I riflessi della Dichiarazione
“Dominus Iesus”sulla formazione e sulla missionarietà
del ministero pastorale del presbitero
Angelo Amato, SDB
Prima Lezione:
la
“Dominus Iesus e l’identità cattolica”
1. La missione evangelizzatrice della Chiesa in un mondo plurireligioso
La dichiarazione si apre con il richiamo al mandato missionario di Gesù ai discepoli: "Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato" (Mc 16,15-16); "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,18-20; cf. anche Lc 24,46-48; Gv 17,18; 20,21; At 1,8).
Subito dopo viene proclamato nella sua interezza il Credo niceno-costantinopolitano, che celebra la fede cristiana nel mistero di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, e nel mistero dell’incarnazione del Figlio, come evento di salvezza per tutta l’umanità.
La ragione di questo inizio oltremodo solenne e impegnativo – nonostante le garbate riserve, il Presidente del Consiglio delle chiese evangeliche di Germania, Manfred Kock, ha paragonato la Dominus Iesus alla Dichiarazione di Barmen, con la quale nel 1934 la Bekennende Kirche, ai suoi inizi, rifiutò il progetto dei cristiani tedeschi di produrre una sintesi fra ideologia nazista e cristianesimo - è dato sia dalla constatazione che l’impegno missionario della Chiesa, alla fine del secondo millennio cristiano, è ancora lontano dal suo compimento, sia soprattutto dalla necessità di ribadire quelle verità che, nella pratica e nell’approfondimento teorico del dialogo tra la fede cristiana e le altre tradizioni religiose, devono costituire il patrimonio inalienabile della fede della Chiesa.
Infatti, l’odierna teologia delle religioni, nel tentativo di discernere il significato e il valore salvifico delle altre religioni, percorre nuove piste di ricerca, avanza proposte e suggerisce comportamenti, che necessitano di accurato discernimento: "In questa ricerca la presente Dichiarazione interviene per richiamare ai Vescovi, ai teologi e a tutti i fedeli cattolici alcuni contenuti dottrinali imprescindibili, che possano aiutare la riflessione teologica a maturare soluzioni conformi al dato di fede e rispondenti alle urgenze culturali contemporanee" (DI n. 3).
Insomma la Dichiarazione non intende proporre soluzioni a questioni teologiche liberamente disputate. A proposito della presenza di altre esperienze religiose e del loro significato nel piano salvifico di Dio, la teologia è invitata a esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza. È tutta da approfondire anche la varia cooperazione della creatura all’unica mediazione di Cristo (cf. DI n. 14).
2. Presupposti problematici e affermazioni ambigue o erronee
Lo scopo della Dichiarazione è quello di riprendere e ribadire le verità che fanno parte del patrimonio di fede della Chiesa cattolica nei confronti di posizioni erronee o ambigue, che così vengono riassunte:
"
Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo" (DI n. 4).La Dichiarazione presenta i presupposti filosofico-teologici di tali affermazioni:
"Le radici di queste affermazioni sono da ricercarsi in alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata. Se ne possono segnalare alcuni: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità della verità divina, nemmeno da parte della rivelazione cristiana; l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale che si pone tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo di chi, considerando la ragione come unica fonte di conoscenza, diventa "incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere"; la difficoltà a comprendere e ad accogliere la presenza di eventi definitivi ed escatologici nella storia; lo svuotamento metafisico dell'evento dell'incarnazione storica del Logos eterno, ridotto a mero apparire di Dio nella storia; l'eclettismo di chi, nella ricerca teologica, assume idee derivate da differenti contesti filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica, né alla loro compatibilità con la verità cristiana; la tendenza, infine, a leggere e interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa".
In base a tali presupposti, che si presentano con sfumature diverse, talvolta come affermazioni e talvolta come ipotesi, vengono elaborate alcune proposte teologiche, in cui la rivelazione cristiana e il mistero di Gesù Cristo e della Chiesa perdono il loro carattere di verità assoluta e di universalità salvifica, o almeno si getta su di essi un'ombra di dubbio e di insicurezza" (DI n. 4).
3. La riflessione filosofica sulla verità
Che questo panorama non sia solo una impressione della Congregazione per la Dottrina della Fede, ma corrisponda alla realtà concreta viene confermato, tra l’altro, dalla critica avvertita di non pochi filosofi contemporanei, che reagiscono fondatamente alla considerazione relativistica della verità cristiana.
Cito, ad esempio, l’opera del fenomenologo francese, Michel Henry, C'est moi la Vérité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996. È una riflessione attenta sulla verità cristiana che si manifesta nel Logos incarnato e che si autogiustifica: "Questa Verità che da sola ha il potere di rivelare se stessa, è quella stessa di Dio [...]. Solo colui che è entrato in possesso di questa verità assoluta può, illuminato da essa, comprendere quanto viene detto nel vangelo e che non è nient'altro che questa verità assoluta che, rivelandosi a se stessa, si rivela anche a lui".
È di qualche mese fa un’ampia riflessione filosofico-teologica di Andrea Milano sullo stesso argomento: Quale Verità. Per una critica della ragione teologica, Edizioni Dehoniane, Bologna 1999. L'opera contiene una disamina stringata sul tema della verità "compresa in una franca e determinante prospettiva cristocentrica" (p. 8). La quaestio de veritate, cara alla tradizione teologica, viene rivisitata in un orizzonte, qual è quello odierno, oltremodo bisognoso di radicarsi sulla verità. Il sottotitolo avverte che si tratta di una sorta di "critica della ragione teologica", dal momento che la teologia, riflettendo sul suo intellectus fidei, trova la sua prima e ultima condizione di possibilità nel mistero dell'incarnazione del Verbo, riscoperto e riaffermato come "verità della verità".
Con schiettezza l'Autore così descrive un certo indirizzo metodologico contemporaneo:
"La teologia dei cristiani si svolge troppo spesso sulla base di presupposti ritenuti razionali e, quindi, stimati di per sé costitutivamente validi. Non ci si rende conto che, in realtà, questi presupposti sono e restano fondamentalmente pre-cristiani: in ogni caso non sono per nulla cristologicamente vagliati. I grandi decisivi concetti di essere, uno, bene, ma anche quelli di infinito, spirito, trascendentale, valore, storia, liberazione e persino lo stesso concetto di verità vengono di volta in volta prelevati e messi in cantiere dai teologi, senza che siano sottoposti a un metodico processo di verifica determinato essenzialmente dalla rivelazione che è Gesù Cristo.
Non si è neppure sfiorati dal dubbio che la pretesa di verità incondizionata avanzata da lui sia tale da sconvolgere e disintegrare tutti i concetti che prescindano da lui e non siano sottomessi alla sua signoria. La conseguenza è, nel migliore dei casi, un difetto di transustanziazione dell'intelligenza e, nel peggiore, un eccesso di soggezione della fede al sapere ritenuto in quel momento vittorioso ed egemone".
Se la teologia – avverte Milano - deve qualificarsi come cristiana, essa nel suo discorso non può rinunciare all'analogia Christi e a Cristo come persona veritatis. Lutero aveva colto nel segno quando, non senza una certa esasperazione, affermava: "Extra Jesum quaerere deum est diabolus".
Vengono, quindi, messi in discussione metodi teologici troppo sbilanciati verso il soggetto, con la conseguente trascuratezza dell'oggetto - e cioè dell'automanifestazione e dell'autodedizione di Dio fatta carne "in" Gesù Cristo -, dando così vita a un fare teologia "juxta aliena principia".
L' Autore quindi ribadisce la concentrazione cristologica, e cioè la reductio theologiae in Christum: se Gesù Cristo è all'inizio, al centro e alla fine della creazione, della storia salvifica e della trasfigurazione finale di tutte le cose, ciò significa che ogni tema e ogni capitolo della teologia deve partire da Cristo e condurre a lui e al suo mistero pasquale, chiave universale del disvelamento veritativo di ogni cosa.
La concentrazione cristologica della verità è quindi un imprescindibile dato di fede e un compito teologico inoppugnabile; l'analogia Christi è inoltre l’adeguata possibilità del discorso su Dio; la Chiesa è l’orizzonte della comprensione pneumatica della verità nella storia.
La concentrazione cristologica della verità non è quindi un intralcio ingombrante al dialogo interreligioso, ma il suo punto di partenza. Cristo è la verità in persona e la verità della verità, la verità che si disvela e si dispiega come agape.
4. La sfida del pluralismo religioso
La considerazione debole della verità, vista non nella sua pienezza e assolutezza cristologica, ma nella relatività della comprensione umana, costituisce uno dei tanti elementi della considerazione pluralistica della fede cristiana. Antesignani nel recente passato della considerazione relativistica del cristianesimo sono considerati John Hick e Paul Knitter, che parlano rispettivamente del "mito del Dio incarnato" o del "mito dell'unicità cristiana".
Si tratta di due dei più tipici rappresentanti della teologia pluralistica delle religioni, seguiti con più o meno acume critico da una schiera innumerevole di discepoli. Per essi Gesù sarebbe uno dei tanti salvatori religiosi, per cui tutte le religioni sarebbero ugualmente valide. Afferma, ad esempio, Paul Knitter: "Più concretamente e scomodamente, può darsi che il buddismo e l'induismo siano tanto importanti per la storia della salvezza quanto lo è il cristianesimo, oppure che altri rivelatori e salvatori siano tanto importanti quanto Gesù di Nazaret".
Si abbandona cioè il mistero della Pentecoste e ci si ispira al mito di Babele. Nell'introduzione alla sua opera in collaborazione, Paul Knitter spiega il significato da lui chiamato "mitico" dell’unicità cristiana: unicità senza alcuna pretesa di assolutezza o di superiorità nei confronti delle altre religioni. Per questo si dovrebbe superare sia la posizione esclusivista – come quella di Karl Barth che considera le altre religioni come idolatriche - sia quella inclusivista – come la posizione del Concilio Vaticano II e della Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II - e spostarsi invece verso un modello pluralistico.
Questo spostamento (paradigm shift) rappresenterebbe il passaggio di un "Rubicone teologico". Questo passaggio, e cioè il portarsi dalle rive dell'esclusivismo e dell'inclusivismo verso la riva del pluralismo assoluto, implica il superamento di tre "ponti teologici": 1) l'accettazione piena del relativismo, come constatazione della inesistenza di una verità assoluta; 2) l'ammissione del pluralismo, come unica possibilità per esprimere il mistero ineffabile di Dio; 3) l'urgenza di promuovere la giustizia mediante un movimento di liberazione mondiale in cui Cristo, Budda, Krishna o Maometto non competono, ma si completano a vicenda.
La prospettiva di questo modello pluralistico non è né ecclesiocentrica, né cristocentrica, né trinitaria ma genericamente "teocentrica", con un riferimento più o meno diretto a un assoluto sacrale. La salvezza, cioè, verrebbe da "Dio", non dal Dio rivelato dal cristianesimo, ma da un Dio ineffabile o da un "mistero santo", presente in modi diversi in ogni religione. Gesù Cristo scompare dall'orizzonte come salvatore universale: sarebbe semplicemente un mediatore relativo o addirittura facoltativo di salvezza.
In questa linea si colloca, ad esempio, S.J. Samartha, primo direttore del "Dialogue Program" del Consiglio Mondiale delle Chiese a Ginevra, il quale propone per l’India e per l’Asia una profonda revisione della cristologia cristiana: "Che Gesù sia il Cristo di Dio è confessione di fede della comunità cristiana. Ciò rimane veramente normativo per i cristiani dovunque; ma farne un evento "assolutamente singolare" e ritenere che il significato del Mistero sia rivelato solo in una particolare persona, in un posto particolare e in nessun altro luogo, significa ignorare i vicini di altre confessioni, che hanno altri punti di riferimento. Fare affermazioni esclusive sulla nostra tradizione particolare non è il modo migliore di amare i nostri vicini come noi stessi". Questa cristologia "rivista" dovrebbe accantonare l'universalità dell'evento Cristo, considerata infondata. L'originalità del cristianesimo non risiederebbe nell'affermare che Gesù Cristo è Dio: "Elevare Gesù allo stato di Dio o limitare Cristo a Gesù di Nazaret sono entrambe tentazioni da evitare. La prima corre il rischio di una "Gesuologia" impoverita, e la seconda di diventare uno stretto "Cristomonismo". Una cristologia teocentrica evita questi pericoli e aiuta maggiormente a stabilire nuove relazioni con vicini di altre fedi".
Anche per M. Thomas Thangaraj, la pretesa dell'assolutezza salvifica di Gesù sarebbe inappropriata se intesa in modo universale. Sarebbe accettabile solo se si precisasse che "Cristo è unico e assoluto solo per i cristiani". Per questo, applicando a Gesù il titolo di guru (maestro), egli rileva che "Gesù dovrà essere considerato come uno dei tanti guru e non come l'unico e il solo guru". In questi e in altri autori il presupposto è la convinzione che le varie tradizioni religiose non cristiane nella loro ricca pluriformità sarebbero paritetiche e complementari e farebbero tutte ugualmente parte del disegno salvifico di Dio nei confronti dell'umanità. In tal modo si vuole superare l'affermazione dell'esclusiva unicità salvifica dell'evento Cristo, che appare come una mancanza di rispetto nei confronti dell'esperienza dei devoti di altre religioni, che vivono venerando altri salvatori.
5. La risposta "dimenticata" della "Redemptoris missio" (1990)
Una risposta tempestiva a queste problematiche, già sostanzialmente presenti negli anni '80 nella riflessione teologica soprattutto in lingua inglese, fu data nel 1990 dall'enciclica - fondamentalmente cristologica e dogmatica, oltre che missionaria - Redemptoris missio di Giovanni Paolo II. In essa ci sono tre importanti affermazioni cristologiche: 1. Gesù Cristo è l'unico salvatore dell'umanità (RMi n. 4-11); 2. esiste una indissolubile unità personale tra il Verbo eterno e il Gesù storico (RMi n. 6); 3. il regno di Dio si identifica con la persona stessa di Gesù Cristo (RMi n. 12-20).
Per motivare la fede in Gesù Cristo "Unico Salvatore" dell'intera umanità (cf. RMi n. 4-11), il Papa ripropone la prima predicazione apostolica di Pietro (cf. At 4,12) e di Paolo (cf. 1Cor 8,5-6; 1Tm 2,5-6). Citando anche l'apostolo Giovanni (Gv 3,16-17), così conclude: "Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall'essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari" (RMi n. 5).
Questo importante pronunciamento magisteriale è stato disatteso nelle sue affermazioni dottrinali probabilmente per due motivi: per la sua tempestività, dal momento che nella teologia occidentale non si riuscì subito a cogliere la portata deleteria delle tesi pluralistiche; per la sua indole missionaria, per cui l’enciclica fu accolta, letta e interpretata nei suoi risvolti propriamente missiologici, pastorali e spirituali più che dottrinali.
Anche il documento della Commissione Teologica Internazionale "Il Cristianesimo e le religioni" (1997), che, riprendendo l’insegnamento pontificio, offriva un ampio e corretto quadro di riferimento per chiarire il rapporto salvifico del mistero di Cristo e della Chiesa nei confronti delle altre religioni non ha avuto maggior fortuna. La conseguenza è stata un diffondersi a tutti i livelli, dottrinali e pastorali, di teorie e di atteggiamenti decisamente relativistici e pluralistici.
Aggiungiamo anche che, tenendo conto della particolare situazione teologica dell’Asia, a novembre del 1999, nella esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Asia, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha posto un enfasi particolare proprio sull’unicità e sull’universalità salvifica del mistero di Cristo, affermando:
"Dal primo istante del tempo sino all’ultimo, Gesù è il solo Mediatore universale. Anche per quanti non professano esplicitamente la fede in lui quale Salvatore, la salvezza giunge da lui come grazia, mediante la comunicazione dello Spirito Santo. Noi crediamo che Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è l’unico Salvatore, poiché soltanto lui – il Figlio – ha portato a compimento il piano universale della salvezza" (n. 14).
6. La dottrina cristologica: Gesù Cristo salvatore unico e universale
È questo l’ampio e spesso confuso orizzonte in cui inserire la Dichiarazione, che, da un punto di vista cristologico, intende ribadire tre elementi dottrinali importanti della fede cristiana:
1. la pienezza e la definitività della rivelazione di Gesù (n. 5-8);
2. l’unità dell’economia salvifica del Verbo incarnato e dello Spirito Santo (n. 9-12);
3. l’unicità e l’universalità del mistero salvifico di Gesù Cristo (n. 13-16).
1. La riaffermazione della pienezza e della definitività della rivelazione cristiana intende opporsi alla tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo, considerata come complementare a quella presente nelle altre religioni. Il fondamento di questa asserzione erronea sarebbe il fatto che la piena e completa verità su Dio non potrebbe essere monopolio di nessuna religione storica. Nemmeno il Cristianesimo, quindi, potrebbe adeguatamente esprimere tutto intero il mistero di Dio.
Questa posizione viene respinta come contraria alla fede della Chiesa. Gesù, in quanto Verbo del Padre, è "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6). Ed è lui a rivelare la pienezza del mistero di Dio: "Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,18). Giustamente la Dichiarazione rileva che la fonte della pienezza, della completezza e della universalità della rivelazione cristiana è la persona divina del Verbo incarnato: "La verità su Dio non viene abolita o ridotta perché è detta in linguaggio umano. Essa, invece, resta unica, piena e completa perché chi parla e agisce è il Figlio di Dio incarnato" (n. 6). Di conseguenza la rivelazione cristiana compie ogni altra rivelazione salvifica di Dio all’umanità.
In questo contesto, la Dichiarazione propone due chiarimenti. Anzitutto la distinzione tra la fede teologale e la credenza. Alla verità della rivelazione cristiana si risponde con l’obbedienza della fede, virtù teologale che implica un assenso libero e personale a tutta la verità che Dio ha rivelato. Se la fede è accoglienza della verità rivelata da Dio Uno e Trino, la credenza è invece esperienza religiosa ancora alla ricerca della verità assoluta e quindi priva dell’assenso a Dio che si rivela (n. 7).
Un secondo chiarimento riguarda l’ipotesi circa il valore ispirato dei testi sacri di altre religioni. A questo proposito si ribadisce che la tradizione della Chiesa riserva la qualifica di testi ispirati solo ai libri canonici dell’Antico e del Nuovo Testamento, in quanto ispirati dallo Spirito Santo (n. 8). La Chiesa, comunque, riconosce e apprezza le ricchezze spirituali dei popoli, pur unite a lacune, insufficienze ed errori. Di conseguenza "i libri sacri di altre religioni, che di fatto alimentano e guidano l’esistenza dei loro seguaci, ricevono dal mistero di Cristo quegli elementi di bontà e di grazia in essi presenti" (n. 8). Del resto, anche le opere classiche della teologia e della spiritualità cristiana, pur contenendo straordinari raggi di verità e di sapienza divina, non per questo vengono chiamati ispirati. A tale proposito, un richiamo implicito della Dichiarazione potrebbe essere quello di riscoprire, stimolati dalla conoscenza dei libri sacri delle altre religioni, le incomparabili ricchezze della letteratura cristiana orientale e occidentale e le sue molteplici e meravigliose attuazioni liturgiche e spirituali
2. Per quanto riguarda l’unità dell’economia salvifica del Verbo la Dichiarazione intende contrastare tre tesi che, per fondare teologicamente il pluralismo religioso, cercano di relativizzare e sminuire l’originalità del mistero di Cristo.
Una prima considera Gesù di Nazaret, come una delle tante incarnazioni storico-salvifiche del Verbo eterno, rivelatrice del divino in misura non esclusiva, ma complementare ad altre figure storiche. Contro tale tesi, si ribadisce l’unità tra il Verbo eterno e Gesù di Nazaret. Solo Gesù è il Figlio e il Verbo del Padre. È quindi contrario alla fede cristiana introdurre una qualsiasi separazione tra il Verbo e Gesù Cristo: Gesù è il Verbo incarnato, persona una e indivisibile, fattosi uomo per la salvezza di tutti (n. 10).
Una seconda tesi erronea, derivata dalla prima, pone una distinzione all’interno dell’economia del mistero del Verbo. Per cui si avrebbe una duplice economia salvifica, quella del Verbo eterno distinta da quella del Verbo incarnato: "La prima avrebbe un plusvalore di universalità rispetto alla seconda, limitata ai soli cristiani, anche se in essa la presenza di Dio sarebbe più piena" (n. 9). La Dichiarazione rifiuta questa distinzione e riafferma la fede della Chiesa nell’unicità dell’economia salvifica voluta da Dio Uno e Trino, "alla cui fonte e al cui centro c’è il mistero dell’incarnazione del Verbo, mediatore della grazia divina sul piano della creazione e della redenzione" (n. 11). Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è l’unico mediatore e redentore di tutta l’umanità: se ci sono elementi di salvezza e di grazia fuori del cristianesimo, essi trovano la loro fonte e il loro centro nel mistero dell’incarnazione del Verbo.
Una terza tesi erronea separa invece l’economia dello Spirito Santo da quella del Verbo incarnato: la prima avrebbe un carattere più universale della seconda. La Dichiarazione rifiuta anche questa ipotesi come contraria alla fede cattolica. L’incarnazione del Verbo è infatti un evento salvifico trinitario: "il mistero di Gesù, Verbo incarnato, costituisce il luogo della presenza dello Spirito Santo e il principio della sua effusione all’umanità non solo nei tempi messianici, ma anche in quelli antecedenti alla sua venuta nella storia" (n. 12). Il mistero di Cristo è intimamente connesso con quello dello Spirito Santo, per cui l’azione salvifica di Gesù Cristo, con e per il suo Spirito, si estende oltre i confini visibili della Chiesa a tutta l’umanità. C’è un’unica economia divina trinitaria che si estende all’umanità intera, per cui "gli uomini non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito" (n. 12).
3. Infine, contro la tesi che nega l’unicità e l’universalità salvifica del mistero di Cristo, la Dichiarazione ribadisce che "deve essere fermamente creduta, come dato perenne della fede della Chiesa, la verità di Gesù Cristo, Figlio di Dio, Signore e unico salvatore, che nel suo evento di incarnazione morte e risurrezione ha portato a compimento la storia della salvezza, che ha in lui la sua pienezza e il suo centro" (n. 13). Raccogliendo i numerosi dati biblici e magisteriali, si dichiara che "la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio" (n. 14).
In questo contesto, alle proposte di evitare in teologia termini come unicità, universalità e assolutezza, che porrebbero un’enfasi eccessiva sul significato e sul valore dell’evento salvifico di Gesù, la Dichiarazione risponde precisando che tale linguaggio intende rimanere fedele al dato rivelato. L’uso di questi termini è assertivo. La Chiesa, cioè, fin dall’inizio ha creduto in Gesù Cristo, Figlio unigenito del Padre, che con la sua incarnazione ha donato all’umanità la verità della rivelazione e la sua vita divina (n. 15).
7. La dottrina ecclesiologica: l’esistenza dell’unica Chiesa
In continuazione con le affermazioni cristologiche e in stretta connessione con esse, la Dichiarazione dedica altri tre capitoli alla enunciazione della dottrina ecclesiologica, ribadendo tre aspetti essenziali del mistero della Chiesa:
1. la sua unicità e unità (n. 16-17);
2. la sua relazione stretta con il mistero del Regno (n. 18-19);
3. il suo rapporto con le altre religioni in relazione alla salvezza (n. 20-22).
1. In corrispondenza con l’unicità e l’universalità del mistero salvifico di Cristo, viene affermata anzitutto l’esistenza di un’unica Chiesa: "deve essere fermamente creduta come verità di fede cattolica l’unicità della Chiesa da lui fondata. Così come c’è un solo Cristo, esiste un solo suo corpo, una sola sua Sposa: una sola Chiesa cattolica e apostolica" (n. 16).
Riprendendo una famosa affermazione conciliare (cf. Lumen gentium n. 8), la Dichiarazione precisa subito che i fedeli sono tenuti a professare che l’unica Chiesa di Cristo "sussiste [subsistit in] nella Chiesa Cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui" (n. 16). C’è quindi continuità storica, radicata nella successione apostolica, tra la Chiesa fondata da Gesù e la Chiesa Cattolica. Il "subsistit in" indica una duplice realtà: anzitutto la permanenza nella storia, nonostante le divisioni, dell’unica Chiesa di Cristo in tutta la sua pienezza nella Chiesa Cattolica; in secondo luogo, tale pienezza non esclude l’esistenza, al di fuori di essa, di elementi di santificazione e di verità, il cui valore deriva dalla pienezza di grazia e di verità propria della Chiesa Cattolica.
In questo contesto si fanno due precisazioni. La prima riguarda quelle Chiese, divise dalla Chiesa Cattolica, ma che restano ad essa unite per mezzo della successione apostolica e della valida eucaristia: queste Chiese – ad esempio quelle ortodosse - sono vere Chiese particolari. Anche in queste Chiese è presente e operante la Chiesa di Cristo, pur mancando in esse la piena comunione con la Chiesa Cattolica, dal momento che non accettano la dottrina cattolica del Primato del Vescovo di Roma.
La seconda precisazione riguarda quelle comunità ecclesiali che non hanno conservato l’episcopato valido e l’eucaristia. Tali comunità non possono considerarsi chiese in senso proprio: "tuttavia i battezzati in queste comunità sono dal battesimo incorporati a Cristo e, perciò, sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa" (n. 17).
2. Per quanto riguarda la relazione tra Chiesa e Regno di Dio e di Cristo la Dichiarazione afferma che la Chiesa è il regno di Cristo già presente "in germe e in inizio" nella storia, anche se il suo compimento e la sua piena realizzazione avverrà soltanto alla fine dei tempi (n. 18). Questa affermazione si oppone a quelle tesi che vorrebbero negare o svuotare l’intima connessione tra Cristo, il Regno e la Chiesa. Ci si riferisce qui a quelle posizioni cosiddette "regnocentriche", che riducono il Regno a semplici progetti umanitari e socio-economici. Invece, il Regno, di cui la Chiesa si fa annunciatrice e portatrice nella storia, porta una liberazione globale da ogni tipo di male. Tale Regno non può essere mai disgiunto dall’annuncio del mistero salvifico di Cristo e della sua Chiesa. Una "Chiesa per gli altri" non può essere disgiunta dal "Cristo per gli altri" e quest’ultimo non può essere ridotto a semplice testimone della bontà di Dio. Il mistero della redenzione di Cristo è l’attuazione nella storia del Regno di Dio in tutta la sua pienezza e ampiezza. Per cui sono contrarie alla fede cattolica quelle posizioni che "negano l’unicità del rapporto che Cristo e la Chiesa hanno con il Regno di Dio" (DI n. 19).
3. In corrispondenza con l’universalità salvifica del mistero di Cristo, la Dichiarazione ribadisce la necessità della Chiesa per la salvezza dell’umanità. Nel disegno di Dio, la Chiesa, in quanto "sacramento universale di salvezza" (LG n. 48) e in quanto intimamente unita a Cristo suo capo, ha un’imprescindibile relazione con la salvezza di ogni uomo.
A proposito delle concrete modalità di attuazione di questo influsso salvifico, la Dichiarazione afferma: "Circa il modo in cui la grazia salvifica di Dio, che è sempre donata per mezzo di Cristo nello Spirito ed ha un misterioso rapporto con la Chiesa, il Concilio Vaticano II si limitò ad affermare che Dio la dona "attraverso vie a lui note"" (DI n. 21). Tuttavia, è contraria alla fede cattolica considerare la Chiesa come una via di salvezza accanto ad altre, costituite dalle altre religioni, le quali quindi sarebbero complementari alla Chiesa o sostanzialmente equivalenti ad essa. Contro una mentalità relativistica che appiattisce l’originalità della fede cristiana, la Dichiarazione riafferma la Chiesa come strumento di salvezza per tutta l’umanità: "Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici" (DI n. 22).
Per questo anche nel dialogo interreligioso conserva tutta la sua pienezza la missio ad gentes, che non è prevaricazione assolutistica e fondamentalistica, ma rispetto della verità del mistero salvifico di Cristo e obbedienza al suo comando di annunciare e di testimoniare il vangelo a tutte le creature (Mt 28,19-20). La parità, come indispensabile presupposto del dialogo, riguarda la pari dignità personale degli interlocutori e non i contenuti. Il cristiano in dialogo non può nascondere o tacere la verità della sua fede fondata sul mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato.
8. Consacrati nella verità: l’identità riaffermata
Come si vede, la Dichiarazione non dice cose nuove. Tutto è infatti ripreso dal magistero conciliare e postconciliare della Chiesa. Riafferma, però, con un linguaggio chiaro e preciso, alcuni elementi dottrinali centrali dell’identità cattolica, spesso smarriti o negati da tesi ambigue o erronee. La ricerca teologica non viene fermata; essa resta aperta ed "è invitata ad esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza" (DI n. 14). Il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso devono proseguire la loro strada e "maturare soluzioni conformi al dato di fede e rispondenti alle urgenze culturali contemporanee" (DI n. 3). La Dichiarazione ha inteso chiudere solo quelle strade che portano a vicoli ciechi.
Non si può dubitare, quindi, dell’utilità teologica e pastorale di un tale documento, che offre ai fedeli una indispensabile griglia di lettura e di valutazione critica sia degli atteggiamenti sia delle pubblicazioni che oggi affollano il mercato della teologia delle religioni. Alla luce della identità si possono individuare e respingere ipotesi e anche progetti pastorali avventurosi, che potrebbero snaturare la fede cristiana.
Dato l’odierno clima di relativismo religioso e spesso anche di rigetto delle principali verità della nostra fede, quali l’incarnazione e il mistero di Dio Trinità, la riaffermazione autoritativa dell’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa offre al fedele una luce sicura nel suo cammino di fedeltà e di testimonianza al vangelo. La Dichiarazione, infatti, termina con il richiamo alla rivelazione di Cristo come vera stella di orientamento dell’intera umanità: "La Verità, che è Cristo, si impone come autorità universale. Il mistero cristiano, infatti, supera ogni barriera di tempo e di spazio e realizza l’unità della famiglia umana" (DI n. 23).
In tal modo la Dichiarazione disincaglia il dialogo interreligioso dal pericolo di una religiosità universale indifferenziata, con un minimo comune denominatore, e lo riporta invece sulla via della verità, nella carità, nella libertà e nel rispetto della propria e dell’altrui identità: "La Chiesa, infatti, guidata dalla carità e dal rispetto della libertà, dev’essere impegnata primariamente ad annunciare a tutti gli uomini la verità, definitivamente rivelata dal Signore, e a proclamare la necessità della conversione a Gesù Cristo e dell’adesione alla Chiesa attraverso il Battesimo e gli altri sacramenti, per partecipare in modo pieno alla comunione con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo" (DI n. 22).
Il dialogo interreligioso non è una trattativa diplomatica, né una imposizione forzata di determinate concezioni religiose, né un depotenziamento o uno svilimento della realtà cristiana. Il Cristianesimo senza il mistero dell’Incarnazione e senza il mistero salvifico della Chiesa perderebbe il suo vero volto. E il dialogo interreligioso perderebbe il suo elemento qualificante: la vera identità degli interlocutori.
A ragione San Giovanni della Croce così ribatteva a chi voleva trovare verità salvifiche al di fuori della rivelazione di Gesù:
"Invero il Signore gli potrebbe rispondere in questo modo: Se io ti ho detto tutta la verità nella mia parola, cioè nel mio Figlio, e non ho altro da manifestarti, come ti posso rispondere o rivelare qualche altra cosa? Fissa gli occhi su Lui solo, nel quale ti ho detto e rivelato tutto, e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri [...]. Dal giorno in cui sul Tabor discesi con il mio Spirito su di Lui dicendo [...] Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo, cessai di istruire e rispondere in queste maniere e commisi tutto a Lui: ascoltatelo perché ormai non ho più materia di fede da rivelare e verità da manifestare".
È quanto affermò il Concilio Vaticano II nella dichiarazione sulla libertà religiosa:
"Noi crediamo che questa unica vera religione sussiste ("subsistere credimus") nella chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il compito di diffonderla a tutti gli uomini, dicendo agli apostoli: "Andate dunque, ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,19-20). E tutti quanti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua chiesa e, una volta conosciuta, ad abbracciarla e custodirla".
Fu questa la preghiera di Gesù al Padre a favore dei suoi discepoli:
"Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità" (Gv 17,19).
9. La vita in Cristo, primo compito della catechesi contemporanea
La Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede interpella in modo determinante la catechesi ecclesiale, soprattutto nel suo fondamentale compito di far maturare la fede in Cristo. In questo è in linea perfetta con il nuovo Direttorio Generale della Catechesi (1997), che presenta la catechesi ecclesiale non solo come una trasmissione di nozioni, quanto soprattutto come esperienza di comunione con Gesù: "Lo scopo definitivo della catechesi è di mettere qualcuno non solo in contatto, ma in comunione, in intimità con Gesù Cristo" (DGC n. 80). E continua: "Tutta l'azione evangelizzatrice è intesa a favorire la comunione con Gesù Cristo. A partire dalla conversione "iniziale" di una persona al Signore, suscitata dallo Spirito Santo mediante il primo annuncio, la catechesi si propone di dare un fondamento e far maturare questa prima adesione. Si tratta, allora, di aiutare colui che si è appena convertito a "... conoscere meglio questo Gesù, al quale si è abbandonato: conoscere il suo "mistero", il regno di Dio che egli annuncia, le esigenze e le promesse contenute nel suo messaggio evangelico, le vie che egli ha tracciato per chiunque lo voglia seguire". Il Battesimo, sacramento mediante il quale "siamo resi conformi a Cristo", sostiene con la sua grazia quest'opera della catechesi" (DGC n. 80).
Si tratta di una vera e propria esperienza spirituale: "La comunione con Gesù Cristo, per la sua stessa dinamica, spinge il discepolo a unirsi con tutto ciò con cui lo stesso Gesù Cristo era profondamente unito: con Dio, suo Padre, che lo aveva inviato nel mondo, e con lo Spirito Santo, che gli dava l'impulso per la missione; con la Chiesa, suo corpo, per la quale si donò, e con gli uomini, suoi fratelli, la cui sorte ha voluto condividere" (DGC n. 81).
Il Direttorio riassume poi i sei compiti fondamentali di questa catechesi, sostanzialmente cristologico-trinitaria.
Essa anzitutto deve favorire la conoscenza delle verità della fede: "La catechesi deve condurre [...] a "comprendere progressivamente tutta la verità del progetto divino", introducendo i discepoli di Gesù Cristo nella conoscenza della Tradizione e della Scrittura, la quale è la "scienza sublime di Cristo" (Fil 3,8)" (DGC n. 85).
Deve poi educare alla celebrazione liturgica: "La comunione con Gesù Cristo conduce a celebrare la sua presenza salvifica nei sacramenti e, particolarmente, nella Eucaristia" (ib.).
La catechesi deve inoltre far maturare e rafforzare gli abiti virtuosi del battezzato mediante una coerente e illuminata formazione morale: "La catechesi deve, pertanto, trasmettere ai discepoli gli atteggiamenti propri del Maestro. Questi intraprendono così un cammino di trasformazione interiore, nel quale, partecipando al mistero pasquale del Signore, "passano dall'uomo vecchio all'uomo nuovo in Cristo". Il Discorso della Montagna, nel quale Gesù riprende il decalogo e gli imprime lo spirito delle beatitudini, è un riferimento indispensabile nella formazione morale, oggi tanto necessaria" (ib.).
La catechesi deve promuovere l'educazione alla preghiera: "La comunione con Gesù Cristo conduce i discepoli ad assumere l'atteggiamento orante e contemplativo che ebbe il Maestro. Imparare a pregare con Gesù è pregare con i medesimi sentimenti con i quali Egli si rivolgeva al Padre: l'adorazione, la lode, il ringraziamento, la confidenza filiale, la supplica, l'ammirazione per la sua gloria" (DGC n. 85). Si ricupera qui l'aspetto contemplativo dell'essere cristiani, che comporta formazione continua ed esperienza di fede radicale in Dio e nella sua presenza provvidente nella nostra esistenza e nella storia dell'umanità. È un richiamo imprescindibile a una catechesi attenta a questa dimensione orante, che tanto affascina l'uomo contemporaneo in cerca di interiorità, di silenzio, di armonia con la natura, di contatto mistico con l'Assoluto.
Oltre alla riproposizione di queste finalità classiche - si vedano, ad esempio, le quattro parti in cui è suddiviso il Catechismo della Chiesa Cattolica - il Direttorio avanza altre due finalità di innegabile rilevanza per l'identità cristiana oggi: l'educazione alla vita comunitaria e alla missione.
La catechesi, infatti, deve educare alla vita comunitaria, sull'esempio di Gesù: "La vita cristiana in comunità non s'improvvisa e bisogna educare ad essa con cura. Per questo apprendimento, l'insegnamento di Gesù sulla vita comunitaria, riportato dal Vangelo di Matteo, richiede alcuni atteggiamenti che la catechesi dovrà favorire: lo spirito di semplicità e di umiltà [...], la sollecitudine per i più piccoli [...], l'attenzione speciale verso coloro che si sono allontanati [...], la correzione fraterna [...], la preghiera in comune [...], il mutuo perdono [...]. L'amore fraterno unifica tutti questi atteggiamenti [...]" (DGC n. 86).
La catechesi, infine, deve iniziare alla missione: "Gli atteggiamenti evangelici che Gesù suggerì ai suoi discepoli, quando li iniziò alla missione, sono quelli che la catechesi deve alimentare: andare in cerca della pecora smarrita; annunziare e sanare nello stesso tempo; presentarsi poveri, senza oro né bisaccia; saper assumere il rifiuto e la persecuzione; porre la propria fiducia nel Padre e nel sostegno dello Spirito Santo; non attendersi altro premio che la gioia di lavorare per il Regno" (DGC n. 86).
I quattro grandi capitoli di ogni catechesi - conoscere, celebrare, agire, pregare - vengono così completati dall'esperienza della comunione e dell'impegno apostolico. Questi ultimi due compiti non sono appendici ma apporti sostanziali a quella verifica esistenziale della conversione continua a Gesù, vissuta nella condivisione ecclesiale e nella testimonianza apostolica.
Una catechesi completa e aggiornata può far fronte senza difficoltà e con profitto sia alla sfida delle altre religioni sia al conseguente impegno del dialogo ecumenico e interreligioso.
Vorrei concludere con due citazioni. La prima di San Paolo:
"Temo però che, come il serpente nella sua malizia sedusse Eva, così i vostri pensieri vengano in qualche modo traviati dalla loro semplicità e purezza nei riguardi di Cristo. Se infatti il primo venuto vi predica un Gesù diverso da quello che vi abbiamo predicato noi o se si tratta di ricevere uno spirito diverso da quello che avete ricevuto o un altro vangelo che non avete ancora sentito, voi siete ben disposti ad accettarlo. Ora io ritengo di non essere in nulla inferiore a questi "superapostoli"! E se anche sono un profano nell'arte del parlare, non lo sono però nella dottrina, come vi abbiamo dimostrato in tutto e per tutto davanti a tutti" (2Cor 11,3-6).
La seconda citazione viene presa dal "Grande Catechismo" di Martin Lutero (1529), il quale, commentando il terzo articolo del Credo, sulla Chiesa, scriveva: "Là dove, infatti, non si predica Cristo, non v’è alcuno Spirito santo che crea, chiama e raccoglie la chiesa, al di fuori della quale nessuno può venire a Cristo Signore".
Seconda Lezione:
la
“Dominus Iesus e la recezione del Magistero
1. La "Dominus Iesus", come evento di comunicazione
Sin dalle prime ore della sua pubblicazione, avvenuta il 5 settembre 2000, la Dichiarazione Dominus Iesus (= DI) della Congregazione per la Dottrina della fede ha suscitato reazioni immediate e, per la maggior parte dei casi, polemiche. Il Cardinale Cahal B. Daly, arcivescovo emerito di Armagh (Irlanda), ha descritto bene il meccanismo dell’odierna comunicazione sociale, che è, sì, immediata, ma, come in questo caso, cieca e poco veritiera.
Di fronte a un documento teologico denso e articolato, i mezzi di comunicazione sociale non hanno centrato il suo nucleo, ma hanno posto l’accento su poche affermazioni e tematiche ecumeniche, ritenute di sicuro impatto polemico. Senza offrire al lettore l’intero contenuto della DI, i lanci di agenzia e i primi articoli della stampa internazionale hanno presentato la Dichiarazione con toni allarmati circa la fine del dialogo interreligioso ed ecumenico, usando i soliti stereotipi linguistici di "chiusura", di "ritorno alla teologia preconciliare", di "antiecumenismo". Un esempio può essere il titolo, del tutto falso, del quotidiano, The Los Angeles Times, del 6 settembre 2000, che diceva: "Il Vaticano dichiara il cattolicesimo sola via di salvezza". Non molto diversi erano i titoli degli altri giornali. Forse la sintesi peggiore e quella meno informata sulla DI apparve su The Boston Globe (9 settembre 2000), a firma del giornalista cattolico Paul Wilkes, il quale affermava che la DI non soltanto declassava i protestanti, ma negava loro il regno dei cieli, indipendentemente dalle loro buone intenzioni e dalla loro retta vita.
Sono solo alcuni esempi di stravolgimento e di falsificazione del contenuto del documento, che hanno influito enormemente sulla sua recezione. Geoffrey Wainwright, presidente del comitato ecumenico del "World Methodist Council", racconta che, non appena ebbe appreso la notizia della pubblicazione del documento vaticano, si portò subito sul sito web della Santa Sede e, come c’era da aspettarsi, si accorse che il documento era stato mal presentato.
La superficialità dei media è nota, come è anche notevole l’influsso che hanno nel creare una precomprensione positiva o negativa. Si pone, qui, il problema di una "doppia recezione" dei documenti della Chiesa: una prima, da parte dei media; una seconda, da parte dei vescovi, dei sacerdoti e degli specialisti. Qui accenniamo solo ai suggerimenti giunti a proposito della recezione da parte dei media, che poi creano l’opinione pubblica anche dei fedeli cattolici.
Si sarebbe dovuto "prevedere" l’interesse, davvero straordinario, che avrebbe suscitato la Dichiarazione e "preparare" strumenti adeguati per creare un impatto positivo alla sua accoglienza. La maggior parte della gente non legge i documenti, limitandosi a quanto apprende dai mezzi di comunicazione sociale.
Si "suggerisce", quindi, di redigere il documento finale, o, meglio ancora, una sua sintesi, utilizzando esperti di comunicazione, che facciano dire al documento l’essenziale, con un linguaggio comprensibile, ma non superficiale, e con un tono rispettoso, ma non disimpegnato.
In ogni caso, di fronte all’enorme molteplicità di risposte e di reazioni, la DI, più che un documento può essere considerato un "evento". Non si è, infatti, trattato solo di una comunicazione di determinati pronunciamenti dottrinali, ma anche e soprattutto di un coinvolgimento di sentimenti, di atteggiamenti, di riflessioni di singole persone e di intere comunità.
2. L’ampio ventaglio delle reazioni alla DI
La DI aveva dei precisi destinatari: i Vescovi, i teologi e tutti i fedeli cattolici (cf. DI n. 3). In realtà, però, ha avuto un’udienza molto più ampia, composta soprattutto dai leaders e dagli studiosi delle altre chiese e comunità ecclesiali.
A parte i titoli esasperati della stampa quotidiana, non si sono avute reazioni significative da parte di rappresentanti delle altre tradizioni religiose. Moltissime, invece, e molto articolate le reazioni della comunità ecumenica, sia ufficiali, sia di singole persone o gruppi. Sono state, infine, numerosissime e abbastanza disparate le valutazioni della DI date dal mondo cattolico.
3. Dichiarazioni ufficiali da parte delle comunità ecclesiali della Riforma
Si tratta di pronunciamenti brevi, immediati, espressi con tono pacato e rispettoso. Ritengono che la DI non contenga novità dottrinali, ma riproponga invece una sintesi di verità centrali, cristologiche ed ecclesiologiche, tradizionali alla coscienza di fede cattolica. In generale, manifestano condivisione e apprezzamento del documento, soprattutto nella sua parte cristologica.
Particolare difficoltà suscita, invece, la duplice affermazione, che la DI fa nel capitolo IV ai numeri 16-17: la sussistenza, cioè, dell’unica Chiesa di Cristo nella sola Chiesa cattolica, e la qualifica delle loro comunità come "non Chiese in senso proprio".
A tale proposito, le dichiarazioni esprimono un duplice disagio: l’interpretazione "ristretta" delle affermazioni conciliari, e l’amarezza per la mancata considerazione degli ultimi 35 anni di dialogo ecumenico e, quindi, del riavvicinamento e della reciproca comprensione, realizzati in questo periodo soprattutto nelle relazioni bilaterali.
Da tutti, però, viene apertamente e chiaramente riconfermata la volontà di continuare nel dialogo ecumenico e nella reciproca comprensione e accoglienza.
Alleghiamo qui, qualche aspetto particolarmente significativo di alcune di queste dichiarazioni.
A proposito del deficit sacramentale della propria comunità ecclesiale, la dichiarazione do George Carey, Arcivescovo di Canterbury, del 5 settembre 2000, dice:
"Naturalmente, la Chiesa d’Inghilterra, e la Comunione Anglicana mondiale, nemmeno per un momento accetta che i suoi ordini di ministero e l’Eucarisia siano in qualche modo deficitari. Crede invece di essere parte dell’una, santa, cattolica e apostolica Chiesa di Cristo, nel cui nome essa serve e dà testimonianza, qui e nel mondo intero".
Sempre il 5 settembre 2000, Konrad Raiser, Segretario generale del Consiglio Mondiale delle Chiese (WCC), emetteva un comunicato in cui si ribadiva la necessità di una comune e credibile trestimonianza cristiana di fronte alle molte sfide etiche e sociali di un mondo globalizzato. Sarebbe una tragedia se la testimonianza fosse oscurata nel dialogo da rivendicazioni circa l’autorità e lo status ecclesiale.
L’8 settembre 2000, una dichiarazione del Dr. Ishmael Noko, Segretario generale della Federazione Luterana mondiale (Lutheran World Federation), esprimeva delusione e amarezza per i giudizi espressi dalla DI sulle chiese luterane, non corrispondenti allo spirito presente nelle odierne relazioni tra Luterani e Cattolici. A dimostrazione di ciò fa riferimento alla Dichiarazione congiunta sulla giustificazione, sottoscritta il 31 ottobre 1999, nella quale una nota precisava che si usava la parola "chiesa" per riflettere l’autocomprensione delle rispettive chiese, senza avere l’intenzione di risolvere tutte le questioni ecclesiologiche implicate. Ciononostante, la Federazione Luterana mondiale – conclude la dichiarazione – avrebbe continuato a impegnarsi nel dialogo ecumenico, ritenendolo essenziale e non opzionale all’unità cristiana, voluta e invocata da Cristo stesso.
Un comunicato della Direzione della VELKD (Vereinigte Evangelisch-Lutherische Kirche Deutschlands), emesso nell’incontro di Hannover del 7-8 settembre 2000, dopo aver apprezzato le affermazioni circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù, esprimeva disaccordo circa la rivendicazione da parte della Chiesa cattolica di essere la sola a realizzare pienamente la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Ciò non sarebbe biblicamente fondato e mancherebbe di sensibilità ecumenica. Lo sviluppo ecumenico avrebbe dovuto convincere anche Roma "che l’unica Chiesa di Cristo esiste nella forma storica di [molte] chiese".
Il triplice concetto di condivisione dell’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa, di rifiuto dell’interpretazione ecclesiologica restrittiva delle comunità delle Riforma e di conferma dell’impegno ecumenico, viene espresso, pur con toni e accentuazioni diverse, dalla CELI (Chiesa evangelica luterana in Italia), dalla FEREDE (Federación de Entitades Religiosas Evangélicas de España), dal CONIC (Conselho Nacional de Igrejas Cristãs do Brasil), dal Presidente del Council of Christian Unity of the Christian Church (Disciples of Christ), dal Presidente della Federazione protestante di Francia, del Presidente del Sinodo della EKD (Evangelische Kirche in Deutschland).
4. Reazione degli ortodossi e dei vecchiocattolici
I quotidiani greci, ad esempio, si allinearono ai titoli allarmati e negativi della maggior parte della stampa internazionale. Le reazioni di parte ortodossa sono state nel complesso rare e piuttosto reticenti e non hanno offerto particolari approfondimenti critici.
M. Evdokimov, ortodosso russo, ha pubblicato su "Service Orthodoxe de Presse" (gennaio 2001, p. 21-22), un commento con un apprezzamento della parte cristologica. Fa delle riserve sull’opportunità di porre nello stesso documento il relativismo interreligioso e il relativismo ecumenico. Per lui, gli ortodossi si sentiranno feriti leggendo tra le righe, che la loro Chiesa troverebbe tutta la sua pienezza se entrasse in comunione con la Chiesa cattolica. A proposito, poi, del valore ecclesiale delle comunità della Riforma, Evdokimov si chiede: se è vero che cattolici e ortodossi non possono transigere in fatto di ministeri e di sacramenti, occorre ricordare, però, tanti altri aspetti positivi della Riforma, nelle cui comunità, tra i tanti doni dello Spirito, fiorisce anche la santità e il martirio.
Un altro intervento di parte ortodossa è quello di Jonathan Gorski. Dopo aver lamentato la posizione "esclusiva" della DI nei confronti sia delle altre religioni, sia delle altre comunità cristiane, Gorski nota che la dichiarazione non è una semplice ripetizione dell’insegnamento cattolico, dal momento che reinterpreta il "subsistit in" (LG n. 8). Ritiene poi che la DI abbia dei precisi destinatari, che sono all’interno della Chiesa cattolica e che intendono in modo pluralistico sia il dialogo interreligioso sia quello ecumenico. Per questo, il linguaggio asciutto e aspro della Dichiarazione, mentre per i cattolici ha contribuito a fare chiarezza in un panorama che si faceva sempre più confuso, per i non cattolici, non abituati a un magistero ufficiale, è apparso urtante. L’auspicio è che venga un segnale da parte cattolica sulla continuazione del dialogo sia interreligioso, sia soprattutto ecumenico, senza per questo che la Chiesa cattolica leda la sua ecclesiologia. L’eredità del Vaticano II deve continuare anche nel secolo XXI.
Da parte loro, in alcuni brevi comunicati, i Vecchiocattolici esprimono la loro delusione nei confronti della DI, ribadendo il loro rifiuto al dogma dell’infallibilità pontificia e la loro opposizione a un magistero centrale.
5. Intervento di Giovanni Paolo II a sostegno della DI
Dopo circa un mese di reazioni negative, per rassicurare l’opinione pubblica cattolica e non cattolica, disorientata e spesso fuorviata dai mezzi di comunicazione sociale circa il dialogo interreligioso ed ecumenico, e per avallare il contenuto magisteriale della DI, "da lui approvata in forma speciale", il Santo Padre Giovanni Paolo II, con un gesto senza precedenti, interviene personalmente e fa propria la "Dominus Iesus", affermando che la dichiarazione è una professione di fede in Gesù e che, pertanto, essa non disprezza le altre religioni, non nega la salvezza dei non cristiani, non rinnega il dialogo ecumenico. E conclude: "È mia speranza che questa Dichiarazione che mi sta a cuore, dopo tante interpretazioni sbagliate, possa svolgere finalmente la sua funzione chiarificatrice e nello stesso tempo di apertura".
Conviene rileggere interamente il testo, pronunciato all’Angelus del 1° ottobre 2000:
"Al vertice dell’Anno Giubilare, con la Dichiarazione Dominus Iesus – Gesù è il Signore – approvata da me in forma speciale, ho voluto invitare tutti i cristiani a rinnovare la loro adesione a Lui nella gioia della fede, testimoniando unanimemente che Egli è, anche oggi e domani, "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6). La nostra confessione di Cristo come unico Figlio, mediante il quale noi stessi vediamo il volto del Padre (cf. Gv 14,8), non è arroganza che disprezza le altre religioni, ma gioiosa riconoscenza perché Cristo si è mostrato a noi senza alcun merito da parte nostra. Ed Egli, nello stesso tempo, ci ha impegnati a continuare a donare ciò che abbiamo ricevuto e anche a comunicare agli altri ciò che ci è stato donato, perché la Verità donata e l’Amore che è Dio appartengono a tutti gli uomini.
Con l’Apostolo Pietro noi confessiamo "che in nessun altro nome c’è salvezza" (Atti 4,12). La Dichiarazione Dominus Iesus, sulle tracce del Vaticano II, mostra che con ciò non viene negata la salvezza ai non cristiani, ma se ne addita la scaturigine ultima in Cristo, nel quale sono uniti Dio e uomo. Dio dona la luce a tutti in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale, concedendo loro la grazia salvifica attraverso vie a lui note (cf. Dominus Iesus, VI, 20-21). Il Documento chiarisce gli elementi cristiani essenziali, che non ostacolano il dialogo, ma mostrano le sue basi, perché un dialogo senza fondamenti sarebbe destinato a degenerare in vuota verbosità.
Lo stesso vale anche per la questione ecumenica. Se il Documento, con il Vaticano II, dichiara che "l’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica", non intende con ciò esprimere poca considerazione per le altre Chiese e comunità ecclesiali. Questa convinzione s’accompagna alla consapevolezza che ciò non è merito umano, ma un segno della fedeltà di Dio che è più forte delle debolezze umane e dei peccati, confessati da noi in modo solenne davanti a Dio e agli uomini all’inizio della Quaresima. La Chiesa Cattolica soffre – come dice il Documento – per il fatto che vere Chiese particolari e comunità ecclesiali con elementi preziosi di salvezza siano separate da lei.
Il Documento esprime così ancora una volta la stessa passione ecumenica che è alla base della mia Enciclica Ut unum sint. È mia speranza che questa Dichiarazione che mi sta a cuore, dopo tante interpretazioni sbagliate, possa svolgere finalmente la sua funzione chiarificatrice e nello stesso tempo di apertura. Maria, a cui il Signore sulla croce ci ha affidati quale Madre di tutti noi, ci aiuti a crescere insieme nella fede in Cristo, Redentore di tutti gli uomini, nella speranza della salvezza, offerta da Cristo a tutti, e nell’amore, che è il segno dei figli di Dio".
Dopo alcuni mesi il Santo Padre rinnova questa sua totale adesione al contenuto ecumenico della DI. In una lettera indirizzata singolarmente ai quattro cardinali tedeschi, il 22 febbraio 2001, giorno conclusivo del concistoro per la creazione di 44 nuovi Cardinali, Giovanni Paolo II ha espresso in sei punti alcune preoccupazioni. Per quanto riguarda l’ecumenismo, dopo aver detto che si tratta di un cammino irreversibile, il Papa accenna ad alcuni abusi:
"Infatti, in vari luoghi confusione e abusi – penso, ad esempio, alla non rara pratica dell’intercomunione – danneggiano notevolmente la ricerca della vera unità. Un ecumenismo che più o meno prescindesse dalla questione della verità potrebbe condurre solo a successi apparenti. La dichiarazione Dominus Iesus ha richiamato insopprimibilmente all’auto-comprensione della fede cattolica. Confido che Lei sappia promuovere il dialogo ecumenico sul solido fondamento di questa dichiarazione e assolvere conformemente i suoi compiti".
6. Reazioni da parte di teologi protestanti
6.1. Apprezzamento
Sono moltissime le reazioni di singoli teologi, di pastori o di gruppi di teologi. Alcune di esse, insieme a considerazioni di teologi cattolici, hanno già formato un volume, curato da Michael J. Rainer e intitolato "Dominus Iesus". Anstössige Wahrheit oder anstössige Kirche?. Non manca chi – come il gruppo di otto teologi metodisti della Commissione Congiunta per il dialogo cattolico-metodista – constata che i commenti apparsi sulla stampa contro la DI erano poco informati e poco equilibrati.
Una comune valutazione positiva viene espressa sulla finalità della DI, che era quella di riaffermare la confessione di fede circa l’unicità e l’universalità salvifica del mistero di Cristo e della Chiesa.
Sulla scia di Manfred Kock, ad esempio, Eberhard Jüngel e Wolfhart Pannenberg evocano, al riguardo, la Dichiarazione antinazista di Barmen della Bekennende Kirche (1934: testo redatto da Karl Barth), nella quale si confessava Cristo, unica Parola di Dio, a cui solo si doveva prestare obbedienza e fiducia in vita e in morte.
Timothy George afferma che, come evangelici, bisogna accogliere la DI, in quanto respinge il pluralismo religioso e riafferma Gesù Cristo come unico Redentore per tutti i popoli e dovunque. È un peccato che i media abbiano oscurato proprio questo punto cruciale del documento.
Eberhard Jüngel, in un suo secondo intervento, rilegge l’intera Dichiarazione della CDF, giudicando molto opportuno il titolo biblico e paolino "Dominus Iesus" a significare che chi invoca Gesù, come il Signore, viene salvato e che tale invocazione, fatta nello Spirito (cf. 1Cor 12,3), implica libertà. Libertà non è arbitrio, ma è figlia della verità, e quindi comporta un "aut aut" e cioè il rifiuto di idoli e poteri, che compromettono la vita umana: così fece contro il nazismo la Dichiarazione di Barmen nel 1934. Bisogna, quindi, far credito alla DI che, in un tempo di pluralismo relativistico, abbia richiamato la pretesa evangelica della verità senza compromessi. L’autore fa un’analisi e una valutazione puntuale delle affermazioni dei capitoli cristologici, che trova condivisibili.
Il metodista Geoffrey Wainwright aggiunge che la DI è in armonia con il tema "Jesus: God’s Way of Salvation" della riunione, che il World Methodist Council avrebbe tenuto a Brighton (UK) nel luglio del 2001. Ritiene un bene aver visto nella DI una chiara confessione della fede scritturistica e conciliare sulla Trinità, sull’Incarnazione e sulla redenzione universale portata da Cristo e ricevuta dalla grazia dello Spirito Santo. In questa prima parte del documento un accenno di incoraggiamento alla comune testimonianza cristiana sarebbe stato desiderabile.
Anche Walter Schöpsdau esprime l’assenso degli evangelici alla parte cristologica del documento, che si oppone alle tendenze relativistiche del pluralismo religioso.
6.2. Dialogo interreligioso
In secondo luogo, da parte protestante, non ci sono significative reazioni relative al dialogo interreligioso, così come viene presentato nella DI. Gabriel Fackre, come altri, sottoscrive il nucleo centrale della DI, condividendo il "no" alla seduzione del relativismo religioso dei nostri giorni.
6.3. Mancanza di novità e interpretazione "restrittiva" del Concilio
In terzo luogo c’è una quasi unanimità nell’affermare che nella DI non ci sarebbe nulla di sostanzialmente nuovo, dal momento che la DI ribadisce verità già espresse dal Vaticano II e dal magistero pontificio. Altrettanta unanimità, però, c’è nell’esprimere disappunto, amarezza e rammarico per l’interpretazione restrittiva che si dà ai testi conciliari e ai testi magisteriali. La DI non terrebbe per niente conto del grande progresso realizzato dal dialogo ecumenico postconciliare, che ha portato, soprattutto nel dialogo bilaterale cattolico-luterano, al grande evento dell’approvazione della Dichiarazione congiunta sulla giustificazione (31 ottobre 1999). Per questo si parla di dialogo ecumenico ingessato e paralizzato.
La maggior parte degli interventi critici riguarda il capitolo VI della DI, che riafferma l’unicità e l’unità della Chiesa. In modo particolare l’interpretazione restrittiva del Vaticano II viene vista in due affermazioni: in quella relativa all’unica Chiesa di Cristo, che, secondo LG n. 8, "sussiste [subsistit in] nella Chiesa Cattolica" (DI n. 16); e in quella relativa alle comunità ecclesiali senza episcopato valido e senza genuina e integra sostanza del mistero eucaristico, che "non sono Chiese in senso proprio" (DI n. 17).
Risiede in queste due affermazioni il contenzioso con i protestanti, che vedono in questa riproposizine del Vaticano II una rilettura "datata" del concilio, che non tiene conto della "Wirkungsgeschichte" di questi testi nel corso dei trentacinque anni di dialogo ecumenico.
6.4. Valutazione del linguaggio e del tono della DI
Ingolf U. Dalferth parla di linguaggio realistico, che non nasconde la verità e che invita a guardare con realismo le altre religioni e le altre comunità ecclesiali. Il rispetto non deve essere inferiore all’onore della verità. E questa chiarezza, di fronte al fiume di parole ecumeniche, spesso scambiato per progresso, è – sempre secondo Dalferth – veramente un passo avanti. I dialoghi ecumenici diventano inutili se non si dice quello che veramente si è.
Ora la Congregazione per la Dottrina della Fede nella DI ha riaffermato alcune verità che appartengono alla fede della Chiesa. Non ha espresso innovazioni, perché non è suo compito, e tutto quello che ha detto lo ha fatto richiamandosi al concilio e al magistero papale. Perché dunque tanto rumore tra gli ecumenisti? Non avevano letto le encicliche Redemptoris Missio, Ut unum sint, Fides et Ratio? O si ritiene che quanto viene detto all’interno dei cattolici non si deve prendere sul serio?
La DI – continua Dalferth – è indirizzata ai cattolici, ammonendoli a contrastare le tentazioni relativistiche e ad avere un chiaro profilo cattolico nel dialogo interreligioso e nei rapporti ecumenici: a credere cioè a una rivelazione, a una fede, a un Redentore, a una salvezza, a una Chiesa.
Essa espone tutto ciò con sintetica chiarezza: "La rivelazione è rivelazione e non una manifestazione storica parziale della verità accanto ad altre. La verità è verità e non una opinione nel mare delle opinioni. La fede è fede e non una convinzione religiosa tra le altre. Gesù Cristo è il mistero di salvezza e non solo una via salvifica tra le altre. E la Chiesa è Chiesa e non una comunità religiosa tra le altre".
6.7. Invito a chiarire la propria identità
D’altra parte, il linguaggio essenziale della DI viene ritenuto uno stimolo a chiarire la propria identità. Maria Jepsen, "Bischöfin" luterana di Amburgo, dopo aver rilevato che la DI le sembra il grido di aiuto di un uomo insicuro e pauroso, che teme soprattutto per il proprio potere, aggiunge anche che un tale pronunciamento spinge gli evangelici a chiarire alcuni punti circa la loro comprensione di Chiesa e di ministero e soprattutto circa la difesa della cena del Signore, non solo orizzontalmente, come comunione, ma anche verticalmente, come celebrazione del perdono dei peccati.
Geoffrey Wainwright ritiene che la DI abbia manifestato l’esigenza di una approfondimento ecclesiologico nel dialogo con i protestanti. Da parte sua ritiene che l’identificazione del carattere ecclesiale costituisca il tema centrale del dialogo ecumenico tra cattolici e metodisti. Certo i metodisti avrebbero sperato di essere inclusi tra quelle comunità in cui la Chiesa di Cristo è effettivamente presente, anche se in modo imperfetto. Dal paragrafo 17 della DI, però, sembra che non si è tra le Chiese in cui la Chiesa di Cristo è presente e operante. Nondimento la categoria "presenza operante" permette le migliori speranze di un riconoscimento di ecclesialità da parte della Chiesa Cattolica, senza abbandonare la propria autocomprensione ecclesiale.
6.8. Impegno a continuare nel dialogo ecumenico
C’è un unanime atteggiamento da parte dei teologi protestanti a continuare il dialogo, sia all’interno delle proprie comunità sia con la Chiesa cattolica. Si tratta di un "dialogo di conversione" che richiede preghiera e umiltà.
Significativa la conclusione dello Statement dei teologi metodisti:
"Riconosciamo che un testo come la DI possa essere letto in modo differente a seconda del contesto. In posti dove le relazioni fra cattolici e protestanti sono viste con sospetto la Dichiarazione può rischiare di far indietreggiare lo sforzo ecumenico. D’altra parte, dove cattolici e protestanti affrontano insieme le comuni sfide, questa Dichiarazione ha potuto essere bene accolta data l’esistenza di un più ampio contesto di rispetto vicendevole e di cooperazione.
Ci rammarichiamo che questo documento sia stato visto dal vasto pubblico piuttosto come un elemento di divisione, che non come una comune testimonianza di Gesù Cristo in un mondo pluralistico".
7. La recezione della DI da parte dei Vescovi cattolici
7.1. Recezione generalmente positiva con qualche critica
La recezione della DI da parte dei Vescovi cattolici è stata generalmente positiva. Sintonia, appoggio deciso e un sano approccio all’ecumenismo è la sintesi della reazione dell’episcopato latinoamericano alla pubblicazione della DI. In diverse nazioni i vescovi hanno reagito pubblicamente di fronte alle distorsioni della stampa. Uno dei pronunciamenti più chiari a favore è stato quello dell’arcivescovo di Rio de Janeiro, Card. Eugenio de Araujio Sales, il quale sulla stampa carioca segnalò che la DI ricorda ai cattolici dottrine fondamentali, che permettono loro di distinguere la verità dall’errore. In questa stessa linea l’arcivescovo di Maringá (Brasile), Mons. Murilo S.R. Krieger, che, in due articoli sulla stampa locale, ricordò che il testo non è antiecumenico, ma pone solide basi per lo sviluppo del dialogo. Quanto all’universalità salvifica di Cristo, Mons. Krieger affermò che questa verità bisogna riaffermarla di fronte al relativismo teologico.
In questa stessa linea si sono espressi il vescovo argentino di San Luís, Mons. Juan Rodolfo Laise, l’arcivescovo di Cochabamba (Bolivia), tramite il suo portavoce, e il vescovi colombiani, che, mediante il loro portavoce, hanno confermato la piena adesione alla dottrina della DI su Cristo salvatore universale e sulla sussistenza dell’unica Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica.
Una presentazione della DI fu fatta personalmente, nell’affollato auditorio della Camera di Commercio di Cali, Colombia, dall’arcivescovo Mons. Isaías Duarte Cancino, che invitò i fedeli a una riflessione di fede sull’importante documento. Sempre a Cali, il Padre Germán Robledo, Presidente del tribunale ecclesiastico, chiarò il significato della DI che si oppone a considerazioni relativistiche e a un dialogo che non sia accompagnato anche dalla missio ad gentes e dallc conversione.
L’arcivescovo de San José de Costa Rica, Mons. Román Arrieta Villalobos, rispondendo alle critiche di alcuni esponenti evangelici, riaffermò che solo nella Chiesa cattolica sussiste pienamente la Chiesa di Cristo. In Messico, il cardinal Norberto Rivera Carrera ribadì che la DI pone i cristiani di fronte alla sfida di intendere il dialogo interreligioso non in modo relativistico, ma in obbedienza alla verità rivelata da Gesù e accolta nella libertà da ogni uomo.
Alcuni teologi, come ad esempio, Peter Chirico e Richard P. McBrien, raccolgono anche le impressioni negative di alcuni vescovi. Il Cardinal E. I. Cassidy, ad esempio, lamentava l’inopportunità sia della data sia del linguaggio della DI. Il Cardinal Roger Mahoney, di Los Angeles, lamentava la mancanza di considerazione del dialogo ecumenico e interreligioso postconciliare. Più marcata la critica di Rembert Weakland, arcivescovo di Milwaukee, per il quale la DI aveva un tono arrogante e antiecumenico.
Reazioni più positive sono state espresse dal Cardinal Francis George, di Chicago, dal Cardinal Bernard Law, di Boston, da Desmond Connell, arcivescovo di Dublino, per il quale il documento non era antiecumenico e il suo linguaggio niente affatto scortese. Più sfumate sono state le valutazioni espresse da William Levada, arcivescovo di San Francesco, Theodore McCarrick, arcivescovo di Washington D.C., e da Alexander Brunett, arcivescovo di Seattle.
L’attuale Cardinale Karl Lehmann, in una intervista, rilevava che il tema centrale della Dichiarazione era riaffermare la convinzione di tutti i cristiani circa l’unicità e l’universalità salvifica del mistero di Cristo. Forse è stata sottovalutata la reazione dei lettori protestanti circa i brani concernenti la Chiesa. Sarebbe stato meglio scegliere un’altra data e un’altra forma e, cioè, non mettere insieme l’unicità di Cristo e quella della Chiesa. Comunque non è fanatismo o fondamentalismo cattolico riaffermare la propria identità.
Alla domanda "sarebbe stato meglio se in questo testo ci fosse stato meno Ratzinger e più Kasper", Lehmann risponde che ci sarebbe voluta più sensibilità conciliare ed ecumenica. Lo stesso si deve dire nell’interpretazione del "subsistit in" conciliare. Con questa espressione "la chiesa cattolica rivendica di essere la stessa Chiesa di Gesù Cristo, ma non in modo esclusivo".
Dopo aver rilevato l’abbondanza dei documenti magisteriali e anche il poco tempo per farne una corretta lettura e interpretazione, egli ribadisce il suo giudizio positivo sulla DI: "in der Essenz halte ich "Dominus Iesus" für richtig". Una esagerata euforia, che trascura le questioni teologiche di fondo, non è una buona via per l’ecumenismo. In ogni caso l’ecumenismo deve proseguire e la DI non chiude al prosieguo del dialogo ecumenico soprattutto per quanto riguarda la natura della Chiesa, la comprensione del ministero e quella dei sacramenti. Questi sono i problemi fondamentali del dialogo ecumenico con la Riforma
7.2. L’intervento del Cardinal Cahal B. Daly,
arcivescovo emerito di Armagh (Irlanda)
Posizioni decisamente positive e ampiamente motivate sono state espresse sui media dal Card. Cahal B. Daly, per il quale la DI mira soprattutto a chiarire le basi del dialogo interreligioso, rifiutando una impostazione relativistica e pluralistica del piano di salvezza di Dio Trinità. Difende poi la conseguente armonia tra la parte cristologica e quella ecclesiologica ed ecumanica. A tale proposito afferma: "Penso che una chiara e ferma esposizione di questa dottrina condivisa è essa stessa una valida forma di ecumenismo e un positivo contributo alla ricerca dell’unità cristiana". Non si può rimproverare alla Chiesa cattolica di presentare la sua identità, che comprende la successione apostolica, il ministero petrino, la valida eucaristia, i sacramenti. Se su questo ci fosse già accordo, non ci sarebbe più bisogno del dialogo ecumenico. Invece proprio su questo il dialogo ecumenico deve produrre ancora i suoi frutti. Del resto, questo "di più" che c’è nella Chiesa cattolica, viene riconosciuto dagli stessi protestanti.
A questo proposito il Card. Daly cita Karl Barth il quale nel 1963 diceva che il più grande ostacolo all’unità tra cattolici e protestanti è una piccola parola "e" che i cattolici aggiungono sempre: i protestanti dicono Gesù, e i cattolici aggiungono Gesù e Maria; i protestanti cercano di obbedire a Cristo, e i cattolici aggiungono a Cristo e al suo Vicario in terra; i protestanti credono di essere salvati mediante i meriti di Gesù, e i cattolici aggiungono mediante i meriti di Gesù e nostri; i protestanti credono che l’unica fonte della rivelazione sia la Sacra Scrittura, e i cattolici aggiungono la Sacra Scrittura e la tradizione; i protestanti dicono che la conoscenza di Dio è ottenuta attraverso la fede nella sua parola, e i cattolici aggiungono mediante la fede e la ragione. In pratica il problema consiste nel discutere quale significato dobbiamo dare a questa piccola parola "e".
Anche Oscar Cullmann nel 1962 affermava che c’è un "di più" nel cattolicesimo (un eccesso) e un "di meno" nel protestantesimo (un difetto).
7.3. L’unica Chiesa di Cristo secondo il Cardinal Walter Kasper
La DI deve essere vista nell’ambito della Unitatis redentegratio del Vaticano II e della Ut unum sint di Giovanni Paolo II: "Il diffuso pluralismo e relativismo post-moderno o tardo-moderno ha messo in discussione il presupposto finora comune del dialogo ecumenico: la fede in Gesù Cristo quale unico e universale mediatore della salvezza (1Tm 2,5). Questo è il centro e il cuore del Vangelo in certo qual modo tutto il Vangelo, e il presupposto fondamentale di ogni ecumenismo".
A proposito, poi, del "subsistit in" di LG n. 8, Kasper afferma che il punto di partenza e di riferimento è l’unica Chiesa di Cristo, che non è una realtà puramente spirituale, ma ha radici concrete, storiche e sussiste nella Chiesa cattolica, è cioè concretamente realizzata in essa: "La formula "subsistit in", al posto dell’abituale "est", è stata scelta per affermare chiaramente che, al di fuori della struttura visibile della Chiesa cattolica, non esistono solo singoli cristiani, ma esiste una vera "realtà ecclesiale", per cui la Chiesa di Gesù Cristo non si identifica semplicemente con la Chiesa cattolica concretamente esistente. "Oltre i limiti della comunità cattolica non c’è il vuoto ecclesiale"".
La pretesa avanzata dalla Chiesa cattolica di essere la vera chiesa viene avanzata ed espressa anche dalle Chiese ortodosse e dai protestanti:
"Ogni Chiesa che si prende sul serio deve partire dalla presenza in essa [...] della vera Chiesa di Gesù Cristo. La Chiesa cattolica prende sul serio le altre Chiese, "da pari a pari" non livellando le differenze e non dichiarandole "indifferenti", ma rispettando le altre Chiese nella alterità che esse rivendicano".
A proposito delle comunità ecclesiali di DI n. 17, Kasper nota:
"Sulla scia della Riforma e della conseguente formazione delle confessioni cristiane è sorto di fatto – volutamente o contro l’intenzione originaria dei riformatori – un nuovo tipo di Chiese. Dico volutamente "un nuovo tipo di Chiese" e preferisco questa formulazione, che riprendo dal card. Jan Willebrands, già presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, all’altra in cui si afferma che le Chiese uscite dalla Riforma non sono Chiese vere e proprie. Quest’ultima è una formulazione equivoca per la quale si ritiene, come ha chiarito nel frattempo il card. Ratzinger, che siano sorte Chiese che si autocomprendono coscientemente in modo diverso rispetto alla Chiesa cattolica. In breve e meglio: Chiese di un altro tipo, alle quali dal punto di vista cattolico mancano elementi che sono essenziali per la concezione cattolica della Chiesa".
Per Lutero la parola Chiesa è cieca ed equivoca. Lui parla invece di "comunità cristiana", "perno centrale delle basilari conoscenze e categorie mentali della Riforma".
"
Perciò, le Chiese della Riforma non hanno struttura episcopale, ma, in base al sacerdozio comune dei fedeli, comunitaria-sinodale e presbiterale: teologicamente parlando, il ministero episcopale è un ministero parrocchiale con funzione direttiva della Chiesa, una concezione, questa, che nelle Chiese riformate è ancor più marcata che non nelle Chiese luterane. È evidente la differenza rispetto al modello cattolico-ortodosso con la sua costituzione sacramentale-episcopale".In conclusione Kasper osserva che attualmente i partner protestanti stanno chiarendo la loro identità ecclesiologica e non è facile individuare la loro esatta posizione ecclesiologica e la direzione in cui essi si muovono.
7.4. La pluralità delle confessioni non relativizza l’esigenza della Verità
(Cardinal Joseph Ratzinger)
In una famosa intervista, il Cardinal Ratzinger difende la DI dall’accusa di fondamentalismo romano e riassume in cinque punti il significato della Dichiarazione.
Anzitutto la Dichiarazione è una celebrazione del Signore nell’anno giubilare (cf. 1Cor 12,3): "Con questa Dichiarazione, la cui redazione ha seguito fase per fase con molta attenzione, il Papa ha voluto offrire al mondo un grande e solenne riconoscimento di Gesù Cristo come Signore nel momento culminante dell’Anno Santo, portando così con fermezza l’essenziale al centro di questa occasione, sempre soggetta ad esteriorizzazioni".
In secondo luogo, la DI ha inteso riproporre l’identità cristiana e cattolica, messa in questione da posizioni teologiche ambigue ed erronee. La situazione oggi – così il Cardinale – sembra simile a quella descritta dal quarto vangelo, quando, dopo che Gesù aveva spiegato chiaramente la sua natura divina nell’istituzione dell’Eucaristia, "molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (cf. Gv 6,66):
"Oggi nei discorsi generali la fede in Cristo rischia di appiattirsi e di disperdersi in chiacchiere […]. Il documento vuole essere un invito a tutti i cristiani ad aprirsi nuovamente al riconoscimento di Gesù Cristo come Signore e a conferire così all’Anno Santo un significato profondo. Mi ha fatto piacere che [Manfred] Koch, Presidente [delle comunità protestanti della Germania], nella sua reazione, peraltro molto composta, abbia riconosciuto questo elemento importante del testo e lo abbia paragonato alla Dichiarazione di Barmen, con la quale nel 1934 la "Bekennende Kirche", ai suoi inizi, rifiutò la chiesa del Reich creata da Hitler. Anche il Primate della Chiesa anglicana, l’Arcivescovo Carey, ha manifestato il suo sostegno grato e deciso al vero tema della dichiarazione".
In terzo luogo, a proposito dell’ecclesiologia della DI, il Cardinale nota che se fosse vero che tutte le chiese sono la vera Chiesa, non dovrebbero contraddirsi, ma esse si contraddicono su questioni fondamentali. Per cui la Chiesa risulterebbe piena di contraddizioni e non sarebbe una testimonianza valida. Sembra poi contrario alla coscienza protestante ritenere che tutte le comunità ecclesiali facciano riferimento allo stesso concetto di chiesa. Lutero stesso non ammetteva che la chiesa in senso teologico e spirituale potesse incarnarsi nella Chiesa cattolica, che anzi considerava strumento dell’Anticristo.
Di conseguenza non è affatto offensiva la qualifica di "comunità ecclesiali" di DI n. 17:
"La pretesa dei nostri amici luterani mi sembra francamente assurda, cioè che noi consideriamo queste strutture, sorte da casualità storiche, come Chiesa nello stesso modo in cui crediamo Chiesa la Chiesa cattolica, fondata sulla successione degli apostoli nell’Episcopato. Sarebbe più giusto che i nostri amici evangelici ci dicessero che per loro la Chiesa è qualcosa di diverso, una realtà più pneumatica e non così istituzionalizzata, neanche nella successione apostolica. La domanda, pertanto, non è se tutte le chiese esistenti sono chiesa allo stesso modo, dal momento che chiaramente non è questo il caso, ma piuttosto dove e come la Chiesa c’è o non c’è. In questo senso non offendiamo nessuno dicendo che le strutture evangeliche effettive non sono Chiesa nel senso in cui quella cattolica vuole esserlo. Esse stesse non desiderano esserle".
In quarto luogo, a proposito del "subsistit in", il Cardinale osserva che la Chiesa di Cristo, secondo il Concilio, sussiste nella Chiesa cattolica, così come nelle chiese locali ortodosse dove si riconosce la successione apostolica e l’eucaristia. Se il concilio avesse voluto esprimere il concetto che la Chiesa di Cristo sussiste "anche" nella Chiesa cattolica, avrebbe detto una banalità, da nessuno contestata. Il Concilio ha voluto dire che la Chiesa di Cristo esiste realmente nella storia e non è un insieme di frammenti ecclesiali. Per quanto riguarda l’immagine trinitaria di Jüngel, in realtà, la chiesa latina nella dottrina trinitaria ha tradotto con persona la parola sussistenza:
"Ma soprattutto sono determinato – dice il Cardinale – a lottare contro questa tendenza sempre più diffusa a trasferire il mistero trinitario direttamente alla Chiesa. Non va bene. Così finiremo per credere in tre divinità".
"
Fra le comunità ecclesiali esistono molti contrasti e che contrasti! Le tre "Persone" costituiscono un solo Dio in un’unità autentica e somma. Quando i Padri conciliari sostituirono la parola "è" con la parola "subsistit" lo fecero con uno scopo ben preciso. Il concetto espresso da "è" (essere) è più ampio di quello espresso da "sussistere". "Sussistere" è un modo preciso di essere, ossia essere come soggetto che esiste in sé. I Padri conciliari dunque intendevano dire che l’essere della Chiesa in quanto tale è un’entità più ampia della Chiesa cattolica romana, ma in quest’ultima acquista, in maniera incomparabile, il carattere di soggetto vero e proprio".Infine, a proposito del tono apparso troppo duro, il Cardinale risponde che il linguaggio del vangelo non è sempre molto diplomatico. Se lo scalpore suscitato dal documento nasconde un problema di comunicazione, perché il linguaggio teologico conciliare è diverso da quello dei giornali, allora "il testo va tradotto, non disprezzato".
8. Le reazioni diversificata dei teologi cattolici
I teologi cattolici hanno mostrato un triplice atteggiamento: recezione piena, accoglienza critica, rigetto totale o quasi.
8.1. Accoglienza piena
Ci sono teologi che hanno accolto "con risconoscenza" la DI, vedendo in essa "un servizio alla verità", "una riaffermazione della verità", "un sì alla verità, non ostantata o strumentalizzata, ma proclamata, amata, servita", "un valido e necessario invito ai teologi cattolici a non dissimulare l’insegnamento della loro Chiesa", "una svolta di qualità".
Il seguente numero 9 di questa valutazione conterrà l’esplicitazione tematica di questa accoglienza.
8.2. Recezione critica
Altri mostrano un atteggiamento di recezione "critica". G. Gispert Sauch, ad esempio, ritiene che la DI non condanna affatto il lavoro dei teologi dal momento che in alcuni punti tale lavoro viene sollecitato (cf. DI n. 3, 21, 14). Né il linguaggio della DI è totalmente esclusivo, dal momento che si dice che "l’unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione". Thomas P. Looney e Richard P. McBrien elaborano la loro risposta notando sia gli apporti positivi – denuncia di teorie relativistiche e pluralistiche, riproposizione di dottrine cristologico-trinitarie ed ecclesiologiche fondamentali – sia i limiti della DI. Per McBrien gli errori ai quali si riferisce la DI non provengono dalle altre religioni, ma da teologi cattolici non nominati, ma identificabili, per esempio, in J. Dupuis, P. Knitter, R. Panikkar, H. Küng e altri; suppone anche non ci sia stata larga consultazione sul documento, nemmeno all’interno della Curia; infine la DI sarebbe problematica in tre aree ecclesiologiche: distinzione tra chiese e comunità ecclesiali; il concetto di chiesa; la relazione tra la chiesa e le altre religioni.
8.3. Rigetto totale
Ci sono, infine, gruppi o singoli teologi che rigettano globalmente sia la forma sia il contenuto del documento, ma senza motivare questo loro rifiuto.
In una loro dichiarazione, i teologi cattolici belgi di lingua francese reagiscono nei confronti del tono e dei contenuti della DI, lamentando il rapporto di superiorità che il testo pone tra i cattolici e gli altri cristiani e tra i cristiani e i seguaci di altre religioni. Ciò comprometterebbe il dialogo ecumenico e interreligioso. Secondo la loro opinione il problema della verità dovrebbe essere affrontato su un piano di parità, dove ognuno propone la sua via, senza assolutizzarla. Per loro Cristo è la via, la verità e la vita, ma credono anche che la pienezza della verità non sia possesso di nessuno. La DI andrebbe contro lo spirito del Vaticano II e il suo tono autoritario apparterrebbe al passato. La DI sconfesserebbe i gesti simbolici del Papa nei confronti delle altre chiese e religioni. Infine, si lamenta che l’autorità della chiesa risponda a questioni importanti con affermazioni unilaterali e senza sfumature.
Albert Franz, presidente della sezione tedesca della Società Europea per la Teologia Cattolica, ha emesso a nome degli associati un comunicato, in cui si rinfaccia la forma, il linguaggio e la data della pubblicazione della DI, che non tiene conto della sensibilità ecumenica e interreligiosa dei fedeli. Si lamenta anche che il Vaticano II venga interpretato in modo unilaterale e restrittivo.
Un virulento editoriale della rivista cattolica "America" contesta in pieno la DI. Intitolato ironicamente, Ecumenical Courtesy, l’editoriale non salva niente del documento e del suo contenuto. Le sue critiche sono le seguenti: il documento è stato male accolto da cristiani e non cristiani, con i quali si è stati in dialogo per 35 anni; il tono generale del documento è irritante e soprattutto manca di cortesia; diversamente da San Paolo, che all’areopago prima di annunciare il Cristo risorto lodò la ricerca di Dio da parte degli ateniesi, nel documento invece manca la carità verso gli interlocutori; forse il proposito della CDF nei confronti del movimento ecumenico è il seguente: noi non partecipiamo al dialogo, ma lo giudichiamo; in questo modo la CDF non ha colto lo spirito e il tono del dialogo e lo tratta come un esercizio accademico, come farebbe un professore con i suoi studenti; nel tentativo di ridurre al silenzio i teologi dissidenti, la CDF ha alienato la maggior parte dei teologi, creando un fossato tra loro e la Santa Sede; diversamente dal prudente fattore della parabola evangelica, la CDF ha attaccato la zizzania con mezzi che danneggiano anche il buon grano; la CDF non può accusare i media: quando si producono documenti senza ascoltare gli altri dicasteri vaticani, le conferenze episcopali, i vescovi e gli esperti (oltre alcuni pochi scelti), allora disastri di comunicazione come la DI non cesseranno di verificarsi; i vescovi sono stufi di difendere documenti sui quali non sono stati consultati.
Anche singoli teologi, come ad esempio, Hans Küng e Hermann Häring, hanno rigettato in blocco il documento. Häring contesta le singole affermazioni sia cristologiche sia ecclesiologiche della DI. Secondo questo autore in tutti i capitoli domina una terribile discrepanza tra lo stato della discussione teologica e la mentalità retrograda della DI; non si mostra alcuna disponibilità a una comprensione positiva e a un confronto benevolo con la teologia contemporanea; i documenti conciliari vengono interpretati non nel loro spirito ma nella loro lettera; le citazioni scritturistiche non terrebbero conto né dell’esegesi teologica né del loro contesto; in un tempo di grandi cambiamenti più che alla tradizione della Chiesa bisognerebbe ritornare alla Sacra Scrittura per trovare un nuovo orientamento ecumenico e interreligioso; non si deve sottovalutare il carattere statico e retrogardo del documento, che spesso trova alta plausibilità; particolarmente dolorose sono le affermazioni sulla preminenza di Roma e sulla mancanza di ecclesialità delle comunità della Riforma; tacciare di relativismo e di indifferentismo il dialogo interreligioso sarebbe troppo prematuro e non avrebbe alcun motivo; la Congregazione per la Dottrina della fede dovrebbe ritirare come immaturo questo documento.
9. Sintesi della riflessione teologica sulla DI
Raccogliamo in sette punti l’insieme della riflessione teologica sulla DI: identità cristiana e dialogo interreligioso; osservazioni su punti particolari; interpretazione del "subsistit in" (DI n. 16); Chiesa e comunità ecclesiali (DI n. 17); valutazione del linguaggio e del tono del documento; suggerimenti; invito all’ulteriore approfondimento. In questa parte accoglieremo le riflessioni sia dei teologi che hanno accolto senza riserva la DI, sia di quelli che hanno avuto un atteggiamento di recezione critica. Prevarrà la massima concisione, rimandando alle sintesi allegate una informazione più ampia al riguardo.
9.1. Identità cristiana e dialogo interreligioso
Una testimonianza convinta della urgenza e della necessità di un pronunciamento come quello della DI proviene da Franco Sottocornola, consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e missionario in Giappone, dove vive da quindici anni in un centro di preghiera, che costituisce il ramo cristiano di un tempio buddhista e dove, ogni mese, egli presenta e spiega il cristianesimo ai fedeli buddhisti. Si tratta, quindi, non solo di un teorico del dialogo, ma di uno che vive pienamente l’esperienza interreligiosa.
Il ministero del dialogo interreligioso – secondo Sottocornola - non è studio comparato delle religioni, né ricerca teologica o esistenziale di una verità religiosa ancora sconosciuta:
"Il dialogo interreligioso vero e proprio è quello di chi, inserito in una tradizione di fede, e in una comunione di fede, dall’interno di questa, incontra l’altro e, nell’altro, l’altra tradizione di fede e di esperienza religiosa".
Afferma con convinzione:
"Se il venerabile maestro Furukawa fosse ancora vivo, avrei donato a lui, appena tradotta in giapponese, la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Dominus Iesus. E sono certo che avrebbe molto apprezzato il dono. Sarebbe stato molto contento di conoscere in termini sinceri e chiari, che cosa la Chiesa cattolica crede e insegna su Gesù il Signore, qual è la sua fede e la sua testimonianza, che in questo documento vengono espresse in modo sintetico e preciso".
Padre Sottocornola esprime il suo disagio, quando, in incontri interreligiosi, si tiene una posizione relativistica, che ponendo le religioni sullo stesso piano, toglie loro il motivo profondo per un vero confronto e una sincera ricerca. Spesso il dialogo tende a svanire in semplice irenismo o limitarsi ad amicizia interreligiosa. È importante la fedeltà alla propria tradizione e anche alle modalità proprie di formulazione e di espressione. Il pericolo oggi di questo dialogo interreligioso incipiente è quello dell’approccio frettoloso e superficiale, che non tenga conto della verità.
Per questo egli sentiva il bisogno di un documento come la DI e l’ha accolto "con grande sollievo e con riconoscenza":
"Credo che questo documento fosse ormai improrogabile. Da troppe parti si sentiva e si sente ancora proporre, nel contesto del dialogo con le religioni non cristiane o nel tentativo di formulare una teologia di esse, una relativizzazione inaccettabile sia del ruolo di Cristo sia di quello della Chiesa. Questo disorientamento è particolarmente forte in alcune aree e in alcuni ambienti, ma è assai diffuso ed è penetrato ampiamente nella mentalità e nell’insegnamento di molti teologi e sacerdoti".
Una valutazione globalmente positiva del documento viene espressa anche da Jan-Heiner Tück, secondo il quale la DI ha messo il dito su due piaghe: la prima riguarda la rivendicazione della verità universale della fede cristiana in un mondo religioso pluralistico e la seconda concerne la domanda, circa quale chiesa rappresenti adeguatamente questa richiesta di verità universale.
Per il primo problema, non ci sono discussioni, dal momento che tutte le confessioni cristiane sostanzialmente condividono quanto affermato dalla DI. I primi tre capitoli della Dichiarazione sono rivolti soprattutto ai teologi pluralisti, i quali, erroneamente, ritengono che la rivendicazione dell’universalità salvifica del cristianesimo sia una espressione di intolleranza e di chiusura al dialogo. Anche i protestanti si sono espressi favorevolmente al riguardo, secondo il motto "Extra Christum nulla salus".
Anche F. X. Clooney esprime apprezzamento, ma anche perplessità, per quanto viene contenuto nella DI a proposito del dialogo interreligioso. La DI, infatti, enuncia regole importanti per guidare utilmente il pensiero dei cattolici: fede in Cristo in armonia col Credo; l’unicità e l’universalità salvifica di Cristo e l’unità di Cristo con Gesù di Nazareth; l’affermazione di Cristo, come unica via di salvezza. Tutta questa enfasi, però, che la DI pone su Gesù Cristo, per quanto giusta e vera, gli fa senso. In tal modo, secondo lui, si renderebbe difficile il dialogo con le altre religioni, perché a priori presuppone che l’unico salvatore sia Gesù Cristo. Avendo studiato per oltre 25 anni le tradizioni religiose hindù, egli ritiene di poter affermare col Papa che quando noi ci apriamo agli altri noi ci apriamo a Dio. Per cui sarebbe un errore rigettare le altre tradizioni.
9.2. Valutazione del linguaggio e del tono della DI
Sono molte le critiche al riguardo. Si parla di categorie dogmatiche (G. Gispert Sauch), di tono polemico e autoritario (Richard P.McBrien), di linguaggio irritante (Editoriale di "America"), di una specie di "Syllabus" (Ferdinand Kerstiens).
Ci sono, però, teologi che considerano tale linguaggio il più adeguato al contenuto dottrinale (Gianni Baget Bozzo).
Altri, come Kilian McDonnell, pur ammettendo che si tratti di un linguaggio tecnico adatto a contrastare il linguaggio relativistico e il trasferimento a materie teologiche di atteggiamenti mentali come democrazia, dialogo, incontro tra le culture, ritiene, tuttavia, ecumenicamente inadatto il tono dell’intero documento.
9.3. Suggerimenti
F. Sottocornola suggerisce una maggiore attenzione alla comunicazione mediatica:
"In questo mondo, dove i mezzi di comunicazione rendono tutto comune e nel quale ogni discorso anche interno e di famiglia è inevitabilmente udito da tutti, sarebbe stata opportuna una maggiore attenzione alle forme. Non tanto per modificare il contenuto, quanto per esporlo, tenendo presente che esso sarebbe stato letto, ascoltato, anche da altri, oltre ai destinatari diretti; altri che, pur non essendo destinatari immediati, erano e sono molto interessati ad esso".
Un elenco di suggerimenti vengono enunciati da Ferdinand Kerstiens, secondo il quale il Papa e le autorità vaticane dovrebbero riconoscere che non sono in possesso della verità; il magistero della Chiesa non dovrebbe condannare ma incoraggiare; il linguaggio sia più prudente e non ripeta le vecchie formulazioni ma ricerchi delle nuove; le autorità ecclesiastiche riconoscano che nei diversi ambienti culturali sono possibili e anche necessarie diverse teologie e cristologie, per aprire a tutti l’accesso a Gesù e alla sua salvezza; siano riconosciuti i diversi contesti culturali e religiosi del mondo e siano rispettate anche le diverse affermazioni di fede; sia maggiormente considerato il senso di fede dei fedeli, ad esempio, nelle questioni controverse sul ministero, sul celibato, sul sacerdozio femminile, sulla comunione con le chiese evangeliche, sulla comunione per i separati risposati, sulla contraccezione ecc.
9.4. Invito a continuare l’approfondimento
La quasi totalità dei teologi conclude la propria analisi valutativa della DI invitando all’ulteriore approfondimento delle tematiche sia concernenti il valore salvifico delle altre religioni (ad esempio, il contenuto della "mediazione partecipata" di Cristo), sia relative all’ecclesiologia ecumenica.
Una sintesi al riguardo ci viene offerta da Thomas P. Looney, per il quale la DI è un invito ad aprirsi alla speranza. Anzitutto il documento si fonda sul Vaticano II, che costituisce il suo sfondo interpretativo e la sua vera chiave di lettura. Per questo, contro ogni critica, il documento rimane nello spirito di speranza e di apertura del Concilio. Il fatto di richiamare le verità di fondo non è altro che una garanzia per un dialogo proficuo.
Di conseguenza, la DI non intende essere l’ultima parola, ma invita esplicitamente allo studio e alla ricerca di nuovi orizzonti teologici di possibilità. Da questo punto di vista, presenta una chiesa che non ha verità preconfezionate per tutte le domande, ma resta una chiesa pellegrina che continua a meditare e a ricercare.
In questo contesto si individuano tre aree di studio e di speranza: lo sviluppo di un linguaggio teologico, che esprima il valore degli scritti e delle credenze delle altre religioni; lo sviluppo di un linguaggio teologico, che esprima il valore della preghiera e del culto non cristiani; il bisogno di esplorare più profondamente le vie che i vari mezzi di salvezza sono già condivisi dalle comunità cristiane.
A proposito di quest’ultimo argomento ecumenico, la buona notizia proveniente dalla DI è la "preminenza data alla successione apostolica (valido ministero) e alla piena integrità del mistero eucaristico". Il compito dei teologi è motivare e trovare vie perché il ministero e la celebrazione eucaristica delle "comunità ecclesiali" possano mostrare di condividere la successione apostolica e la valida eucaristia.
La lettura della DI attraverso la lente dell’apprezzamento, della critica e della speranza porta a concludere chela DI non è un rintocco funebre per il dialogo ecumenico e interreligioso, bensì una chiamata a una fondazione più salda in un orizzonte rinnovato.
10. Linee di valutazione
1. Al di là di ogni considerazione di recezione positiva o negativa, la DI è stato un evento mediatico di portata eccezionale, difficilmente riscontrabile per altri documenti, che entrano subito nel dimenticatoio. La Chiesa riesce veramente a comunicare con tutto il mondo.
2. Nella valutazione teologica della DI c’è una accoglienza più o meno tacita dei primi tre capitoli cristologici, concernenti l’unicità salvifica del mistero di Cristo. In realtà, però, si ha l’impressione che non si sia ancora assimilata la problematica della teologia delle religioni con le sue affermazioni spesso pluralistiche e relativistiche. È sospetta l’assenza del dibattito sui presupposti filosofico-teologici della mentalità pluralistica.
3. Di conseguenza, per mancanza di adeguata conoscenza della complessa tematica, non vengono discussi, approfonditi e arricchiti i punti nevralgici della DI: economia cristologica, pneumatologica e trinitaria della salvezza; relazione tra l’azione del Verbo incarnato e quella dello Spirito Santo; rivelazione e ispirazione cristiana e libri sacri delle altre religioni; connessione tra economia salvifica di Cristo ed economia salvifica della Chiesa nei confronti delle altre religioni.
4. C’è quindi una superconcentrazione ecclesiologica ed ecumenica, che sposta su affermazioni secondarie il focus della Dichiarazione. Se in campo ecclesiologico-ecumenico la discussione si presenta ricca e promettente, in campo propriamente di teologia delle religioni il risultato si può considerare inferiore alle attese.
5. Manca soprattutto il confronto con gli autori delle zone da cui proviene la sfida del relativismo e del pluralismo religioso. Diversamente dai teologi cattolici "occidentali", che non raramente esprimono con franchezza forse eccessiva non tanto il loro assenso, quanto il loro cordiale dissenso nei confronti del documento, i teologi "orientali" non hanno fatto giungere il loro contributo valutativo. Si tratta di accoglienza tacita dei contenuti della DI, oppure di smarrimento di fronte all’asimmetria tra quanto ripropone la coscienza di fede cattolica e il loro supposto "progresso" nel dialogo interreligioso? Cosa è del problema della "verità? Perché, al riguardo, non è stata richiamata la relazione tra la DI e la Fides et Ratio? In realtà, quale cristologia e quale dottrina trinitaria viene sottintesa nella odierna "mentalità"pluralistica nei confronti delle religioni, così diffusa negli ambienti universitari cattolici?
6. D’altra parte è positivamente sorprendente la reazione dei Protestanti, in genere pacata e motivata, e la conoscenza e il rispetto che essi hanno dei documenti del Vaticano II, delle encicliche del Papa, dell’opinione che di essi ha la Chiesa cattolica. Significa che il dialogo ecumenico ha veramente riportato fiducia nei confronti della Chiesa cattolica, verso la quale non solo non c’è atteggiamento di distacca e di indifferenza, ma profondo interesse fino al punto da provare tristezza e sconforto per essere stati considerati appartenenti solo a "comunità ecclesiali". Questo indica che cominciano sentirsi bene e "a casa loro" nella Chiesa cattolica.
7. Anche l’esternazione di osservazioni critiche da parte di alcuni Vescovi cattolici, se indica libertà e serenità di spirito, pone, però, il problema della recezione dei documenti magisteriali da parte dei pastori della Chiesa.
11. Recezione del magistero e formazione pastorale: la parola dei Pastori
come
“evento ecclesiale di condivisione nella comunione”La recezione da parte dei media – importantissima perché condiziona l’accoglienza o meno di un determinato documento magisteriale e perché è l’unica informazione che spesso i fedeli riescono ad avere - è stata parziale, perché non ha centrato il verso scopo della DI; è stata allarmante, perché ha usato toni catastrofici circa la fine del dialogo ecumenico e del dialogo interreligioso; è stata sostanzialmente scorretta. Il risultato è stato piuttosto negativo, perché la notizia è arrivata in modo errato. Anche se gli specialisti dei media notano un risvolto abbastanza positivo nel grande parlare e scrivere che se ne è fatto.
Questo episodio, però, non è un incidente di percorso della sola "Dominus Iesus". Giovedì, 22 novembre 2001, al TG2 delle 20.30, molto ridotto perché subito dopo c’era una partita internazionale di calcio, nel presentare l’ultima notizia, relativa all’esortazione postsinodale "Ecclesia in Oceania", la conduttrice ha detto poche battute e ha concluso con queste parole: il Papa chiede perdono per gli errori dei missionari e per gli abusi sessuali commessi dai sacerdoti. Ha poi sorriso e ringraziato per l’ascolto. L’intero contenuto dell’esortazione è stato quindi concentrato sugli errori e sugli abusi sessuali dei sacerdoti.
Anche qui, si è trattato di una vera e propria manipolazione e falsificazione di un documento. Del resto, la stessa cosa capitò al lancio del Catechismo della Chiesa Cattolica, il cui contenuto fu ridotto alla sola discussione sulla pena di morte e sulla guerra giusta.
In questi casi, il vero tema religioso dei documenti, il mistero di Dio e della nostra salvezza, l’azione evangelizzatrice e magisteriale della Chiesa, non viene mai enunciato.
Si pone allora una riflessione pastorale, sull’opportunità di dare l’intero documento, sotto embargo, alle agenzie di stampa e ai media, qualche tempo prima. Dal momento che il testo non viene mai riportato per intero e dal momento che si scelgono solo quei punti, spesso secondari, che possono fare scandalo o suscitare polemiche (e qui si nota una tecnica raffinata di falsifizione del contenuto, pur citando la lettera del testo), forse conviene offrire previamente solo una sintesi giornalisticamente corretta, ampia e contenente le informazioni essenziali: destinatari, occasione, scopo, breve riassunto dei punti centrali (con opportuno linguaggio giornalistico) e valutazione finale (per esempio, nel nostro caso: riaffermazione dell’identità cattolica nel dialogo interreligioso).
Invece, il documento per intero dovrebbe essere conosciuto integralmente e previamente studiato da parte di tutti i Vescovi e dai sacerdoti, i quali, il giorno stesso della promulgazione ufficiale, se ne dovrebbero fare interpreti autorevoli sulla stampa cattolica, organizzando conferenze stampa, incontri con i sacerdoti e con i fedeli, distribuzione del testo. Il documento, essendo un fatto ecclesiale, deve essere vissuto come un importante evento di Chiesa, come esperienza di formazione, di evangelizzazione, di catechesi.
La parola del Papa oltre che un avvenimento
“consumistico” della stampa quotidiana, deve essere visto anche come un magistero che tende a formare la coscienza cristiana.Il tema della recezione pone quindi una questione importante di comunicazione ecclesiale, che dovrebbe avere le seguenti note: essere autorevole, immediata, corretta, convincente, positiva. Altrimenti, documenti elaborati con somma cura, vengono completamente stravolti dalle agguerrite agenzie di stampa.
Per quanto riguarda, invece, la recezione teologica e pastorale, si possono notare due ondate. La prima ondata (da settembre a dicembre del 2000), immediata, è stata spesso concitata, polemica, detta e scritta sopra le righe. Esemplari, in negativo, sono stati l’editoriale molto corrosivo pubblicato sul periodico America, o il volume edito in Germania da Michael J. Rainer e dal titolo molto espressivo: Dominus Iesus. Anstössige Wahrheit oder anstössige Kirche? Ovviamente, non sono mancate reazioni positive, anche da parte di non cattolici, i quali hanno mostrato un maggiore autocontrollo.
La seconda ondata, ancora in corso, ha smorzato notevolmente i toni polemici. Riscopre e valuta sempre più positivamente il contenuto cristologico ed ecclesiologico antirelativistico e antipluralistico della DI. Anche le affermazioni dei numeri 16-17 del capitolo IV, che hanno fatto maggiormente scalpore, vengono viste nella loro realtà di dottrina corrispondente alla coscienza di fede cattolica in campo ecclesiologico.
In campo della recezione, sovrebbe essere, però, maggiore il protagonismo dei sacerdoti, il cui compito pastorale include anche quello di illuminare e istruire i fedeli.
12. Introduzione alla bibliografia
AMATO A., Unicidad y Universalidad Salvífica de Jesucristo y de la Iglesia. Presentación de la "Dominus Iesus", in " Toletana " 4 (2001) p. 9-30.
CLOONEY F.X., Dominus Iesus and the New Millennium, in " America " 183 (2000) October 28, n. 13, p. 16-18.
DALY Cardinal Cahal B., "Dominus Iesus" anche Ecumenical Dialogue, in "L’Osservatore Romano", Weekly Edition (March 2001) n. 10 p. 9-11.
La Déclaration "Dominus Iesus", in "Nova et Vetera" 75 (2000) p. 5-8.
Antonio DUCAI, Salvezza nel Logos o salvezza in Cristo? L’inseparabilità tra il Logos e Gesù nel contesto della teologia delle religioni, in "Annales Theologici" 15 (2001) p. 257-281.
Giuseppe FURLONI, La verità al servizio della missione e del dialogo. Riflessioni sulla Dichiarazione "Dominus Iesus", in "Rivista di Vita Spirituale" 55 (2001) p. 273-290.
Neil ORMEROD, Dominus Iesus: A Theological Commentary, in "The Australasian Catholic Record" 78 (2001) p. 442-453.
RATZINGER Kardinal Ioseph, "Es scheint mir absurd, was unsere lutherischen Freunde jetzt wolle". Die Pluralität der Bekenntnisse relativiert nicht den Anspruch des Wahren: Joseph Kardinal Ratzinger antwortet seinen Kritikern, in M. J. RAINER (Red.), "Dominus Iesus". Anstössige Wahrheit oder anstössige Kirche? Dokumente, Hintegründe und Folgerungen, Münster, LIT 2001, p. 29-45.
Giorgio SGOBBI, "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente". Riflessione sulla "Dominus Iesus", in "Ecclesia Mater" 39 (2001) n. 1 p. 33-41.
SOTTOCORNOLA F., Il dialogo interreligioso e la Dominus Iesus. Un caso di incontro, in "Il Regno Attualità" 46 (2001) p. 66-68.
SULLIVAN F.A., The Impact of Dominus Iesus on Ecumenism, in "America", 183 (2000) October 23, n. 13, p. 8-11.