ASPETTI EUCARISTICI NELLA PRIMA LETTERA AI CORINZI

Prosper Grech, OSA.

 

Dai tempi della Riforma fino al Concilio Vaticano II la teologia cattolica dell’Eucaristia è stata in maggior parte condizionata dalla controversia con i protestanti. Si sa bene che Lutero, pur ammettendo la presenza reale di Cristo nel sacramento, la limitava solo al tempo della celebrazione e negava la transustanziazione del pane nel corpo di Cristo. Calvino e Zwingli concepivano la presenza sacramentale come simbolica o virtuale. Tutti, poi, negavano l’aspetto sacrificale di questo sacramento, particolarmente il suo valore come suffragio per i defunti. Non sorprende, dunque, che, seguendo la scia del Concilio di Trento, i teologi cattolici abbiano sviluppato gli aspetti che concernevano la presenza reale permanente, la qualità di sacrificio e la teologia della transustanziazione. Ciò facendo, però, trascurarono altri aspetti del sacramento dell’Eucaristia che si trovano sia nella Sacra Scrittura sia nella ricchissima dottrina dei padri della Chiesa. Il rinnovamento sia teologico sia liturgico che precedette il Vaticano II portò frutti abbondanti nei documenti del concilio in cui altri aspetti di utilità pastorale, basati sulla bibbia e la tradizione, furono sottolineati. La teologia postconciliare ha sviluppato questi "nuovi" aspetti, ma c’è ancora molto lavoro da fare sia nel campo biblico sia in quello patristico e medievale.

In questo saggio vorrei mettere in risalto alcune sfaccettature della dottrina eucaristica paolina che meritano di essere evidenziate per l’arricchimento della vita di santificazione del popolo di Dio. Alla fine proverò di indicare alcune connessioni con passi neotestamentari paralleli.

San Paolo parla dell’Eucaristia soltanto nella prima sua lettera ai Corinzi, e ciò accidentalmente. Se non fossero sorti degli abusi nella comunità di Corinto forse non avremmo nemmeno saputo che nelle chiese paoline si celebrasse l’Eucaristia, e molto meno il pensiero di Paolo su questo sacramento. C’è anche da rilevare che, benché il suo insegnamento su questa materia sia esplicito, egli lo usa soltanto come argomento per correggere disordini di natura ecclesiale o disciplinare.

San Paolo parla dell’Eucaristia in due luoghi diversi nella medesima epistola, cioè nei capitoli 10 e 11. Nonostante la prossimità dei due capitoli l’occasione della menzione di questo sacramento è differente. L’apostolo scrive da Efeso, nell’Asia Minore, dove alcuni membri dalle comunità della città greca di Corinto lo avevano raggiunto e gli avevano comunicato delle notizie alquanto disturbanti su quella chiesa. Egli le aveva già scritto una lettera, che purtroppo è andata perduta. Nella presente epistola, la "Prima", che, però, in realtà, è la seconda, egli risponde ad alcune domande dei cristiani abitanti in quella città e li istruisce su alcuni punti di comportamento e di dottrina che non potevano non causare dei quesiti in una comunità nascente che viveva in circostanze difficili. Uno di questi problemi, che a noi oggi sembra tanto strano, era se i credenti potevano mangiare carni che erano state immolate agli idoli. Tanta della carne venduta nei macelli di allora proveniva dai templi, dove erano offerti dei sacrifici di animali in continuazione. Parte di quella carne era consumata dai presenti mentre una parte toccava ai sacerdoti. Il resto era venduto nei macelli. Poiché alcuni dei cristiani provenivano dal giudaismo, e per gli ebrei mangiare tali carni era proibitissimo, alcuni cristiani, convertiti sia dall’ebraismo sia dal paganesimo, avevano scrupoli di consumare tali vivande. Difatti, la chiesa di Gerusalemme aveva proibito alle chiese miste da essa dipendenti di mangiare gli idolotiti, come si chiamavano queste carni. Nel cap. 8 di 1 Corinzi, che sembra essere stato composto antecedentemente al decreto della chiesa di Gerusalemme, Paolo aveva sentenziato che i cristiani potevano mangiare tutto senza scrupolo. La legislazione ebraica non era di obbligo per i credenti in Cristo.

Anche nel c. 10 si parla di queste carni, ma in un contesto completamente diverso. Nell’antichità greco-romana i sacrifici non erano offerti soltanto nei momenti di culto. Molti giuochi pubblici o riunioni di corporazioni di mestiere avevano inizio con un sacrificio ad un dio protettore. Alcuni cristiani che vi appartenevano, o per vergogna ovvero per abitudine, partecipavano degli idolotiti che venivano offerti dopo il rito. Paolo reagisce in modo forte perché qui non si trattava di mangiare carne in quanto alimento ma di una partecipazione formale nei sacrifici pagani offerti ad idoli, quindi del peccato di idolatria.

Quali argomenti sono addotti dall’apostolo per correggere questo abuso? Nella prima parte del capitolo, cioè dal v. 1 a 13 egli presenta l’esempio degli israeliti nel deserto che adorarono il vitello d’oro e si dettero all’immoralità. Benché essi fossero il popolo eletto di Dio, tutti salvati per mezzo della traversata del Mare Rosso, partecipi della manna e appartenenti a Mosè Dio non si compiacque di tutti loro e li punì. Così anche per i cristiani: non basta essere battezzati e partecipare all’Eucaristia. Bisogna astenersi sia dall’idolatria sia dall’immoralità. Però Paolo va oltre:

"Perciò, o miei cari, fuggite l’idolatria. Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo di un’unica pagnotta. Guardate Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? ....I sacrifici dei pagani sono fatti a demoni non a Dio. Ora io non voglio che voi entrate in comunione con i demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; non potete partecipare alla mense del Signore e alla mensa dei demoni" (1Cor 10,14-21).

L’argomento di Paolo è convincente ma richiede una spiegazione perché non è immediatamente ovvio alla nostra mentalità moderna. La parola chiave è koinonia, cioè compartecipazione. Egli porta l’esempio della compartecipazione che accade quando gli ebrei offrono un sacrificio nel tempio di Gerusalemme. Gli offerenti mangiano una parte delle carni della vittima che li rende compartecipi della benedizione che scaturisce da quell’atto di culto, benedizione che li mette in comunione con Dio. Adesso, ogni atto di culto idolatra non è un omaggio al Dio vero ma al suo avversario, il demonio. I cristiani, invece, che hanno sostituito al sacrificio del tempio di Gerusalemme la celebrazione eucaristica, compartecipano del "sangue di Cristo" e del "corpo di Cristo", cioè dei frutti della redenzione che ebbe luogo con il sacrificio pasquale di Gesù sulla croce; con esso entrano in comunione mangiando il pane che è il corpo di Cristo e bevendo il calice che è il sangue di Cristo. Uno che usufruisce di tale beneficio non può stare con il piede in due staffe, entrando in intima unione con il Cristo risorto e allo stesso tempo con il suo avversario demoniaco. Di più, la comunità che celebra l’Eucaristia mangia di una sola pagnotta, un tozzo, magari, ma significando con ciò la compagine unica della chiesa in cui ogni uomo o donna sono membri del corpo di Cristo. Chi profana la propria persona, dunque, prendendo parte ad un sacrificio pagano, profana l’intera comunità e commette un sacrilegio, perché la comunità è, invero, il corpo di Cristo. Difatti, nel c.6 della medesima epistola Paolo rimprovera i battezzati che vanno con prostitute per mezzo del medesimo argomento: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo sol,. ma chi unisce al Signore forma con lui un solo spirito." (1Cor 6, 15-17). Chi va con una donna di strada profana il corpo di Cristo, sia in se stesso sia nella comunità.

Un’antichissima preghiera eucaristica che risale al primo secolo così recitava: "Ti ringraziamo, o Padre nostro, per la vita e per la conoscenza che ci hai fatto svelare da Gesù Cristo tuo servo. A te sia gloria nei secoli, Amen. Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto è diventato una cosa sola, così si raccolga la tua Chiesa dai confini della terra nel tuo regno: perché tua è la gloria e la potenza per mezzo di Gesù Cristo nei secoli. Amen." (Didaché 14,9). Oltre all’unione dei cristiani in un solo pane, questa preghiera ne sottolinea anche l’aspetto escatologico nel regno di Dio. Sant’Agostino è più personale quando dice ai suoi fedeli "Odi infatti: <Il corpo di Cristo>, e rispondi <Amen>. Sii (veramente) corpo di Cristo, perché lo <Amen> sia vero!.....Riflettete che il pane non si fa con un grano solo, ma con molti. Quando riceveste l’esorcismo battesimale, veniste come macinati. Quando foste battezzati, veniste come intrisi. Quando riceveste il fuoco dello Spirito Santo, veniste come cotti. Siate quello che vedete e ricevete quello che voi siete!" (Sermo 272).

Il capitolo undicesimo della Prima ai Corinzi è ancora più ricco di insegnamento.

Anche qui l’occasione viene offerta da un rimprovero. I primi cristiani celebravano l’Eucaristia nel contesto di una cena comune, come quando Gesù l’aveva istituita durante la cena pasquale. Un certo numero di credenti si raccoglievano la sera del sabato presso un cristiano che aveva una casa più grande. Colui che li ospitava non era, ordinariamente, abbastanza ricco per offrire una cena a una ventina di persone ogni settimana, quindi ciascuno portava il suo cibo, sia per se sia per condividerlo con i meno abbienti. E’ ovvio che la puntualità lasciava molto a desiderare, molti erano schiavi e non potevano lasciare il lavoro a piacimento, altri avevano altri impegni. I primi arrivati erano spesso impazienti e cominciavano a mangiare ciò che avevano portato di modo che quando arrivavano gli altri non soltanto erano già sazi, ma qualche volta anche ubriachi, uno scandalo particolarmente per i più poveri che rimanevano a guardare. Inoltre, Paolo li accusa di avere divisioni tra loro. Già nel c.1 aveva rimproverato l’esistenza di "partiti apostolici", ma altre cause di divisione erano forse quelle di classe ovvero di provenienza: dal giudaismo o dal paganesimo, con diversi criteri di condotta riguardo i cibi, come consta dalla Lettera ai Romani (c.15). Come reagisce Paolo? Il suo rimprovero è severo, ma esaminiamo gli argomenti che porta:

"Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: <Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me>. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: < Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me>. Ogni volta, infatti, che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché che mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore mangia e beve la propria condanna. E’ per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; Quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non essere condannati insieme a questo mondo. Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri, e se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta."

L’apostolo, dunque, comincia con la recitazione delle parole di istituzione dell’Eucaristia che egli dice di "aver ricevuto dal Signore", non per rivelazione diretta - l’espressione è una formula rabbinica - ma per tradizione liturgica della sua chiesa di Antiochia. Difatti, le parole di Gesù concordano con quelle di Luce nel suo vangelo (22,19s), mentre Matteo e Marco, con qualche differenza minore, ripetono la tradizione palestinese. Ovviamente, non è possibile, in questa conferenza, fare l’esegesi dell’intera pericope. Ci soffermeremo su alcuni punti essenziali.

"Questo è il mio corpo, che è per voi". Che vuol dire Gesù? Se vogliamo parafrasare la sua intenzione possiamo dire: domani io sarò consegnato nelle mani dei giudei che mi metteranno a morte. La mia non sarà una morte accidentale, è una morte sacrificale per la vostra redenzione. Se volete partecipare ai benefici di questo sacrificio, come gli ebrei mangiano la carne sacrificata, anche voi dovete mangiare la mia carne. Ciò farete mangiando questo pane che io vi sto dando, esso è il mio corpo, il mio corpo ucciso, ma anche risorto.

"Fate questo in memoria di me". Questa memoria, anamnesis, non è semplicemente una rimembranza, come noi ricordiamo i caduti all’altare della patria; essa coinvolge Dio stesso. Nel libro dell’Esodo, parlando della costruzione dell’altare, viene detto: "Farai per me un altare di terra e, sopra, offrirai i tuoi olocausti e i tuoi sacrifici di comunione, le tue pecore e i tuoi buoi; in ogni luogo dove io vorrò ricordare il mio nome, verrò a te e ti benedirò." (20,24). Analogicamente, anzi, a fortiori, sull’altare eucaristico, che rinnova il sacrificio del Golgota, Dio "vorrà ricordare il suo nome" e si rende presente in Cristo benedicendoci con i benefici della sua redenzione.

Le parole sul calice non sono semplicemente una ripetizione di quelle sul pane, cioè "Questo è il mio sangue", ma: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue". Matteo ha una formula più complessa. "Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per la remissione dei peccati" (25,27). Veramente, è una costruzione alquanto strana, ma ha un significato profondo. Quando Mosè sancì l’alleanza con Jahweh che creò il popolo di Dio egli prese il sangue sacrificale e ne asperse il popolo dicendo: "Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di queste parole." (Es 24,8). Quel sangue sacrificale servì per unire in alleanza Dio e il popolo israelita. Gesù riprende queste parole ma le applica a se stesso, al sacrificio che egli stava per compiere e il sangue che egli stava per spargere. Come il sangue di un animale era stato lo strumento per creare il popolo dell’antica alleanza, il suo proprio sangue sancirà la nuova alleanza che darà vita alla sua Chiesa. Difatti, nella versione delle parole sul calice che troviamo in Luca e in Paolo si parla della "nuova alleanza". Qui il riferimento è alla promessa di Geremia 31,31-34: "Ecco verranno giorni - dice il Signore - nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova...Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio, ed essi il mio popolo", cioè, la nuova alleanza non consisterà in una lista di precetti esterni che non modificano il cuore duro dell’uomo, ma una legge interna, una forza interna all’uomo che lo spinge all’obbedienza di Dio. Il profeta Ezechiele allarga questo concetto e lo spiega meglio: "Vi spargerò con acqua pura e sarete purificati, io vi purificherò da tutte le sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei precetti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi." (36,25-27). Benché sia Geremia sia Ezechiele si riferivano in primo luogo al ritorno del popolo israelita dall’esilio Gesù parla della nuova alleanza inaugurata con la sua morte in croce, che avrà come conseguenza la remissione dei peccati, la creazione di un nuovo popolo e il dono dello Spirito Santo che donerà la docilità del cuore verso la volontà di Dio. Ciò che effettua il sacrificio di Gesù sulla croce viene pure effettuato ogni volta che si celebra l’Eucaristia. Essa rinnova la Chiesa continuamente, dona lo Spirito Santo, crea un cuore nuovo in coloro che la ricevono con fede e diventa la forza motrice della nuova umanità nel Regno di Dio.

"Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga". In questo versetto ci sono due idee da sviluppare: l’Eucaristia è un annuncio della morte di Cristo, è una cena ad interim.

In quale senso la celebrazione eucaristica è un annuncio del misero pasquale? Il verbo kataggéllo usato da Paolo significa, sia negli Atti sia nelle epistole paoline, l’annuncio del vangelo, del messaggio tipicamente cristiano al mondo non cristiano, sia giudaico sia pagano. Oggi lo chiamiamo più familiarmente kerigma. Si tratta di una predicazione della parola. Qui però Paolo parla della celebrazione di un sacramento. Non è certamente da pensare che l’apostolo si riferisca alle letture che accompagnano la celebrazione dell’Eucaristia. Sarebbe un anacronismo. Le parole di consacrazione richiamano evidentemente la morte di Gesù e fanno sì che gli astanti ne capiscano la connessione con il rito cultuale. Ma è qualche cosa di più. Il kerigma è necessariamente uno scandalo, lo scandalo della croce: "Mentre i giudei chiedono i miracoli e i greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia giudei che greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini." (1Cor 1, 22,25). Inoltre, Paolo ricorda ai corinzi la sua prima predicazione in mezzo a loro: "La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio." (1Cor 2,4s). Ciò vuole dire che l’annuncio evangelico non penetra nel cuore dell’uomo per mezzo di argomenti umani, ragionamenti o retorica, ma è una potenza, una dynamis, che esplodo nell’animo umano e vi crea la fede, una fede donata per un atto creativo di Dio che illumina tutto l’uomo: "Dio che disse : Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo." (2Cor 4, 6).

Ho dovuto fare questa serie di citazioni per chiarire in quale senso la celebrazione dell’Eucaristia sia un annuncio. Dai passi addotti sarà chiaro che nella mente di Paolo la parola della predicazione contiene una potenza insita, piena di Spirito Santo, che la rende quasi sacramentale quando viene pronunciata con pleroforia, quella intima persuasione, cioè, che si comunica dal predicatore all’ascoltatore. Ebbene, L’Eucaristia, che, come abbiamo visto, insieme con il corpo di Cristo comunica lo Spirito, apre gli occhi dei partecipanti al suo vero significato pasquale e li riempie di quella profonda convinzione che essi poi comunicano agli altri. Ne abbiamo un esempio nei discepole di Emmaus, ai quali, "nello spezzare il pane" (Lc 24,35) si sono aperti gli occhi, hanno riconosciuto il Cristo risorto, e immediatamente lo hanno annunziato la buona novella con successo agli altri. Intanto, sappiamo bene che i primi cristiani, per dire così, quattro gatti nascosti nelle catacombe, non avevano nessuna altra arma per invadere l’Impero con la loro fede che non la celebrazione del sacramento e l’annuncio della parola.

"Finché egli venga": Ecco l’aspetto escatologico dell’Eucaristia. La parabola di Gesù in Matt 22,1ss paragona il regno di Dio ad una cena offerta da un re per le nozze di suo figlio. Gesù accenna di nuovo alla cena escatologica quando, nel suo ultimo convito con i suoi discepoli, dice: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio.....Da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio." (Lc22,15-18). La cena eucaristica, dunque, sarebbe un anticipo del banchetto escatologico, quell’incontro con Gesù che rende reale il regno di Dio ad interim, nella storia, fino alla sua piena realizzazione nella parousia.

Gli esegeti discutono se la cena di cui parla Luca, cioè quella pasquale, fosse identica con quella in cui istituì l’Eucaristia. Molto probabilmente lo era. Ma, in qualsiasi modo, le parole sopra citate si riferiscono alla Pasqua degli ebrei. Si sa che questa celebrazione guardava indietro alla liberazione avvenuta nell’esodo dall’Egitto, e avanti a quella messianica. Anche l’Eucaristia, la celebrazione della pasqua cristiana, guarda indietro all’evento pasquale della morte e risurrezione di Gesù - ricordiamoci che nel suo racconto della trasfigurazione Luca ci dice che Gesù. Mosè ed Elia parlavano dell’esodo che avrebbe operato Gesù in Gerusalemme (Lc 9,31) - e guarda avanti alla cena escatologica nel regno di Dio. Essa non è soltanto il cibo che nutre il popolo di Dio nel suo pellegrinaggio nella storia verso la patria celeste, ma anche il focolare che mantiene unita la comunità nell’amore di Cristo. Essa rende presente la futura unione con il Signore.

L’ultimo aspetto di questo sacramento rilevato da Paolo è quello di giudizio: "Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore....chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna." (1Cor 11,27-29). Invece di pane di vita l’Eucaristia diventa un tossico di morte. Qui Paolo si indirizza a coloro che venivano alla cena comune solo per gozzovigliare le proprie vivande, oblii delle necessità degli altri, ma particolarmente della sacralità della celebrazione, stimando il pane eucaristico al livello di qualsiasi altro cibo. In questo modo profanavano non soltanto il corpo eucaristico di Cristo ma anche il suo corpo mistico, la Chiesa riunita in quella comunità. Ci ricordiamo che nel c. 10 l’apostolo aveva già avvertito i cristiani che gli israeliti nel deserto "tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale...ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto." (10,3-5). Quanto più, dunque, dispiace a Dio colui che mangia indegnamente il corpo di Cristo, e quanta maggiore punizione merita? Infatti, Paolo prosegue: "E’ per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti." (11,30); ciò non vuole dire che chiunque si ammalava o moriva era stato reo di questo abuso della cene del Signore, ma che una comunità che profanava la sacralità del convito eucaristico viene punita da Dio come segno del di lui dispiacere. A noi moderni ciò potrebbe sembrare molto duro, e, forse, ingiusto, ma faremmo bene a prendere questo avvertimento sul serio e sforzarci di leggere meglio i segni che percepiamo nella nostra Chiesa, in cui esistono divisioni e gruppi opposti come a Corinto, e in cui l’Eucaristia viene profanata in mille altri modi, perché non ci compiacciamo inutilmente della nostra superiorità alla comunità di Corinto.

Con ciò concordano anche il Vangelo di Luca nel racconto dell’ultima cena che sottolinea il fatto che "satana entro in Giuda, detto Iscariota, uno del numero dei dodici" (22,3) che partecipò all’ultima cena così indegnamente ed ebbe la fine che tutti conosciamo. Giovanni pure, parlando del boccone offerto da Gesù a Giuda nel contesto della cena, commenta: "E preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte." (Giov 13,30). Giuda lascia lo splendore e il calore dell’intimità del gruppo dei discepoli con il Maestro per uscire nel buio e nel freddo della notte del mondo dominato da Satana. E’ ovvio che il caso di Giuda era molto differente da quello di cui parla Paolo, si tratta di un tradimento esplicito non di incoscienza di comportamento come a Corinto, ma l’analogia serve a spiegare la severità del giudizio dell’apostolo.

Avendo letto esegeticmente i due passi in cui Paolo parla dell’Eucaristia dobbiamo adesso chiarire i vari aspetti, le varie sfaccettature di questo sacramento che, come abbiamo detto all’inizio, sono così ricchi in questa epistola. Non c’è bisogno di sottolineare la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia e la natura sacrificale di questo sacramento; questo è evidente. Il Concilio Vaticano II e la teologia postconciliare hanno anche elaborato l’aspetto ecclesiale dell’Eucaristia. Dal c.10, però, sono uscite delle sfaccettature che sono spesso dimenticate dai nostri fedeli e che sarebbe necessario sviluppare nella nostra catechesi.

Che l’Eucaristia sia l’antitipo della manna nel deserto è noto dal tempo dei padri della Chiesa. Come la manna accompagna il popolo eletto dall’esodo fino all’entrata nella terra promessa, segno della provvidenza di Dio che non lascia affamato il suo popolo nonostante la sua costante infedeltà e incredulità, così il convito eucaristico nutre la Chiesa dalla sua entrata nella storia fino al termine del suo viaggio.

Abbiamo rilevato l’aspetto di koinonia, compartecipazione della comunità celebrante e del singolo nei benefici soteriologici che scaturiscono dal sacrificio di Cristo. E’ questa comunione che compagina la Chiesa in un solo pane che è il corpo di Cristo, il corpo reale del Cristo risorto e il suo corpo mistico in cui le membra sono riuniti con Lui, capo del corpo.

Inoltre, il c. 10 ci ha insegnato che l’idolatria è incompatibile con la partecipazione dell’Eucaristia. Ciò sembra evidente se parliamo di adorazione di idoli, ma ai nostri tempi l’asservimento totale di falsi valori, diametricamente opposti a quelli del vangelo, non merita rimproveri minori.

Il capitolo undicesimo ci ha rivelato ulteriori sfaccettature. Già nella parole di istituzione recitate da Paolo, oltre la presenza reale e l’aspetto sacrificale abbiamo voluto rilevare quello di "memoria" nel senso biblico della parola, quella memoria in cui Dio, anzi Cristo, nell’atto di culto, vorrà ricordare il suo nome e rendersi presente nella sua persona e nella sua opera salvifica.

Si è sottolineata anche l’alleanza creata dal sangue di Cristo, l’alleanza che forma il nuovo popolo di Cristo perché sancita con il suo proprio sangue, un’alleanza che incide la legge sul cuore con il dono dello Spirito e trasforma il cuore di pietra in cuore di carne, docile verso i precetti di Dio; un’alleanza, inoltre, che crea chiesa ciascuna volta che viene rinnovata nella celebrazione del sacramento.

Ogni celebrazione è un annuncio kerigmatico del Vangelo che apre gli occhi dei partecipanti al mistero del Cristo risorto, produce in loro quella intima convinzione che spinge ad essere comunicata a tutto il mondo come nei discepoli di Emmaus, e presta alla loro parola quella potenza dello Spirito che penetra nel cuore per creare una fede basata sulla potenza di Dio piuttosto che su ragionamenti umani.

Che l’Eucaristia sia l’incontro a mensa con il Signore che prelude alla cena escatologica nel regno dei cieli è già ben risaputo. Per coloro che vi partecipano con fede questa commensalità è un momento di paradiso per riequilibrare l’animo umano nelle contraddizioni e nelle difficoltà della vita che spesso minacciano la nostra fede.

In ultimo abbiamo risaltato l’aspetto di giudizio per coloro che profanano questo sacramento sia con quell’egoismo che umilia il povero, sia con la riduzione della cena del Signore ad una cena volgare e materiale.

Prima di concludere la nostra conferenza dobbiamo chiedere se tutta questa ricchezza dottrinale si trova soltanto in Paolo ovvero anche altrove nel Nuovo Testamento. Abbiamo già rilevato i paralleli e le differenze con i Vangeli Sinottici. Rimane da vedere se anche il Vangelo di Giovanni non contenga almeno alcuni di questi aspetti paolini. Sappiamo bene che Giovanni non racconta l’istituzione eucaristica nell’ultima cena, ma contiene una ricchissima catechesi eucaristica nel sesto capitolo.

Il capitolo inizia con il racconto della moltiplicazione dei pani, che richiama il miracolo della manna del deserto (vv.1-15), e prosegue, come in Marco, con la traversata del lago in tempesta. Gesù appare camminando sulle onde e appena sale sulla barca essa tocca terra. La tempesta della storia viene superata con la presenza di Cristo e si raggiunge l’eschaton (vv.16-21). Poi ha inizio il discorso di Gesù sul pane della vita, un midrash sulla storia della manna, con un rimprovero ai giudei che lo cercavano non perché avevano letto i segni che faceva ma per il puro pane materiale che egli dava.(v.27). Egli si pronuncia il vero pane del cielo, vero antitipo della manna, inviato dal Padre (v.33). Segue la mormorazione contro Gesù parallela con quella contro Mosè nel deserto e l’asserzione che crederanno in lui solo coloro che sono stati ammaestrati da Dio, un allusione a Geremia 31,34, che parla della nuova alleanza(v.45). Il culmine del discorso è l’asserzione: "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo", "se uno mangia di questo pane vivrà in eterna" (v.51). Invece del paolino "questo pane è il mio corpo che è dato per voi" Giovanni ha "questo pane e la mia carne che è sacrificata per dare la vita al mondo". Il Verbo si era fatto carne e adesso la carne della debolezza umana di Cristo si fà pane, e pane sacrificale. Mangiare la carne del Figlio dell’uomo e bere il suo sangue non soltanto conferisce la vita, cioè l’unione con Dio nella grazia, ma conduce alla risurrezione del corpo del credente, un aspetto escatologico ancora più esplicito di quello in Paolo (v.54), mentre l’aspetto ecclesiale viene espresso in Giovanni con le parole "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui" (v.56). Nel v.58 riferisce di nuovo alla manna che i padri dei giudei avevano mangiato ma sono morti a causa della loro incredulità; chi. invece, mangia la carne di Cristo vivrà in eterno.

Il racconto prosegue con l’incredulità anche di alcuni discepoli, che non camminano più con Gesù ed escono dalla Chiesa, scandalizzati dalla materialità del suo corpo fatto pane: "Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano in lui e chi era colui che lo avrebbe tradito" (v.64), per cui l’eucaristia sarebbe stato un giudizio di condanna. "I Dodici", però non lo vogliono lasciare e confessano la sua messianicità per bocca di Pietro (v.68). Fortificati dal pane di vita annunceranno il vangelo per tutto il mondo.

Da questa sintesi del c.6 di Giovanni appare chiaramente che quasi tutti gli aspetti dell’Eucaristia che abbiamo trovato in Paolo e nei Sinottici li troviamo anche in questo vangelo: con parole differenti è vero, in un contesto diverso, ma sostanzialmente gli stessi: l’aspetto della manna tipo dell’Eucaristia, quello ecclesiale, quello escatologico, quello di koinonia, quello giudiziale e quello sacrificale e di presenza reale. Ciò vuole dire che questi "aspetti" fanno parte della riflessione teologica di tutta la Chiesa primitiva.

I padri della Chiesa li portano avanti secondo le loro circostanze pastorali. Abbiamo già citato l’ecclesiologia eucaristica della Didaché e di Agostino. Giustino martire ci racconta il modo di celebrare l’Eucaristia nel secondo secolo, il Cristostomo insiste sulla compartecipazione con i poveri. Altri insistono sul sacerdozio di Cristo, sulla remissione dei peccati operata dal sacrificio eucaristico e sulla natura mistica della cena. Vengono addotti più testi veterotestamentari che illustrano questo mistero e particolarmente la sua natura di ringraziamento, il vero significato di eucharistein, e in ultimo l’insistenza che l’Eucaristia è farmaco di immortalità e seme di risurrezione. Queste sfaccettature della dottrina eucaristica biblica e patristica dovrebbero essere il nutrimento con il quale i nostri catechisti devono pascere i fedeli, e una sfida ai nostri teologi perché le sviluppino ancora e le traducano in un linguaggio adatto all’intendimento dell’uomo del terzo millennio.