CHE SIGNIFICA OGGI "ISPIRAZIONE"?

UNA VISIONE GLOBALE

Prosper Grech, OSA

 

Il documento della Commissione Biblica Internazionale del 1993 L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, così ben ricevuto da ogni parte, ha trattato questioni essenziali di ermeneutica ma ha lasciato da parte consapevolmente l’aggiornamento della dottrina sull’ispirazione della Sacra Scrittura richiesto dal progresso nel campo dell’interpretazione. L’anno scorso la Congregazione per la Dottrina della Fede tenne un simposio internazionale su questioni connesse con ispirazione, canone e interpretazione. Resta però, molto spazio per studi ulteriori in materia; quindi, il presente simposio vorrebbe offrire un contributo di risposta dovuta ai diversi interrogativi che sorgono quando la dottrina cattolica sull’ispirazione viene riletta nella luce dei metodi contemporanei di leggere la bibbia.

La mia relazione riprende due miei articoli: "Saggio sul linguaggio della Scrittura e la sua interpretazione" pubblicato in Ermeneutica e teologia biblica (Borla, Roma 1986, pp.40- 58) e "Quid est veritas?" in Lateranun (LXI, 1995, pp. 147 - 158), e ne approfondisce alcuni temi sulla natura e sulla distinzione di rivelazione e ispirazione, sull’estensione dell’attività divina e la sua relazione con la ricerca critica moderna, che non erano stati trattati con abbastanza dettaglio nei saggi precedenti.

Nell’articolo in Lateranun, miscellanea dedicata a P. Umberto Betti in occasione del trentennio della Dei Verbum, avevo iniziato con una analogia tra il concetto di verità come a-letheia nella filosofia di Heidegger, cioè l’essere che si svela al Dasein, cioè all’uomo autentico che ne coglie la voce silenziosa e la trasforma in linguaggio, con la rivelazione cristiana di un Dio che esce dal suo nascondimento per rivelarsi a uomini capaci di captare la sua presenza attiva nel cosmo, nella natura, nella società, nella storia, nelle vicende umane e particolarmente in Gesù Cristo. Mentre il poeta e il filosofo captano la voce dell’essere e la trasformano in linguaggio il "profeta", così chiameremo l’uomo che riceve una rivelazione, è colui che viene reso capace di cogliere le manifestazioni straordinarie di Dio e trasformarle in linguaggio, il linguaggio della fede. Egli cor-risponde alla voce della presenza di Dio e ne fa da altoparlante ad altri uomini .

Una tale trasformazione in linguaggio può assumere la forma di un discorso o poema, di un’azione simbolica, di uno scritto che, a sua volta si serve di vari generi letterari. In questo modo l’ineffabilità di Dio diventa linguaggio umano, con tutta la sua limitatezza che fa uso del simbolo e dell’analogia per essere capito da menti che non possono uscire delle loro strutture mentali umane. Il profeta non istruisce soltanto l’intelletto ma muove le emozioni, crea amore, provoca gratitudine, suggerisce preghiera e spinge alla conversione e all’azione. Nel presente saggiò, però, prenderemo in considerazione solo l’aspetto della comunicazione della verità.

Abbiamo detto che la risposta del profeta allo svelamento di Dio è una risposta guidata, nel senso in cui la risposta di Pietro alla domanda di Cristo su chi fosse il Figlio dell’uomo non era frutto della carne e del sangue ma dell’azione del Padre celeste (Mt 16,18). La confessione di Pietro è una traduzione in linguaggio umano della sua fede che, a suo turno, era stata la sua risposta alla presenza di Dio in Gesù, presenza captata da Pietro e dai dodici durante la loro convivenza con il rabbino di Nazaret. Possiamo adesso domandarci come il Padre celeste abbia rivelato a Pietro la giusta risposta alla domanda di Gesù. Generalmente attribuiamo l’ispirazione o la rivelazione allo Spirito Santo, qui è il Padre che rivela. Essendo un’operazione ad extra la rivelazione è opera della Santissima Trinità. Si attribuisce allo Spirito perché la ruach biblica rappresenta la potenza soprannaturale di Dio che interviene nel mondo e la rende immanente, pur salvando la trascendenza divina.

La rivelazione viene spesso narrata nella bibbia come un episodio singolare: la chiamata di Abramo, il roveto ardente, il monte Sinai, le visioni di Ezechiele, Paolo sulla via di Damasco, ecc. Questi episodi, fatto debito abbuono al genere letterario in cui vengono narrati, sono sì singolari ed unici, come anche la risposta del profeta. Ma sarebbe più giusto dire che sono dei punti culminanti in un lungo processo di "educazione" del recipiente per renderlo capace di assentire a quell’incontro particolare e ad esprimere il suo assenso in un linguaggio adeguato. Sappiamo che il processo di maturazione di un uomo è lungo e dipende da diversi fattori: l’ambiente sociale e religioso in cui nasce, la sua educazione in famiglia, lo svolgimento della storia politica della sua gente, incontri fortuiti con uomini che hanno avuto un influsso nella sua vita, episodi traumatici, reazioni o ribellioni a certi stimoli, e tante altre circostanze. Da tutti questi fattori nasce il carattere di un individuo, come anche il suo linguaggio, un linguaggio non soltanto assorbito dal suo ambiente ma forgiato dalle sue esperienze personali. Nel corso della vita sorgono mille occasioni in cui si pongono degli interrogativi che non ricevono risposta ovvero cui si risponde con delle ipotesi, ipotesi suggerite da convincimenti religiosi o da una particolare forma mentis.

Tutto ciò viene detto non soltanto per capire il linguaggio della rivelazione o di un libro ispirato, che rivela anche un intero retroscena di istituzioni, culture, costumi e interazioni sociali dell’individuo che parla, (mi appello a Dilthey) ma anche per capire l’opera dello Spirito che raggiunge il suo culmine nell’oracolo proferito o nello scritto. A mio parere, l’opera dello Spirito non si limita al prodotto finale, ma è un insegnamento continuo per mezzo di esperienze, aiuti a riflettere su certi fatti, e l’assimilazione di reazioni di altri uomini santi alle circostanze storiche, sociali e religiose di una comunità o di un popolo, che noi chiamiamo accompagnamento delle graqzia. In tali occasioni l’uomo ha una parziale esperienza della presenza di Dio nella storia, nel cosmo e nella vita, esperienze che più tardi troveranno il loro posto nell’atto intuitivo di un’esperienza culminante. L’oracolo proferito può essere comparato all’assemblaggio finale delle diverse parti di un "puzzle", parti, però, che sono già state programmate dalla guida provvidenziale della vita del profeta da parte di Dio. Abbiamo testimonianza di ciò nel conflitto interiore del profeta descritto da Geremia nel c.20 e nelle lotte sia interne sia esterne dell’apostolo Paolo. Il catalizzatore di queste esperienze parziali di Dio che spinge il profeta a dire la sua ultima parola può essere una visione, un’illuminazione interiore o un’audizione che ricollegano tutte le precedenti esperienze in un solo oracolo o scritto. Questo impulso finale da parte dello Spirito provoca sia l’atto di fede sia la testimonianza del veggente, espressi adesso in parole umane, frutto di un’intera maturazione spirituale. Credo che ciò si possa applicare anche a una maturazione che a prima vista appare negativa, come per esempio l’odio di Paolo contro i cristiani prima della sua conversione. Spesso accade che un atteggiamento negativo o un accanimento apologetico sia piuttosto uno sforzo di convincere se stessi del contrario che non di convincere altri. E non è impossibile che un tale conflitto interiore fosse anche presente nell’animo di Paolo prima dell’episodio sulla via di Damasco. Egli avrebbe percepito elementi di verità nel messaggio cristiano che però non poteva ancora conciliare con la sua fede tradizionale. Durante il suo lungo ritiro in Arabia, poi, ebbe l’occasione di rivedere i suoi pregiudizi anteriori nella luce dell’esperienza della visione del Risorto. Lo stesso si potrebbe dire di Mosè la cui buona volontà di liberare il suo popolo aveva preso una via sbagliata nell’uccisione dell’egiziano ma che è stata corretta nella visione del roveto ardente. In altre parole, non ogni male viene per nuocere: Dio si serve di tutto per dire la sua.

Non tutte le rivelazioni possono essere espresse in linguaggio, né tutte sono date per essere trasmesse ad altri. Paolo non può né narrare l’esperienza dell’ineffabilità di Dio che vide nel terzo cielo né questa gli era stata data per l’utilità comune (2Cor 12, 1-5). E nemmeno i glossolali di Corinto potevano comunicare con i loro confratelli se non per mezzo di un interprete. Altre rivelazioni erano comunicate oralmente ma non per iscritto, come la predicazione sull’anticristo a Tessalonica che non ci è stata trasmessa, ma cui si fa riferimento nella seconda lettera a quella comunità Altre rivelazioni vengono scritte. Lo stesso si può dire dei "misteri". Alcuni, come il giorno della parousia sono ignoti persino al Figlio (Mc 13,32: Matt 24,36). Altri, come la chiamata dei gentili o la conversione finale dei giudei, sono rivelati personalmente a Paolo e comunicati nelle lettere (Rom 11,25: 16,25). I profeti, sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento, predicono incogniti del futuro. Ma non tutte le rivelazioni hanno un mistero come oggetto. Dio "si rivela" anche ai pagani per mezzo della creazione (Rom 1,18ss) e i dieci comandamenti hanno bisogno della rivelazione solenne soltanto per ottenere la certezza dell’autorità di Dio in cose che possono essere percepite dalla coscienza umana. Non c’è bisogno di dire che il termine, applicato a questi ultimi due casi, ha un senso analogico.

Passiamo adesso alla trasmissione di questa rivelazione. Alcune rivelazioni, come abbiamo detto, non sono state trasmesse affatto. Altre sono state comunicate oralmente, come, in genere, quelle dei profeti veterotestamentari, e altre, in fine sono state messe per iscritto dal ricevente medesimo, come nelle lettere di Paolo. Gesù, la somma rivelazione di Dio, non scrisse niente, ha solo parlato, benché nella sua persona e nella sua opera si manifesti il Regno di Dio. La trasmissione di rivelazioni, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, avviene oralmente, finché non raggiunga lo stato fisso nella scrittura. Appena diventa scrittura si richiede il carisma dell’ispirazione, mentre nel periodo di trasmissione orale si suppone un accompagnamento dello Spirito perché il messaggio non venga corrotto. Però, il contenuto del messaggio originale e di quello scritto non è necessariamente identico. La tradizione cresce e interpreta, come interpreta anche l’atto di mettere per iscritto. Possiamo prendere come esempio la trasmissione delle opere e delle parole di Gesù nelle comunità primitive. C’erano diversi carismatici, per esempio i "ministri della parola" in Lc 1,2 e gli "evangelisti" n Efes 4,11, che avevano il compito di trasmettere gli elementi del vangelo e senza dubbio di interpretarli nella luce della Risurrezione e delle circostanze attuali delle loro chiese. Questi carismi appartengono ad una categoria tra la rivelazione e l’ispirazione. I trasmettitori dei profeti dell’Antico Testamento, i "figli dei profeti", possono essere concepiti in un modo analogo. Avrebbero avuto il dono di preservare gli oracoli del maestro senza travisarli, e quello di interpretarli adattandoli alle nuove circostanze della loro società. In questo stadio avremmo i preliminari dell’ispirazione strettamente detta di coloro che li avrebbero poi messi per iscritto. Anche essi daranno una nuova interpretazione che noi chiamiamo oggi teologia redazionale e richiede un carisma distinto.

Possiamo dunque tentare di riassumere distinguendo tra le diverse tappe che intercorrono tra una rivelazione originaria e l’ispirazione di un libro sacro che la fissa e la interpreta. Abbiamo prima di tutto la rivelazione nel senso attivo della parola, cioè l’autosvelamento di Dio sia nella creazione sia con un atto di automanifestazione negli avvenimenti della storia, o nella vita umana, ovvero con una visione o locuzione ad un individuo o popolo. In modo passivo colui che riceve la rivelazione la legge con la sua intelligenza se è rivelazione naturale, o con l’aiuto di un dono divino che lo rende capace di captare e interpretare questa presenza straordinaria di Dio nelle vicende umane se è soprannaturale. Una tale rivelazione può essere ad personam ovvero per essere trasmessa ad una comunità. Abbiamo detto che l’atto di ricevere una rivelazione spesso non è altro che il culmine di una lunga preparazione da parte della provvidenza che rende il ricevitore più docile nella sua risposta al messaggio nel momento giusto.

La rivelazione ricevuta viene comunicata ai destinatari in modo orale ovvero per iscritto. L’atto di comunicazione implica anche un’ispirazione perché il loquente o scrivente lo faccia con tutta fedeltà. Però, particolarmente nel caso di vaticini orali, il messaggio viene trasmesso dal cerchio del "Profeta" e man mano interpretato e adattato alle circostanze attuali della comunità. Anche ciò accade sotto la guida divina, di modo che mantenga il suo vero significato e venga esteso ad abbracciare altre circostanze che si sono aggiunte nel frattempo. Tramandare è già fare teologia.

Arriva adesso il momento di fissare il messaggio per iscritto. Come già detto, questo lo può fare il ricevente originario della rivelazione nel primo momento, altrimenti, se il messaggio è stato trasmesso da terzi, un "agiografo", con il dono dell’ispirazione che assicura fedeltà sia di intendimento sia di interpretazione, e abbiamo qui la teologia redazionale dell’autore.

Anche se abbiamo usato la parola "ispirazione" con riferimento all’aiuto divino che riceve un uomo nell’atto di comunicare un messaggio oralmente, preferiamo limitarne l’applicazione in senso proprio al prodotto scritto. Perciò, a questo punto, intendiamo per ispirazione quel carisma dello Spirito ad un uomo perché produca un testo scritto che accompagni la comunità di Israele o della Chiesa attraverso il tempo come memoria, testimone e interprete della rivelazione, e che dischiuda continuamente la parola di Dio al popolo in ogni sua circostanza lungo il tempo fino alla finale manifestazione di Dio alla fine dei tempi.

Ma la storia non finisce qui. Questa definizione che abbiamo dato si riferisce al prodotto finale della bibbia ricevuto dalla Chiesa. Tra la prima messa per iscritto di un agiografo e lo stato finale del testo ci sono ancora altre tappe. Oggi si studia molto la reinterpretazione o rilettura della Scrittura nella bibbia stessa, particolarmente nell’Antico Testamento. Testi scritti legali, profetici o sapienziali vengono periodicamente ripresi e riscritti con aggiunte di glosse, nuovi vaticini, aggiornamenti ecc. per renderli attuali in circostanze sempre nuove. Ciò accadeva mentre il testo era ancora flessibile. Quando esso arriva ad un punto fermo e fisso allora interviene il midrash per attualizzarlo. Dovrei chiarire che tra rivelazione e ispirazione non c’è distinzione reale ex parte activitatis Dei, ma solo nel termine di questa attività nello spazio e nel tempo.

Come si concepisce l’attività divina che intercorre tra quella del primo agiografo e l’ultimo che, forse secoli dopo, diede il tocco finale al testo? Dobbiamo tenere in mente che la Chiesa ritiene ispirati i testi sacri così come ricevuti nel canone. Ciò significa che era ispirato solo colui che redasse il libro completo di Isaia ma non Isaia stesso? Questo sarebbe assurdo. E’ più plausibile l’ipotesi che l’opera dello Spirito abbia accompagnato la trasmissione e la crescita del testo, come aveva accompagnato la trasmissione della rivelazione, fino al raggiungimento del testo definitivo, e ciò non soltanto nel caso di aggiunte o revisioni positive ma anche nella revisione o abrogazione di provvedimenti disusati, particolarmente in testi legali. Si potrebbe aggiungere che le mutazioni periodiche del testo, nell’ambito dell’accompagnamento divino, hanno la finalità di renderlo un testimone sempre più fedele alla rivelazione originaria che accompagna il processo di maturazione del popolo. Se la parola "ispirazione" si applica in modo univoco o analogo al primo agiografo del libro di Geremia e ai glossatori o redattori posteriori sarebbe da discutere, ma io vedo l’ispirazione, in senso più largo, non tanto come una serie di interventi susseguenti ma piuttosto globalmente, come un tutto del piano divino che si estende dalla prima rivelazione fino alla ricezione nel canone e oltre. Rivelazione o ispirazione in senso stretto, l’azione di Dio in un momento determinato su un profeta o un agiografo, sono dunque "momenti forti" dentro questo processo globale.

Ancora delle domande. Il cosiddetto Yavista o Eloista, o anche "Q", nel caso che siano documenti scritti, sono ispirati? Dal Yavista proviene la rivelazione del peccato originale, e da Q la trasmissione delle parole di Gesù, quindi anche essi sono inglobati nel processo di donazione della parola di Dio, dalla sua prima rivelazione fino al testo biblico. In una lettura sincronica della Genesi o di Luca essi partecipano dell’ispirazione dell’intero libro, ma sono anche essi che hanno infuso la loro "ispirazione" ai redattori per fissare delle rivelazioni fondamentali. Non sarebbe meglio parlare di "ispirazione progressiva" dunque piuttosto che analizzare ogni tappa del processo?

Ma le questioni non finiscono mai! Possiamo parlare di diversi gradi di ispirazione nei libri sacri, cioè, che un libro sia più ispirato di un altro? E’ una questione molto complicata perché, se i libri ispirati sono la testimonianza alla rivelazione, dobbiamo distinguere tra ambedue per avere idee chiare. Inoltre, parlare di un "libro sacro" è troppo generico: in un libro ci sono diversi generi letterari ed è nella diversità di questi generi che si deve chiedere se esiste una gradualità di rivelazione o di ispirazione. Abbiamo già elencato sopra le tappe tra queste due categorie. Adesso cerchiamo di chiarirci le idee circa una possibile gradazione. Sappiamo che l’ispirazione implica una collaborazione tra due coautori, quello divino e quello umano per produrre un libro che si possa chiamare "parola di Dio" in linguaggio umano, quindi la domanda si limiterebbe alla proporzione di contributo che ciascun agiografo presti all'opera di Dio. La rivelazione, al contrario, è l’automanifestazione di Dio recepita da un soggetto umano dotato di un dono speciale. Questa manifestazione può avere come oggetto delle verità totalmente sconosciute alla ragione umana, come la SS. Trinità, l’incarnazione o l’eucaristia, ma possono anche essere oggetto di rivelazione verità conoscibili dall’intelligenza dell’uomo benché con molta incertezza, ovvero delle certezze umane che hanno bisogno di essere sottolineate dall’autorità divina, come nel caso delle leggi naturali o del modo di vivere sapientemente. Quindi la nostra domanda iniziale si complica in quanto si tratta di verificare di quanta, e di che grado sia la rivelazione contenuta in un libro, e quale collaborazione sia richiesta tra uomo e Dio nella produzione di quel libro.

Cominciamo con due casi estremi più chiari. Il libro dell’Apocalisse, così chiamato perché è un libro di rivelazioni di misteri comunicate per mezzo di audizioni e visioni, è scritto da un solo autore, che, conseguentemente, è ricevitore delle rivelazioni e allo stesso tempo coautore nella composizione del libro. L’ispirazione del libro serve per assicurare il lettore che lo scritto è fedele alla rivelazione ricevuta e la riproduce con autorità. Paolo scrive interamente le epistole ai Galati e ai Romani trasmettendo la rivelazione particolare datagli precedentemente sulla chiamata dei gentili alla fede senza l’obbligo della circoncisione. E’ anche lui ricevitore sia della rivelazione sia dell’ispirazione nell’atto di scrivere, come nel caso dell’autore dell’Apocalisse.

Esaminiamo adesso due casi al polo opposto. Viene spesso citato il secondo libro dei Maccabei, che, a prima vista non differisce molto dalla composizione della storia di Giuseppe Flavio. Chiunque avesse avuto accesso alle fonti avrebbe potuto scriverlo. Dove entra, quindi, l’ispirazione e quale differenza passa tra questo e l’opera di Giuseppe? La Chiesa Cattolica ha accettato questo libro nel suo canone perché vede in esso il prolungamento della storia della salvezza fino ai tempi ellenistici. Ogni storico parte da un’idea precostituita per scegliere il materiale del suo racconto e lo ordina anche inconsapevolmente secondo un certo criterio. Anche l’autore sacro viene istruito a scegliere quegli episodi dalle sue fonti e a ordinarli secondo uno schema che, in questo caso illustra la storia della salvezza: trasforma, cioè, la cronaca in storia della salvezza. L’ispirazione, dunque, guida la scelta e l’ordinamento ad un determinato scopo. La composizione dei vangeli riflette lo stesso principio. Luca o Matteo fanno uso delle fonti, Mc, Q ed altre, scegliendo quei detti e quegli episodi, già presenti nella tradizione orale, che conducevano al loro scopo. E’ ciò che noi chiamiamo la teologia redazionale. Una tale teologia è ermeneutica. La rivelazione è la persona di Gesù stesso e la sua opera redentrice. I vangeli le rendono testimonianza, ne conservano la memoria per iscritto e spiegano il significato degli avvenimenti per la comunità. In questo caso l’ispirazione ha una funzione di ermeneutica teologica oltre quella di conservare la memoria autentica della persona e l’opera di Gesù. Ma anche tra i vangeli c’è una differenza. La teologia si trova in tutti i quattro, ma è evidente che Giovanni ne contiene molto di più, ed è una teologia che non nasce con il vangelo ma che era già stata elaborata nella comunità, dotata di doni spirituali, che raggiungono il loro termine nell’ispirazione dell’autore e dei redattori del vangelo scritto.

Passiamo ad altri generi letterari. Il libro dei Proverbi è sapienziale. Troviamo alcuni di questi proverbi nella letteratura egiziana. L’ispirazione ne avrebbe guidato la scelta, ma il loro inserimento dentro la filosofia, o, meglio teologia di vita di Israele, come consta particolarmente dal c.8 dove la sapienza raggiunge uno stato quasi personale e servirà come base di una futura cristologia, eleva il libro intero dalla comune sapienza orientale e lo inserisce nella visione totale di una rivelazione al popolo eletto. E’ l’opera dell’ispirazione. Ma anche Giobbe e il Qohelet, con la loro ribellione alla "sapienza classica" illustrano un aspetto diverso della vita umana e della società, e del mistero in cui vive l’uomo. Certamente questi due libri lasciano molti interrogativi senza risposta, che verrà dal nuovo Testamento nella luce della croce di Cristo. Quindi la loro ispirazione deve essere misurata dal complesso della loro posizione canonica. La parte si spiega a partire dal tutto e il tutto dalle sue parti, come vuole il circolo ermeneutico. Il metodo del "canonical criticism" può contribuire molto anche al concetto di ispirazione.

I salmi appartengono a vari generi letterari e qui non è possibile esaminare il posto e il ruolo dell’ispirazione di ciascuno. Il problema maggiore è chi possa essere considerato come "l’autore" di ciascuno: cioè, l’Io del salmo è un individuo o Israele? In altre parole, una preghiera individuale non ispirata diventa ispirata una volta incorporata nella liturgia del tempio o vi è incorporata perché riconosciuta opera dello Spirito di Dio? l’Io individuale assurge dunque all’Io corporativo del popolo? Spesso è una questione di reinterpretazione di cui abbiamo parlato sopra, quindi l’ispirazione individuale deve essere conglobata nel processo della presenza formativa dello Spirito nella liturgia di Israele.

Più difficile è la valutazione dell’ispirazione nei primi tre libri della bibbia. I generi letterari variano dai racconti "mitici" dei primi undici capitoli della Genesi, attraverso i racconti folcloristici sui patriarchi, ai testi legislativi. Come già detto, la collezione di questi elementi avviene gradualmente fino alla composizione di libri interi. La scelta degli episodi narrati in quanto confacenti allo scopo ultimo dell’autore o redattore non assicura la loro "storicità" nel senso moderno della parola ma solo nel genere letterario della storiografia o del folclore dell’antichità. Il caso è più pressante quando miti medio orientali vengono ripresi e monoteizzati per essere inseriti nella teologia di Israele. Anche in questo caso la rivelazione offerta ai patriarchi viene testimoniata, memorizzata e interpretata dagli agiografi sotto l’influsso ermeneutico dell’ispirazione. In un saggio così breve non è possibile scendere in dettaglio sulla relazione che intercorre tra rivelazione, ispirazione e genere letterario, ed è evidente che c’è ancora molto da fare per gli studiosi in questo campo. Da ciò che abbiamo detto, però, risulterebbe che non possiamo parlare di gradi di ispirazione. Essendo la funzione dell’ispirazione quella di testimoniare, memorizzare e interpretare la rivelazione essa è la medesima in tutti i libri. Ma possiamo e dobbiamo parlare di qualità e quantità della rivelazione contenuta nei libri sacri e in ciascun genere letterario, che va dal mistero della SS. Trinità a miti o proverbi mutuati da altri popoli e inglobati per mezzo dell’ispirazione nel piano salvifico di cui sono protagonisti Israele e la Chiesa

Parrebbe che avendo raggiunto il completamento di un libro biblico la funzione dell’ispirazione sia terminata. Ma non è così. Lo Spirito che ha prodotto lo scritto, spesso attraverso un uomo inconsapevole di essere ispirato, deve adesso indicare alla comunità credente quali libri sono opera sua. Quindi la formazione del canone, anche se non può essere chiamata ispirazione nel senso sopra definito, è il prolungamento dell’azione divina connessa con i libri sacri. Ciò avviene quando lo Spirito presente e attivo nella comunità si riconosce in uno scritto prodotto da Se stesso. Anche in questo caso, però, lo dimostra attraverso un processo storico che coinvolge l’uomo, come era accaduto nella nascita del libro.

Poi bisogna che lo stesso Spirito che è autore della Sacra Scrittura aiuti ad interpretarla. Già l’ispirazione era l’interpretazione della rivelazione, adesso il processo ermeneutico, anch’esso prolungato attraverso la storia, deve captare la sostanza della rivelazione attraverso l’interpretazione del libro sacro. E anche in questo caso, come nel caso della formazione del canone, è la presenza dello Spirito nella Chiesa che la "ispira" a trovare il vero senso di ciò che, attraverso il testo, Egli vuole dirle in determinate circostanze storiche.

Per ricapitolare, l’ispirazione si deve studiare globalmente dentro un processo diversificato che, nell’ambito dell’opera dello Spirito in una comunità credente, si estende dalla maturazione di un agiografo fino alla composizione del suo libro, accompagna il testo nella sua crescita e reinterpretazione, viene riflessa nella recezione dentro il canone e prosegue nell’interpretazione della Chiesa. Ma nel senso stretto della parola ispirazione è la qualità di un testo sacro ricevuto come tale dalla Chiesa che lo riconosce come parola di Dio.

Ma se ciascun libro biblico è egualmente ispirato come si spiega che Paolo asserisce che la Legge non vale per la giustificazione, e Gesù contraddice certi precetti veterotestamentari nelle antitesi del sermone della montagna? E come possiamo accettare i "salmi di maledizione" (cf Sal 137) come ispirati? Questo ci riporta alla questione sulla verità della Sacra Scrittura e alla relazione tra rivelazione e ispirazione.

Né Gesù né Paolo hanno mai ripudiato il Pentateuco, anzi lo citavano con l’autorità di Mosè e di Dio stesso. Ma mentre Gesù afferma che era venuto per perfezionare la Legge (Matt 5,17) non per abolirla, e Paolo sostiene che la Legge è santa e il comandamento è sano e buono (Rom 7,13) essi riconoscono la limitatezza della rivelazione in essa contenuta. Implicitamente essi ricorrono alla synkatabasis (la "condiscendenza" cf. DV 13) di cui più tardi parlerà Giovanni Crisostomo. Gesù giustifica la concessione del divorzio nell’Antico Testamento con la "durezza del cuore" (Matt 19,8) e Paolo parla della debolezza della carne e della presenza del peccato in Rom 7. E’ solo la "Legge dello Spirito di vita" (Rom 8,2) che renderà l’uomo capace ad abbracciare la rivelazione completa in Cristo. Anche Giovanni parla del tempo in cui "non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato" (Giov 7, 37 - 39). Lo Spirito c’era sì in Israele come dono ai profeti per rivelare Dio, ma non ancora agli uomini per renderli capaci di elevarsi all’altezza dell’osservanza dovuta.

Il processo pedagogico della rivelazione, dunque, si adatta al grado di maturità dell’umanità prima della venuta di Cristo. Ma i libri biblici che attestano questa rivelazione nell’antica alleanza non sono meno ispirati di quelli del Nuovo Testamento. E’ la rivelazione che testimoniano che non ha ancora raggiunto la sua perfezione. Persino i carismi e le virtù dei cristiani, secondo Paolo (1Cor 13) sono ancora nello stato puerile in comparazione con lo stato perfetto del futuro escatologico.

Anche i salmi di maledizione che scandalizzano tanto i cristiani non sono mai stati cancellati dal NT, anzi, il Sal 109 viene citato da Pietro e applicato a Giuda in Atti 1,20, mentre il libro dell’Apocalisse non è meno severo contro i nemici. Nel caso dei salmi, però, bisogna tenere in mente che quando alcuni furono accettati nelle raccolte precanoniche si erano già distaccati dal loro possibile Sitz im Leben originario di grido di vendetta individuale per essere reinterpretati in un nuovo contesto nazionale e religioso minacciato dai nemici di Dio. E questo era un avvertimento ai lettori medesimi. Ma anche oggi, se il cristiano li legge con riferimento a nemici del regno di Dio si inseriscono bene in una visione apocalittica neotestamentaria della storia. E’ proprio questo che vogliamo dire con una visione globale nel contesto del "canonical criticism".

Per concludere, l’ispirazione è quell’aspetto della presenza rivelatrice di Dio in Israele e nella Chiesa che dà origine ai libri biblici che contengono la parola di Dio, il quale risulta come loro "autore". Essa non si limita all’influsso sull’autore umano dei testi ma si estende da questo alla loro continua reinterpretazione, alla conservazione del testo, alla loro raccolta e recezione canonica e prosegue nella loro Wirkungsgeschichte nella Chiesa. "Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capace di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera perché non parlerà da se, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà." (Giov 16,12-14). La rivelazione è completa in Gesù Cristo. Tutta la Scrittura gli rende testimonianza e lo conserva nella memoria della Chiesa. Ma lo Spirito parla ancora dalla bibbia. Essa non è soltanto ispirata ma anche ispirante in quanto offre risposte alle domande che sorgono inevitabilmente nello svolgimento della storia. Il testo scritto è più largo dell’intenzione dell’autore e contiene in se stesso delle possibilità che man mano vengono attualizzate nella storia della Chiesa. Nei nostri giorni si affacciano problemi come quelli sociali, l’ecologia, la pena di morte, il femminismo, l’ecumenismo e la relazione con le altre religioni, in riferimento alla Scrittura, la quale continuamente sprigiona nuovi impulsi per raffinare la coscienza cristiana e illuminare la comunità ecclesiale in contesti sempre nuovi. Non si tratta di nuove rivelazioni ma di un processo ermeneutico continuo, incarnato nelle vicende storiche. E’ questa la tradizione ecclesiale, che, essendo un prodotto dello Spirito, funge da interprete della Scrittura di cui condivide l’autorità.