IL CELIBATO ECCLESIASTICO

NELLA DOTTRINA E NELLA STORIA DELLA CHIESA

Il gesuita Francesco Antonio Zaccaria, professore al Collegio della Sapienza all’epoca dell’Illuminismo, un giorno scrisse che il futuro della legge sul celibato sacerdotale dipendeva, in un certo senso, dalla conoscenza delle sue origini e della sua evoluzione; ed era questa convinzione, diceva, ad animarlo nelle sue ricerche e pubblicazioni. Se il padre gesuita fosse vivo oggi, secondo me, si radicherebbe ancor di più in questa idea vedendo il numero impressionante di libri e di articoli che, da una trentina di anni, cercano di dimostrare l’origine tardiva di questa disciplina per giustificare alcuni cambiamenti resi necessari, a quanto dicono, dalle circostanze. La convinzione di P. Zaccaria sarebbe inoltre consolidata, ma questa volta in senso contrario, dal rinnovamento teologico che, dal Vaticano II, stimola le ricerche storiche sulle origini della legge sul celibato sacerdotale. Paolo VI ha incoraggiato queste ricerche nella sua enciclica sul celibato, e fin dall’inizio del suo pontificato, anche il Papa Giovanni Paolo II ha attirato l’attenzione sull’importanza della storia, dicendo che il celibato si ispira all’esempio di Nostro Signore, alla dottrina apostolica e a tutta la tradizione della Chiesa Latina.

Si è sempre più convinti, in effetti, che la storia e i fondamenti teologici del celibato dei chierici siano strettamente collegati. Troppo spesso una visione ristretta della storia del celibato porta ad un indebolimento dei fondamenti teologici della disciplina; l’approfondimento delle ragioni dottrinali che la motivano incoraggia invece la ricerca storica che risale alle origini.

IL SECONDO CANONE DEL CONCILIO DI CARTAGINE DEL 390

Personalmente mi sono trovato impegnato per caso in questa ricerca nel 1963-1964, mentre preparavo un dottorato in teologia. Nel costituire un dossier per uno studio sulla teologia del sacerdozio in Sant’Agostino, la mia attenzione fu attratta da un documento che fu per me un’autentica scoperta. Voglio parlare del 2° canone di un concilio africano tenutosi a Cartagine nell’anno 390. Si trattava, naturalmente, solo di una riscoperta, poiché il Concilio di Cartagine era noto da sempre agli storici e ai teologi di ogni epoca. Fatto sta che purtroppo, per un sorprendente fenomeno di eclissi, il 2° canone di questo sinodo, riguardante la continenza dei chierici, era da tempo caduto nell’oblio, o considerato irrilevante dagli autori contemporanei. Uno studio obiettivo consente tuttavia di stabilire con certezza che si tratta di un documento di grande rilievo per la storia e per la dottrina. Studi recenti, come quello del cardinale Stickler, di Roman Cholij o di Stefan Heid, dimostrano, anche essi, che questo documento canonico del IV secolo è illuminante e può orientare in maniera coerente e costruttiva le ricerche sulle origini della legge sul celibato sacerdotale.

Propongo dunque, per iniziare, una rilettura del canone:

"Il vescovo Epigonio disse: "Siccome nel concilio precedente è stato trattato della continenza e castità, i tre gradi i quali per motivo dell'ordinazione sono legati ad un certo obbligo di castità - vale a dire il vescovo, il sacerdote e il diacono - devono essere più completamente istruiti sulla conservazione della castità".

Il vescovo Genetlio continuò: "Come è stato detto sopra, conviene che i sacri presuli, i sacerdoti di Dio e i Leviti, ossia tutti coloro che servono ai divini sacramenti, siano continenti in tutto per cui possano senza difficoltà ottenere ciò che chiedono dal Signore; affinché così anche noi custodiamo ciò che hanno insegnato gli apostoli e che tutto il passato ha conservato".

A ciò i vescovi risposero unanimemente: "Noi siamo tutti d'accordo che vescovi, sacerdoti e diaconi, custodi della castità, si astengano anch'essi stessi dalle loro mogli, affinché in tutto e da tutti coloro che servono all'altare sia conservata la castità."

Questo documento del IV secolo, che abbiamo praticamente appena scaricato da Internet, assomiglia alla homepage di un sito Web sulla quale sono sottolineate alcune frasi che, con altrettanti collegamenti, ci rimandano ad una serie di testi riguardanti lo stesso soggetto, o che forniscono sviluppi utili.

Prima vorrei però esplicitare le ragioni per cui il canone di un modesto sinodo africano meriti, a mio avviso, un posto centrale in uno studio sulle origini della legge sul celibato:

1. Innanzitutto per il contenuto, poiché con poche frasi questo documento dà un quadro molto completo della situazione, sia dal punto di vista storico che da quello dottrinale. In effetti indica tre cose importante:

- la prima è l’esistenza della clerogamia nei primi secoli della Chiesa; molti vescovi, sacerdoti e diaconi erano uomini sposati, e dal modo in cui sono rigirate le espressioni usate nel testo si intuisce addirittura che la maggior parte lo erano. A questi uomini sposati è imposto il dovere della continenza perfetta, ossia l’astensione dai rapporti coniugali con la propria moglie.

- Il secondo punto importante è che non si tratta di una disciplina nuova, ma di fedeltà ad un insegnamento degli apostoli: "Ut quod apostoli docuerunt, nos quoque custodiamus".

- Infine, nel testo vengono elencate le ragioni teologiche per cui i vescovi africani vogliono restare fedeli a questa tradizione che considerano apostolica: vescovi, sacerdoti e diaconi sono persone consacrate che "sono al servizio dei sacramenti divini" e la continenza perfetta è la condizione per cui "possano senza difficoltà ottenere ciò che chiedono dal Signore", "quo possint simpliciter quod a Deo postulant impetrare".

2. La seconda ragione è che il canone promulgato nell’anno 390 non è un documento isolato, ma è stato ratificato dalla Chiesa d’Africa durante tutta la storia, fino alla sua scomparsa dopo le invasioni arabe del VII secolo. Si deve segnalare in particolare il Concilio generale che si tenne a Cartagine nel maggio 419, presieduto da Faustino di Fermo, legato pontificio, con la partecipazione di 240 vescovi africani, tra i quali Sant’Agostino. In quell’occasione fu pubblicato il Codex canonum Ecclesiae Africanae, nel quale viene esplicitamente confermato il testo del 390, che impone ai suddiaconi lo stesso obbligo. Le ultime raccolte canoniche della Chiesa d’Africa, ossia la Breviatio Ferrandi nel VI secolo, e la Concordia Cresconii nel VII, ripropongono in forma di antologia tutti i documenti precedenti, compreso naturalmente il canone sulla continenza dei chierici.

3. Terzo, le affermazioni enunciate dal Concilio di Cartagine non sono specifiche della Chiesa d’Africa, bensì in perfetta sintonia con i documenti ufficiali della Chiesa di Roma. Dello stesso periodo conosciamo tre decretali promulgate dai Sommi Pontefici che espongono la fondatezza della continenza perfetta per i chierici maggiori, e la ricollegano a una tradizione degli apostoli e alle Scritture. La prima è la decretale Directa del papa Siricio, datata il 10 febbraio 385. In risposta alla consultazione del vescovo Himerio di Tarragona, Siricio deplora le numerose infrazioni di cui parla il suo corrispondente nella sua lettera, confuta le obiezioni che alcuni vogliono trarre dall’esempio dei Leviti dell’Antico Testamento, e conclude: "Per la legge inscindibile di tali decisioni noi tutti, sacerdoti e diaconi, ci troviamo vincolati dal giorno della nostra ordinazione, e obbligati a mettere i nostri cuori e i nostri corpi al servizio della sobrietà e della purezza". Una seconda decretale, chiamata Cum in unum, sempre del Papa Siricio, comunica le decisioni prese da un concilio di 80 vescovi riuniti a Roma nel gennaio del 386. Tra le cose "stabilite da una costituzione apostolica e una costituzione dei Padri", vi è l’obbligo alla continenza per i ministri superiori del chiericato. Infine la decretale Dominus inter, probabilmente del Papa Innocenzo I (401? - 417), ricollega anch’essa inequivocabilmente la disciplina alle Scritture e alla tradizione apostolica.

È molto importante notare che la Chiesa d’Africa, pur essendo in sintonia con la Chiesa di Roma, non dipende da questa per le sue decisioni; essa afferma anzi gelosamente la sua autonomia, come testimonia il caso ben documentato di Apiario, e vuole essere innanzitutto fedele al Concilio di Nicea. Tale constatazione ha il suo peso, come vedremo, nell’interpretare i documenti del primo concilio ecumenico riguardanti la castità sacerdotale.

4. Una quarta ragione per cui il secondo canone del Concilio di Cartagine del 390 merita la nostra attenzione è il ruolo che ha avuto in ogni epoca della storia della Chiesa, in particolare nei momenti di crisi in cui la disciplina del celibato fu messa radicalmente in discussione. In particolare nell’XI secolo, i promotori della riforma gregoriana usarono il canone come argomento decisivo per affrontare i numerosi contestatari dell’epoca. Nel XIII secolo, San Raymundo da Peñafort, autore delle Decretali di Gregorio IX, basa sul canone la sua convinzione dell’origine apostolica della legge. Gli esperti della Commissione teologica del Concilio di Trento, incaricata di esaminare le tesi luterane sul matrimonio dei chierici, lo conoscevano. E quando i principi tedeschi, ansiosi di metter fine nel loro paese allo scandalo dei sacerdoti concubinari, supplicano Papa Pio IV di rinunciare alla legge sul celibato, questi risponde con un non possumus, citando in primo luogo il Concilio di Cartagine. È opportuno ricordare anche i numerosi teologi e storici del periodo posttridentino che, nei loro studi, danno al canone un rilievo particolare per consolidare ancora una volta la posizione tradizionale secondo la quale il celibato ha un’origine apostolica. Solo alcuni nomi: nel XVI secolo il gesuita Robert Bellarmin, in uno studio intitolato Coelibatum jure Apostolico rectissime annexum ordinibus sacris; Cesar Baronius, celebre autore degli Annali ecclesiastici, e il Cardinale Stanislas Hosius, nel 56° capitolo della sua Confessio catholicae fidei christiana. Nel XVII secolo l'oratoriano Louis Thomassin, nella Vetus et nova ecclesiae disciplina circa beneficia et beneficiarios, e il bollandista Jean Stiltinck, con due dissertazioni critiche pubblicate negli Acta Sanctorum. Nel XVIII secolo il Padre Francesco Antonio Zaccaria, con due volumi di polemica di grande valore scientifico per l’epoca. Nel XIX secolo, segnaliamo la monumentale compilazione di Augustino de Roskovany, che rimane una valida opera di consultazione; e i due articoli dell’orientalista tedesco Gustave Bickell, che si oppose a François-Xavier Funk in una vivace controversia. Difendono tutti l’apostolicità della legge sul celibato dei chierici, e citano a sostegno il secondo canone del sinodo di Cartagine. Nel XX secolo, infine, si fa sentire la voce di Papa Pio XI con l’enciclica Ad catholici sacerdotii fastigium, che cita esplicitamente il nostro canone africano. Sono felice di completare la lista con il recente Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, pubblicato dalla Congregazione del Clero nel 1994, nel quale possiamo leggere, con riferimento ai concili d’Africa che "la Chiesa, fin dai tempi apostolici, ha voluto conservare il dono della continenza perpetua dei chierici".

5. Un’ultima ragione, e non meno importante, che dimostra l’importanza del secondo canone di Cartagine è l’uso che ne fecero i Padri orientali del Concilio in Trullo per dimostrare che la loro tradizione risaliva ai tempi degli Apostoli. Il Concilio in Trullo, tenutosi a Costantinopoli nell’anno 691, è giustamente considerato "l’ultima parola della disciplina ecclesiastica per la Chiesa Greca". Sul punto riguardante la continenza dei chierici, si oppone alla regola vigente nella Chiesa Latina e autorizza l’uso del matrimonio per i suddiaconi, i diaconi e i sacerdoti già sposati prima dell’ordinazione, esigendo tuttavia da loro una continenza temporanea nei periodi che sono loro assegnati. Per giustificare questo regolamento ricollegandolo alla tradizione antica, li vediamo invocare con autorevolezza il secondo canone del Concilio di Cartagine, al quale fanno subire tuttavia una modifica sulla quale ritorneremo.

Per tutte queste ragioni che dimostrano chiaramente il ruolo cruciale del canone africano del 390 nella disciplina del celibato dei chierici, sono personalmente convinto che il detto canone può servire sicuramente come filo conduttore e guida nell’interpretazione di altri documenti dei primi secoli della Chiesa relativi alla storia delle origini.

Ho detto prima, per usare un’immagine, che il testo del canone si presenta come la homepage di un sito, con diversi "link" che rinviano ad altre pagine Web dove compaiono i documenti appartenenti allo stesso argomento di ricerca, ossia la continenza dei membri superiori del chiericato nei primi secoli. Vi propongo quindi di cliccare su questi link per esaminare, partendo dal secondo canone, alcuni documenti importanti.

LA CLEROGAMIA NEI PRIMI SECOLI DELLA CHIESA

Esaminiamo innanzitutto l’obbligo imposto a vescovi, sacerdoti e diaconi di astenersi dalle loro consorti: "Il vescovo Genetlio continuò: "Come è stato detto sopra, conviene che i sacri presuli, i sacerdoti di Dio e i Leviti, ossia tutti coloro che servono ai divini sacramenti, siano continenti in tutto"... A ciò tutti i vescovi risposero: "Noi siamo d'accordo che vescovo, sacerdote e diacono, vale a dire tutti coloro che toccano i sacramenti quali custodi della castità devono astenersi dalle loro spose""

La legislazione contemporanea

Questi passi del canone rimandano prima di tutto ad un insieme di testi legislativi che, nel IV secolo, esprimono lo stesso obbligo. Per il momento possiamo accontentarci di elencarli, ritorneremo poi su alcuni testi specifici che sollevano problemi particolari. Essi sono: il 33° canone del Concilio di Elvira (c. 305), il 29° canone di un "Concilio generale dell’Occidente", svoltosi probabilmente ad Arles nel 314, il 1° canone del sinodo riunito a Neocesarea tra il 314 e il 325, e le tre Decretali dei Papi Siricio e Innocenzo I, già citate, (385, 386, c. 400).

Questi testi confermano ciò che insegna il canone di Cartagine: molti chierici all’epoca erano sposati. Il matrimonio era formalmente vietato dopo l’ordinazione, ma a questa erano ammessi anche coloro che erano già sposati; ad una condizione, però, ossia di essere da allora in poi completamente continenti. La disciplina è dunque caratterizzata da un doppio obbligo: il dovere di mantenere il celibato dopo l’ordinazione agli ordini maggiori per i non sposati, e il dovere di essere continenti con la propria consorte per gli sposati.

Esempi di chierici sposati

Ora vediamo degli esempi concreti, e apriamo sul nostro sito una nuova pagina, una pagina sulla quale appariranno nomi di vescovi, sacerdoti e diaconi che, secondo le fonti storiche, erano o erano stati sposati. In effetti è istruttivo conoscere veramente lo sfondo dei regolamenti canonici e mettere in luce, per scrupolo di obiettività, la situazione matrimoniale dei chierici dell’epoca. Se ci limitiamo al IV secolo, disponiamo, allo stato attuale delle ricerche, di un elenco di 50 nomi, tra i quali alcune figure di rilievo: Artemio, vescovo di Alvernia; Gregorio di Nissa, che era probabilmente sposato con una donna di nome Teosebia; Gregorio Illuminatore, primo katholikos d’Armenia, sposato e padre di due figli; Ilario di Poitiers, sposato e padre di una figlia di nome Apra; Nerses Magno, katholikos d’Armenia, pronipote di Gregorio Illuminatore e padre del katholikos Sahak Magno; Paciano, vescovo di Barcellona, padre del prefetto del pretorio Dextrus; Reticio vescovo di Autun; Severo vescovo di Ravenna, padre di una figlia; Simplicio vescovo di Autun; Symposius vescovo d’Astorga in Spagna, padre di un figlio che gli succederà un giorno come vescovo; forse anche il Papa Anastasio I, che, a detta di San Girolamo, sarebbe il padre di Innocenzo I, suo successore; il sacerdote Apollinare, padre del vescovo Apollinare di Laodicea; il sacerdote Potitus, padre del diacono Calpomius, che fu il padre di San Patrick di Irlanda; e diversi altri. Per alcuni, le note biografiche attestano sia che erano vedovi, come Reticio d'Autun, sia che erano separati dalle loro mogli nel momento dell’ordinazione, come Severo di Ravenna; per gli altri, nulla viene detto sulla loro vita coniugale, ma di nessuno possiamo affermare che abbia vissuto maritalmente e legittimamente con la propria consorte dopo l’ordinazione; c’è motivo anzi di presumere che questi pastori, loro stessi responsabili dell’applicazione della disciplina prevista dai canoni, abbiano osservato la perfetta continenza.

La testimonianza degli scrittori ecclesiastici

Sempre a proposito dell’obbligo imposto ai chierici di astenersi dalle loro consorti, il secondo canone di Cartagine rimanda ad un’altra categoria di documenti, quella degli scrittori ecclesiastici che, nel IV secolo, si fanno testimoni della disciplina. Su un’altra pagina del nostro sito immaginario, compaiono ora i nomi dei principali rappresentanti della patristica: Cirillo di Gerusalemme, Atanasio d’Alessandria, Efrem d'Edessa, Basilio di Cesarea, l'anonimo Ambrosiaster, Epifanio di Costanza, Ambrogio di Milano, Girolamo e Gregorio di Nazianzo. Tutti attestano che esiste la disciplina della continenza perfetta per vescovi, sacerdoti e diaconi. Ricordiamo solo la testimonianza di San Girolamo che è tra i più espliciti. Nella lettera a Pammachio, scrive:

"Il Cristo vergine, la Vergine Maria hanno per ogni sesso consacrato gli inizi della verginità; gli Apostoli furono o vergini o continenti dopo il matrimonio. Vescovi, sacerdoti e diaconi sono scelti vergini o vedovi; e in ogni caso, una volta ricevuto il sacerdozio, osservano la castità perfetta".

E nell’Adversus Vigilantium, lascia intendere chiaramente che non si tratta solo di una disciplina occidentale:

"Che farebbero le Chiese d’Oriente? Che farebbero quelle d’Egitto e della Sede apostolica, loro che accettano i chierici solo se sono vergini o continenti, o (semmai hanno avuto) una sposa, se hanno rinunciato alla vita matrimoniale".

Grazie al secondo canone del Concilio di Cartagine e ai documenti che abbiamo appena esaminato (testi legislativi, esempi di chierici sposati e testimonianze di scrittori patristici), siamo dunque in grado di avere un’idea abbastanza chiara della situazione del clero nei primi secoli per quanto riguardo il celibato.

Possiamo riassumerla nel modo seguente: Non esisteva una legge che facesse dello stato di celibe un requisito per l’ammissione agli ordini. Dopo l’ordinazione il matrimonio è vietato, ma in compenso non c’è nessun testo legislativo che escluda dagli ordini uomini sposati. A questi chierici sposati viene chiesto di essere completamente continenti con la propria consorte, se è ancora di questo mondo.

Abituati come siamo oggi a parlare del celibato ecclesiastico come di una disciplina canonica, che non solo proibisce il matrimonio dopo l’ordinazione ma, come regola generale, limita l’accesso agli ordini solo agli uomini non sposati, ecco che si apre una nuova prospettiva, e conviene tenerla presente per non creare confusione. La disciplina dei primi secoli è caratterizzata, sottolineamolo, da un duplice obbligo: il dovere di conservare il celibato dopo l’ordinazione agli ordini maggiori per i non sposati, e il dovere di essere continenti con la propria consorte per gli sposati. Nel primo caso si può parlare di "legge del celibato in senso stretto", nel secondo di "legge del celibato-continenza".

"CIO’ CHE HANNO INSEGNATO GLI APOSTOLI"

Ritorniamo ora al testo del nostro canone di Cartagine e soffermiamoci sulla frase chiave che, come abbiamo visto, fa di esso un documento fondamentale dell’inchiesta storica, poiché fa risalire direttamente agli Apostoli l’obbligo della castità perfetta per i ministri dell’altare:

"Custodiamo ciò che hanno insegnato gli apostoli e che tutto il passato ha conservato, dichiarano i Padri africani".

"Ut quod Apostoli docuerunt, et ipsa servavit antiquitas, nos quoque custodiamus".

Per cercare di definire il significato di questa espressione, e per verificare il suo grado di credibilità, è importante affrontare lo studio di alcune questioni spesso controverse, in particolare: il matrimonio degli Apostoli, l’interpretazione del 33° canone del Concilio di Elvira, le decisioni sulla castità dei chierici prese al primo Concilio ecumenico di Nicea, avvenuto più di mezzo secolo prima, come si sa, del sinodo cartaginese del 390, e infine la legislazione del Concilio in Trullo della fine del VII° secolo.

La questione del matrimonio degli Apostoli

Un primo "link" sulla frase "ut quod Apostoli docuerunt" si apre su una pagina che intitoliamo: "la questione del matrimonio degli Apostoli". Non vi è alcun dubbio, in effetti, che la risposta a questo quesito è di grande interesse nella problematica relativa alle origini della legge del celibato-continenza. Il Papa Paolo VI scriveva nella sua enciclica sul celibato:

"Gesù, che scelse i primi ministri della salvezza e li volle introdotti alla intelligenza dei misteri del regno dei cieli (Mt 13,11; Mc 4,11; Lc 8,10), cooperatori di Dio a specialissimo titolo, ambasciatori suoi (2 Cor 5,20), e li chiamò amici e fratelli (Gv 15,15; 20,17), per i quali consacrò se stesso, affinché fossero consacrati in verità (Gv 17,19), promise sovrabbondante ricompensa a chiunque avrà abbandonato casa, famiglia, moglie e figli per il regno di Dio (Lc 18,29-30)" (n. 22).

Ci si chiede giustamente, poiché gli Apostoli hanno goduto di tali privilegi, se non si siano sentiti direttamente interpellati dalla verginità di Colui che li chiamava "amici e fratelli", e se non siano stati i primi ad abbandonare tutto, compresa la propria consorte, per il Regno dei Cieli di cui avevano una profonda intelligenza, come sottolinea Paolo VI.

Dall’analisi dei dati scritturistici e delle testimonianze patristiche relative al matrimonio degli Apostoli, possiamo farci un’idea piuttosto giusta sulla questione. Senza entrare qui nei particolari, giungiamo ad una duplice conclusione:

Innanzitutto, eccetto Pietro, che come attestano i vangeli sinottici era sposato, non si sa nulla di certo sugli altri Apostoli. Tuttavia all’epoca patristica una tradizione ricorrente affermava che Giovanni era vergine. Inoltre, la maggior parte dei Padri pensano che Paolo non fosse sposato, o altrimenti che era vedovo.

Ma se i testi scritturistici non possono insegnarci niente sul genere di vita condotta dagli Apostoli, i Padri invece sono unanimi nel dire che quelli di loro eventualmente sposati hanno poi smesso la vita coniugale e praticato la continenza perfetta. In diversi modi, i Padri affermano tutti ciò che afferma Girolamo nella lettera a Pammachio: gli Apostoli furono o vergini o continenti dopo il matrimonio.

Questo consenso dei Padri costituisce un’autorevole ermeneutica dei passi del vangelo di San Matteo e del vangelo di San Luca in cui si allude al distacco dei discepoli: "Allora Pietro prese a dirgli: "Ecco noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito..." (Mt 19, 27). "Ed egli rispose loro "In verità vi dico: Non vi è nessuno che abbia abbandonato casa, moglie, fratelli, genitori, figli, per il regno di Dio che non riceva molto di più in questo tempo, e nel secolo a venire la vita eterna"" (Lc 18, 28-30). Tutti i Padri, senza eccezioni, sentivano che gli Apostoli erano stati i primi ad abbandonare tutto, compresa eventualmente la propria consorte, per il Regno di Dio. Abbiamo qui un’eco della predicazione ufficiale dei primi secoli nei grandi centri del mondo cristiano, e l’espressione della memoria collettiva delle Chiese apostoliche che guardano l’esempio lasciato dagli Apostoli. Questo argomento tratto dalla tradizione patristica non è certo irrilevante.

Il 33° canone del Concilio di Elvira (c. 305)

La "ut quod Apostoli docuerunt" del secondo canone di Cartagine si scontra a volte con una difficoltà derivante dal 33° canone del Concilio di Elvira. Vediamo dunque il testo:

"Si è d'accordo, dicono i vescovi di Spagna riuniti ad Elvira verso il 305, sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell'altare, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale".

Questo famoso canone è cronologicamente la prima legge scritta che conosciamo sul celibato-continenza nei primi secoli della Chiesa. Alcuni ne deducono che siamo in presenza di una nuova disciplina: il sinodo di Elvira segna una svolta, pensano, imponendo ai chierici superiori una continenza assoluta, mentre era stato sempre permesso di condurre una vita coniugale dopo l’ordinazione. È vero che qui i vescovi spagnoli non si riferiscono ad una tradizione apostolica, come faranno i vescovi africani, ma non danno nemmeno l’idea di innovare. Nulla è detto della disciplina precedente, mentre una misura di tale importanza avrebbe bisogno di spiegazioni per giustificare un improvviso cambiamento. Non si impone da un giorno all’altro a dei coniugi, anche se chierici, la difficile ascesi della continenza, senza dire perché ciò che fino ad allora era permesso diventa improvvisamente vietato; soprattutto con una sanzione estrema come l’esclusione dal chiericato. Avrebbe suscitato giustamente una tempesta d’indignazione e un rifiuto in massa. Non è dunque possibile considerare il 33° canone di Elvira come una nuova legge; si rivela piuttosto come una disposizione promulgata per ridare vigore a una disciplina che, in seguito alle persecuzioni, non era più osservata come doveva esserlo. Il sinodo di Elvira, che rappresentava tutta la Spagna, è dunque un importante testimone di una tradizione più antica, come ha appunto fatto osservare Papa Pio XI nella sua enciclica sul sacerdozio: "Prima sacri caelibatus lineamenta in tricesimo tertio Eliberitani Concilii canone describuntur, saeculo videlicet ineunte quarto habiti, cum adhuc saeviret christiani nominis insectatio; quod profecto rem iamdudum in more fuisse testatur": "Infatti la legge del celibato ecclesiastico, la cui prima traccia scritta si riscontra in un canone del Concilio di Elvira all'inizio del secolo IV, quando ancora fremeva la persecuzione, non fa che dar forza di obbligazione a una certa morale esigenza".

L’aneddoto di Paphnunzio

Un altro documento troppo spesso invocato tutt’oggi contro la tradizione apostolica del celibato è il famoso episodio di Paphnunzio. È giunto il momento di esaminarlo. A detta dello storico greco Socrate, i Padri del Concilio di Nicea hanno voluto vietare a vescovi, sacerdoti e diaconi di avere relazioni coniugali con le loro consorti; ma l’intervento vigoroso di un vescovo dell’alta Tebaide, un certo Paphnunzio, li avrebbe dissuasi dal farlo. A tal punto che il Concilio ecumenico avrebbe lasciato alla fine ad ognuno la libertà di agire come voleva.

Le ricerche effettuate da molti anni hanno dimostrato con sufficiente pertinenza il carattere fittizio di tale aneddoto. Gli storici moderni lo considerano sempre più una favola, e ben presto sarà inutile parlarne. Tuttavia, essendo riportato ancora in vecchi articoli di dizionari e su siti Internet che non sono stati aggiornati, alcuni continuano a farvi fiduciosamente riferimento; bisogna allora dire qualche parola sulle ragioni per cui la veracità di questa storia è stata a buon diritto contestata.

- La prima ragione è che Socrate, che scrisse la Storia Ecclesiastica verso il 440, ossia più di cento anni dopo il Concilio di Nicea, non è in grado di citare la fonte dell’aneddoto. Trattandosi di un episodio così importante, questa lacuna suscita giustamente diffidenza tra i critici.

- D’altra parte Socrate è il primo e praticamente l’unico nei primi secoli della Chiesa a riportare il fatto. Nei 115 anni che separano il Concilio di Nicea dalla redazione del libro, nessuno dei numerosi scrittori ecclesiastici, sia in Occidente che in Oriente, fanno la minima allusione a Paphnunzio. Né Eusebio di Cesarea, che aveva assistito al Concilio e la sua simpatia per gli Ariani l’avrebbe piuttosto reso incline a riportare una storia del genere, né Ambrogio di Milano, né Epifanio di Salamina, né Girolamo di Betlemme, né i Papi Siricio e Innocenzo I, né gli episcopati dell’epoca generalmente premurosi di agire secondo le decisioni del primo concilio ecumenico, in particolare, come abbiamo visto, l’episcopato africano che, per tutta la durata della sua storia afferma l’origine apostolica della continenza dei chierici; nessuno di questi personaggi o di questi gruppi sembra conoscere l’aneddoto un giorno raccontato da Socrate.

- Una ragione forse ancora più fondata è il silenzio dei Padri orientali del Concilio in Trullo del 691. Questo Concilio, sul quale ritorneremo tra poco, ha autorizzato l’uso del matrimonio per sacerdoti e diaconi. È tuttavia significativo che non si faccia riferimento alla decisione che, a detta di Socrate, e la sua Storia ecclesiastica era ormai pubblicata da tempo, sarebbe stata presa dal primo concilio ecumenico in seguito all’intervento di Paphnunzio, ossia la libertà data ad ognuno di fare uso del matrimonio contratto prima dell’ordinazione. Perché questo silenzio? Costatiamo innanzitutto che l’episodio in questione non è in perfetta sintonia con la disciplina orientale, poiché il Concilio in Trullo conserva l’obbligo del celibato per i vescovi e richiede ai sacerdoti e diaconi sposati la continenza temporanea. Se si nota poi che Paphnunzio non è mai menzionato negli scritti canonici precedenti il XIV secolo, si conclude che verosimilmente i Padri greci del 691 o non avevamo mai sentito parlare dell’aneddoto, o lo consideravano già una leggenda, il che è più plausibile.

- Infine, un quarto argomento di critica esterna è stato sviluppato in tempi moderni dal professor F. Winkelmann, che dimostra con certezza che il personaggio di Paphnunzio è il "prodotto di un’affabulazione agiografica progressiva".

Per tutte queste ragioni oggi gli studiosi in generale non considerano veritiero l’aneddoto riportato da Socrate, e ben presto non sarà più necessario, speriamo, trascorrere tempo a confutarlo negli studi sul celibato.

Il terzo canone di Nicea (325)

Vediamo invece il terzo canone di Nicea sulla castità dei chierici che fa parte dei documenti autentici. Leggiamo il testo:

"Il grande Concilio ha assolutamente vietato a vescovi, sacerdoti e diaconi, vale a dire ai membri del clero, di avere con sé una sorella-compagna, a meno che si tratti di una madre, sorella, zia o di una persona al di sopra di ogni sospetto".

La questione principale sollevata da questo canone è di sapere quale significato hanno voluto dare i Padri del primo concilio ecumenico alla frase: "persona al di sopra di ogni sospetto". L’espressione inglobava le consorti dei chierici sposati? Se sì, perché non dirlo chiaramente? È difficile, per non dire impossibile, risolvere la questione senza analizzare l’interpretazione che è stata poi data alla decisione di Nicea. Bisogna ricordare in effetti che "i canoni del primo sinodo generale hanno costituito la regola fondamentale che funge da modello ai concili locali ed ecumenici ulteriori nelle disposizioni che furono prese", e che sia in Occidente che in Oriente "i canoni di Nicea sono una delle fonti del diritto posteriore e della disciplina ecclesiastica". Nella panoramica più completa possibile della legislazione di Nicea e che qui, per mancanza di tempo, mi accontenterò di riassumere, vediamo ricorrere l’interpretazione seconda la quale il terzo canone niceno aveva lo scopo di mettere i membri del clero, obbligati alla continenza perfetta, al riparo dalle tentazioni femminili e di assicurare loro una reputazione conforme al loro stato di "celibi". Si può affermare con sufficiente certezza che la parafrasi "persona al di sopra di ogni sospetto" inglobava, nella mente dei Padri di Nicea, la consorte trattata come una sorella.

Il concilio Quinisesto, detto in Trullo (691)

Sempre a proposito della "ut quod Apostoli docuerunt" del Concilio di Cartagine del 390, ora dobbiamo fare un salto di tre secoli per esaminare i riferimenti fatti a questo testo dai Padri orientali del Concilio Quinisesto, detto in Trullo, nell’anno 691. Apriamo dunque una nuova pagina per visualizzare questo documento, in questo caso il 13° canone del suddetto Concilio che, come vi ricordo, fu "l’ultima parola della disciplina ecclesiastica greca" che stabilì per secoli fino ai nostri giorni la legislazione bizantina:

Can. 13: Dei sacerdoti e dei diaconi, che conservino le loro consorti.

Come ci insegna la Chiesa di Roma, la regola stabilita è che prima di ricevere l’ordinazione diaconale o sacerdotale, i candidati devono promettere pubblicamente di non avere più rapporti con le loro consorti; noi invece, seguendo l’antica regola della stretta osservanza e della disciplina apostolica, vogliamo che i matrimoni legittimi degli uomini consacrati a Dio restino in vigore anche in futuro, senza sciogliere il legame che li unisce alle loro consorti, e senza privarli dei rapporti mutui nei momenti opportuni. Così se qualcuno è giudicato degno di essere ordinato suddiacono o diacono o sacerdote, a costui non verrà impedito di progredire in questa dignità perché ha una sposa legittima, né si esigerà da costui di promettere nel momento della sua ordinazione di astenersi dai rapporti legittimi con la propria consorte; in tal modo infatti noi insulteremmo il matrimonio istituito dalla legge di Dio e benedetto dalla sua presenza, mentre la voce del Vangelo ci grida: "Che l’uomo non separi ciò che Dio ha unito", e l’Apostolo ci insegna: "Sia tenuto in onore il matrimonio e il talamo sia immacolato", e ancora: "Sei tu legato ad una moglie? Non cercare di rompere questo legame".

Sappiamo d’altronde che i Padri riuniti a Cartagine, come misura previdente per la serietà dei costumi dei ministri dell’altare, hanno deciso "che i suddiaconi, che toccano ai santi misteri, i diaconi e i sacerdoti si astengano dalle loro mogli nei periodi particolari che sono loro assegnati", "così anche noi custodiamo ciò che hanno insegnato gli Apostoli e che il passato ha osservato, sapendo che c’è un tempo per ogni cosa, soprattutto per il digiuno e la preghiera; in effetti, coloro che si avvicinano all’altare, nel periodo in cui toccano le cose sante devono essere continenti per cui possano ottenere senza difficoltà ciò che domandano a Dio". Se dunque qualcuno, agendo contro i canoni apostolici, osa privare un chierico degli ordini sacri, ossia un sacerdote o un diacono o un suddiacono, dei rapporti coniugali e della compagnia della sua legittima moglie, che sia destituito; "se un sacerdote o un diacono caccia la moglie con il pretesto della pietà, che sia scomunicato, e se persiste, destituito".

Questo famoso canone, che abbiamo appena letto, si oppone alla disciplina della Chiesa Romana. Nell’affermare di conformarsi "all’antica regola della disciplina apostolica", decreta che a nessuno sia impedito di essere suddiacono, diacono o sacerdote se è già sposato, e che nessuno sia costretto, il giorno della sua ordinazione, a fare professione di continenza. Notiamo innanzitutto che la legislazione bizantina si differenzia solo in questo ultimo punto. In effetti, come sappiamo, la tradizione occidentale non impedisce alle persone sposate di accedere al sacerdozio. Inoltre, il legame inscindibile del matrimonio conserva naturalmente tutta la sua forza dopo l’ordinazione, tanto che San Leone, per esempio, non esita ad autorizzare apertamente la convivenza degli sposi che abbiano fatto professione di continenza e a fondare su questo vincolo i loro doveri di amore reciproco. È sul problema specifico della continenza, e solo su questo punto, è da sottolineare, che gli Orientali si dividono da Roma.

Ma quali sono i loro riferimenti al Concilio di Cartagine? Le citazioni usate dai Bizantini provengono dagli articoli 3 e 25 del Codex Canonum Ecclesiae Africanae del 419 e indirettamente del Concilio di Cartagine del 390. Fondendo questi due testi i Padri del 691 hanno fatto i alcuni tagli e hanno introdotto una perifrasi che modifica il senso. Il miglior modo di rendersene conto è di fare una lettura sinottica dei canoni africani e del documento trullano:

Concilio in Trullo

Sappiamo d’altronde che i Padri riuniti a Cartagine, come misura previdente per la serietà dei costumi dei ministri dell’altare, hanno deciso che " i suddiaconi, che toccano i santi misteri ed i diaconi, i sacerdoti devono astenersi dalle proprie consorti NEI PERIODI PARTICOLARI CHE SONO LORO ASSEGNATI"."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Così custodiamo anche noi ciò che hanno insegnato gli Apostoli e osservato nei tempi antichi, SAPENDO CHE C’E’ UN TEMPO PER OGNI COSA, SOPRATTUTTO PER IL DIGIUNO E LA PREGHIERA, in effetti coloro che si avvicinano all’altare, NEL MOMENTO IN CUI TOCCANO LE COSE SACRE, siano continenti in tutto per cui possano senza difficoltà ottenere ciò che chiedono dal Signore.

Codex Canonum Ecclesiae Africanae

Aurelio dice: "Noi, cari fratelli, aggiungiamo qui ancora: quando è stato riferito riguardo alla continenza dalle proprie mogli da parte di alcuni chierici che erano solo lettori, è stato deciso ciò che anche in vari altri concili è stato confermato: i suddiaconi, che toccano i santi misteri ed i diaconi, i sacerdoti ED I VESCOVI devono, SECONDO LE NORME PER LORO VIGENTI, astenersi dalle proprie consorti, "COSICCHE SONO DA TENERSI COME SE NON NE AVESSERO"; se non si attengono a questo, devono essere allontanati dal loro servizio ecclesiastico. Gli altri chierici non ne sono tenuti se non in età più matura (can. 25).

Inoltre, quando si è riferito riguardo alla continenza di alcuni chierici nei dalle proprie consorti, è stato deciso che VESCOVI, sacerdoti e diaconi, SECONDO LE DECISIONI CHE LI RIGUARDANO, (secundum propria statuta) saranno continenti dalle proprie spose, e se non lo faranno saranno destituiti dal loro rango. In quanto ai chierici non saranno costretti a questo, ma osserveranno l’uso di ogni chiesa (can. 70).

Il vescovo Aurelio dice: In un concilio precedente, in cui si parlava di normalizzare le regole della continenza e della castità, (ci si occupò) di Tre Ordini che, in virtù della loro consacrazione, sono associati da una specie di legame di castità, ho nominato: VESCOVI, sacerdoti e diaconi. Si fu d’opinione, come conviene (al loro stato), che I SOMMI PONTEFICI, sacerdoti di Dio, così come i diaconi, ossia coloro che sono al servizio dei sacramenti divini, devono osservare una continenza PERFETTA, per cui possano ottenere senza difficoltà ciò che chiedono a Dio; ciò che insegnarono gli Apostoli e ciò che fu osservato nei tempi antichi affinché anche noi potessimo attenerci (can. 3).

Faustino, vescovo di Potenza, disse: Noi siamo d'accordo che VESCOVO, sacerdote e diacono, vale a dire tutti coloro che toccano i sacramenti quali custodi della castità devono astenersi dalle loro spose. A ciò tutti i vescovi risposero: "Siamo d'accordo che in tutti e da tutti coloro che servono all'altare deve essere custodita la castità PERFETTA" (can. 4).

 

(Nota: Le frasi in corsivo sono frasi identiche in ambedue i due documenti, a volte letteralmente; le frasi o le parole maiuscole indicano i punti in cui ci sono differenze sostanziali).

Come possiamo notare, i Padri di Bisanzio rivendicano una tradizione di origine apostolica, e sono precisamente i decreti africani che fanno da base per risalire all’alta Antichità. Abbiamo qui una prova supplementare, molto importante, che il sinodo di Cartagine del 390 è riconosciuto come testimone della disciplina primitiva.

Due punti essenziali costituiscono tuttavia l’originalità del decreto trullano rispetto alla fonte: la menzione dei vescovi è scomparsa (sappiamo già tramite i canoni 12 e 48 che è loro vietato convivere con la propria consorte), e la continenza che si esige dai chierici "che toccano i santi misteri" è solo temporanea, limitata unicamente ai periodi del loro servizio liturgico. C’è stato visibilmente uno spostamento di senso rispetto al testo africano, il che ha permesso agli Orientali di restringere la portata della legge. Mentre gli Africani dicevano: i chierici si asterranno dalle loro consorti "secondo le norme per loro vigenti" (secundum propria statuta), i Bizantini traducono: si asterranno dalle loro spose "nei periodi particolari che sono loro assegnati". Si tratta di un errore di traduzione o di una modifica intenzionale? Non è necessario risolvere la questione, ma è invece importante sottolineare la stretta parentela tra la legislazione romana e quella bizantina, poiché ambedue esigono la perfetta continenza da parte del vescovo e giustificano con le stesse considerazioni teologiche e scritturistiche la continenza richiesta - temporaneamente tra i Greci, perpetuamente tra i Latini - a sacerdoti e diaconi. L’Oriente e l’Occidente non hanno mai pensato di poter fondare la difficile disciplina della castità sacerdotale su qualcosa altro che non fosse la volontà positiva degli Apostoli; il loro riferimento comune al Concilio di Cartagine del 390 contribuisce del resto a fare di questo un anello fondamentale nel cammino che collega la tradizione all’epoca apostolica.

I testi paolini

Bisogna infine dire qualche parola sulle obiezioni, a volte tratte dalle Scritture. Come possiamo affermare che gli Apostoli hanno insegnato il dovere della continenza se San Paolo, nella sua Lettera a Timoteo, dice che bisogna scegliere i vescovi tra coloro che non abbiano "preso moglie che una volta sola" (unius uxoris vir)? Si è discusso molto su questa espressione. Non è possibile analizzare nei particolari le diverse ipotesi esposte dagli esegeti, ma vorrei attirare la vostra attenzione sull’interpretazione data, nei primi secoli della Chiesa, dai Padri e dai Sommi Pontefici, ossia dalle voci autorevoli del Magistero. Un unico esempio: nella decretale Cum in unum, inviata nel 386 a diversi episcopati, il Papa Siricio commenta così il testo paolino: "Forse si pensa, dice, che questo (ossia le relazioni coniugali) sia permesso perché scrive: non abbia preso moglie che una volta sola (1 Tim 3,2)? Ma Paolo non ha parlato di un uomo che persista nel desiderio di generare; ha parlato in vista della continenza che questi dovrà praticare (propter continentiam futuram)". Nel pensiero di Siricio, San Paolo chiedeva che il candidato all’episcopato fosse monogamo, ossia non si fosse mai risposato semmai fosse stato vedovo, per dimostrare che era capace di osservare la continenza che gli sarebbe stata richiesta con la sua ordinazione. Questa esegesi, dimenticata da alcuni esegeti moderni, fa luce su un testo scritturistico che ha avuto un ruolo importante nella tradizione dei primi secoli riguardante il celibato dei chierici. È rimasta l’interpretazione ufficiale dei Pontefici romani ed è stata ampiamente diffusa nelle grandi collezioni canoniche occidentali. Aggiungerei personalmente che si può trovare un sostegno a tale interpretazione nella stessa lettera a Timoteo, poiché nel V capitolo San Paolo chiede che le vedove siano scelte tra coloro che sono state "mogli di un solo marito" (unius viri mulier). Forse non è escluso che, usando un’espressione simile a proposito dei vescovi, San Paolo prevedesse nella scelta dei candidati all’episcopato anche i vedovi.

Una seconda obiezione sollevata in epoca moderna, è tratta dalla prima lettera ai Corinzi, in cui San Paolo dice che avrebbe "il diritto di condurre con sé una donna, sorella nella fede, come fanno gli altri Apostoli e i fratelli del Signore e Cefa". In questo testo qualcuno vorrebbe leggere una chiara allusione alle spose degli Apostoli. Notiamo innanzitutto che se questa interpretazione non è stata spesso avanzata dai critici del celibato nei primi secoli della Chiesa probabilmente è perché non era sufficientemente chiara. In effetti Paolo non parla semplicemente di una donna (g u n a i k a ) nel cui caso si potrebbe tradurre "sposa", ma aggiunge a d e l j h n "sorella", e probabilmente non senza intenzioni. La parola g u n h è del resto un termine per indicare in un primo senso le donne in generale, come si può vedere nel passo di San Luca in cui parla delle donne che accompagnano Gesù nel suo ministero: k a i o i d v d e k a s u n a u t v k a i g u n a i k e z t i n e z ... (Lc , 1-2).

Conclusione sulla tradizione degli Apostoli

Abbiamo concluso l’analisi delle diverse questioni, spesso controverse, riguardanti le origini apostoliche del celibato-continenza dei chierici: la questione del matrimonio degli Apostoli, l’interpretazione del 33° canone del Concilio di Elvira, la storia di Paphnunzio e il significato da attribuire al 3° canone del Concilio di Nicea, la testimonianza del Concilio in Trullo, e l’esegesi di alcuni testi paolini.

Nulla ha smentito l’affermazione dei Padri di Cartagine: "ut quod Apostoli docuerunt", affermazione che anzi, come abbiamo visto, è corroborata dalle testimonianze patristiche e dalle decretali dei Sommi Pontefici. La via è libera, in un certo senso, per risalire alle origini e accettare, anche in assenza di documenti scritti più antichi - assenza che si spiega in buona parte con il lungo periodo di persecuzioni che la Chiesa attraversò per i primi tre secoli - l’esistenza di una tradizione apostolica che faceva della continenza perfetta un obbligo per vescovi, sacerdoti e diaconi sposati.

Questo punto di vista trova una conferma anche nel principio fondamentale espresso da Sant’Agostino durante la controversia con i Donatisti:

"Quello che è stato custodito da tutta la Chiesa ed è sempre stato conservato, senza essere stabilito dai concili, è visto giustamente come qualcosa che solo l’autorità apostolica poteva trasmettere".

L'applicazione di tale principio nel caso specifico del celibato-continenza dei chierici può dar luogo a lunghi sviluppi, ma nell’ambito limitato del nostro studio, ciò che abbiamo detto finora è sufficiente per dimostrare che la disciplina è stata effettivamente "custodita in tutta la Chiesa" ed è "sempre stata conservata" nei primi secoli. In effetti le Chiese apostoliche, l’insieme degli episcopati, gli scrittori patristici più famosi, tutti, in perfetta armonia con la Sede di Roma, difendono questa tradizione. D’altronde, né il Concilio ecumenico di Nicea, né altri concili generali hanno mai portato avanti una tradizione diversa, come a volte hanno voluto far credere. Infine, nessun testo della Scrittura contraddice la pratica della Chiesa.

Con Sant’Agostino che, non dimentichiamolo, faceva parte dei Padri africani che hanno ratificato ufficialmente la " quod Apostoli docuerunt..." possiamo anche noi, molto giustamente, considerare la disciplina della continenza perfetta per vescovi, sacerdoti e diaconi come una disciplina che solo l’autorità apostolica poteva trasmettere.

RAGIONI DOTTRINALI

Ai Cinesi piace scolpire su pietra i documenti che vogliono trasmettere ai posteri. L’anno scorso a Pechino ho visitato il magnifico Tempio di Confucio, situato nel quartiere nord della Capitale. Vi sono contenute centinaia di stele sulle quali sono scolpiti i Classici, un capolavoro di pazienza che ha richiesto tredici anni di lavoro. Credo che il 2° canone del Concilio di Cartagine del 390, che testimonia chiaramente le origini apostoliche del celibato sacerdotale, meriterebbe anch’esso una stele, poiché rappresenta una pietra miliare sulla strada dell’Antichità. Intanto possiamo scolpirlo nella nostra memoria.

Ora vorrei soffermarmi con voi su un’ultima frase che, in maniera concisa, riassume tutta la teologia del celibato. I Padri di Cartagine chiedono a vescovi, sacerdoti e diaconi di osservare la continenza perfetta "per cui possano senza difficoltà ottenere ciò che chiedono dal Signore", "Quo possint simpliciter quod a Deo postulant impetrare". Otto parole che, se capite bene, dicono l’essenziale.

In effetti, esse contengono tutta la teologia della lettera agli Ebrei: "Ogni sommo sacerdote, preso di mezzo agli uomini, è costituito rappresentante degli uomini in tutto ciò che riguarda il culto di Dio, affinché offra doni e sacrifici per i peccati" (Eb 5,1). L'Ambrosiaster, contemporaneo del nostro canone, dirà in un Commento alla Prima Lettera a Timoteo: "Il sacerdote di Dio deve essere più puro degli altri, poiché passa per il suo rappresentante personale, ed effettivamente è il suo vicario... i sacerdoti di Dio devono essere più puri degli altri, poiché occupano il posto di Cristo".

In questo senso, troviamo in Origene un paragone suggestivo tra i sacerdoti di Cristo e il grande intercessore Mosé:

"C’è un’altra occupazione di Mosé. Non va in guerra, non combatte contro i nemici. Ma cosa fa? Prega, e finché prega il suo popolo è vincitore. Se "si rilassa e abbassa le mani" il suo popolo è vinto e messo in fuga. Così pure il sacerdote della Chiesa prega incessantemente affinché il popolo che da lui dipende vinca i suoi nemici, gli Amaleciti invisibili: i demoni che assalgono coloro che vogliono vivere con pietà in Cristo" (Sesta omelia sul Levitico).

E possiamo leggere, per mano di uno dei migliori canonisti bizantini, questa riflessione sul secondo canone di Cartagine:

"Costoro (ossia i ministri di Dio) sono in effetti gli intercessori tra Dio e gli uomini, che, stabilendo un legame tra la divinità e il resto dei fedeli, chiedono per il mondo intero la salvezza e la pace. Se si esercitano dunque alla pratica di tutte le virtù e dialogano così con fiducia completa in Dio, otterranno liberamente ciò che avranno chiesto. Ma se questi stessi uomini per colpa loro si privano della libertà di parola, in che modo potranno compiere il loro ruolo di intercessori in favore di altri?

"Quo possint simpliciter quod a Deo postulant impetrare": nel dialogo con Dio, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi hanno un posto privilegiato, poiché, secondo il nostro concilio sono "coloro che sono al servizio dei sacramenti divini" (qui sacramentis divinis inserviunt), "coloro che sono assegnati al servizio dell’altare" (qui altario inserviunt). Queste espressioni, che qualificano indistintamente i tre gradi superiori del chiericato, indicano che il fondamento specifico della continenza è il servizio dei sacramenti e dell’altare, ossia il servizio dell’Eucarestia. È questa la motivazione centrale. Il sacerdote deve restare continente soprattutto per il servizio dell’Eucarestia. È assolutamente sbagliato parlare, come fanno alcuni, di "continenza cultuale" o di "purezza cultuale", poiché queste espressioni sono cariche di risonanze pagane e filosofiche (soprattutto stoiche). In realtà è la liturgia, e prima di tutto la liturgia eucaristica che, nell’attualizzare il Mistero pasquale, fa del sacerdote un mediatore tra Dio e gli uomini. Configurato a Gesù Cristo, Capo e Sposo della Chiesa, il sacerdote è un "alter Christus", che agisce "in persona Christi" per il servizio del popolo di Dio, servizio che trova la più alta espressione nell’intercessione eucaristica e, in generale, nel dialogo permanente del sacerdote con il Padre degli uomini e il Maestro della Storia. Con l’Eucarestia, alla quale è "ordinato", il sacerdote diventa l’intercessore qualificato per trattare con Dio con grande semplicità di cuore (simpliciter) le questioni dei suoi fratelli uomini. Il Papa Giovanni Paolo II lo ricordava recentemente nel suo discorso per il 30° anniversario di Presbyterorum ordinis:

"L’identità sacerdotale è una questione di fedeltà a Cristo e al popolo di Dio al quale siamo mandati. La coscienza sacerdotale non si limita a qualcosa di personale. È una realtà continuamente esaminata e sentita dagli uomini, poiché il sacerdote è "preso" tra gli uomini e stabilito per intervenire nelle loro relazioni con Dio... Siccome il sacerdote è un mediatore tra Dio e gli uomini, numerose persone si rivolgono a lui chiedendo le sue preghiere. La preghiera, in un certo senso, "crea" il sacerdote, specialmente come pastore. Al contempo ogni sacerdote "crea se stesso" grazie alla preghiera. Penso alla meravigliosa preghiera del Breviario, Officium Divinum, nella quale tutta la Chiesa, per bocca dei suoi ministri, prega con Cristo..."

Per i Padri dei primi secoli questo ruolo di mediatore implica, dunque, per corollario, l’obbligo della continenza. I Padri orientali in particolare, con uno stile entusiasta al quale non siamo più abituati, esaltano senza complessi la dignità del sacerdote:

"Questi, scrive per esempio San Gregorio di Nazianzo, si innalzano al di sopra della moltitudine per la loro virtù e confidenza con Dio, avendo la parte dell’anima rispetto al corpo o del pensiero rispetto all’anima..."

Ed è sempre bene meditare sulla famosa pagina di Giovanni Crisostomo nel Dialogo sul sacerdozio:

"Un uomo che è ambasciatore di una città intera, che dico di una città? Di tutta la terra, e che prega Dio di essere indulgente con le colpe di tutti, non solo dei vivi, ma anche di coloro che sono morti, che cosa deve essere? Penso che la fiducia di Mosé e di Elia non bastino per una simile supplica. In effetti, come se avesse a carico il mondo intero e fosse lui stesso padre di tutti, va verso Dio, pregandolo di spegnere ovunque le guerre, di mettere fine alle sommosse, chiedendo la pace, l’abbondanza e una liberazione rapida da tutti i mali che minacciano ognuno nel privato e nel pubblico. Deve essere superiore in ogni cosa su tutti coloro per i quali prega, conviene che colui che è a capo della comunità l’abbia vinta su coloro che formano la comunità..."

Se tanti uomini sposati, tante coppie cristiane dei primi secoli, hanno accettato la disciplina della continenza dall’ordinazione in poi, vuol dire che erano abbastanza consapevoli dell’eccezionalità di questa dignità, accolta come dono gratuito, da giustificare un sacrificio spesso eroico. Questi sposi, permettetemi di sottolinearlo, avevano certo già provato le gioie della vita coniugale ed è con cognizione di causa che compivano il passo verso la continenza e che diventavano a loro volta i "custodi della purezza", di cui parla il Concilio di Cartagine. Notiamo che sono questi stessi uomini che molto spesso hanno legiferato per la conservazione della disciplina del celibato nei concili o nei sinodi regionali. Non erano dei "repressi", ai quali la sessualità umana faceva paura o ispirava una diffidenza morbosa, no, erano uomini scelti delle migliori famiglie, ricchi di esperienza umana e professionale, che avevano allevato i figli ai buoni costumi e godevano di stima sociale. Questi uomini maturi e maturati grazie ad un’esperienza di sposi e padri di famiglia, manifestavano all’ordinazione, semplicemente con il loro modo di agire e senza teorie, la dignità eccezionale del sacerdozio cristiano. Anche se la vox populi li eleggeva controvoglia, come è successo talvolta. Non veniva certo in mente a questi uomini che se veniva chiesta loro la continenza era per far pagare una specie di diritto di pedaggio per accedere agli onori del chiericato. Ilario di Poitiers, Paciano di Barcellona, Severo di Ravenna, Eucherio di Lione, Paolino da Nola, solo per citarne alcuni, si sarebbero tutti indignati al solo pensiero di un mercanteggiamento quando ne va una dignità come quella del sacerdozio. "Nessuno si arroga tale onore, si è chiamati da Dio, assolutamente come Aronne", e la scelta di Dio fa della libertà che accetta di rispondere una libertà più perfetta.

Tutto ciò che il Vaticano II sottolineerà alla luce evangelica - la dignità evangelica della persona, il prezzo inalienabile della libertà umana, la santità del matrimonio, la superiorità della verginità e della continenza - i Padri dei primi secoli ne erano pienamente consapevoli e lo vivevano spontaneamente, grazie alla loro vicinanza ai tempi apostolici. Sottomettendosi alla disciplina della continenza perfetta, gli sposi ordinati dimostravano concretamente, come gli Apostoli, di essere discepoli di Colui che aveva fatto "tutte le cose nuove"; e i discepoli di Colui che con il suo esempio e sacrificio, aveva fatto nascere un popolo di sacerdoti, rinunciavano come Lui alle gioie legittime della famiglia per darsi interamente alla loro missione di mediatori.

I numerosi esempi di chierici sposati, nei primi secoli della Chiesa, sono una specie di "luogo teologico" che può fornire alla spiritualità e alla teologia del celibato sacerdotale ampia materia di riflessione. Sarebbe bene, credo, sfruttare la miniera di informazioni che racchiude la storia di questi numerosi vescovi, sacerdoti e diaconi che, con le loro consorti, hanno praticato fedelmente la continenza perfetta, forti del loro radicamento ad una tradizione che risaliva agli Apostoli. Una delle conclusioni più importanti della ricerca sulle origini del celibato sacerdotale è la convinzione di sottomettersi ad una disciplina che si basa su una volontà positiva dei fondatori del Cristianesimo, per imitazione dell’esemplare verginità di Gesù; tale convinzione è un fattore di equilibrio psicologico e di stabilità profonda che ha dimostrato la sua validità nei primi secoli della Chiesa e ha solidamente strutturato in tutti tempi la personalità dei sacerdoti celibi.

La storia e la teologia affermano, ognuna a modo suo, quello che i Padri della Chiesa chiamavano la dignità eccezionale del sacerdozio. Nell’Esortazione apostolica Pastore dabo vobis, giustamente soprannominata la Charta magna della teologia del sacerdozio, il Papa Giovanni Paolo II ha messo in luce "il legame ontologico che unisce il sacerdote a Cristo, Sommo Sacerdote e Buon Pastore"; il sacramento dell'Ordine "configura (il ministro) a Cristo Capo e Pastore, Servo e Sposo della Chiesa". In questo contesto, il celibato sacerdotale appare come un’esigenza di radicalismo evangelico che favorisce specialmente il modo di vita "sponsale", derivante logicamente dalla configurazione del sacerdote a Gesù Cristo con il sacramento dell’Ordine. La storia dimostra che queste motivazioni teologiche erano fin dalle origini il fondamento della tradizione disciplinare della continenza dei chierici. Essendo uno solo con Cristo mediatore, configurati in Lui, vescovi, sacerdoti e diaconi esercitavano un ministero di intercessione che, dagli Apostoli, era concepito come un dono totale al servizio della Chiesa e dell’umanità intera.

Notiamo per concludere che è per questo che i chierici dei primi secoli fedeli alla continenza perfetta non si sentivano per niente frustrati di dover rinunciare al diritto di esercitare la sessualità che aveva dato loro un matrimonio legittimo. Anzi, il sacerdozio, avendo fatto di loro, secondo le parole del Concilio di Cartagine, dei "custodi della purezza" (pudicitiae custodes), vivevano ormai la sessualità ad un livello superiore, liberati da un amore senza riserve per la loro Chiesa e per la loro missione di pastori del gregge, responsabili davanti a Dio della santità degli sposi e della vita religiosa delle vergini e dei continenti della loro comunità. Bisogna citare qui una riflessione del Papa Siricio nella decretale ai vescovi dei Galli:

"Come può un sacerdote predicare ad una vedova o vergine continenza e illibatezza, o esortare gli sposi alla castità del letto coniugale, se egli stesso dà maggior valore a generare figli al mondo anziché a Dio?"

L’idea che i Pastori della Chiesa siano responsabili della castità, in tutte le sue forme, tanto della castità coniugale degli sposi quanto della castità perfetta delle vergini, può inoltre far capire perché la disciplina della continenza sacerdotale sia stata concepita fin dalle origini come una priorità, dalla quale dipendeva la perfezione del popolo cristiano. Non è un caso se la maggior parte dei trattati patristici sulla verginità, che hanno fatto tanto per lo sviluppo della vita religiosa, sono stati composti da vescovi: Cipriano di Cartagine, Metodio d’Olimpo, Atanasio di Alessandria, Basilio di Ancyra, Agostino di Ippona e altri. I capi della Chiesa, "custodi della purezza", erano convinti che dovevano predicare con l’esempio ed esortare continuamente i fedeli per trascinarli sulla strada vera, ma stretta, che conduce a Cristo. Esattamente come avevano fatto gli Apostoli, e come continuano a farlo oggi i vescovi, loro successori. E i sacerdoti che sono con loro: "Ut quod Apostoli docuerunt, et ipsa servavit antiquitas, nos quoque custodiamus".