol attrarre l'attenzione su qualcosa di più grande e di più importante. Di solito, quando gli viene indicata una situazione di necessità (2,3; 11,3) o gli viene chiesto direttamente aiuto (4,47), egli non agisce subito: vorrebbe evitare che quello che fa venga interpretato come un semplice aiuto terreno. Tutte le sue azioni di potenza sono segni. Gli uomini non possono fermarsi a ciò che viene dato loro attraverso queste azioni, ma devono lasciarsi condurre a quanto di più grande e di più importante Gesù ha da dare.

La guarigione ha un epilogo: a causa di essa si giunge al primo lungo e duro scontro tra Gesù e i giudei (5,17-47). Essi vedono in lui uno che viola il sabato e bestemmia Dio e sono decisi a farlo morire (5,18). Il fatto che il risanato porti di sabato il suo lettuccio li mette sulle tracce di Gesù. Di tutto l'accaduto li interessa soltanto il particolare che questa guarigione si è verificata di sabato e che va contro la loro concezione del precetto del sabato. Il risanato precisa: Colui che mi ha guanto mi ha ordinato: Prendi il tuo lettuccio e cammina. Essi non vogliono sapere chi lo abbia guarito, ma soltanto chi gli abbia dato quest'ordine (5,11-12). Di quale opera si tratti, come mai Gesù sia in grado di compierla, che cosa voglia dimostrare attraverso di essa, tutto questo non interessa a loro. La loro concezione del sabato è il loro unico e assoluto strumento di valutazione, che impedisce loro di porre attenzione all'opera di Gesù e al suo significato. Attraverso il comportamento dei giudei ci viene chiarito che noi ci precludiamo la comprensione dell'opera di Gesù, se ci avviciniamo ad essa partendo da valutazioni, rivendicazioni e attese preconcette. Possiamo capire Gesù solo se lo ascoltiamo e se ci facciamo trasmettere da lui il significato delle opere che compie.

Al risanato Gesù dice: Ora sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio (5,14). Gesù ha ridato la salute a quest'uomo; ma ora lo mette in guardia sul fatto che la salute non è il bene più grande: molto più importante è evitare il peccato; molto più grande è il legame con Dio. Analogamente, la malattia non è il male peggiore: molto peggiore è l'essere separati da Dio, perché questo ci esclude dalla vera vita. Dopo aver fatto a quell'uomo il grande dono della salute, Gesù gli ricorda subito il valore limitato di tale dono.

Ai giudei egli dice: Il Padre mio opera sempre e anch'io opero (5,17). Come Dio Padre opera, così anche Gesù in quanto Figlio di Dio. L'opera di Dio non si è conclusa con la creazione: egli è continuamente all'opera, sostiene e mantiene la vita di tutte le creature. Non è legato a nessun precetto del sabato, ma è signore del sabato e il suo operare non conosce limiti. Donando la salute a un uomo proprio di sabato, Gesù vuole anche mostrare che egli opera in quanto Figlio di Dio, che agisce come il Padre suo. I giudei capiscono questa sua rivendicazione: non indagano se egli sia legittimato a sostenerla, ma lo respingono e cercano di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava anche Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio (5,18).

Dal legame che Gesù ha con il Padre dipende il significato del suo operare. A partire da questo legame egli compie opere più grandi (5,20), delle quali la restituzione della salute è soltanto un segno. Perché, come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole (5,21). La premessa sta nel fatto che Dio è vita che non tramonta mai e il Figlio ha in comune con il Padre tale vita: Come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso (5,26). Perciò il Figlio può agire come agisce il Padre. Il suo dono più vero è la "salute" che dura sempre, la vita eterna. La guarigione dell'ammalato il giorno di sabato è un segno di ciò e rimanda alla comunione con cui Gesù opera con il Padre.

Domande

1. Gesù ha il potere di risanare i molti ammalati presenti nei porticati: perché guarisce solo questo ammalato? Che valore egli attribuisce alla salute terrena?

2. In che senso questa guarigione è un segno?

3. Che cosa m'impedisce d'intendere o di accettare l'opera di Gesù nel senso di Gesù?

 

PANE PER TUTTI

(6,1-15)

II numero di coloro che seguono Gesù raggiunge il culmine con la moltiplicazione miracolosa dei pani e dei pesci: sono circa cinquemila uomini quelli che vengono a lui (6,10). Essi sono stati impressionati dalle guarigioni di ammalati operate da Gesù e aspettano nuovo aiuto da lui. Dopo il discorso sul pane vivo disceso dal cielo, sono soltanto i Dodici a rimanere con lui (6,67), e tra loro c'è chi lo tradirà. Gesù stesso avvia un processo di chiarimento. Afferma apertamente quello che ha da dare e non fa alcuna concessione alle aspettative del popolo. Il suo criterio normativo non è il numero di quelli che lo seguono, bensì la missione che gli è stata assegnata dal Padre. Con il suo intervento per la moltiplicazione miracolosa del cibo, egli dimostra che tutto comincia da lui e proviene da lui e che lui ha la capacità di dare a tutti in sovrabbondanza. Nel discorso sul pane vivo spiega qual è il suo vero dono, a cui si riferisce il segno della moltiplicazione. Se noi riponiamo in lui false aspettative, saremo delusi da lui. Se invece lo ascoltiamo e accogliamo i suoi doni, egli ci porterà alla pienezza della vita.

Tutto comincia da Gesù. Nessuno si rivolge a lui chiedendo che si faccia carico del cibo per la grande folla. E questo è significativo per l'insieme della sua attività. Egli viene da se stesso, senza bisogno di ordini o di preghiere, per incarico del Padre. Agisce di propria iniziativa, in conformità alla volontà del Padre. S'incarica spontaneamente di dar da mangiare al popolo. Pone in gioco questa idea parlandone con i discepoli (6,5-9); impartisce l'ordine e i discepoli invitano la gente a mettersi a sedere. Il pane ancora non c'è, eppure gli uomini devono sedersi, ordinati e vicini, per essere serviti, come si fa in un vero banchetto. Gesù prende i cinque pani d'orzo e pronuncia la preghiera di ringraziamento. Si comporta come un padre di famiglia giudaico prima che s'inizi a mangiare. Ogni pasto, infatti, dev'essere preceduto dalla preghiera di lode a Dio, dal ringraziamento a colui dal quale proviene ogni buon dono. Gesù distribuisce i pani e i pesci, quanti la gente ne vuole. Ordina poi ai discepoli di raccogliere i resti del pane. Ogni singola cosa è disposta e decisa da lui ed è espressione della sua missione. Tutto proviene da Gesù. All'inizio vediamo lui, i discepoli perplessi, un giovane, che ha cinque pani d'orzo e due pesci, e la gran folla da sfamare; alla fine tutti sono sazi e i discepoli hanno dodici ceste di resti. Tutto questo è opera unicamente di Gesù.

Gesù ha saziato il popolo di propria iniziativa, senza ricorrere ai mezzi ordinari. Ha dato tutto. Il colloquio con i discepoli mostra qual è la situazione di partenza: anche se si comprasse pane per duecento denari, non si riuscirebbe a dar da mangiare a tutti. Questo acquisto di pane non viene fatto; quello che Gesù ha da dare non lo si può procurare con il denaro. I cinque pani del giovane certamente non sono sufficienti. Così, sia che si comprino dei pani sia che si dividano quelli che si hanno, non si può ottenere nulla. Ma non appena Gesù prende i pani nelle sue mani, comincia il pasto a sazietà. Tutto proviene da lui. Gesù dimostra di poter dare e di poter far mangiare e saziare tutti.

A Cana egli ha aiutato i partecipanti alla festa di nozze; in altre occasioni ha aiutato singoli malati; qui dà da mangiare a una grandissima folla. Tutti senza eccezione vengono saziati. La capacità di aiutare dimostrata da Gesù non è limitata dunque a singole persone o a piccoli gruppi; non ci sono limiti per la sua potenza. Per parte sua, egli è in grado di riunire tutti attorno a sé e di saziare tutti; non esclude nessuno, ha abbastanza per tutti. Il problema invece si pone da parte degli uomini: sanno essi apprezzare e vogliono accettare quanto egli è pronto a dare?

Gesù ha dimostrato la sua potenza, oltre che con le guarigioni, con la moltiplicazione dei pani e dei pesci, e l'ha messa a disposizione di tutta la gente. Perciò le persone sono ancora più entusiaste di lui. Credono di aver trovato in lui l'uomo giusto, che deve mettersi alla loro testa, guidarle e prendersi cura del loro benessere complessivo. Egli ha dimostrato di avere la potenza per farlo: ebbene, questa sua potenza deve andare a beneficio di tutti in modo continuativo e completo. Gesù si rende conto che vogliono farlo re a forza. Poiché ha operato in modo sovrano e a partire da se stesso, non si lascia imporre un ruolo nel quale la gente vuol approfittare di lui secondo le proprie idee. Quanto più grandi sono le opere di potenza in cui egli si manifesta, tanto più gravi sono i fraintendimenti a cui si espone. Gesù non si mette alla testa delle schiere entusiaste di lui, ma si sottrae ad esse. Nel discorso sul pane di vita spiegherà il segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Nelle grandi cose che opera, Gesù dimostra di avere potenza e di metterla al servizio di noi uomini. Noi dovremmo affidarci a questa potenza che egli dimostra di avere e al suo amore. Non possiamo prescrivergli, né egli si lascia prescrivere, ciò che deve darci. Non dobbiamo comportarci come se sapessimo meglio di lui che cosa è il meglio per noi. Di fronte a lui, che è così potente e così buono, dobbiamo essere soltanto aperti e fiduciosi. Chi egli vuol essere per noi e che cosa vuole darci, ce lo dobbiamo far dire da lui e dobbiamo accettarlo da lui con gioia e con fede.

Domande

1. Quali aspettative rivolgo a Gesù? Chi dev'essere lui per me?

2. Come si giunge al conflitto tra Gesù, che fa tanto per il popolo, e il popolo, che ha di Gesù una così alta opinione?

3. Qual è il criterio con cui opera Gesù?

 

IO SONO IL PANE DELLA VITA

(6,22-51)

II cibo miracoloso va interpretato come un segno. È un fatto reale, Gesù ha realmente saziato la grande moltitudine; ma questo avvenimento non è significativo in se stesso. Gesù non vuole dimostrare che si può ricevere da lui pane senza fatica e a sazietà, non vuole sostituirsi ai fornai e ridurli alla fame. Ma il cibo miracoloso si riferisce a un'altra realtà. Il fatto che Gesù possa dare del pane e saziare in senso terreno deve dimostrare che egli in persona è il pane della vita e può dare la vita eterna, imperitura. Presso di lui non dobbiamo cercare il pane terreno; dobbiamo invece riconoscere che egli può e vuole darci qualcosa d'incomparabilmente più grande. Dobbiamo prendere questo sul serio e accogliere il suo dono.

Ciò che noi cerchiamo presso Gesù e che dobbiamo ricevere da lui, viene riassunto nella frase: Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete (6,35. Cfr 6,48.51). Qui per la prima volta c'imbattiamo in una delle espressioni con cui Gesù, servendosi di una realtà terrena di necessità vitale, spiega qual è la sua importanza per noi uomini. Nel Vangelo di Giovanni seguiranno altre espressioni: Io sono la luce del mondo (8,12); Io sono il buon pastore (10,11). Possiamo capire il senso di tali espressioni solo se ci è chiaro qual è il nostro rapporto con tali realtà terrene e solo se vediamo quale pretesa è contenuta in esse.

Il nostro rapporto con il pane - o con il cibo in genere - è caratterizzato dal fatto che dobbiamo ricorrere necessariamente ad esso. Dipendiamo dal pane non per qualcosa di superfluo o a cui si possa facilmente rinunciare, ma per le basi stesse della nostra esistenza, per la nostra stessa vita. Senza le forze che ci vengono dal pane non possiamo vivere. Non siamo indipendenti, sovrani, autarchici. Quello che il pane ci dà non ce lo possiamo dare in nessun modo da soli, né con i pensieri più chiari né con la volontà più ferma. Il pane ha a che vedere direttamente con la vita e la morte. Chi non ha da mangiare o non mangia, muore. Questo non dipende dalla nostra volontà; è semplicemente cosi. Per natura dobbiamo ricorrere al pane. Ma il pane c'è, con la sua meravigliosa capacità di mantenerci in vita. Si tratta però di una capacità limitata: per ogni uomo viene il momento in cui anche il miglior pane non può più aiutarlo; per decine di anni esso lo ha sottratto alla morte, ma alla fine non riesce più a farlo.

Con l'espressione Io sono il pane della vita. Gesù afferma che il rapporto tra la sua persona e noi uomini è dello stesso tipo di quello che c'è tra il pane e noi. Da parte sua, questo significa che lui in persona, con tutto quanto gli appartiene, ci può dare quello che il pane ci dà, e non per la limitata vita mortale, bensì per l'infinita vita eterna. Quello che nessun pane può dare e a cui non arriva nessuna promessa umana, per quanto grande possa essere, egli lo può dare. Gesù è superiore alla morte e vuole condurci oltre la morte. Da parte nostra, questo significa che dobbiamo ricorrere a lui per avere la vita eterna, così come ricorriamo al pane per la vita terrena. Ma questo significa anche che i confini della morte sono caduti. Come nel pane troviamo il mezzo per sottrarci alla morte e rimanere nella vita terrena, così Gesù è per noi la via per superare la morte ed entrare nella vita eterna. La sua promessa è enorme. Visto in una prospettiva semplicemente umana, Gesù può essere considerato soltanto un presuntuoso e un megalomane (cfr 6,60).

Perché il pane mi mantenga in vita, devo mangiarlo. Se non lo mangio, ho fame e muoio, anche davanti a ceste piene di pane. Non basta semplicemente parlare del pane, o semplicemente prenderlo in considerazione; devo entrare nel giusto rapporto con esso. Lo stesso si deve fare per il giusto legame con la persona di Gesù: non basta semplicemente sapere qualcosa su di lui o parlare profondamente di lui; l'unico vero legame con Gesù è la fede in lui. Io credo in lui quando gli concedo tutta la mia fiducia, mi affido a lui e alla sua pretesa, seguo esclusivamente e decisamente la sua persona e la sua via, costruisco tutto su di lui, punto tutto su di lui, lego la mia vita alla sua. La fede non è in primo luogo una certezza intellettuale e un ritenere certa una dichiarazione o un dato di fatto, bensì è l'atteggiamento fermo e fiducioso verso la persona di Gesù, con la piena consapevolezza di chi egli sia e con il pieno riconoscimento della sua identità. La fede è rapporto e legame da persona a persona. Io credo in Gesù quando mi lego totalmente a lui e mi lascio determinare completamente da lui. La fede potrebbe apparire come un legame lieve e debole; quanto invece un legame personale sia importante, saldo e determinante per la vita, lo dimostrano una vera amicizia o un vero matrimonio. Nella fede in Gesù la potenza e l'efficacia datrice di vita del legame personale raggiunge il suo punto culminante.

Mangiare il pane dà la forza per continuare a vivere sulla terra; la fede in Gesù dona la vita eterna: Chi crede ha la vita eterna (6,47). Questa non comincia soltanto dopo la morte, bensì con l'inizio della fede in Gesù. Essa cresce e si rafforza con il crescere di tale fede. Come Gesù, anch'essa passa attraverso la morte e giunge a dispiegarsi pienamente. Vita eterna significa vita di qualità diversa e superiore; vita che è totalmente e solo vita e alla quale soltanto si addice pienamente il nome "vita"; vita che non tende continuamente verso la sua fine; vita che non passa, illimitata, indistruttibile, senza pesi, tranquilla, piena di significato, di gioia e di armonia.

Gesù dice qual è il contenuto della vita eterna: Questo è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo (17,3). La vita eterna non è una vuota durata, in cui noi esistiamo illimitatamente e poi dobbiamo vedere che cosa iniziamo con tale durata e con tale esistenza. La vita eterna è in sé e sin dall'inizio comunione con Gesù e, per mezzo suo, con il Padre e con tutti gli uomini. Perciò ha inizio con la fede in Gesù. Con la fede noi leghiamo la nostra vita a quella di Gesù, dando inizio alla nostra unione personale con lui. Credere in Gesù significa vivere con lui, farsi condurre da lui, affidare a lui la nostra vita, lasciando che sia lui a disporre di noi. Questa vita con Gesù deve portarci sempre più vicino alla sua persona, deve renderci sempre più familiari con lui. Deve farsi improntare sempre più dal suo modello, deve condurre a una sempre maggiore disponibilità a servire il prossimo e a una sempre maggiore fiducia e obbedienza nei confronti di Dio. La vita con Gesù è la vita eterna.

Il legame con Gesù va oltre la morte, perché anche lui, come il Padre, ha la vita in se stesso (5,26), è vita, infinitamente. Una volta entrati nel ciclo vitale di Gesù, la morte non ha più alcun potere decisivo su di noi; Gesù ci ridesterà dalla morte e ci farà vivere (5,21). Nell'ambito terreno noi viviamo la vita eterna senza vedere, basandoci completamente sulla fede (cfr 20,29); ma con la morte e la risurrezione entriamo nella visione, nel contatto diretto con Gesù glorificato e con il Padre. In questo modo la vita eterna riceve la sua forma compiuta (17,24); ma continua a rimanere rapporto e legame personale, vita con Gesù.

Noi sappiamo anche, per esperienza personale, che una vita veramente umana viene vissuta sul piano delle relazioni personali, a partire dalle quali essa ottiene le sue energie fondamentali e raggiunge i suoi vertici. Senza amore e senza scambi personali un essere umano intristisce; la sua vita non è lieta, anche con la migliore salute e con le migliori condizioni materiali. La nostra vita diventa ricca e portatrice di felicità se sappiamo dare e ricevere comprensione, aiuto, apprezzamento, riconoscimento, incoraggiamento, partecipazione, bontà, perdono, fedeltà, sicurezza ecc. Quanto più mature e interiormente ricche sono le persone che partecipano a questo scambio, tanto più ricca è questa vita. La persona di Gesù è incomparabile in questo senso. In quanto Figlio di Dio, egli ha uno scambio infinito con Dio Padre; può dire al Padre: Ogni cosa mia è tua e ogni cosa tua è mia (17,10). Noi possiamo soltanto meravigliarci che egli ci chiami alla fede, al legame con la sua persona, alla vita con lui. Noi non siamo per lui dei partner alla pari; in lui è presente la totale pienezza dell'inesauribile ricchezza e dell'infinito amore di Dio. Tutto questo si dischiude per noi, in proporzione alla nostra capacità di ricevere, e questa è la vita eterna.

Gesù fatica a chiarircelo e a destare il nostro interesse per quello che è il suo dono essenziale. Il cibo procurato alla folla ne è un segno. Noi lo sottovalutiamo, se ci fermiamo ai nostri interessi immediati e aspettiamo da lui pane e salute; egli ha da dare di più. Dicendo: Io sono il pane della vita, Gesù si ricollega alla rivelazione divina partecipata a Mosè al momento della sua chiamata. In quell'occasione Dio ha rivelato il suo nome: Io sono colui che sono (Es 3,14). Dio è essenzialmente definito dal fatto di essere presente per il suo popolo. Con la definizione che dà di se stesso, Gesù dice che Dio è presente in lui per noi uomini e ha sollecitudine per noi, per la nostra vita. Gesù in persona è la nuova e definitiva forma della presenza potente e attiva di Dio, rivolta non più soltanto a essere protezione e guida, ma a essere comunione personale di vita. Gesù non vuole dare soltanto pane, ma anche l'eterna comunione personale di vita con Dio. Questo è talmente al di fuori degli interessi e delle aspettative naturali, che a stento ne possiamo cogliere il senso.

Domande

1. Che cosa vuol rendere chiaro Gesù con la moltiplicazione del cibo? Qual è il suo vero dono?

2. Che cosa caratterizza la fede in Gesù? Come può avere inizio con essa la vita eterna?

3. In che cosa consiste la vita eterna? Qual è il mio atteggiamento al riguardo?

 

VITA DAL DONO DELLA VITA

(6,51-59)

In quanto Figlio di Dio inviato dal Padre, Gesù ci chiama alla comunione di vita con lui. Se abbiamo fede in lui, entriamo nella vita con lui, nella vita eterna. Nella parte finale del discorso sulla moltiplicazione dei pani, Gesù spiega a fondo come egli sia per noi il pane della vita. Qui viene chiarito che nella sua morte in croce egli si dona per la vita del mondo e che egli ci dà la sua carne e il suo sangue come cibo e bevanda. Gesù non soltanto è venuto nel mondo come Figlio di Dio, ma ha anche dato la propria vita per noi. Perciò egli è per noi il pane della vita. Dalla sua morte in croce derivano i doni eucaristici, la sua carne e il suo sangue. Se ne mangiamo e ne beviamo, accogliamo i suoi doni e confessiamo la nostra fede che lui è presente in essi e che solo tramite lui, l'Innalzato e il Crocifìsso, noi abbiamo la vita eterna.

Con l'espressione Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno (6,5 la) Gesù riassume il senso da dare al segno della moltiplicazione dei pani. Egli in persona è forza di vita celeste e divina, assolutamente inesauribile. Chi entra in un giusto rapporto con lui ha parte alla vita eterna. Nella frase successiva II pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (6,51b) sono contenuti ulteriori elementi. Il discorso fin qui ha riguardato in generale il fatto che Gesù è il pane della vita; ma ora egli dice che in futuro darà pane. Questo pane è la sua carne, ossia Gesù stesso nella pienezza della propria esistenza umana. Egli ha messo in gioco la sua umanità per la vita del mondo. Questo suo impegno ha valore per il mondo intero, per tutti gli uomini senza eccezione. Egli è venuto a salvare il mondo (3,17), è il salvatore del mondo (4,42). Mettendo a repentaglio la propria vita, procura la vita del mondo. Per quanto riguarda lui e la sua opera, nessuno è escluso da tale vita.

Questo viene spiegato più precisamente in 6,53-56. Per aver parte alla vita eterna, è necessario mangiare la carne del Figlio dell'uomo e bere il suo sangue. Assieme alla carne, d'ora in poi verrà sempre indicato il sangue. Distinguendo sangue e carne, Gesù fa riferimento alla propria morte violenta: sulla croce egli ha versato il suo sangue. Nel pane, che è la sua carne, e nel vino, che è il suo sangue, egli donerà se stesso come colui che sulla croce ha dato la propria vita. Questa carne e questo sangue sono anche la carne e il sangue del Figlio dell'uomo. Ma il Figlio dell'uomo è colui che è stato innalzato sulla croce, il Figlio unigenito, che Dio ha messo pienamente a repentaglio per amore del mondo (3,14-16. Cfr pp. 49-52). I doni eucaristici trovano fondamento nella morte in croce di Gesù, nel suo donare la vita per la vita del mondo, come prova estrema dell'amore di Dio. Gesù che dona la sua vita sulla croce, dà anche la sua carne come cibo e il suo sangue come bevanda. Questa carne e questo sangue sono un'ulteriore prova del suo amore e sono pegno dell'amore che egli ha dimostrato donando la vita.

Gesù è il pane della vita. Solo chi crede in lui ha la vita eterna. Non c'è un Gesù diverso da quello che sulla croce ha offerto la propria vita e che si offre come cibo e bevanda nei doni eucaristici. Fruendo con fede di questi doni, noi confessiamo il Crocifisso nel suo amore e come fonte di vita e otteniamo di aver parte alla sua vita: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno (6,54).

Di nuovo viene chiarito che vita eterna e comunione personale con Gesù sono identiche. A chi mangia la sua carne e beve il suo sangue, Gesù promette: Ha la vita eterna (6,54) e rimane in me e io in lui (6,56). Il rimanere l'uno nell'altro significa pieno scambio reciproco e la più stretta unione personale. Rientra in questo anche la fondamentale esperienza dell'amore di colui che ha dato la sua vita per noi. Il significato di tutto questo verrà chiarito in seguito, con la parabola della vite e dei tralci (15,1-17).

Gesù ha parlato tante volte del Padre come di colui dal quale proviene tutto. Il Padre manda il Figlio agli uomini come "pane della vita" (6,32.44), ma conduce anche gli uomini a Gesù in quanto "pane della vita" (6,37.44.65). Riguardo al Padre, Gesù dice: Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio dell'uomo e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell'ultimo giorno (6,40). Alla fine egli dichiara che tutto quello che, nella spiegazione del segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci, ha annunciato come proprio dono, trova fondamento in Dio, nel Padre (6,57). Dio è il Padre vivo, la vita stessa, la pienezza inesauribile di forza vitale, il Dio vivente. Gesù è inviato da lui e ha la vita da lui. È caratteristico della realtà del Padre donare la vita. Gesù, il Figlio, ha ricevuto la vita da lui; e in quanto egli possiede in sé questa vita divina che gli viene dal Dio vivente, può trasmettere vita. Il pane vivo viene dal Padre vivo e riceve da lui tutta la propria forza vivifica. Tutto dipende dal fatto che Gesù ha la sua origine in Dio. La fede in lui è innanzitutto fede nel suo essere pienamente Figlio di Dio e nella sua missione, e soltanto dopo fede nella sua assoluta importanza per noi uomini.

Poiché viene dal Padre vivo, Gesù è il pane vivo, il pane disceso dal cielo (6,58). Pertanto questo pane è superiore alla manna, che i padri hanno mangiato. La manna faceva riferimento soltanto alla vita terrena e non aveva alcuna efficacia o importanza oltre la morte. Il pane che Gesù è e dà non serve a sostentare la vita terrena, né impedisce la morte terrena. Gesù stesso muore, offrendo la carne e il sangue del Figlio dell'uomo innalzato. Ma lui, che è il pane della vita, dà la vita eterna, che non tramonta nella morte e trova il suo compimento nella risurrezione. Sono proprio i doni eucaristici a mostrare di quale amore del Padre e del Figlio sia piena e impregnata la vita eterna.

Domande

1. In che rapporto sono tra loro pane della vita, doni eucaristici, morte del Figlio dell'uomo innalzato, amore di Gesù e amore del Padre?

2. Che cosa significa, per la natura dalla vita eterna, il fatto che essa discenda da questo pane della vita?

3. Di che genere è il rapporto di Gesù con Dio? Che cosa ne dipende?

 

ANDARSENE O RESTARE

(6,60-69)

II cibo miracoloso e il discorso sul pane si distinguono dagli altri segni e discorsi di Gesù anche per il fatto che i suoi discepoli vi prendono posizione. Gesù rivela qui i suoi doni specifici e afferma che li darà in veste di colui che è innalzato e che questi doni vanno ricevuti nella sua carne e nel suo sangue. 1 suoi discepoli si dividono su questo: molti si allontanano da lui (6,60-66); i Dodici rimangono con lui (6,67-69).

La maggior parte dei discepoli trova intollerabili le parole di Gesù, tanto da non poterle più ascoltare. Ed effettivamente esse sono tali, se Gesù viene considerato semplicemente come un uomo. Esse sono tali, se le si accoglie soltanto emozionalmente e con superficialità, se ci si attiene ai particolari e non se ne vede l'ambito complessivo. Gesù cerca di dare ai discepoli qualche aiuto per capire, ma menziona anche la vera ragione del loro sdegno: la mancanza di fede. Per prima cosa egli ricorda ai discepoli che non ha parlato come un uomo comune, bensì come il Figlio dell'uomo, che è venuto da Dio e ritorna a lui. Nel discorso sul pane ha sottolineato più volte di essere stato mandato da Dio e di avere la vita da lui (cfr 6,27.57). La principale premessa per capire le parole di Gesù è capire e riconoscere la sua persona.

Poi Gesù entra in un punto particolare del suo discorso. I discepoli sembrano essere stati urtati soprattutto dal fatto che egli dia la sua carne da mangiare e il suo sangue da bere. Gesù li rassicura che dalla carne in quanto tale non c'è da aspettarsi nulla. La carne, cioè l'essere umano in quanto tale - anche l'umanità di Gesù - è perituro e va verso la morte; da esso non ci si può aspettare vita imperitura. Questa invece viene solo dallo Spirito, dall'inesauribile potenza vitale di Dio (cfr 3,6; p. 47). Ma Gesù sottolinea anche che l'insieme delle sue parole è Spirito e vita. Egli non ha semplicemente esposto alcune riflessioni su Spirito e vita, sull'inesauribile potenza vitale di Dio e sulla vita imperitura, ma Spirito e vita sono presenti nelle sue stesse parole ed egli ne dà una dimostrazione chiarissima. Anche le parole sulla sua carne e sul suo sangue sono Spirito e vita, in quanto parlano di colui che non è soltanto carne, bensì Verbo fatto carne (1,14). Gesù può essere capito nel modo giusto solo se si fa attenzione a chi egli è e a qual è la natura delle sue parole. Ma a questo si oppone la mancanza di fede, il rifiuto, il diffidare di lui e della sua parola. La fede è un dono di Dio (cfr 6,37-44); ma al tempo stesso rimane la responsabilità di coloro che non credono e si allontanano da Gesù.

Il colloquio di Gesù con i molti discepoli ha preso le mosse dal loro protestare e dalla loro valutazione emozionale delle sue parole; il colloquio con i Dodici comincia con una sua domanda. Essa non ha carattere provocatorio, come se Gesù dicesse: Potete andarvene tranquillamente! Essa invece contiene un invito a restare: Volete andarvene anche voi? Gesù pone la domanda e lascia ai discepoli la libertà di decidere. Ma non ritira nulla di quanto ha detto. Pietro dà una risposta chiaramente meditata e indica tre ragioni per le quali essi rimangono con Gesù e non si associano alla maggioranza.

La prima ragione consiste in una riflessione disincantata: Non possiamo andarcene via alla cieca. Andandocene via, dovremmo sapere da chi vogliamo andare, presso chi trovare qualcosa di migliore e di più convincente. L'andarsene puro e semplice non ha senso. In questa riflessione non è contenuta ancora nessuna ragione positiva per rimanere con Gesù. Ma questa riflessione ha grande valore per mettere in guardia da decisioni troppo affrettate, dettate dal sentimento. A far decidere non devono essere irritazioni e fraintendimenti. Finchè non si trova un maestro indiscutibilmente migliore, è saggio rimanere con Gesù.

La seconda ragione fa riferimento al carattere delle parole di Gesù. Egli stesso aveva detto: Le parole che vi ho detto sono Spirito e vita (6,63). Pietro ora accetta questa valutazione: Tu hai parole di vita eterna (6,68). Egli ha capito che il dono decisivo di Gesù è la vita eterna e riconosce che Gesù ne parla in modo valido e impegnativo. Gesù non soltanto ne parla, ma porta anche il messaggio sicuro sulla vita eterna e dischiude l'accesso ad essa. I Dodici credono a lui e mostrano il più grande interesse per questo dono.

La terza ragione concerne il riconoscimento della persona di Gesù. Pietro parla della via per giungere a tale riconoscimento e del contenuto di esso. I Dodici si sono affidati a Gesù e gli hanno dato piena fiducia. Sulla base di questo comportamento essi hanno capito e hanno riconosciuto chi è Gesù: il Santo di Dio. Questo è l'unico comportamento che permette di accostarsi a lui. Gesù non può essere riconosciuto a distanza, bensì solo da vicino; e non può essere riconosciuto basandosi sull'indifferenza, sulla critica e sull'egoismo, bensì solo sull'aperta fiducia. Pietro non riprende una delle comuni designazioni di Gesù; non fa cenno alla sua importanza per gli uomini, ma lo definisce pienamente in base al suo rapporto con il Padre. "Santo" è ciò che appartiene a Dio. Se Gesù è il Santo di Dio, vuol dire che egli appartiene completamente a Dio e che è unito a lui in maniera totale. Il modo di tale unione viene chiarito subito dopo: Gesù è il Figlio di Dio. Nella sua confessione Pietro sottolinea l'elemento decisivo e fondamentale: il rapporto di Gesù con Dio, la totale appartenenza di Gesù a Dio. Per questo Gesù ha parole di vita eterna, e per questo è da insensati allontanarsi da lui.

Domande

1. Qual è la mia concezione di Gesù? Quali aspettative ripongo in lui? Perché rimango con lui?

2. Quali sono le premesse per capire le parole di Gesù? Che cosa invece è di ostacolo a ciò?

3. Gli oppositori perseguitano Gesù, molti discepoli lo abbandonano: per quali motivi?

 

FONTE SCORRENTE DELLA VITA

(7,37-39)

Gesù si trova davanti al compito immane di spiegare ai suoi ascoltatori che cosa Dio vuole dare tramite lui e di conquistarli a questo dono. Vede di fronte a sé un mondo d'indifferenza e d'incomprensione, di dubbi e di pregiudizi, di false speranze e di pretese. Con i suoi segni si ricollega a situazioni umane di necessità, per condurre a capire i suoi veri doni attraverso l'esperienza del suo potente aiuto. Compare anche nelle grandi feste in cui Israele si raduna nel tempio, e cerca di raggiungere tutto il popolo per rendergli comprensibile quello che per incarico di Dio ha da dargli.

Assieme alla Pasqua e alla Pentecoste, la festa dei tabernacoli è una delle tre grandi feste di pellegrinaggio. Si celebra in autunno come festa di ringraziamento e di gioia per la conclusione del periodo dei raccolti. Israele deve stare per sette giorni lieto davanti al Signore, suo Dio, ricordando che Dio ha fatto abitare i padri in capanne, quando li ha condotti fuori dall'Egitto (Lv 23,40.43). Questa festa è caratterizzata dalla gioiosa gratitudine per i doni di Dio: per i doni naturali - i raccolti annuali, che assicurano la sopravvivenza del popolo - e per l'intervento storico di Dio, con il quale egli ha liberato Israele dalla schiavitù d'Egitto e lo ha reso suo popolo. Le feste, che sono giorni in cui ci si ricorda dei benefìci e giorni di ringraziamento a Dio, radunano gran parte del popolo. Esse offrono a Gesù una buona occasione per annunciare che cosa, oltre ai doni già fatti, Dio vuole dare al suo popolo tramite lui.

In questa festa Gesù non compie nessuna nuova opera di potenza; si presenta come maestro nel tempio (7,14.28). Questo porta a chiedersi l'origine della sua dottrina (7,15) e della sua persona (7,27.41-42). Gesù è circondato dalle dicerie e dai pareri, dai pregiudizi e dalle supposizioni che circolano tra il popolo a suo riguardo. Mentre il discorso sul pane ha portato a una divisione nella cerchia dei suoi discepoli, il suo insegnamento nel tempio mette in agitazione il popolo. Il popolo è titubante, impressionato dalle parole e dalle opere di Gesù (7,31), influenzato dalle proprie supposizioni (7,27.41-42) e dal duro rifiuto del gruppo dirigente (7,13.25-26). I poli opposti sono Gesù e i capi: Gesù con la chiara coscienza di sé e con il proprio insegnamento; i gruppi dirigenti con il loro rifiuto dell'istigatore del popolo e del bestemmiatore di Dio e con la loro volontà di ucciderlo (7,19.25). Il popolo non sa decidersi per una chiara presa di posizione: si fa trascinare da una parte e dall'altra.

Nel suo insegnamento Gesù tratta di tre argomenti: dell'origine della sua dottrina (7,16-19), dell'origine della sua persona (7,28-29) e del suo dono (7,37-38). La testimonianza del dono che egli ha da dare dipende dalla propria origine: solo se egli non viene in nome proprio, ma è mandato da Dio può dare quanto promette. Tutto dipende da dove egli viene e da chi egli è.

Le affermazioni sull'origine della persona di Gesù e sul suo dono sono messe in risalto dal fatto che egli le grida a voce alta nel tempio. Questa forma intensa e impegnata di comunicarle ne sottolinea l'importanza. Gesù non può parlare con sufficiente energia e insistenza della propria origine e del proprio dono: vorrebbe trapassare la corazza del dubbio e del pregiudizio e conquistare i cuori dei suoi ascoltatori. Oltre che in questa circostanza, soltanto a proposito della testimonianza di Giovanni (1,15) e dell'ultimo appello di Gesù ai suoi ascoltatori (12,44-50) l'evangelista riferisce che furono pronunciati a voce alta. L'insegnamento nel tempio si trova, per così dire, nel centro e mostra la misura dell'impegno di Gesù verso i suoi ascoltatori. Essi non gli sono indifferenti, come pure non gli è indifferente il modo in cui essi ascoltano la sua parola. Egli vorrebbe convincerli e prepararli al dono di Dio.

Gesù conosce Dio, perché viene da Dio e perché Dio lo ha mandato (7,29). Perciò, nell'ultimo e più solenne giorno della festa, può gridare sulla piazza del tempio il suo inaudito invito a tutto il popolo: Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me! Come dice la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno (7,37-38). Gesù aveva già promesso alla samaritana di dare acqua viva, che estingue ogni sete e dona la vita eterna (4,10.14). Come ogni uomo deve ricorrere al pane, così deve ricorrere necessariamente anche all'acqua. Tutto quello che vale per il rapporto dell'uomo con il pane (cfr pp. 63-64) vale anche per il suo rapporto con l'acqua. In Gesù Dio ha dato la fonte inesauribile di acqua viva, che scorre per tutti quelli che hanno sete; in lui ha dischiuso l'accesso alla vita che non tramonta. Nell'Antico Testamento non troviamo qualcosa che corrisponda esattamente a Gv 7,38, ma più volte viene promessa per il futuro una sorgente che riversa le sue acque e rende possibile la vita nel paese (cfr Ez 47,1-12; Zc 14,8). Per gli ultimi tempi il Signore annuncia: A colui che ha sete darò bere gratuitamente acqua della fonte della vita (Ap 21,6). Gesù è questa fonte di vita. Quanto è detto dei fiumi che sgorgano dal suo seno si riferisce certamente anche all'evento della sua crocifissione, in cui sangue e acqua fluiscono dal suo costato (19,34. Cfr pp. 166-167).

L'evangelista poi chiarisce che il dono di Gesù è lo Spirito, che sarà dato soltanto dopo la sua glorificazione. Lo Spirito è l'inesauribile vita divina pervasa dall'amore. La glorificazione di Gesù, cioè la piena rivelazione della sua persona, avviene nel momento in cui egli è innalzato sulla croce. Qui si rivela realmente il suo amore smisurato e la sua obbedienza nei confronti del Padre, e il suo amore per gli uomini. In conseguenza di questa dedizione totale egli condivide con i credenti la vita di Dio (cfr 3,14-15; 6,53). Così egli è la fonte scorrente della vita.

Domande

1. Come si comporta il popolo? Da che cosa lascio influenzare la mia concezione di Gesù?

2. In che rapporto sta il dono di Gesù con il sacrificio della sua vita?

3. Che cosa desidero e voglio, di che cosa ho sete? Che cosa mi aspetto da Gesù?

 

GESÙ E L'ADULTERA

(8,1-11)

II modo in cui Gesù trattava i peccatori era decisamente rifiutato dai suoi oppositori. Egli è stato a tavola con i peccatori, ha annunciato loro la misericordia di Dio e la sua disposizione al perdono. I suoi nemici, invece, mantenevano, con un atteggiamento di disprezzo, le distanze dai peccatori, non volevano sporcarsi con loro, Disapprovavano il modo di procedere di Gesù e volevano dimostrargli che soltanto il loro comportamento corrispondeva alla Legge, cioè alla rivelazione della volontà di Dio.

Gesù insegna nel tempio. Il popolo lo circonda e lo ascolta. I nemici credono di poterlo finalmente prendere in fallo e inchiodare. Non intavolano una discussione con lui, ma gli conducono una donna che è stata colta in flagrante adulterio. Il caso sembra inequivocabile. La Legge parla chiaro: Se qualcuno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l'adultero e l'adultera devono essere puniti con la morte (Lv 20,10). Anche la fattispecie è chiara, perché gli adulteri sono stati colti sul fatto. Che altro resta da fare a Gesù se non associarsi alla prassi dei suoi oppositori e chiedere con loro l'immediata lapidazione della donna? O egli approva la loro prassi, oppure si dimostra spregiatore della Legge. Tutto questo avviene con la più grande pubblicità, davanti al popolo che ascolta Gesù e, secondo l'opinione dei suoi nemici, viene sviato da lui e dev'essere allontanato da lui. Se Gesù approva l'agire dei suoi nemici, approva anche la loro posizione contro i peccatori, è costretto a distogliersi dal proprio comportamento e viene smascherato davanti al popolo come falso maestro. Se invece non approva il loro agire, disapprova una legge inequivocabile e viene ugualmente compromesso davanti a tutto il popolo come chi la infrangesse. Come si comporterà Gesù in questa situazione apparentemente senza sbocco?

Con la più grande calma Gesù si china e scrive, o traccia dei segni a terra. Non getta neppure un'occhiata sui suoi nemici, non dà loro alcuna risposta. Sembra essere completamente solo, tutto dedito a questo gioco di segnare con il dito il terreno. Tutti attendono una sua parola: i nemici sicuri di sé, la donna piena di paura, il popolo pieno di tensione. Che cosa vuol dire questo far segni per terra? Vuol forse indicare soltanto la calma e la sicurezza di Gesù? Vuole stancare o irritare i nemici? È un gesto simbolico? In Ger 17,13 leggiamo: Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte d'acqua viva, il Signore. Gesù vuol forse ricordare ai suoi avversari che sono diventati infedeli a Dio e si sono meritati d'essere scritti nella polvere ed estinti? Ad ogni modo essi s'impazientiscono e pretendono di avere una risposta da lui.

Come si era chinato, così Gesù si rialza e dice loro: Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei (8,7). Essi avevano guardato soltanto alla Legge e al peccato della donna; erano sicuri di sé e presuntuosi. Gesù invece li richiama ai loro peccati: non possono proporsi come irreprensibili e senza colpa; anche loro hanno bisogno di ricorrere alla pazienza e alla misericordia di Dio. Come possono essi chiedere in fretta e senza ripensamenti l'esecuzione capitale della donna? Essi vorrebbero trattare questa donna come un puro e semplice caso, freddamente e materialmente come un problema di aritmetica. Gesù non risponde direttamente alla loro domanda; attira invece la loro attenzione su un dato di fatto da loro dimenticato, sulla loro vera situazione rei confronti di Dio. Li mette in gioco personalmente. E lascia loro tempo. Si china di nuovo e scrive di nuovo. Essi sono così onesti da accettare nel loro cuore la parola di Gesù. Nessuno afferma di essere senza colpa; nessuno scaglia per primo la pietra; tutti se ne vanno.

Quando Gesù si alza nuovamente, sono rimasti soltanto lui e la donna. Finora egli si è occupato degli accusatori della donna; ora si rivolge a lei. Le sue due prime domande chiariscono la nuova situazione: tutti gli accusatori della donna se ne sono andati e nessuno l'ha condannata alla lapidazione. Poi Gesù prende posizione: nemmeno lui la condanna a essere lapidata, ma le rivolge questa esortazione: Va' e d'ora in poi non peccare più! (8,11). Gesù è ben lontano dall'approvare il comportamento di questa donna o dal minimizzarlo. Quanto ella ha fatto è peccato, è avvenuto contro la volontà di Dio. Gesù la esorta energicamente ad astenersi da un tale comportamento. L'assolve dalla sua colpa e le mostra il suo nuovo compito.

Entrambe le parti (gli accusatori e la donna accusata) hanno sperimentato in Gesù la misericordia di Dio. Gli accusatori hanno capito che essi stessi hanno bisogno della misericordia di Dio e che non possono procedere con presunzione e senza misericordia contro il prossimo. La donna è stata salvata da Gesù nella sua pericolosa situazione e ha sperimentato tramite lui il perdono misericordioso di Dio.

Domande

1. Perché Gesù si china e scrive per terra?

2. Con il suo comportamento, egli approva i peccati? Che cosa vuol esprimere con esso?

3. Come mi comporto con le mancanze del mio prossimo? Da quali atteggiamenti mi lascio guidare? Che cosa dimentico?

 

IO SONO LA LUCE DEL MONDO

(8,12-20)

Semplicemente per poter vivere, noi uomini abbiamo bisogno della luce, come del pane (cfr pp. 64-65) e dell'acqua (cfr 7,37-38). Senza la luce e il calore del sole, non ci sarebbe vita sulla terra. Essa sarebbe buia, avvolta nelle tenebre della morte, tutta irrigidita nel gelo della morte. La luce del mondo è la luce della vita. Inoltre, è solo nella luce che possiamo vedere la ricchezza del mondo, le cose e gli esseri umani così come sono; è solo nella luce che possiamo percepirne aspetti, forme e colori. Di notte tutte le vacche sono nere. Solo la luce ci rivela la pienezza del mondo. E solo nella luce abbiamo una visione d'insieme, possiamo distinguere la direzione e la via, evitare di sbagliarla e di cadere. Solo nella luce ci sentiamo bene; il buio ci rende insicuri, ci mette in timore e in ansia. La luce ci dona vita, pienezza, direzione da seguire e sicurezza; ma non può consentirci di avere una vita infinita, non può impedire che i nostri occhi si spengano e che noi entriamo nelle tenebre e nella rigidità della morte.

Fin dal prologo di Giovanni, Gesù ci viene annunciato come la vera luce, che possiede tutte le proprietà del sole e ne supera di molto l'importanza. Il sole rende possibile la vita sulla terra, mostra la pienezza delle cose terrene e rende riconoscibili le vie terrene per raggiungere fini terreni. In quanto luce del mondo, Gesù crea lo spazio per la vita eterna, rende accessibile la realtà di Dio e mostra la via che conduce al fine ultimo, alla comunione di vita con Dio.

Il significato del Verbo divino per gli uomini viene descritto sin dall'inizio così: In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno vinta (1,4-5. Cfr pp. 10-11). Giovanni venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui (1,7). Riguardo alla venuta di Gesù, si dice: Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo (1,9). Gesù viene nel mondo come la luce vera ed è luce per ogni uomo; è veramente la luce di tutto il mondo. In lui luce e vita sono collegati strettissimamente. Essendo pieno di vita divina, egli diventa per gli uomini luce splendente, che rende chiaro il mondo e trasforma il luogo della loro caducità e del loro destino di morte nel luogo in cui ha inizio la loro vita nuova, nella partecipazione alla sua stessa vita. Chiunque è illuminato da Gesù si rende conto in che cosa consista questa vita di Gesù, in quale unione egli viva con Dio Padre. La luce di Gesù lo conduce alla vita di Gesù e lo accoglie nella comunione con lui.

Neppure la più chiara luce del sole può rendere visibile Dio. Ma è compito specifico di Gesù essere Verbo che viene da Dio e portare l'annuncio definitivo su Dio (1,18). Come il sole mette in luce le cose terrene, così Dio viene in luce per mezzo di Gesù. Dio, che nessuno ha visto, viene fatto conoscere da Gesù: chi ha visto Gesù, il Figlio, ha visto Dio Padre (14,9). Le tenebre, tutto quanto nasconde Dio, quanto allontana e distoglie l'umanità da lui, l'ignoranza di Dio, la cecità voluta e quella subita nei confronti di Dio, vengono respinte da Gesù, non possono prevalere sulla sua azione (1,5). E con le tenebre viene sconfitto anche il freddo. Per mezzo di Gesù veniamo a conoscere che Dio non esiste in sé e per sé in un'estatica sublimità, ma vive in se stesso l'amore e la comunione di Padre e Figlio. Questo Dio ama tanto il mondo da inviargli suo Figlio, perché esso sia salvato per mezzo di lui e abbia parte alla vita eterna di Dio (3,16). La venuta di Gesù getta la più chiara luce su Dio e sul suo amore e rende evidente quale vita Dio voglia donarci. Perciò Gesù può dire: Io come luce sono venuto nel mondo, affinché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre (12,46). Se crediamo in Gesù, si leva per noi la sua luce, che fuga tenebre e freddo e ci fa incontrare il suo amore, donandoci, per mezzo della comunione basata su questo incontro, la vita che non passa.

In quanto luce del mondo, Gesù ci fa vedere anche la retta via e ci chiama a seguirlo. Come dobbiamo rappresentarci la nostra vita? Che cosa ha senso? Quale via conduce al fine? Esistono tante direzioni, tanti influssi e tanti stimoli, tanti falsi profeti e vie sbagliate e, come loro corrispettivo, tanta mancanza di orientamento, insicurezza e arbitri. Gesù conosce la retta via, la via che conduce alla pienezza della vita. Egli stesso percorre tale via e ce la rende chiara. I suoi primi discepoli lo hanno seguito nel vero senso della parola (1,37.43). Credere, affidarsi a lui significa innanzitutto farsi indicare da lui il vero modo di vivere, affidarsi alla sua guida, seguirlo. È un dono immenso di Gesù mostrarci che cosa dobbiamo fare della nostra vita, metterci in guardia dalle strade sbagliate e senza senso e precederci sulla via che conduce al fine. Così egli è per noi la luce della vita.

Con la sua parola, Gesù rivendica qualcosa d'inaudito e fa una promessa inaudita: egli stesso è per il mondo intero la luce della vita. I suoi nemici prendono queste parole completamente alla lettera, non le attenuano né le interpretano per cercare di adattarle. Anzi, dicono a Gesù: Ognuno può dare testimonianza su se stesso: perché dovrebbe essere vero quello che egli dice? Gesù non offre loro nessuna prova visibile; risponde muovendo dalla propria chiara conoscenza circa la propria origine, il proprio futuro e la propria missione (8,14.16). Tutto dipende dal suo rapporto con Dio. Gesù non è, né parla, solo per se stesso. Egli è il Figlio inviato dal Padre e ha il Padre al proprio fianco.

Domande

1. Quanti sono gli aspetti della nostra dipendenza dalla luce? Di che cosa siamo debitori a Gesù, che è la luce?

2. Che uso facciamo della nostra vita? Quali modelli, impulsi e fini seguiamo?

3. In che rapporto stiamo con la parola di Gesù? La portiamo al nostro livello?

 

LUCE PER I CIECHI

(9,1-41)

Gesù è la luce del mondo in quanto, nel tempo della sua presenza sulla terra, compie le opere che il Padre gli ha affidato (9,4-5). Non è una luce che impone a chiunque indifferentemente di vedere. Quello che si verifica con il cieco nato dimostra come per mezzo di lui gli uni diventino vedenti e gli altri appunto ciechi (cfr 9,39). In sette incontri, nei quali Gesù è presente soltanto al primo e agli ultimi due, si svolge una vicenda drammatica e ricca di conseguenze. Dalla guarigione della sua cecità, dalla discussione con quanti lo attorniano e dalla parola rivelatrice di Gesù il cieco nato viene condotto a vedere perfettamente, a credere e ad adorare Gesù. Gli avversari vedono in Gesù soltanto un peccatore, che infrange la Legge e si oppone alla volontà di Dio. Quello che egli opera e in cui si manifesta la misericordia di Dio è per loro un operare contro Dio. La luce che rende visibile Dio, il suo inviato e la sua offerta di salvezza, rende tutto oscuro per loro. Solo chi è aperto, chi si fa istruire e guidare, può incontrare Gesù in modo tale che la sua luce gli sia di salvezza.

Nessuno prega Gesù di guarire il cieco: è lui che lo guarisce spontaneamente (9,1-7). Riferendosi al duro destino di quest'uomo, i discepoli esordiscono con uno degli argomenti umani preferiti: Perché è così? Di chi è la colpa? Essi cercano le responsabilità. Vanno a fondo e pensano a una colpa contro Dio. Ma Gesù respinge questa spiegazione. In seguito si chiarirà qual è il vero peccato contro Dio e a quale cecità esso conduce. Per quanto concerne il cieco nato, Gesù non guarda indietro, ma avanti: per mezzo di lui diventerà manifesto che egli stesso è la luce del mondo. Proprio a chi è colpito dalla sventura vengono manifestate la misericordia e la potenza di Dio, a cui tutto è possibile. Così Gesù mostra il significato di quello che opera.

Diversamente dalle sue altre azioni di potenza, Gesù qui non agisce soltanto per mezzo della sua parola. L'evangelista descrive dettagliatamente quello che egli fa al cieco (9,6.11.14.15). E anche questo uomo risanato, a differenza degli altri episodi di guarigione, deve fare qualcosa. Fidando nella parola di Gesù, il cieco va alla piscina, si lava e vede. Gesù non è presente ai quattro incontri seguenti, ma tutto ruota attorno a quello che egli ha fatto al cieco e al suo rapporto con Dio. Proprio attraverso queste discussioni il risanato viene condotto passo passo a vedere chi è colui che lo ha guarito. Gli occhi che Gesù gli ha aperto per vedere il sole, gli si aprono ora per "la luce del mondo". Nell'incontro con i parenti e i conoscenti (9,8-12), c'è un primo tentativo di prendere le distanze dall'effettiva verità della guarigione e dalla presa di posizione riguardo ad essa; si dubita dell'identità del risanato: costui che vede non è certamente il noto mendicante cieco dalla nascita. Egli però afferma la propria identità e fa presente espressamente quanto Gesù ha operato. Invece non sa dire nulla su Gesù né su dove si trovi.

Il risanato deve descrivere di nuovo davanti ai farisei quanto Gesù gli ha fatto e come egli abbia cominciato a vedere (9,13-17). Essi si scandalizzano che Gesù abbia fatto questo di sabato e sollevano la questione, che d'ora in poi sarà dominante, del rapporto di Gesù con Dio. Gli uni hanno come unica unità di misura la propria concezione del sabato e ritengono che Gesù non possa venire da Dio. Gli altri riconoscono la guarigione eccezionale e non possono pensare che Gesù sia un peccatore. Ora anche il risanato è costretto a una presa di posizione: riconosce Gesù come profeta, come un inviato di Dio.

Il colloquio dei giudei con i genitori del risanato (9,18-23) introduce un secondo tentativo di prendere le distanze dalla verità della guarigione. Ora si dubita della precedente cecità di quest'uomo. I genitori confermano la sua identità e la sua effettiva cecità sin dalla nascita, ma non vogliono saper nulla della sua guarigione. Si piegano alla pressione delle autorità. Non vogliono essere isolati socialmente; perciò chiudono gli occhi davanti alla luce.

Il secondo confronto del risanato con i farisei (9,24-34) divide gli animi. Dopo che sono stati tolti di mezzo tutti i pretesti ed è stata stabilita l'effettiva guarigione del cieco nato, diventa inevitabile una presa di posizione riguardo a colui che ha operato tale guarigione. I farisei s'interessano soltanto al "come" della guarigione (cfr 9,15.19.26). In quanto questo interferisce con la loro concezione del sabato, sanno con certezza che Gesù è un peccatore. Il "fatto" che la guarigione sia effettivamente avvenuta non ha alcuna importanza per loro. Ma proprio su questo fatto il risanato tiene duro, imperturbato (cfr 9,25.30.32). Partendo dall'azione compiuta da Gesù, egli riconosce sempre meglio il rapporto di Gesù con Dio. Alla pretesa conoscenza dei farisei riguardo a Gesù (9,24.29) egli contrappone la conoscenza riguardo a Dio, che anch'essi devono ammettere: Noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori; ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta (9,31). Dall'inaudita azione compiuta da Gesù e da questa conoscenza riguardo a Dio consegue che Gesù non è un peccatore, bensì uno che fa la volontà di Dio e viene da Dio. Abbiamo qui un esempio tipico di atteggiamento positivo e negativo nei confronti di un'azione di potenza realizzata da Gesù. Il risanato non si comporta come uno che è semplicemente felice di poter vedere e non s'interessa oltre di colui che lo ha guarito. Per lui invece la guarigione diventa veramente un segno che lo porta a riconoscere il legame tra Dio e Gesù. I farisei rimangono nell'atteggiamento di non voler vedere e s'irrigidiscono nel loro rifiuto di Gesù. Ai fatti concreti riferiti dal cieco risanato essi possono opporre soltanto il gesto di violenza con cui lo scacciano.

Il secondo incontro del miracolato con Gesù (9,35-38) avviene di nuovo per iniziativa di quest'ultimo. Gesù si preoccupa di quest'uomo che è stato scacciato e lo rende capace di vedere ancora di più, portandolo alla fede nel Figlio dell'uomo. Per mezzo della precedente discussione il risanato si è avvicinato sempre più a Gesù e si è aperto sempre più al rapporto di Gesù con Dio. Ora Gesù si rivela a lui, il reietto, come il Figlio dell'uomo, ossia come il Figlio di Dio incarnato, che non è venuto in terra nello splendore della gloria, bensì nella semplicità umana e che si avvia a essere innalzato sulla croce (3,14; 6,35; 12,23.34). Il risanato crede in lui e si prostra davanti a lui, con il gesto cioè con cui si adora Dio. Egli è diventato capace di vedere pienamente la dignità e l'importanza di Gesù. Guarendolo e conducendolo, Gesù è diventato per lui sempre più luce.

Alla fine avviene il confronto di Gesù con i farisei (9,39-41). Questi ultimi reagiscono a una sua affermazione su un aspetto importante della sua missione: egli è venuto a salvare il mondo (3,17; 12,47); è nel mondo come luce della vita. Dal momento che Gesù non si presenta con potenza travolgente, la sua presenza porta a una divisione tra gli uomini. Gli uni lo accolgono e accettano il suo aiuto, si fanno aprire gli occhi da lui e giungono a riconoscere pienamente la realtà. Gli altri lo respingono, credono di sapere già tutto senza di lui e diventano veramente ciechi. Quanto più visibile diventa la realtà per mezzo suo, tanto più grave diventa la cecità di questi ultimi. I farisei vogliono sapere se questo è vero anche per loro. Essi hanno definito Gesù "un peccatore" (9,24); ora è lui che descrive il loro comportamento, definendolo "peccato", mancanza nei confronti di Dio. Essere cieco e ammettere di mancare della luce e della vista non è un peccato; ma pretendere di sapere tutto su Dio e sul mondo e rifiutare la luce che viene da Dio, questo urta contro la volontà di Dio ed è peccato.

La via percorsa dal cieco nato ci fa capire come Gesù agisce in quanto "luce del mondo". Egli non è semplicemente presente sulla terra, ma va incontro agli uomini, li guarisce e li conduce avanti, perché essi vedano sempre meglio da dove egli viene e chi egli è.

Domande

1. Qual è il nostro atteggiamento nei confronti della sofferenza? Ci chiediamo perché e da dove essa venga, o quale sia il suo fine?

2. Sono io a imporre a Gesù come deve essere e che cosa deve fare? Mi faccio indicare da lui chi egli è e che cosa vuole portare?

3. Il cieco ha capito sempre meglio la propria guarigione. Quale esperienza è stata data a me come punto di partenza per capire in maniera sempre più profonda Gesù?

 

IO SONO IL BUON PASTORE

(10,1-21)

Quando i primi cristiani hanno cominciato a rappresentare Cristo, il simbolo più frequente era quello del buon pastore, che troviamo già nelle pitture delle catacombe. Esso mostra Cristo come colui che è venuto per avere cura dell'umanità perduta, come colui che si preoccupa di ogni uomo e vuole riportarlo a Dio. Questo simbolo sta a indicare l'instancabile cura e la totale messa in gioco di Gesù, che vale per ogni uomo. Nell'Antico Testamento l'atteggiamento di Dio verso il suo popolo viene illustrato più volte con l'immagine del pastore. In Ez 34,16 si dice: Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata; avrò cura della grassa e della forte. Le pascerò con giustizia. Nulla è escluso dalle cure prestate dal pastore. A lui importa soprattutto dare a tutti quello che è loro necessario e aiutarli a giungere alla pienezza di vita. Gesù sostiene di essere soltanto lui tale pastore. Egli si distingue dai cattivi pastori, che cercano soltanto il proprio interesse e se la svignano nel momento del pericolo. Sottolinea soprattutto che egli dà la vita per i suoi e li conosce.

Questo discorso sul pastore forse genera in noi un certo fastidio. Chi vorrebbe essere considerato una pecora e appartenere a un gregge? Per che scopo abbiamo bisogno di un pastore che si occupi di noi e ci guidi? Sappiamo pur trovare da soli la nostra strada e aver cura di noi stessi. Ci sembra che il pastore ci renda dipendenti e c'interdica troppo.

Come nel caso del pane, dell'acqua e della luce, anche nel caso del pastore viene messa in risalto la nostra dipendenza: questa volta non riguardo a cose materiali, ma riguardo alla sollecitudine e alla cura umana. Ci è facile pensare a situazioni nelle quali non siamo in grado di aiutarci, ma dobbiamo ricorrere a un "pastore". Un bambino abbandonato a se stesso è perduto. Il fatto di poter crescere e di diventare autonomi lo dobbiamo ai "pastori" che hanno cura di noi. Una persona che giace mezzo morta ai margini della strada (Lc 10,30-37) o un ammalato grave hanno bisogno necessariamente di aiuto. Ogni società rovina senza una guida responsabile, che ha cura del bene pubblico e promuove il rispetto dei valori fondamentali. Noi non siamo del tutto autonomi e indipendenti, ma dobbiamo ricorrere a chi ci indica la strada e ci aiuta.

Ma come il pane, l'acqua e la luce, così anche l'assistenza umana incontra ben presto dei limiti. Anch'essa non può superare la linea della morte. In molte situazioni noi verifichiamo la nostra impotenza: circostanze personali imbrogliate che non riusciamo a sbrogliare, cecità, caparbietà e ostilità insuperabili; forze che separano e oppongono, dividono tra loro gli uomini e i popoli; il peccato contro Dio, che non possiamo perdonare né a noi stessi né agli altri. Per quante cose dobbiamo ricorrere a un buon pastore, che è all'altezza di queste e di ogni altra necessità e se ne assume per noi la cura.

Gesù è il buon pastore. È venuto per farsi carico della nostra necessità e condurci alla vita nella sua pienezza. Egli dimostra di essere il vero buon pastore, perché dà la sua vita per noi (10,11.15.17). Il suo impegno e il suo sforzo non hanno limiti. Egli non fa conto neppure della sua vita; ci ama più della stessa sua stessa vita, e da questo amore è guidata la cura che si prende di noi. Questo suo atteggiamento non è un capriccio passeggero. Dietro di esso c'è la volontà di Dio e la libera scelta di Gesù, che sa di essere amato dal Padre per questa sua scelta (10,17-8). Come ogni sua opera, così anche il suo amore di pastore deriva dal suo rapporto con Dio. Non c'è nulla di più certo di questo amore, dal momento che esso è radicato nella vita divina di Padre e Figlio, è fondato sull'amore del Padre per il Figlio e sull'ascolto che il Figlio presta al Padre. Nulla manca al pastore e al suo impegno per noi. Invece è in noi che manca la fede. Noi siamo sempre soltanto avviati sulla strada per ottenere quello che ci è stato dato in Gesù. In lui è presente Dio con il suo infinito amore di pastore per noi. Quando questo pastore mette a repentaglio la propria vita, non è perduto per noi: egli può riprendersi la vita che dà e impegnarsi per noi senza essere limitato da nessuna potenza, neppure dalla morte.

Il rapporto del buon pastore con i suoi protetti non è freddo, materiale, impersonale, ma è modellato sul rapporto più cordiale e personale di tutti, quello tra il Padre e il Figlio: Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre (10,14-15). Anche l'atteggiamento di Gesù è improntato al suo rapporto con il Padre. Padre e Figlio si conoscono profondamente, vivono in reciproca familiarità, si apprezzano e si amano. Se il rapporto di Gesù con noi è di questo genere, tale dev'essere anche il rapporto da parte nostra. Per lui noi non siamo dei numeri; egli ci conosce con la nostra storia, le nostre difficoltà, i nostri difetti e tutte le nostre caratteristiche. Ci conosce, ci ama e vorrebbe ammetterci sempre più nella comunione con sé. Perciò è necessario che egli non rimanga per noi un semplice nome, ma che impariamo a conoscerlo sempre meglio, proprio come "il buon pastore", e ad avere con lui un fedele rapporto di amore. Il buon pastore non ci tiene a distanza, non vuole averci piccoli e immaturi; noi dobbiamo maturare sempre più e renderci capaci di entrare in comunione personale con lui.

La premura di Gesù pastore non è limitata al popolo d'Israele. Dal Padre egli ha ricevuto il compito di aver cura di tutta l'umanità, di farne un gregge, una comunità di credenti in lui (10,16). In ciò possiamo riconoscere il suo compito infinito. Nessuno è escluso dalla sua cura di pastore; la presenza dell'amore di Dio in lui vale per tutti gli uomini. Per mezzo di lui, che è l'unico pastore, e per mezzo della comunione con lui gli uomini devono diventare una grande comunità. Tale comunità, che gli uomini non potranno mai ottenere da soli, sarà opera sua.

Gesù rivendica di essere l'unico buon pastore. Molti si presentano spacciandosi per pastori e sostenendo di volere soltanto il meglio, di avere pronta la soluzione dei problemi e di conoscere la via che porta alla vera vita e alla piena felicità. Gesù li definisce "ladri e assassini" e definisce la loro opera "furto, uccisione e distruzione" (10,10). Essi cercano soltanto il proprio interesse e portano alla rovina chi li segue. Gesù ci ammonisce a guardarci dai falsi pastori. Qui si tratta di decisioni di vasta portata. L'unico buon pastore è Gesù, tutti gli altri vanno commisurati a lui. Solo per lui vale quanto è stato detto: Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano nella pienezza (10,10). Gesù è stato mandato da Dio per farci avere la pienezza di vita, e a questo fine sono indirizzati il suo vivere e il suo morire, la sua opera e il suo insegnamento. Questo è il suo unico fine ed egli è l'unico che può condurci ad esso, se solo ci lasciamo condurre da lui.

Quello che Gesù rivendica viene accolto in due modi dai suoi ascoltatori. Gli uni si fanno prendere dalla loro spontanea impressione, da pregiudizio e fastidio, e bollano Gesù: È un indemoniato e gli ha dato di volta il cervello; non lo si deve più ascoltare. Essi definiscono insensato anche solo prestare attenzione a quanto Gesù rivendica. Gli altri si attengono ai fatti e partono dalle opere compiute da Gesù. La guarigione del cieco li ha resi pensosi: l'opera e le parole di Gesù non possono venire da un potere contrario a Dio e distruttivo. Essi prendono sul serio la rivendicazione davvero inaudita di Gesù. La sua parola si rivolge a coloro che sono stremati, stanchi, feriti, delusi, a coloro che portano un peso troppo grave, che sono nella colpa, perduti, privi di orientamento, che sono in necessità di qualsiasi genere. Noi dobbiamo sapere che abbiamo un buon pastore che ci conosce e pensa a noi, un buon pastore che fa bene ogni cosa e ci conduce alla pienezza di vita.

Domande

1. Quali "pastori" si sono fatti carico di me? Perché devo essere grato ad essi?

2. Che cosa caratterizza le cure di Gesù "buon pastore"? Ho cominciato a distinguerle?

3. Voglio forse ordinare a Gesù quello che deve darmi? Mi lascio guidare da lui?

 

AL SICURO NELLE MANI DI DIO

(10,22-39)

I giudei si dispongono a cerchio attorno a Gesù. Non vogliono più lasciarlo andare. Esigono da lui una risposta chiara e aperta, se egli sia il Messia. Gesù non dà loro la risposta che attendono. La definizione di "Cristo" su cui essi l'interrogano è troppo indefinita e ad essa possono corrispondere molte idee. Gesù dà loro molto di più. Descrive, non con definizioni ma concretamente, quale sia il suo significato per l'umanità e come esso sia fondato sul suo rapporto con Dio. Mostra loro la via della fede. Qui non abbiamo a che fare soltanto con un'antica polemica tra Gesù e i suoi contemporanei; noi dovremmo interrogare con altrettanta forza Gesù, e ancor più intensamente ascoltarlo. La sua risposta ci mostra chi egli è e che cosa possiamo aspettarci da lui con la massima certezza.

Rifacendosi alla parabola del buon pastore (10,1-18), Gesù descrive il rapporto tra lui e gli uomini che gli appartengono (10,27-28): essi lo ascoltano e lo seguono, lui li conosce e dà loro la vita eterna. Perciò essi non andranno mai incontro alla perdizione e nessuno potrà strapparglieli di mano. Gesù è per loro il buon pastore. Proprio in questo rientra il fatto che egli non agirà per loro con la costrizione e contro la loro volontà. L'assistenza di Gesù buon pastore, che viene offerta sempre da parte sua, può raggiungerci solo se noi ci apriamo a lui. Gesù può anche andare cercando chi si chiude a lui, per conquistarlo a sé; così infatti egli agisce qui con i suoi nemici. Ma una vera unione presuppone che entrambe le parti siano reciprocamente inclini, si riconoscano e si approvino. Noi uomini entriamo in comunione con il buon pastore se lo ascoltiamo e lo seguiamo, se ci affidiamo alla sua guida e crediamo che lui ci mostra la retta via e ci dona la pienezza della vita.

Gesù conosce i suoi, è in profondo rapporto di familiarità con loro e li ha a cuore. Già nella parabola del buon pastore ha detto: Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (10,10). Qui Gesù assicura quello che nessun essere umano, anche con il più grande amore e con la più grande premura, può promettere a un altro: la vita eterna, il riparo da ogni male, la comunione indistruttibile. L'assistenza umana presuppone che chi deve fruirne sia in vita; per Gesù invece non esiste il limite della morte. Fine e culmine del suo essere buon pastore è donarci la vita eterna. Se egli ci protegge, non possiamo perderci; la sua protezione è superiore a tutte le potenze che arrecano male e rovina. Perciò nessuna potenza è in grado di distruggere la nostra comunione con lui. Nulla può averla vinta contro la mano protettrice che egli tiene su di noi. Nulla può separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore (Rm 8,39). Gesù non è il Messia dei beni terreni, pieno di splendore e di potenza, ma è il pastore che dona una comunione personale stabile con lui.

Gesù non resta mai solo con se stesso, non vuol essere indipendente, autonomo, sovrano; si vede e si mostra sempre nella sua unione con Dio Padre. La comunione di Gesù con i suoi deriva dal Padre ed è sotto la protezione del Padre. Questi ha affidato a Gesù i discepoli, che sono al sicuro nelle mani del Padre. Legame più saldo e protezione più forte non si possono immaginare. Nessuno è più potente di Dio Padre. Gesù buon pastore è sostenuto dall'amore del Padre. La sua unione con i suoi è protetta dalla sua potente mano e dalla potente mano del Padre. Gesù e il Padre sono uno nelle loro intenzioni e nella loro azione.

I giudei rinfacciano a Gesù di bestemmiare Dio, di avere un'infinita presunzione in contrasto con Dio: Tu, che sei uomo, tifai Dio (10,33). Gesù vorrebbe indicare loro la via della fede, richiamandoli alle sue opere (10,25.32.37-38). Essi devono farsi guidare sulla stessa strada percorsa dal cieco nato. Le opere di Gesù testimoniano che egli non è contro Dio, bensì che Dio agisce in unione con lui. Dimostrano che quanto Gesù rivendica è degno di fede, perché è confermato da Dio. Un peccatore che è contro Dio, e un indemoniato che è dominato da una forza avversa a Dio, non potrebbero dare la vista a un cieco nato (cfr 9,16.31-33; 10,21). Il fatto che Gesù compia queste opere dimostra che egli viene da Dio. Gesù pertanto esorta i giudei a non trascurare le opere da lui compiute, ma a considerarne la realtà e il valore di testimonianza. Così essi riconosceranno il suo legame con Dio e, riconoscendolo, saranno condotti sempre oltre e capiranno che lui e il Padre vivono e operano nella più stretta unione tra loro. Allora capiranno anche quanto saldamente sia fondato il compito di Gesù buon pastore e quale ne sia la vastità.

Le promesse di Gesù circa i contenuti del suo compito di buon pastore potrebbero essere per noi poco comprensibili: "vita eterna, non tramontare mai, unione indistruttibile". Gesù non ci promette nulla che riguardi i particolari del nostro cammino terreno, ma ci dice chiaro e forte qual è l'ambito e il fine della nostra vita, se ci affidiamo a lui. Protetti da lui pastore, siamo al sicuro nelle mani di Dio, che è al di sopra di tutto.

Domande

1. Siamo paghi delle risposte di Gesù? Che cosa vorremmo sapere da lui?

2. Qual è il fondamento e la portata delle cure affidate a Gesù buon pastore? Che cosa egli ci promette?

3. I nemici di Gesù trascurano le sue opere. In che cosa noi ci allontaniamo dalla realtà, da quello che Dio e Gesù hanno già compiuto? Su che cosa ci fondiamo?

 

IO SONO LA RISURREZIONE E LA VITA

(11,1-46)

La risurrezione di Lazzaro non è soltanto l'ultima, ma anche la maggiore azione di potenza di Gesù: in questa circostanza egli non si limita a guarire una malattia, ma richiama dalla morte alla vita. Questa azione è anche caratterizzata dal fatto che Gesù la compie per un amico e in una cerchia di amici; che avviene alla presenza di molti testimoni e che questi testimoni partecipano all'azione stessa. In altri casi Gesù compie prima il segno e poi, nei colloqui e discorsi successivi, conduce a intenderne il significato; qui invece, con diversi colloqui, egli dimostra già prima ai discepoli, ai parenti e al popolo il significato dell'azione che sta per compiere e che rappresenta il punto culminante del suo operare in potenza. Tutto concorre a questa dimostrazione del suo potere sopra la morte.

Dopo che i suoi nemici hanno cercato di catturarlo (10,39), Gesù si ritira nella zona orientale del Giordano. Lì riceve la notizia della malattia del suo amico Lazzaro (11,1-6). Come Maria alle nozze di Cana (2,3), così le sorelle di Lazzaro non gli esprimono direttamente una richiesta. Non vogliono ordinargli nulla. Forse pensano anche al pericolo che incombe su di lui nelle immediate vicinanze di Gerusalemme (cfr 11,8). Gli fanno semplicemente sapere come sta il loro fratello e gli ricordano che Lazzaro è suo amico. A Cana Gesù ha compiuto il suo primo segno nelle nozze di una famiglia amica; poi ha compiuto le altre azioni di potenza per persone che non conosceva. Questa volta vengono messi ripetutamente in rilievo l'amore e l'amicizia che lo legano ai fratelli di Betania (11,3.5.11.36): amore e amicizia che sono esemplari della sollecitudine cordialmente personale di Gesù nei confronti di noi uomini. Egli non persegue un programma materiale, nel quale ha più importanza il risultato statistico che le singole persone. Egli tratta noi uomini come persone verso le quali ha attenzione e inclinazione.

Per prima cosa Gesù prepara i suoi discepoli all'azione di potenza che sta per compiere. Dopo il segno di Cana, l'evangelista ha affermato: Così Gesù diede inizio ai suoi segni in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui (2,11). Gesù intuisce qual è il fine della malattia di Lazzaro (cfr 9,3): Non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché tramite essa il Figlio di Dio venga glorificato (11,4). Poi dichiara anche qual è il fine di questa malattia presso i discepoli: Perché voi crediate (11,15), Tutte le azioni di potenza di Gesù sono fatte perché Dio risplenda nella sua gloria, si manifesti e diventi visibile. Per mezzo di esse Dio stesso si manifesta, non nella sua essenza astratta, bensì nella sua concreta sollecitudine per noi uomini. Dio si mostra come Io sono colui che sono e dimostra in quale misura è per noi. In quanto quest'opera di Dio si compie per mezzo di Gesù, essa rivela anche che Gesù è il Figlio di Dio, che il Padre ha mandato per noi e tramite il quale possiamo conoscere Dio (cfr 1,18). Al rivelarsi di Gesù corrisponde il credere da parte dei discepoli. L'azione di Gesù nei confronti di Lazzaro deve confermare i discepoli nella loro fede e mostrare loro ancor più precisamente che cosa essi possono aspettarsi da colui nel quale hanno confidato. Gesù li ha invitati due volte a seguirlo in Giudea (11,7.15). Essi sanno che cosa incombe lì su Gesù, e anche su di loro. Confidano in Gesù e diventano testimoni del modo in cui Gesù, anche a rischio della propria vita, risuscita Lazzaro morto.

La situazione che Gesù trova in Betania è caratterizzata dal fatto che Lazzaro è nel sepolcro già da quattro giorni e che molti conoscenti sono riuniti attorno alle due sorelle. Essi sono lì con la loro umana impotenza di fronte alla morte, deboli consolatori (11,19.31). Nella persona di Gesù giunge l'unico che possa veramente cambiare qualcosa in questa situazione e che possa portare vero conforto con la sua potenza divina. Marta gli si fa incontro e gli dice: Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! (11,21). Sembra che le due sorelle si siano dette questo più volte nel loro lutto (cfr 11,32.37). In queste parole si manifesta la loro fede che Gesù possa guarire i malati, ma anche la delusione perché egli non è giunto in tempo. Marta crede anche alla risurrezione dei morti nell'ultimo giorno.

Ma Gesù le dimostra che la risurrezione viene da lui: Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno (11,25-26). Gesù finora si è qualificato come il pane, l'acqua, la luce e il buon pastore; ha riferito a sé le realtà da cui dipende necessariamente la nostra esistenza terrena, affermando che allo stesso modo noi dipendiamo da lui per la vita eterna. Ora afferma direttamente che egli sconfigge la morte e dona la vita eterna. In lui Dio è presente per noi (Io sono colui che sono) come colui che, sottraendoci alla morte, ci fa entrare nella sua vita immortale. La risurrezione presuppone la morte e significa risorgere dal giacere nella rigidità della morte; la vita è l'unione con Dio. Queste due cose ci vengono date da Gesù e sono legate alla fede. Gesù dona questa vita a chi crede in lui. Questa vita donata da Gesù deve passare attraverso la morte, ma non ne viene estinta. L'unione con Dio donata da Gesù non conosce fine né tramonto.

Quello che Gesù opera per Lazzaro è un segno. Lazzaro è morto, Gesù lo chiama fuori dal sepolcro, ma lo fa tornare alla vita terrena, dalla quale egli nuovamente si avvia alla morte. Con questa azione, Gesù dimostra che la morte non costituisce un limite per lui, ma che egli ha potere sulla morte. Il suo vero dono però non è una vita terrena che si prolunga sempre, bensì la vita in eterna comunione con Dio.

Gesù vuole portare anche Marta, come i suoi discepoli, alla fede. Ella lo capisce, crede e fa una professione di fede quale troviamo soltanto alla fine del Vangelo di Giovanni (20,28.31) e quale è adombrata nella dichiarazione di Pietro (6,69) e del cieco guarito (9,38). Con lei Gesù ha ottenuto lo scopo che la sua opera si prefiggeva: le si sono aperti gli occhi. Marta è completamente all'opposto dei nemici di Gesù, che gli rinfacciano di bestemmiare Dio. Ella lo riconosce come colui tramite il quale Dio compie la sua opera di salvezza verso noi uomini ("il Cristo") e come colui che vive in una comunione senza inizi né fine con Dio, in assoluta parità con lui ("il Figlio di Dio"). E come Gesù, anche Marta sottolinea il rapporto di Gesù con il Padre: egli è venuto nel mondo perché è stato mandato dal Padre; dietro tutto quello che egli compie c'è il Padre (cfr 11,42; 16,28).

Gesù si fa condurre alla tomba di Lazzaro. Lo accompagnano le due sorelle di Lazzaro e le molte persone che sono venute da loro nel vano tentativo di consolarle. Attorno a lui risuona il lamento di gente impotente di fronte alla forza impietosa della morte. Gesù fa togliere la pietra tombale. Come non aveva fatto in nessuna delle sue precedenti azioni di potenza, egli si rivolge al Padre nella preghiera. Questa è la sua prima preghiera che viene menzionata dall'evangelista (cfr 12,27-28; 17,1-26). Per prima cosa egli ringrazia il Padre. Il contenuto di questa preghiera è il ringraziamento per l'ascolto. Da parte sua Gesù è assolutamente certo della sua unione con il Padre e non c'è bisogno che gli venga dimostrata con un segno di potenza. Ma quello che gli preme è che la gente creda. Solo se credono in lui, Gesù può compiere la sua opera per la salvezza degli uomini. Il punto centrale della fede è, come sempre, il rapporto di Gesù con Dio. Gli uomini devono credere che il Padre ha mandato Gesù e che dietro tutto quello che Gesù compie e rivendica c'è il Padre. Anche questa massima azione di potenza di Gesù è un aiuto a credere.

Noi uomini siamo mortali. Ogni persona, sin dal primo momento della sua esistenza, va verso la morte. Nei confronti della morte esperiamo un limite assoluto e una totale impotenza. Possiamo forse dilazionarla, ma non evitarla. E non possiamo in nessun modo far tornare in vita chi è morto. Gesù invece rende la morte temporanea e passeggera come il sonno. Ci ridesta da essa e ci dona la vita eterna.

Domande

1. Come e perché Gesù vuol portare alla fede i discepoli, Marta e il popolo?

2. Che cosa penso del fatto che sono sulla via della morte? Come mi comporto quando mi trovo in presenza della morte?

3. Che cosa cambia per me nella morte, tramite il messaggio di Gesù?

 

LUCE DALLA CROCE

(12,20-36)

L'ultima volta che Gesù si presenta davanti al popolo è tutto teso verso il futuro. L'evangelista descrive una situazione completamente nuova. Già in precedenza lo sguardo di Gesù si era rivolto oltre Israele, a tutta l'umanità (10,16; 11,52; 3,16; 4,42). Ora viene detto per la prima volta che dei greci, cioè dei non giudei. vorrebbero incontrarlo. Sono saliti a Gerusalemme per la celebrazione della Pasqua, per adorare il vero Dio. Questo è l'unico brano dei Vangeli in cui compaiono questi timorati di Dio, che si sono convertiti al Dio d'Israele e si attengono ai precetti morali della Legge. Come leggiamo negli Atti degli Apostoli, l'annuncio postpasquale del Vangelo viene accolto al meglio proprio da costoro e, tramite loro, si fa strada tra i pagani e nel mondo. Questi greci dunque si rivolgono a Filippo e Andrea, che hanno nomi greci e che provengono dal confine della Galilea con il mondo ellenistico. Filippo e Andrea sono tra i primi discepoli che, desiderando conoscere Gesù, si sono recati da lui e per primi hanno comunicato la loro esperienza e hanno condotto altri discepoli a lui (1,35-46). In questo episodio si vede anche qual è il compito che essi devono svolgere nella loro vita: quello di essere tramite perché l'umanità possa vedere Gesù.

Gesù non si rivolge direttamente a questi greci. Ma ora, pochi giorni prima della sua morte e perché essi si sono mossi verso di lui, definisce l'importanza e l'efficacia della sua morte in croce e rivolge il suo ultimo appello al popolo giudeo. Non descrive come si svolgerà esteriormente la sua "via crucis", bensì quello che Dio Padre opera tramite lui in favore di tutti gli uomini. Quanto Gesù dice, non possiamo guardarlo dall'esterno, come semplici spettatori; possiamo soltanto apprenderlo da lui e accoglierlo con fede.

In linea di massima e in generale, la morte di Gesù non è puramente opera della violenza degli uomini e non rappresenta la fine ignominiosa di Gesù. La sua "ora" è decretata dal Padre, è tutta entro le disposizioni della potenza del Padre; il Figlio dell'uomo viene glorificato proprio per mezzo della sua morte. Questa morte dimostra in maniera lampante e schiacciante che il Figlio di Dio incarnato è legato al Padre da un vincolo di obbe-dienza a tutta prova e si offre per noi senza riserve. La morte di Gesù rivela il suo amore sconfinato, giacché egli vive totalmente per il Padre e totalmente per noi uomini. Dalla sua morte dipende la fecondità della sua opera; ed egli obbliga i suoi discepoli a operare come ha fatto lui. Solo quando un granello di frumento viene distrutto, esso diventa una grande quantità di grano. Proprio come colui che ha subito la morte e ha manifestato se stesso nella morte, Gesù raccoglierà attorno a sé una molteplicità di uomini (cfr 12,32). Morendo, non scompare di tra gli uomini, ma diventa il centro di un'immensa comunità. Non si tiene aggrappato spasmodicamente alla propria vita. La vita terrena non è per lui il sommo bene che dev'essere salvato a qualsiasi prezzo. Quello che vale per lui, vale anche per i suoi discepoli. Nel seguirlo, essi devono porre il servizio a Dio e agli uomini al di sopra anche della propria vita. Solo se essi sono uniti a lui nel servire, lo saranno anche nel loro destino. Solo chi segue Gesù sulla sua via, giungerà con lui alla mèta e avrà parte al riconoscimento beatificante da parte del Padre.

Come in tutti i Vangeli, anche qui Gesù, di fronte alla propria morte, si rivolge in preghiera al Padre (cfr Mc 14,32-42). Si rende conto del significato della propria morte, ma non per questo le va incontro insensibile. Come ogni essere umano, anch'egli ne rifugge con spavento, è scosso dal proprio destino di morte. In quanto ha sensibilità umana, vorrebbe pregare il Padre di risparmiargli questo cammino. Ma non si lascia determinare dal proprio desiderio, bensì dalla guida di Dio e prega: Padre, glorifica il tuo nome! (12,28). È così d'accordo sul significato del proprio destino, stabilito da Dio, che fa di esso il fine della propria preghiera. Così la sua morte mette in luce quanto Dio abbia diritto al nome di "Padre" e quale eccesso vi sia nella sua inclinazione per noi uomini, per la quale egli ha dato per noi persino il suo Figlio unigenito (cfr 3,16). Gesù non è da meno del Padre nell'amore e prega perché l'amore del Padre possa diventare evidente, anche se sa che questo gli costa la vita.

La morte di Gesù in croce rappresenta anche la sua definitiva vittoria sul demonio, che viene cacciato e non ha più nessuna incontrastata posizione di forza. L'opera del demonio tende a separare gli uomini da Dio, a nascondere Dio agli uomini e a ottenebrare il loro sguardo. La morte di Gesù è la più alta rivelazione dell'amore di Dio per gli uomini e dell'inseparabile legame di obbedienza di Gesù con Dio. In questo modo l'intenzione del diavolo fallisce completamente. Con la sua morte, Gesù inizia anche la sua azione universale, che riguarda tutta l'umanità. Innalzato sulla croce come simbolo dell'amore di Dio (cfr 3,14-17) e innalzato al Padre nella sua potenza celeste, egli raggiunge tutta l'umanità, accogliendola nello splendore del suo amore. Perciò egli è innalzato anche per i greci, che vorrebbero vederlo.

Gesù è venuto nel mondo come luce per ogni uomo (1,9). Da lui innalzato sulla croce emana la luce più chiara e splendente, che fa vedere tutto nella sua vera realtà: Dio nel suo sconfinato amore; il Figlio nella sua dedizione senza riserve e nella sua azione che abbraccia tutta l'umanità; il demonio vinto nella sua potenza. In questa luce dobbiamo scegliere la nostra via come via della "sequela Christi".

Domande

1. Come possiamo essere intermediari per Gesù? Chi attende il mio aiuto?

2. Come considero la morte di Gesù? Essa è per me una luce?

3. Che cosa esige il cammino di Gesù dal discepolo di Gesù?

 

GESÙ, LA PAROLA DI DIO

(12,37-50)

Alla fine della vita pubblica di Gesù, troviamo una dichiarazione conclusiva dell'evangelista (12,37-43) e una di Gesù (12,44-50). L'evangelista si volge a considerare l'ampia portata dell'incredulità dimostrata nei confronti di Gesù; Gesù riassume lo scopo della propria missione, richiama alla fede e mostra ancora una volta le conseguenze dell'avere e del non avere fede. Ancora una volta si vede come sia faticosa l'opera di Gesù e quanto essa venga messa in pericolo da coloro per i quali egli è mandato. Gesù non si presenta in uno splendore accecante e con straordinaria potenza: quelli che lo ascoltano possono fare le proprie scelte liberamente, possono accoglierlo con fede o respingerlo senza credergli. La scelta dipende da loro; ma da loro non dipendono le conseguenze di tale scelta. Perciò Gesù si affatica con tutte le sue forze per mostrare loro in modo convincente chi Dio sia e quali siano le sue intenzioni nei loro confronti. Vuole conquistarli alla fede, e quindi alla loro salvezza eterna.

Nelle sue considerazioni l'evangelista constata il fatto dell'incredulità. Mostra anche come in questo c'entri Dio e che cosa abbia determinato gli uomini a non credere. Considera con stupore che, nonostante i molti segni della sua potenza, Gesù abbia trovato così poca fede. Come nell'epilogo (20,30-31), sottolinea la dipendenza tra azioni di potenza e fede. Il fine dell'opera di Gesù è la fede in lui. Le azioni di potenza sono compiute da lui come strumento per condurre alla fede; non sono risultati o espressioni della fede, ma sostegno per essa. Il fatto che Gesù abbia così poco successo può far nascere dubbi sulla sua opera e rivendicazione. L'evangelista dimostra che la mancanza di fede e le sue cause sono già indicate nella Scrittura, sono stabilite da Dio e non parlano contro la missione di Gesù. Neanche l'incredulità è al di fuori dei disegni di Dio. Questo è espresso con forza dall'affermazione che Dio ha reso ciechi i loro occhi e indurito i loro cuori. Neppure con i peccati e con l'incredulità possiamo prevenire Dio. Egli ci precede sempre con i suoi disegni, secondo il suo piano imperscrutabile che tutto abbraccia.

Questo però non esclude libera scelta, responsabilità e colpa dell'uomo. Subito dopo aver detto quello che Dio ha fatto, l'evangelista aggiunge quello che gli uomini fanno. Molti giungono alla fede, riconoscendo che dietro Gesù c'è Dio e che il messaggio di Gesù è degno di fede. Essi però non confessano apertamente tale fede. Si lasciano determinare dal timore della gente, temono di essere esclusi dalla comunità della sinagoga (cfr 9,22) e di venire isolati socialmente. Manca loro il coraggio e la disponibilità a soffrire. Si piegano alla pressione sociale, rifuggono dagli svantaggi e rinnegano la verità, dopo averla riconosciuta. Gli uomini, le loro pressioni e i loro favori vengono percepiti immediatamente, anche non volendolo, e dolorosamente; Dio e le sue intenzioni invece sono molto più reali, ma possono essere raggiunti soltanto con la fede. Descrivendo l'incredulità e le sue cause, l'evangelista ammonisce a resistere alla pressione sociale, a farsi carico degli svantaggi e a puntare tutto sulla fede in Gesù.

Le parole conclusive di Gesù hanno un carattere particolare: in esse non si parla di luogo, tempo e destinatari. Perciò esprimono il carattere universale della missione di Gesù e si rivolgono agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo. Che queste parole vogliano raggiungere tutti, lo dimostra anche l'intensità con cui vengono dette: Gesù le pronuncia ad alta voce (cfr 1,15; 7,28.37). Il suo messaggio deve risuonare in ogni tempo, deve attraversare muri spessi di opposizione e raggiungere tutti i cuori. Il suo grido indica quanto la sua missione lo commuova e come essa sia d'inestimabile valore per noi uomini.

Nelle sue parole conclusive Gesù dice che cosa ha da dare al mondo, come gli uomini devono accoglierlo e come siano essi stessi a decidere il loro destino eterno. All'inizio e alla fine, come abbracciando e motivando tutto, egli parla del proprio rapporto con il Padre. Tale rapporto è il suo più intimo segreto, il cuore e la vita della sua persona e della sua azione. Non possiamo capire la realtà di Gesù, se non prendiamo sul serio il suo rapporto con Dio. Credere quello che egli ci rivela su questo rapporto è l'unica via per giungere a lui. Gesù è soltanto eco del Padre. La sua parola è la parola di Dio, è vincolante e ha il peso della parola di Dio: Le cose che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me (12,50). Gesù parla dalla saldezza indistruttibile del suo legame con il Padre. Egli è il Verbo di Dio in persona (1,1).

Perciò l'unica risposta giusta dell'umanità è credere, affidarsi a Gesù e costruire tutto su di lui. C'è un solo fondamento assolutamente sicuro: Dio stesso. Egli è con noi e noi prendiamo conoscenza di questo attraverso la persona e la parola di Gesù. Chi si affida a Gesù, si affida a Dio; chi mette da parte Gesù, mette da parte Dio. Perciò con la presa di posizione riguardo a quanto ci viene detto da Gesù noi decidiamo sulla nostra salvezza e perdizione, senza che sia lui a dare una sentenza. La sua parola viene dal più forte legame con Dio. Chi accoglie questa parola e la fa propria si lega con Dio, e questo è salvezza. Chi disprezza e respinge tale parola si pone contro Dio, e questo è perdizione.

La parola di Gesù, che proviene da Dio, che dev'essere accolta e con la quale ciascuno decide da sé il proprio destino, significa luce, salvezza e vita eterna. Si manifesta attraverso la persona di Gesù. Egli è la luce che rende visibile tutto - in primo luogo Dio - nella sua vera realtà. Egli è la salvezza da ogni perdizione. Ci dona la vita eterna, ammettendoci nella vita che egli conduce con il Padre.

Al prologo dell'evangelista, che precede l'inizio, corrispondono le parole conclusive di Gesù alla fine della sua vita pubblica. Esse concernono il futuro e si rivolgono a ogni uomo.

Domande

1. Qual è il contenuto fondamentale e il significato della parola di Gesù? Da che cosa riceve tale significato?

2. Quali sono le ragioni dell'incredulità nei confronti di Gesù?

3. Come accolgo la parola di Dio presente nella parola di Gesù?

 

COMUNIONE CON GESÙ

(13,1-17)

Prima di descrivere l'opera di Gesù, l'evangelista ha narrato come egli abbia raccolto attorno a sé i suoi primi discepoli. Questi appaiono come i suoi accompagnatori. Tuttavia durante la sua vita pubblica Gesù si è rivolto soprattutto al popolo e ai propri nemici. Ora egli trascorre le ultime ore della sua vita solo con i discepoli e spiega che cosa avverrà di loro in futuro. Questo insegnamento rivolto ai discepoli è contenuto nelle sue parole di commiato.

L'ora del commiato è caratterizzata dalla festa di Pasqua e dalla conoscenza e amore di Gesù. Egli sa che è imminente la sua passione e morte. Per Gesù questa non è l'ora che si abbatte ciecamente su di lui, ma l'ora che Dio ha stabilito per lui (cfr 12,27-28). Tra i molti elementi che la caratterizzano, qui ne vengono messi in rilievo due. Questa è l'ora in cui Gesù torna alla casa del Padre, tanta è la sicurezza con cui egli conosce la propria via e la propria mèta. La morte non è per lui la fine, ma il passaggio al Padre. E questa è anche l'ora nella quale egli dà la massima prova del suo amore e nella quale il suo amore trova compimento, giungendo al culmine. Tutto quanto Gesù dice e fa è sostenuto da questa coscienza e da questo amore e avviene sullo sfondo della festa pasquale giudaica. Israele festeggia con gratitudine i benefici di Dio, che lo ha liberato dalla schiavitù e lo ha reso suo popolo. Gesù porta a compimento tale liberazione, sottraendoci alla schiavitù del peccato e della morte e donandoci la piena comunione con Dio. Gesù mostra il significato del suo dare la vita e il valore esemplare di ciò con il gesto simbolico della lavanda dei piedi.

La cornice di questo gesto è disegnata appositamente: il gesto ha luogo durante il banchetto, in cui è simboleggiato e trova compimento il vivere in comunione. Su questa cena pesa l'ombra del tradimento, che rompe l'amicizia e la trasforma nel suo opposto. Ciò che fa Gesù viene dalla sua unione con Dio; il traditore invece si lascia determinare dal demonio. Gesù è a conoscenza del proprio mandato e del proprio compito, come pure della propria dignità. In queste circostanze lava i piedi ai suoi discepoli, prestando loro questo umile servizio da schiavo.

Durante la sua vita pubblica egli ha fatto conoscere, soprattutto per mezzo delle sue azioni di potenza e delle dichiarazioni che iniziano con le parole Io sono, chi egli è, quello che ha da dare e come noi siamo tenuti a ricorrere a lui. La lavanda dei piedi, che va capita nel suo vero significato (cfr 13,7), ha un carattere simbolico analogo. Con essa egli vuol rendere manifesto il significato del suo donare la vita, come spiega egli stesso nel colloquio con Pietro (13,6-11).

Gesù deve vincere innanzitutto le resistenze di Pietro e poi frenare il suo zelo eccessivo. Pietro lo riconosce come il Signore e non vuole accettare il suo servizio da schiavo. Gesù gli fa capire che lo deve accettare: chi non lo accetta, non ha comunione con lui, non ha parte al suo destino, alla sua pienezza di vita con il Padre. Solo levando con fede gli occhi al Signore innalzato in croce otteniamo la vita eterna (3,14-15); è solo il Signore innalzato in croce che ci comunica la pienezza dello Spirito (7,38-39). Donando la vita, Gesù dà compimento al suo amore e alla sua opera; soltanto se ci lasciamo servire da lui, otteniamo la vita eterna.

Pietro dà grande valore al fatto di essere unito a Gesù, ma non ha ancora capito Gesù. Perciò non si accontenta di accettare il gesto simbolico, ma vuole che gli siano lavati anche il capo e le mani. Gesù fa riferimento alla prassi e all'esperienza comune, adducendo così il motivo per cui lava ai discepoli soltanto i piedi. Il suo gesto ha significato simbolico. Non è però un mero gesto, ma corrisponde alle usanze e alla necessità. Quando uno torna a casa dal bagno, ha bisogno di lavarsi soltanto i piedi, che si sono sporcati nella polvere delle strade (allora c'era l'abitudine di camminare a piedi nudi). Gesù fa ai suoi discepoli questo servizio pratico che, come la guarigione del cieco, è pieno di significato in se stesso e nello stesso tempo è un segno. La purificazione esterna significa che solo lui, con il dono della propria vita, rende puri i discepoli, ossia li rende capaci e pronti all'unione perfetta con Dio.

La lavanda dei piedi esprime anche un'altra realtà: simboleggia il servizio insostituibile che Gesù ci offre e mostra anche come noi uomini dobbiamo comportarci gli uni con gli altri. Gesù ci obbliga a seguire il suo esempio. Servizio ed esempio di Gesù sono collegati in ugual misura a quanto egli dice: Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mc 10,45). Qui Gesù chiarisce il significato e l'efficacia della sua morte e al tempo stesso dà un fondamento essenziale al dovere che i suoi discepoli hanno di servire (Mc 10,43-44). Al dono della vita che egli ci ha fatto noi siamo debitori della nostra piena comunione con lui e, attraverso di lui, con Dio. Questa unione non possiamo mai darcela da noi, ma è puramente dono. Non è però un'unione passiva, basata su un nostro stato d'inerzia nel farci servire. Proprio la comunione con Gesù ci fa partecipare al suo servizio. Chi rifiuta tale servizio si esclude dalla comunione. Quanto il Signore e il Maestro fa mostra a chi è servo e incaricato quello che deve fare anche lui. All'evangelista sta continuamente a cuore guardare oltre gli eventi esteriori, volgere lo sguardo nel profondo e riconoscere i valori decisivi e le forze portanti. E anche noi dobbiamo guardare a questi valori e forze, realizzandoli nella loro importanza e nel loro significato. Solo così potremo capire il significato della missione e delle parole di Gesù. Questi valori sono il legame di Gesù con il Padre, dal quale egli viene e al quale ritorna; l'amore che egli dimostra per i suoi, donando la propria vita e rendendo così possibile la piena partecipazione al proprio destino; il suo esempio, che impegna anche i suoi seguaci a servire.

Domande

1. In che modo dalla comunione con Gesù deriva l'obbligo di servire?

2. Qual è il significato della morte di Gesù in relazione a Dio e in relazione agli uomini?

3. Mi rendo conto del servizio che mi viene richiesto?

 

LUCE DALLA MORTE

(13,31-35)

Con l'allontanarsi di Giuda prendono avvio gli avvenimenti che portano alla cattura, alla condanna e alla morte di Gesù. La marea del rifiuto, da lungo tempo montante, si abbatte su di lui. Secondo le apparenze esteriori, egli viene semplicemente spazzato via e vanno a fondo lui e la sua opera. Gesù dice ai discepoli ciò che, contro ogni apparenza, accade realmente in questo frangente e quale sarà il loro compito principale quando non lo avranno più visibile tra loro.

In tutto quello che ha fatto, Gesù ha posto continuamente l'accento sul legame tra Padre e Figlio, tra colui che manda e colui che è mandato: le parole e le opere del Figlio vengono dal Padre e dimostrano il legame del Figlio con il Padre. Questo vale anche per la sua passione e la sua morte. Esse non dimostrano che Gesù è separato e abbandonato dal Padre, ma sono la rivelazione del reciproco legame tra Gesù e il Padre, che qui raggiunge il suo culmine. Il Figlio glorifica il Padre e il Padre glorifica il Figlio. Nel linguaggio biblico, "glorificare" significa rendere visibile qualcuno nel luminoso splendore della sua vera realtà. Nel dono della vita che Gesù ha fatto e nelle sue conseguenze, Padre e Figlio diventano visibili nello splendore della loro relazione reciproca e nel loro rapporto con gli uomini. Questo è il vero carattere della morte di Gesù, ed è necessario percepirlo con fede.

Il Figlio dell'uomo è glorificato nel momento in cui dona la vita. Non con parole, ma attraverso questo evento reale e assolutamente serio, egli si manifesta come il Figlio che è legato al Padre da una sconfinata fiducia. Questa morte è per lui il ritorno al Padre (13,1). Gesù non si aggrappa a nulla, ma si abbandona senza resistenza al Padre, anche nel momento in cui affronta la morte. Nello stesso tempo si manifesta nel suo illimitato amore per noi uomini (13,1), come il buon pastore, che non tiene nulla per sé, ma dà la propria vita per noi. Ma nel Figlio dell'uomo è glorificato anche Dio. Attraverso l'agire del Figlio, Dio si rivela come il Padre che merita una tale fiducia e riguardo al quale soltanto una tale fiducia è adeguata. E il dono della vita da parte di Gesù rivela l'infinito amore di Dio per il mondo, per il quale egli mette a repentaglio il proprio unigenito Figlio (3,16). A questa azione rivelatrice di Gesù fa seguito la sua glorificazione da parte di Dio. Dal momento della sua morte, il Figlio di Dio incarnato viene accolto dal Padre nella sua vita divina, nella gloria alla quale aveva già appartenuto prima di ogni inizio (17,5). A coloro che ne avranno parte, egli apparirà nella sua unità di vita con il Padre (17,24). Ma Gesù è glorificato dal Padre anche per il fatto che si manifesta come colui che è innalzato sulla croce, nella sua efficacia salvifica. Da lui scorrono fiumi di acqua viva. Egli dona lo Spirito, la forza della vita eterna (7,38-39), e attira tutti a sé (12,32).

Quando Giuda s'allontana, l'evangelista precisa: Era notte (13,30). Giuda si è perduto in un'oscurità senza scampo e ora serve le potenze delle tenebre. Al suo allontanarsi fanno seguito le parole di Gesù, che non si sazia di parlare di glorificazione, di rivelazione nello splendore della luce. Proprio nella morte, dalla quale dovrebbe essere distrutto e con la quale le tenebre vogliono vincerlo, egli è la luce per il mondo, mette in luce Dio e mette noi uomini nella luce del suo amore.

Questa luce s'irradia sull'ora del commiato, che pure è pieno di pena. Soltanto qui Gesù si rivolge ai discepoli con il diminutivo "figlioli" ("voi piccoli cari figli"), quasi con cura e amore materno. Finora egli è stato in mezzo a loro e li ha protetti (17,12); ora va alla morte. Così finisce la loro comunione, nella quale egli è stato visibile in mezzo a loro. Essi non lo seguono subito nella morte e nella gloria (cfr 13,26; 21,18-19). Egli vuole prepararli per il periodo della separazione esteriore.

Con il comandamento Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri (13,34), Gesù mostra ai discepoli un modo in cui egli continuerà a essere presente in mezzo a loro e determina il loro comportamento. I discepoli devono orientarsi verso il suo amore, che ognuno di loro ha esperito. In questo amore ciascuno deve rappresentare per l'altro Gesù, deve accettare l'altro, aiutarlo, essere attento al suo bene, come appunto ha fatto Gesù. Così essi renderanno presente l'uno all'altro Gesù in quello che soprattutto lo caratterizza: l'amore. I discepoli vengono apostrofati come comunità e devono orientarsi secondo la comunione di vita che hanno potuto avere con Gesù.

Per quanto riguarda la formulazione, già nell'Antico Testamento c'era un comandamento simile a quello che Gesù ha dato nell'Ultima Cena: Ama il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18). Per quanto riguarda invece l'esperienza da cui deriva, da cui è sostenuto e da cui è commisurato, il comandamento di Gesù è completamente nuovo. Solo i discepoli di Gesù hanno esperito il suo amore, e solo nella morte di Gesù si rivelano in pienezza l'amore di Gesù e quello di Dio (13,1.31). Sulla base dell'amore che ricevono dal Padre e dal Figlio, i discepoli devono amarsi l'un l'altro. Gesù non dà loro un comandamento puro e semplice, ma offre loro innanzitutto l'esperienza del proprio amore e crea per loro un nuovo spazio vitale, donando la propria vita e rivelando l'amore di Dio. Aprendosi all'amore e alla glorificazione di Gesù, i discepoli si mettono in grado di amarsi l'un l'altro così come egli li ha amati. Così si rendono ancor più seguaci del loro Maestro e dimostrano di essere suoi veri discepoli. Per mezzo del loro reciproco amore Gesù continuerà a essere presente in mezzo a loro, guidando il loro comportamento.

La comunione finora visibile tra Gesù e i discepoli giunge a fine. Proprio questa fine rende evidente come Gesù sia legato ai discepoli e quanto li ami. Egli prende congedo da loro, ma non li abbandona. Rimarrà con loro anche tramite il loro amore reciproco, ed essi rimarranno legati a lui.

Domande

1. Perché attraverso la morte di Gesù avviene la sua glorificazione e la glorificazione di Dio?

2. In che senso Gesù dà un nuovo comandamento?

3. Conosco l'amore di Gesù e l'amore di Dio? Cerco di commisurarmi ad essi?

 

COMUNIONE PERENNE

(14,1-14)

Gesù ha annunciato ai discepoli che se ne andrà e che la loro comunione di vita, durata finora, è alla fine. È stata forse essa soltanto un breve intermezzo, una gioiosa amicizia, che si trasfigura nel ricordo ma che s'interrompe e finisce con la morte di Gesù? Nell'ora del congedo egli deve spiegare ai discepoli che non si separa per sempre da loro, ma che la sua andata serve a stabilire un legame ancora più forte.

All'inizio Gesù parla dell'atteggiamento fondamentale con cui i discepoli devono affrontare la situazione della separazione, il fatto che egli muore sulla croce e che non lo avranno più visibile in mezzo a loro: Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me! (14,1). Questa esortazione vale non soltanto per i discepoli, ma anche per tutti quelli che crederanno in seguito in lui. Questi ultimi si trovano nella stessa situazione di quei discepoli, in quanto non soltanto Dio, ma anche Gesù è invisibile a occhi mortali. I discepoli non devono lasciarsi impressionare, perdere risolutezza e consiglio, essere preoccupati e inquieti. Proprio ora devono avere il loro più saldo fondamento e il loro incrollabile sostegno in Dio e in Gesù. Solo nella fede saranno capaci di affrontare questa situazione. Gesù ha parlato a più riprese della fede come risposta ai suoi segni e come via d'accesso alla vita eterna. Proprio ora che essi non lo vedranno più, la loro fede sarà chiamata in causa. A Dio e a Gesù spetta il medesimo tributo di fede, poiché il Padre si fa conoscere attraverso il Figlio e opera in comunione inseparabile con il Figlio, per suo tramite (14,10-11). Senza vedere, i discepoli dovranno affidarsi con illimitata fiducia al Padre e al Figlio, costruendo tutto su di loro.

II fatto che Gesù se ne vada non costituisce una separazione definitiva, ma serve alla loro unione eterna. Per Gesù stesso la morte è il ritorno alla casa del Padre (13,1). Esaltato e glorificato, egli sarà per sempre nella perfetta comunione con il Padre. Ma anche i discepoli hanno la loro patria perenne non su questa terra, bensì presso Dio. La vita comune nella sua forma terrena volge al termine. Gesù non se ne va per abbandonarli, ma per preparare loro un posto presso il Padre, per prenderli con sé ed essere in un'unione eterna con loro. Per i discepoli è della massima importanza non fissarsi soltanto sul fatto che Gesù muore di una tale morte e che non è più con loro. Essi devono vedere con fede il fine, cioè come tutto quello che Gesù ha compiuto è indirizzato alla loro comunione perenne con lui e con il Padre.

Quanto si è detto potrebbe far pensare che i discepoli rimangano passivi e che siano semplicemente condotti da Gesù al Padre. Essi però non possono rimanere inattivi, ma devono anche muoversi da sé. Perciò Gesù li istruisce sulla via per giungere al Padre: Io sono la via, la verità e la vita; nessuno giunge fino al Padre, se non per mezzo mio (14,6). I discepoli non vengono semplicemente condotti da Gesù al Padre, ma devono loro stessi mettersi in cammino. La via però è di nuovo Gesù stesso. Già nella parabola del buon pastore egli aveva detto: Io sono la porta: chi passa attraverso me, sarà salvo (10,9). Noi uomini siamo separati dalla possibilità di salvarci dalla corruzione come da un muro impenetrabile e insuperabile; questa possibilità ci è inaccessibile. Ma c'è una porta, un'unica breccia nel muro, un unico accesso alla salvezza: Gesù in persona. La salvezza consiste nell'unione con Dio.

Come è l'unica porta, così Gesù è anche l'unica via verso il Padre, in quanto è la Verità e la Vita. "Egli è la Verità" significa che solo per mezzo di lui si può conoscere il mistero di Dio. Solo per mezzo di lui, nella sua realtà di Figlio, viene rivelato che Dio è realmente Padre e vive da sempre in affettuosa comunione e parità con questo Figlio (1,18). "Egli è la Vita" significa che noi abbiamo l'unione con Dio Padre, e quindi la vera vita eterna, soltanto tramite l'unione con Gesù. Solo per mezzo di lui ci sono concesse la conoscenza del Padre e l'unione con lui. Perciò Gesù è l'unica via al Padre. Dio è inaccessibile a noi uomini nella sua vera realtà di Padre. Con le nostre forze noi non possiamo giungere per nessuna via a lui; dobbiamo ricorrere a Gesù, nel quale ci è dato accesso a Dio.

Come ogni volta che si definisce con l'espressione Io sono, anche qui Gesù ci dimostra che nella sua persona è presente Dio come datore di salvezza per noi. Il grande dono che Dio ci fa e che qui ci viene manifestato da Gesù è il fatto di poter accedere a lui. Dio è per noi nascosto e inaccessibile, ma non esclude la possibilità che noi arriviamo a lui. Nel Figlio ci dona la porta e la via, rendendoci possibile l'unione con lui. Non ci liquida con doni materiali o spirituali, per quanto grandi essi possano essere, ma si rende accessibile a noi. Egli stesso è presente per noi nella sua vera realtà, e non per mezzo di doni di qualsiasi genere diversi da lui.

In quanto solo Gesù è il Figlio unigenito pari a Dio, solo lui è la porta e la via d'accesso al Padre. Tutte le altre vie non portano al Padre. Gesù è l'unica via che conduce alla mèta. Noi non possiamo giungere al Padre con nessun'altra guida, né con l'esercizio del pensiero e della meditazione, né per mezzo di tecniche spirituali o di metodi, né con qualsiasi altro mezzo che escluda Gesù. Solo per mezzo di Gesù otteniamo la conoscenza di Dio e l'unione con lui nella sua vera realtà di Padre.

Nella sua risposta a Filippo, Gesù chiarisce in che modo egli è la via che conduce al Padre. Filippo gli chiede: Signore, mostraci il Padre e ci basta (14,8). Egli pensa certamente a una teofania, a una visione diretta di Dio, a un'esperienza straordinaria di Dio. Ma Gesù non è "la via" in quanto trasmette fenomeni ed esperienze eccezionali di questo genere. Lo è invece nel modo sperimentato fin qui dai discepoli, con le sue parole e con le sue opere, con la vita in comune con loro. Lo è in quanto Verbo di Dio fatto carne, con il suo aspetto umano pieno di discrezione. L'unica possibilità d'imboccare e di percorrere questa via è la fede. Per occhi che hanno fede egli dice: Chi ha visto me ha visto il Padre (14,9). Chi riconosce per fede Gesù come Figlio, giunge subito per fede al Padre. Solo per chi crede in lui, Gesù è la via, e continuerà a esserlo anche quando non sarà più presente visibilmente tra i suoi. I discepoli e tutti quelli che crederanno in base alla loro testimonianza possono giungere per fede a lui e, tramite lui, al Padre. L'unico legame necessario e saldo con Gesù è la fede, per mezzo della quale lo riconosciamo come il Figlio di Dio, ci affidiamo a lui e ci facciamo guidare da lui. Non esiste nessun valido legame con lui al di fuori della fede. Proprio nell'ora del commiato Gesù mostra ancora una volta ai discepoli come essi rimangano uniti a lui e, tramite lui, al Padre solo per mezzo della fede, e in ogni situazione per mezzo della fede.

Nella successiva risposta a Filippo Gesù dà la ragione per cui chi crede nel Figlio vede il Padre e giunge a lui. Il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio (14,10-11). Gesù esprime così il dato che Padre e Figlio sono legati reciprocamente con pienezza di unità e vivono in unità, avendo tutto in comune. Essi sono contraddistinti dalla loro unità. Mai il Figlio è privo della perfetta unione con il Padre, e mai il Padre è privo della perfetta unione con il Figlio. Perciò chi guarda con fede al Figlio vede, in lui e per lui, il Padre. La ragione di questo è la perfetta unione, per noi inimmaginabile, del Padre e del Figlio.

Che Gesù rimanga unito ai suoi discepoli anche nel tempo della separazione esteriore è dimostrato anche dal fatto che egli ascolterà le loro preghiere e compirà tramite essi le proprie opere. Tutto l'operato di Gesù - le sue parole e le sue azioni di potenza - era diretto ad aprire gli occhi dell'umanità sulla propria missione e a rivelarle il Padre. I discepoli, che hanno ricevuto da lui tale missione e che la compiono per suo incarico, avranno risultati anche maggiori, perché sarà lui, innalzato e glorificato, che agirà per mezzo di loro.

Domande

1. Di che genere è l'unione di Gesù con Dio?

2. Che cosa significa per me la comunione con il prossimo, con Gesù e con il Padre?

3. Quali vie d'accesso a Dio ci sono offerte? Come cerco di arrivare a Dio?

 

OSSERVARE I SUOI COMANDAMENTI

(14,15-21)

I discepoli sono toccati dal dolore della separazione e si chiedono come andranno le cose dopo la dipartita di Gesù. Anche nel nostro rapporto con Gesù spesso potrebbe essere messa in primo piano la percezione che egli è lontano, assai poco percepibile e tanto difficilmente raggiungibile. Gesù dimostra che egli non abbandona i discepoli e noi. Annuncia la venuta di un altro aiuto, lo Spirito di verità (14,15-17), e la propria venuta (14,18-21). Dichiara che tutti gli insegnamenti che ha dato loro finora non sono superati, ma rimangono validi per sempre. Solo chi si attiene ai suoi comandamenti può ricevere lo Spirito e aprirsi all'amore di Gesù e del Padre.

All'inizio e alla fine di questo brano Gesù parla dell'amore per lui e della necessità di seguire i suoi comandamenti (14,15 e 14,21). Nel dolore che i discepoli provano per la separazione si rivela il loro amore per Gesù. I discepoli devono dimostrare la sincerità di questo loro desiderio della presenza di Gesù e della comunione con lui attraverso l'osservanza dei suoi comandamenti. È l'esortazione ad amarsi gli uni gli altri che qui viene definita espressamente come comandamento (13,34). Ma anche tutto quello che Gesù fa, in parole e in opere, è richiamo e esortazione per noi uomini. "Osservare i comandamenti" significa accogliere con fede l'insieme della sua parola (cfr 14,23-24), affidandosi alla sua guida. Gesù rimane presente nella sua parola e nel suo richiamo. Chi si fa determinare da essi, segue Gesù, rimane unito a lui e conserva il suo amore. L'amore non consiste in parole, sentimenti o ricordi, ma si dimostra nel dare ascolto, nel prestare fede e nel seguire.

A chi è legato in questo modo con Gesù, Dio dona, su richiesta di Gesù, lo Spirito Santo come nuovo aiuto. Finora Gesù è stato l'aiuto dei suoi discepoli, si è preso cura di loro, li ha guidati, incoraggiati, ha dato loro forza. Essi non sono stati lasciati soli a se stessi, né sono stati respinti da lui, ma lo hanno avuto al loro fianco. Anche ora che Gesù se ne va, non resteranno soli. Il Padre darà loro lo Spirito Santo, che sarà sempre con loro, presso di loro e in loro. L'azione dello Spirito Santo verrà poi descritta con maggiore precisione. Qui si afferma che egli subentra come aiuto al posto di Gesù. Lo Spirito Santo viene definito come lo "Spirito della verità", che fa rimanere i discepoli nella verità trasmessa da Gesù e li protegge dai cattivi maestri e dalle scelte sbagliate. Il mondo, che si è chiuso a Gesù, non lo può ricevere. Solo se crediamo in Gesù e ci atteniamo ai suoi comandamenti, siamo aperti allo Spirito Santo, possiamo percepirlo e avere esperienza della sua azione.

Gesù si è rivolto ai discepoli chiamandoli "figlioli" (13,33). Ora assicura loro che non saranno come orfani che a causa della morte perdono per sempre i loro genitori. Gesù li lascia e va alla morte, ma tornerà da loro. Preannuncia che si rivedranno, quando essi potranno incontrarlo come il loro Signore risorto. Gesù muore, ma non scompare nella morte. Tornerà tra i discepoli vivo, come il Risorto, ed essi avranno parte alla sua vita. Con la sua morte egli sparisce per sempre per il mondo: il mondo sa soltanto che egli è morto in croce. Il mondo conosce soltanto la morte e non la vita. Gesù tornerà esclusivamente dai discepoli e si mostrerà loro come il Vivente.

L'evangelista ha già accennato al fatto che solo dopo la risurrezione i discepoli capiranno il vero significato di quanto Gesù ha detto sul tempio (2,21-22) e il significato del suo ingresso a Gerusalemme su un asino (12,16). Qui Gesù annuncia ai discepoli che solo dopo la sua risurrezione essi capiranno veramente la sua comunione con il Padre e con loro. Con la risurrezione si dimostra che Dio sta accanto a Gesù con tutto il suo amore e la sua potenza e ne conferma le rivendicazioni e le opere. Ma la risurrezione rende anche evidente il legame speciale che Gesù ha con i discepoli: egli si mostra e si rende riconoscibile come il Vivente soltanto a loro. Il loro incontro con il Signore risorto è un nuovo impulso e un fondamento duraturo per credere a quanto egli ha detto loro sulla sua perfetta unione con il Padre (14,10-11) e sul suo legame indissolubile con loro.

Ancora una volta Gesù richiama al modo per giungere alla perfetta comunione con lui. Volgendo lo sguardo oltre la cerchia dei suoi diretti discepoli, afferma per tutta l'umanità e per tutti i tempi: Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama (14,21). I suoi comandamenti, il suo messaggio e l'appello che esso contiene rimangono validi per sempre. Per sempre varrà il fatto che la ricerca del legame con Gesù è basata sul conoscere i suoi comandamenti e sul far determinare da essi la nostra vita. Se ci volgiamo a lui in questo modo, troviamo l'amore del Padre e il Padre ci accoglierà, pieno di benevolenza e di simpatia, nella comunione con lui. Troveremo anche l'amore di Gesù, che si rivelerà a noi affinché noi lo riconosciamo sempre meglio e con maggiore profondità e siamo legati a lui in modo sempre più stretto e più vivo.

Solo Gesù è la via per giungere al Padre. La rivelazione e gli appelli che egli ha fatto conoscere durante la sua vita terrena rimangono per sempre la via per giungere a lui. Soltanto se ci atteniamo ad essi e ci facciamo guidare da essi, ci leghiamo a lui e ci prepariamo a ricevere il dono dello Spirito Santo e la pienezza della comunione d'amore con il Figlio e il Padre.

Domande

1. In che cosa consistono i comandamenti di Gesù? Perché l'amore per Gesù si dimostra nell'osservare i suoi comandamenti?

2. Come ci conquistiamo l'approccio allo Spirito Santo e alla comunione con Dio? Perché queste cose non esistono per il mondo?

3. Che significato ha per me l'amore di Dio e l'amore di Gesù?

 

NON SONO ABBANDONATI

(14,22-31)

È una paura atavica dell'uomo quella di essere fino alla morte in balìa di forze spesso minacciose, di doverle fronteggiare da solo, di essere privo di aiuto e di difesa. È questa paura che inquieta i discepoli di fronte alla morte di Gesù. Da parte sua, Gesù non si stanca di far capire loro nel senso giusto la loro situazione e di mostrare loro che non sono abbandonati. Il Padre e il Figlio verranno ad essi e dimoreranno con loro (14,23-24). Lo Spirito Santo sarà con loro e li istruirà (14,25-26). Gesù lascia ai discepoli la sua pace (14,27). Il fatto stesso che se ne vada è un motivo per rallegrarsi (14,28). Ciò che egli annuncia loro in anticipo deve aiutare la loro fede (14,29), e la sua stessa morte deve mostrare al mondo quanto egli ami il Padre (14,30-31). Per tutti i credenti è di fondamentale importanza accogliere questa visione delle cose e farla propria.

Ancora una volta Gesù afferma che è necessario l'amore per lui, che ci si deve attenere al suo annuncio e riconoscere con fede quanto egli ha rivendicato (cfr 14,15.21). Non soltanto i primi discepoli, ma chiunque crede in lui e lo ama, legandosi a lui per questa via, si dispone alla venuta del Padre e del Figlio, che prenderanno dimora in lui e rimarranno durevolmente con lui. Gesù ripete continuamente: Io non sono solo, perché il Padre è con me (16,32. Cfr 8,29). Questo vale anche per chiunque ama Gesù: egli non è solo, non è perduto e abbandonato a se stesso; anche senza essere visibili, Gesù e il Padre sono presso di lui. Egli deve sempre sapere, anche nel travaglio della morte, che Gesù e il Padre sono al suo fianco, non lo lasciano mai in angustie. La comunione con Gesù e con il Padre non comincia soltanto quando siamo accolti nella casa del Padre (14,2-3), ma è una realtà già adesso e si completerà con la visione della gloria.

Gesù ricorda ancora una volta che verrà lo Spirito Santo (cfr 14,16-17); il Padre lo invierà su sua richiesta. Egli lascia ai discepoli la sua parola, il suo messaggio e quello che lui rivendica. Questi continueranno a essere gli elementi che danno accesso a lui. Ma i discepoli e tutti i credenti non saranno rinviati alle proprie forze per capire la sua parola: avranno l'aiuto dello Spirito Santo. La sua assistenza efficace si manifesterà nell'insegnare a capire la parola di Gesù. Lo Spirito Santo non porterà un nuovo insegnamento: l'intera rivelazione infatti si è già manifestata in Gesù. Tutta l'azione dello Spirito Santo farà riferimento a quello che Gesù ha detto, spiegandolo ai discepoli. Istruiti da lui, essi potranno seguire ancora meglio la parola di Gesù e prepararsi alla comunione con il Padre e con il Figlio.

Gesù non lascia i discepoli orfani (14,18), cioè abbandonati, pieni di paura, senza aiuto e sostegno. Lascia e dona loro la sua pace. Lascia i discepoli con una pace, con una sicurezza e una protezione che possono venire soltanto da lui. Questa pace non è soltanto una parola, ma si basa sull'annuncio fatto da Gesù, sulla comunione con il Padre e con il Figlio e sulla presenza dello Spirito Santo. Tale comunione è il luogo della sicurezza e della protezione. Se Dio è con noi, chi può costituire un pericolo per noi ed ergersi contro di noi? Questa comunione toglie preoccupazione, paura e insicurezza, tanto più quanto più è vissuta ed esperita nella fede. Poiché soltanto Gesù ci permette di accedere alla comunione con il Padre, soltanto lui può darci questa pace.

L'amore per Gesù spinge i discepoli a osservare la sua parola (14,15.21.23). Dovrebbe spingerli anche a rallegrarsi perché egli se ne va. Con la sua morte, infatti, Gesù torna alla casa del Padre (13,1). Per lui non c'è gioia maggiore della perfetta comunione con il Padre. Questo dovrebbe valere anche per i suoi discepoli. La comunione con il Padre e con il Figlio, che è donata loro sin d'ora, è il fondamento della loro pace. La perfetta unione del Figlio con il Padre è il fondamento più valido della loro gioia. Gesù raggiunge il punto di partenza e la mèta del suo cammino sulla terra. Essere presso il Padre anche come Verbo fatto carne significa per lui la pienezza della beatitudine. La sua gioia dovrebbe essere anche la gioia dei suoi discepoli. Essi dovrebbero rallegrarsi anche per se stessi: il fatto che Gesù abbia raggiunto la mèta è garanzia per loro che la raggiungeranno anch'essi, quando egli li accoglierà nella sua beatitudine (14,3).

Il fatto che Gesù renda nota ai discepoli ogni cosa non deve inquietarli, ma fortificarli nella fede in lui. Per loro significa innanzitutto far propria la concezione che egli ha degli avvenimenti, riconoscere la sua morte come ritorno al Padre e osservare la sua parola con incondizionata fiducia. La sua morte potrebbe sembrare la vittoria del principe di questo mondo e delle potenze delle tenebre, il trionfo dei suoi avversari, che si sono chiusi a lui e, uccidendolo, compiono l'opera del demonio (8,40-41). Ma Gesù non viene sopraffatto da una potenza esterna, contro la propria volontà. Egli prende su di sé volontariamente la propria morte, perché il Padre ha stabilito così per lui (10,18). La sua morte è un segno del suo amore per il Padre, che si manifesta nell'obbedire a quanto gli è stato destinato. Se il mondo deve dare riconoscimento di ciò, tanto più devono darlo i discepoli di Gesù. Credendo, essi devono capire che la morte di Gesù, che tanto li inquieta, è il suo ritorno al Padre e la perfetta espressione del suo amore per il Padre. Se osservano i comandamenti di Gesù, dimostrandogli così il loro amore, essi seguono il suo esempio. È così infatti che egli si comporta nei riguardi del Padre (cfr 15,10).

Tutto dipende dal considerare le cose nel modo giusto. Vista dall'esterno, la morte di Gesù sembra catastrofe e annientamento. Ma chi osserva la parola di Gesù, non perde la sicurezza a causa della sua morte, ma viene confermato nella fede in lui e nella gioia per la sua vittoria.

Domande

1. Che cosa facciamo noi uomini per sottrarci alla solitudine e all'abbandono? Quale via ci mostra Gesù?

2. Come vede Gesù la propria morte? Quali aspetti ne mostra ai discepoli?

3. Che significato ha per noi la parola di Gesù? Di che cosa siamo debitori allo Spirito Santo?

 

APOSTOLATO FECONDO

(15,1-17)

Finora Gesù, nel suo discorso di congedo, ha indicato soprattutto che egli non lascia soli i suoi discepoli e ha detto quanto essi devono fare per rimanere uniti a lui in vari modi. Ora attira la loro attenzione sul fatto che, dopo che lui sarà stato innalzato, essi dovranno portare frutti, dovranno avere un compito missionario. Rivela loro ciò che è necessario per adempiere a questo compito.

La parabola della vera vite si concentra su questo portar frutti (15,2.4.5.8.16). Soltanto in altri due passi Gesù parla del frutto, durante i colloqui con i discepoli. Quando accenna al fatto di essere accettato e riconosciuto dai samaritani, egli dice ai discepoli: Chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna [...]. Io vi ho mandati a mietere ciò che non avete lavorato (4,36-38). Quando per la prima volta alcuni greci lo cercano, egli spiega ai discepoli: Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (12,24. Cfr 15,5.8). In entrambi i casi si fa riferimento al fatto che la comunità di quanti credono in Gesù si accresce e va oltre la cerchia degli immediati discepoli. Gesù è il chicco di grano che, morendo, produce molto frutto. Ma Gesù è anche la vite i cui tralci devono dare ricchi frutti. Nella prima parabola egli parla dell'importanza della sua morte per attirare a sé i credenti (cfr 12,32); nella seconda mostra da che cosa dipende la fecondità apostolica dei suoi discepoli.

Attraverso la parabola della vite e dei tralci, Gesù afferma, con insuperabile chiarezza, quanto i suoi discepoli dipendano dall'unione con lui. Un tralcio può dare veramente frutti soltanto se è unito alla vite e percorso dal suo flusso vitale. L'unica alternativa è che esso secchi, escludendo così radicalmente la possibilità di dare frutti. Ogni fecondità missionaria dei discepoli dipende completamente dal loro essere uniti a Gesù. Qualsiasi tentativo di arrivare a qualche risultato prescindendo da lui è destinato al fallimento. Senza di lui i discepoli non possono fare nulla. Tanto più quindi essi devono cercare di restare uniti a lui il più strettamente e saldamente possibile. Questa necessità è accresciuta anche dal fatto che Dio stesso ha il massimo interesse a che essi portino frutto e li tratta corrispondentemente (15,2). Il fatto di portare frutto o no, non è lasciato alla scelta dei discepoli e non è senza conseguenze per loro. Gesù li ha scelti e destinati a questo (15,16), ed è volontà del Padre che con la loro opera essi conquistino uomini alla fede in Gesù.

Tutto dipende dalla loro unione con Gesù. Come potranno essi diventare tralci di vite, che crescono uniti alla pianta e sono arricchiti dal flusso della sua linfa? I discepoli rimangono in Gesù se le sue parole rimangono in loro (15,7) e se essi osservano i suoi comandamenti (15,10). Tutto procede da Gesù: le parole e i comandamenti provengono da lui. Sta ai discepoli accogliere nel modo giusto questa iniziativa di Gesù. Così essi si legano a lui e diventano capaci di portare frutti.

Le parole di Gesù comprendono il suo messaggio e quanto viene rivendicato da lui. Egli non tiene nascosto nulla ai discepoli; ha comunicato loro tutto quanto ha udito dal Padre (15,15). Li ha iniziati alla conoscenza che discende dal Padre e concerne il Padre, soprattutto al rapporto del Padre con il Figlio e all'amore del Padre per il mondo. Non li ha trattati come servi, esclusi dalla vita del padrone. Si è comportato con loro come con amici, ha dato loro di partecipare a tutto quanto gli sta a cuore e lo muove. La sua vita ha l'impronta del suo rapporto con il Padre. Egli ha rivelato ai discepoli tutto questo, in uno scambio amichevole. Se essi accetteranno, riconosceranno e faranno proprio tutto questo con fede, allora rimarranno in lui e saranno uniti saldamente e strettamente a lui. Solo se ci sarà questo legame, egli potrà operare per mezzo di loro ed essi potranno portare frutto. Del resto, come potrebbe dare testimonianza a Gesù e conquistare altri alla fede in lui chi non crede in lui con la fede più viva?

D'altra parte, è essenziale per il legame dei discepoli con Gesù che essi osservino i suoi comandamenti e che così rimangano nell'amore per lui. Anche qui l'iniziativa parte da Gesù e l'origine prima è il Padre. Come il Padre ha amato Gesù, così egli ha amato i discepoli. In questo amore di Gesù i discepoli sono raggiunti dall'amore del Padre e conoscono l'amore del Padre. Accettano questo amore nel modo giusto, se osservano i comandamenti di Gesù. Anche in questo essi non fanno nulla di nuovo, ma seguono l'esempio dato da Gesù e rinnovano il loro legame con lui. Gesù è rimasto nell'amore del Padre osservando i comandamenti del Padre. Come lui ha comprovato il suo amore per il Padre con l'obbedienza, così anch'essi devono comprovare il loro amore per Gesù con l'obbedienza verso di lui.

Al centro dei comandamenti di Gesù sta quello dell'amore reciproco: Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati (15,12.17. Cfr p. 121). L'amore che i discepoli hanno ricevuto da Gesù, devono continuare a scambiarselo reciprocamente. Come nell'amore di Gesù è presente l'amore del Padre, così nell'amore dei discepoli si deve sentire quello di Gesù. L'amore di Gesù dev'essere reso manifesto dal modo in cui i discepoli si comportano reciprocamente, dal modo in cui essi si preoccupano e s'impegnano l'uno per l'altro e dal modo in cui si aiutano e si apprezzano. L'amore di Gesù dev'essere anche la misura del loro amore. Gesù non ha posto limiti al proprio amore, ma ha dato la vita per i suoi amici. Così anch'essi devono mettersi in gioco senza riserve l'uno per l'altro. Per mezzo di questo amore reciproco essi rimangono in Gesù, sono legati a lui in modo saldo e vivo. Se essi accettano così l'esperienza che hanno avuto di lui, seguendo i suoi comandamenti e il suo esempio, egli continuerà ad agire per loro tramite, e la loro azione diventerà fruttuosa.

II fatto che l'azione apostolica dei discepoli sia fruttuosa dipende dal loro legame con Gesù, che è dato innanzitutto dal rimanere nella sua parola e nell'amore reciproco. Perché la loro azione sia fruttuosa, essi devono ricorrere completamente a Gesù. Ma dal loro portare frutto dipende anche il loro destino personale. Gesù non li ha chiamati per intrattenere con loro un'amicizia individualistica, ma li ha scelti e destinati a essere attivi nel loro compito e a portare frutti (15,16). Come il sale che diventa insipido (Mt 5,13), così anche i tralci staccati dalla vite e che non portano frutto vengono gettati via (15,2.6). In questo caso sono i discepoli stessi a pronunciare la loro sentenza, escludendosi dalla comunione con il Padre e con il Figlio. Ogni loro sforzo deve tendere all'unione con Gesù: da questo dipendono la possibilità di eseguire il loro compito e il loro personale destino.

Sul legame dei discepoli con Gesù si fonda anche la possibilità che la loro preghiera venga esaudita dal Padre, che egli sia glorificato e che essi abbiano gioia. Se i discepoli pregheranno il Padre prendendo le mosse da questo legame e secondo il significato di questo legame, essi saranno esauditi (15,7.16). Qui non si tratta di un qualsiasi genere di preghiere, ma soprattutto delle preghiere che riguardano la fecondità della loro missione (cfr 14,12-14; pp. 126-127). Ancora una volta si vede che i discepoli non possono da soli dar effetto a tale fecondità, e neppure lo devono. Tale fecondità dipende dalla loro unione con Gesù e dall'opera del Padre. Se i discepoli portano frutto, il Padre viene glorificato (15,8), viene rivelato nella sua vera realtà. L'azione dei discepoli vive dell'azione del Padre; ciò che essi possono portare a termine lo devono a lui. Il suo amore portatore di salvezza si dimostra nell'acquisto di nuovi credenti. Ma anche da questi ultimi Dio viene riconosciuto come Padre e, quindi, glorificato (cfr Mt 5,16).

Con questa sua parabola Gesù impegna i discepoli al dovere e alla responsabilità. Il fine però è la loro partecipazione alla sua gioia, la loro gioia perfetta (15,11). La gioia di Gesù è quella di essere beato nell'unione con il Padre; la loro gioia viene dalla loro unione con lui e da tutto quanto fa parte di essa.

Domande

1. Quali sono, secondo questa parabola, le premesse per la fecondità missionaria?

2. Mi rendo conto della mia responsabilità apostolica? Come cerco di corrispondervi?

3. Perché queste parole di Gesù sono fondamento per la gioia?

 

APOSTOLATO DIFFICILE

(15,18-27)

Gesù ha istruito i discepoli su quale sia la premessa della loro azione apostolica. Ora li prepara anche alle difficoltà che dovranno affrontare. L'unione stessa con Gesù, dalla quale dipende la fecondità del loro operare, è causa del rifiuto a cui essi andranno incontro. La comunione, nella quale sono uniti a Gesù come tralci alla vite, è pienamente contraddistinta dall'amore: amore tra Gesù e il Padre, amore tra Gesù e i discepoli, amore tra i discepoli stessi. È a partire da questa comunione e per attuare questa comunione, che i discepoli portano a termine la loro azione apostolica, di cui sono stati incaricati da Gesù. Proprio in questa loro azione, essi devono fare i conti con l'odio: l'odio contro loro stessi, l'odio contro Gesù e l'odio contro il Padre. L'amore dice "sì" all'altro ed è pieno di gioia perché l'altro esiste; l'odio dice "no" all'altro e vorrebbe estinguerlo. Gesù prepara i discepoli a questa situazione. Dice loro che sia lui che loro saranno odiati (15,18-21). Dà una valutazione di questo comportamento in base alla propria venuta e alla propria azione (15,22-25). Promette loro l'assistenza dello Spirito Santo, che gli renderà testimonianza assieme a loro (15,26-27).

I discepoli di Gesù non devono farsi illusioni, né essere sorpresi. Non devono pensare di essere accolti dal mondo a braccia aperte e con cuore pronto. Quanto più essi sono legati a Gesù e, in comunione con lui, rendono presenti la sua parola e il suo amore, come pure l'amore del Padre, tanto più si allontanano dal mondo, sono sentiti come estranei e disturbatori e vengono respinti e odiati dal mondo. La loro unione con Gesù è la ragione di questo odio. Con il termine "il mondo" non s'intende tutta l'umanità che è al di fuori del gruppo dei discepoli e alla quale essi sono inviati. "Il mondo" sono gli uomini che si chiudono in se stessi e non vogliono sapere nulla di Dio in quanto Padre e del Figlio suo Gesù Cristo, del loro amore e di quanto chiedono; sono gli uomini che vogliono vivere e decidere la propria esistenza senza Gesù e il Padre e, senza di loro, sono semplicemente e totalmente "mondo". I discepoli devono fare i conti con loro e non possono lasciarsi turbare e mettere in crisi dal loro rifiuto e dal loro odio.

Alla comunione di vita dei discepoli con Gesù corrisponde la loro comunione di destino con lui: il servo non è da più del suo padrone. Gesù ha già ricordato questo ai discepoli dopo la lavanda dei piedi e li ha chiamati all'impegno del servizio di amore, secondo il suo esempio (13,16-17). Se essi saranno veramente suoi servi e si lasceranno guidare dai suoi comandamenti, faranno esperienza delle medesime reazioni alle quali è andato incontro lui: saranno perseguitati, ostacolati, oltraggiati, oppressi e messi in catene (cfr Mt 5,11; 10,17-22). Ma ci sarà anche chi li ascolterà; e la loro parola sarà custodita e seguita in quanto valida e degna di fiducia. Quanto più essi saranno uniti a Gesù nella loro vita e nelle loro opere, tanto più saranno uniti a lui nel destino. È a lui che i discepoli sono debitori del fatto che siano rifiutati o riconosciuti dagli uomini. Questo significa anche che essi non possono orientarsi secondo il comportamento degli uomini, per evitare di essere rifiutati da loro. Per la fecondità del loro apostolato e per la loro stessa esistenza, è decisivo soltanto il loro legame con Gesù.

Il fatto che i discepoli siano respinti si collega al fatto che Gesù stesso è stato respinto. In questo fatto si manifesta un genere tutto nuovo di peccato, di mancanza verso Dio. Con la rivelazione del Padre e del suo amore, quale ha luogo nella parola e nell'opera di Gesù, diventa possibile un nuovo riconoscimento o rifiuto, un "sì" o un "no" di qualità finora sconosciuta. Poiché Dio finora non era conosciuto come Padre di Gesù, egli non poteva nemmeno essere ricusato come Padre. Per mezzo di Gesù è diventata possibile una vicinanza a Dio incomparabilmente maggiore, ma anche una ben maggiore perdizione, se si dice "no" a Dio. Tutto quanto Gesù ha operato tende a rivelare il Padre, a portare ad aver fede nel Figlio e nel Padre, a donare la vita eterna in unione con loro. Per tutti quelli che si chiuderanno a Gesù, la sua opera sarà motivo per respingere e offendere ancor più radicalmente Dio. Gesù vuole portarci ad accogliere l'amore del Padre. Ma la conseguenza della sua rivelazione può essere anche che tale amore non sia riconosciuto e venga rifiutato con odio accanito.

Tutto quanto accade in unione con Gesù accade anche in unione con il Padre. Come tralci di una vite, i discepoli vengono accolti nell'amore del Padre per mezzo dell'amore di Gesù. Se essi vengono odiati in quanto inviati da Gesù, si trovano davanti allo stesso odio che si è avuto per Gesù e per il Padre. Anche l'essere odiati può costituire un segno dell'unione con Gesù e con il Padre.

Di fronte a questa situazione difficile e opprimente, Gesù ricorda ai discepoli che essi non sono lasciati in balìa di se stessi, ma che hanno l'assistenza dello Spirito Santo. Questi non darà testimonianza esterna, con segni propri, ma li sosterrà e li fortificherà nel loro testimoniare. La loro testimonianza concerne quanto essi hanno udito e visto di Gesù, avendolo accompagnato sin dall'inizio. Se lo Spirito di verità farà loro comprendere sempre meglio le parole e le opere di Gesù (14,26), questo non soltanto servirà a unirli sempre più strettamente a Gesù, ma li renderà anche capaci di dare testimonianza apostolica. Illuminati e fortificati dallo Spirito Santo, essi potranno rimanere fedeli al loro compito, anche contro un'opposizione violenta. Nessuno ama essere respinto, contrastato e odiato. Gesù prepara i discepoli a questa esperienza, insegnando loro a valutarla nel modo giusto. I discepoli non possono orientarsi secondo il rifiuto o l'approvazione degli uomini, ma soltanto secondo la comunione con Gesù.

Domande

1. Come sono collegati tra loro unione con Gesù e rifiuto da parte del "mondo"?

2. Perché tramite la rivelazione di Gesù è diventato possibile un nuovo tipo di peccato?

3. Dove mi scontro con "il mondo"? Come reagisco se vengo respinto? Cerco una più stretta unione con Gesù e la luce dello Spirito Santo?

 

LA CASA DEL PADRE

(16,16-33)

Morte e risurrezione di Gesù rimangono affidate per sempre alla comprensione e alla presa di posizione dei discepoli. Gesù non lascia soli i discepoli in questo compito, ma li aiuta a trovare il modo giusto per assolverlo. Egli descrive dapprima, dal punto di vista della loro esperienza esteriore ed emozionale, quello che sarà il suo cammino (16,16-22); poi fa presente l'importanza della sua risurrezione per il loro rapporto con il Padre (16,23-28). Rifiuta le anticipazioni da parte loro e mostra loro l'incrollabile fondamento della pace e della fede (16,29-33).

Gesù non parla espressamente della propria morte e della propria risurrezione. Vi fa riferimento parlandone velatamente (16,25), al modo in cui esse saranno vissute dai discepoli. Essi non lo vedranno più e lo vedranno di nuovo: questo viene ripetuto tre volte (16,16.17.19). I discepoli si sforzano di capire che cosa vogliano dire queste parole. Più difficile ancora che sapere della morte e risurrezione di Gesù, è capirne il significato complessivo.

Rispondendo, Gesù non chiarisce loro direttamente quanto ha detto in modo velato. Va avanti e annuncia come essi reagiranno emozionalmente, per il fatto di non vederlo più e poi di vederlo di nuovo. Anche questo viene ripetuto tre volte: due volte più apertamente (16,20.22) e una volta con un paragone (16,21). La morte di Gesù colmerà i discepoli di pianti, lamenti e afflizione. Anche in lui essi faranno esperienza dolorosa della caducità passeggera dell'esistenza umana, della separazione improvvisa, della frattura e delle ferite profonde causate dalla morte. Anche Gesù e il loro rapporto con lui sottostanno alle leggi della morte. All'impotenza umana contro la morte non rimangono che il pianto e il lamento. Nello stesso tempo i nemici di Gesù trionferanno, avendo raggiunto il loro scopo e avendo confutato, apparentemente, la rivendicazione di Gesù.

Ma non rimane soltanto il non vederlo più, la morte, la separazione e il lutto. I discepoli soffriranno realmente e profondamente, ma non in modo definitivo. Il loro dolore e la loro pena passeranno come quelli di una donna che partorisce: lasceranno il posto a una grande gioia; e la gioia non finirà né verrà tolta, ma rimarrà. La morte di Gesù sarà un passaggio. Con la risurrezione, egli entrerà nella sua forma di vita definitiva. Poiché i discepoli hanno un legame affettuoso con lui, nell'incontro con il Risorto proveranno una gioia profonda. Tutto in loro sarà consenso, intesa, giubilo, gioia e beatitudine. Poiché la ragione di tale gioia permarrà, neppure la gioia potrà essere loro tolta.

Fino a questo momento Gesù ha spiegato il significato della sua morte e risurrezione per il rapporto tra lui e i discepoli, sul piano dell'esperienza e del vissuto emozionale, riconducendo tutto alla propria origine e mèta, il Padre. Così accade anche ora. Gesù mostra ai discepoli che cosa significherà per loro l'incontro con il Risorto, nella prospettiva del loro rapporto con il Padre. Egli allora annuncerà loro apertamente il Padre; essi pregheranno il Padre in nome suo e il Padre esaudirà le loro preghiere. L'opera compiuta da Gesù per far conoscere il Padre e per legare a lui i suoi discepoli giungerà alla conclusione con la sua risurrezione.

Ciò che egli ha desiderato finora era di condurre i discepoli al Padre. Con la risurrezione, la sua opera acquisterà una nuova qualità: egli annuncerà ai discepoli apertamente, non più velatamente, il Padre (16,25). Non come se egli parlasse loro del Padre con nuovi discorsi di rivelazione; saranno invece loro a giungere a una nuova concezione del Padre, a partire dall'incontro con il Risorto. L'evangelista accenna ripetutamente, e da diversi punti di vista, al fatto che soltanto dopo la risurrezione di Gesù si manifesterà nei discepoli questo intendere rettamente (2,22; 12,16; 20,9). Come già le opere di Gesù sono dimostrazione del suo legame con il Padre (5,36; 10,25.38; 14,11), così questo legame sarà rivelato appieno solo con la risurrezione di Gesù. In quanto glorificato (7,39) e risorto (20,22), egli donerà ai discepoli lo Spirito Santo, che li porterà a comprendere pienamente quanto Gesù ha loro annunciato (14,26; 16,13). Ma al centro dell'annuncio di Gesù sta il messaggio concernente il Padre. Quando i discepoli rivedranno Gesù risorto, esperiranno Dio come il Padre, che ha impegnato tutto il suo amore e tutta la sua potenza per il Figlio suo. Questa esperienza supererà tutte le precedenti.

Questa esperienza scioglierà anche le lingue dei discepoli, sicché da quando avranno conoscenza della risurrezione del Figlio, essi rivolgeranno le loro preghiere al Padre. Neppure questo era stato possibile in precedenza. Solo quando si sarà concluso il cammino di Gesù sulla terra, i discepoli conosceranno per intero il nome di Gesù: il Figlio di Dio risorto e glorificato. A queste preghiere dei discepoli viene promesso pieno ascolto. Poiché essi sono stati uniti a Gesù, lo hanno amato e hanno creduto in lui, otterranno l'amore affettuoso del Padre e il Padre li ascolterà. Con questo ascolto sarà perfetta la gioia che segnerà il loro incontro con il Risorto (16,20-22). Il contenuto della loro preghiera non viene menzionato espressamente; ma tutto sarà dominato dall'affettuosa comunione tra Padre, Figlio e i discepoli del Figlio. A partire dall'incontro con il risorto Figlio di Dio e Maestro dei discepoli, non vi potrà essere più una preghiera qualsiasi, bensì la sola preghiera di aver parte al destino di Gesù e di vivere nella perfetta comunione con lui. Gesù ha promesso che questa preghiera sarà esaudita dal Padre e che i suoi discepoli così raggiungeranno la gioia perfetta.

Ancora una volta Gesù abbraccia con lo sguardo il cammino che ha percorso e ricorda ai discepoli: Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre (16,28). È a partire da ciò che bisogna intendere tutto quanto accadrà a lui e ai discepoli. Il punto di partenza e di arrivo di Gesù è il Padre; la sua patria è presso il Padre. Il suo soggiorno nel mondo e la sua amicizia terrena con i discepoli possono essere soltanto passeggeri; il significato della sua venuta è il Padre. Gesù vuol far conoscere il Padre e il suo amore, rendendo possibile scegliere lui e la comunione con lui. Egli torna alla casa del Padre; ma anche tutti coloro che lo amano e credono in lui saranno accolti dal Padre nella sua casa.

Gesù mette la sordina ai discepoli che precorrono gli eventi e parlano con grande sicurezza della loro fede. Egli sa in anticipo che essi lo abbandoneranno. La loro fedeltà e la loro fermezza non sono a tutta prova. Quando egli si avvierà sul cammino della croce, essi non lo seguiranno più, cesseranno di accompagnarlo. Egli percorrerà la via del Calvario senza di loro. Ma con lui ci sarà il Padre. Anche nella passione e nella morte Gesù saprà di avere al fianco il Padre. Riceverà forza e sostegno non dai discepoli, ma dal Padre.

Invece, il rapporto dei discepoli con Gesù è completamente diverso. Per il loro cammino terreno, egli preannuncia loro oppressione: la via al suo fianco e verso il Padre non sarà piana. Essi devono aspettarsi di essere respinti, di essere messi alla prova e di essere tormentati (cfr 15,18-27). Ma tutto quanto potrà opprimerli — l'odio degli uomini, la persecuzione, il dolore, la debolezza e la morte, ossia tutto quanto fa chiamare questo mondo "un valle di lacrime e di miseria" - è stato superato vittoriosamente da lui. Essi non saranno preservati da tutte queste oppressioni. Ma proprio per questo dovranno guardare a lui e seguire lui. Nell'oppressione egli darà pace, e nella rovina ferma fiducia. La sua vittoria mostrerà loro la mèta sicura e farà loro sopportare le necessità terrene.

Domande

1. Che cosa dice la risurrezione di Gesù riguardo al Padre di Gesù?

2. Nel Padre nostro Gesù c'insegna a chiedere nella preghiera innanzitutto quello che è contenuto nel suo messaggio. Che cosa c'insegna a chiedere nella preghiera la sua risurrezione?

3. Per Gesù il suo cammino terreno e ogni accadimento si riferiscono al Padre. In che misura lo seguo in questa convinzione?

 

CUSTODISCILI NEL TUO NOME!

(17,1-19)

Con i suoi discorsi di congedo Gesù ha preparato i discepoli a capire e affrontare in maniera giusta la situazione dopo la sua morte e risurrezione. Tutto quanto egli dice loro è un'unica espressione del suo amore e della sua cura. Egli è molto affezionato ad essi ed è suo profondo desiderio che essi rimangano sulla retta via e giungano alla mèta, alla perfetta unione con il Padre. L'istruzione data ai discepoli è coronata dalla preghiera al Padre. Gesù espone ancora una volta i suoi desideri e li presenta come preghiera al Padre. Lo prega per la propria glorificazione, affinché possa portare a compimento l'opera intrapresa nei confronti dei discepoli (17,1-5). Ricorda l'opera che ha compiuto fino a questo momento e il fatto di essere stato accolto dai discepoli (17,6-11). Prega il Padre di proteggere in suo nome i discepoli e di santificarli nella verità (17,11-19).

A partire dall'ora che è stata decisa dal Padre e che porta per Gesù la morte e la risurrezione, egli prega il Padre. Chiede innanzitutto: Glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te (17,1. Cfr 17,5). Gesù ha glorificato il Padre, ossia l'ha reso manifesto, lo ha fatto risplendere nella sua vera realtà di Padre, con l'azione che ha compiuto sulla terra per incarico suo (17,4). Ora questa parte della sua azione sta volgendo al termine. Egli prega il Padre perché voglia glorificare il Figlio e rivelarlo come tale, accogliendolo, anche in quanto Figlio incarnato, nella pienezza della vita eterna (17,5). Accogliendolo così, Dio lo riconoscerà come Figlio suo e lo renderà manifesto nella sua vera realtà. Gesù chiede questo non tanto in considerazione del proprio destino, quanto in considerazione dell'opera che il Padre gli ha affidato. Non nella forma terrena della propria vita, ma soltanto in quanto innalzato e glorificato, egli potrà portare a compimento quest'opera e glorificare pienamente il Padre. Questi verrà rivelato pienamente soltanto con il dono della vita eterna, della vita in comunione con lui (17,2-3), e questa rivelazione si completerà con l'accoglimento nella comunione celeste e nella visione diretta di Dio (17,24).

Tutto quello che Gesù compie ha origine dal Padre e vuole ricondurre a lui. Il Padre ha dato a Gesù ogni potere e competenza per l'umanità nel suo insieme. Gesù considera anche i discepoli che hanno seguìto il suo appello, e poi tutti gli uomini che credono in lui, come un dono del Padre (17,2. Cfr 17,6.9.24). È il Padre che ha disposto quello che egli deve dare agli uomini a partire dal suo pieno potere sul loro mondo: la vita eterna (17,2. Cfr 3,15-16; 6,40; 10,10; 12,50). La vita eterna non è un'esistenza illimitata e uniformemente vuota, a cui è difficile dare un contenuto. Essa "consiste" nel conoscere l'unico vero Dio e colui che egli ha inviato, Gesù Cristo: pertanto essa non viene semplicemente "riempita" da tale contenuto. Conoscenza vuol dire pienezza di scambio, comunione viva, cordiale, familiare. Questo è il compito di Gesù: rendere possibile agli uomini la piena comunione con Dio Padre. Solo in quanto innalzato e glorificato, egli potrà portare a termine questo compito (cfr 7,39; 16,25). La sua preghiera per essere glorificato è anche preghiera per poter portare a termine la propria opera nei confronti dei discepoli e di tutti i credenti.

Prima di esprimere la sua preghiera per i discepoli, Gesù definisce coloro per i quali prega. Tutto quello che egli ricorda è motivo che deve muovere parimenti il Padre a esaudire le sue preghiere (cfr 16,27). Gesù sintetizza in poche parole quello che ha operato nei confronti dei discepoli: Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo (17,6). Il nome di Dio contiene ed esprime quello che caratterizza Dio in tutta la sua profondità. Gesù ha fatto conoscere ai discepoli Dio come il Padre, che è unito al Figlio, sul piano divino, da affettuosa comunione e che per il suo infinito amore per l'umanità ha inviato questo Figlio, volendo donare agli uomini, per mezzo del Figlio, la vita eterna. Secondo quanto dice Gesù con varie formule, ciò che contraddistingue i discepoli e li raccomanda al Padre è il fatto di aver accolto con fede questa rivelazione come vera parola di Dio e di aver accolto Gesù come l'inviato del Padre (17,6-8). Gesù ricorda al Padre anche il fatto di aver ricevuto da lui questi discepoli e che essi gli sono stati affidati sin dall'inizio in proprietà e cura (17,6.9-10). Considera il Padre responsabile, per così dire, di questa sua proprietà e mostra ai discepoli quanto il Padre sia legato ad essi. Infine Gesù accenna all'ora presente. Dovendo lasciare il mondo, non potrà avere più cura di loro come ha fatto finora. Perciò essi, che rimangono nel mondo, sono affidati an-cor più alla cura del Padre.

Le richieste di Gesù al Padre hanno un solo contenuto: che il Padre faccia in modo che i discepoli rimangano incrollabilmente uniti a lui. Gesù si rivolge al Padre come al "Padre santo", al Dio santo, incomparabile, superiore a tutte le creature, onnipotente, quale il Padre è. La sua prima richiesta è: Custodiscili nel tuo nome! (17,11-16). I discepoli hanno conosciuto il nome di Dio per mezzo di Gesù (cfr 17,6) e si sono legati al Padre per mezzo della fede, così come Dio si è fatto conoscere loro per mezzo di Gesù. Per questo il Padre santo deve proteggerli, affinché siano uniti a lui nello stesso modo in cui il Padre e il Figlio sono uniti tra loro. Finora è stato Gesù a mantenerli in tale unione e la sua opera è riuscita, tranne che con Giuda, il quale ha rinunciato all'unione con lui. Con la sua preghiera Gesù vuole assicurare ai discepoli la pienezza della propria gioia: gioia che deriva dalla sua unione con il Padre. Perciò la partecipazione dei discepoli alla gioia di Gesù presuppone la loro unione con il Padre. Ma questa unione è minacciata dal mondo ostile a Dio, nel quale essi rimangono. I discepoli saranno odiati per aver accolto il messaggio di Gesù concernente il Padre e per essergli rimasti fedeli. Perciò Gesù aggiunge alla sua prima richiesta: Custodiscili dal maligno! (17,15). Il maligno è il principe di questo mondo (12,31; 14,30; 16,11), che agisce per mezzo dell'odio del mondo e ha come unico fine quello di separare Dio e gli uomini. Voglia il Padre fortificare i discepoli, perché non soccombano all'influsso del maligno (cfr Mt 6,13).

La seconda richiesta è: Santificali nella verità! (17,17). La verità è venuta nel mondo con Gesù. Egli ci ha rivelato Dio, che finora era nascosto, come Padre (cfr 1,17-18). "Santificare" significa affidare e dare in proprietà a Dio, che è il Santo. Per quanto concerne la missione dei discepoli (17,18), Gesù chiede al Padre di legarli saldamente a sé, affinché, rimanendo ancorati in lui, essi possano portare a termine il loro compito. Gesù ricorda poi quanto egli stesso fa, proprio con la sua dipartita, perché essi appartengano totalmente a Dio. Nel donare la propria vita egli si affida completamente al Padre e porta a termine il compito che si è assunto come "Agnello di Dio che toglie i loro peccati" (1,29). Così li sottrae alla sfera del peccato e del mondo, li rende "santificati", realizza la loro piena unione con il Padre, che è il Dio santo.

Gesù non abbandona i suoi discepoli. Alla fine prega per loro e li raccomanda al Padre. Questo Padre è il Dio santo, che è al di sopra di tutte le potenze, benevolo nel suo immenso amore verso chi gli viene affidato. Nonostante tutti gli insegnamenti ricevuti da Gesù, i discepoli potrebbero rimanere preoccupati per se stessi e insicuri. Per loro dev'essere fonte inesauribile di fiducia il fatto che Gesù abbia pregato per loro e che siano al sicuro nelle mani del Padre.

Domande

1. Come viene glorificato il Padre, e come il Figlio? Che cosa significa "nome", e che cosa significa "verità"?

2. Quale desiderio profondo è presente nella preghiera di Gesù? Questo desiderio come completa le istruzioni da lui date?

3. Che significato ha per me la preghiera di Gesù e il fatto di essere santificato tramite lui?

 

PREGHIERA PER QUELLI CHE SONO MANDATI

(17,20-26)

Nell'ora del congedo Gesù non si preoccupa del proprio destino; tutti i suoi pensieri sono rivolti ai discepoli e alla loro salvezza. Gesù non considera nulla più importante ed efficace che raccomandare i discepoli nella preghiera al Padre, al suo amore e alla sua potenza. Egli lascia i suoi discepoli dietro di sé nel mondo. Sa che essi sono minacciati dal mondo e ha affidato loro una missione nel mondo: da ciò la sua preghiera al Padre. Egli chiede al Padre di proteggerli nel suo nome e di custodirli dalla potenza del maligno, affinché non vadano in perdizione (17,11-16). Lo prega di santificarli nella verità e di unirli perfettamente a sé, perché compiano la loro missione portando il mondo alla fede (17,17-23). Il mondo è per loro minaccia e missione. Il pericolo è che essi siano estramati dal Padre e strappati all'unione con lui. La missione è che essi rendano testimonianza e conquistino l'umanità all'unione con il Padre. L'ultima preghiera di Gesù va oltre la vita terrena. Egli chiede per i discepoli la partecipazione alla propria pienezza celeste (17,24). Infine assicura che il suo congedo non significa inattività: egli continuerà a far conoscere il nome del Padre (17,25-26).

I discepoli che Gesù invia nel mondo non devono avere nulla in comune con il mondo, nella misura in cui esso è peccatore e nemico di Dio. Solo così essi potranno portare a termine il loro compito di condurre alla comunione con Dio. Per questo Gesù prega il Padre che li santifichi, li tenga uniti a sé, li accolga pienamente nella sfera del suo amore paterno. Per questo egli dice che cosa fa per la loro santificazione. La principale premessa per il loro compito è che appartengano pienamente a Dio e siano saldamente ancorati in lui (17,17-19).

Due volte Gesù dichiara espressamente, per mezzo di una proposizione finale, che cosa vuole ottenere tramite i discepoli: che il mondo creda e riconosca che è il Padre ad averlo mandato (17,21.23). Sul piano visibile e terreno, la premessa essenziale e l'impulso decisivo per giungere a questo è l'unità dei discepoli. Gesù richiede espressamente al Padre l'unione dei discepoli e l'unione di tutti quelli che - nel corso delle generazioni - giungeranno a credere in lui. Ora che il suo sguardo è volto alla missione dei discepoli, Gesù racchiude nella sua preghiera il frutto di tale missione: tutti i futuri credenti. Essi apparterranno tutti alla comunità fondata sulla testimonianza degli apostoli.

Gesù chiede con fervore al Padre che i suoi discepoli siano perfetti nell'unità. La loro comunità deve diventare una perfetta unità. Non soltanto non ci dev'essere la contrapposizione ostile di uno all'altro, ma devono essere escluse anche liti e rifiuto dell'altro. Non basta neppure essere l'uno accanto all'altro in atteggiamento neutrale, lasciandosi reciprocamente in pace ma andando ciascuno per la propria strada. Perfetta unità significa perfetto stare insieme, essere reciprocamente uniti nell'amore e nella fiducia, agire concordemente. Questa unità trova il suo modello e la sua misura nell'unità di Padre e Figlio. Padre e Figlio sono legati da amore affettuoso, scambio perfetto, agire concorde; hanno tutto in comune.

L'unità di Padre e Figlio non è però soltanto modello, ma anche fondamento dell'unità tra i discepoli di Gesù. Essi possono essere una cosa sola, se sono uniti il più strettamente possibile al Padre e al Figlio (17,21), se Gesù, nel quale è il Padre, è a sua volta in loro (17,23). Se credono in Gesù come Figlio di Dio, che è unito al Padre dall'amore più affettuoso, e se si affidano pienamente a lui, in unione piena con lui, Gesù sarà in loro ed essi saranno accolti nell'unità nella quale Gesù vive con il Padre. La loro reciproca unione non si basa su una convenzione e un'intesa tra esseri umani, bensì sul loro essere uniti a Gesù. Quanto più credono in lui e, per suo tramite, hanno parte alla comunione di Padre e Figlio ottenendone l'amore, tanto più essi sono uniti tra loro.

Ora Gesù prega il Padre per questa unione tra i discepoli. Egli stesso ne ha posto le basi durante la sua vita pubblica. Ha rivelato loro la sua gloria, la sua strettissima e profondissima unione con il Padre, aprendo così ad essi l'accesso a tale comunione e, per mezzo di essa, alla vita eterna (17,22). L'unione tra i discepoli, il genere di rapporti e di vita tra loro e quello che sulla terra ne risulta visibile devono costituire un grande segno nella loro missione (cfr 13,35); devono suscitare negli uomini la domanda: Da dove viene loro tutto questo? Devono preparare alla testimonianza dei discepoli e darle forza. Dall'unione visibile tra i discepoli gli uomini devono risalire al loro fondamento invisibile, al rapporto di Dio con Gesù e all'amore illimitato del Padre.

L'ultima preghiera è formulata come espressione della volontà di Gesù: Padre, voglio... (17,24). Gesù esprime il proprio ultimo desiderio con crescente e più forte intensità; la sua volontà è unita a quella del Padre. Qui sulla terra la gloria di Gesù, il suo rapporto filiale con il Padre e la sua vita in perfetta unione con il Padre sono accessibili per fede. L'ultima preghiera di Gesù e il suo più grande desiderio è che tutti quelli che credono in lui possano vedere la sua gloria, siano con lui nel compimento nei cieli e partecipino alla sua perfetta comunione con il Padre. Dopo questa preghiera, Gesù parla ancora una volta di quello che ha fatto e farà (17,26. Cfr 17,22). Tramite lo Spirito, darà continuazione a ciò di cui ha posto le basi nella sua opera sulla terra: farà conoscere ancora il Padre e il suo amore.

Domande

1. Come si dimostra l'unione tra i discepoli di Gesù? Quale ne è il fondamento?

2. Quali sono le premesse e qual è il fine della missione dei discepoli di Gesù?

3. In che senso la preghiera di Gesù per i discepoli è anche preghiera per quanti ancora non credono?

 

GESÙ, IL RE

(18,33-38)

Gesù è davanti a Pilato, davanti all'uomo che in Giudea ha il massimo potere, ha diritto di vita e di morte. Non in un colloquio poco impegnativo, bensì in un processo in cui si tratta di vita o di morte, viene dichiarato pubblicamente quello che Gesù ha fatto. Egli si assume la responsabilità della sua missione e dichiara di che genere è il suo regno.

L'interrogatorio inizia con la domanda di Pilato: Sei tu il re dei Giudei? (18,33). Nella sua controdomanda, Gesù lo interroga a sua volta sul suo atteggiamento: Pilato deve rendersi conto se parla per conoscenza propria o se ripete quello che sostengono altri - e qui si tratta di un'accusa assai grave. L'imputato fa appello alla coscienza del giudice e gli ricorda il dovere di verificare con esattezza e responsabilmente le circostanze di fatto. Pilato si lascia rivolgere direttamente la parola. Dapprima prende le distanze dal fatto di avere qualcosa a che vedere con la faccenda e assicura che tutto ha origine dai giudei. Con la domanda: Che cosa hai fatto? (18,35) dimostra di avere coscienza del proprio dovere, di non volersi rendere responsabile di valutazioni altrui o di giudizi sommari, ma di voler stabilire l'effettivo operato dell'accusato, prima di emettere la sentenza.

Nella risposta Gesù non enumera singoli fatti, ma si riferisce al carattere complessivo della sua opera, dicendo innanzitutto che cosa manca a tale opera. Tre volte afferma espressamente: Il mio regno non è di questo mondo (18,36). Gesù intende dire che il suo regno non è del tipo mondano-terreno, non è connesso con pretese territoriali o di signoria, né con l'uso di strumenti di potere. Come prova di tale affermazione, adduce il fatto, verificabile, che i suoi seguaci non si sono impegnati in suo favore nei modi terreni del potere politico, non hanno opposto violenza a violenza, non hanno combattuto per lui.

Pilato si lascia convincere da questa dimostrazione. Non chiede più: Dunque, tu sei il re dei giudei?, ma: Dunque, tu sei re? Riconosce che Gesù non è un re nel senso dell'accusa. Ma dalle parole di Gesù deduce anche che egli avanza la pretesa di essere re: perciò vorrebbe sapere che tipo di regno sia il suo.

Gesù conferma la pretesa che ha avanzato e ora spiega in senso positivo la natura del suo regno, invitando ad accogliere la sua pretesa. Egli è veramente re. Gesù definisce così la propria posizione e il proprio compito regale: Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità (18,37). Il significato complessivo della sua nascita e della sua venuta sta nel rendere testimonianza alla verità: solo per questo egli è nel mondo e solo in questo consiste la sua opera di re.

Non tutti possono rendere testimonianza. Può parlare come testimone soltanto colui che ha effettiva conoscenza del fatto per avervi avuto accesso direttamente, soltanto colui che ha avuto esperienza del fatto stesso con i propri sensi e le proprie facoltà. Gesù afferma di conoscere in questo modo la verità e di renderne testimonianza assolutamente attendibile. Egli non si riferisce qui alla verità su un qualche fatto determinato, bensì alla verità su Dio. Egli ha accesso direttamente a Dio, lo conosce in intimissima comunione. È stato mandato da lui ed è venuto nel mondo da parte di Dio. Fa conoscere Dio come finora non era stato fatto conoscere da nessuno. Ne dà testimonianza come del Dio il quale è in se stesso comunione, vive nella perfetta unità di Padre e Figlio.

Secondo la Scrittura, il re è il pastore del suo popolo. Il compito del re è quello di rendere possibile la vita del suo popolo, di preoccuparsi che le condizioni di vita del suo popolo siano le migliori possibili. L'opera regale di Gesù consiste nella sua testimonianza in favore della verità. Così egli descrive il proprio compito in quanto buon pastore: Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (10,10). Con la sua testimonianza su Dio Gesù rende accessibile la pienezza della vita, al di là di ogni umana possibilità. Ci mostra il Dio che ama illimitatamente noi uomini e che vuole accoglierci nella comunione in cui egli vive con il Figlio. Gesù vorrebbe conquistarci alla vita con il Padre nella quale egli stesso vive, a quella sicurezza e a quell'appoggio, a quella gioia e a quella certezza, a quel futuro perenne e non minacciato da nulla, che vengono soltanto dall'unione vitale con Dio. Dischiudendoci tale vita, egli si rivela re e pastore in maniera incomparabile. Non si preoccupa direttamente della vita terrena, ma le dà una nuova dimensione e un avvenire inimmaginato, ne forza la finitezza e la subordinazione alla morte, rendendo accessibile la vita eterna con la propria testimonianza su questo Dio e sull'eterna comunione con lui.

Per poter accogliere la testimonianza di Gesù e la sua azione regale, occorre essere aperti a Dio. Pilato non può aver capito il pieno significato della risposta di Gesù. Non ha nessun interesse a venire a sapere qualcosa di preciso su di lui. Con la domanda: Che cos'è la verità? - sia che essa esprima un dubbio (chi può conoscerla?), sia uno scherno (che importanza ha?) -, egli interrompe il colloquio. Gli basta aver messo in chiaro i rapporti di forza terreni. Esercitando il suo compito di giudice, Pilato ha accettato che Gesù gli parlasse del suo dovere. Ma si chiude alla testimonianza di Gesù riguardo a Dio.

Domande

1. Come va intesa la regalità di Gesù?

2. Quali sono i passi decisivi del dialogo tra Gesù e Pilato? Che cosa ne impedisce l'ulteriore sviluppo?

3. Che cosa mi aspetto da Gesù re?

 

IL DISCEPOLO E LA MADRE DI GESÙ

(19,25-27)

I soldati di Pilato hanno portato a termine il loro lavoro. Hanno crocifisso Gesù (19,18.23) e si sono divisi le sue vesti (19,23-24); Gesù non ha più bisogno di vesti. I soldati ora aspettano che egli muoia. Le ultime ore di Gesù prima della sua cattura erano state piene di preoccupazione per i discepoli. Nei discorsi di congedo e nella preghiera al Padre egli li ha preparati per il tempo in cui non lo avranno più visibile in mezzo a loro. Gli ultimi istanti della sua vita sono riempiti dal suo rivolgersi alle due persone che gli sono più vicine. Si tratta delle due persone che stanno ai piedi della sua croce e che gli stanno a cuore: la madre e il discepolo prediletto.

Nel Vangelo di Giovanni, essi non sono mai chiamati con il loro nome, bensì indicati sempre in riferimento al loro rapporto con Gesù. Non il loro nome, ma il loro legame con Gesù è ciò che veramente li definisce. Per Maria il rapporto è da madre a figlio. Si tratta del legame fondamentale e radicale che è dato dalla natura e che dev'essere recuperato personalmente. Per il discepolo questo rapporto è nato dalla chiamata di Gesù, si è sviluppato nella continua comunione di vita con lui ed è stato reso più profondo da una particolare familiarità con Gesù (13,23; 20,2; 21,7.20). Si tratta delle due persone che, in maniera diversa, sono legate più strettamente a Gesù. Il loro legame con lui è l'origine e il fondamento del loro rapporto reciproco, al quale vengono avviate da Gesù Crocifisso.

Il rapporto che egli fonda tra loro è un rapporto madre-figlio e figlio-madre. Quale sia precisamente il contenuto di questi rapporti, non è facile stabilirlo. Per capirlo meglio, occorre fare attenzione a un aspetto fondamentale del Vangelo di Giovanni. Per meglio rivelare il significato di Gesù e della sua opera, l'evangelista introduce gli elementi originari del mondo creato e della vita umana: luce, acqua, vita, pane, pastore, padre, figlio, madre, bambino, fame, sete ecc. Questi elementi non sono mai definiti. L'evangelista ci rimanda alla nostra esperienza, per capire che cosa Gesù voglia dire con questi elementi. Così viene lasciato un certo margine di libertà alla nostra comprensione; ma c'è anche il pericolo di fare un uso indebito di questa libertà. Nel presente contesto, però, "madre" significa "madre" e "figlio" significa "figlio"; i due vengono legati in un rapporto personale e affettivo, e non in un rapporto materiale e funzionale. Il discepolo si assume il compito che Gesù gli affida, facendosi carico della madre di Gesù (letteralmente: "l'accoglie tra le cose che gli sono proprie", cioè nella sua intimità, nella sua vita di fede). Questo potrebbe anche significare che il discepolo si assume l'incarico del sostentamento della madre di Gesù, ma significa innanzitutto che egli l'accoglie nella sfera propria e personale degli affetti che riempiono il proprio cuore.

La madre e il discepolo sono legati a Gesù. L'opera che egli compie dalla croce è quella di legarli tra loro. Essi non devono essere legati soltanto a lui, ma devono aver parte anche alle sue più importanti relazioni personali: per mezzo di lui e in lui devono essere legati anche a quanti sono legati a lui. La madre deve riconoscere anche il discepolo di Gesù come proprio figlio e donargli il suo amore materno. Il discepolo deve riconoscere e onorare la madre di Gesù come propria madre; il suo rapporto con Gesù deve includere anche la madre di Gesù. Gesù accoglie quanti gli appartengono nella totalità della sua vita, nei più stretti rapporti in cui egli vive.

Dopo che la madre e il discepolo prediletto sono stati legati tra loro, l'evangelista afferma; Gesù sapeva che ogni cosa era stata ormai compiuta (19,28). Questa è l'ultima azione che Gesù compie per incarico del Padre e con essa egli porta a termine la propria opera terrena. Il fatto che madre e discepolo siano legati tra loro corrisponde alla volontà del Padre. Egli vuole che quanti sono legati a Gesù siano legati anche tra loro. Ma con questo legame viene portato a compimento anche il proposito che ha dominato l'ultimo giorno di Gesù: Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (13,1). La madre e il discepolo appartengono in maniera particolare ai "suoi"; l'amore per loro si attua in quanto egli dà la propria vita per loro (cfr 15,13). Questo amore di Gesù determina anche completamente il fatto di legarli l'uno all'altro come madre e figlio.

Al centro del Vangelo c'è il rapporto di Gesù con Dio, suo Padre. Contenuto essenziale del messaggio di Gesù è che quanti credono in lui abbiano parte alla sua vita con Dio. Nella sua ultima azione terrena, Gesù lega il discepolo prediletto e la propria madre. Così il discepolo di Gesù è legato a lui in tutte le sue dimensioni, cioè è legato a lui in quanto Figlio di Dio e in quanto figlio di Maria, nella pienezza della sua realtà divina e umana.

Domande

1. Dalla croce Gesù lega sua madre e il discepolo prediletto. Questo che significato ha per il loro rapporto con Gesù e per il momento in cui avviene?

2. Nel Vangelo di Giovanni la madre di Gesù viene nominata soltanto nelle nozze di Cana (2,1-11) e ai piedi della croce. In che rapporto la vediamo con Gesù e con i discepoli?

3. Qual è il mio rapporto con la madre di Gesù?

 

SEGNI DEL COMPIMENTO

(19,31-37)

Gesù non soltanto deve morire, ma deve morire al momento giusto. Per causa sua non devono esserci fastidi per il riposo del sabato e il paese non deve diventare impuro a causa del suo cadavere che pende dalla croce (cfr Dt 21,22-23). I nemici di Gesù, che hanno ottenuto la sua crocifissione, vogliono riuscire anche a farlo calare dalla croce al momento giusto e a farlo sparire sottoterra. Ma con i loro sforzi ottengono che si adempia la Scrittura, che si compia il progetto salvifico di Dio. Una volta morto Gesù, risulta ancor più evidente che egli è nelle mani di Dio e che egli è fonte di salvezza per tutti gli uomini.

Spezzando le gambe dei crocifissi, si otteneva che la morte fosse più rapida. Gesù ha prevenuto questa morte ulteriormente violenta. È lui a morire la propria morte, non se la fa imporre. Non appena ha compiuto quanto il Padre gli ha affidato, egli rende lo spirito e ritorna al Padre (19,30). Dona la sua vita per libera volontà (10,18), come espressione del suo amore per gli uomini e della sua dedizione al Padre.

I soldati incaricati di provocare in modo violento la sua morte, ora vedono soltanto la necessità di convincersi che essa è avvenuta. Non gli spezzano le ossa delle gambe, ma uno lo colpisce con la lancia al costato, dal quale fluiscono sangue e acqua. Questo costato trafitto dalla lancia, dal quale escono sangue e acqua, diventa un vero e proprio segno di riconoscimento del Signore risorto: un segno a cui egli stesso rimanderà (20,20.27).

Dopo aver riferito gli avvenimenti riguardanti il Crocifisso, l'evangelista prende posizione in due modi: sia l'avvenimento che non ha luogo per Gesù, sia quello che ha luogo per lui sono espressamente testimoniati e spiegati con due passi della Scrittura, che trovano compimento in essi. Il discepolo che stava ai piedi della croce di Gesù e che Gesù ha legato a sua madre (19,26-27) è il testimone. Egli ha visto con i propri occhi che sono state spezzate le gambe ai due altri crocifissi, ma non a Gesù, e che dal costato trafitto di Gesù sono usciti sangue e acqua. Egli testimonia con forza che questi avvenimenti si sono effettivamente verificati e che devono essere riconosciuti come veri e capiti per fede nel loro autentico significato. A partire da questi avvenimenti i credenti capiscono sia che Dio è accanto al Crocifisso, sia quello che il Crocifisso ha compiuto per gli uomini.

I due passi della Scrittura svelano il significato dei due avvenimenti. Stabiliscono fondamentalmente che questi eventi corrispondono alla parola della Scrittura e sono inclusi nel piano divino di salvezza. Ma essi hanno un significato speciale anche in se stessi. Che a Gesù non vengano spezzate le ossa delle gambe dimostra che egli è sotto la protezione di Dio sino alla fine. Il Padre non ha abbandonato e respinto il Figlio, bensì tiene la propria mano protettrice sul suo capo. Potrebbe sembrare che Gesù sia stato lasciato in balìa dell'odio e della violenza distruttrice dei suoi nemici, ma durante l'intero suo cammino egli è sotto la mano di Dio. Suggello di questa protezione è il fatto che egli è preservato dall'estremo oltraggio delle ossa delle gambe spezzate. Ciò che accade conferma anche le parole di Gesù: Io non sono solo, perché il Padre è con me (16,32). Nel Sal 34,20-21 si dice: Molte sono le sventure del giusto, ma da tutte lo libera il Signore. Preserva tutte le sue ossa, neppure uno sarà spezzato.

Chi vede con fede che Gesù, anche crocifisso e morto, è sotto la guida e la protezione del Padre, guarderà a lui come alla fonte della salvezza. Nell'ultimo e più solenne giorno della festa dei tabernacoli, Gesù aveva gridato sulla piazza del tempio, con voce forte: Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me. Come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno (7,37-38. Cfr pp. 78-80). Quest'acqua viene interpretata dall'evangelista come lo Spirito che Gesù, innalzato sulla croce e glorificato, darà a tutti i credenti (7,39). Senza rinascere dall'acqua e dallo Spirito, senza il dono dell'eterna vita divina, nessuno può entrare nel regno di Dio (3,5). Chi non mangia la carne del Figlio dell'uomo e non beve il suo sangue, non può avere in sé la vita (6,53). Tutto quanto ci è necessario per la vera vita, per la vita eterna, l'otteniamo dal Signore crocifisso. La sua morte ci dimostra il suo insuperabile amore per noi uomini (15,13) e l'incommensurabile amore del Padre (3,16). La sua morte ci dischiude l'accesso a questa comunione di amore. Se guardiamo al Crocifisso come al nostro salvatore, otteniamo per suo tramite la vita eterna (cfr3.14-15; 12,32).

Gesù che pende dalla croce morto, con la sua grande ferita al costato, non è simbolo della sconfitta, del naufragio e della morte. In lui dobbiamo riconoscere con fede il Figlio che ha condotto a termine in obbedienza il compito affidatogli dal Padre, il Figlio che è rimasto sino alla fine sotto la guida del Padre e che ci ha dato accesso alla vita eterna.

Domande

1. Qual è il fine e quale il risultato dell'ultima richiesta dei nemici di Gesù?

2. Che cosa dimostra il fatto che a Gesù non vengono spezzate le gambe, ma gli viene trapassato il costato?

3. So riconoscere il Crocifisso come mio salvatore? Riesco a credere che in tutto quanto mi accade non sono solo, ma ho vicino Dio, che mi guida e mi salva?

 

TRA TENEBRE E LUCE

(20,1-10)

La risurrezione di Gesù porta un profondo e repentino cambiamento nel destino di Gesù e nel rapporto dei suoi discepoli con lui. L'origine e il fine di tale cambiamento vengono così descritti: Non avevano ancora compreso la Scrittura, secondo la quale egli doveva risuscitare dai morti (20,9). Termine ultimo della vita terrena di Gesù è la morte in croce e la tomba. Egli vi giace avvolto in bende come un morto (19,40), immobile e rigido. Ma questo giacere, che è l'esperienza ultima e definitiva dell'essere umano, per Gesù non è affatto definitivo: è uno stato transitorio, che diventa punto di partenza per il termine ultimo del suo cammino, che è la risurrezione dai morti. Gesù non rimane nella tomba e nella morte. Vince la rigidità della morte, si leva ed entra nella vita eterna con Dio. Secondo la convinzione del cristianesimo primitivo, questo non avviene inaspettatamente, ma è iscritto nei disegni di Dio ed è annunciato nella parola di Dio (cfr 1 Cor 15,4; Lc 24,25-27.44-46). Tuttavia sarà soltanto dopo l'incontro con il Risorto che i discepoli potranno capire la Scrittura (2,22) e interpretare quanto essa dice su di lui (cfr At 2,24-31; 13,32-37).

I discepoli sanno che Gesù è morto ed è stato sepolto. Il sepolcro e il corpo costituiscono l'ultima traccia terrena di Gesù. Tutto quanto l'evangelista ci riferisce qui, si svolge a partire da questo sepolcro e riguarda il cadavere di Gesù. Per i discepoli l'ultima tappa di Gesù è la tomba; essi non sono orientati verso la sua risurrezione. Non hanno capito gli annunci che egli ne aveva dato, né quanto viene detto nella Scrittura. L'evangelista ci fa vedere i primi passi attraverso i quali i discepoli vengono condotti dalla coscienza che Gesù è morto alla conoscenza che è risuscitato. Questa via passa da una sorpresa all'altra, e non tutti i discepoli giungono alla mèta nello stesso momento.

Maria di Magdala, che si reca di buon mattino al sepolcro di Gesù, si rende conto che la pietra è stata rimossa e che la tomba è aperta. Sulla base di questa osservazione, ella si dà una spiegazione: crede che il corpo di Gesù sia stato tolto dal sepolcro e portato via. Questa è la spiegazione più plausibile, secondo i criteri umani, per una tomba aperta e vuota. Una salma è completamente passiva: allo stesso modo in cui è stata deposta nella tomba, può anche venirne tolta. Così anche le autorità giudaiche spiegano la tomba vuota, accusando i discepoli di aver sottratto di notte il corpo di Gesù (Mt 28,11-15).

Con la grande preoccupazione di sapere chi abbia portato via il corpo di Gesù e dove lo si possa trovare, Maria di Magdala si reca da Pietro e dal discepolo che Gesù amava. Nella preoccupazione per il corpo di Gesù si manifesta il suo amore per lui. Ma mentre ella si preoccupa ancora del corpo di Gesù, Gesù è già risorto da tempo. Partendo dal suo sepolcro, i discepoli devono ancora raggiungerlo sulla strada per la quale egli è già passato. I due discepoli che si recano al sepolcro sono stati particolarmente legati a lui durante la sua vita terrena: Simon Pietro ha ricevuto da lui un nuovo nome (1,42) e si è sempre segnalato nella cerchia dei discepoli (6,68-69; 13,6-10.36-38); l'altro discepolo è particolarmente vicino a Gesù (13,23-24; 18,15-16; 21,20-23).

La notizia portata da Maria di Magdala spaventa i discepoli. Pietro e Giovanni vogliono rendersi conto di persona e corrono al sepolcro. La diversa velocità con cui essi corrono indica non tanto il loro diverso zelo, quanto la loro diversa capacità. Le azioni successive dei due discepoli s'intrecciano tra loro e superano sempre di più l'osservazione di Maria di Magdala e la sua spiegazione. Il discepolo prediletto giunge per primo al sepolcro. Lo guarda non solo dall'esterno, ma si china in avanti e vede le bende di lino. Pietro entra nella tomba, vede le bende e il sudario ripiegato in un angolo a parte. Quello che Pietro constata va contro la spiegazione data da Maria di Magdala: non si può pensare che una persona che porta via un cadavere dalla tomba lo liberi prima dai panni che lo coprono e, per di più, ripieghi anche questi panni. Liberarsi dei panni funebri è il contrario dell'avvilupparvi il cadavere (cfr 19,40). La preparazione della sepoltura viene così mandata all'aria, come era avvenuto per Lazzaro (cfr 11,44). La tomba vuota e le bende vuote non sono una prova, ma sono un segno che Gesù ha lasciato la tomba e ha vinto la morte.

Pietro constata con precisione la situazione nel sepolcro, ma non capisce ancora il segno. L'altro discepolo entra dopo di lui nella tomba, vede la stessa cosa e compie il passo ulteriore: vede e crede. Ma solo l'apparizione del Risorto, la quale rende inequivocabile il segno della tomba vuota, condurrà tutti i discepoli a credere.

Quello che viene narrato qui si verifica di buon mattino, quand'era ancora buio (20,1). Per le loro caratteristiche, l'ora del giorno e gli avvenimenti si corrispondono. Di buon mattino molte cose preannunciano un grande, radicale cambiamento: la notte si allontana, l'orizzonte si rischiara, le cose prendono forma. Chi non ha mai visto il sole, non può sapere che cosa sia imminente. La levata del sole sorprende, abbaglia e rende chiari tutti i preannunci. I discepoli si trovano ancora in questo stato intermedio dei segni premonitori e delle attese. Nell'incontro con il Signore risorto si leverà per loro il sole, tutto si farà chiaro. Notte e tenebra, morte e dolore, miseria e debolezza sono irradiate e vinte dalla luce del Signore risorto, dalla gloria della sua vita immortale.

Domande

1. Quale percorso devono compiere i discepoli dalla cognizione della morte alla fede nella risurrezione?

2. Che significato ha la tomba vuota?

3. Quanto mi sono inoltrato nella mia via verso il Signore risorto?

 

PADRE MIO E PADRE VOSTRO

(20,11-18)

Maria di Magdala ha scoperto per prima la tomba vuota. Ha portato ai discepoli la notizia, aggiungendo la propria spiegazione: Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto (20,2). Ella ha anche il privilegio d'incontrare per prima il Signore risorto. Per suo incarico si reca dai discepoli e annuncia loro: Ho visto il Signore, riferendo quanto egli le ha detto (20,18).

Le due notizie di cui Maria di Magdala è portatrice sono fondamentalmente diverse. La prima è del tutto negativa, determinata dall'assenza del corpo di Gesù e dal non sapere dove si trovi. La seconda è completamente positiva, colma dell'incontro con il Signore vivente e del suo straordinario messaggio per i discepoli. All'inizio sta l'opinione circa il cadavere di Gesù, portato via in un luogo sconosciuto; alla fine la cognizione che il Signore è risorto ed è sulla strada verso il Padre, per i suoi fratelli. Dall'oscurità dell'alba si è levata la luce splendente della Pasqua.

La tomba di Gesù ha custodito il suo cadavere, l'ultima cosa terrena, tangibile rimasta di lui. I due discepoli sono tornati a casa, dopo aver accertato che la tomba è vuota, come lo sono le bende mortuarie. Maria di Magdala rimane nei pressi del sepolcro: si aggrappa a quello che in qualche modo trasmette ancora una vicinanza di Gesù. Potrebbe sembrare una cosa senza senso, ma questo comportamento porta a un risultato. Nella mente di questa donna c'è la certezza che qualcuno ha tolto dalla tomba il corpo di Gesù, portandolo via. Ella non piange solo la morte di Gesù, ma anche la sparizione del suo corpo, che vuole ritrovare ad ogni costo. Anche agli angeli e al presunto giardiniere, che la interrogano circa il motivo del suo pianto (20,13.15), Maria ripete quanto ha già detto ai discepoli (20,2). Il motivo del suo pianto diventa però motivo di gioia quando ella viene a sapere che il corpo di Gesù è sparito perché Gesù è risuscitato.

Gesù le è già davanti, ma Maria non lo riconosce. Non ha ancora gli occhi adatti per lui, come non li avranno i discepoli sulla strada di Emmaus (Lc 24,16) e sul lago di Tiberiade (Gv 21,4). Proprio a lui Maria chiede se ha portato via il corpo di Gesù. Egli effettivamente l'ha fatto, ma in un modo che ella non suppone. Maria lo riconosce quando Gesù si rivolge a lei chiamandola per nome. Le pecore riconoscono il buon pastore alla voce, quando egli le chiama una per una con il loro nome (10,3), e lo seguono. Proprio la voce è espressione portatrice di familiarità personale e di rapporto. Maria si rivolge a Gesù. Gli parla piena di rispetto e di fiducia, apostrofandolo con un appellativo (Rabbum) che praticamente soltanto i discepoli hanno usato per lui (cfr 1,38.49; 4,31; 9,2; 11,8). Essi si chiamano reciprocamente nel modo in cui facevano prima della morte di Gesù. Il rapporto tra il Risorto e i suoi intimi non cambia, per quanto concerne il rapporto di affetto da persona a persona.

Ma Gesù mostra che il loro rapporto è cambiato per quanto concerne la forma esterna. Maria è caduta ai suoi piedi abbracciandoli (cfr Mt 28,9), ma egli le dice: Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre. E poi le dà il compito: Va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (20,17). Quello che Gesù dice non è del tutto facile da capire. Egli sembra porre un passaggio intermedio tra la sua risurrezione e l'entrata nell'eterna comunione con il Padre. Per lui propriamente la vittoria sulla morte e la piena comunione col Padre coincidono; per i suoi discepoli, invece, la rivelazione avviene per gradi. A Maria di Magdala Gesù fa capire che non sta continuando a vivere la sua esistenza terrena e che non lo avranno più tra loro visibile in forma terrena, come è avvenuto finora. Come ha già annunciato più volte, egli torna al Padre, dove ha per sempre il suo posto. Con queste parole Gesù non vuole darci un quadro cronologico, bensì riferirsi all'ultima, decisiva tappa del suo cammino, per la quale egli è sottratto alla vita destinata alla morte e raggiunge la pienezza della beatitudine.

Nel messaggio per i discepoli egli fa ascoltare che cosa significa per loro la sua piena comunione col Padre. Li nomina qui per la prima e unica volta "suoi fratelli" e definisce per la prima e unica volta Dio come "loro Padre". Il Vangelo di Giovanni parla molto spesso di Dio come Padre (122 volte), ma quasi sempre egli viene indicato come Padre soltanto di Gesù (119 volte). Così si afferma che questo rapporto Padre-Figlio è di una qualità unica e singolare. Soltanto Gesù è Figlio di Dio per divina parità. Egli si è opposto alla pretesa dei giudei di avere Dio come Padre (8,41-42). Soltanto dopo la sua risurrezione fa sapere ai discepoli che Dio è anche loro Padre e che tramite questo Padre essi sono uniti a lui come fratelli. Ma anche qui Gesù esprime il rapporto che unisce e, al tempo stesso, la differenza; parla infatti di Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro. Con il sacrificio del Figlio sulla croce è stata dimostrata ai discepoli la pienezza dell'amore del Padre (3,16). Per mezzo della sua morte e risurrezione Gesù torna al Padre, non per separarsi dai suoi, ma per unirsi ad essi in modo pieno e definitivo tramite la sua comunione con il Padre (cfr 14,1-3; 16,7.22).

Il messaggio portato da Maria di Magdala prepara i discepoli all'incontro con Gesù. In quanto Risorto, egli è unito ancora di più ai discepoli e con i suoi doni dà inizio e conferma alla loro perfetta comunione con il Padre.

Domande

1. Maria si aggrappa a quanto le è rimasto di Gesù, il sepolcro vuoto. Come può concretizzarsi questo atteggiamento nella nostra vita?

2. Che cosa cambia e che cosa rimane nel rapporto con il Signore che è vissuto sulla terra e con il Signore risorto?

3. Che significato ha il messaggio pasquale di Maria di Magdala?

 

PACE A VOI!

(20,19-23)

Nell'oscurità dell'alba Maria di Magdala si è recata al sepolcro di Gesù e l'ha trovato aperto e vuoto. I suoi due messaggi (20,2.17) hanno dominato finora il giorno di Pasqua. Alla sera di questo lungo giorno il Risorto viene dai suoi discepoli. Li trova che stanno con le porte chiuse: sono ancora nel sepolcro della paura e non sono partecipi della sua vita. Gesù allora per prima cosa dimostra che essi hanno lui, il Risorto, vivo in mezzo a loro (20,19-20); poi li mette a parte della propria missione, della propria vita e del proprio potere di rimettere i peccati (20,21-23). In un mondo che incute loro paura, essi hanno in mezzo a loro il vincitore del mondo (16,33) e sono pieni della sua pace e della sua gioia. Gesù apre loro le porte e li rende capaci di entrare in questo mondo e di portarvi i suoi doni. I discepoli non devono chiudersi nella paura davanti al mondo, ma devono entrarvi pieni di fiducia.

Il dono fondamentale del Risorto è la pace (20,19.21.26). Già nei discorsi di congedo Gesù aveva promesso ai discepoli questa pace. Egli è in grado di darla in quanto va al Padre (14,27) e in quanto vince il mondo (16,33). Ora egli ha effettivamente vinto la morte, dimostrazione estrema del potere distruttivo del mondo, ed è effettivamente salito al Padre. Ha raggiunto la sua mèta e sta vivo in mezzo a loro, vincitore. Egli stesso è il fondamento della loro pace. Gesù risorto non libera i discepoli dalle afflizioni del mondo (16,33), ma dà loro sicurezza, imperturbabilità e tranquilla fiducia.

Il Risorto non soltanto parla di pace, ma si legittima davanti ai discepoli e dà saldo fondamento alla sua parola: mostra loro le sue piaghe. Essi devono convincersi che colui che sta vivo davanti a loro è lo stesso che è morto in croce; devono riconoscere che egli è andato effettivamente oltre la morte, vincendola. Le piaghe sono anche il segno del suo immenso amore, che non ha paventato di mettere in gioco la vita. Gesù sarà per sempre pieno di questo amore Dalla sua ferita al costato sono fluiti sangue e acqua. Questa ferita rimane la prova che egli è la fonte della vita (7,38-39). Egli è venuto in mezzo a loro ed è vivo tra loro. I discepoli lo esperiscono nel suo amore illimitato e smisurato, come vincitore della morte e datore della vita. Quanto più essi lo capiscono, tanto più egli diventa per loro il fondamento della pace e la fonte della gioia. Essi fanno esperienza di quella gioia che Gesù aveva loro promesso per quando si sarebbero rivisti (16,20-22). Quello che egli mostra e dona loro in quest'ora rimane valido per sempre. Gesù ha raggiunto per sempre la sua mèta, la casa del Padre. Rimane per sempre l'incrollabile fondamento della pace e l'inesauribile fonte della gioia.

Ancora una volta Gesù dà ai discepoli la sua pace (20,21) e lega questo dono alla loro missione. Come suoi inviati, essi hanno bisogno in modo particolare della sicurezza e della fiducia profonda che soltanto lui può dare. Gesù li ha già preparati al rifiuto e all'odio con cui dovranno fare i conti (15,18-20; 17,14). Alla partecipazione alla sua missione corrisponde la partecipazione al suo destino. Solo se sono ancorati alla sua pace, essi potranno padroneggiare il compito loro affidato.

Gesù è stato mandato dal Padre ed è venuto nel mondo come luce del mondo (8,12). Egli rimane per sempre rinviato da Dio, che ha fatto conoscere Dio quale Padre dall'amore sconfinato e ha dischiuso l'accesso alla comunione con lui. Gesù rimane la via, la verità e la vita (14,6). Come il Padre ha mandato lui, così egli ora manda i suoi discepoli nel mondo (cfr 4,38; 17,18). In quanto Figlio, ha fatto conoscere il Padre. I discepoli devono dare testimonianza del Figlio, che hanno conosciuto dal momento della loro chiamata fino all'attuale incontro con il Risorto (15,27). Così devono condurre gli altri a credere nel Figlio e, in lui, alla comunione col Padre.

Per questa missione Gesù provvede i discepoli dello Spirito Santo. Giovanni Battista aveva profetato di lui come di colui che battezza nello Spirito Santo (1,33). Ora egli è colui che è stato innalzato, dal cui costato sono usciti sangue e acqua e che dona lo Spirito Santo (7,39). Come nella creazione Dio ha insufflato nell'uomo il soffio vitale (Gn 2,7), così ora Gesù dona ai discepoli lo Spirito Santo. Dona loro la nuova vita che non passa, nella quale egli è entrato dopo essere stato innalzato sulla croce ed essere risorto e che egli ha in comune con il Padre. Per mezzo dello Spirito Santo i discepoli diventano anche capaci di capire la sua opera (14,26; 15,26-27) e di essere all'altezza della loro missione, rendendo viva testimonianza.

Gesù ha iniziato la sua via ed è giunto alla fine di essa come "Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo" (1,29). Ora egli invia i discepoli con la pienezza del potere di rimettere o di ritenere i peccati. La sua opera tende alla salvezza del mondo intero; ma si trova di fronte a reazioni diverse da parte degli uomini. Per chi lo accoglie e crede in lui, egli diventa il Salvatore, rimettendogli i peccati e donandogli la comunione con Dio; a chi non lo accoglie e rifiuta di credere, egli rinfaccia apertamente la cecità e il peccato (cfr 9,39-41; 15,22.24). Per suo incarico i discepoli devono proseguire questa sua opera. Quando la loro testimonianza verrà accolta con fede, essi dovranno rimettere i peccati. Quando la loro testimonianza verrà respinta, essi dovranno chiamare per nome tale ostinazione, "ritenere". Questo duplice potere dei discepoli corrisponde al libero arbitrio dell'uomo. Il "ritenere" non è una condanna inappellabile, ma è innanzitutto un rinnovato appello alla conversione. Concedendo questo potere ai discepoli, Gesù dimostra di essere "il salvatore del mondo" (4,42), che dona la pace con Dio.

Domande

1. Quale fondamento ha il dono della pace da parte del Risorto?

2. Che cosa caratterizza la missione di Gesù e quella dei discepoli?

3. In che modo il duplice potere concesso ai discepoli dimostra che Gesù è il salvatore?

 

MIO SIGNORE E MIO DIO!

(20,24-31)

Come possono arrivare a credere in Gesù gli uomini ai quali egli non si è mostrato direttamente come il Crocifisso risorto? Può forse chiunque pretendere che gli appaia il Risorto? I discepoli ai quali Gesù si è mostrato e che ha inviato (20,19-23) assicurano a Tommaso, che era assente: Abbiamo visto il Signore (20,25). Tommaso rifiuta di credere, esige che il Risorto appaia anche a lui, come è apparso agli altri discepoli, vuole non soltanto vedere, ma anche toccare le piaghe del Signore. Gesù va incontro a questa condizione posta da Tommaso e lo porta alla fede; ma chiama "beati" quanti non vedono eppure credono (20,26-29). Alla fine l'evangelista riassume lo scopo dell'opera di Gesù e mostra quale sia la via d'accesso alla fede per quanti non vedono (20,30-31).

Tommaso è comparso già due volte nel Vangelo. Quando Gesù voleva esporsi al pericolo di ritornare nella Giudea per ridestare Lazzaro alla vita e condurre i discepoli alla fede, egli ha detto: Andiamo anche noi a morire con lui (11,16). Tommaso ha confessato anche la loro ignoranza riguardo alla mèta e alla via di Gesù: Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via? Questo ha portato alla grande dichiarazione di Gesù riguardo a se stesso: Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno giunge al Padre se non per mezzo mio (14,5-6). Gesù, che ha risposto alla domanda di Tommaso, ora accetta anche la condizione posta da lui. Conduce Tommaso a una professione di fede quale non era mai stata fatta prima, ma chiarisce anche che la fede non può dipendere da tali condizioni.

È di nuovo il primo giorno della settimana. I discepoli sono riuniti, come otto giorni prima, e Tommaso è tra loro. Tutti loro fanno esperienza di come Gesù conduce Tommaso alla fede. 11 grande dono del Risorto è la pace (20,19.21.26), la sicurezza e la protezione che si fonda sulla persona del Signore risorto (cfr p. 176). Di questa pace devono aver parte anche Tommaso e la cerchia dei discepoli, che hanno in mezzo a loro Tommaso come ricusatore della fede.

Il Risorto continua in quell'impegno verso i discepoli che ha contraddistinto la sua opera terrena (cfr 2,11) e di cui erano pieni proprio i discorsi di congedo e l'ultima volontà da lui espressa (19,26-27). Di sua iniziativa egli va verso Tommaso, che si chiude alla testimonianza dei discepoli e non ha ancora trovato la strada verso la fede e la pace pasquale. Lo fa uscire dal suo isolamento, perché la comunità dei discepoli diventi una nella gioia pasquale. Gesù mostra di sapere della condizione posta da Tommaso e lo sollecita ad agire di conseguenza. Gli mostra i segni della sua morte e del suo amore, i quali provano che lui è al tempo stesso la fonte della salvezza. Per tutti i discepoli e per tutti i tempi questi sono i segni distintivi del Signore, il quale ha dato la vita per noi uomini, ha vinto la morte e ci ha dischiuso la possibilità dell'eterna comunione con il Padre. Presentandosi una seconda volta ai discepoli, il Risorto conferma quello che ha fatto la sera di Pasqua. A Tommaso, e a quanti si comportano come lui, dice: Non essere incredulo, ma diventa credente! (20,27).

Tommaso confessa la sua fede in Gesù come nessuno prima di lui: Mio Signore e mio Dio! (20,28). Egli è stato in cammino più a lungo di tutti, ma è giunto più vicino a Gesù. Per lui personalmente Gesù è Signore e Dio. Tommaso crede, si sottomette a Gesù e ha fede in lui. Con il loro messaggio pasquale: Abbiamo visto il Signore (20,18.25), Maria di Magdala e i discepoli hanno professato di credere in Gesù come nel Signore. Essi hanno fatto riferimento al rapporto che ci sarà per sempre tra lui e loro: Gesù è il Signore, ha potenza determinante e salvifica; essi riconoscono la sua volontà, sono al suo servizio e sono protetti dalla sua mano potente. Questo rapporto ha validità definitiva e totale, perché questo Signore è Dio. Come Gesù ha manifestato più volte con l'espressione Io sono, è Dio stesso che in lui si avvicina a noi e per suo tramite dona la vita eterna. Quanto questo Signore dispone è quanto Dio stesso dispone, con assoluta certezza; la protezione di questo Signore è la protezione di Dio. Essendo superiore a tutte le potenze, Gesù accoglie nella sicurezza data dalla comunione di Padre e Figlio. Tommaso lo riconosce così, e così si lega a lui. Chi parla sempre e soltanto di un Tommaso incredulo, dimentica a quale fede egli sia giunto con l'aiuto di Gesù.

Poi Gesù guarda a coloro che crederanno in futuro. Tommaso e gli altri discepoli hanno potuto vedere il Signore risorto e hanno creduto in lui. La loro fede si riferisce al fatto che egli è risorto, ma ancor più al fatto che egli è il loro Signore e Dio. L'esperienza che essi hanno avuto del Signore risorto ha costituito l'impulso per questo loro credere. Gesù non condurrà più alla fede per questa via; egli chiama beati quanti non vedono eppure credono. La testimonianza dei discepoli, data in forza dello Spirito Santo (15,26-27), sarà impulso a credere. Quanto Gesù ha compiuto davanti agli occhi dei suoi discepoli, rivelando loro la sua gloria, e quanto essi hanno testimoniato costituiscono argomento di quello che l'evangelista ha scritto nella sua opera. Tutto ciò vuol portare a questo credere preciso e personale: Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio. La fede ci unisce a lui e, per mezzo di lui, che è il Figlio, siamo accolti nella comunione con Dio Padre. Questa è la vita eterna. Dal rifiuto a credere (20,25) fino al frutto della fede (20,31) tutto concerne la fede in Gesù, Figlio di Dio. Tutto dipende da questa fede, che sola apre l'accesso alla vita.

Domande

1. In che modo Gesù conduce Tommaso a credere?

2. Qual è il contenuto e quale il frutto della fede?

3. Come giungono alla fede quelli che non vedono?

 

COMUNIONE CON IL RISORTO

(21,1-23)

Secondo la narrazione dell'evangelista, il Risorto si è presentato due volte in mezzo ai discepoli, legittimandosi con le sue piaghe come il loro Signore vivente e innalzato (20,19-29). Ha condotto Tommaso a confessare espressamente la sua fede. La terza apparizione del Risorto è assai più contenuta. All'alba Gesù è sulla riva del lago di Tiberiade; i discepoli sono in barca a pescare. Essi lo vedono, ma non lo riconoscono (21,4. Cfr 20,14; Lc 24,16). Da parte dei discepoli, un grande silenzio si stende sull'accaduto. Gesù parla e agisce, ed essi agiscono su suo incarico. Non si tratta più del fatto che egli rivela loro la verità della sua risurrezione, ma essi fanno qui esperienza del fatto che, quando agiscono seguendo la sua parola, ottengono grandi risultati, e del fatto che egli continua a mangiare insieme con loro (21,1-14). Gesù nomina Simon Pietro "pastore del suo gregge" e annuncia che Pietro lo seguirà sino alla sua morte violenta (21,15-19). Parla poi anche del destino del discepolo che egli ama (21,20-23).

Su proposta di Pietro, sette discepoli vanno a pescare. Durante tutta la notte non prendono nulla. Con lo svanire della notte svanisce anche la prospettiva di una buona pesca. Nel momento del loro insuccesso, Gesù è sulla riva e li chiama: Miei cari figlioli. Li aveva chiamati così anche nell'ora del congedo, quando i loro cuori erano scoraggiati per l'imminente separazione (13,33). In quanto Risorto, egli non si è distolto da loro, ma rimane legato ad essi con amore e cura affettuosa. Interpellati da lui, i discepoli ammettono il loro insuccesso. Gesù dà loro indicazioni precise e preannuncia una ricca pesca. Essi gli danno ascolto e ottengono un risultato abbondantissimo. Il discepolo che Gesù amava ora riconosce il Signore. L'esperienza dimostra ai discepoli che essi sono debitori del proprio successo non alla propria fatica, ma alla parola di Gesù. Egli è con loro non soltanto nel successo, ma anche nello scacco, quando essi sono rifiutati e messi a morte violenta (21,18-19).

Come già la mattina di Pasqua presso la tomba vuota (20,2.8), anche adesso è il discepolo che Gesù amava il primo a riconoscere Gesù con pienezza di fede. Questo discepolo ha la massima sensibilità per lui e comunica a Pietro di averlo riconosciuto. Questi non vede l'ora di arrivare da lui. Dimentica la ricca pesca, la barca e gli altri discepoli e si butta in mare, per essere il prima possibile da Gesù. Certamente anche per questo Gesù gli chiederà poi: Mi ami più di costoro? (21,15).

Gesù invita tutti i discepoli al pasto mattutino con lui e li invita a contribuire con il pesce pescato (21,10.12). Come nel pasto miracoloso per la folla, nel quale ugualmente viene nominato il lago di Tiberiade (6,1), anche qui Gesù prende il pane e lo dà loro, e così pure il pesce (21,13. Cfr 6,11). Anche ora che è risorto, Gesù fa ai discepoli il dono di mangiare insieme ed è per loro più che mai "il pane della vita" (6,35). Da lui essi ricevono la vita, e possono essere pienamente certi dell'unione con lui. Nessuno dei discepoli dice una parola. Sanno che lui è il Signore. Sono totalmente alla presenza e per la presenza di questo Signore, che è risorto, che ha rivolto loro così amabilmente la parola, a cui sono debitori della ricca pesca e che dona loro la comunione con lui e la pienezza della vita.

Dopo aver mangiato, Gesù si rivolge a Simon Pietro. L'ultimo colloquio tra loro era avvenuto nell'ora del congedo (13,36-38). Allora Pietro si era rivolto a lui, gli aveva chiesto dove andava e gli aveva assicurato che avrebbe dato la sua vita per lui. Gesù aveva predetto il triplice rinnegamento di Pietro, come è avvenuto di fatto (18,15-18.25-27). Ora gli chiede tre volte se lo ama e gli affida per tre volte il compito di pastore del suo gregge. Gesù stesso è il buon pastore (10,1-18); è venuto nel mondo perché i suoi abbiano pienezza di vita e dà la vita per le sue pecore. Conosce i suoi e i suoi conoscono lui. Tutti quelli che gli appartengono li riunisce in un unico gregge, per il quale egli è l'unico pastore (10,16). Egli è e rimane il buon pastore; e quanti lo seguono e credono in lui sono e rimangono il suo gregge.

In quanto buon pastore, egli si preoccupa del suo gregge, ora che non sarà più visibile in mezzo a loro. Non abbandona i discepoli a se stessi. Poiché ha cura di loro e vuole preservarli suoi, dà loro come pastore Pietro. Pietro deve aver cura di loro, deve mantenerli sulla retta via, deve dirigerli e guidarli. La via è e rimane Gesù (14,6); la vita viene soltanto dalla comunione con lui. Il compito di Pietro è di condurli a lui e mantenerli nella comunione con lui.

Premessa di ciò è l'amore di Pietro per il buon pastore. Quanto più vivo è in lui l'amore per Gesù, tanto più perderà d'importanza la propria persona, tanto più avrà cura di quelli che gli sono affidati, tanto maggiore sarà il suo impegno di condurli a Gesù e di tenerli uniti a lui. Gesù chiede a Pietro tre volte se lo ama. Pietro non risponde facendo grandi affermazioni; si richiama al fatto che Gesù sa, e confessa il proprio amore. La terza volta si rattrista: si ricorda di aver rinnegato tre volte Gesù. Ma Gesù non lo ha proscritto per questo, anzi lo ha perdonato. Ora il Risorto affida a lui, che ha esperito in tale misura la propria debolezza, il compito di pastore. Alla terza domanda Pietro risponde: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo (21,17). Egli non può né vuole nascondere nulla al Signore, presso il quale tutto è al sicuro: Pietro con l'intera sua storia.

Nell'ora del congedo Pietro aveva affermato che avrebbe seguito il Signore. Gesù aveva respinto questa sua pretesa e gli aveva annunciato: Mi seguirai più tardi (13,36). Pietro condividerà il destino di Gesù, morrà come lui di morte violenta. La libertà con la quale si era mosso in gioventù, gli verrà tolta alla fine. Sarà condotto dove non vuole. Dovrà subire quello che altri gli imporranno. Non è certo se qui ci si riferisca alla morte di croce. Ma nel momento in cui Pietro non sceglie più la sua strada, è già sulla strada di Gesù, il quale ha preso su di sé la morte di croce. Per questo Gesù gli dice: Seguimi? (21,19.22).

Questo Seguimi! rimane la parola di Gesù che vale per lui. Pietro non ottiene risposta quando chiede del destino del discepolo prediletto. La sua mente deve tendere tutta a quello che.Gesù ha assegnato e annunciato a lui. Come il suo cammino, anche quello dell'altro discepolo è guidato dal Signore; Pietro non ha bisogno di sapere altro. La supposizione che Gesù abbia riservato al discepolo prediletto di vivere fino al suo ritorno viene respinta, poiché non è fondata sulla parola di Gesù.

Nei discorsi di congedo Gesù ha preparato i discepoli per quando non sarà più visibile in mezzo a loro. Anche le sue apparizioni dopo la risurrezione devono prepararli a questo. Essi devono sapere con certezza della sua vittoria sulla morte e del suo ritorno a Dio. Devono credere in lui come loro Signore e loro Dio. Egli continua a essere al loro fianco, con il suo amore e la sua attenzione. Benedice la loro opera ed è per loro fonte della vita. Essi devono attenersi ai compiti loro assegnati e seguirlo sulla sua strada.

Domande

1. Quali forme assume la comunione con il Risorto?

2. Qual è il rapporto tra Gesù e Pietro?

3. Qual è il compito specifico di Pietro?

 

 

IL VANGELO DI GIOVANNI NELL'ANNO LITURGICO

AVVENTO

3aDomenicaA Gv 1,6-8.19-28 pag. 7; 23

TEMPO DI NATALE

Natale - giorno A-B-C Gv 1,1-18 " 7; 15 2 •'Domenica A-B-C Gv 1,1-18 " 7; 15

QUARESIMA

3-'Domenica A Gv 4,5-42 " 60 3a Domenica B Gv 2,13-25 " 45 4" Domenica A

(a scelta anche in B-C) Gv9,l-41 " 99 5" Domenica A Gv 11,1-45 " 115 53 Domenica B Gv 12,20-33 " 121 53 Domenica C Gv 8,1-11 " 91 Domenica delle Palme

(processione) Gv 12,12-16

TRIDUO PASQUALE

Giovedì santo A-B-C Gv 13,1-15 " 129 Venerdì santo A-B-C Gv 18,1 -19,42 " 177; 181; 185

 

TEMPO DI PASQUA

Pasqua - giorno A-B-C

Gv20,l-9

pag. 189

2a Domenica A-B-C

Gv 20,19-31

" 197;201

3a Domenica C

Gv21,l-19

" 205

4a Domenica A

Gv 10,1-10

" 105

4a Domenica B

Gv 10,11-18

" 105

4a Domenica C

Gv 10,27-30

" 111

5a Domenica A

Gv 14,1-12

" 137

5a Domenica B

Gv 15,1-8

" 151

5a Domenica C

Gv 13,31-35

" 133

6a Domenica A

Gv 14,15-21

" 143

a Domenica B

Gv 15,9-17

" 151

6a Domenica C

Gv 14,23-29

" 147

7a Domenica A

Gv 17,1-11

" 167

7a Domenica B

Gv 17,11-19

" 167

7a Domenica C

Gv 17,20-26

" 173

Pentecoste

 

 

 

 

vigilia A

Gv 7,37-39

" 87

vigilia B

Gv 20,19-23

" 197

vigilia C

Gv 15,16-27; 16,12-15

" 157

giorno A-B-C

Gv 20,19-23

" 197

B (a scelta)

Gv 15,26-27; 16,12-15

" 157

C (a scelta)

Gv 14,15-16.23-26

" 143;147

SS. Trinità A

Gv3,16-18

" 55

SS. Trinità C

Gv 16,12-15

 

 

Corpus Domini A

Gv 6,51-58

" 79

Sacro Cuore B

Gv 19,31-37

" 185

TEMPO ORDINARIO

2a Domenica A

Gv 1,29-34

" 27

2a Domenica B

Gv 1,35-42

" 33

2a Domenica C

Gv 2,1-11

" 39

17a Domenica B

Gv6,l-15

" 69

18a Domenica B

Gv 6,24-35

" 73

19a Domenica B

Gv 6,41-51

" 73

 

20a Domenica B Gv 6,51-58 pag. 79

21a Domenica B Gv 6,60-69 " 83

Cristo Re B Gv 18,33-37 " 177

 

FESTE

Pietro e Paolo Gv 21,15-19 " 205

Esaltaz. Croce Gv 3,13-17 " 51;55

Comm. defunti Gv 6,37-40 " 73

Declic. Basilica Later. Gv 4,19-24 " 59

 

 

 

INDICE

Introduzione

II Verbo di Dio (1,1-13)

II Verbo fatto carne (1,14-18)

Giovanni, il testimone (1,19-28)

La testimonianza di Giovanni (1,29-34)

Primo incontro (1,35-51)

Pienezza della gioia (2,1-11)

In onore del Padre (2,13-25)

La nuova nascita, necessaria e donata (3,1-13)

L'incredibile amore (3,14-21)

Incontro insperato (4,1-42)

Al di sopra della salute (5,1-18)

Pane per tutti (6,1-15)

Io sono il pane della vita (6,22-51)

Vita dal dono della vita (6,51-59)

Andarsene o restare (6,60-69)

Fonte scorrente della vita (7,37-39)

Gesù e l'adultera (8,1-11)

Io sono la luce del mondo (8,12-20)

Luce per i ciechi (9,1-41)

Io sono il buon pastore (10,1-21)

Al sicuro nelle mani di Dio (10,22-39)

Io sono la risurrezione e la vita (11,1-46)

Luce dalla croce (12,20-36)

Gesù, la parola di Dio (12,37-50)

Comunione con Gesù (13,1-17)

Luce dalla morte (13,31-35)

Comunione perenne (14,1-14)

Osservare i suoi comandamenti (14,15-21)

Non sono abbandonati (14,22-31)

Apostolato fecondo (15,1-17)

Apostolato difficile (15,18-27)

La casa del Padre (16,16-33)

Custodiscili nel tuo nome! (17,1-19)

Preghiera per quelli che sono mandati (17,20-26)

Gesù, il re (18,33-38)

II discepolo e la madre di Gesù ( 19,25-27)

Segni del compimento (19,31-37)

Tra tenebre e luce (20,1 -10)

Padre mio e Padre vostro (20,11-18)

Pace a voi! (20,19-23)

Mio Signore e mio Dio! (20,24-31)

Comunione con il Risorto (21,1-23)

Il Vangelo di Giovanni nell'anno liturgico