José T. Martín de Agar

 

 

 

 

 

 

© José T. Martín de Agar

 

Elementi di Diritto Canonico

 

SOMMARIO

Abbreviazioni VII

Presentazione IX

I. Il Diritto canonico 1

1- Chiesa e diritto 1

2- Diritto divino e diritto umano 2

3- Storia del diritto canonico 3

a) Il primo millennio 3

b) Il diritto canonico classico 4

c) L’età moderna 5

d) L’età contemporanea 5

II. Fonti del diritto canonico 11

1- Norme e atti giuridici 11

2- Norme canoniche 11

3- La legge 12

a) Tipi di leggi 13

b) Promulgazione 14

c) Retroattività 15

4- La consuetudine 15

5- Norme amministrative 16

a) Decreti generali esecutivi 16

b) Istruzioni 16

6- Statuti e regolamenti 16

a) Statuti 16

b) Regolamenti 17

7- Atti amministrativi singolari 17

a) Decreti singolari 17

b) Precetti singolari 18

c) Rescritti 18

8- Atti giudiziali 19

9- Atti giuridici privati 19

III. I soggetti nell’ordinamento canonico 21

1- La persona fisica 21

2- Persona giuridica 22

a) Corporazioni e fondazioni (c. 115) 23

b) Persone giuridiche pubbliche e private 23

IV. Costituzione della Chiesa 25

1- I Principi costituzionali 25

a) Il principio di uguaglianza 25

b) Il principio di varietà 26

c) Il principio gerarchico 26

2- Diritti e doveri fondamentali dei fedeli 26

V. Il Popolo di Dio. La sua struttura sociale 31

1- Il Popolo di Dio 31

2- I fedeli laici 32

Principali obblighi e diritti dei laici 33

3- Statuto personale dei ministri sacri 35

a) La formazione dei chierici 35

b) L’incardinazione dei chierici 37

c) Diritti e doveri dei chierici 37

d) Perdita dello stato clericale 39

4- Associazioni di fedeli 40

a) Tipi di associazioni 41

b) Le associazioni pubbliche 41

c) Le associazioni private di fedeli 42

VI. Il popolo di Dio. la sua struttura gerarchica (Governo e Organizzazione della Chiesa) 45

1- Concetti di organizzazione ecclesiastica 45

L’ufficio ecclesiastico 45

2- Dimensione universale e particolare della Chiesa 47

3- La potestà suprema della Chiesa 47

a) Il Romano Pontefice 48

b) Il Collegio episcopale. 49

4- Istituzioni per il governo della Chiesa universale 50

5- Le Chiese Particolari 51

a) La diocesi 52

b) Altre circoscrizioni ecclesiastiche simili alle diocesi 52

c) Organismi sovradiocesani 53

6- Governo e organizzazione della diocesi 56

a) Il Vescovo diocesano 56

b) Istituzioni e uffici per il governo della diocesi. 57

c) La parrocchia (cc. 515-552) 60

d) I vicariati foranei (cc. 553-555) 62

e) I rettori delle chiese (cc. 556-563) 62

f) I cappellani (cc. 564-572) 62

VII. La vita consacrata 65

Gli istituti di vita consacrata 66

a) Gli istituti religiosi 68

b) Gli istituti secolari 70

c) Le società di vita apostolica (cc. 731-746) 71

VIII. I mezzi della salvezza: la parola di Dio 73

La funzione d’insegnare 73

a) Il magistero ecclesiastico 74

b) L’ecumenismo 75

c) Il ministero della parola divina 76

d) L’educazione cattolica 79

e) I mezzi di comunicazione, i libri 82

IX. I mezzi della salvezza: il culto divino 85

1- La funzione di santificare della Chiesa 85

2- I sacramenti 86

a) Il battesimo 86

b) La confermazione 88

c) La santissima Eucaristia 89

d) La penitenza 93

e) L’unzione degli infermi 96

f) Il sacramento dell’ordine 96

3- Il matrimonio 98

a) Concetti generali 100

b) Il consenso matrimoniale 100

c) Gli impedimenti 104

d) La forma del matrimonio 107

e) Effetti del matrimonio 108

f) Scioglimento del vincolo matrimoniale 108

g) La separazione dei coniugi 109

h) Convalidazione del matrimonio 110

i) Pastorale e preparazione del matrimonio 111

4- Altri atti del culto divino 112

a) I sacramentali (cc. 1166-1172) 112

b) Liturgia delle ore (cc. 1173-1175) 113

c) Le esequie ecclesiastiche (cc. 1176-1185) 113

d) Il culto dei Santi, delle sacre immagini e delle reliquie (c. 1186-1190) 114

e) Il voto e il giuramento 114

5- Luoghi e tempi sacri 116

a) Luoghi sacri 116

b) I diversi luoghi sacri 116

c) I tempi sacri 118

X. I beni temporali della Chiesa. Diritto patrimoniale canonico 119

a) I beni 119

b) L’acquisto dei beni 120

c) Amministrazione dei beni ecclesiastici 122

d) Alienazione di beni ecclesiastici 124

d) Pie volontà e pie fondazioni 125

XI. Diritto penale canonico 127

a) Il delitto 127

b) Il delinquente 127

c) Le pene ecclesiastiche 128

d) Applicazione delle pene 129

e) Cessazione delle pene 129

f) I singoli delitti 130

XII. Diritto processuale 133

1- Organizzazione giudiziaria 133

2- Il processo 135

a) Le parti 136

b) La competenza del tribunale 136

3- Lo svolgimento del processo 137

a) Fase introduttiva 137

b) Fase istruttoria. Le prove 138

c) Pubblicazione, conclusione e discussione della causa (cc. 1598-1606) 140

d) La decisione giudiziale (cc. 1607-1618) 140

4- Impugnazione della sentenza 141

a) L’appello 141

b) La querela di nullità 142

c) La restitutio in integrum (cc. 1645-1648) 142

5- Esecuzione della sentenza (cc. 1650-1655) 142

6- Il processo contenzioso orale 143

7- Processi speciali 143

I processi penali (cc. 1717-1731) 145

8- Giustizia amministrativa (cc. 1732-1739) 146

a) Il ricorso amministrativo 146

b) Il ricorso contenzioso amministrativo 147

XIII. Rapporti tra la Chiesa e la comunità politica 149

1- Il dualismo cristiano 149

2- Interpretazioni storiche del dualismo 150

3- Il Concilio Vaticano II 154

La libertà religiosa 157

4- Diversi aspetti della missione della Chiesa riguardo al mondo 158

Abbreviazioni

   

AAS

Acta Apostolicae Sedis

CCC

Catechismo della Chiesa Cattolica

CCEO

Codice dei Canoni dell Chiese Orientali

CIC

Codice di Diritto Canonico

EV

Enchiridion Vaticanum

   

Documenti del Concilio Vaticano II

AA

Decr. Apostolicam actuositatem

CD

Decr. Christus Dominus

DH

Dichiar. Dignitatis humanae

GE

Dichiar. Gravissimum educationis

GS

Cost. Gaudium et spes

LG

Cost. Lumen gentium

OE

Decr. Orientalium Ecclesiarum

OT

Decr. Optatam totius

PO

Decr. Pesbyterorum ordinis

SC

Cost. Sacrosanctum concilium

UR

Decr. Unitatis redintegratio

   

Presentazione

Si potrebbe pensare che il diritto sia alieno alla Chiesa, poiché questa è una comunità di natura spirituale basata sulla fede e sulla carità, virtù che dovrebbero bastare ad ordinare i rapporti tra i fratelli. Di fatto non sono mancate nella storia ecclesiastica correnti di pensiero spiritualiste che hanno interpretato la disciplina canonica come elemento di rigidità, ostacolo allo sviluppo dei carismi, o addirittura come strumento di oppressione in mano all’autorità ecclesiastica.

Non è così. Tali errori rispondono ad una visione deformata della natura sia della Chiesa che del diritto, talvolta confondono spiritualità e sentimento, e finiscono per opporre in maniera irriducibile istituzione e carisma, legge e spirito, grazia e natura, pastorale e diritto; laddove invece queste sono dualità che, sebbene distinte, non si possono separare. Grazia e carità, pastorale e carisma non si possono realizzare senza l’ordine della giustizia; questa è come l’alveo entro il quale la varietà dei doni, dei compiti o delle semplici qualità umane concorrono ad edificare la comunità ecclesiastica senza distruggerne l’unità.

La Chiesa è stata costituita dal Signore non soltanto come una comunità di credenti che partecipano degli stessi beni spirituali invisibili, ma anche come il suo Popolo del quale Egli è il Legislatore. Proprio dai vincoli soprannaturali e dalla partecipazione agli stessi mezzi di salvezza (la Parola di Dio e i sacramenti) sorgono rapporti sociali e visibili che devono essere ordinati secondo giustizia. Essa è società visibile e organizzata che ha una missione da compiere, nella quale tutti i fedeli sono chiamati a partecipare, ciascuno secondo la sua condizione. Compito del diritto è determinare e assegnare i diversi ruoli e di coordinarli al bene di tutti.

Il diritto a sua volta non è fine a se stesso, è strumento che serve alla realizzazione della giustizia nei rapporti sociali, la quale a sua volta è una virtù necessariamente ordinata alla carità, quindi integrata in una più alta Giustizia che è la santità. Se non si tiene conto di questi collegamenti, allora il diritto diverrebbe mero attaccamento alle norme come se da esse dipendesse tutta la vita, o al contrario andrebbe visto come limite arbitrario della libertà. Due errori opposti ma che hanno la stessa radice.

Certo, nella vita della Chiesa gli elementi di natura spirituale sono i più importanti, giacché la missione della Chiesa è la salvezza delle anime; a questo fine devono concorrere tutte le attività, modi di vita e ruoli nella società ecclesiale. Il Signore può direttamente far partecipe ogni uomo della sua grazia, "tuttavia piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza nessun legame tra loro, ma li costituì in popolo" (LG 9), perciò nelle condizioni di vita terrena Egli vuole servirsi della sua Chiesa, cosicché essa è stata a ragione definita dal Concilio "sacramento universale di salvezza" (LG 48), cioè segno visibile ed efficace dei doni invisibili.

In questa divina economia che è la Chiesa, la Parola ha bisogno della predicazione, la grazia scorre attraverso i segni visibili della liturgia dei sacramenti, ed entrambe hanno bisogno di ministri validi consacrati da Dio; i carismi, pur personali, sono sempre per il bene di tutti e la gerarchia è anch’essa carismatica (legata al sacramento dell’ordine); il ministero pastorale comprende anche la potestà giuridica di governo; la comunione di fede e dei sacramenti richiede quella di regime e di disciplina; le diverse vocazioni e spiritualità sussistono in modi di vita istituzionali.

D’altra parte, come potrebbero i fedeli raggiungere la santità e compiere il loro apostolato, senza il sostegno di una pastorale adeguata ai loro bisogni che offra loro abbondanti i mezzi della salvezza? Come riconoscere la genuinità evangelica dei carismi senza il discernimento dei pastori? Quale seguito avrebbero essi senza la possibilità di perpetuarsi attraverso adeguate istituzioni?

La Chiesa è dunque una unità carismatica e istituzionale; conoscerla a fondo richiede conoscere anche il ruolo del diritto nella sua vita. Questo libro ha come scopo dare una visione completa benché non approfondita del diritto canonico latino, che possa accompagnarsi alla lettura dei testi giuridici, principalmente del Codice di Diritto Canonico.

Bibliografia di base a carattere generale in italiano:

S. Berlingò, Diritto canonico, Giappichelli, Torino 1995.

F. Bolognini, Lineamenti di Diritto Canonico, Giappichelli, Torino 1992.

L Chiappetta, Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico-pastorale, (2 vol.), Edizioni Dehoniane, Napoli 1988.

F. D’Ostilio, Prontuario del Codice di Diritto Canonico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995.

G. Feliciani, Le basi del diritto canonico, Il Mulino, Bologna 1990.

P. Lombardía, Lezioni di diritto canonico, ed. italiana a cura di G. Lo Castro, Giuffrè, Milano 1985.

M. Petroncelli, Diritto canonico, Jovene, Napoli 1985.

VV. AA., Codice di Diritto Canonico. Edizione bilingue commentata, (3 vol.), Logos, Roma 1987.

VV. AA., Il diritto nel mistero della Chiesa, A cura del Gruppo Italiano docenti di Diritto Canonico, (3 vol.), Pontificia Università Lateranense, Roma 1986-1992.

Riferimenti bibliografici specifici per ciascuna materia sono riportati nelle note a calce.

I. Il Diritto canonico

La parola diritto (ius) ha due significati diversi a seconda che si riferisca ad una realtà oppure alla scienza che la studia. Come realtà, diritto è l’oggetto della giustizia. La giustizia è la virtù che comanda di dare a ciascuno quel che è suo (unicuique suum tribuere). Questo suo dovuto in giustizia ad un soggetto (che può consistere in cose molto svariate, spirituali o materiali), si chiama diritto: bisogna dare a ciascuno il suo diritto (unicuique ius suum tribuere). Lo ius o diritto è in realtà la cosa giusta, il suo che la giustizia comanda di dare a ciascuno, quel che gli è dovuto.

Ma per potere dare ad ognuno quel che gli è dovuto si rende necessario determinare in cosa consiste. Perciò la scienza che studia e determina quel che è giusto in concreto si chiama anche diritto. Il giurista è l’uomo che sa o studia quel che è giusto allo scopo che si compia la giustizia; il suo mestiere è dire il diritto (ius dicere). Si chiama quindi diritto sia quello che è giusto (dovuto in giustizia) come anche la scienza pratica del giusto. Inoltre, siccome nella determinazione del giusto la legge ha spesso un ruolo importante, si chiama anche diritto l’insieme di leggi che reggono l’ordine giuridico di una società; ma la legge determina il diritto, non è il diritto.

In ogni società o insieme organizzato di uomini, nascono rapporti, relativi ai fini e ai mezzi dell’insieme, che devono essere regolati dalla giustizia ovvero dando a ciascuno il suo. In ogni società c’è un diritto inteso a stabilire in pratica quel che è giusto in tale società.

1- Chiesa e diritto

La Chiesa non è una semplice società umana, essa è una realtà misterica che può essere definita in diversi modi ognuno dei quali mette in risalto un aspetto del suo essere: la Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, il Popolo di Dio, l’assemblea dei credenti in Gesù Cristo, ecc. Essa è anche la società fondata da Cristo per continuare nel mondo la Sua opera di salvezza.

Il mistero della Chiesa è immagine e riflesso del mistero del Verbo Incarnato: così come in Lui la natura divina e quella umana si uniscono misteriosamente nell’unica Persona del Verbo, così anche nella Chiesa si fondono il divino e l’umano, di modo che, come dice il Concilio Vaticano II, "la società costituita di organi gerarchici e il Corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa della terra e la Chiesa in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due realtà, ma formano una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e un elemento divino", cosicché "l’organismo sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica per la crescita del corpo (cf. Ef 4, 16)".

Bisogna tener conto della natura misterica della Chiesa nello studio del diritto canonico, poiché esso è riflesso e espressione di tale natura (OT 16, CCC 770-780). Ciò che è giusto (o ingiusto) nella società ecclesiale viene determinato principalmente in ragione dell’origine, struttura, finalità, beni e mezzi dati da Dio alla sua Chiesa. In tutti questi elementi della società ecclesiastica si rispecchia la complessa unità tra divino e umano che c’è nella Chiesa, e così avviene anche nei rapporti giuridici che derivano da questi elementi.

2- Diritto divino e diritto umano

Essendo la Chiesa una società di uomini fondata da Gesù Cristo, le principali e prime attribuzioni di diritti (e doveri) in essa hanno il loro fondamento nella volontà del suo Fondatore, sono di diritto divino. Ad esempio, Cristo costituì il Collegio degli Apostoli, ne mise a Capo Pietro e affidò loro la missione di diffondere, guidare e governare la Chiesa; ad essi succedono il Collegio episcopale ed il Romano Pontefice che ne è il Capo, quindi sono di istituzione divina: i diritti e doveri che derivano da questo fatto sono, nel loro nucleo essenziale, di diritto divino. Parimenti Gesù Cristo istituì i sacramenti della Nuova Legge per il culto di Dio e la salvezza degli uomini, quindi le conseguenze giuridiche che immediatamente nascono da tale evento sono pure di diritto divino. Insomma: Cristo ha conferito alla sua Chiesa certe caratteristiche, finalità, mezzi e regole di funzionamento che sono immutabili e che costituiscono il nocciolo fondamentale e perpetuo del diritto canonico: il diritto divino.

Si deve tener conto che fanno parte di tale nucleo anche le conseguenze giuridiche che derivano dal fatto che la Chiesa è stata fondata per gli uomini ed è formata da uomini, pertanto sono anche di diritto divino (naturale) le esigenze di giustizia derivanti dalla condizione umana in quanto siano in rapporto con la vita sociale della Chiesa. Così, ad esempio, il diritto alla buona fama, alla propria intimità, alla libera elezione di stato, che sono diritti naturali, devono anche essere riconosciuti nella Chiesa alla stregua di ogni altra società.

Questo nucleo fondamentale del diritto canonico lo troviamo nella Rivelazione (la Parola di Dio, scritta o tramandata per tradizione). "Tuttavia, anche se la Rivelazione è compiuta, non è però completamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmente tutta la portata nel corso dei secoli" (CCC 66). Quindi anche la nostra conoscenza del diritto divino è sempre perfettibile. In questo approfondimento svolge un ruolo principale il Magistero ecclesiastico, il quale, con l’aiuto dello Spirito Santo, interpreta ed espone autenticamente la Parola di Dio; ma anche contribuiscono allo sviluppo della sua comprensione i progressi della teologia e della scienza canonica, la liturgia e la vita stessa della Chiesa lungo la storia. Mano mano che conosciamo meglio il disegno di Dio sul suo Popolo possiamo esprimere più fedelmente le esigenze di giustizia che tale disegno comporta.

Tuttavia il diritto divino ci indica quel che è giusto nella Chiesa nei suoi tratti fondamentali, ma non scioglie esplicitamente e direttamente tutti gli interrogativi su cosa sia giusto in ogni caso singolo; è necessario formularlo, svilupparlo, interpretarlo e applicarlo tenendo anche conto delle circostanze particolari. Sono sorte così risposte su quel che è giusto che sono frutto dello sforzo umano, talvolta mutuate dalla cultura giuridica civile. Così nel diritto canonico ci sono anche elementi di diritto umano i quali interpretano e applicano quello divino in ogni momento storico.

Ad esempio il dovere di santificare le feste è di diritto divino, un comandamento della Legge di Dio; l’autorità ecclesiastica ha poi precisato questo comandamento nel precetto di ascoltare la Messa, un comandamento della Chiesa di diritto umano.

Il diritto umano è mutabile e sempre perfettibile: quello che la ragione umana giudica oggi come giusto, domani può diventare ingiusto per un mutamento delle circostanze. Ma il diritto umano non può andare contro quello divino, in tal caso sarebbe certamente ingiusto. Al contrario deve cercare di interpretare sempre meglio le esigenze della legge divina ed estrarne tutte le conseguenze. Dunque il diritto divino è principio ispiratore e limite del diritto umano.

3- Storia del diritto canonico

In questo quadro si è forgiato lungo i secoli il diritto della Chiesa: attraverso atti legislativi e decisioni dell’autorità (Papi, concili, Vescovi, Sinodi, sentenze dei giudici), ma anche attraverso le consuetudini che esprimono il senso di giustizia del popolo cristiano e le dottrine dei giuristi.

Nella storia del diritto canonico si possono distinguere quattro periodi con caratteristiche proprie: il primo millennio, il periodo classico (1140-1325), l’epoca moderna che arriva fino al Concilio Vaticano I e quella contemporanea definita soprattutto dalla codificazione del diritto canonico, e più di recente dal Concilio Vaticano II, le cui direttrici di ordine giuridico sono state recepite nella vigente legislazione canonica specie nei due Codici che attualmente reggono la Chiesa latina e le Chiese orientali.

Non potendo in questo libro prolungare il discorso sull’evoluzione storica del diritto della Chiesa, nemmeno nei seguenti capitoli quando verranno considerate le distinte istituzioni giuridiche, occorre tuttavia fare presente che la comprensione dell’ordinamento attuale si trova in buona misura nella storia. Benché la codificazione abbia segnato una certa rottura con il passato, essa è più formale che sostanziale; la Chiesa si evolve nella tradizione e ciò vale anche per il suo diritto.

a) Il primo millennio

Le prime comunità cristiane presero le regole della loro vita sociale dalla Sacra Scrittura (principalmente dal Nuovo Testamento) e dagli insegnamenti degli Apostoli tramandati per tradizione. Anche i Vescovi emanavano norme e decisioni per le loro comunità, nelle quali nascevano pure delle consuetudini e tradizioni particolari. Notizie di questo incipiente diritto canonico si trovano nei documenti di quel tempo, negli scritti dei Padri apostolici (la prima generazione di autori cristiani dopo gli Apostoli), e quelli dei Padri della Chiesa (dal sec. IIº all’VIIIº); essi riflettono differenti modi di capire la vita cristiana, specie tra oriente e occidente. D’altro canto non poche istituzioni giuridiche ebree e romane furono accolte dalla Chiesa e cristianizzate.

Una certa unità diedero al diritto delle comunità i concili, nei quali i Vescovi radunati fissavano delle regole comuni o canoni (da qui diritto canonico). Anche se i sinodi erano di ambito regionale, i loro canoni venivano spesso accettati da altre chiese locali, e talvolta anche dal Vescovo di Roma, il Papa, il quale li approvava per tutta la Chiesa considerando ecumenico il concilio che li aveva emanati.

Da parte loro i Romani Pontefici, sia motu proprio sia per rispondere a quesiti concreti, si rivolgevano alle varie comunità cristiane attraverso lettere chiamate decretali; venivano così stabiliti precedenti che servivano a risolvere casi simili anche in altre comunità. In ogni Chiesa si facevano raccolte dei canoni e delle decretali che si ritenevano in vigore; le collezioni passavano talvolta ad altre Chiese. Le molte collezioni antiche di cui oggi si ha notizia sono oggetto di studi che riguardano la loro data, l’autore, la provenienza dei loro elementi, l’ambito del loro influsso, ecc. In principio queste raccolte seguivano semplicemente il criterio cronologico, ma già nel VII sec. appaiono alcune di ordine sistematico.

Man mano che cresce il prestigio del papato, anche di fronte al potere secolare, si afferma una tendenza centralizzante che comporta l’affermazione delle collezioni fatte sotto l’auspicio dei Papi su quelle particolari. Momento importante di questo processo sarà la riforma gregoriana (sec. XII).

b) Il diritto canonico classico

Proprio verso la metà del sec. XII inizia il periodo classico, nel quale avviene l’elaborazione sistematica, scientifica del diritto canonico, auspicata in parte dai Romani Pontefici e fatta dai maestri delle prime università; frutto di essa è il Corpus iuris canonici, che costituirà la principale fonte scritta del diritto della Chiesa fino al primo Codice di diritto canonico (1917).

Pietra basilare di questo processo è il Decreto di Graziano (1140 circa): un’ampia compilazione portata a termine dal maestro bolognese Graziano, nella quale egli intese riportare in maniera coerente e unitaria una grande mole di testi canonici, spesso contrari fra loro, sulla base dei commenti dottrinali dell’autore, il quale appunto mise alla sua opera il titolo Concordantia canonum discordantium (Concordanza dei canoni discordanti). Pur trattandosi di un’opera privata, essa ebbe un’ampia diffusione, la sua universalità fece sì che fosse considerata come il superamento delle compilazioni precedenti, le quali rimasero operative soltanto nella misura in cui furono riassunte nel Decreto.

Le collezioni susseguenti al Decreto raccolgono ormai soltanto lo ius novum, il diritto posteriore ad esso; riportiamo quelle che insieme al Decreto di Graziano finirono per formare il Corpus iuris canonici, ovvero: a) le Decretali di Gregorio IX (1234), chiamate anche Liber Extra, che sono una compilazione in cinque libri fatta da S. Raimondo di Penyafort; b) il Liber Sextus (1298) promulgato da Bonifacio VIII a complemento delle Decretali; e c) le Decretales Clementinas, una raccolta cominciata sotto Clemente V, ma promulgata da Giovanni XXII nel 1317.

Queste collezioni, specie il Decreto di Graziano e le Decretali di Gregorio IX, furono glossate e commentate da diversi giuristi e maestri di università; nascono così una letteratura e un metodo scientifico che sopravvivono anche dopo la codificazione del diritto canonico.

c) L’età moderna

Durante questo periodo il Corpus continua ad essere il nucleo centrale del diritto vigente; ad esso si aggiungono poi altri blocchi normativi e commenti dottrinali che lo sviluppano e adattano alle nuove circostanze.

Tra questi ampliamenti vanno annoverati in primo luogo i Decreti del Concilio di Trento (1545-1565) dai quali parte una profonda riforma della disciplina ecclesiastica. Si raccolgono inoltre gli atti dei Pontefici in serie cronologiche dette Bollari; ai quali si aggiungono le sempre più numerose disposizioni e decisioni dei dicasteri della Curia romana, organizzata da Sisto V nel 1588. Tra queste raccolte si possono menzionare le Decisioni del Sacro Tribunale della Rota Romana e le Risoluzioni della Sacra Congregazione del Concilio. Si sviluppa così una crescente mole di norme scritte poco sistematica e difficile da adoperare.

D’altro canto la fine del medioevo segna la frammentazione politica e religiosa della Cristianità, e l’affermazione degli Stati nazionali cattolici e protestanti sotto il governo dei monarchi assoluti, i quali si considerano, per ragioni sia teologiche (i protestanti) che semplicemente storiche (i cattolici), competenti ad intervenire nell’organizzazione e vita della Chiesa nazionale. Per fare fronte a questo interventismo statale la Santa Sede ricorre spesso agli accordi bilaterali o concordati, che vengono a creare un diritto canonico particolare in ogni nazione.

L’epoca rivoluzionaria che inizia alla fine del sec. XVIII porterà all’abolizione dell’assolutismo monarchico e al trionfo del liberalismo illuminista. La commozione che i misfatti rivoluzionari e le nuove idee producono nella vita della Chiesa è grande: i liberali rifiutano la presenza della religione e della Chiesa nella vita sociale, considerandole ostacoli alla liberazione dell’uomo e alla sovranità statale. I Papi condannano più volte gli errori del liberalismo e gli eccessi rivoluzionari, che peraltro minacciavano anche la sovranità temporale del Romano Pontefice negli stati pontifici.

Nel campo giuridico il razionalismo e l’ugualitarismo danno origine al fenomeno del costituzionalismo e alla codificazione del diritto civile, come espressione della supremazia della legge, nei paesi europei continentali e in quelli dell’America latina, che in questo periodo acquistano la loro indipendenza.

Nel Concilio Vaticano I, convocato da Pio IX, viene definito il dogma dell’infallibilità pontificia. Questo fatto insieme alla debolezza delle chiese nazionali nei confronti dello Stato liberale giurisdizionalista, determina un rinforzarsi dell’unità della Chiesa attorno al Papa. Già nello stesso Concilio, interrotto poi in maniera brusca dall’assedio posto a Roma dalle truppe italiane nel 1870, furono avanzate proposte per una codificazione del diritto canonico, sostenute da buon numero di Padri conciliari.

d) L’età contemporanea

L’iniziativa non ebbe allora nessun seguito concreto, ma poco a poco si fece spazio l’idea di riordinare in un codice l’ingente quantità di norme canoniche sparse in diverse fonti. Alcuni autori privati presentarono progetti in questo senso. Fu S. Pio X che, nel 1904, decise l’elaborazione di un codice per la Chiesa latina, simile ai codici civili. L’attuazione del progetto ebbe come protagonista il Cardinale Gasparri, presidente della Commissione incaricata della codificazione. Fu però Benedetto XV, successore di Pio X, che nel 1917 promulgò il Codex Iuris Canonici (CIC), che si sarebbe perciò chiamato anche Codice piano-benedettino. La codificazione orientale avrebbe avuto inizio nel pontificato di Pio XI come vedremo alla fine di questo paragrafo.

In accordo con i postulati giuridici sottostanti, il Codice pretendeva di essere, perlomeno tendenzialmente, l’unica fonte del diritto, capace di fornire risposte concrete sul giusto e l’ingiusto nei singoli casi: il progresso legislativo doveva procedere mediante successive riforme dello stesso Codice; l’insegnamento del diritto canonico doveva seguire, come prima, il metodo esegetico (glossa e commento), centrato adesso sui canoni del Codice.

Anche se la realtà debordò queste pretese, è tuttavia certo che il CIC segna una svolta nel diritto della Chiesa; esso fece diventare diritto vecchio il Corpus e la legislazione successiva nella misura in cui non fossero stati recepiti nel Codice.

Il Codice del 1917 è rimasto teoricamente in vigore sino alla promulgazione di quello del 1983, ma già prima molti dei suoi precetti si consideravano modificati dal Concilio Vaticano II.

1) Il Concilio Vaticano II

Il Concilio fu convocato da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959; nella stessa occasione il Papa annunciò la riforma del Codice di diritto canonico. Le sedute conciliari ebbero luogo tra l’ottobre 1962 e il dicembre 1965. Presto si vide che era necessario aspettare i risultati del Concilio per poter approntare la riforma della legislazione canonica: non bastava un semplice aggiornamento del diritto vigente.

La dottrina conciliare costituisce, in effetti, la principale fonte d’ispirazione del Codice attuale promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983.

Il Concilio Vaticano II ha affrontato una grande varietà di argomenti, ma si può dire che al centro della sua riflessione si trova il mistero della Chiesa: in questa prospettiva sono stati messi in risalto aspetti fondamentali, riguardanti la costituzione e la missione della Chiesa, che precedentemente erano rimasti occulti o considerati secondari. Lo stesso Concilio si occupò di segnalare le più importanti conseguenze pratiche di tale approfondimento, la cui piena applicazione alla vita ecclesiale ha segnato i tempi del postconcilio. Per quanto riguarda il diritto canonico gli indirizzi fondamentali si possono riassumere come segue:

1) La considerazione della Chiesa come Popolo di Dio nel quale tutti i membri condividono l’uguale dignità e responsabilità di figli di Dio e la vocazione alla santità. Ciò richiede uno statuto giuridico di base comune a tutti i fedeli, nel quale vengano definiti e garantiti i loro diritti e doveri, le loro iniziative e contributi all’edificazione della Chiesa; è a partire da questa base che si dovranno poi costruire i differenti statuti che derivano dalla diversità di funzioni e modi di vita.

2) La riflessione sul Collegio episcopale come soggetto della potestà suprema della Chiesa accanto al Romano Pontefice, Pastore Supremo e Capo del Collegio. Il che ha portato alla ricerca di nuovi modi di esercizio della collegialità e delle relative conseguenze giuridiche.

3) La dottrina sulla sacramentalità dell’episcopato e sul ministero dei Vescovi, che ha significato un chiarimento sulle diverse vie e modi di partecipazione alla potestà ecclesiastica, ha messo in rilievo la natura e ruolo della Chiesa particolare nell’edificazione della Chiesa universale, e ha portato ad una maggiore autonomia del Vescovo diocesano nel suo compito pastorale.

4) L'approfondimento conciliare sulla Chiesa come comunità sacerdotale (ogni fedele già col battesimo partecipa del sacerdozio di Cristo), la cui struttura organica si realizza a partire dai sacramenti, le virtù ed i carismi, postula un diritto canonico imperniato su tali fondamenta che stabilisca i rapporti tra carisma gerarchico e carismi personali, di modo che entrambi cooperino al bene di tutto il corpo ecclesiale.

5) L’affermazione del ruolo che spetta ai laici nella missione della Chiesa, principalmente attraverso le loro iniziative apostoliche nel seno della società civile, esige un’adeguata organizzazione pastorale capace di sostenere ed orientare la loro vita cristiana immersa nelle realtà secolari.

6) La dottrina del Concilio sui rapporti fra la Chiesa e la società civile afferma la reciproca indipendenza tra Stato e Chiesa e centra i loro rapporti nella dignità della persona e nella difesa dei suoi diritti fondamentali (specie quello di libertà religiosa). Questa dottrina, inoltre, ha ripercussioni nei rapporti della Chiesa con le altre comunità religiose, in maniera particolare con le cristiane ai cui membri vengono riconosciuti certi diritti di comunione parziale con la Chiesa cattolica.

2) Il Codice di Diritto Canonico del 1983

Questi ed altri spunti sono stati presi in considerazione in fase di elaborazione della nuova codificazione canonica. Un processo lungo, le cui fasi si possono riassumere così:

Come abbiamo visto, il 25 gennaio 1959 Giovanni XXIII convoca il Concilio e annunzia la revisione del CIC. Nel marzo 1963, poco prima di morire, egli costituisce la Commissione incaricata di tale revisione; ma presto si decise che era necessario attendere i risultati del Concilio per avviare un profonda riforma del diritto canonico; cosicché il lavoro della Commissione inizia realmente nel novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura dell’assise conciliare.

La Commissione era integrata da Cardinali e Vescovi che si radunavano per decidere i punti più importanti; mentre l’elaborazione dei successivi progetti fu affidata ad un’ampia équipe di consultori divisa in gruppi di lavoro per argomenti. Paolo VI indicò gli obiettivi e le linee da seguire.

Al fine di unificare i criteri vennero elaborati i Principi direttivi della revisione del CIC, in dieci punti sottoposti all’approvazione del Sinodo dei Vescovi del 1967. In essi furono sintetizzate le principali linee guida derivanti dalla dottrina del Concilio.

Sulla base di questi principi e prendendo come punto di partenza i canoni del Codice del 1917, i gruppi di lavoro elaborarono, tra il 1972 e il 1977, dieci schemi parziali che dovevano integrare il nuovo Codice. Gli schemi furono inviati a tutti i Vescovi, ai Dicasteri della Curia romana e alle Facoltà di diritto canonico affinché potessero presentare le loro osservazioni e proposte.

Le tante risposte ricevute furono ordinate e distribuite ai gruppi di consultori, i quali procedettero all’elaborazione di un nuovo progetto di Codice. Si tratta dello Schema del 1980, presentato al Sommo Pontefice, che lo sottopose allo studio dei membri della Commissione che allora erano 74.

Gli emendamenti e suggerimenti dei singoli membri della Commissione furono discussi e vagliati dalla Segreteria della Commissione, la quale inviò loro, nel 1981, una Relazione nella quale si dava un parere ragionato sull’accettazione o rifiuto di ogni emendamento proposto.

Questa Relazione del 1981 fu discussa nella seduta Plenaria della Commissione nell’ottobre dello stesso anno. In essa si decise sugli emendamenti e modifiche che si dovevano introdurre nel progetto del 1980. Il risultato fu lo Schema del 1982 presentato al Santo Padre nel mese di aprile.

Giovanni Paolo II rivide lo Schema due volte, la prima con la collaborazione di un gruppo di esperti e con quella di tre Cardinali la seconda. Con le modifiche introdotte in questa sede si arrivò al testo definitivo del Codex Iuris Canonici, promulgato il 25 gennaio 1983.

Il CIC consta di 1752 canoni divisi in 7 Libri che trattano: il 1º delle norme generali, il 2º del Popolo di Dio, il 3º della funzione d’insegnare della Chiesa, il 4º della funzione di santificare della Chiesa, il 5º dei beni temporali della Chiesa, il 6º delle sanzioni nella Chiesa e il 7º dei processi. Questo Codice vige nella Chiesa latina.

3) Il Codice di Canoni delle Chiese Orientali (CCEO)

Le 21 Chiese cattoliche orientali hanno da sempre goduto di un diritto particolare che rispecchia le tradizioni liturgiche e disciplinari di ciascuna di esse. La codificazione del loro diritto si vide conveniente poco dopo la promulgazione del CIC del 1917. Infatti, i lavori per l’elaborazione di un Codice comune a tutte queste Chiese ebbero inizio nel 1929; frutto di essi furono 4 testi parziali promulgati da Pio XII tra il 1949 e il 1957, ma non si riuscì a completare un Codice.

Il Concilio Vaticano II ha ribadito la legittimità della disciplina propria delle Chiese orientali, facendo anche riferimento nel Decreto Orietalium Ecclesiarum a diverse istituzioni tipiche di esse, "di modo che la varietà nella Chiesa non solo non nuoce alla sua unità, ma anzi la manifesta" (OE 2).

Nel 1972 Paolo VI istituì una Commissione alla quale affidò l’elaborazione del Codice di diritto canonico orientale, anche questo alla luce del Concilio. Come per il Codice latino nei lavori è intervenuta la gerarchia delle Chiese orientali, i dicasteri interessati e i centri di studi specializzati in teologia e diritto orientale.

I diversi gruppi di studio elaborarono uno Schema che fu inviato ai membri della Commissione nel 1986. Con gli emendamenti e correzioni proposti dalla Commissione si redasse lo Schema novissimum che fu presentato al Santo Padre. Egli, dopo averlo rivisto e introdotto le modifiche ritenute opportune ha promulgato il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium (CCEO) in data 1 ottobre 1990.

Il Codice orientale contiene regole di diritto (canoni) comuni alle 21 Chiese sui iuris (autonome) di rito orientale che fanno parte della Chiesa cattolica. Esso è diviso in 30 Titoli ordinati secondo l’importanza della materia con un totale di 1546 canoni. Entro questo quadro comune ogni Chiesa dovrà poi sviluppare un suo diritto particolare rispondente alle proprie tradizioni.

Bisogna infine aggiungere che parallelamente ai lavori di codificazione postconciliare, si mise in opera anche l’elaborazione di una specie di Codice comune a tutte le Chiese (latina e orientali), che doveva raccogliere le norme fondamentali del diritto canonico per tutta la Chiesa. Di questa Legge Fondamentale della Chiesa si fecero due progetti successivi; ma i problemi di ordine teologico e di opportunità posti al riguardo di questa sorta di ‘Costituzione della Chiesa’, consigliarono di sospenderne l’esecuzione. Gli articoli che dovevano integrarla sono stati per lo più introdotti nei due Codici promulgati, di conseguenza nelle materie fondamentali i canoni di entrambi i Codici coincidono, spesso anche nella redazione.

Ai due Codici si deve poi aggiungere la Costituzione Apostolica Pastor Bonus, che è la legge della Curia romana, promulgata da Giovanni Paolo II nel giugno 1988. In diverse occasioni il Santo Padre ha ribadito che le tre leggi (i due Codici e la Pastor Bonus) costituiscono un insieme unitario, un Corpus del diritto canonico, ed ha espresso il suo desiderio che nell’edizione di ciascuno dei codici venga sempre acclusa la legge sulla Curia romana che è l’organismo del quale si serve il Romano Pontefice nell’esercizio del suo ministero primaziale su tutta la Chiesa.

Questo Corpus costituisce il nucleo centrale della legislazione ecclesiastica, ma non è tutta la legislazione ecclesiastica: accanto ad esso ci sono molte altre leggi intente a regolare specifiche materie; ad esempio l’elezione del Romano Pontefice, i Tribunali della Rota e della Segnatura Apostolica, il Sinodo dei Vescovi, le cause di canonizzazione. Inoltre nell’ambito del diritto ecclesiale ci sono sempre state leggi particolari per una determinata area geografica o per certe comunità di fedeli. Il Corpus costituisce piuttosto il principale quadro di riferimento dell’ordinamento canonico, al quale ricorrere per chiarire le questioni non regolate da una legge specifica.

Non si deve, dunque, confondere diritto canonico con l’insieme delle regole scritte della Chiesa, delle quali a sua volta il Corpus rappresenta soltanto il blocco centrale.

II. Fonti del diritto canonico

Dicevamo all’inizio del primo capitolo che per poter dare a ciascuno il suo diritto, secondo giustizia, bisogna che esso possa essere determinato. Il concetto di fonte giuridica fa riferimento appunto alla determinazione di ciò che è giusto.

Fonte del diritto sono in primo luogo le persone (individui o gruppi) che con i loro atti e comportamenti determinano in diversi modi ciò che è giusto in una data società. In questo senso la prima Fonte del diritto è Dio stesso, ordinatore della creazione e della Redenzione (diritto divino); e poi il legislatore umano, la stessa Chiesa e le sue comunità, i giudici, e in realtà qualsiasi soggetto capace di esercitare diritti e compiere doveri.

D’altra parte si chiamano fonti giuridiche gli atti tipici a mezzo dei quali viene stabilito quel che è giusto; in questo senso sono fonte del diritto una legge, un contratto, una sentenza, un decreto, ecc. Diciamo tipici perché gli atti che possono definire il diritto sono assai svariati, ma noi ci occuperemo soltanto dei tipi o specie in cui possono essere classificati. Delle fonti si occupa il primo Libro del Codice.

1- Norme e atti giuridici

Da quanto abbiamo appena detto bisogna distinguere le due principali tipi di fonti: le norme e gli atti giuridici.

Norma in senso generico è la regola (scritta o meno) che determina il diritto per un’insieme di casi somiglianti tra loro; atto giuridico è invece quello che definisce ciò che è giusto in un caso concreto. Si capisce bene perché abbiamo detto prima che il diritto non è costituito soltanto dalle regole poiché accanto ad esse esistono altri elementi o fattori che servono a precisare il diritto. E ancor meno è costituito dal codice che è soltanto un’insieme organico di norme scritte.

2- Norme canoniche

La norma può essere definita seguendo S. Tommaso come una ordinazione razionale promulgata dall’autorità per il bene comune. In questo concetto si riassumono le caratteristiche della norma:

a) La razionalità, è la nota principale della norma; vuol dire che innanzitutto essa deve essere congruente (non contraria almeno) al diritto divino, ovvero che non stabilisca qualcosa di avverso al dato rivelato sulla Chiesa, alla sua missione o alla natura dell’uomo. In questo senso la norma dev’essere possibile, necessaria o conveniente per il bene comune e comandare cose lecite. Una norma irrazionale è sempre ingiusta e quindi non obbliga di per sé, anche se talvolta la si debba osservare per evitare un male maggiore.

Sarebbe irragionevole una norma che comandi o permetta l’impossibile oppure l’immorale, o che limiti senza sufficiente motivo la libertà o favorisca iniquamente alcuni a scapito della comunità, oppure che sia confusa.

b) Le norme devono essere emanate dall’autorità competente, cioè da chi abbia la potestà sufficiente a vincolare i destinatari. Ogni tipo poi di norma richiede una potestà e competenza specifiche; il Papa, ed anche il Collegio episcopale, possono emanare leggi per tutta la Chiesa, mentre il Vescovo diocesano può legiferare solo per la sua diocesi, e una Conferenza episcopale può dare norme soltanto su determinate materie.

Ci si potrebbe chiedere se chi emana una norma ne rimane egli pure vincolato. Nel diritto civile la risposta sarebbe senz’altro affermativa; ma nella Chiesa per la sua costituzione e il modo in cui in essa viene esercitato il potere, la questione richiede delle sfumature: si può dire che chi detta la norma può anche modificarla, sospenderla o derogarla, ma finché non lo faccia si presume che anch’egli sia tenuto ad osservarla.

c) La norma deve servire al bene comune, ovvero a quel fine specifico in vista del quale i membri di una società vi si radunano. Il fine della Chiesa e la sua legge suprema (c. 1752) si identificano con quello della Redenzione: la salvezza delle anime. Fine dell’ordinamento canonico è stabilire le condizioni di vita ecclesiale giusta e pacifica in cui tutti gli individui (e i gruppi) possano meglio sviluppare le proprie capacità (i doni ricevuti) in ordine al fine della Chiesa, e ogni norma deve convenire a questo scopo e non intralciarlo.

Proprio perché il diritto canonico deve contribuire secondo la propria natura al bene comune ecclesiale, in esso non devono trovare luogo attività o enti che non siano congruenti con il fine della Chiesa (ancor meno se siano contrari).

Che le norme mirino a procurare il bene comune non significa però che debbano essere le stesse per tutti. La giustizia esige di dare a ciascuno quello che gli è dovuto, non di dare a tutti lo stesso. Inoltre la Chiesa è una realtà di ordine soprannaturale, ed è strumento di salvezza, perché in lei agisce lo Spirito Santo. Questo opera secondo il suo divino beneplacito e la sua azione multiforme sulle anime e istituzioni deve essere accolta e rispettata come un bene per tutto il corpo (bene comune). Per questo il diritto canonico si mantiene sempre sensibile e aperto alla varietà di situazioni e carismi particolari, attraverso particolari formule e meccanismi giuridici. Ciò fa sì che il diritto della Chiesa abbia maggiore flessibilità e ricchezza di quanta ne ha il diritto civile.

d) Promulgazione. Affinché possa essere obbedita, la norma deve poter essere conosciuta con esattezza. La promulgazione è il modo in cui una norma si fa ufficialmente conoscere ai suoi destinatari. Per le norme scritte la promulgazione avviene mediante la loro pubblicazione da parte dell’autorità che le emana.

3- La legge

Il tipo più comune di norma giuridica è la legge, tanto che è frequente nel linguaggio corrente chiamare legge qualsiasi tipo di regola giuridica. In senso tecnico però legge è la norma generale, scritta, promulgata da chi ha potere legislativo.

Nella Chiesa si distinguono la potestà legislativa, l’esecutiva o amministrativa e quella giudiziaria (c. 135 § 1), anche se spesso le tre possono essere esercitate da uno stesso organo di potere (individuale o collegiale): ad esempio il Papa, il Concilio, o il Vescovo diocesano possono emanare leggi, farle eseguire e sentenziare in base ad esse. Altri organi non hanno tutt’e tre le potestà; comunque solo chi ha potestà legislativa può dare leggi; a sua volta la legge costituisce l’espressione tipica della potestà legislativa.

La legge è la norma canonica più importante che prevale di regola su tutte la altre. Il Codice si occupa dei requisiti e caratteristiche della legge canonica nei cc. 7-22.

a) Tipi di leggi

1) Legge divina e legge umana

Abbiamo già detto che il nucleo fondamentale del diritto canonico è costituito dalle regole di diritto divino (naturale e positivo) che riguardano la Chiesa. Nella misura in cui una legge umana raccoglie e formula un comando di origine divina, essa partecipa della superiore e universale forza vincolante di questo. Talvolta il legislatore dichiara il fondamento divino che ha la legge da lui emanata (ad esempio, il c. 207 § 1 indica che il clero esiste nella Chiesa "per istituzione divina", parimenti il c. 1084 § 1 dice che l’impotenza in certi casi "rende nullo il matrimonio per sua stessa natura"); ma ci sono molti altri canoni che traducono in legge un precetto divino anche se ciò non viene espressamente indicato. In ogni caso la loro forza vincolante è la stessa.

Invece le leggi che hanno origine nell’autorità del legislatore umano si chiamano leggi puramente ecclesiastiche e hanno la forza obbligante che il legislatore gli abbia voluto dare (e sempre a patto che non contraddicano il diritto divino).

Perciò il c. 11 stabilisce che sono tenuti alle leggi puramente ecclesiastiche:

a) i battezzati nella Chiesa cattolica o in essa accolti dopo il battesimo,

b) che godono di sufficiente uso di ragione,

c) e hanno compiuto il settimo anno di età, a meno che il diritto non dica altro.

Non sono quindi tenuti alle leggi ecclesiastiche i battezzati non cattolici.

2) Leggi generali e leggi particolari

A seconda di quanto sia estesa la loro applicazione, la legge è generale (comune, universale) oppure particolare (peculiare, speciale). Ciò dipende in primo luogo da chi sia il legislatore. Soltanto il Romano Pontefice e il Collegio episcopale (Concilio ecumenico) possono dare leggi universali (per tutta la Chiesa), mentre il Concilio particolare, il Vescovo diocesano o la Conferenza episcopale possono soltanto dare leggi particolari (entro il loro territorio).

Ma in altro senso le leggi sono generali o particolari a seconda di chi ne sia il destinatario. Se il legislatore indirizza la legge a tutti i membri della comunità, essa è generale o comune, se invece la rivolge solo ad un gruppo entro la comunità, la legge è particolare o speciale.

Si deve anche distinguere tra destinatario di una legge e i soggetti effettivamente tenuti ad essa; questi sono soltanto coloro che rientrano nella situazione prevista dalla stessa legge. Il precetto domenicale è una norma universale, per tutta la Chiesa, ma obbliga soltanto chi ha più di 7 anni; le leggi sul matrimonio sono pure universali, ma effettivamente riguardano coloro che si vogliono sposare o si sono sposati. Che una legge sia per tutti non necessariamente vuol dire che sia per ciascuno, perlomeno non con la stessa intensità.

Per quanto riguarda la relazione di supremazia tra legge comune o generale e quella particolare, occorre considerarne l’autore: la legge particolare prevale su quella generale se ambedue procedono dalla stessa autorità (salvo disposto in contrario: c. 20); invece la legge comune data da un legislatore prevale su quella particolare fatta da un altro che sia inferiore, il quale "non può dare validamente una legge che sia contraria al diritto superiore" (c. 135 § 2).

3) Legge territoriale e legge personale

Per il modo in cui si determinano i destinatari della legge essa può essere territoriale o personale, a seconda che interessi coloro che risiedono in un dato luogo, oppure certe persone a motivo di un fatto personale (militari, religiosi, emigranti, ecc.). Oggi il criterio più comune è quello territoriale, per cui le leggi si presumono territoriali (cc. 12 e 13).

4) Leggi irritanti e leggi inabilitanti (c. 10)

In diritto canonico gli atti contrari alla legge, anche se illeciti, non sono necessariamente nulli: bisogna che la stessa legge lo dica espressamente. È irritante la legge che stabilisce la nullità di certo atto (si veda ad esempio il c. 1087), è inabilitante la legge che stabilisce l’incapacità o inabilità di qualcuno a qualche cosa (si veda ad esempio il c. 842 § 1). Non di rado queste leggi sono fondate nel diritto divino.

b) Promulgazione

Le forme in cui le leggi sono promulgate possono essere diverse; di solito, secondo il c. 8, le leggi universali vengono promulgate tramite la loro pubblicazione "nella gazzetta ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis"; e le leggi particolari nel Bollettino ufficiale corrispondente (della diocesi, della Conferenza episcopale). Ma si possono promulgare leggi anche in altri modi (per editto, ad esempio): l’importante è che siano fatte pubbliche in modo che i loro destinatari le possano conoscere con precisione.

Dal momento della pubblicazione ufficiale della legge fino all’entrata in vigore è solito trascorrere un tempo di vacazione (vacatio legis): tre mesi per le leggi universali e uno per quelle particolari, salva previsione contraria. Quindi una è la data della legge e altra quella della sua entrata in vigore.

c) Retroattività

Come si dice nel c. 9 le leggi riguardano le cose future, non le passate, quindi di regola non hanno valore retroattivo, ma lo possono avere se così è stabilito; ad esempio, la legge penale è retroattiva se più favorevole al delinquente. D’altro canto non si deve confondere la retroattività con il fatto che la legge pretenda di modificare situazioni già maturate, il che può essere proprio il suo scopo.

Infine è stabilito che equivalgono alle leggi i decreti generali legislativi emanati da chi ha potestà legislativa (c. 29), oppure da chi senza averla di per sé, l’ha ricevuta per delegazione espressa del legislatore per un certo caso (cc. 30 e 135 § 2).

4- La consuetudine

È una norma generale stabilita dall’usanza in una comunità.

Infatti, le consuetudini e le usanze fanno parte della vita degli uomini e delle comunità, stabiliscono modelli di condotta comunemente accettati come giusti e pertanto devono essere rispettate.

In ogni ordinamento giuridico le regole stabilite dalla prassi abituale comune hanno una certa forza vincolante nata dalla generale convinzione che quello che si è sempre fatto è giusto, e manifesta il comune senso su quello che si deve fare. La consuetudine è quindi una norma che nasce dal popolo; proprio per questo ha una grande importanza come veicolo di adattamento del diritto alla vita, alle circostanze concrete. Nella società ecclesiale poi la consuetudine è espressione normativa del senso comune dei fedeli, chiamati tutti all’edificazione della Chiesa; e può acquistare forza legale alle condizioni dei cc. 23-28.

La consuetudine si chiama secondo legge (secundum legem) quando determina il modo concreto e legittimo di compiere quanto stabilito dalla legge; in questo senso si dice che "la consuetudine è il migliore interprete della legge" (c. 27).

Si chiama al di fuori della legge (praeter legem: al di là della legge) la consuetudine che aggiunge cose non comandate dalla legge, cosicché integra l’ordinamento.

Consuetudine contro la legge (contra legem) è quella che stabilisce qualcosa in contrasto con quanto statuito da una legge e quindi tende a sostituirla.

Perché la consuetudine abbia valore di norma giuridica, occorre:

a) che sia ragionevole (come ogni norma); secondo il c. 24 non lo è la consuetudine contraria al diritto divino né quella che è espressamente riprovata dal diritto umano;

b) che venga osservata in modo stabile da una comunità come norma di giustizia, cioè che ci sia la comune convinzione che è vincolante (c. 25);

c) che sia approvata dal legislatore, nel senso che l’abbia fatta salva oppure non l’abbia riprovata espressamente. Così avviene ad esempio quando la legge dice ‘salvo consuetudine contraria...’ (c. 23);

d) che sia un uso osservato per il tempo stabilito (c. 26).

La consuetudine viene derogata da una legge o un’altra consuetudine che le siano contrarie; "ma, se non ne fa espressa menzione, la legge non revoca le consuetudini centenarie o immemorabili, né la legge universale revoca le consuetudini particolari" (c. 28).

5- Norme amministrative

Sono le norme generali, cioè per una generalità di casi, emanate dagli organi amministrativi con potestà esecutiva, al fine di precisare il disposto delle leggi. Sono quindi accessorie e inferiori alla legge; pertanto non possono cambiarla o contraddirla, e nella misura che lo facciano sono invalide (cc. 33 § 1 e 34 § 2). Possono essere decreti generali esecutivi o istruzioni.

a) Decreti generali esecutivi

Vengono definiti nel c. 31 come quelli "con cui sono appunto determinati più precisamente i modi da osservarsi nell’applicare la legge o con cui si urge l’osservanza delle leggi". Devono essere promulgati e cessano quando sono revocati dall’autorità oppure quando cessa la legge alla quale si riferiscono (33 § 2).

Può dare questi decreti chi gode della potestà esecutiva nei termini della sua competenza, ed in questo ambito vincolano quelli che sono soggetti alla legge di riferimento (c. 32).

Esistono pure decreti autonomi, non legati cioè ad una legge, come quelli emanati dai dicasteri della Curia romana sulle materie di loro competenza. Neppure questi (e cioè le Congregazioni, in primo luogo) possono contraddire o modificare le leggi.

b) Istruzioni

Sono regole simili ai decreti ma rivolte a coloro che sono incaricati di eseguire la legge o farla eseguire, di regola i funzionari (c. 34).

6- Statuti e regolamenti

Sono due tipi di norme che si riferiscono alla vita e allo svolgimento delle attività degli enti e delle riunioni o assemblee (un concilio, una associazione).

a) Statuti

Gli statuti sono le norme che regolano la vita degli enti (associazioni, istituti, consigli, fondazioni), dei quali definiscono "il fine, la loro costituzione, il governo e i modi di agire" (c. 94 § 1); direttamente vincolano soltanto coloro che fanno parte dell’ente (membri, soci) o lo governano, ma indirettamente interessano pure quelli che si mettono in rapporto con tali enti (c. 94 § 2).

Spesso gli statuti sono elaborati e approvati dalla stessa entità come espressione della propria autonomia e costituiscono il loro diritto particolare interno nel quadro del diritto comune; ma nel caso degli enti che fanno parte dell’organizzazione della Chiesa può darsi che sia la stessa autorità legislativa a dare ad un ente i suoi statuti: in questo caso sono propriamente una legge particolare (c. 94 § 3).

b) Regolamenti

Sono le norme che regolano i convegni o raduni di persone (un sinodo, un’elezione) e ne determinano l’ordine da seguire (chi presiede, chi deve essere convocato, l’ordine del giorno, come si prendono le decisioni, ecc.). Coloro che prendono parte in un raduno sono tenuti al regolamento stabilito (c. 95).

7- Atti amministrativi singolari

Abbiamo già visto che, diversamente dalle norme, gli atti giuridici sono fonte del diritto nei casi singoli. Gli atti amministrativi sono quegli atti giuridici destinati dall’autorità esecutiva ad un concreto soggetto (c. 36 § 2). Sono cioè le decisioni o risoluzioni prese dall’autorità di fronte a casi particolari. Si devono formulare per scritto (c. 37).

Di regola hanno lo scopo di applicare la legge al caso singolo, e quindi non possono contraddirla, a meno che a darli non sia lo stesso legislatore (c. 38). Ma ci sono casi in cui l’atto è emanato proprio perché la legge non venga applicata in un caso concreto (ci riferiamo ad esempio alla dispensa, c. 85).

Gli atti singolari sono spesso il risultato dell’attività di diversi soggetti, hanno cioè un complesso processo di formazione, talvolta regolato dal diritto; ad esempio: che ci sia una petizione dell’interessato, che un collegio dia il suo parere (o il suo consenso), che vengano presentati certi documenti, ecc. La validità dell’atto risultante può dipendere dal ripsetto della procedura stabilita.

Contro gli atti singolari dell’autorità si può fare ricorso, eccetto per quelli direttamente emanati dal Romano Pontefice o dal Concilio ecumenico (c. 1732). Agli effetti del ricorso ha importanza il silenzio amministrativo: se trascorsi tre mesi dalla richiesta non c’è una risposta espressa dell’autorità, essa si presume negativa, e quindi l’interessato può inoltrare il ricorso contro il diniego (c. 57).

Ci sono molti tipi di atti amministrativi a seconda del loro contenuto (nomine, grazie, mandati, licenze, concessioni, permessi, ecc.). Da un punto di vista formale il c. 35 ne distingue tre tipi: decreti, precetti e rescritti.

a) Decreti singolari

Il decreto singolare viene definito nel c. 48 come quel’atto che: a) è dato dall’autorità competente; b) per provvedere o decidere un caso particolare (c. 52); c) secondo le norme del diritto; d) senza bisogno di una petizione fatta da qualcuno.

È il tipo comune di atto amministrativo. Infatti, decidere o provvedere può includere qualsiasi attuazione (dare, comandare, proibire, nominare, eleggere, autorizzare, ecc.). Per cui qualsiasi atto amministrativo deve avere gli stessi requisiti ed essere emanato in forma di un decreto. Il fatto che non si richiede una previa petizione di qualcuno non significa che non ci possa essere, e quindi sia possibile ricorrere contro il diniego (c. 57).

Il decreto deve essere notificato per scritto agli interessati, indicando l’autorità che lo ha dato ed i motivi della decisione (cc. 37 e 51): la notifica è per gli atti singolari come la promulgazione per le norme generali, quindi il decreto non è efficace finche essa non si compia (c. 54). In casi eccezionali il decreto è soltanto letto all’interessato in presenza di notaio o di due testimoni (cc. 55 e 56).

b) Precetti singolari

Sono decreti che hanno carattere imperativo, ovvero che comandano o proibiscono direttamente ad un singolo qualcosa stabilita nella legge (c. 49).

Particolare importanza hanno i precetti penali nei quali l’autorità minaccia con una pena l’inadempienza del precetto (c. 1319).

c) Rescritti

Sono atti singolari, scritti tramite i quali l’autorità amministrativa competente, su petizione di qualcuno, concede una grazia (privilegio, dispensa, licenza, ecc.) (c. 59). In principio chiunque ha il diritto di chiedere e può ottenere una grazia (c. 60); il diritto di petizione è infatti un diritto fondamentale (c. 212 § 2).

Caratteristiche specifiche del rescritto sono:

a) Che risponde ad una richiesta motivata dell’interessato (chiamata preces), per cui la validità della concessione dipende di regola della veracità e bontà dei motivi addotti. Infatti, la falsità delle motivazioni (orrezione) o la reticenza di elementi dovuti (surrezione) comporta l’invalidità del rescritto, a meno che l’autorità non l’abbia concesso Motu proprio, indipendentemente cioè delle motivazioni espresse (c. 63).

b) Che è un atto di grazia in favore del richiedente o di un terzo, qualcosa cioè che spetta all’autorità giudicare se si deve concedere o meno.

La grazia denegata da un’autorità non può venire poi concessa da un’altra inferiore, ma sì da una dello stesso rango alle condizioni dei cc. 64 e 65. Con ciò si desiderano evitare conflitti tra le autorità a danno della comunione.

Ci sono due tipi particolari di grazia che è solito concedere con un rescritto: il privilegio e la dispensa.

1) Il privilegio

È la grazia concessa a particolari dal legislatore in forza della sua potestà di legiferare: una specie di legge singolare in favore di certe persone che prevale su quella generale (c. 76). Il privilegio è personale se viene concesso direttamente a certe persone fisiche o giuridiche (parrocchia, confraternita, famiglia, individuo); è reale se concesso ad un luogo (santuario, chiesa, cappella). Il privilegio è in principio perpetuo, in quanto termina soltanto quando si estingue il soggetto o il luogo privilegiato.

2) La dispensa

È "l’esonero dall’osservanza di una legge puramente ecclesiastica in un caso particolare" (c. 85).

Infatti, il diritto divino è inderogabile per cui possono essere soltanto dispensate norme di diritto umano, e non tutte poiché secondo il c. 86 non possono essere dispensate le leggi "in quanto definiscono quelle cose che sono essenzialmente costitutive degli istituti o degli atti giuridici": elementi cioè senza i quali non possono esistere veramente (così, ad esempio, non può essere dispensato il consenso delle parti di un contratto o del matrimonio).

Entro la propria competenza possono dispensare coloro che godono della potestà esecutiva (amministrativa) e coloro ai quali è stata concessa la potestà di dispensare per delega o per legge (c. 85).

Nei cc. 87-89 è stabilita la competenza per dispensare. Come regola generale: il legislatore può dispensare dalle sue leggi; il Vescovo diocesano può dispensare anche dalle leggi emanate dalla suprema autorità della Chiesa, eccetto quelle penali e processuali e quelle la cui dispensa è specialmente riservata alla Santa Sede o ad altra autorità (vedi, ad esempio, il c. 291); l’Ordinario del luogo può dispensare dalle leggi diocesane e da quelle dei Concili regionali o provinciali o della Conferenza episcopale; gli altri chierici possono soltanto dispensare nei casi specifici determinati dalla legge o per delega (vedi, ad esempio, i cc. 1079, 1080, 1196). In caso di urgente pericolo qualsiasi Ordinario può dispensare da una legge che sia dispensabile, anche riservata alla Sede Apostolica "purché si tratti di una dispensa che la stessa Santa Sede nelle medesime circostanze solitamente concede" (vedi in contrario c. 1078 § 3).

Per la validità della dispensa occorre che ci sia "una causa giusta e ragionevole" proporzionale alla gravità della legge dispensata, a meno che la dispensa non venga concessa dallo stesso legislatore o dal suo superiore: in questo caso è valida ma illecita (c. 90).

La dispensa è uno degli elementi che danno flessibilità al diritto canonico, evitando che in un caso concreto la rigida applicazione della legge provochi un danno maggiore che il suo momentaneo esonero; ciò esige il giudizio equilibrato dell’autorità in vista del bene spirituale dei fedeli (gli interessati e gli altri).

8- Atti giudiziali

Gli atti della potestà giudiziaria sono anche fonte del diritto in quanto essi determinano quel che è giusto in un caso controverso, sulla base di quanto disposto nelle norme generali. Di regola i processi finiscono con una sentenza oppure con un decreto del giudice nei quali si decide il quesito posto dalle parti. Ma ci sono anche altri atti del giudice lungo il processo che creano o modificano il diritto, e sono quindi fonte giuridica (ad esempio, quando il giudice accetta la domanda dell’attore nasce il diritto del convenuto ad essere chiamato in giudizio come parte).

9- Atti giuridici privati

Fino ad ora abbiamo studiato come fonti del diritto le norme e gli atti dell’autorità (legislativa, esecutiva e giudiziaria). Ma un’altra fonte di grande rilievo sono gli atti giuridici che compiono i singoli fedeli nell’uso della loro autonomia privata, al fine di stabilire e organizzare i loro rapporti con gli altri (un contratto, la professione religiosa, il matrimonio). Questi atti che nascono dalla volontà dei soggetti privati si chiamano in generale atti o negozi giuridici (cc. 124-128).

Si intuisce che possono essere molto vari, ma in questa sede non si tratta di esaminarli tutti, bensì di studiare i loro elementi generali. Entro questi elementi si devono distinguere quelli che sono costitutivi (essenziali, sostanziali), necessari per la validità, da quelli che sono requisiti legali.

Essenziale per qualsiasi atto giuridico è che esso sia un atto veramente umano, ovvero venga realizzato da un soggetto capace che agisca con conoscenza e libera volontà (c. 124 § 1). L’atto compiuto da chi ne è completamente incapace, oppure per ignoranza o errore sulla sostanza, o senza libero consenso è assolutamente nullo. Oltre a questi elementi essenziali comuni, ogni atto può avere specifici elementi costitutivi (ad esempio, il sacramento dell’ordine è capace di riceverlo soltanto chi è di sesso maschile). Si ricordi che gli elementi costitutivi o essenziali non possono essere suppliti o dispensati dall’autorità (c. 86).

Tuttavia può accadere che manchi solo parzialmente un elemento essenziale, allora l’atto può essere valido ma rescindibile o annullabile; è il caso di chi compie un atto essendo relativamente incapace oppure per errore o ignoranza non sostanziale (cc. 125 § 2 e 126). La nullità relativa o annullabilità di un atto significano che esso è valido ed efficace ma che può essere annullato per sentenza del giudice.

I requisiti legali sono quelli stabiliti dalla legge. La loro mancanza sarà causa o meno della nullità dell’atto in base a quanto stabilito a riguardo dalla legge stessa, se cioè essa sia o meno irritante o inabilitante (c. 10). Questi requisiti sono di regola dispensabili (così accade con la forma del matrimonio, che può essere dispensata in certi casi).

III. I soggetti nell’ordinamento canonico

Soggetto del diritto è ogni essere capace di diritti e doveri e quindi di rapporti giuridici. Nell’ordinamento canonico è soggetto colui che è capace di diritti e doveri nella Chiesa. Ma parlare di capacità esige distinguere tra capacità di essere titolare di diritti e doveri (capacità giuridica), e capacità di esercitare i diritti e i doveri, cioè di realizzare atti con valenza giuridica (capacità di agire).

Soltanto la persona umana che gode del sufficiente uso di ragione è capace di attività giuridica, ha capacità di agire: abbiamo già detto che l’atto giuridico deve essere prima di tutto atto umano, posto da un soggetto capace di intendere e di volere. Ma la capacità necessaria ad agire giuridicamente non è sempre la stessa, dipendendo dalle caratteristiche dell’atto: per sposarsi non si richiede la stessa maturità che per ricevere l’Eucaristia (di qui la rilevanza che hanno nel diritto l’età e la capacità psicologica).

Invece il nascituro, il demente, la parrocchia o una associazione, benché non possano agire per se stessi, possono tuttavia essere soggetti titolari di diritti e doveri: hanno capacità giuridica, anche se possono agire soltanto tramite un loro rappresentante che sia capace di attività negoziale.

Pertanto benché solo la persona umana con uso di ragione può essere soggetto attivo del diritto, ogni persona umana e gli enti sociali possono essere soggetti del diritto in senso passivo, godere cioè di diritti e compiere doveri secondo le loro capacità. In questo senso ampio vengono distinti due tipi di soggetti giuridici: la persona fisica e la persona giuridica, come fa anche il CIC (cc. 96-123).

1- La persona fisica

Nella Chiesa, come in ogni società di uomini, ogni persona umana è capace di diritti e doveri; tuttavia soltanto coloro che si sono incorporati alla Chiesa grazie al battesimo sono fedeli, e hanno i diritti e doveri propri dei cristiani (c. 96).

La Redenzione essendo universale chiama tutti gli uomini alla Chiesa, la cui missione apostolica si rivolge ad ognuno; i non battezzati nella misura in cui entrano in rapporto con la Chiesa hanno in essa diritti e doveri: basti pensare ai diritti e doveri dei catecumeni (cc. 206, 788, 1170, 1183 § 3), oppure al non battezzato sposato con un cattolico (c. 1135), o che acquista un bene di proprietà ecclesiastica, e più in generale al diritto che ogni uomo ha di essere evangelizzato e quindi battezzato (cc. 748 e 851).

La differenza tra i fedeli e i non battezzati si può paragonare a quella tra i cittadini di un paese e gli stranieri: tutti sono soggetti di diritti, ma i nazionali hanno i diritti e doveri dei cittadini. I non battezzati non appartengono alla Chiesa nè sono sottoposti alle sue leggi, ma ciò non significa che non siano soggetti di diritti e doveri canonici in quanto allorché si rapportino con la società ecclesiastica.

Nei diritti e doveri delle persone influiscono diverse circostanze: l’età, il domicilio, la condizione (chierico, laico, religioso), il rito, ecc. Ad esempio, abbiamo visto che alle leggi puramente ecclesiastiche sono tenuti solo i cattolici che hanno compiuto 7 anni e godono dell’uso di ragione (c. 11).

Secondo l’età (cc. 97-98) la persona è maggiorenne se ha compiuto i 18 anni. Fino ad allora è minorenne, e prima dei 7 anni lo si chiama bambino. Soltanto i maggiorenni godono del pieno esercizio dei loro diritti (capacità di agire); i minori invece possono solo agire rappresentati dai genitori o tutori. Ma abbiamo detto che la capacità è relativa all’atto di cui si tratta, quindi un minore può compiere da sé certi atti ai quali è ammesso dal diritto divino o dalla legge canonica; così può ricevere i sacramenti (eccetto l’ordine), agire in certi processi, ecc.

Il rito determina l’appartenenza ad una Chiesa rituale (abbiamo visto che il CIC è per la Chiesa latina). Di regola il fedele appartiene al rito nel quale riceve il battesimo, il quale, a sua volta, viene ricevuto nella Chiesa dei genitori, ma il battezzando che ha compiuto i 14 anni può scegliere il proprio rito. Dopo il battesimo si può cambiare di rito per concessione della Santa Sede, per il matrimonio contratto con persona di altro rito o in certi casi per scelta (c. 112).

Il domicilio (cc. 100-107) determina la comunità o circoscrizione ecclesiastica alla quale uno appartiene, e quindi il suo Ordinario e parroco proprio (c. 107). Oltre al domicilio anche la dimora ha importanza per determinare i diritti e doveri della persona.

2- Persona giuridica

Ma non solo la persona fisica è capace di diritti e obblighi. Ci sono enti di natura sociale che hanno una loro vita indipendente da quella degli individui che ad un certo momento li integrano (la parrocchia, un’associazione, un istituto di vita consacrata, ecc.). Sono quindi soggetti giuridici e agiscono tramite i loro rappresentanti, come i minorenni.

Questi enti, quando la loro soggettività giuridica viene in qualche modo riconosciuta dal diritto si chiamano persone giuridiche. Ma anche se non ottengono tale riconoscimento possono avere certi diritti e doveri: sono enti di fatto o soggetti senza personalità giuridica. Dunque la soggettività giuridica è più ampia e non sempre coincide con la personalità giuridica.

Logicamente nel diritto canonico hanno senso solo enti e collettività che si propongono finalità e opere congruenti con la missione e vita della Chiesa: "opere di pietà, di apostolato o di carità sia spirituale sia temporale" (c. 114). Altri enti che hanno fini o svolgono attività aliene alla natura e missione religiosa della Chiesa potranno avere soggettività civile ma non canonica.

Nella Chiesa poi gli enti possono avere quei diritti e doveri che siano congruenti con la loro natura, poiché ci sono diritti e obblighi di cui soltanto una persona fisica può esserne titolare; infatti, solo una persona fisica può, ad esempio, ricevere i sacramenti, digiunare o ottenere titoli accademici (c. 113 § 2).

La Chiesa cattolica e la Santa Sede in quanto sono di istituzione divina, sono soggetti del diritto: hanno personalità giuridica per la loro origine indipendentemente da qualsiasi legge o autorità umana (c. 113 § 1). Invece gli altri enti ecclesiastici possono acquistare la personalità per legge o per decreto dell’autorità competente (c. 114 § 1).

Di regola le circoscrizioni ecclesiastiche (diocesi, parrocchie, ecc.) hanno la personalità per legge (cioè per il fatto stesso di essere state costituite) e sono rette dalla legge; mentre gli altri enti la possono acquisire per decreto singolare dell’autorità e devono avere i loro propri statuti (c. 94) approvati dall’autorità competente.

Ci sono però alcune circoscrizioni ecclesiastiche di natura personale (non territoriale: diocesi, parrocchie, prelature) che hanno pure i loro statuti, cioè un proprio diritto particolare. Inoltre, come abbiamo detto, ci sono enti senza statuti scritti, oppure non approvati, che agiscono come soggetti anche se non acquistano la personalità giuridica.

Gli statuti sono il diritto particolare proprio della persona giuridica. Servono cioè a regolare specificamente la sua vita, determinare la sua attività e autonomia, tutelare la sua identità nel tempo. Perciò il diritto statutario ha nella Chiesa l’importanza particolare di adeguare norma e carisma, in modo che questo trovi in quella un adeguato riconoscimento della sua genuinità evangelica, una chiara espressione sociale e la garanzia di continuità nel servizio di tutti.

Le persone giuridiche sono in principio perpetue, ma si possono estinguere per decisione (motivata) dell’autorità, per l’inattività protratta per cento anni e per altre cause previste negli statuti (cc. 120 e 123). Le persone giuridiche si possono anche unire e dividere in diverse maniere (cc. 121 e 122).

a) Corporazioni e fondazioni (c. 115)

Gli enti canonici si distinguono in corporazioni e fondazioni. Quando il soggetto titolare dei diritti e doveri è una comunità di persone ci troviamo di fronte ad una corporazione; quando invece il soggetto è un’insieme di cose, un patrimonio, l’ente è una fondazione.

La corporazione (comunità) deve essere integrata almeno da tre persone fisiche. È collegiale (collegio) se i suoi membri partecipano nelle decisioni più importanti, altrimenti è non collegiale. Collegio è, ad esempio, il capitolo cattedrale, una associazione di fedeli, la Conferenza episcopale; non collegiali sono la diocesi, il seminario o la parrocchia.

Gli atti collegiali sono retti dal c. 119, salvo che il diritto particolare o gli statuti dispongano diversamente.

La fondazione canonica è costituita da beni o cose (spirituali o materiali). Quando ha propria personalità giuridica si chiama fondazione autonoma, e agisce tramite i propri organi di governo (una o più persone fisiche od un collegio). Quando non ha propria personalità ma appartiene o è collegata ad una corporazione si chiama fondazione non autonoma (cfr. c. 1303).

b) Persone giuridiche pubbliche e private

Una delle novità introdotte dal Codice del 1983 è la possibilità che esistano nella Chiesa enti privati, come risultato dell’iniziativa e responsabilità dei fedeli. Fino all’entrata in vigore del nuovo codice tutti gli enti riconosciuti erano pubblici, cioè costituiti dall’autorità.

Le persone giuridiche pubbliche e quelle private si distinguono principalmente perché le pubbliche "vengono costituite dalla competente autorità ecclesiastica" e agiscono "a nome della Chiesa" (c. 116 § 1), quindi dipendono maggiormente dalla gerarchia poiché nella loro attività coinvolgono ufficialmente la Chiesa; le private invece nascono dall’iniziativa dei fedeli, che le governano sotto la propria responsabilità. Le attività e i fini possono spesso coincidere, tuttavia ci sono attività che spettano esclusivamente alla gerarchia, pertanto possono soltanto essere affidati ad una persona giuridica pubblica (c. 301 § 1).

Le persone giuridiche agiscono tramite i loro rappresentanti, cioè i loro organi di governo ai quali la legge o gli statuti attribuiscono tale funzione di rappresentanza: ad esempio, il Vescovo diocesano è per legge il rappresentante della sua diocesi (c. 393), come lo è il parroco per la parrocchia (c. 532). I rappresentanti delle persone private sono designati negli statuti (c. 118).

IV. Costituzione della Chiesa

Nella Chiesa non esiste una costituzione scritta, una legge fondamentale, come avviene per la grande maggioranza dei paesi. Ciò non vuol dire che tutti gli elementi che fanno della Chiesa una società giuridicamente organizzata si debbano mettere allo stesso livello o abbiano pari importanza. Abbiamo visto (nel primo capitolo) che il nucleo fondamentale del diritto canonico è costituito dal diritto divino, al quale si devono adeguare tutte le altri fonti del diritto; che la legge suprema della Chiesa è la salvezza delle anime; che la condizione giuridica di fedele si acquista per il battesimo, cioè che la stessa realtà soprannaturale che ci fa diventare figli di Dio ci conferisce anche diritti e doveri nella società ecclesiale, ecc.

Insomma se la Chiesa è una società che ha un’identità propria, con caratteristiche peculiari, gli elementi giuridici (norme, principi, istituzioni) che colgono ed esprimono tali tratti fondamentali in un dato momento storico sono quelli che integrano la costituzione della Chiesa.

Il problema è che non esistendo ancora oggi una Legge Fondamentale del Popolo di Dio che riunisca e formuli gli elementi fondamentali dell’ordinamento canonico, non è facile da individuare il contenuto della costituzione della Chiesa poiché si trova disperso e mescolato con altri elementi secondari e di livello inferiore.

Ad ogni modo possiamo affermare che fanno parte della costituzione della Chiesa quelle norme, principi e istituti che esprimono il disegno del suo Fondatore: il diritto divino. Di questi noi vedremo qui brevemente i principi costituzionali e i diritti fondamentali dei fedeli. Nel seguente capitolo esamineremo l’organizzazione ecclesiastica i cui elementi principali sono anche di ordine costituzionale.

1- I Principi costituzionali

Sono quelli attorno ai quali si organizza la vita sociale della Chiesa, quelli cioè che traducono in linguaggio giuridico l’essere della Chiesa così come disegnata da Cristo suo Fondatore. Hervada ne elenca tre: il principio di uguaglianza, il principio di varietà e il principio gerarchico.

a) Il principio di uguaglianza

Significa che la Chiesa è primariamente una società di uguali. La condizione di cittadino del Popolo di Dio si acquista mediante il battesimo, che ci incorpora a Cristo come membri del suo Corpo mistico che è la Chiesa. Poiché il battesimo è uno (un solo battesimo, diciamo nel Credo), anche una è la condizione che si acquista ricevendolo, quella cioè di figli adottivi di Dio; quindi "vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli per l’edificazione del Corpo di Cristo" (LG 32).

In forza di questo principio tutti i fedeli:

- sono ugualmente fedeli, senza che ci siano cristiani più cristiani degli altri;

- sono chiamati alla santità e all’apostolato, senza che si possa distinguere tra membri attivi e membri passivi della Chiesa;

- professano la stessa fede, partecipano degli stessi sacramenti e sono ugualmente vincolati all’autorità ecclesiastica;

- hanno gli stessi diritti e doveri fondamentali: ciò che spetta ad ogni fedele è essenzialmente uguale per tutti e tutti sono parimenti tenuti a rispettarlo negli altri, senza che ci siano su questo punto privilegi ed eccezioni. Ad es. tutti hanno lo stesso diritto-dovere di ricevere la dottrina e i sacramenti.

b) Il principio di varietà

Pur essendo una ed uguale la condizione di fedele acquisita per il battesimo, esistono modi differenti di attuarla: "la santa Chiesa è, per divina istituzione, ordinata e retta con mirabile varietà" (LG 32; cfr AA 2). Lo Spirito che guida la Chiesa e i suoi fedeli, elargisce a suo volere diversi doni, promuovendo svariate forme di vita e di apostolato ugualmente buone e legittime.

Il principio di varietà si manifesta a tutti i livelli della vita ecclesiale, dando luogo ad un ricco pluralismo che si manifesta, ad es., nei diversi riti o nelle differenti forme di spiritualità.

c) Il principio gerarchico

In rapporto col precedente, ma con una propria autonomia c’è il principio istituzionale o gerarchico, in forza del quale ci sono nella Chiesa funzioni e ministeri che si esercitano in nome e rappresentanza di Cristo Capo della Chiesa, da Lui direttamente stabiliti ed attribuiti alla gerarchia. Cioè, la organizzazione istituzionale basilare della Chiesa è stata costituita dal suo Fondatore quando costituì il Collegio apostolico e ne mise a capo Pietro, conferendo loro i poteri e le funzioni che, a nome Suo, dovevano esercitare per diffondere e dirigere il Popolo di Dio. Il Collegio dei vescovi (successori degli Apostoli) con a capo il Papa (successore di Pietro) svolgono tali poteri e funzioni in rappresentanza di Cristo Capo della Chiesa. La Chiesa è in questa prospettiva una società gerarchica (cfr CCC 874-879).

2- Diritti e doveri fondamentali dei fedeli

Abbiamo visto che in virtù del principio di uguaglianza tutti i battezzati hanno gli stessi diritti e doveri, che sono espressione giuridica della loro comune dignità e responsabilità di fedeli. Sono quindi doveri e diritti di rango costituzionale in quanto derivanti dal battesimo, fondati quindi sul diritto divino. Spettano a ciascun fedele per il fatto di esserlo, non per concessione della comunità né dell’autorità; sono uguali per tutti, perpetui, irrinunciabili, e prevalgono sulle norme di diritto umano; costituiscono l’alveo comune entro il quale ognuno, da solo o con altri, vive la sua vita cristiana e partecipa alla missione della Chiesa.

Il CIC ha raccolto nei cc. 208-222 i principali di questi diritti e doveri, cosa che costituisce una novità nella legislazione ecclesiastica. Vediamoli brevemente.

- L’uguaglianza come diritto (c. 208), significa che dal relativo principio sopra studiato scaturiscono esigenze giuridiche concrete, come la non discriminazione, il diritto ad uguali mezzi di tutela e garanzie giuridiche, ecc.

- Il dovere di comunione ecclesiastica (c. 209), comprende, secondo il c. 205 "i vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico"; vincoli ai quali i fedeli devono conformare non solo il loro pensiero ma anche il comportamento, con la loro condotta coerente e con l’ubbidienza alle leggi e ai Pastori della Chiesa.

- Chiamata universale alla santità e all’apostolato (c. 210), significa che tutti i fedeli devono ugualmente impegnarsi nella propria santificazione e promuovere quella degli altri. A questo dovere generico si collegano altri doveri concreti: ricevere i sacramenti a tempo debito, la confessione e comunione almeno una volta l’anno, il digiuno e l’astinenza, ecc. Ne derivano anche diversi diritti: ai mezzi di santificazione, all’apostolato, di promuovere iniziative apostoliche.

- Diritto dovere di fare apostolato (c. 211). Poiché tutti hanno l’obbligo di diffondere il Vangelo, hanno anche il diritto di testimoniarlo e di trasmetterlo agli altri senza bisogno di permesso o mandato della gerarchia (è una missione che si riceve col battesimo).

- Dovere di obbidienza ai Pastori (c. 212 § 1). Conseguenza del principio gerarchico, è la comunione coi Pastori, che devono essere ascoltati ed obbediti come rappresentanti di Gesù Cristo nelle cose che riguardano la dottrina, il culto e il governo della Chiesa.

- Il diritto di petizione (c. 212 § 2) è anche uno strumento dato ai fedeli di cooperare all’edificazione della Chiesa, facendo presenti ai Pastori i propri bisogni e desideri. I Pastori devono ascoltare e rispondere ragionevolmente, ma non hanno il dovere di acconsentire a tutto quanto gli viene richiesto dai fedeli, salvo che si tratti di un vero diritto di questi.

- Libertà di opinione e di espressione (c. 212 § 3). Questo diritto-dovere si estende alle cose che sono di libera opinione nella Chiesa, non alle verità di fede e sul costume sancite dal magistero. Entro tali limiti i fedeli hanno il diritto di non vedersi imporre le opinioni altrui e di avere e manifestare le proprie, con responsabilità e rispetto per gli altri, sempre mirando al bene comune.

- Diritto ai mezzi di santificazione (c. 213). Per poter rispondere alla vocazione ricevuta (c. 210), i cristiani hanno il diritto di ricevere dai Pastori i mezzi di salvezza, la Parola e i sacramenti. L’organizzazione pastorale della Chiesa non è fine a se stessa ma un mezzo per rendere effettivo questo diritto dei fedeli,. Perciò deve adeguarsi ai loro bisogni e possibilità in modo che ne possano usufruire con abbondanza. I ministri non devono assumere criteri pastorali arbitrari che siano di ostacolo a questo diritto dei fedeli.

- Diritto al proprio rito e alla propria spiritualità (c. 214). Sono conseguenza del principio di varietà, ed hanno diverse manifestazioni concrete: diritto o facoltà di scegliere, praticare, conservare o cambiare rito a norma di legge (vedi cc. 111-112); all’assistenza pastorale secondo il proprio rito; la libertà di adottare quella spiritualità o forma di vita cristiana e di apostolato che si ritenga adeguata a sè.

- Diritto di associazione e di riunione (c. 215). Sono proiezioni della natura sociale della persona nella vita della Chiesa, che permettono ai credenti di attuare la loro vocazione in forma comunitaria, cumulando sforzi per promuovere attività e raggiungere scopi compresi nella loro condizione di fedeli. In questi diritti sono inclusi quelli di fondare, dirigere o aderire ad una associazione, ed anche al riconoscimento e tutela dell’autonomia di essa; questi diritti sono sviluppati nei cc. 298-329.

- Diritto di iniziativa (c. 216). Collegato coi precedenti consiste nella libertà di promuovere, sostenere, dirigere o collaborare opere apostoliche (scuole, ospedali, volontariato, ecc.), configurandole secondo i propri statuti, nell’ambito del diritto canonico. Responsabili di queste imprese sono i loro promotori, per cui perché possano chiamarsi ‘cattoliche’ si deve ottenere il consenso dell’autorità, la quale assume allora una speciale competenza nei loro confronti. Non entrano in questo canone le iniziative dello stesso tipo che vengano però promosse e costituite come opere a carattere esclusivamente civile.

- Diritto alla formazione cattolica (c. 217). Ciascun fedele ha la responsabilità di acquisire e migliorare la sua formazione cristiana al fine di compiere più efficacemente la sua vocazione; a questo scopo ha il diritto di accedere ai centri scolastici della Chiesa ed ivi ottenere i relativi titoli di studio (cfr. cap. VIII, d).

- Libertà scientifica (c. 218). È un aspetto concreto della generale libertà di opinione e di espressione (c. 212), che ha come oggetto le questioni opinabili delle scienze sacre, e come soggetti i cultori di tali discipline. Agli studiosi, come a tutti i fedeli, si esige obbedienza agli insegnamenti del magistero, ma in quello che il magistero non ha ancora determinato, il dibattito scientifico è libero, né si possono imporre come certe le teorie o conclusioni particolari di una scuola. Nel contempo la prudenza chiede che tale dibattito scorra nell’alveo a lui proprio (riviste specialistiche, congressi, ecc.) al fine di evitare confusione o scandalo in chi specialista non è. Va quindi distinto il ruolo del magistero e quello dei scienziati; questi non devono pretendere di sostituire i Pastori nella missione loro affidata di esporre autenticamente e con autorità la dottrina di Cristo.

- La libertà nella scelta di stato (c. 219), significa in primo luogo che a nessuno può essere imposto uno stato di vita da lui non scelto liberamente; e neanche gli deve essere impedito di scegliere quello a cui egli si considera chiamato. Ma questo non significa di per sé che egli abbia il diritto di esserne ammesso; per questo deve riunire i requisiti richiesti e in tanti casi ci deve pure essere il consenso di altri (ad es. per ricevere gli ordini o per sposarsi).

- Diritto alla buona fama e all’intimità (c. 220). Sono questi diritti naturali della persona che devono essere riconosciuti anche nella società ecclesiastica. Di essi si possono considerare parte il dovere del segreto (naturale, di ufficio, della confessione, ecc.) e il diritto a difendersi dalle ingiurie e calunnie; l’inviolabilità postale, del domicilio, degli uffici; la presunzione di innocenza; il diritto a scegliere liberamente il confessore e il direttore spirituale e anche quello di confessare i peccati senza dover rivelare la propria identità al confessore (quindi, in un confessionale che serva a tale scopo), ecc.

- Il diritto alla protezione giudiziale (c. 221 § 1), significa che chi si ritiene leso o minacciato nei suoi diritti, si può rivolgere all’autorità giudiziaria cosiché questa, mediante un processo, li dichiari, li determini e li faccia rispettare.

- Diritto ad un giudizio equo (c. 221 § 2). Conseguenza del precedente; chi è parte in un processo deve godere delle garanzie processuali stabilite dalla legge, per questo le leggi processuali non sono dispensabili (c. 87 § 1). Questo diritto implica tra l’altro: che i giudici devono agire con imparzialità ed indipendenza; il diritto di intervenire nel processo personalmente o tramite un difensore; quello di proporre e presentare delle prove e di manifestare tutto ciò che si consideri di aiuto alla propria difesa.

- Il principio di legalità penale (c. 221 § 3) comporta che solo possono considerarsi delitti le azioni previamente descritte come tali da una norma penale, le quali azioni potranno essere punite soltanto con le pene previamente statuite, che saranno inflitte nei singoli casi alle condizioni e seguendo la procedura stabilite dalla legge. Le leggi penali non sono dispensabili (c. 87 § 1).

- Dovere di sostenere economicamente la Chiesa (c. 222). La collaborazione di tutti i fedeli alla missione della Chiesa si estende anche a procurare i mezzi materiali all’uopo necessari. Il canone indica i fini a cui devono servire i beni ecclesiastici (culto, clero, apostolato e carità). I fedeli adempiono questo obbligo normalmente mediante le loro offerte volontarie (c. 1262), ma la Chiesa può anche a certe condizioni stabilire tributi (c. 1263).

Va infine osservato che questi diritti e doveri non sono illimitati né si possono considerare una sorta di tesoro ad uso individualistico, dovendosi il loro esercizio ispirare al conseguimento del bene comune. A tal fine la legge e la giurisprudenza potranno determinare più precisamente la loro portata, limiti e condizioni.

V. Il Popolo di Dio. La sua struttura sociale

1- Il Popolo di Dio

La Chiesa può essere considerata come popolo e come società. Questi due aspetti vengono colti entrambi ma distintamente nei due paragrafi del c. 204. Così come fece in passato con i discendenti di Abramo, il Signore ha voluto costituire il Popolo della Nuova Alleanza per mezzo del battesimo, che incorpora gli uomini a Cristo e li rende "partecipi nel modo loro proprio dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo", quindi "chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo" (c. 204 § 1; cfr LG 9, CCC 758 ss.).

In essa, la fondamentale e uguale dignità e partecipazione che tutti hanno in forza dell’unico battesimo, viene esercitata secondo una diversità di funzioni, carismi e vocazioni che determinano la condizione propria di ciascuno, e il modo in cui cooperare all’edificazione e sviluppo del Regno di Dio. Espressione essenziale delle diverse funzioni che si danno nella Chiesa sono quelle che integrano il ministero gerarchico.

Infatti, questo Popolo dei battezzati che condividono una stessa dignità e missione e al quale sono chiamati tutti gli uomini, non è semplicemente l’insieme dei credenti, una massa scoordinata di convocati, ma è stato costituito da Dio come una "Chiesa, costituita e ordinata nel mondo come società", la quale "sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui" (c. 204 § 2). La "potestà di governo, che esiste nella Chiesa per istituzione divina e si chiama anche potestà di giurisdizione" (c. 129 § 1), risiede nel Papa e nei Vescovi in comunione con lui.

Della Chiesa come società visibile fanno parte a pieno titolo i cattolici, quelli cioè che in essa sono stati battezzati o accolti dopo il battesimo, e che si trovano in piena comunione con essa "mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico" (c. 205). I battezzati non cattolici sono in parziale comunione con la Chiesa nella misura in cui professano la fede cattolica, celebrano gli stessi sacramenti e riconoscono la gerarchia della Chiesa.

I catecumeni sono quelli che "mossi dallo Spirito Santo, chiedono con intenzione esplicita di essere incorporati" alla Chiesa. A questo desiderio la Chiesa viene incontro guidandoli nel cammino verso il battesimo, insegnando loro la dottrina e la vita cristiana e concedendo ad essi "diverse prerogative che sono proprie dei cristiani" (c. 206).

La gerarchia si perpetua attraverso il sacramento dell’ordine, la cui ricezione conferisce all’ordinato una certa partecipazione alla capitalità di Cristo, un’abilità ad esercitare l’autorità che Egli come Capo ha su tutto il Corpo della Chiesa. I laici possono cooperare al ministero gerarchico in quelle funzioni che non richiedono necessariamente l’ordine sacro (cf. c. 129 § 2).

La gerarchia è quindi costituita dall’insieme di fedeli che avendo ricevuto il sacramento dell’ordine si ricollegano al ministero degli Apostoli e quindi di Cristo come Capo della Chiesa: sono i ministri sacri o chierici. Gli altri fedeli sono i laici. Si ha dunque nella Chiesa, per istituzione divina, la distinzione tra i membri della gerarchia e gli altri fedeli, cioè tra chierici e laici (c. 207 § 1). Una distinzione che è funzionale in quanto assegna a certi fedeli il governo pastorale della società ecclesiale, un ruolo che implica in essi una condizione e un modo proprio di compiere la loro vocazione cristiana e di partecipare alla missione della Chiesa.

Al di là di questa distinzione strutturale, esiste un terzo ceto di fedeli che sono quelli che abbracciano lo stato di vita consacrata, chierici o laici che siano. La loro vita è caratterizzata da una speciale consacrazione a Dio "per la professione dei consigli evangelici mediante voti o altri vincoli sacri, riconosciuti e sanciti dalla Chiesa" (c. 207 § 1). Lo stato di vita consacrata appartiene alla vita e alla santità della Chiesa, alla cui missione salvifica contribuisce grandemente (LG 44). Non appartiene invece alla sua struttura gerarchica, il che vuol dire che ai consacrati non vengono assegnati, per tale fatto, ruoli di governo pastorale nella Chiesa (c. 207 § 2).

Laici, chierici e consacrati sono le tre principali condizioni specifiche che un fedele può avere, che determinano un modo di vivere e attuare la comune vocazione cristiana e anche i diritti e doveri fondamentali; si ha quindi uno statuto giuridico specifico per ciascun tipo di fedeli: chierici, consacrati e laici; tenendo conto però di due cose:

- che entro ciascuno di questi ceti si possono trovare a sua volta situazioni diverse: si pensi ad esempio al fatto che alcuni religiosi sono al contempo chierici; o che ci sono laici sposati e non; o anche che i diaconi permanenti partecipano in parte dello statuto dei chierici e in parte di quello dei laici.

- che lo stato clericale e quello dei consacrati sono stati ecclesiastici, modi di vita sorti da specifici vincoli assunti nella Chiesa, regolati dal diritto canonico con molto dettgalio, che perfino hanno certi riflessi anche nell’ordine civile (lavoro, servizio militare, giurie popolari, sostentamento, ecc.); mentre la vita dei laici si svolge per lo più nell’ambito della società civile, quindi il diritto canonico incide su di loro con minore ampiezza ed intensità.

2- I fedeli laici

Quanto abbiamo appena detto spiega anche il fatto che non ci sia nel Codice una definizione dei laici. Nel c. 207 § 1 si dice soltanto che i laici sono i fedeli che non sono chierici; e nel § 2 dello stesso canone si spiega che sia i chierici che i laici possono assumere la vita consacrata.

In diversa prospettiva si colloca la Costituzione Lumen gentium del Vaticano II quando al n. 31 esordisce: "col nome di laici si intendono qui tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso riconosciuto dalla Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti Popolo di Dio, e nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano". Quindi in questa prospettiva i laici sono i fedeli che non sono chierici né religiosi.

Inoltre la Lumen gentium è più esplicita poiché fa immediatamente riferimento a quella che è la nota specifica dei laici, la secolarità: "il carattere secolare è proprio e particolare dei laici", nel senso che il loro essere nel mondo acquista un significato vocazionale (chiamata e missione): "per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio".

Abbiamo quindi le coordinate della condizione laicale: battesimo e secolarità. Il laico è il fedele chiamato ad attuare la partecipazione al sacerdozio di Cristo ricevuta col battesimo, proprio nelle realtà della vita secolare. Come cittadino egli è chiamato ad occuparsi degli affari della città terrena, come cristiano e chiamato a farlo "sotto la guida dello spirito evangelico".

Non deve perciò meravigliare che le norme del Codice sui laici siano sempre poche rispetto a quelle sui chierici e sui religiosi, poiché la loro vocazione non è di occuparsi degli affari ecclesiastici ma di quelli secolari, e questi sono retti dal diritto civile. Per questo ammonisce ancora il Concilio: "imparino i fedeli a distinguere accuratamente fra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto sono aggregati alla Chiesa, e quelli che loro competono in quanto membri della società umana" (LG 36). Il che non significa che abbiano a condurre una doppia vita; al contrario sono chiamati ad armonizzare -senza confonderli- l’ordine spirituale e quello temporale "ricordandosi che in ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana" (ivi).

Il diritto canonico incide nella vita dei laici a motivo della loro condizione di fedeli che -come tutti- devono serbare la comunione nella fede, nel culto e nella disciplina della Chiesa. A loro spettano dunque, in primo luogo, gli stessi diritti e doveri "che sono comuni a tutti i fedeli" (c. 224). I canoni che poi si riferiscono a loro in maniera particolare, hanno il senso non di aggiungere nuovi diritti e doveri, ma piuttosto di indicare il modo specifico in cui i laici, a motivo della loro secolarità, sono chiamati a vivere la vocazione cristiana nella Chiesa e nel mondo.

Principali obblighi e diritti dei laici

I principali diritti e doveri specifici dei laici vengono elencati nei (cc. 224-231), ma si deve tenere conto che questi si proiettano poi nei diversi campi del diritto canonico.

Diritto e dovere all’apostolato. A conferma di quanto detto sopra, il c. 225 premette che si tratta di un impegno comune a tutti i fedeli, poiché scaturisce dal battesimo (vedi c. 211); ma esso nel caso dei laici acquista particolari riflessi sul mondo delle realtà secolari, che a loro spetta come compito proprio di animare e perfezionare con lo spirito del Vangelo (CCC 898-900).

Diritti e doveri dei coniugi e dei genitori (c. 226). Come per la società civile, la famiglia è cellula della società ecclesiale (Chiesa domestica); gli sposi e i genitori cristiani trovano proprio nel matrimonio e nella vita familiare, la prima realtà che sono chiamati a santificare aiutati dalla grazia del sacramento. Per diritto naturale i genitori sono i primi educatori dei loro figli; un ruolo che per i genitori cristiani ha anche un senso sacramentale, specie nell’educazione cristiana dei figli.

Diritto alla libertà negli affari terreni (c. 227). La santificazione delle realtà temporali, che è la missione ecclesiale propria dei laici, non significa che il governo di tali realtà spetti alla Chiesa. Al contrario richiede il rispetto della loro autonomia, delle loro leggi e valori propri. Perciò i fedeli hanno il diritto di gestire in libertà i loro affari terreni (politici, di lavoro, familiari), guidati dalla loro retta coscienza cristiana.

In queste materie il fedele deve godere della stessa autonomia degli altri cittadini: né lo Stato lo può discriminare per il fatto di essere cristiano, né nessuno nella Chiesa può pretendere di costituirsi rappresentante o leader dei cittadini cattolici nelle scelte che riguardano la vita civile. Il fedele ha però il dovere di compiere tali scelte in coerenza con i principi e le indicazioni di ordine morale proposti dal magistero ecclesiastico, entro le quali c’è spazio per una grande varietà di soluzioni e progetti diversi.

Di conseguenza ciascun fedele agisce nella vita secolare di propria iniziativa e assumendosi la propria responsabilità, senza coinvolgere la Chiesa nelle sue opzioni temporali, né pretendere di presentare le proprie opinioni come se fossero dottrina della Chiesa.

Partecipazione dei laici nell’organizzazione ecclesiastica (c. 228). Non si tratta di un preciso diritto, ma di ribadire la capacità dei laici a ricoprire certi incarichi nella Chiesa se sono chiamati dai Pastori o dal diritto (catechista, giudice, economo, consigliere; cfr CCC 910-911). Li vedremo più specificamente nel trattare le diverse materie; va però ricordato che sono esclusi quelli uffici e cariche il cui esercizio richiede il sacramento dell’ordine (cc. 129 e 150).

Diritto-dovere alla formazione dottrinale (c. 229). I laici, come tutti i fedeli (c. 217), hanno il dovere, e quindi il diritto, di acquisire una formazione adeguata alle proprie circostanze, che li metta in grado di sviluppare la propria missione nella Chiesa e nel mondo.

In questo caso si specifica che tale diritto include la possibilità di approfondire la dottrina anche a livello universitario e di ottenere i relativi gradi accademici (§ 2), che li rendono capaci di insegnare le scienze sacre con mandato dell’autorità (§ 3).

Capacità di assolvere certi ministeri e funzioni di culto (c. 230). Tutti i fedeli sono chiamati a partecipare attivamente al culto di Dio, ciascuno secondo la sua situazione nella Chiesa (c. 835). Qui si tratta di alcune funzioni e ministeri liturgici che i laici hanno la capacità di assumere in forza del sacerdozio comune ricevuto col battesimo.

I ministeri stabili di lettore e di accolito sono riservati ai laici di sesso maschile, alle condizioni stabilite dalla Conferenza episcopale e senza che la loro ricezione dia alcun diritto a compensi economici (§ 1).

Qualsiasi laico (uomo o donna) può svolgere per incarico temporaneo le funzioni di lettore, accolito, cantore, commentatore, ed altre previste dal diritto (§ 2).

Ci sono infine incarichi liturgici che i laici possono assolvere in casi di necessità per sopperire alla mancanza di chierici (c. 230 § 3; per l’assistenza ai matrimoni, vedi c. 1112).

In ogni caso tutte queste possibilità che abbiamo esaminato non costituiscono funzioni proprie dei laici che essi possono assumere di propria iniziativa; sono compiti che essi hanno la capacità di svolgere, se sono chiamati dall’autorità o dal diritto e per i quali essi devono, inoltre, avere la preparazione adeguata. Spetta al Vescovo diocesano ordinare questa materia nella sua diocesi.

Laici dediti al servizio della Chiesa (c. 231). Si riferisce questo canone ai laici che svolgono un lavoro, a tempo pieno o parziale, in servizio delle istituzioni ecclesiastiche (insegnanti, funzionari, medici, dirigenti di associazioni, ecc.). Da una parte a questi si esige di acquisire la preparazione richiesta; dall’altra viene loro riconosciuto il diritto ad una congrua remunerazione che tenga conto della loro situazione personale e familiare, nonché il diritto alle assicurazioni previdenziali occorrenti (di malattia, vecchiaia, ecc.). E ciò nel rispetto delle leggi civili in merito.

3- Statuto personale dei ministri sacri

La ricezione del sacramento dell’ordine ed i ruoli che esso determina nella Chiesa, incidono fortemente nella vita personale di coloro che lo ricevono (i ministri sacri o chierici) anche a livello giuridico.

Infatti, l’ordine sacro è un sacramento di servizio che, nei suoi diversi gradi implica:

- una speciale partecipazione al sacerdozio di Cristo, essenzialmente diversa dal sacerdozio comune dei fedeli;

- una peculiare consacrazione e destinazione al culto divino e al servizio pastorale dei fratelli;

- la partecipazione dei chierici alla sacra potestà, integrandoli nella gerarchia ecclesiastica, che esiste nella Chiesa per volontà divina (cc. 129 § 1 e 207 § 1).

La dignità della loro vocazione e missione comporta che i chierici, chiamati ad occuparsi degli affari ecclesiastici (negotia ecclesiastica), devono condurre un particolare tipo di vita che, pur non allontanandoli dal mondo, limita in buona misura le loro possibilità di occuparsi degli affari secolari (negotia saecularia), ai quali invece sono chiamati i laici.

Nella Chiesa tutti (specie i pastori) devono essere consapevoli dell’importanza del ministero sacro, promuovere e sostenere le vocazioni ad esso (c. 233).

a) La formazione dei chierici

In primo luogo il ministero sacro richiede una specifica formazione dei candidati, atta anche a verificare e a far maturare la loro vocazione. Nel c. 232 si conferma che il dovere e il diritto di scegliere e formare i candidati ai ministeri sacri spetta alla Chiesa. È un aspetto importante della libertà della Chiesa, nel quale nessun’altra autorità deve interferire.

La preparazione dei candidati al sacerdozio avviene per lo più presso il seminario maggiore, dove devono dimorare lungo tutta la durata della formazione (di regola sei anni), o almeno per quattro anni a giudizio del Vescovo diocesano.

Quella invece dei candidati al diaconato permanente comprende un piano di formazione triennale, preparato dalla Conferenza episcopale, che i più giovani devono seguire "in una casa specifica" (c. 236).

In ogni diocesi, se possibile, deve essere eretto dal Vescovo un seminario maggiore; altrimenti si possono avere anche seminari interdiocesani costituiti per varie diocesi dai rispettivi Vescovi, o anche dalla Conferenza episcopale se è per tutto il territorio della nazione. L’erezione di un seminario interdiocesano così come i relativi statuti devono avere l’approvazione della Santa Sede (c. 237).

Il Vescovo diocesano deve seguire con cura l’andamento del seminario e della formazione dei seminaristi nei diversi aspetti. A lui spetta l’alta direzione dello stesso, nominare sia il rettore che le altre cariche, approvare gli statuti e il regolamento, e provvedere alle sue necessità economiche, per le quali può imporre uno speciale tributo in diocesi (cc. 259, 263-264).

Il seminario, una volta eretto, gode di personalità giuridica pubblica rappresentata ordinariamente dal rettore (c. 238), il quale lo dirige sotto la guida del Vescovo diocesano e secondo gli statuti da lui approvati. Inoltre, il seminario è esente dalla giurisdizione parrocchiale per cui il rettore funge anche da parroco per tutti coloro che abitano in seminario (c. 262).

Oltre al rettore, ci deve essere l’economo e, almeno, un direttore spirituale. Possono esserci anche qualche vice-rettore, altri moderatori o formatori e i docenti se gli alunni compiono studi nel proprio seminario. Tutti, sotto la guida del rettore, collaborano alla formazione dei candidati. Ci sono poi i confessori ordinari e straordinari che ricevono nel seminario le confessioni degli alunni.

Per tutelare la libertà degli alunni gli si deve dare la possibilità di seguire la direzione spirituale di altri sacerdoti designati dal Vescovo, e di rivolgersi a qualsiasi confessore, sia all’interno sia all’esterno del seminario. I confessori e il direttore spirituale sono tenuti al sigillo, quindi non sono autorizzati a dare mai il loro parere circa l’ammissione agli ordini di un candidato (cc. 239-240). Da parte sua il rettore, poiché è tenuto a fornire questo parere, non deve ascoltare le confessioni degli alunni, salvo nei casi particolari in cui essi lo chiedano spontaneamente (c. 985).

La formazione che si impartisce in seminario segue il Programma di formazione sacerdotale (Ratio institutionis sacerdotalis) emanato dalla Conferenza episcopale, sulla base delle norme date in merito dalla suprema autorità della Chiesa, e approvato dalla Santa Sede (c. 242). Ogni seminario ha poi il proprio regolamento approvato dal Vescovo diocesano (c. 243).

La formazione ha come scopo di rendere idonei i candidati agli impegni di vita sacerdotale e al ministero pastorale, attraverso la vita di unione con Cristo e la preparazione dottrinale e umana (cc. 244-258). Il che comprende: l’esercizio delle virtù naturali e soprannaturali, la devozione (specie all’Eucaristia e alla Madonna), la preghiera liturgica e personale, l’amore per la Chiesa e i suoi pastori, lo zelo per le anime, lo studio delle scienze sacre e profane, ecc. I seminaristi devono compiere anche gli studi civili che abilitano all’ingresso nelle università (c. 234 § 2).

I membri degli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica che siano candidati agli ordini devono ricevere, nel loro istituto, la stessa formazione dei seminari.

b) L’incardinazione dei chierici

Ogni chierico dev’essere ascritto a quella comunità per il cui servizio viene ordinato; questo rapporto di ascrizione si chiama incardinazione. La comunità può essere una struttura gerarchica (Chiesa particolare o prelatura personale) se si tratta di chierici secolari; oppure un istituto di vita consacrata o una società che abbiano la facoltà di incardinare i propri chierici (c. 265).

L’incardinazione è un istituto di lunga tradizione, tramite il quale si determina un concreto rapporto pastorale, di servizio e disciplinare, tra il chierico e la Chiesa. Infatti, benché l’ordine sacro (come tutti i sacramenti) abbia un’essenziale proiezione universale, tale destinazione si deve concretare nel servizio pastorale stabile ad una determinata comunità. Nessuno ha nella Chiesa il diritto di essere ordinato per soli motivi personali; ci dev’essere una ragione di servizio. Non sono pertanto ammessi i chierici acefali o girovaghi, cioè ordinati senza rimanere ascritti a nessuna entità e quindi senza superiore.

Difatti per essere ordinato bisogna essere chiamato agli ordini dal Vescovo diocesano o dal Prelato della prelatura personale al cui servizio è stato ammesso, o dal Superiore dell’istituto o società dei quali si è membro. Con l’ordinazione diaconale il fedele diventa chierico e viene incardinato (c. 266).

L’incardinazione non è però un vincolo inamovibile. Esiste la possibilità di ottenere l’escardinazione da una Chiesa particolare, ma simultaneamente deve avvenire l’incardinazione in un’altra. Il che può avvenire in diversi modi (con il consenso scritto dei due Vescovi, o per dimora legittima di cinque anni nella nuova diocesi senza opposizione dei Vescovi). Anche l’ammissione definitiva di un chierico in un istituto di vita consacrata o società di vita apostolica determina l’escardinazione dalla diocesi e l’incardinazione nell’istituto o società (cc. 267-269).

D’altronde, per favorire la mobilità del clero in modo da venire incontro a situazioni di scarsità in certi luoghi, il c. 271 prevede che un chierico possa trasferirsi temporaneamente in un’altra Chiesa particolare rimanendo tuttavia incardinato nella propria. Questo trasferimento deve avvenire mediante accordo scritto tra i Vescovi di entrambe le Chiese particolari.

c) Diritti e doveri dei chierici

Come abbiamo visto la condizione clericale implica funzioni, rapporti e vincoli specifici, che necessariamente incidono con profondità nello stile personale di vita dei ministri sacri, determinando particolari diritti e doveri o modificando quelli che sono comuni a tutti i fedeli. Ai cc. 273-289 se ne prevedono i principali.

Giova premettere che con essi si definiscono lo statuto personale dei chierici; ma ogni chierico avrà anche quei diritti, obblighi e facoltà determinati dal concreto incarico che esercita (Vescovo diocesano, parroco, canonico, cappellano, professore, ecc.). Particolare importanza ha la condizione di pastore, termine spesso usato nei canoni per riferirsi a quei chierici che hanno un preciso incarico di cura d’anime, ovvero coloro alla cui cura pastorale è affidata una determinata comunità di fedeli (diocesi, parrocchia, associazione, convento, ecc.).

Obbedienza alla gerarchia (c. 273). Come tutti i fedeli, anche i ministri sacri devono obbedire ai pastori della Chiesa; ma per loro tale dovere comporta un obbligo speciale nei confronti del Sommo Pontefice e del proprio Ordinario anche in ciò che riguarda l’esercizio del loro ministero.

Disponibilità e fedeltà nel ministero (c. 274). L’ordine sacro è sacramento che consacra e destina il chierico al servizio della Chiesa; egli è quindi tenuto ad accettare e compiere fedelmente gli incarichi ricevuti dal proprio Ordinario.

Fraternità e collaborazione (c. 275). Il dovere di contribuire all’edificazione di tutta la Chiesa incombe in modo speciale ai chierici, vivendo la fraternità e la collaborazione tra di loro e con i laici.

Santità di vita (c. 276). Tutti i fedeli sono chiamati alla santità, ma la peculiare consacrazione e missione dei chierici li impegna in modo speciale a cercarla, con la vita di pietà e attraverso l’adempimento generoso del ministero pastorale.

Castità e celibato (c. 277). Il ministero sacro esige anche l’intera libertà di cuore e di dedicazione al Regno di Dio. Perciò i chierici devono osservare continenza perfetta e rimanere celibi. Pertanto devono evitare con prudenza e fortezza le situazioni in cui la loro continenza sia messa in pericolo o che possano suscitare scandalo nei fedeli, seguendo anche le disposizioni date dal Vescovo diocesano in materia. Logicamente i diaconi sposati devono vivere la castità nel matrimonio.

Diritto di associazione (278). Come tutti i fedeli anche i chierici hanno il diritto di costituire e partecipare ad associazioni che abbiano finalità congruenti con il loro stato e siano compatibili con il loro ministero. In particolare gli sono raccomandate quelle associazioni approvate dall’autorità che favoriscano la vita di pietà e la fraternità sacerdotale.

La formazione permanente (c. 279). Migliorare e accrescere la propria formazione è per i ministri sacri anche un dovere, per così dire, professionale; per rendersi sempre più utili nel servizio pastorale. Il diritto particolare dovrà stabilire un piano di formazione permanente del clero.

La vita comune (c. 280). Lo stato clericale non esige, come quello religioso, la vita comune, ma questa viene vivamente raccomandata anche ai chierici per il sostegno di fraternità che in essa troverebbero. D’altronde la convivenza sacerdotale può essere favorita e attuata in molti modi (raduni, convegni, ritiri).

Diritto al sostentamento (c. 281). La loro dedizione al ministero ecclesiastico dà ai chierici il diritto ad una congrua remunerazione che gli consenta di provvedere ai propri bisogni e a quelli delle persone al loro servizio. In questo diritto è inclusa un’adeguata previdenza sociale.

Per la remunerazione dei diaconi coniugati si deve tener conto della loro dedicazione ad incarichi di Chiesa, dei loro bisogni familiari e dei redditi che possono avere per la loro professione civile.

Distacco dai beni terreni (c. 282). Nella vita sociale i chierici devono essere esemplari per la semplicità e il distacco dai beni; ciò non significa che facciano voto di povertà come i religiosi, ma sono incoraggiati a contribuire secondo le loro possibilità ai bisogni della Chiesa.

Dovere di residenza e diritto alle ferie (c. 283). Ci sono uffici che comportano il particolare dovere di risiedere nel luogo ove si svolgono; quindi la disponibilità a cui tutti i chierici sono tenuti esige che essi non si assentino a lungo dalla diocesi senza licenza (vid. c. 1396). Hanno però diritto al tempo di ferie stabilito dalle norme generali o particolari.

L’abito clericale (c. 284). I chierici hanno un ministero pubblico da compiere e sono per vocazione al servizio di tutti, ed è quindi logico che la loro condizione e dignità possa essere da tutti riconosciuta affinché venga rispettata: perciò sono tenuti a vestire l’abito clericale stabilito dalla Conferenza episcopale e secondo le consuetudini locali. I diaconi permanenti, che pur essendo ontologicamente ministri sacri conservano in parte la loro condizione secolare, non sono tenuti a quest’obbligo (c. 288).

Astensione da impegni, cariche e attività secolari (cc. 285-289). La disponibilità e distacco che si chiede ai chierici, e il fatto che si occupano degli affari ecclesiastici, consiglia che, di regola, essi evitino tutto ciò che è improprio del loro stato (mondanità, servizio armato, giurie popolari); e che non assumano, senza permesso, impegni e cariche di natura secolare (economiche, professionali, politiche, sindacali) che possano coinvolgere la Chiesa, li distolgano dalla loro missione o comunque diano luogo a confusione tra il ministero sacro e le attività secolari (vid. c. 1392).

I diaconi permanenti non sono tenuti a questi limiti di partecipazione civile, poiché in queste materie si atteggiano come laici. Comunque ogniqualvolta un chierico legittimamente si occupa di affari secolari, deve rimanere chiaro che lo fa a titolo personale.

d) Perdita dello stato clericale

Il sacramento dell’ordine imprime un carattere indelebile e quindi non si perde o annulla mai; si può invece perdere lo stato clericale, cioè gli obblighi e i diritti tipici dei chierici.

La perdita dello stato clericale può avvenire: a) per sentenza o decreto in cui si dichiara che l’ordinazione fu invalida (cfr. cap. XII, 7); b) per la pena della dimissione dello stato clericale (cfr. cap. XI); c) per rescritto di dispensa concesso dalla Sede Apostolica per cause veramente gravi (c. 290). Parimenti soltanto la Sede Apostolica può ammettere di nuovo allo stato clericale chi lo avesse perso (c. 293).

Tuttavia la perdita dello stato di chierico per pena o per dispensa (casi b e c di sopra), non comporta la dispensa dal celibato la quale viene concessa unicamente dal Romano Pontefice (c. 291).

Oltre alla perdita dei diritti e doveri dei chierici, l’uscita dallo stato clericale comporta la proibizione di esercitare l’ordine ricevuto (celebrare i riti) e la perdita degli uffici e incarichi avuti in precedenza (c. 292).

4- Associazioni di fedeli

Proprio della natura dell’uomo è unirsi liberamente ad altri per adunare e coordinare i propri sforzi nel raggiungimento di interessi comuni. La Chiesa riconosce quindi ai fedeli il diritto di costituire, dirigere e partecipare ad associazioni, per promuovere insieme attività e finalità confacenti alla missione della Chiesa, come sono quelle elencate al c. 298 § 1.

È quindi logico che trovino spazio nei canoni le associazioni di fedeli che siano il risultato dell’esercizio di tale diritto. In questa epigrafe però non si tratta degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica, realtà associative di singolare importanza in quanto i loro membri assumono un particolare stato di vita riconosciuto dalla Chiesa.

Un’associazione è un ente tramite il quale un gruppo di fedeli si accorda per compiere stabilmente e ordinatamente attività e per raggiungere scopi comuni che di per sè trascendono le possibilità del singolo.

Vari sono dunque gli elementi caratteristici della realtà associativa:

a) La volontarietà. Un’associazione esiste sempre in pratica come frutto della libertà di coloro che decidono di parteciparne. I vincoli che ne risultano hanno origine nell’impegno volontariamente assunto.

b) Stabilità e ordine. Le attività e i fini di un’associazione esigono la cooperazione ordinata di tutti e hanno portata e durata che superano le possibilità dei singoli membri. Come conseguenza ogni associazione deve avere i propri statuti che la definiscano come soggetto a sé stante: nome, ragione sociale, finalità, modi di azione e di partecipazione, governo, disciplina, beni, ecc. (c. 304).

c) Ecclesialità. Secondo quanto abbiamo visto, un’associazione canonica, come ente collettivo è soggetto di diritti e doveri; tra questi il primo è quello della comunione ecclesiastica; il che significa che il suo progetto, le sue attività, insomma la sua vita, devono essere integrati nella comunione ecclesiastica. Come conseguenza le associazioni, come i singoli fedeli, sono sottoposte all’autorità ecclesiastica, alla quale spetta:

1- Emanare le norme necessarie (come sono le norme di cui ci stiamo occupando) per regolare l’esercizio del diritto di associazione nella Chiesa, norme alle quali si devono adeguare le singole associazioni.

2- Giudicare sull’ecclesialità di ogni nuova associazione, di modo che non venga riconosciuta nella Chiesa un’associazione se i suoi statuti non sono stati sottoposti all’esame dell’autorità competente (c. 299 § 3).

3- Vigilare perché nelle associazioni sia conservata l’integrità della dottrina cattolica e venga rispettata la disciplina della Chiesa. In particolare questo compito spetta alla Santa Sede per tutte le associazioni, e all’Ordinario del luogo per le associazioni diocesane e per le altre in quanto agiscono nella sua diocesi (c. 305).

L’autorità deve da parte sua rispettare la legittima autonomia delle associazioni, in quanto espressione dell’iniziativa e libertà dei fedeli che ne fanno parte.

Membri o soci di un’associazione sono coloro che di propria iniziativa la promuovono e quelli che, manifestando il loro desiderio di aderirvi, vengono ammessi a norma degli statuti (c. 307). C’è quindi sempre un atto di volontà con il quale si entra a far parte di un’associazione e si acquistano i diritti e i doveri specifici in essa.

a) Tipi di associazioni

Le associazioni si distinguono secondo diversi criteri, il più rilevante dal punto di vista giuridico è quello che li distingue in pubbliche e private. Entro queste individuamo poi altri tipi, ad esempio:

- Le associazioni clericali. Sono quelle riconosciute come tali dall’autorità in quanto sono dirette da chierici e hanno come scopo favorire l’esercizio dell’ordine sacro (c. 302).

- Le associazioni di laici. Sono quelle che intendono formare e sostenere i laici nella loro missione propria di animare le realtà temporali con lo spirito cristiano (cc. 327-329).

- I terzi ordini. Sono le associazioni promosse e dirette da un’istituto religioso, al fine di far partecipare i laici al carisma proprio dell’istituto, adattandolo alle circostanze della loro vita secolare (c. 303).

- Secondo poi l’ambito nel quale estendono la loro attività, le associazioni possono essere diocesane, nazionali, internazionali o universali (cc. 312 e 322).

b) Le associazioni pubbliche

Sono quelle erette dall’autorità ecclesiastica per agire a nome della Chiesa nel perseguimento dei fini assegnati loro dalla stessa autorità (cc. 301 e 313). Sono quindi associazioni delle quali la gerarchia si serve come strumento per il compimento della sua missione.

Ci sono, infatti, attività e fini che rientrano nelle mansioni proprie ed esclusive della gerarchia della Chiesa, come sono l’insegnamento della dottrina cristiana a nome della Chiesa o il culto pubblico. In certi casi l’autorità può erigere un’associazione assegnandole alcune di queste attività (c. 301 § 1). Ma può anche darsi che certe necessità apostoliche o di carità che potrebbero essere compiute dai privati non siano coperte in modo soddisfacente da essi; anche in questi casi l’autorità ecclesiastica può supplire la mancanza di iniziativa privata erigendo associazioni per tali finalità (c. 301 § 2).

L’autorità competente ad erigere un’associazione pubblica è:

1) La Santa Sede per le associazioni internazionali o universali.

2) La Conferenza episcopale per quelle nazionali.

3) Il Vescovo diocesano per le associazioni diocesane (c. 312).

Per il fatto stesso dell’erezione, un’associazione pubblica diventa persona giuridica pubblica nel diritto canonico.

Poiché agiscono a nome della Chiesa, e quindi la coinvolgono nel loro operato, le associazioni pubbliche sottostanno al controllo e alla guida dell’autorità ecclesiastica che le ha costituite, alla quale spetta la "superiore direzione" di esse (c. 315). Concretamente all’autorità che erige un’associazione pubblica compete:

a) approvarne gli statuti e le successive modifiche o cambiamenti di essi (c. 314);

b) intervenire nella nomina e rimozione del presidente e del cappellano (cc. 317 e 318 § 2);

c) decidere il commissariamento dell’associazione quando le circostanze lo richiedano (c. 318 § 1);

d) controllare l’attività economica dell’associazione (c. 319);

e) sopprimerla a norma del c. 320;

f) decidere i ricorsi contro gli atti dei dirigenti dell’associazione (c. 316 § 2).

Ciò non significa che queste associazioni non abbiano una loro autonomia definita negli statuti che deba essere rispettata dall’autorità (c. 315 e 319 § 1). Non si deve dimenticare che, benché una associazione pubblica sia costituita dall’autorità ecclesiastica, essa è anche costituita dai fedeli che liberamente decidono di aderirvi, senza i quali non potrebbe esistere.

c) Le associazioni private di fedeli

Sono quelle costituite dai fedeli per accordo privato tra di loro, al fine di promuovere attività e opere che rientrino nella loro vocazione e missione ecclesiale (c. 299).

Logicamente queste associazioni che nascono per iniziativa dei fedeli, sono rette da loro e rimangono sotto la loro responsabilità; sono autonome nella loro organizzazione interna, non agiscono a nome della Chiesa e coinvolgono soltanto coloro che ne fanno parte (c. 321 e 309).

Tuttavia come ogni realtà che opera nella società ecclesiale, un’associazione privata è sottoposta all’autorità ecclesiastica competente.

Come per le associazioni pubbliche, l’autorità competente alla quale è sottoposta una associazione privata è: la Sede Apostolica se si tratta di una associazione universale o internazionale; la Conferenza episcopale se è nazionale; ed il Vescovo diocesano se è una associazione diocesana.

All’autorità competente spetta:

- giudicare sull’ecclesialità dell’associazione; perché possa essere riconosciuta nella Chiesa ogni associazione deve presentare i suoi statuti al nulla osta dell’autorità competente (c. 299 § 3);

- vigilare sulla vita e l’attività dell’associazione al fine di tutelarne la dottrina e la disciplina ecclesiastica e per coordinarne l’apostolato (cc. 305 § 1 e 323 § 2). Questa vigilanza spetta anche alla Santa Sede per tutte le associazioni, e all’Ordinario del luogo per quelle associazioni che operano nella sua diocesi (c. 305 § 2).

- vigilare perché i beni dell’associazione siano usati per le finalità di essa. Infatti, benché i beni delle associazioni private non siano beni ecclesiastici (cfr. cap. X, a), la loro destinazione a finalità ecclesiali deve essere rispettata (c. 325).

A differenza delle pubbliche, non tutte le associazioni private hanno personalità giuridica. La possono acquistare mediante decreto dell’autorità competente; a tale fine i loro statuti devono essere stati approvati dalla medesima autorità (c. 322). Per le associazioni senza personalità i soci agiscono in solido o tramite un mandatario o procuratore (c. 310).

Le associazioni private si estinguono a norma degli statuti, ma possono anche essere soppresse dall’autorità se ci sono gravi ragioni. I loro beni saranno destinati alle finalità previste negli statuti (c. 326).

VI. Il popolo di Dio. la sua struttura gerarchica (Governo e Organizzazione della Chiesa)

1- Concetti di organizzazione ecclesiastica

Abbiamo visto che il governo della Chiesa spetta alla gerarchia. Ma non tutto il governo spetta ad ogni membro della gerarchia, in quanto le diverse mansioni che lo integrano sono distribuite tra i membri di essa attraverso un’organizzazione stabile ed ordinata delle funzioni pubbliche. L’insieme di enti, organi e persone che esercitano le funzioni pubbliche costituiscono l’organizzazione ecclesiastica. Dal punto di vista giuridico questa struttura organizzativa ha come scopo mantenere l’unità e identità della compagine sociale e guidarla ordinatamente nell’adempimento della missione ricevuta. Rappresentare insomma il Capo nel Corpo.

Il sacramento dell’ordine determina dal punto di vista personale quali fedeli sono chiamati ed abilitati ad esercitare funzioni pubbliche; l’organizzazione ecclesiastica determina le concrete funzioni che spettano a ciascuno di essi a seconda della carica che gli venga affidata. Questo ci porta a studiare alcuni concetti elementari.

Il primo è la distinzione tra potestà e competenza. La potestà è la capacità generica ad esercitare un certo tipo di funzioni pubbliche, mentre competenza è la delimitazione concreta di tali funzioni (in un determinato territorio, su queste persone o comunità, su certe materie, ecc.).

L’ufficio ecclesiastico

Legato a questi è il concetto di ufficio ecclesiastico, definito nel c. 145 § 1 come "qualunque incarico, costituito stabilmente per disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale": cioè come una carica ecclesiastica stabile (Papa, vescovo diocesano, rettore di seminario, consultore, cappellano...).

Ogni ufficio ha un insieme di diritti e doveri annessi (mansioni, competenze) propri e definiti, che si possono considerare indipendenti dalla persona che in un certo momento lo esercita, cioè dal titolare della carica; i diritti e doveri del parroco sono indipendenti del fatto che venga nominato parroco questo o quel sacerdote. Le persone cambiano ma gli uffici rimangono come unità organizzative stabili.

L’ufficio o carica ecclesiastica è l’elemento basilare dell’organizzazione ecclesiastica, della quale rappresenta come una tessera in un mosaico. L’organizzazione della Chiesa può in un certo senso essere definita come l’insieme ordinato degli uffici ecclesiastici, ed ancora, dinamicamente, come il funzionamento ordinato degli stessi uffici mediante l’esercizio delle loro rispettive competenze.

Ogni ufficio, secondo la natura delle funzioni pubbliche ad esso attribuite, richiede determinate qualità o requisiti nel soggetto cui viene affidato (c. 149). Importante sotto questo profilo è il c. 150 il quale stabilisce che "l’ufficio che comporta la piena cura delle anime, ad adempiere la quale si richiede l’esercizio dell’ordine sacerdotale, non può essere conferito validamente a colui che non è ancora stato ordinato sacerdote". Il che vuole dire che Pastori in senso pieno possono essere solo i vescovi e i presbiteri, non i laici o i diaconi.

Il conferimento degli uffici, l’assegnazione cioè ad una determinata persona, si chiama provvista canonica, la quale avviene in diversi modi, elencati nel c. 147 e che possiamo così riassumere:

- Libero conferimento da parte dell’autorità, che significa che è l’autorità competente a scegliere liberamente la persona che svolgerà l’ufficio (c. 157).

- Presentazione di uno o più candidati all’autorità, fatta da chi ne ha il diritto. Se l’autorità accetta il candidato, scegliendone uno se fossero vari, lo istiutirà titolare dell’ufficio (cc. 158-163). Per la nomina di alcuni vescovi sono soggetti titolari del diritto di presentazione: autorità civili, capitolo cattedrale, vescovi delle diocesi vicine; al Romano Pontefice ne compete sempre l’istituzione.

- L’elezione è una forma molto frequente di provvista canonica, nella quale un gruppo o collegio sceglie per votazione tra vari candidati. Un tipo speciale di elezione è il compromesso: quando "gli elettori, con consenso unanime e scritto, trasferiscano per quella volta il diritto di eleggere ad una o più persone", perché siano queste a eleggere a nome di tutti (c. 174 § 1). Perché sia efficace un’elezione, l’eletto deve accettarla, ma di regola si richiede anche la conferma dell’elezione da parte dell’autorità competente. Le elezioni sono genericamente regolate nei cc. 164-179, ma poi ciascuna può avere norme particolari, come quella del Romano Pontefice.

- La postulazione è anche un tipo speciale di elezione che si da quando gli elettori desiderano eleggere un certo candidato malgrado ci sia un impedimento; allora possono postularlo, cioè votarlo insieme alla richiesta della dispensa dal impedimento che ostacola l’efficacia dell’elezione (cc. 180-183).

La perdita dell’ufficio ecclesiastico avviene:

- per lo scadere del tempo stabilito nella nomina;

- per i raggiunti limiti di età stabiliti dal diritto;

- per rinuncia fatta per giusta causa; in taluni casi la rinuncia deve essere accettata da un superiore, in altri no e vale per se stessa una volta comunicata (cc. 187-189); la rinuncia del Romano Pontefice, ad es., non abbisogna dell’accettazione di alcuno;

- per trasferimento ad un altro ufficio;

- per la rimozione dall’ufficio, che può avvenire per decreto dell’autorità o automaticamente; si intende automaticamente rimosso "1º) chi ha perso lo stato clericale; 2º) chi si è separato pubblicamente dalla fede cattolica o dalla comunione della Chiesa; 3º) il chierico che ha attentato matrimonio anche soltanto civile" (c. 194 § 1);

- per privazione, come pena di un delitto.

2- Dimensione universale e particolare della Chiesa

Nella Chiesa esistono due livelli fondamentali di organizzazione, quello universale e quello particolare, che corrispondono al fatto che Cristo costituì il Collegio degli Apostoli con a capo Pietro: un unico collegio composto da molti. Così oggi "per analoga ragione il Romano Pontefice, successore di Pietro, ed i Vescovi, successori degli Apostoli, sono tra di loro congiunti" (c. 330).

La costituzione fondamentale della Chiesa, del suo governo e della sua organizzazione, rispecchia il rapporto di comunione esistente nel Collegio dei vescovi. Cristo affidò il governo della sua Chiesa al Collegio apostolico e ne mise a capo Pietro al quale diede il primato; così oggi il governo della Chiesa è affidato al Collegio dei Vescovi con a capo il Romano Pontefice, successore di Pietro nel primato.

Sin dalle origini la Chiesa si diffuse per l’orbe in diverse comunità cristiane con a capo un Apostolo o un loro successore (vescovo), le quali comunità facevano capo prima a quella di Gerusalemme, e dopo a quella di Roma, la sede cioè dei successori di Pietro. L’unica Chiesa di Cristo "è pure un corpo fatto di Chiese" (corpus Ecclesiarum, LG 23): l’insieme delle Chiese particolari che sono in comunione con quella di Roma (CCC 834).

Ma questo insieme delle Chiese particolari che formano la Chiesa universale non è il risultato della semplice aggregazione o federazione di soggetti autosufficienti, ma un corpo nelle cui membra unite scorre tutta e l’unica vita della Chiesa. Infatti, in ogni Chiesa particolare, proprio in quanto parte dell’unica Chiesa di Cristo, "si fa presente la Chiesa universale con tutti i suoi elementi essenziali". La Chiesa una ed unica precede e "partorisce le Chiese particolari come figlie, si esprime in esse, è madre e non prodotto delle Chiese particolari".

Da un’altro punto di vista il Concilio ha espresso questa strutturazione della Chiesa dicendo che "il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli. I Vescovi, invece, singolarmente presi, sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nelle loro Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica. Perciò i singoli Vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano tutta la Chiesa nel vincolo di pace, di amore e di unità" (LG 23).

3- La potestà suprema della Chiesa

Sono due dunque i soggetti cui è affidato il governo supremo della Chiesa universale: il Romano Pontefice ed il Collegio dei Vescovi, il quale "però non ha autorità se non lo si concepisce insieme con il Romano Pontefice, successore di Pietro, quale suo capo, che conserva integralmente il suo potere primaziale su tutti, pastori e fedeli" (LG 22). Non sono due organi contrapposti o limitativi uno dell’altro poiché il Papa esercita in ogni momento la suprema potestà, anche quando agisce come capo del Collegio episcopale, mentre questo gode della stessa potestà soltanto quando agisce in unione e sotto la guida del suo capo che è appunto il Romano Pontefice.

a) Il Romano Pontefice

Il Vescovo di Roma è successore di S. Pietro nell’ufficio a lui conferito dal Signore, cioè nel primato, in forza del quale egli esercita su tutta la Chiesa la piena e suprema potestà.

Il Papa è il capo del Collegio dei Vescovi che presiede e governa; è Vicario di Cristo che rappresenta e dal quale soltanto deriva il suo ministero; è Pastore della Chiesa universale cioè di tutti i fedeli, Pastori inclusi.

La sua potestà, secondo il c. 331, è:

- Ordinaria: esercitata direttamente in virtù del suo ufficio, non per commissione o mandato di un altro. Il Papa anche se viene eletto dai cardinali non è il rappresentante o delegato del conclave (cioè dall’insieme dei cardinali votanti), né la sua elezione può essere condizionata.

- Suprema: cioè non soggetta a nessun’altra, le sue decisioni sono insindacabili e "non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice" (c. 333 § 3).

- Piena: in quanto non limitata a certe materie, luoghi o persone, né da esercitare in accordo o sotto la guida di nessun altro.

- Immediata: in quanto ricevuta direttamente da Dio ed esercitata direttamente su tutti e ciascuno dei fedeli e delle comunità, senza bisogno di intermediari.

- Universale: in quanto da un lato ricade su tutte le materie riguardanti la vita e missione della Chiesa (dottrina, liturgia, pastorale, governo, ecc.) e dall’altro il Papa "in forza del suo ufficio ha potestà non solo sulla Chiesa universale, ma ottiene anche il primato della potestà ordinaria su tutte le Chiese particolari e i loro raggruppamenti" (c. 333 § 1).

Il Sommo Pontefice può sempre esercitare liberamente questa sua potestà, senza limiti di tempo, interruzioni o condizionamenti.

Tutto ciò non significa che il Romano Pontefice eserciti nella Chiesa un potere illimitato e dispotico, o che escluda qualsiasi altra potestà. Egli è soggetto a quanto Cristo Fondatore ha disposto per la sua Chiesa (diritto divino), ed il suo è un servizio all’unità di tutta la Chiesa, nella quale anche i Vescovi presiedono "al luogo di Dio al gregge di cui sono pastori" con potestà propria (LG 20).

Difatti, nell’adempimento del suo ministero egli è "sempre unito nella comunione con gli altri Vescovi e anzi con tutta la Chiesa", ma tocca a lui determinare "il modo, personale o collegiale, di esercitare tale ufficio" (c. 333 § 2).

All’elezione del Papa si procede secondo quanto disposto nella Costituzione Apostolica Romano Pontifici eligendo, data nel 1975 da Paolo VI. In essa viene dettagliatamente regolato lo svolgimento del conclave e i diversi tipi di elezione che si possono avere. Di regola risulta eletto chi ottiene almeno due terzi più uno dei voti. La stessa Costituzione Apostolica determina i compiti del Collegio dei Cardinali mentre è vacante la Sede romana.

La elezione deve essere accettata dall’eletto ma non deve essere confermata da nessuno. Tuttavia siccome la potestà che deve esercitare il Sommo Pontefice richiede il carattere episcopale, l’eletto che non sia ancora Vescovo, dopo avere accettato, deve immediatamente essere consacrato e soltanto allora riceve la potestà del primato. Ugualmente l’eventuale rinuncia del Papa al suo ufficio non deve essere accettata da nessuno (basta che sia fatta liberamente e debitamente manifestata; c. 332).

Il Romano Pontefice esercita il suo ministero in modo continuativo, avvalendosi in diversi modi dell’assistenza e cooperazione dei Vescovi e di altri organismi e persone quali il Sinodo dei Vescovi, i Cardinali, la Curia romana o i legati pontifici.

b) Il Collegio episcopale.

"L’ordine dei Vescovi, che succede al collegio degli Apostoli nel magistero e nel governo pastorale, nel quale anzi si perpetua ininterrottamente il corpo apostolico, è pure insieme con il suo capo il Romano Pontefice, e mai senza di esso, soggetto della suprema e piena potestà nella Chiesa: potestà che non può essere esercitata se non con il consenso del Romano Pontefice" (LG 22).

Del Collegio dei Vescovi fanno parte quelli che hanno ricevuto la consacrazione episcopale e sono in comunione gerarchica con il capo e con gli altri membri del Collegio (c. 336). Come ceto di molti sotto un solo capo, esso esprime insieme la varietà, l’universalità e l’unità del Popolo di Dio.

Che il Collegio abbia piena e suprema potestà su tutta la Chiesa è logico se si tiene conto che di esso fa parte quale capo il Romano Pontefice, Pastore Supremo della Chiesa universale, per cui la dualità Papa-Collegio significa che la Chiesa è retta dal Romano Pontefice solo o insieme con gli altri Vescovi.

Il Collegio episcopale come comunione dei Pastori che guidano la Chiesa è sempre in atto; ma le azioni con le quali esercita la sua potestà suprema le compie soltanto nei concreti modi ed occasioni in cui è chiamato dal Papa a farlo, oppure nei casi in cui il Sommo Pontefice "almeno approvi o liberamente accetti l’azione congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale" (LG 22).

Il Concilio Ecumenico

"Il Collegio dei Vescovi esercita in modo solenne la potestà sulla Chiesa universale nel Concilio Ecumenico" (c. 337 § 1). Superate le vecchie dottrine conciliariste che vedevano il Concilio come un’istituzione pari o addirittura superiore al Papa, il Vaticano II ribadisce che "mai si ha Concilio Ecumenico, che come tale non sia confermato o almeno accettato dal successore di Pietro; ed è prerogativa del Romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e confermarli" (LG 22), e anche trasferirlo, sospenderlo o scioglierlo. Difatti se il Papa muore o rinuncia al suo ufficio durante un Concilio, questo rimane sospeso finché il suo successore non decida se continuarlo o scioglierlo (c. 340).

Tutti e solo i membri del Collegio dei Vescovi hanno il diritto e il dovere di partecipare al Concilio con voto deliberativo. Il Papa può chiamare altri a partecipare nel modo che egli ritenga opportuno. Nel Concilio si trattano le questioni proposte dal Santo Padre e le altre che siano state proposte dai Padri conciliari e da lui approvate. Dopo le deliberazioni e l’approvazione in aula dei decreti conciliari, spetta al Romano Pontefice confermarli e promulgarli, altrimenti non avrebbero forza di obbligare (c. 341).

4- Istituzioni per il governo della Chiesa universale

Per svolgere il suo Pontificato il Papa si avvale di vari organismi e persone. Alcuni hanno carattere consultivo come il Sinodo dei Vescovi o il Collegio dei Cardinali, ai quali egli chiede il parere su determinate questioni; altri come la Curia o i legati lo aiutano in modo permanente espletando le mansioni che egli abbia loro affidato. Presentiamoli brevemente.

Il Sinodo dei Vescovi è un’assemblea che riunisce alcuni Vescovi, scelti da tutto l’orbe cattolico, sotto l’autorità del Papa, per studiare e dargli consiglio sulle questioni da lui proposte. Non è un’istituzione permanente né ha potestà deliberativa salvo che il Papa gliel’abbia data per un caso determinato.

I Cardinali di Santa Romana Chiesa formano anche essi un Collegio, le cui origini risalgono ai Vescovi delle diocesi suburbicarie e ai presbiteri e diaconi di Roma, del cui consiglio il Sommo Pontefice si serviva. Sono liberamente nominati dal Papa e coloro che non siano già Vescovi devono ricevere l’ordinazione episcopale. Al Collegio spetta soprattutto l’elezione del Romano Pontefice; può anche essere convocato dal Papa per offrire il suo parere su alcune questioni importanti. Inoltre i singoli Cardinali collaborano nella Curia romana a capo dei più importanti dicasteri e come membri di alcuni di essi, ai quali spetta risolvere le principali questioni.

La Curia romana è la struttura permanente che aiuta il Santo Padre nel suo lavoro quotidiano al servizio della Chiesa universale e delle Chiese particolari. È composta dalla Segreteria di Stato, dalle Congregazioni, Tribunali, Consigli e da altri organismi; la loro costituzione, le competenze assegnate a ciascun dicastero ed il modo di espletarle sono stabiliti in una legge speciale che attualmente è data dalla Costituzione Apostolica Pastor Bonus.

Alla Curia collaborano i Cardinali e molti Vescovi di tutto il mondo come membri dei dicasteri, aiutati dai Consultori, Officiali e da altri che possono essere chierici, religiosi o laici.

La Curia non ha una potestà propria ma esercita, nel nome e con l’autorità del Romano Pontefice, i poteri da egli ricevuti; perciò i dicasteri devono agire in unione di intenti con lui seguendo questi criteri principali:

- "non fare nulla di importante e straordinario" senza comunicarlo previamente al Santo Padre.

- sottoporre all’approvazione del medesimo gli atti di maggiore importanza, salvo che abbiano già ricevuta la competenza per compierli.

Inoltre i dicasteri non possono emanare leggi o norme aventi forza di legge, né derogare il diritto universale se non in casi singoli e con l’approvazione specifica del Sommo Pontefice (Pastor Bonus, art. 18).

Tuttavia gli atti di un dicastero sono ad esso attribuiti e non al Papa, a meno che questi li abbia fatti suoi dandone una specifica approvazione; perciò nel parlare di Santa Sede o di Sede Apostolica si intendono "non solo il Romano Pontefice, ma anche, se non risulta diversamente dalla natura della questione o dal contesto" i diversi organismi della Curia (c. 361); differenza rilevante è che, come sappiamo, gli atti del Romano Pontefice sono insindacabili mentre non lo sono quelli della Curia. Quando invece si parla di autorità suprema della Chiesa ci si riferisce soltanto al Papa e al Collegio dei Vescovi, con esclusione della Curia.

I legati pontifici sono i rappresentanti stabili del Romano Pontefice presso le Chiese particolari ed i Governi civili delle diverse nazioni. La loro principale funzione è di fare concreta lì dove sono inviati la sollecitudine del Santo Padre per tutte le Chiese, rafforzando i vincoli di unità, carità e cooperazione tra queste e la Sede di Pietro. Compiono principalmente un lavoro di informazione alla Santa Sede, in particolare sulle condizioni di vita della Chiesa e sui candidati all’episcopato; di assistenza, consiglio e cooperazione coi Vescovi locali e con la Conferenza Episcopale (della quale però non fanno parte); di difesa della libertà della Chiesa di fronte alle autorità civili; adempiono infine li incarichi e mandati affidatigli dalla Santa Sede.

Alcuni legati hanno anche missione diplomatica, cioè di rappresentanza presso i governi civili, per promuovere e favorire i buoni rapporti tra gli Stati e la Santa Sede e risolvere con loro le questioni di interesse comune, anche tramite concordati o accordi simili; questi legati si chiamano Nunzi, sono inviati e revocati secondo le norme di diritto internazionale riguardanti gli agenti diplomatici. I legati che hanno solo missione presso la gerarchia ecclesiastica locale, non presso lo Stato, si chiamano Delegati Apostolici, anche se intrattengono contatti con le autorità civili e spesso gli sono riconosciute prerogative diplomatiche (cc. 362-367). Sono anche designati legati che rappresentano la Santa Sede presso organismi e conferenze internazionali.

5- Le Chiese Particolari

La costituzione gerarchica della Chiesa si esprime anche a livello particolare nelle diverse comunità cristiane che compongono e si radunano nell’unica Chiesa cattolica.

Questo livello o dimensione particolare della costituzione ecclesiastica è anche di istituzione divina in quanto risale al ministero degli Apostoli che posti a capo delle prime comunità "ebbero cura di costituirsi dei successori", i Vescovi appunto, i quali come membri del Collegio episcopale "hanno ricevuto il ministero della comunità con l’aiuto dei presbiteri e i diaconi, presiedendo in luogo di Dio al gregge, di cui sono pastori" (LG 20) in comunione con il capo e gli altri membri del Collegio.

L’unità della Chiesa appare quindi non soltanto nell’unità del Popolo di Dio che raduna tutti i battezzati sotto la guida del Papa e del Collegio dei Vescovi, ma anche nella comunione di una molteplicità di Chiese particolari "formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica" (LG 23).

Il rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale non è solo quello tra la parte e il tutto poiché l’unica Chiesa di Cristo "è veramente presente e agisce" nella Chiesa particolare, la quale a sua volta è tale in virtù della presenza operante in lei della Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica (CD 11) a immagine della quale è formata.

Erigere, sopprimere o modificare le Chiese particolari spetta unicamente al Papa o al Collegio episcopale (c. 373). La comunità che forma una Chiesa particolare deve essere definita e distinta dalle altre. Ciò si fa di solito individuando a ciascuna i suoi limiti territoriali in modo da comprendere tutti i fedeli che vi abitano; ma può avvenire secondo criteri personali come il rito, la nazionalità o la lingua dei fedeli.

a) La diocesi

Il concetto teologico di Chiesa particolare equivale e si realizza in modo pieno in quello canonico di diocesi (c. 368), definita dal Concilio come "la porzione del Popolo di Dio che viene affidata alla cura pastorale del Vescovo con la cooperazione del presbiterio, in modo che aderendo al suo pastore e da lui riunita nello Spirito Santo mediante il Vangelo e l’Eucaristia, costituisca una Chiesa particolare, nella quale veramente è presente e agisce la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica" (CD 11, c. 369).

Tre sono gli elementi che si sogliono distinguere nella Chiesa particolare: a) un pastore, di regola un Vescovo; b) popolo, una porzione cioè del Popolo di Dio e c) un presbiterio. Questi elementi sono in rapporto tra di loro in modo di formare una comunità a immagine della Chiesa universale: il Vescovo che, come pastore, raduna e presiede in nome di Cristo la porzione del popolo di Dio a lui affidata con la collaborazione del presbiterio.

b) Altre circoscrizioni ecclesiastiche simili alle diocesi

Oltre alle diocesi ci sono altre porzioni del popolo di Dio o comunità cristiane organizzate come Chiese particolari: per questo nel c. 368 si dice che, se non consta altrimenti, vengono assimilate alla diocesi "la prelatura territoriale e l’abbazia territoriale, il vicariato apostolico e la prefettura apostolica nonché l’amministrazione apostolica eretta stabilmente".

Queste comunità vengono brevemente descritte nei cc. 370 e 371; in esse si trovano gli elementi e i rapporti tipici della Chiesa particolare, anche se a volte in modo parziale; ad es. perché non sempre hanno a capo un Vescovo, bensì un presbitero che "governa a modo di Vescovo diocesano, come suo pastore proprio" (è il caso della prelatura territoriale e dell’abbazia territoriale); o perché il loro pastore governa "in nome del Sommo Pontefice" non quindi come pastore proprio (è il caso dei vicariati, delle prefetture e delle amministrazioni apostoliche).

Ci sono anche strutture simili alle diocesi di natura personale come le prelature personali e gli ordinariati militari, chiamate a sviluppare una pastorale specifica che si affianca a quella delle diocesi.

Le prelature personali (cc. 294-297) possono servire a diverse finalità definite nei loro statuti: una più adeguata distribuzione del clero, speciali opere pastorali o missionarie, ecc.; possono essere di ambito regionale, nazionale o internazionale. Esse sono rette dagli statuti stabiliti dalla Santa Sede. Una prelatura è costituita da un Prelato che la governa come Ordinario proprio, dai chierici secolari in essa incardinati che costituiscono il suo presbiterio, e (secondo i casi) anche da laici, che si possono volontariamente vincolare alla prelatura al fine di cooperare al lavoro apostolico di essa nel modo definito negli statuti.

Gli ordinariati militari sono finalizzati a provvedere alla pastorale delle persone che servono l’esercito di una nazione. Hanno a capo l’Ordinario militare (che di regola viene consacrato Vescovo) e di essi fanno parte i cappellani militari e i fedeli che per qualsiasi ragione sono sotto le armi o abitano nelle zone militari. Sono regolati in generale dalla Costituzione Apostolica Spirituali militum cura, ma ogni ordinariato ha anche i propri statuti, spesso definiti in un accordo tra la Chiesa e lo Stato.

Da quanto abbiamo visto si può concludere: a) che esistono diversi tipi di circoscrizioni ecclesiastiche che fungono da Chiesa particolare; b) che si prende come paradigma di tutte la diocesi. E quanto è prescritto per essa, si deve applicare, con gli aggiustamenti necessari, alle altre.

Tutte hanno in comune l’essere circoscrizioni ecclesiastiche appartenenti a quelle chiamate maggiori, cioè autonome le une dalle altre e dipendenti direttamente dalla Santa Sede.

c) Organismi sovradiocesani

Quanto abbiamo appena detto non significa che le diverse diocesi di uno stesso territorio (o i loro Vescovi) non trattengano rapporti tra di loro al fine di coordinare la pastorale e prestarsi collaborazione vicendevolmente; esistono infatti strutture e organismi sovradiocesani, ma nella Chiesa latina questi non stabiliscono dipendenza gerarchica tra le diocesi né costituiscono una Chiesa particolare al di sopra delle chiese particolari.

1) La provincia ecclesiastica

È una circoscrizione che raduna varie diocesi vicine al fine di promuovere un’azione pastorale comune. Come regola non ci devono essere diocesi che non appartengano ad una provincia. Sono costituite dalla suprema autorità della Chiesa (c. 431) ed hanno personalità giuridica per il fatto stesso di essere costituite (c. 432 § 2).

Organi di governo della provincia sono il concilio provinciale e il Metropolita (c. 432 § 1). Anche l’assemblea dei Vescovi della provincia esercita certe competenze in essa (cc. 952 § 1 e 1264).

In ogni provincia c’è una arcidiocesi con a capo un Arcivescovo che è il Metropolita della provincia (c. 435); le altre diocesi si chiamano suffraganee. Il Metropolita non ha nelle diocesi della provincia funzioni di governo diretto, ma deve vigilare e informare il Romano Pontefice su eventuali abusi che si siano introdotti; interviene anche nella nomina dell’Amministratore diocesano qualora una diocesi sia vacante. La Santa Sede può in certi casi conferirgli altre funzioni (c. 436).

2) La regione ecclesiastica

Se le circostanze lo consigliano, possono esserci anche regioni ecclesiastiche che raggruppano varie province vicine, costituite dalla Sede Apostolica su proposta della Conferenza episcopale. La regione non ha personalità giuridica per diritto, ma può essere eretta come persona dalla stessa Sede Apostolica (c. 433).

L’assemblea regionale dei Vescovi favorisce la pastorale comune, ma non ha competenze giuridiche se non quelle che le siano state concesse in modo speciale dalla Santa Sede (c. 434).

3) I concili particolari

Sono quelli che radunano i Vescovi di un determinato territorio. Se il territorio è quello di una Conferenza episcopale si chiama plenario (c. 439), se di una provincia, provinciale (c. 440).

Il concilio plenario è organizzato dalla Conferenza episcopale con la previa approvazione della Sede Apostolica (c. 441); quello provinciale è organizzato e presieduto dal Metropolita (c. 442).

In ogni concilio hanno diritto di partecipare con voto deliberativo tutti i Vescovi che esercitano un incarico nel territorio (c. 443 § 1). Altri Vescovi che vi si trovino possono essere chiamati ed in questo caso hanno anch’essi voto deliberativo (ivi § 2).

Con voto soltanto consultivo devono essere chiamati i Vicari diocesani, alcuni Superiori di istituti di vita consacrata e società di vita apostolica, rettori e decani di università e seminari, ecc. secondo il c. 443 § 3. Possono anche essere chiamati con voto consultivo altri presbiteri e fedeli (ivi § 4). Possono essere invitati come ospiti altre persone (ivi § 6).

Chi viene chiamato ad un concilio è tenuto a partecipare se non ha un legittimo impedimento, di cui deve informare il presidente. In questo caso gli assenti possono farsi rappresentare da un procuratore che però avrà soltanto voto consultivo (c. 444).

Il concilio particolare ha potestà generale di governo sul suo territorio: può quindi legiferare, entro il diritto universale, su tutte le materie che riguardano la vita della Chiesa (dottrina, disciplina, liturgia, catechesi, ecc.).

Le delibere di un concilio particolare non devono essere promulgate finché tutti gli atti non siano riveduti dalla Santa Sede, dopo di che spetta al concilio promulgarli (c. 446).

4) Le Conferenze episcopali

A differenza dei concili, che sono assemblee sporadiche, la Conferenza episcopale è un organismo permanente che raduna i Vescovi di un’intera nazione o territorio, al fine di esercitare insieme alcune funzioni pastorali e promuovere una pastorale coordinata (cc. 447 e 448). Anche se nate nel secolo scorso, il Concilio Vaticano II ha determinato un grande impulso alle Conferenze chiedendo che venissero costituite laddove ancora non ci fossero.

Spetta unicamente alla Santa Sede erigere, modificare o sopprimere le conferenze episcopali, le quali, una volta costituite, hanno per diritto personalità canonica (c. 449). Ogni conferenza elabora i suoi statuti che devono essere riveduti dalla Sede Apostolica (c. 451).

Sono membri per diritto della Conferenza episcopale tutti i Vescovi che esercitano un incarico nel territorio e coloro che dal diritto sono equiparati al Vescovo diocesano. Non sono membri di diritto il Legato pontificio né i Vescovi che non abbiano un incarico nel territorio (ma possono esserlo a norma degli statuti; c. 450).

Per quanto riguarda il voto, però, soltanto i Vescovi diocesani, quelli a loro equiparati nel diritto e i Vescovi coadiutori hanno sempre voto deliberativo; gli altri Vescovi (ausiliari e titolari) avranno voto deliberativo o consultivo a seconda di quanto sia stato stabilito negli statuti. Proprio per questo nell’elaborazione o modifica degli statuti si esprimono con voto deliberativo soltanto coloro che lo hanno per legge (c. 454).

La competenza normativa delle Conferenze non è generale; esse possono emanare norme soltanto nelle materie espressamente segnalate nel diritto universale oppure in un mandato della Santa Sede (c. 455 § 1). Decisioni su altre materie non vincolano i singoli Vescovi a meno che siano state prese all’unanimità (c. 455 § 4).

Inoltre perché una delibera normativa sia vincolante, devono votare a favore almeno due terzi dei membri della Conferenza che godono di voto deliberativo, e poi deve ottenere il nulla osta della Sede Apostolica, dopo di che verrà promulgata (c. 455 § 2).

Questi limiti alla potestà della Conferenza episcopale rispondono tra l’altro al bisogno di tutelare la legittima autonomia di ogni Vescovo per la sua diocesi, ed evitare così che la Conferenza si possa sostituire al ruolo del Vescovo diocesano il quale risponde del suo incarico soltanto al Romano Pontefice. La Conferenza episcopale non costituisce un’istanza intermedia fra le Chiese particolari e la Sede Romana.

Come istituto permanente la Conferenza episcopale ha una organizzazione interna (Presidenza, Segreteria, Consiglio permanente, Commissioni varie); ma soltanto l’assemblea plenaria può prendere le decisioni importanti.

Esistono anche organismi che servono a favorire le relazioni tra le Conferenze episcopali di una stessa area geografica (per l’America latina, l’Europa, ecc.); essi hanno una diversa configurazione giuridica secondo i casi (c. 459).

6- Governo e organizzazione della diocesi

a) Il Vescovo diocesano

Tutti i Vescovi in quanto successori degli Apostoli "sono costituiti Pastori della Chiesa" ricevendo con la consacrazione episcopale l’ufficio di santificare, di insegnare e di governare. Questi ministeri li esercitano nei confronti di tutta la Chiesa come membri del Collegio episcopale, sempre e solo nella comunione gerarchica col capo e con gli altri membri del Collegio (c. 375).

Ad alcuni membri del Collegio è affidata la cura pastorale di una diocesi ed allora si chiamano diocesani. Nella Chiesa latina di regola il Romano Pontefice nomina liberamente i Vescovi, con l’aiuto della Congregazione per i Vescovi; ma in alcune diocesi il capitolo o altri hanno il diritto di eleggere o presentare i candidati che al Papa compete confermare o istituire.

Nella diocesi a lui affidata il Vescovo, sotto l’autorità del Sommo Pontefice, è "il principio visibile e il fondamento dell’unità" (LG 23) ed ha in essa "tutta la potestà ordinaria, propria e immediata che è richiesta per l’esercizio del suo ufficio pastorale" (c. 381 § 1).

Ciò sta a significare che il Vescovo diocesano, in forza della consacrazione episcopale e dell’incarico ricevuto, governa direttamente, a nome proprio e con potestà propria la sua diocesi, rappresentando direttamente Cristo. Gli competono tutte le materie e questioni riguardanti la cura pastorale diocesana, tranne quelle che "dal diritto o da un decreto del Sommo Pontefice siano riservate alla suprema autorità o ad altra autorità ecclesiastica" (c. 381).

Coloro che reggono una Chiesa particolare similare alla diocesi sono equiparati in diritto al Vescovo diocesano, hanno cioè gli stessi diritti, doveri e potestà: quanto si dice nei canoni per Vescovo diocesano viene applicato anche a loro, a meno che non risulti diversamente dalla natura delle cose o da una disposizione giuridica (c. 381 § 2).

Alla carità pastorale del Vescovo diocesano sono affidati non soltanto i fedeli della diocesi, ma anche quelli che, pur non essendolo, si trovano in essa, i cristiani non cattolici e i non battezzati. In modo particolare gli sono affidati i chierici suoi collaboratori i quali dipendono da lui nell’esercizio del loro ministero. Egli deve promuovere "la santità dei fedeli, secondo la vocazione propria di ciascuno", le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata e missionaria.

Egli assolve le funzioni proprie del pastore: è maestro, sacerdote e capo.

Come maestro del Vangelo egli cura che vengano presentate a tutti, secondo le condizioni di ciascuno, "le verità di fede che si devono credere e applicare nei costumi", attraverso la predicazione, la catechesi, ecc. È suo dovere difendere con fermezza l’integrità e l’unità della dottrina.

Come sacerdote il Vescovo è il principale dispensatore dei divini misteri, è promotore e rettore di tutta la vita liturgica e provvede che vengano debitamente celebrati e amministrati i sacramenti. Egli stesso deve offrire il Sacrificio della Messa per il suo popolo nei giorni di precetto.

Come capo della sua Chiesa, nel rispetto della legge universale, il Vescovo:

- esercita personalmente la potestà legislativa: egli soltanto è legislatore nella diocesi;

- può giudicare le cause sia personalmente sia mediante il suo Vicario giudiziale e gli altri giudici;

- esercita la potestà esecutiva da sé o tramite il Vicario generale e i Vicari episcopali;

- è il rappresentante giuridico della diocesi ed amministratore dei suoi beni.

Come garante della comunione ecclesiastica il Vescovo vigila che nella diocesi sia rispettata la disciplina comune a tutta la Chiesa, si osservino le leggi e non si introducano abusi; promuove insieme la legittima diversità di carismi e di forme di apostolato, coordinandoli al bene comune.

Compiuti i 75 anni di età o quando per causa di malattia o altra causa grave egli divenisse meno idoneo al suo incarico, il Vescovo è invitato dal c. 401 a presentare la rinuncia al Santo Padre. Quando per qualsiasi ragione il Vescovo cessa di ricoprire il suo ufficio la sede diocesana si dice vacante (c. 416); quando invece per prigione, confino, esilio o inabilità egli non può nemmeno comunicare coi suoi diocesani la sede si dice impedita (c. 412).

b) Istituzioni e uffici per il governo della diocesi.

Nel compiere il suo ufficio pastorale il Vescovo diocesano conta della collaborazione ministeriale dei chierici e dell’impegno di tutti i fedeli; ma ci sono diversi uffici e organismi che lo aiutano nella sua funzione di governo.

1) Vescovi coadiutori e ausiliari (cc. 403-411)

Sono Vescovi posti dalla Santa Sede a fianco del Vescovo diocesano per aiutarlo in circostanze di necessità pastorale o difficoltà, con facoltà diverse secondo il caso (estensione della diocesi, età, motivi personali, ecc.). Il fatto che ci siano altri Vescovi nella diocesi agevola molto il lavoro del Vescovo diocesano in quanto ci sono atti che deve compiere un Vescovo e quindi si possono distribuire tra di loro (pontificali, cresime, ordinazioni, ecc.).

Il Vescovo coadiutore gode del diritto di successione, diventa cioè automaticamente Vescovo diocesano quando la sede è vacante. Quindi può essere soltanto uno, e nel mentre viene nominato dal Vescovo diocesano Vicario generale; i Vescovi ausiliari possono essere vari e vengono nominati Vicari generali o episcopali; uno di essi può ricevere dalla Sede Apostolica speciali facoltà e allora viene nominato Vicario generale.

La presenza in diocesi di questi Vescovi lungi dal creare divisione deve servire al migliore andamento di essa; il coadiutore e gli ausiliari compiono il loro ufficio in unione col Vescovo diocesano, che rimane il capo della diocesi, ma che deve consultarli per gli atti di maggiore importanza.

2) Il sinodo diocesano (cc. 460-468)

È un’assemblea consultiva, non permanente ma occasionale, che il Vescovo diocesano può convocare, quando le circostanze lo suggeriscano, per conferire sulle questioni ed i pregetti da portare avanti nella diocesi. Di esso fanno parte alcuni in ragione dell’incarico che hanno in diocesi (Vescovi, Vicari, rettore del seminario, ecc.), mentre altri vengono eletti, oppure designati dal Vescovo diocesano in maniera che siano rappresentate tutte le realtà ecclesiali (chierici, laici, consacrati, associazioni).

Il sinodo è sotto la guida del Vescovo diocesano il quale lo presiede personalmente o tramite un suo Vicario; spetta a lui sospenderlo o scioglierlo. Nel sinodo si discutono liberamente tutte le questioni proposte, che possono essere sottoposte a votazione; ma tale voto ha un valore consultivo poiché spetta unicamente al Vescovo diocesano, come unico legislatore nella diocesi, decidere in quale modo rendere operative e pubblicare le conclusioni sinodali.

3) La curia diocesana

È la struttura permanente della quale si serve il Vescovo nel disbrigo dei diversi compiti del suo incarico pastorale di governo. Di essa fanno parte i Vicari, il tribunale, il cancelliere, i notai, gli impiegati, ecc. Per coordinare i lavori della curia può essere nominato come Moderatore di essa un Vicario generale. Logicamente la curia diocesana agisce sotto l’autorità e in unione con il Vescovo diocesano, della cui potestà amministrativa e giudiziaria partecipa, ed al quale spetta la nomina per i diversi uffici di curia.

4) I Vicari diocesani (cc. 475-481)

In ogni diocesi c’è almeno un Vicario generale; possono esserci altri Vicari episcopali. Tutti quanti godono di potestà esecutiva ordinaria, ma mentre il Vicario generale l’ha per tutta la diocesi e per tutte le materie amministrative, i Vicari episcopali l’hanno soltanto per una zona della diocesi o su un genere determinato di affari (pastorale, vita consacrata, catechesi). Esiste anche il Vicario giudiziale che, gode di potestà giudiziaria ordinaria e dirige l’attività del tribunale.

Tutti i Vicari esercitano le competenze del loro ufficio a nome ed in rappresentanza del Vescovo diocesano; si tratta di incarichi di fiducia la cui nomina spetta al Vescovo. Come già abbiamo visto se c’è un Vescovo coadiutore egli sarà nominato anche Vicario generale, e i Vescovi ausiliari devono essere pure nominati Vicari.

Poiché i Vicari hanno potestà esecutiva ordinaria sono anch’essi Ordinari del luogo ai sensi del c. 134; ciò significa che quando nel Codice o altrove si dice che un certo atto spetta all’Ordinario o all’Ordinario del luogo, sono abilitati a compierlo sia il Vescovo diocesano che i Vicari; come ad es. la dispensa dagli impedimenti (cc. 1078 ss.). Invece, quando la legge fa menzione espressa del Vescovo diocesano si intende lui e solo lui, non i suoi Vicari a meno che essi abbiano ricevuto un mandato speciale (c. 134 § 3). Questa distinzione è importante per interpretare correttamente le norme; si vedano ad es. i cc. 87 e 88 sulla potestà di dispensare dalle leggi.

5) Il consiglio per gli affari economici (cc. 492 e 493)

Fa anche parte della curia diocesana il consiglio per gli affari economici. È composto almeno da tre esperti in economia e diritto nominati dal Vescovo, il quale lo presiede di persona o attraverso un suo delegato. Il suo compito principale è quello di elaborare il preventivo annuale secondo le indicazioni del Vescovo diocesano e approvare il bilancio consuntivo. Negli affari più rilevanti il Vescovo ha l’obbligo di ascoltare il suo parere (c. 1277), e per quelli di amministrazione straordinaria deve ottenere il suo consenso, senza il quale il negozio sarebbe nullo (come ad es. per le alienazioni al di sopra di un certo ammontare).

6) L’economo diocesano (c. 494)

È l’incaricato dal Vescovo di amministrare sotto la sua autorità i beni della diocesi. Si tratta di una carica tecnica per la quale si deve scegliere una persona veramente esperta oltre che onesta. Il suo compito è la gestione ordinaria quotidiana del bilancio approvato dal consiglio per gli affari economici e degli altri compiti assegnatigli dal Vescovo. Ogni anno deve presentare il bilancio delle entrate e delle spese al consiglio economico per approvazione.

7) Il consiglio presbiterale (cc. 495-501)

Oltre agli organi della curia diocesana ci sono nella diocesi quattro collegi che svolgendo compiti diversi aiutano il Vescovo. Il consiglio presbiterale è un collegio di sacerdoti che rappresenta il presbiterio della diocesi e costituisce "come il senato del Vescovo", al quale aiuta nel governo pastorale. Deve avere statuti propri approvati dal Vescovo nei quali si determini il sistema di designazione dei suoi membri e il modo di funzionamento.

I suoi membri sono per metà eletti dai presbiteri che svolgono un ufficio nella diocesi siano essi diocesani, secolari o religiosi; altri sono membri in forza della carica loro affidata (ad es. i Vicari, il rettore del seminario, ecc.); altri infine sono liberamente designati dal Vescovo diocesano.

Spetta al Vescovo convocarlo, presiederlo, scioglierlo e determinare le questioni da esaminare o accettare quelle che le vengano proposte; in ogni caso il consiglio ha soltanto voto consultivo e non può agire senza il Vescovo diocesano; ma egli deve ascoltarlo nelle questioni più importanti della diocesi, e nei casi espressamente indicati dal diritto deve ottenere il suo consenso.

8) Il collegio dei consultori (c. 502)

Tra i membri del consiglio presbiterale il Vescovo diocesano ne sceglie alcuni, non meno di 6 né più di 12, che formano il collegio dei consultori. Mentre il consiglio presbiterale si riunisce poche volte l’anno, questo collegio è chiamato a consigliare il Vescovo in forma più continuativa. Il diritto stabilisce i casi nei quali il Vescovo deve chiedere il suo parere e quelli nei quali deve ottenere il suo consenso (come ad es. per tutti gli atti di amministrazione straordinaria dei beni, cc. 1277, 1292).

Quando la sede è vacante non viene sciolto, anzi gli spetta di eleggere l’Amministratore diocesano che regge la diocesi fino alla nomina di un nuovo Vescovo diocesano. L’Amministratore ha una potestà ridotta per cui ha bisogno del consenso del collegio dei consultori per gli atti di maggiore importanza. La Conferenza episcopale può determinare che le funzioni di questo collegio siano svolte dal capitolo cattedrale.

9) Il capitolo cattedrale (cc. 503-510)

È il collegio dei canonici, che assolve le funzioni liturgiche più solenni nella cattedrale e gli altri compiti che il diritto o il Vescovo gli affidino. È un’istituzione molto antica che svolgeva prima i ruoli che adesso sono demandati ai due collegi precedenti (presbiterale e dei consultori). Ha una certa autonomia, anche patrimoniale, definita negli statuti che devono essere approvati dal Vescovo, al quale oggi spetta conferire i canonicati a sacerdoti che abbiano esercitato lodevolmente il ministero. Se il presidente venisse eletto dai canonici deve poi ottenere la conferma del Vescovo.

Uno dei canonici è il penitenziere che ha la facoltà di assolvere nella confessione dalle censure latae sententiae, da quelle cioè in cui si cade automaticamente una volta commesso il delitto (cfr. cap. XI).

10) Il consiglio pastorale (cc. 511-514)

Se lo consideri opportuno il Vescovo diocesano può costituire un consiglio pastorale "al quale spetta, sotto l’autorità del Vescovo, studiare, valutare e proporre conclusioni operative su quanto riguarda le attività pastorali della diocesi" (c. 511). Esso è composto da fedeli di ogni tipo, soprattutto laici, che siano in piena comunione con la Chiesa e si distinguano per "fede sicura, buoni costumi e prudenza", scelti nei termini stabiliti dal Vescovo, in modo che siano come un campione di tutta la diocesi.

Questo consiglio ha un ruolo soltanto consultivo, che svolge secondo gli statuti datigli dal Vescovo, al quale spetta costituirlo, convocarlo, presiederlo e pubblicare le sue conclusioni. Sede vacante questo consiglio cessa.

c) La parrocchia (cc. 515-552)

Come si è già detto, ogni Chiesa particolare deve essere divisa in parrocchie. La parrocchia è una comunità di fedeli stabilmente costituita nel seno della Chiesa particolare, la cui cura pastorale è affidata, sotto l’autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco che è il suo pastore proprio (c. 515 § 1). Costituisce l’unità pastorale tipica ed immediata dell’organizzazione ecclesiastica, nella quale di regola i fedeli ricevono e praticano la loro vita cristiana; da qui l’importanza che la loro vitalità ha per tutta la Chiesa. La parrocchia è una comunità aperta a tutti e dove tutti sono chiamati a collaborare in modo concreto, secondo la propria vocazione e le proprie possibilità, in comunione con la diocesi e con la Chiesa universale.

Spetta al Vescovo diocesano erigere, sopprimere o modificare le parrocchie sentito il parere del consiglio presbiterale. Di solito la parrocchia è determinata dal suo territorio, ma ci possono essere parrocchie personali determinate dal rito, dalla lingua, dalla nazionalità ecc. dei fedeli che la compongono. Una volta costituita, la parrocchia ha per diritto personalità giuridica ed il suo rappresentante è il parroco. Ogni parrocchia ha una sua chiesa parrocchiale alla quale fanno capo tutte la altre chiese del territorio (rettorie, chiese di religiosi, ecc.).

Il parroco come pastore proprio della comunità parrocchiale, esercita in essa, sotto l’autorità del Vescovo, le funzioni di insegnare, santificare e governare, anche con l’aiuto di altri presbiteri o diaconi, di religiosi e di laici. Spetta di solito al Vescovo diocesano, comprovata l’idoneità del candidato, nominare liberamente i parroci, normalmente per un tempo fisso di sei anni rinnovabile. Il parroco cessa dal suo ufficio per le cause previste dal diritto; compiuti i 75 anni egli è invitato a presentare la rinuncia.

Di solito il parroco è un unico sacerdote al quale viene affidata una sola parrocchia, ma le circostanze possono far sì che egli sia al contempo parroco di varie parrocchie, oppure che una o varie parrocchie vengano affidate ad una équipe di sacerdoti (secolari o religiosi). Ma in questo caso uno di essi dirige tutta l’attività pastorale come moderatore e responsabile davanti al Vescovo.

Parimenti quando per scarsità di preti si devono affidare alcune attività parrocchiali a persone che non siano sacerdoti (diacono, comunità religiosa, ecc.), il Vescovo deve nominare un sacerdote che diriga con potestà di parroco la cura pastorale, esercitando lui quelle funzioni che richiedono necessariamente il carattere sacerdotale.

Al parroco come pastore incombe soprattutto far sì che i fedeli possano partecipare abbondantemente ai mezzi di salvezza: la parola di Dio e i sacramenti, la preghiera e le opere di carità. Personalmente e con l’aiuto di altri sacerdoti e laici egli promuove la predicazione e la catechesi, la vita liturgica e di preghiera, le associazioni di fedeli, l’assistenza spirituale e materiale ai malati e ai sofferenti, le svariate forme di apostolato.

Concretamente la legge gli affida certe funzioni parrocchiali che altri non devono esercitare senza la sua autorizzazione: battesimi, matrimoni, attenzione ai moribondi, funerali, la Messa più solenne nei giorni di precetto (che deve offrire per il popolo) ecc. Inoltre egli deve curare adeguatamente tutti gli aspetti amministrativi e materiali della parrocchia: luoghi ed oggetti di culto, libri di registro, archivio, pubblicazioni, amministrazione dei beni, patrimonio culturale.

Per poter fare tutto ciò il parroco deve di regola risiedere nella propria parrocchia e non assentarsi senza avvertire l’Ordinario del luogo in modo che possa venire opportunamente sostituito. Inoltre può essere aiutato da uno o più vicari parrocchiali: sacerdoti che sotto la sua guida cooperino con lui nella pastorale, sia in generale, sia in parte (facendosi carico ad es. di una zona della parrocchia o di un determinato gruppo di fedeli, di uno specifico ministero o di certe attività).

Per quanto riguarda poi gli aspetti economici vi è un consiglio parrocchiale per gli affari economici, con almeno due consiglieri e retto dalle norme date dal Vescovo. Questo consiglio oltre a studiare i problemi e proporre le opportune soluzioni, può aiutare in maniera immediata il parroco nell’amministrazione dei beni compiendo per suo mandato alcuni incarichi, fermo restando che è sempre il parroco chi rappresenta la parrocchia.

Se il Vescovo diocesano lo giudica opportuno deve essere costituito in parrocchia anche il consiglio pastorale che, presieduto dal parroco, riunisce gli altri chierici che partecipano alla pastorale e altri fedeli, per promuovere iniziative e organizzare le attività parrocchiali. Questo consiglio si regge sulle norme date dal Vescovo ed ha soltanto voto consultivo.

I fedeli, con la loro vita di pietà e di apostolato, collaborando alle attività e all’apostolato della parrocchia, o partecipando quando siano chiamati nei consigli parrocchiali, adempiono la loro responsabilità apostolica, e contribuiscono a volte in maniera insostituibile alla vita della comunità, permettendo alla parrocchia di raggiungere tutti quelli che vi abitano con la sua irradiazione di vita cristiana.

d) I vicariati foranei (cc. 553-555)

Diverse parrocchie confinanti sono raggruppate in distretti più ampi chiamati vicariati foranei o decanati. Ad essi è preposto un vicario foraneo, decano o arciprete nominato dal Vescovo diocesano. Il suo ruolo è soprattutto di coordinare l’attività pastorale, curare che i chierici del vicariato adempiano i loro doveri e possano condurre una vita degna ricevendo l’assistenza spirituale e materiale necessaria, e vigilare sul decoro della liturgia e il buon ordine dell’amministrazione ecclesiastica. Per fare ciò egli dovrà visitare le parrocchie del distretto nel modo disposto dal Vescovo.

e) I rettori delle chiese (cc. 556-563)

La chiesa parrocchiale è il centro della vita liturgica e pastorale della comunità, ma sovente ci sono nel territorio della parrocchia altre chiese che contribuiscono grandemente a far sì che i fedeli possano fruire con più facilità dei mezzi della salvezza. Queste chiese aperte al pubblico che non sono parrocchiali né hanno un proprio capitolo di canonici (capitolari) si chiamano rettorati o chiese rettorali.

Sono affidate ad un rettore, nominato di regola dal Vescovo diocesano; se la chiesa appartiene ad un istituto religioso clericale di diritto pontificio il rettore viene presentato dal Superiore e istituito dal Vescovo. Il rettore è responsabile della liturgia e della pastorale nella sua chiesa, da svolgere coordinatamente con quella della parrocchia; per questo le funzioni parrocchiali che, come abbiamo visto, il diritto affida specificamente al parroco (battesimi, matrimoni, funerali, ecc.) il rettore non le può compiere se non per mandato dell’Ordinario del luogo o con il permesso o delega del parroco.

f) I cappellani (cc. 564-572)

Vi sono comunità di fedeli che per motivi molto diversi hanno bisogno di una specifica attenzione pastorale che si aggiunga o supplisca quella che normalmente viene offerta a tutti nella parrocchia: scuole, emigranti, comunità religiose, caserme, associazioni, navi, carceri, ospedali...

Il sacerdote al quale viene affidata la cura pastorale di una di queste comunità è il cappellano. Egli viene normalmente nominato dall’Ordinario del luogo sia liberamente sia dietro presentazione o elezione degli aventi diritto; a meno che tale nomina non venga attribuita ad altri dal diritto o dalle regole su cui si regge la comunità stessa (ad es. per alcune comunità di suore, o per i militari).

Il cappellano anche se non è parroco deve avere tutte le facoltà che richiede il suo incarico; concretamente il c. 566 gli riconosce direttamente quelle di predicare e confessare i fedeli a lui affidati e, in pericolo di morte, amministrare loro la cresima, l’unzione degli infermi e il Viatico. Anche per diritto il cappellano può assolvere in certi casi delle censure latae sententiae. Inoltre egli avrà le facoltà che gli vengano concesse dal diritto particolare o da una apposita delega. Se la comunità ha una propria chiesa il cappellano, se possibile, deve anche esserene il rettore.

I cappellani militari, come si sa, appartengono ad una specifica struttura di carattere personale che è l’Ordinariato militare con a capo un Vescovo; ad essi incombono in pratica, riguardo al personale militare, le stesse responsabilità e facoltà dei parroci.

VII. La vita consacrata

Come abbiamo visto (cap. V), ci sono tra i fedeli quelli che abbracciano uno speciale stato di vita caratterizzato da una peculiare consacrazione a Dio "per la professione dei consigli evangelici mediante voti o altri vincoli sacri, riconosciuti e sanciti dalla Chiesa" (c. 207 § 2).

Fin dai primi tempi della Chiesa alcuni fedeli si sentirono chiamati a consacrare in maniera particolare la loro vita al servizio di Dio e dei fratelli, testimoniando davanti alla comunità il loro distacco dal mondo attraverso quello che poi diverrà la professione dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza. Nacquero così gli ordini delle vergini, degli eremiti, delle vedove, dei quali troviamo riferimenti nelle lettere di S. Paolo.

Alle esperienze individuali seguirono (prima in Oriente e poi nell’Occidente) quelle di vita comune fraterna, scandite dalle prescrizioni di una Regola e dalla sottomissione al Superiore. Le comunità che seguivano la stessa Regola si moltiplicarono dando luogo agli ordini religiosi; Le Regole più antiche, che hanno poi ispirato le altre, sono quella di S. Basilio per l’Oriente e quelle di S. Agostino e S. Benedetto in Occidente.

"Avvenne quindi -dice il Concilio Vaticano II- che come in un albero piantato da Dio, ramificatosi nel campo del Signore in modo mirabile e molteplice, sono cresciute varie forme di vita solitaria o comune e varie famiglie, che si sviluppano e a profitto dei loro membri e per il bene di tutto il Corpo di Cristo" (LG 43). La Chiesa accoglie le diverse forme di vita consacrata come manifestazione della ricchezza dei doni dello Spirito Santo; l’autorità ecclesiastica interpreta i consigli, ne regola la pratica e, a partire da essi, costituisce forme stabili di vita, cioè gli istituti di vita consacrata.

Dal punto di vista giuridico la vita consacrata è il peculiare stato di vita che assumono i fedeli che professano i consigli evangelici; come si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica "è la professione di tali consigli, in uno stato di vita stabile riconosciuto dalla Chiesa, che cratterizza la ‘vita consacrata’ a Dio" (n. 915). Il diritto incide principalmente su due aspetti della vita consacrata collegati tra loro: lo stato delle persone che professano i consigli, e l’organizzazione e attività degli istituti di vita consacrata.

Lo stato di vita consacrata comporta una forma specifica di vivere la vocazione cristiana comune a tutti i fedeli, segnata da:

- Una speciale consacrazione a Dio. Tutti i fedeli in forza del battesimo sono consacrati e chiamati alla santità e alla diffusione del Regno di Dio, ma coloro che scelgono la vita consacrata si dedicano totalmente a Dio e all’edificazione della Chiesa per un nuovo e speciale titolo. Questa consacrazione non li fa diventare più cristiani degli altri, ma li impegna a cercare la perfezione a cui tutti siamo chiamati in una concreta forma stabile, per una via concreta.

- Questa via è appunto la professione dei consigli evangelici. Nel Vangelo si trovano molti consigli che si possono riassumere nelle beatitudini, proposte da Gesù non ad alcuni bensì a tutti i suoi discepoli (CCC 915); ma la vita consacrata comporta la professione davanti alla Chiesa dei tre consigli di castità nel celibato (amando Dio con cuore indiviso), di povertà (la limitazione e dipendenza nell’uso e disposizione dei beni terreni) e d’obbedienza (sottomissione della volontà ai Superiori).

- La professione dei consigli significa la loro assunzione mediante voti o altri vincoli sacri, attraverso cioè un atto personale della virtù della religione, per il quale la persona si consacra a Dio e abbraccia il peculiare stato della vita consacrata. Tale professione viene recepita dalla Chiesa la quale riconosce il dono divino della vita consacrata, lo sostiene e promuove stabilendo i diritti e i doveri dei fedeli che liberamente la assumono.

- Nelle forme riconosciute dall’autorità ecclesiastica, la vita consacrata è quindi una forma stabile di vita cristiana che appartiene alla vita e alla santità della Chiesa, che con essa esprime in maniera peculiare il mistero sponsale tra Cristo e la Chiesa, annunzia "la presenza, già in questo mondo dei beni celesti" e testimonia la gloria futura "come un segno che può e deve attirare tutti i membri della Chiesa a compiere decisamente i doveri della vocazione cristiana" (LG 44).

Frutto dell’azione dello Spirito Santo, continuamente appaiono nella Chiesa nuove svariate forme di vita consacrata; spetta ai Vescovi diocesani discernere la loro genuinità evangelica e aiutare i fondatori a ben definirle in modo da poter chiedere poi alla Sede Apostolica la loro approvazione (c. 605). Nel Codice la vita consacrata è riconosciuta in diverse forme, individuali e consociate. Forme individuali riconosciute sono:

- La vita eremitica o anacoretica "con la quale i fedeli, in un più rigoroso abbandono del mondo, dedicano la loro vita alla lode di Dio e alla salvezza del mondo, nel silenzio della solitudine, nella continua preghiera e penitenza". L’eremita entra nella vita consacrata se "professa pubblicamente i tre consigli evangelici nelle mani del Vescovo diocesano" e sotto la sua guida segue il suo cammino (c. 603).

- L’ordine delle vergini che sono consacrate a Dio dal Vescovo diocesano per dedicarsi al servizio della Chiesa. Le vergini consacrate vivono nel mondo e possono liberamente associarsi per aiutarsi reciprocamente nel loro impegno (c. 604; CCC 922-924).

Le forme associate di vita consacrata sono quelle che vivono i membri degli istituti di vita consacrata canonicamente eretti dall’autorità ecclesiastica.

Gli istituti di vita consacrata

Ci sono nella Chiesa molti istituti di vita consacrata, che rispecchiano la diversità dei doni dello Spirito, le molteplici vie dell’inseguimento di Cristo. Il Codice li raggruppa in due tipi differenti: gli istituti religiosi e gli istituti secolari. Essi rappresentano le due forme principali della vita consacrata come sopra descritta.

Gli istituti di vita consacrata sorgono come associazioni di coloro che si sentono chiamati a vivere la vita consacrata secondo lo spirito e le regole determinati da un fondatore e approvati dall’autorità ecclesiastica. C’è quindi in primo luogo l’iniziativa del fondatore che viene poi accolta e riconosciuta dall’autorità, la quale erige canonicamente l’istituto e approva le regole che definiscono i suoi tratti specifici. Vi sono dunque due elementi: iniziativa dei fedeli che intendono vivere in un modo determinato la vita consacrata e intervento della gerarchia della Chiesa che vaglia, approva e tutela il carisma e il diritto di ogni istituto. Peraltro tutti gli istituti sono soggetti alla suprema autorità della Chiesa, e i loro singoli membri hanno come loro supremo Superiore il Romano Pontefice (c. 590).

Il Vescovo diocesano può, col permesso della Santa Sede, erigere istituti di vita consacrata nella sua diocesi e allora l’istituto è di diritto diocesano, dipende cioè dal Vescovo. Quando un istituto viene eretto dalla Santa Sede è di diritto pontificio e dipende esclusivamente dalla Sede Apostolica tramite la Congregazione per gli istituti di vita consacrata. Erigere significa riconoscere che l’istituto rappresenta una forma legittima stabile di vivere la vita consacrata, approvare le sue norme proprie e conferirli la personalità giuridica (di regola questo avviene in momenti successivi). Poiché la vita consacrata è una forma di vita cristiana pubblicamente riconosciuta, gli istituti godono di personalità giuridica pubblica.

Ogni istituto è retto, oltre che dalle leggi universali del diritto canonico sugli istituti di vita consacrata, dalle regole sue proprie che vengono denominate Costituzioni, Regole, Regolamenti, Statuti o con altro nome e che, approvate dall’autorità, costituiscono il diritto peculiare dell’istituto. In questo diritto peculiare viene sancito il carisma proprio di ogni istituto nonché la sua autonomia di organizzazione e di governo. Per cui gli istituti, pur soggetti all’autorità ecclesiastica, specie per alcuni atti più importanti e per le attività esterne, nella vita interna quotidiana godono di ampia autonomia: hanno la loro gerarchia (Superiori, Capitoli), le loro articolazioni (Province, Case, Monasteri), le proprie opere apostoliche, il loro patrimonio, ecc.

Abbiamo visto che possono abbracciare la vita consacrata sia laici che chierici. Un’altra classificazione degli istituti di vita consacrata è quella che distingue appunto tra istituti clericali e laicali, a seconda che il fine o le attività da compiere comportino o meno l’esercizio dell’ordine sacro (ad es. i frati predicatori devono essere sacerdoti; non così invece quelli che si dedicano ai malati o alla scuola); in pratica, comunque, quello che interessa è che l’istituto sia stato riconosciuto dall’autorità ecclesiastica come laicale o clericale. Ovviamente tutti gli istituti femminili sono laicali.

I membri di un istituto sono soggetti alla gerarchia interna di esso in forza del consiglio evangelico di obbedienza e secondo le proprie costituzioni; sono quindi vincolati ai Superiori da un legame di natura associativa diverso da quello che corre tra i fedeli e la gerarchia ecclesiastica, che è di natura sacramentale poiché nasce dal battesimo (che determina i sudditi della Chiesa) e dall’ordine sacro (che determina i membri della gerarchia).

A questo proposito ci sono differenze tra gli istituti laicali e clericali in quanto questi, essendo retti da sacerdoti (membri della gerarchia), coniugano in sé oltre alla potestà derivante dal vincolo di associazione (voto di obbedienza) anche la potestà ecclesiastica di governo; difatti i Superiori maggiori degli istituti religiosi clericali di diritto pontificio sono Ordinari per i loro sudditi (c. 134 § 1).

a) Gli istituti religiosi

La vita religiosa è la forma più tradizionale di vita consacrata sorta nei primi secoli della Chiesa, che si è perpetuata attraverso gli istituti religiosi (Ordini e Congregazioni religiose). La vita religiosa si distingue dalle altre forme di vita consacrata per:

- la speciale dedicazione al culto di Dio e alla preghiera (S. Messa, Liturgia delle Ore, tempi determinati di preghiera in comune).

- la professione dei consigli mediante voti pubblici perpetui o per lo meno definitivi (da rinnovarsi alla scadenza).

- la vita fraterna comune: i religiosi devono abitare in una casa religiosa legittimamente costituita sotto l’autorità del Superiore.

- la testimonianza pubblica delle beatitudini attraverso una certa separazione dal mondo.

Tutto ciò secondo il diritto peculiare di ogni istituto (c. 607; cfr. CCC 925-927).

Il governo degli istituti religiosi è organizzato di regola a tre livelli: quello di ogni singola comunità o casa religiosa, quello provinciale e quello generale. A ciascuno di questi livelli il governo spetta ad un Superiore con l’assistenza di un consiglio del quale deve sentire il parere od ottenere il consenso nei casi indicati dal diritto. I Superiori vengono normalmente eletti o nominati per un certo tempo.

I Superiori provinciali e quello generale (chiamato nel CIC Moderatore supremo dell’istituto) sono Superiori maggiori. Ci sono inoltre istituti religiosi organizzati in modo che ogni casa costituisce un’unità autonoma e indipendente (i Monasteri); anche i Superiori di queste comunità sono maggiori. Come abbiamo visto, questi Superiori negli istituti religiosi clericali di diritto pontificio figurano anche come Ordinari propri dei loro sudditi.

Ci sono poi i capitoli: generale, provinciale e in certi casi anche della comunità locale; sono le assemblee di membri alle quali spetta nel proprio ambito tutelare il patrimonio spirituale proprio di ogni istituto, eleggere i relativi Superiori, trattare gli affari di maggiore importanza ed emanare norme.

L’istituto, le sue province e le sue case sono persone giuridiche pubbliche ed hanno un proprio patrimonio amministrato in accordo con le leggi comuni della Chiesa e con quelle proprie dell’istituto che devono manifestare lo spirito di povertà propria della vita religiosa. Ogni istituto, ogni provincia e, se possibile, ogni casa devono avere un economo distinto dal Superiore che, sotto la sua direzione, amministri i beni.

I religiosi

Possono abbracciare la vita consacrata i cattolici che, volendo liberamente rispondere alla vocazione, abbiano l’età e le altre condizioni richieste dall’istituto. La vita religiosa comincia con l’ammissione al noviziato fatta dai Superiori dell’istituto dopo aver comprovato che il candidato possiede le condizioni necessarie.

Il noviziato è un periodo di formazione durante il quale i novizi confermano la loro vocazione all’istituto, sperimentano lo stile di vita che in esso si conduce, e i Superiori verificano la loro idoneità e rettitudine. Si compie di regola in una casa destinata a tale scopo (si suole chiamare appunto noviziato) e deve durare almeno un anno e non più di due. In questo periodo i novizi, sotto la guida del maestro dei novizi, vengono introdotti al cammino e alle esigenze della vita religiosa e formati allo spirito e alla vita che sono specifici dell’istituto. Poiché si tratta di un tempo di prova, il novizio può liberamente lasciare l’istituto e anche i Superiori possono dimetterlo (cc. 646-653).

Una volta compiuto il noviziato, chi è giudicato idoneo viene ammesso, secondo le regole dell’istituto, alla professione religiosa. La professione segna l’ingresso del fedele nella vita consacrata. Consiste nell’assunzione dei voti pubblici di povertà, castità e obbedienza da vivere secondo le leggi universali e particolari e deve essere ricevuta dal legittimo Superiore. Può essere temporanea (per un periodo determinato) o perpetua; ma allo scadere del tempo previsto per le successive professioni temporanee il religioso deve o fare la professione perpetua o lasciare l’istituto (cc. 654-658).

La vita religiosa (sempre ispirata al Vangelo) si esprime in forme svariate a seconda del carisma proprio di ogni istituto, ma sempre si contraddistingue per l’assiduità nella vita liturgica, specialmente la S. Messa e la Liturgia delle ore, per la lettura e meditazione della Sacra Scrittura, per la preghiera personale e comunitaria. A ciò si aggiunge la vita comune e, secondo i casi, le opere proprie dell’istituto.

In ogni casa religiosa si deve avere la clausura, anche come manifestazione del distacco dal mondo tipico della vita religiosa, per cui i religiosi devono abitare in case riservate esclusivamente a loro e non si assentano senza permesso. La clausura sarà più o meno rigorosa secondo l’indole, le finalità e le regole di ogni istituto; nei monasteri di vita contemplativa è sempre più rigorosa ed in quelli di monache si osserverà la così detta clausura papale, cioè conforme alle norme date dalla Santa Sede (cc. 665 e 667).

Prima della professione i religiosi devono anche rinunciare ai propri beni nella forma e misura determinate dalle regole, sia cedendo l’amministrazione di essi, sia anche il loro uso in tutto o in parte; oppure rinunciare alla stessa proprietà e alla capacità di acquisire. Dopo la professione tutto ciò che il religioso acquista grazie al suo lavoro (stipendio, sussidi, pensione) appartiene all’istituto (c. 668).

I religiosi devono anche portare l’abito dell’istituto, segno della loro consacrazione e testimonianza di povertà. Per gli stessi motivi non devono accettare incarichi o uffici fuori dell’istituto senza licenza del Superiore; parimenti devono osservare quelle disposizioni relative ai chierici tendenti a preservare il decoro del loro stato: non coinvolgersi negli affari secolari di tipo economico, politico o sindacale; osservare norme di prudenza riguardanti la castità; essere costruttori di pace e di giustizia (cc. 669, 671 e 672).

I religiosi hanno il diritto di ricevere dal proprio istituto quanto necessario per realizzare il fine della propria vocazione. Ciò include i mezzi per condurre una vita degna, la opportuna formazione e aiuto spirituale e gli altri diritti e doveri stabiliti nel diritto peculiare (c. 670).

La separazione di un religioso dal proprio istituto può avvenire:

a) per passaggio ad un altro istituto religioso; con il consenso del Moderatore supremo di ciascun istituto e dei loro consigli. Per passare ad un istituto secolare o ad una società di vita apostolica si richiede la licenza della Santa Sede (cc. 684-685).

b) per esclaustrazione o uscita temporanea che può essere concessa od anche imposta per una grave causa; essa comporta la sospensione di certi diritti e doveri ma non la perdita dello stato, per cui il religioso continua ad essere sotto la dipendenza e la cura dei Superiori ed anche dell’Ordinario del luogo (cc. 686-687).

c) allo scadere della professione temporanea se egli voglia abbandonare l’istituto o questo, per motivi giusti e gravi, non lo ammetta alla successiva professione (cc. 688-690).

d) per indulto di lasciare l’istituto definitivamente chiesto dall’interessato e concesso dalla Santa Sede (se l’istituto è di diritto pontificio) o dal Vescovo diocesano (se di diritto diocesano; cc. 691-693).

e) per dimissione a seguito di certi delitti o altri fatti gravi commessi dal religioso. La dimissione è automatica quando egli ha abbandonato notoriamente la fede o ha contratto o tentato di contrarre matrimonio. Negli altri casi avviene dopo un processo in cui l’interessato ha la possibilità di difendersi dalle accuse. Se il religioso non è accusato di un delitto egli, ammonito, può anche ravvedersi. Se il processo si conclude col decreto di dimissione questo deve essere motivato e poi confermato dalla Santa Sede o dal Vescovo diocesano, e l’espulso ha il diritto di ricorrere contro il decreto.

Sia l’indulto di uscita definitiva che la dimissione comportano la dispensa dai voti e da tutti gli obblighi e diritti derivanti dalla professione; ma se il religioso è chierico continua ad esserlo e dovrà trovare un Vescovo che lo voglia accogliere nella sua diocesi (cc. 694-704).

Qualora un religioso venga nominato Vescovo egli continua ad appartenere al suo istituto, ma deve obbedienza soltanto al Romano Pontefice e non è soggetto a quegli obblighi che limitano la sua capacità economica e agli altri che ritenga incompatibili con la sua condizione. Questa norma ha il senso di garantire la libertà e indipendenza del Vescovo nel’adempimento dell’ufficio che gli viene affidato (cc. 705-707).

b) Gli istituti secolari

Sono istituti che propongono la vita consacrata nel mondo. I loro membri si consacrano a Dio senza abbandonare gli affari secolari, anzi cercano la santificazione delle realtà terrene operando in esse a modo di fermento (CCC 928-929). Non assumono lo stato religioso, ma rimangono nella loro condizione laicale o clericale (cc. 710-711).

I membri degli istituti secolari professano i consigli evangelici di castità nel celibato, povertà e obbedienza assumendoli mediante voti o altri vincoli sacri (promessa, giuramento) nel modo definito in ciascun istituto; questi vincoli non sono pubblici anche se sono riconosciuti dalla Chiesa (c. 712).

A differenza degli istituti religiosi la vita comune non è propria degli istituti secolari, per cui i loro membri vivono nel mondo "soli, o ciascuno nella propria famiglia, o in gruppi di vita fraterna a norma delle costituzioni" (c. 714). Comunque i membri sono uniti tra loro da uno spirito di vera fraternità e partecipano alla vita dell’istituto (c. 716).

Essi rendono testimonianza della loro consacrazione nel mondo mediante la fedeltà ai loro impegni, la coerenza di vita in mezzo alle realtà terrene che cercano di vivificare con la forza del Vangelo e anche con la loro collaborazione al servizio della comunità ecclesiale, sempre "secondo lo stile di vita secolare loro proprio" (c. 713). Se sono chierici con la testimonianza del loro lavoro ministeriale sia in diocesi che nel proprio istituto.

I chierici degli istituti secolari possono essere incardinati nella diocesi (e allora dipendono dal Vescovo diocesano come gli altri chierici della diocesi), oppure nello stesso istituto per dedicarsi al governo o all’apostolato specifico di esso (c. 715).

L’organizzazione e il governo degli istituti secolari devono essere definiti nelle proprie costituzioni entro il quadro generale degli istituti di vita consacrata e quello specifico degli istituti secolari. Parimenti per quanto riguarda i beni temporali e i rapporti economici tra l’istituto e i membri, esprimendo il modo proprio di vivere la povertà sia individuale che corporativa.

Per l’incorporazione di un fedele a un istituto secolare c’è anche un periodo di prova (non di noviziato), compiuto il quale si può procedere alla prima incorporazione assumendo con vincolo sacro temporaneo i tre consigli. Passati almeno cinque anni si può venire ammessi all’incorporazione definitiva mediante vincoli perpetui (o temporanei da rinnovare perpetuamente). La separazione dall’istituto avviene in modi simili a quella dei religiosi.

c) Le società di vita apostolica (cc. 731-746)

Sono istituti assimilati a quelli di vita consacrata i cui membri senza voti religiosi conducono vita fraterna di comunità e si dedicano al fine apostolico proprio della società. In alcune di queste società i membri assumono anche i consigli evangelici con qualche vincolo definito nelle costituzioni (CCC 930).

Pur non essendo di per sé istituti di vita consacrata, alle società di vita apostolica si applicano le disposizioni relative a quelli (riguardanti l’erezione canonica, i tipi di società, la loro autonomia, ecc.), adattate alla natura e alle caratteristiche di ciascuna di esse. Particolare importanza rivestono le società di chierici che hanno come fine l’apostolato missionario.

VIII. I mezzi della salvezza: la parola di Dio

La Chiesa ricevette da Gesù Cristo la missione di evangelizzare tutte le genti, offrire agli uomini la salvezza operata da Cristo con la sua vita, la sua parola e la sua grazia. Evangelizzare significa quindi compiere il mandato che lo stesso Gesù diede agli apostoli: "andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole..., insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28, 19-20).

I mezzi della salvezza sono principalmente la parola di Dio e i sacramenti, per mezzo dei quali Cristo, inviato dal Padre per opera dello Spirito Santo, è presente nella sua Chiesa e a mezzo della quale Egli si fa presente anche nella vita di ciascun uomo e della società. Per questo si dice che la Chiesa stessa è sacramento: perché è segno e strumento efficace della salvezza operata da Dio.

La parola e i sacramenti si possono distinguere ma non separare poiché l’evangelizzazione non è soltanto mostrare agli uomini il cammino che conduce al Cielo ma anche procurare loro la grazia, la forza perché lo possano percorrere sino alla fine. Peraltro cammino, verità e vita sono in Cristo una sola cosa, e parimenti lo sono nella sua Chiesa.

Tuttavia così come di Cristo si dice che è sacerdote, profeta e re, così si distinguono nella Chiesa questi tre ministeri o funzioni (tria munera) di santificare, insegnare e governare, che Ella ha ricevuto dal suo Fondatore, dei quali sono resi partecipi tutti i fedeli.

La funzione d’insegnare

La Chiesa ha come missione insegnare la fede cattolica. Una dottrina che non è sua ma che ha ricevuto in deposito da Cristo Signore e che, con l’assistenza dello Spirito Santo, Ella custodisce, approfondisce e insegna fedelmente.

Predicare il Vangelo a tutte le genti è un dovere e un diritto proprio della Chiesa che Ella compie con indipendenza da qualsiasi potestà umana; questo insegnamento si riferisce alla verità rivelata, e ai principi morali da essa derivanti sul comportamento umano a livello personale e anche sociale. Di conseguenza la Chiesa può dare un giudizio morale su qualsiasi realtà umana, dichiarando se sia conforme o contraria al Vangelo (c. 747).

Le conseguenze giuridiche del fatto che Dio ha affidato alla Chiesa la sua parola sono diverse. La più importante è che la Chiesa stessa è fondata e strutturata dalla parola di Dio, dalla quale attinge la verità su se stessa. D’altra parte custodire e trasmettere la parola divina implica specifici diritti e doveri per ciascun fedele a seconda della sua condizione e situazione nella Chiesa.

Poiché Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvi ed arrivino alla conoscenza della verità" (1 Tim 2,4), essi hanno di fronte al Signore il dovere di ricercarla e, una volta conosciuta, di osservarla. Ma si tratta di un dovere che tocca e vincola la coscienza di ciascun uomo, e poiché "la verità non si impone che in forza della verità stessa" (DH 1), vale per tutti il diritto di non essere costretti ad abbracciare la fede contro la propria coscienza (c. 748). In questo contesto di libertà religiosa la Chiesa compie la sua funzione di predicare Gesù Cristo e il suo Vangelo, parola viva ed efficace, destinata, con la grazia di Dio, a coinvolgere la vita degli ascoltatori; pertanto la funzione di insegnare non è mai semplice comunicazione di idee o di informazioni.

a) Il magistero ecclesiastico

È l’ufficio di interpretare ed esporre la parola di Dio autenticamente, cioè con autorità e nel nome di Gesù Cristo. Questo ministero fu affidato da Gesù agli Apostoli i quali lo trasmisero ai loro successori, cioè il Romano Pontefice e i vescovi in comunione con lui (cfr. DV 10, CCC 85 e 100).

La funzione di magistero viene esercitata dai Pastori con diversa autorità e in diverse maniere.

Secondo l’autorità il magistero è:

- autentico quando si esercita in virtù del proprio ufficio nella Chiesa; è privato quello che si fa come dottore privato e quindi non è magistero ecclesiastico.

- Il magistero autentico è infallibile quando per una speciale assistenza dello Spirito Santo non può errare nell’insegnare una dottrina sulla fede o sui costumi. Esercitano il magistero infallibile in primo luogo il Papa quando, nell’esercizio del suo Primato, proclama con atto definitivo che una dottrina deve tenersi come infallibilmente definita (c. 749 § 1). Anche il Collegio dei Vescovi è soggetto del magistero infallibile, quando agisce sia in modo solenne (radunato in Concilio Ecumenico) che in modo ordinario (i Vescovi dispersi per il mondo in comunione tra loro e con il Capo del Collegio), allorché dichiarano e insegnano che una dottrina si deve tenere come definitiva. Nessuna dottrina si deve tenere come infallibilmente definita se ciò non consta manifestamente (c. 749 §§ 2 e 3).

- Il magistero semplicemente autentico è la dottrina circa la fede e i costumi che insegnano per tutta la Chiesa il Papa e il Collegio episcopale, quando non intendono dichiararla in modo definitivo. Lo è anche il magistero particolare dei Vescovi in comunione col Romano Pontefice sia come singoli sia radunati nelle Conferenze episcopali o nei concili particolari.

Secondo il modo il magistero è:

- solenne quando un insegnamento si esprime in modi o con formule solenni. Così è l’insegnamento dei Concili ecumenici e quello del Romano Pontefice quando insegna ex cathedra.

- oppure ordinario, quando si esercita attraverso mezzi ordinari di espressione (encicliche, pastorali, ecc.).

Secondo la portata il magistero è:

- universale se un insegnamento è proposto a tutta la Chiesa dal Romano Pontefice o dal Collegio dei Vescovi.

- è invece particolare quello proposto a una parte dei fedeli dai loro Pastori.

Obblighi riguardo alla dottrina cattolica

I fedeli sono vincolati al magistero autentico. Attraverso l’adesione agli insegnamenti dei Pastori anche il popolo cristiano testimonia l’infallibilità della Chiesa giacché "la totalità dei fedeli... non può sbagliarsi nel credere..., quando ‘dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici’ esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi" (LG 12).

Si deve prestare un assenso di fede a tutte le verità contenute nella parola di Dio (scritta o tramandata) che sono proposte come divinamente rivelate dal magistero universale dalla Chiesa, sia in modo solenne sia in modo ordinario.

Negare, contraddire o dubitare ostinatamente su alcuna di queste verità di fede costituisce eresia, mentre il ripudio totale di esse è apostasia; si chiama invece scisma il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti (c. 751). Questi peccati contro la fede e contro la comunione ecclesiastica, se manifestati esteriormente sono anche delitti che comportano automaticamente la scomunica (c. 1364).

Si devono accogliere con religioso ossequio dell’intelletto e della volontà le dottrine insegnate dal Sommo Pontefice e dal Collegio dei Vescovi con magistero autentico anche se non intendono definirle come divinamente rivelate. Chi respinge una dottrina così proposta si oppone all’autorità della Chiesa e può anche essere punito (c. 752).

Entro il suo ambito particolare si deve anche accogliere con religioso ossequio il magistero autentico dei Vescovi in comunione col Romano Pontefice e con gli altri membri del Collegio, sia come singoli sia riuniti in Conferenze episcopali o in concili particolari (c. 753).

Infine tutti i fedeli devono osservare le costituzioni e i decreti dell’autorità ecclesiastica, specie se emanati dal Papa o dal Collegio episcopale, che espongono una dottrina o condannano errori (c. 754).

Va detto poi che l’insegnamento della Chiesa si rivolge oltre che ai fedeli anche a tutti gli uomini in modo che tutti possano conoscere con certezza le verità su Dio e sulla sua Chiesa, e anche i principi morali che sorgono dalla stessa natura dell’uomo e della società e che sono quindi validi per tutti.

In certe occasioni i fedeli devono esplicitamente manifestare la loro adesione alla dottrina cattolica; tra queste si annoverano i casi in cui il diritto richiede che si debba emettere la professione di fede. Sono quelli elencati al c. 833: i partecipanti ad un concilio o sinodo, i promossi al cardinalato, episcopato o diaconato, gli insegnanti di scienze ecclesiastiche, i parroci, i Superiori di istituti di vita consacrata, ecc.

b) L’ecumenismo

Si dà il nome di ‘movimento ecumenico’ alle attività e iniziative intraprese al fine di ristabilire l’unità dei cristiani, come incontri di dialogo o di preghiera, collaborazione, ecc., con le altre comunità cristiane (UR 4).

Tutti i fedeli devono cooperare a questo fine secondo le loro possibilità; ma promuovere, incanalare e dirigere le concrete iniziative spetta in primo luogo "a tutto il Collegio dei Vescovi e alla Sede Apostolica" e, tenendo conto di quanto stabilito da essi, anche ai singoli Vescovi e alle Conferenze episcopali (c. 755).

c) Il ministero della parola divina

Annunziare il Vangelo è compito di tutta la Chiesa; "a tutti i fedeli è quindi imposto il nobile onere di lavorare affinché il divino messaggio di salvezza sia conosciuto e accettato da tutti gli uomini e su tutta la terra" (AA 3). In questa comune responsabilità ogni fedele partecipa nel modo e con l’autorità e responsabilità, pubblica o privata, corrispondenti alla sua situazione nella Chiesa.

Il ministero pubblico della parola incombe in primo luogo ai Pastori che hanno la responsabilità di esporre integramente e con autorità il messaggio di salvezza al popolo loro affidato e a tutti gli uomini. Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi lo compiono nei riguardi della Chiesa universale; i singoli Vescovi nella Chiesa particolare loro affidata (c. 386 § 1). Di essi sono cooperatori i presbiteri, specialmente i parroci (c. 528 § 1, gli altri che hanno cura di anime e i diaconi (cc. 756-757).

Sorretti dagli insegnamenti dei Pastori gli altri fedeli possono compiere la parte che spetta loro nel ministero della parola. I fedeli consacrati, in forza della loro consacrazione, rendono una peculiare testimonianza del Vangelo che esprime insieme il loro particolare carisma; essi possono essere chiamati dal Vescovo in aiuto per annunziare il Vangelo (c. 758).

I laici, in forza del battesimo e della confermazione, hanno anche il diritto e il dovere di diffondere la verità cristiana con la parola e con l’esempio; ad essi spetta soprattutto far sì che il messaggio evangelico arrivi a tutti gli ambienti in modo che le realtà temporali siano illuminate con la luce del Vangelo e ordinate secondo il volere di Dio (c. 759). "Perciò -chiede il Concilio Vaticano II- i laici si applichino con diligenza all’approfondimento della verità rivelata e impetrino insistentemente da Dio il dono della sapienza" (LG 35).

I mezzi usati nel ministero della parola sono svariati; speciale importanza hanno la predicazione e la catechesi, mezzi tradizionalmente usati nella Chiesa e regolati specificamente dal diritto canonico; ma esso si occupa anche delle scuole e di altri strumenti di comunicazione sociale, che la Chiesa ha il diritto di avere e di utilizzare.

1) La predicazione

È l’esposizione autorevole della dottrina al popolo radunato. Gia dai primi esordi della Chiesa troviamo i discepoli ed altri riuniti per ascoltare la predicazione di S. Pietro e degli altri Apostoli, sui quali lo Spirito Santo era disceso riempendoli dei suoi doni. Allora si manifestò la divina efficacia della parola recepita dagli ascoltatori non come parola di uomini ma come quello che in realtà è: parola di Dio.

Così avviene nella Chiesa radunata per udire la parola di salvezza dai sacri ministri che hanno il dovere di annunziare a tutti il Vangelo. La predicazione è una funzione tipica dei chierici (c. 762).

Il compimento di questo ministero è regolato dalla legge. Possiamo distinguere: a) chi può predicare e a quali condizioni, e b) chi deve predicare o organizzare la predicazione.

a) Tutti i Vescovi hanno il diritto di predicare ovunque a meno che il Vescovo del luogo non si opponga espressamente (c. 763).

I presbiteri e i diaconi hanno la facoltà di predicare dovunque ma tale facoltà può essere limitata o tolta dal proprio Ordinario o da una legge. Ad es. per predicare ai religiosi nelle loro chiese o oratori devono ottenere licenza del Superiore (cc. 764-765).

I laici possono essere ammessi a predicare in casi concreti di necessità o di speciale utilità e secondo le disposizioni della Conferenza Episcopale. Svolgono in questi casi un ruolo di supplenza, non una funzione propria dei laici ma una collaborazione al ministero gerarchico. L’omelia però essendo una predicazione liturgica è riservata ai chierici, per cui i laici non la possono mai fare (c. 766).

b) I pastori (cioè quei chierici che hanno un’incarico di cura di anime: Vescovo diocesano, parroco, cappellano, ecc.) devono predicare al popolo loro affidato. A questi spetta pure di organizzare la predicazione nel loro ambito.

A questo scopo il Vescovo diocesano può dare norme nella sua diocesi. Il parroco organizza la predicazione nella sua parrocchia, e il rettore nella sua chiesa, ecc., in modo che tutti, anche quelli lontani dalla Chiesa, ricevano l’annuncio della parola in maniera adatta alle loro condizioni di vita.

L’omelia come parte della liturgia è una forma eminente di predicazione; rappresenta un’occasione privilegiata di esporre al popolo radunato la parola di Dio in modo integrale e sistematico lungo il corso dell’anno liturgico. Per questo il diritto comanda che si tenga l’omelia nelle feste di precetto, e la raccomanda anche negli altri giorni specie se c’è un particolare motivo (festa, avvento, quaresima, ecc.). Altre forme di predicazione come gli esercizi spirituali, i ritiri, le missioni, si devono organizzare secondo la necessità o la convenienza.

Quanto al contenuto, nella predicazione si deve spiegare ai fedeli quanto si deve credere e fare per la gloria di Dio e la salvezza degli uomini, incluso il magistero della Chiesa sulla persona umana, la famiglia, la società civile, la giustizia sociale.

2) La catechesi

È L’insegnamento sistematico della dottrina e della vita cristiana, per mezzo del quale "la fede diventa viva, esplicita e operativa" (CD, 14; c. 773). Nella Chiesa ha particolare rilevanza la catechesi della iniziazione cristiana e in generale quella che precede la ricezione dei sacramenti, ma tutta la vita dei fedeli deve essere accompagnata dalla catechesi.

Nella catechesi devono prendere parte attiva tutti i fedeli, ciascuno secondo il suo ruolo nella Chiesa e sotto la guida dell’autorità legittima.

I genitori hanno prima di tutti il diritto e il dovere dell’educazione cristiana dei loro figli (c. 226 § 2), alla quale provvedono con la catechesi familiare che devono fare con la parola e con l’esempio, ma anche con l’aiuto di altri (scuola, parrocchia, ecc.). Questo diritto-dovere fa parte di quello più ampio dell’educazione della prole, che è di ordine naturale.

Nella diocesi spetta al Vescovo ordinare la catechesi con apposite norme riguardanti sia i contenuti che il modo, come pure gli strumenti da usare.

Il parroco, seguendo le direttive del Vescovo, deve organizzare la formazione catechistica dei diversi gruppi di persone (fanciulli, giovani, adulti, handicappati, ecc.), come pure quella di preparazione ai sacramenti. In questo lavoro egli può chiedere la collaborazione di membri di istituti di vita consacrata e di laici, che sono invitati a prestare il loro contributo secondo la loro condizione e le loro possibilità. L’incarico di catechista è un modo proprio dei laici di cooperare nel ministero della parola. A questo fine i fedeli devono acquisire la preparazione necessaria ed esercitarlo in unione coi Pastori (c. 776).

Gli strumenti della catechesi possono essere molti: tra di essi hanno particolare tradizione e rilievo i catechismi dei quali si è sempre servito la Chiesa per la pedagogia della fede. Sono sintesi ordinate e complete della dottrina cristiana che espongono le verità del simbolo della fede (credo), i comandamenti, i sacramenti e il Padre nostro (preghiera).

Alla Santa Sede compete dare disposizioni sui catechismi e pubblicare catechismi per la Chiesa universale, come ha fatto di recente con il Catechismo della Chiesa cattolica (1992). Le Conferenze episcopali possono divulgare catechismi nazionali con l’approvazione della Sede Apostolica, ed anche preparare sussidi catechistici per le diocesi. Il Vescovo diocesano può anche pubblicare un catechismo per la sua diocesi.

Oltre ai catechismi ufficiali possono esserne altri preparati da privati che però devono essere approvati dall’Ordinario locale (c. 827 § 1).

3) Le missioni

Per annunziare il Vangelo a tutti i popoli la Chiesa invia annunciatori in quelle regioni o gruppi dove la parola di Dio non è ancora conosciuta o dove la Chiesa non è ancora radicata.

Tutti i membri della Chiesa sono responsabili, secondo la vocazione e il modo proprio di ciascuno, dell’azione missionaria tesa a far nascere nuove Chiese particolari e aiutare a crescere quelle giovani finché possano contare su forze e mezzi propri.

Spetta al Romano Pontefice e al Collegio dei Vescovi la suprema direzione e organizzazione dell’attività missionaria. Il Papa si serve per questo principalmente della Congregazione per l’evangelizzazione dei Popoli (de propaganda Fide; c. 782 § 1).

L’organizzazione delle nuove Chiese di missione ha tratti particolari di maggiore dipendenza e aiuto dalla Santa Sede, che segnano i passi da una Chiesa nascente o in formazione alla Chiesa particolare già formata. Le Chiese di missione dipendono dalla Congregazione de propaganda Fide; quando, una volta maturate, non sono più di missione passano alle dipendenze della Congregazione per i Vescovi o a quella per le Chiese Orientali.

A livello diocesano spetta al Vescovo suscitare, favorire e sostenere le iniziative missionarie nella diocesi, anche come manifestazione della peculiare sollecitudine per tutte le Chiese che incombe su ogni membro del Collegio episcopale. Il Vescovo diocesano deve quindi promuovere le vocazioni missionarie, la preghiera e i contributi materiali dei fedeli per le missioni (c. 782 § 2).

L’aiuto missionario alle nuove Chiese si compie attraverso l’invio di missionari. Questi sono fedeli di qualsiasi condizione (chierici, consacrati, laici) che manifestano la loro disponibilità e sono mandati dall’autorità ecclesiastica a compiere il lavoro apostolico missionario (c. 784). Alcuni istituti di vita consacrata e società di vita apostolica hanno come fine specifico le missioni; anche alcune diocesi inviano parte del suo clero e ci sono associazioni e movimenti di fedeli che pure preparano missionari perché possano essere mandati, almeno temporaneamente, in territori di missioni.

Va rilevato tuttavia che oggi, a causa della forte scristianizzazione che hanno subito, non pochi territori tradizionalmente cattolici hanno bisogno di una nuova evangelizzazione, per cui lo sforzo missionario dei fedeli richiede spesso l’impegno diretto di essi nello stesso ambiente proprio.

Nel territorio di missione spetta al Vescovo del luogo guidare l’azione missionaria, anche con norme obbligatorie per tutti, e attraverso apposite convenzioni con gli istituti che si dedicano alle missioni, in modo da stabilire chiaramente i rapporti e la collaborazione con essi (c. 790).

d) L’educazione cattolica

Educare è trasmettere conoscenze e criteri di ragionamento e comportamento in modo adeguato alla natura della persona: essere razionale, libero, sociale e trascendente, chiamato a sviluppare e usare le proprie doti nella ricerca della felicità propria e altrui. In questa prospettiva l’educazione è sempre formazione e non è mai mera informazione.

L’educazione cattolica è quella che propone all’uomo una visione cristiana della realtà, integrando nel sapere le verità rivelate e le esigenze morali che esse comportano. Questa specifica educazione si può compiere in svariati mezzi e modi (l’importante è la sostanza).

L’educazione cattolica interessa il diritto della Chiesa sotto diversi aspetti: in primo luogo, chi ha il diritto e dovere di educare; in secondo, l’organizzazione dei mezzi attraverso i quali assolvere questo compito (le scuole e l’insegnamento della religione).

Come si è già detto il diritto-dovere di educare i figli compete per legge di natura in primo luogo ai genitori. Per i genitori cattolici tale compito comprende l’educazione cattolica dei figli; essi hanno pure il diritto e la responsabilità di scegliere i mezzi e le istituzioni di cui avvalersi a tale scopo, e non devono permettere che i loro figli siano educati in una religione non cattolica (cc. 793 e 1366).

Su un altro piano anche la Chiesa ha il diritto e dovere di educare poiché ciò fa parte della sua missione di insegnare la vita cristiana a tutte le genti (c. 794). Nella sua libertà è inclusa la possibilità di offrire a tutti (in primo luogo ai fedeli) l’educazione cattolica anche promuovendo centri docenti di qualsiasi genere e livello (cc. 800 § 1 e 807).

Anche la società civile, che ha come fine il bene temporale di tutti i suoi membri, ha diritti e doveri riguardo alla loro educazione; a questo fine lo Stato come promotore del bene comune esercita certe competenze di organizzazione e coordinamento, ma non è direttamente chiamato a educare bensì a fare in modo che tutti possano fruire il diritto all’educazione. La società e lo Stato devono riconoscere la libertà di scelta dei genitori e rendere possibile l’esercizio effettivo di essa, anche per quanto riguarda l’educazione religiosa dei figli (cc. 797, 799).

La Chiesa assolve in molti modi il suo compito educativo. Adesso ci interessano soprattutto due: l’insegnamento della religione cattolica e le scuole cattoliche. Bisogna quindi distinguere tra le istituzioni educative della Chiesa, e la religione cattolica come materia oggetto di insegnamento che viene offerto anche da scuole non cattoliche (statali o private).

1) L’insegnamento della religione cattolica

Il deposito della fede è stato affidato da Dio alla sua Chiesa che ha anche il compito di trasmetterla; quindi l’insegnamento della religione cattolica è sottoposto all’autorità ecclesiastica qualunque sia il mezzo o istituzione tramite il quale esso venga compiuto. Infatti la garanzia di autenticità dell’educazione religiosa cattolica spetta alla gerarchia ecclesiastica (c. 804). Sotto la sua guida i fedeli trovano in questo campo una concreta possibilità di collaborare alla funzione di insegnare della Chiesa.

Le competenze sull’insegnamento religioso sono affidate dal Codice alla Conferenza episcopale e al Vescovo diocesano. Alla Conferenza spetta dare norme generali su di esso e al Vescovo regolarlo ulteriormente e vigilare il suo svolgimento. Queste competenze riguardano gli insegnanti di religione (di materie religiose) e i contenuti. In alcuni paesi questa materia è anche oggetto di concordato tra la Chiesa e lo Stato, garantendo così il diritto della Chiesa alla propria identità.

L’Ordinario della diocesi ha il diritto di nominare o di approvare gli insegnanti di religione: a tale scopo possono essere fissati criteri di idoneità e di coerenza di vita cristiana per i docenti, anche con la possibilità di chiedere la loro rimozione ove venisse a mancare la fedeltà alla fede o alla morale (c. 805).

Riguardo ai contenuti il diritto canonico esige che i testi per lo studio delle discipline religiose o morali siano approvati dall’autorità ecclesiastica (c. 827 § 2).

Oltre a questo il concordato tra le autorità ecclesiastiche e civili può determinare con più precisione questa materia (idoneità e nomina dei professori, programmi, orari, ecc.).

2) Le scuole cattoliche

Sono quelle dirette dall’autorità ecclesiastica o da una persona giuridica ecclesiastica pubblica e anche quelle riconosciute come scuole cattoliche dall’autorità ecclesiastica con documento scritto (c. 803 § 1). Queste scuole per il fatto che sono garantite dalla Chiesa e agiscono in un certo senso in suo nome, sono sottomesse alle relative norme canoniche ed al controllo dell’autorità, alla quale spetta concederle, negarle o revocarle il titolo di cattolica.

Ciò non vuole dire che le uniche scuole che impartiscono educazione cattolica siano queste scuole vincolate alla Chiesa. Ci sono altre che pur non essendo scuole cattoliche, e quindi indipendenti come tali dalla gerarchia ecclesiastica, educano gli studenti secondo la religione cattolica.

La Chiesa rivendica a sè il diritto di fondare e dirigere scuole di qualsiasi disciplina genere e livello (asili, scuole, licei); i fedeli sono chiamati a cooperare al loro sostenimento (c. 800). Nella Chiesa ci sono diverse istituzioni, di vita consacrata e non, che hanno come fine l’educazione anche attraverso scuole proprie, che possono fondare col consenso del Vescovo diocesano (c. 801).

A lui compete dare norme generali per tutte le scuole cattoliche che sono nella diocesi, visitarle e vigilare perché l’insegnamento che danno sia basato sulla dottrina cattolica e i docenti siano persone esemplari. Si deve curare altresì che la qualità dell’istruzione impartita sia per lo meno pari a quella delle altre scuole del luogo.

I genitori cattolici possono scegliere o meno una scuola cattolica per i loro figli, ma devono sempre curare la loro effettiva educazione cattolica; per cui dove non ci siano scuole che garantiscano tale insegnamento dovranno provvedere con altri mezzi.

3) Università cattoliche e altri istituti di studi superiori

Il diritto canonico regola anche gli istituti docenti di livello superiore (università di studi ed altri) promossi e diretti dalla Chiesa, al fine di garantire l’autenticità del loro operato. Possono essere promossi dalla Santa Sede, dalla Conferenza episcopale, dalla diocesi o da un’altra persona canonica pubblica.

Come per le scuole nessuna università o istituto può chiamarsi cattolico senza il consenso dell’autorità ecclesiastica (c. 808), la quale ha il dovere di vigilare che in essi siano rispettati i principi della dottrina cattolica e che i docenti conducano una vita retta; altrimenti possono essere rimossi (c. 810). Entro queste direttive godono di autonomia scientifica e si reggono secondo i propri statuti approvati dalla medesima autorità.

Le università cattoliche si occupano dell’insegnamento e ricerca delle diverse scienze sacre e profane; speciale rilievo si deve dare al dialogo tra le diverse discipline in modo da manifestare l’unità del sapere e la continuità tra fede e ragione. Un dialogo che deve essere aperto alle università non cattoliche procurando che anche in esse si dia spazio alle scienze sacre.

Oltre ai requisiti di idoneità e competenza, per insegnare scienze teologiche a livello superiore i docenti devono avere il mandato della competente autorità ecclesiastica, poiché si tratta di una partecipazione alla funzione di insegnare della Chiesa che si deve esercitare in comunione e sotto la guida della gerarchia (c. 812).

Centri di studi superiori sono quelli che senza essere università si occupano a livello scientifico di alcune discipline specifiche (facoltà, istituti, ecc.). Ad essi si applicano nel loro ambito le stesse norme che vigono per le università.

4) Università e facoltà ecclesiastiche

Le università e facoltà ecclesiastiche si occupano specificamente delle scienze sacre o connesse (teologia, Sacra Scrittura, diritto canonico, pastorale, ecc.; c. 815).

Relativamente a questi centri di studi la Santa Sede si è riservata ampie competenze poiché l’insegnamento delle discipline sacre, il conferimento di gradi in esse con valore canonico e il ruolo che svolgono nella formazione dei chierici, membri di istituti di vita consacrata e laici, hanno una notevole ripercussione per tutta la Chiesa e per l’unità della fede. Concretamente alla Sede Apostolica spetta (cc. 816-817):

- Erigere o approvare queste istituzioni anche se sono state promosse da altre istituzioni ecclesiali (diocesi, Conferenza episcopale, istituti di vita consacrata, associazioni di fedeli). Senza l’erezione o approvazione della Santa Sede nessuna università o facoltà può validamente rilasciare titoli o conferire gradi con effetti canonici.

- Approvare i loro statuti e piani di studi.

- La superiore direzione di tutte le università e facoltà ecclesiastiche, alla quale si devono adeguare le autorità proprie di ciascuna.

- Vigilare sulla correttezza dottrinale dell’insegnamento e dei docenti così come sulla probità di vita di questi, chiedendo la loro rimozione se questi requisiti vengono a mancare.

Diversi da queste università e facoltà sono gli istituti superiori di scienze religiose nei quali vengono insegnate le discipline teologiche e le altre concernenti la cultura cristiana. Questi istituti devono essere promossi o almeno approvati dalla Conferenza episcopale o dal Vescovo diocesano a seconda del loro ambito; in accordo con le norme date da questi conferiscono titoli per l’insegnamento delle scienze sacre nelle scuole (c. 821).

Il diritto di tutti i fedeli alla formazione cattolica (c. 217) include la possibilità di iscriversi, alle condizioni previste, nelle Facoltà o Istituti di studi superiori, di ottenere i relativi gradi (diploma, licenza, dottorato) e anche di poter diventare professori di scienze sacre.

e) I mezzi di comunicazione, i libri

La Chiesa ha il diritto di utilizzare i propri mezzi di comunicazione per diffondere la dottrina del Vangelo. Inoltre tutti i fedeli, pastori e non, secondo le loro possibilità, devono adoperarsi perché attraverso i mezzi di comunicazione sociale si espongano con fedeltà le verità della fede e della morale cattoliche (c. 822).

Da parte loro i pastori della Chiesa, ciascuno nel proprio ambito, hanno il diritto e il dovere di vigilare affinché l’uso degli strumenti di comunicazione non arrechi danno alla formazione dei fedeli. Tra l’altro essi devono:

- Segnalare, riprovandoli, gli scritti e altro che siano contrari alla retta dottrina o al buon costume. I fedeli da parte loro hanno il dovere morale di astenersi dall’usare i mezzi riprovati dall’autorità competente.

- Esigere che i fedeli sottomettano all’approvazione dell’Ordinario del luogo, prima della pubblicazione, i loro scritti riguardanti la fede o la morale.

Queste competenze di vigilanza spettano per tutta la Chiesa alla suprema autorità, e ai Vescovi singolarmente o riuniti in concili particolari o Conferenze episcopali, riguardo ai fedeli affidati alla loro cura pastorale (c. 823).

Concretamente il Codice stabilisce che:

- Le edizioni di libri della Sacra Scrittura siano approvate dalla Santa Sede o dalla Conferenza episcopale. Le loro versioni in lingua corrente o le versioni ecumeniche devono inoltre essere corredate da note e spiegazioni sufficienti (c. 825).

- I libri liturgici devono essere pubblicati dalla Santa Sede. Le loro versioni in lingua corrente saranno preparate dalla Conferenza episcopale ed autorizzate dalla Sede Apostolica. Per altre edizioni di essi, totali o parziali, l’Ordinario del luogo di edizione deve attestare che concordano con l’originale approvato (cc. 826 e 828).

- I libri di preghiere per uso pubblico non si devono pubblicare senza licenza dell’Ordinario del luogo.

- I catechismi e gli altri libri di catechesi devono avere l’approvazione dell’Ordinario del luogo; tranne quelli preparati dalla Santa Sede, dalla Conferenza episcopale o dal Vescovo diocesano (c. 775).

- I testi per l’insegnamento nelle scuole che toccano questioni di religione o costume devono essere approvati dalla competente autorità ecclesiastica (Ordinario diocesano o Conferenza episcopale; c. 827).

- L’edizione di testi legislativi o di atti dell’autorità richiede la previa licenza della medesima (c. 828).

- Nelle chiese e oratori si possono vendere, dare o esporre solo libri pubblicati con licenza dell’autorità (c. 827 § 4).

Per gli altri testi scolastici e per gli scritti che toccano specificamente questioni religiose o morali, si raccomanda che essi vengano sottoposti al giudizio dell’Ordinario del luogo (c. 827 § 3).

Per ottenere la licenza o approvazione di uno scritto, questo si deve inviare all’Ordinario del luogo dell’autore o di pubblicazione. L’Ordinario lo sottopone all’esame di un censore esperto il quale gli deve dare per scritto il suo parere riguardo alla correttezza dottrinale dell’opera. Con base in tale responso l’Ordinario darà o meno la licenza per la pubblicazione. Se la decisione fosse negativa egli deve comunicare all’autore le motivazioni (c. 830). I religiosi devono inoltre ottenere la licenza del proprio Superiore.

I fedeli non devono collaborare senza giusta causa a giornali, riviste o altre pubblicazioni che sogliono attaccare la religione o il buon costume; i chierici e i consacrati devono inoltre avere licenza dell’Ordinario del luogo.

IX. I mezzi della salvezza: il culto divino

1- La funzione di santificare della Chiesa

La Chiesa è anche una comunità cultuale. Attraverso la liturgia essa rende culto pubblico a Dio e realizza la santificazione degli uomini (CCC 1066 ss.).

Atti di culto pubblico sono quelli che si compiono a nome della Chiesa, dai ministri legittimi e secondo i riti approvati dalla Chiesa (c. 834 § 2). Parte principale del culto sono i sacramenti, dei quali l’Eucaristia è il centro. Accanto ad essi stanno gli altri atti di culto pubblico.

In quest’opera di santificazione la Chiesa agisce come Corpo unito al suo Capo, Gesù Cristo unico Sacerdote e mediatore, del cui sacerdozio sono resi partecipi tutti i fedeli, in modi però essenzialmente diversi. Tutti i battezzati hanno ricevuto il sacerdozio comune, i membri della gerarchia secondo il grado del sacramento dell’ordine che hanno ricevuto partecipano al sacerdozio ministeriale.

I Vescovi che hanno ricevuto la pienezza del sacerdozio sono i principali dispensatori dei misteri di Dio: essi sono i moderatori, promotori e custodi della liturgia. I presbiteri sono anche sacerdoti, consacrati per celebrare il culto e santificare il popolo sotto l’autorità dei Vescovi. I diaconi non sono sacerdoti ma ministri del culto, chiamati servire secondo il loro ministero.

Gli altri fedeli in forza del battesimo sono chiamati, mediante il retto compimento di tutte le loro opere, ad offrire sacrifici spirituali in unione con l’oblazione di Cristo nell’Eucaristia, e a partecipare alla liturgia secondo le modalità previste (c. 835).

La partecipazione e l’esercizio del sacerdozio di Cristo che si attua nella liturgia della Chiesa ha anche diversi risvolti giuridici. In primo luogo, i sacramenti sono elemento strutturante la Chiesa stessa. Basti pensare al battesimo che costruisce il Popolo di Dio, e all’ordine sacro che in esso costituisce la gerarchia. In secondo luogo, i sacramenti stabiliscono determinate qualità, funzioni, diritti e doveri di coloro che li ricevono o sono chiamati a riceverli o ad amministrarli. Infine, il culto in quanto azione di tutta la Chiesa deve essere ordinato e regolato in maniera che sia veramente espressione della fede e nutrimento spirituale.

Regolare la liturgia e vigilare il suo corretto svolgimento compete all’autorità ecclesiastica: alla Sede Apostolica per tutta la Chiesa e al Vescovo diocesano per la sua diocesi. Le norme su questa materia sono contenute nei libri liturgici pubblicati dalla Santa Sede. La versione di essi nelle lingue correnti e il loro adattamento alle consuetudini del luogo spetta alla Conferenza episcopale con l’approvazione della Santa Sede. Il Vescovo diocesano può dare altre norme precisando quelle contenute nei libri liturgici (c. 838).

2- I sacramenti

Sono segni sensibili realizzati da Cristo attraverso la Chiesa grazie ai quali si rende culto a Dio e si realizza la santificazione degli uomini. Essi esprimono e confermano la fede e la comunione ecclesiastica. Gli aspetti fondamentali dei sacramenti sono di natura teologica (biblica, dogmatica, morale, pastorale ecc.; cfr. CCC 1113 ss.), ma proprio per tutelare tale realtà, che è parte fondamentale del bene comune della Chiesa, la loro adeguata celebrazione è regolata dal diritto.

Ad es. la dottrina ci insegna che tre sacramenti (battesimo, confermazione e ordine) imprimono un carattere indelebile nel ricevente, non possono quindi essere ripetuti; di qui la normativa del c. 845 che proibisce tale ripetizione e stabilisce il da farsi nel caso ci sia un dubbio se uno abbia ricevuto validamente uno di questi tre sacramenti.

I sacramenti sono gli stessi per tutta la Chiesa e appartengono al deposito della rivelazione. La loro sostanza è immutabile, perciò compete soltanto alla suprema autorità (Romano Pontefice e Collegio dei Vescovi) determinare quali sono i requisiti per la loro validità. Invece per quel che riguarda la liceità e il rito da seguire nella celebrazione, sono anche competenti la Conferenza episcopale e il Vescovo diocesano nel rispetto delle norme date dalla Sede Apostolica (c. 841).

La pastorale della Chiesa è imperniata principalmente sui sacramenti, perciò la disciplina canonica dei sacramenti si occupa soprattutto del rapporto che in questa materia si stabilisce tra Pastori e fedeli: di stabilire cioè le regole per la loro valida e lecita celebrazione e per la fruttuosa partecipazione ad essi dei fedeli, sicché questi possano ricevere la abbondanza di grazia che nei sacramenti gli viene offerta.

Abbiamo visto (cap. V) che uno dei diritti fondamentali dei fedeli è quello di "ricevere dai sacri Pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai sacramenti" (c. 213). Ribadendo questo diritto il c. 843 stabilisce che i ministri non possono negare i sacramenti a coloro che li chiedano opportunamente, siano ben disposti e non abbiano impedimento. Inoltre i pastori e gli altri fedeli, ciascuno secondo il proprio compito, devono cooperare perché tutti quelli che sono chiamati a ricevere i sacramenti acquisiscano l’adeguata preparazione.

Tra i sacramenti c’è una relazione; al centro di tutti sta l’Eucaristia. Battesimo, cresima ed Eucaristia sono i sacramenti dell’iniziazione cristiana, quelli cioè che incorporano pienamente il fedele alla Chiesa (CCC 1212).

Qui di seguito vedremo le principali norme riguardanti i singoli sacramenti. Alla trattazione del sacramento del matrimonio verrà dedicato maggiore spazio anche per l’attenta riflessione che da esso è offerta dal Codice.

a) Il battesimo

Il battesimo è il sacramento della rigenerazione alla vita della grazia che ci costituisce figli di Dio in Gesù Cristo e membra del suo Corpo la Chiesa. Esso è la porta degli altri sacramenti per cui chi non lo ha ancora ricevuto non può ricevere validamente gli altri (c. 842 § 1; cfr. CCC 1213 ss.).

Fuori della Chiesa non c’è salvezza, perciò il battesimo è assolutamente necessario; ma lo si può ricevere spiritualmente mediante il desiderio ed anche per il martirio (CCC 1257-1261). Il Codice tratta del battesimo di acqua da celebrarsi secondo il rito stabilito (c. 849). Da questa necessità del battesimo sorgono i principali diritti e doveri intorno a questo sacramento:

- nell’urgenza si possono lecitamente sopprimere tutti i riti non essenziali (essenziali sono l’effusione dell’acqua e la formula trinitaria; cfr CCC 1239-1240).

- ogni uomo ancora non battezzato ha il diritto di divenirlo se lo desidera, e se non ancora preparato, ha diritto all’istruzione catechistica opportuna.

- i genitori hanno il diritto e il dovere di provvedere che i loro figli vengano battezzati nelle prime settimane, per cui già prima della nascita devono chiedere il battesimo del figlio e prepararsi debitamente. Se il bambino è in pericolo di morte deve essere battezzato immediatamente anche contro la volontà dei genitori.

- in caso di necessità chiunque può battezzare, da qui l’importanza che i fedeli (specie gli operatori sanitari) sappiano amministrare il battesimo correttamente (c. 861 § 2).

- i bambini esposti o trovatelli devono essere battezzati se non consta chiaramente del loro battesimo. Si devono pure battezzare, nei limiti del possibile, i feti abortivi (cc. 870 e 871).

- se c’è dubbio persistente sull’avvenuta ricezione del battesimo o sulla validità del medesimo si deve amministrare sotto condizione (c. 869).

Soggetto del battesimo è ogni uomo non ancora battezzato. Può trattarsi di un bambino o di un adulto (intendendoci qui adulto chi ha compiuto i 7 ani).

Per il battesimo di un adulto è necessario che questo liberamente acconsenta. Inoltre, egli deve essere istruito nella fede e provato nella vita cristiana, seguendo ordinariamente i passi del catecumeno; ma se fosse in pericolo di morte può essere battezzato qualora abbia in qualche modo manifestato il suo desiderio, spiegandogli brevemente le principali verità e i comandamenti (c. 865).

Perché un bambino sia battezzato lecitamente deve acconsentire almeno uno dei genitori, e ci deve essere speranza che sarà educato nella religione cattolica; altrimenti è meglio che il battesimo venga differito spiegando le ragioni ai genitori.

Ministro ordinario del battesimo è qualsiasi chierico; ordinariamente il battesimo spetta al parroco del luogo come una delle sue funzioni. In mancanza di ministro ordinario l’incarico di battezzare può essere affidato ad altri (missionario, catechista, ecc.). Il battesimo degli adulti deve essere deferito al Vescovo diocesano affinché, se lo ritiene opportuno, lo amministri personalmente.

I padrini hanno il compito, insieme ai genitori, di presentare il battezzando e di assisterlo nell’iniziazione cristiana aiutandolo a condurre una vita coerente. Sono designati dallo stesso battezzando o dai suoi genitori (oppure se questi mancano, dal parroco o dal ministro), non devono essere più di due (padrino e madrina) e devono assumersi la responsabilità dell’incarico.

Questi compiti del padrino spiegano i requisiti stabiliti per la sua ammissione, e cioè (c. 874):

- che abbia compiuto i 16 anni;

- che sia cattolico, abbia ricevuto la cresima e l’Eucaristia, conduca una vita conforme all’incarico che assume e non sia irretito da alcuna pena canonica. I battezzati non cattolici possono soltanto essere ammessi come testimoni insieme ad un padrino cattolico;

- che sia bene istruito sulle responsabilità e compiti dei padrini.

- che non sia il padre o la madre del battezzando.

La celebrazione del battesimo deve avvenire secondo il rito approvato, in una chiesa o oratorio (di regola nella chiesa parrocchiale), ordinariamente di domenica o, se possibile, nella veglia pasquale; mediante l’immersione o infusione di acqua appositamente benedetta. Al battezzando deve venire imposto un nome non estraneo al senso cristiano. Senza stato di necessità o grave causa non si deve amministrare il battesimo nelle case private e negli ospedali.

Quando viene battezzato un adulto, gli vengono conferiti nella stessa cerimonia anche i sacramenti della cresima e dell’Eucaristia, cioè i tre sacramenti dell’iniziazione cristiana. Nelle Chiese orientali si fa così anche con i bambini.

Il battesimo deve essere registrato nel libro della parrocchia annotando tutti i dati richiesti dal diritto (nome, genitori, padrini, ministro ecc.); tale registrazione serve come prova del battesimo ricevuto, ma se venisse a mancare, l’amministrazione del sacramento può essere provata anche da testimoni oppure dallo stesso interessato se lo ha ricevuto da adulto (cc. 875-878).

b) La confermazione

La confermazione o cresima è un sacramento dell’iniziazione cristiana che corrobora e accresce nel fedele la grazia del battesimo, lo arricchisce con il sigillo del dono dello Spirito Santo, lo vincola più perfettamente alla Chiesa e gli dà la forza di testimoniare e diffondere la fede con la sua vita e la sua parola (c. 879; cfr CCC 1286 ss.).

Si chiama anche cresima perché viene conferito mediante l’unzione del crisma sulla fronte, che si fa con l’imposizione della mano, e mediante le parole "Ricevi il sigillo del dono dello Spirito Santo". Il sacro crisma deve essere fatto di olio vegetale e consacrato dal Vescovo nella Messa crismale il Giovedì Santo (CCC 1300 e 1297).

Soggetto della confermazione è solo il battezzato che non l’abbia ancora ricevuta. In pericolo di morte basta questi requisito. Infatti, questo sacramento non si può ripetere poiché imprime il carattere indelebile in chi lo ha ricevuto, che è come un marchio spirituale che significa l’apparteneza per sempre a Dio e alla sua Chiesa (c. 889).

Per la liceità si richiede che il fedele abbia raggiunto l’uso di ragione, sia adeguatamente preparato, ben disposto e in grado di rinnovare gli impegni battesimali. Ciò comporta il dovere dei genitori e dei pastori di provvedere all’opportuna catechesi. L’età per la cresima è quella della discrezione (attorno ai 7 anni), ma la Conferenza episcopale può fissarne un’altra.

Benché non sia un sacramento assolutamente necessario, sarebbe temerario procrastinare senza motivo la cresima, per cui il diritto impone ai fedeli l’obbligo di riceverla tempestivamente, in modo che possano giovarsi della forza del sacramento quando la lotta per rimanere fedeli agli impegni battesimali diventa più ardua (CCC 1306).

Molti passi della vita cristiana richiedono la maturità che scaturisce dalla cresima: per essere padrino, per sposarsi, per ricevere gli ordini o entrare nella vita consacrata, ecc.

Il ministro ordinario della confermazione è il Vescovo; ma anche un presbitero può validamente cresimare se ha ricevuto la facoltà di poterlo fare sia dalla legge che da una speciale concessione dell’autorità competente: ad es. coloro che sono equiparati dal diritto al Vescovo diocesano; il presbitero che battezza un adulto; ogni presbitero quando il ricevente si trova in pericolo di morte (c. 883). Ma si deve sempre usare il crisma consacrato da un Vescovo (c. 880 § 2).

Anche per la cresima ci deve essere un padrino, meglio se è lo stesso del battesimo. I requisiti per essere padrino della confermazione sono gli stessi che per i padrini del battesimo (cc. 892, 893).

Dell’avvenuta confermazione deve rimanere annotazione sia nel libro delle cresime, sia anche accanto a quella del battesimo (cc. 894-896).

c) La santissima Eucaristia

È la fonte e il culmine del culto e della vita cristiana (LG 11; CCC 1324 ss.) poiché in essa "è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo" (PO 5). Il Sacrificio eucaristico è lo stesso Sacrificio della Croce nel quale Gesù Cristo, insieme alla sua Chiesa e in maniera incruenta, offre di nuovo al Padre il proprio sacrificio e si dà come cibo ai suoi fedeli.

L’Eucaristia edifica mirabilmente la Chiesa in quanto significa e compie la comunione di tutti i fedeli nel Corpo di Cristo, per la santificazione del mondo nella fede che opera nella carità. Gli altri sacramenti e tutte le opere di apostolato sono ordinati all’Eucaristia e da essa traggono la loro efficacia.

Il sacramento della santissima Eucaristia può essere contemplato da un triplice punto di vista: come Sacrificio, come Comunione e come Presenza adorabile del Signore. Il diritto canonico oltre a raccomandare somma devozione e onore per questo augustissimo sacramento, stabilisce la disciplina da osservarsi nei tre momenti menzionati.

1) Il santo Sacrificio della Messa

La celebrazione eucaristica è azione di Cristo e della Chiesa, tutti i fedeli sono chiamati a partecipavi, secondo la loro condizione propria e i diversi compiti liturgici (c. 899).

Il ministro in grado di celebrare la S. Messa è solo il sacerdote validamente ordinato, cioè il Vescovo e il presbitero.

Proprio nell’Eucaristia si attua in maniera esemplare la struttura fondamentale del Popolo di Dio, ovvero l’essenziale distinzione e il rapporto tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale. Soltanto agli Apostoli il Signore comandò "fate questo in memoria di me" e quindi soltanto chi ha ricevuto il sacerdozio per successione apostolica può offrire il Sacrificio nella persona di Cristo, il quale è sempre "l’Autore e il Soggetto principale di questo suo proprio sacrificio". Gli altri fedeli, in forza del sacerdozio comune, concorrono alla celebrazione con l’offerta dei propri sacrifici spirituali e con la loro attiva partecipazione.

Tale partecipazione è in concreto determinata dalle norme liturgiche, che si devono osservare fedelmente. Il c. 908 ribadisce quindi che è vietato ai diaconi e ai laici proferire le orazioni o eseguire le azioni che sono proprie del sacerdote celebrante, in particolare la preghiera eucaristica.

Per celebrare lecitamente la Messa, il sacerdote non deve essere impedito da una pena canonica e deve osservare le leggi riguardanti la celebrazione eucaristica, specie quelle contenute nel Codice stesso (c. 900 § 2).

I sacerdoti possono concelebrare sempre che l’utilità dei fedeli non consigli diversamente. Infatti l’adeguata attenzione pastorale dei fedeli e la scarsità di clero può richiedere che vengano celebrate più messe. Peraltro rimane il diritto di ogni sacerdote di celebrare individualmente la Messa, ma non mentre nello stesso luogo si tiene la concelebrazione (c. 902).

Poiché l’Eucaristia è il mistero della fede che richiede la piena comunione ecclesiastica, è vietato ai sacerdoti cattolici concelebrare con sacerdoti o ministri di Chiese o comunità cristiane che non siano in piena comunione con la Chiesa cattolica (c. 908). Invece possono concelebrare, nei casi previsti, sacerdoti cattolici di diverso rito.

Il Codice raccomanda vivamente ai sacerdoti di celebrare la Eucaristia ogni giorno; questo è il loro principale compito, anche quando non si possa avere la presenza di fedeli, poiché ogni Messa è azione di Cristo e della Chiesa. Tuttavia non è lecito celebrare più di una volta al giorno se non nei casi previsti o con licenza dell’Ordinario del luogo. Il sacerdote non deve celebrare senza la presenza di qualche fedele, salvo che ci sia una causa ragionevole e giusta (cc. 905-906).

Nella celebrazione della Messa e per la distribuzione della comunione i ministri devono usare le vesti liturgiche prescritte e i libri liturgici approvati.

Se malato o anziano, il sacerdote può celebrare seduto, osservando le leggi liturgiche; non però davanti al popolo (tranne che con licenza dell’Ordinario del luogo). Se è cieco o affetto da altra simile infermità può dire sempre la stessa Messa, aiutato se necessario da un chierico oppure da un laico.

Il sacerdote prima di celebrare si deve preparare bene con la preghiera, e rendere grazie dopo la celebrazione.

Per quanto riguarda la materia, il santo Sacrificio deve essere offerto con pane di solo frumento e vino naturale di vite, al quale si aggiunge un po’ d’acqua. Nella tradizione della Chiesa latina il pane dev’essere azzimo.

Non è mai lecito consacrare una materia senza l’altra poiché il sacrificio è significato nella doppia consacrazione del Corpo e del Sangue del Signore. Neppure è lecito consacrare le materie fuori della celebrazione eucaristica.

L’Eucaristia deve essere celebrata in luogo sacro (chiesa, oratorio o cappella) e sopra un altare dedicato o benedetto. In caso di particolare necessità la Messa può celebrarsi in un altro luogo che sia decoroso ed allora si può usare un tavolo adatto, purché ricoperto da tovaglia e corporale.

Con licenza espressa dell’Ordinario del luogo si può celebrare la Messa in un tempio cristiano non cattolico se non c’è pericolo di scandalo.

Si può celebrare in qualsiasi giorno e ora, tranne in quelli esclusi dalle norme liturgiche.

2) La comunione eucaristica

Ministro ordinario della sacra comunione è solo il chierico (Vescovo, presbitero o diacono). In caso di necessità o di mancanza di chierici può ricevere l’incarico di distribuire la comunione, come ministro straordinario, l’accolito o qualsiasi fedele.

La comunione viene data nella Chiesa latina sotto la sola specie del pane, tranne i casi previsti dalle leggi liturgiche in cui si può ricevere la doppia specie. In caso di necessità (ad es. di malattia) si può dare sotto la sola specie del vino.

I pastori di anime (parroco, cappellano, ecc.) hanno il dovere di portare la comunione come Viatico agli infermi loro affidati; in caso di necessità questo dovere ricade su qualsiasi sacerdote o ministro (cc. 921, 922).

Ogni battezzato può e deve essere ammesso alla sacra comunione se il diritto non glielo vieti. Quelli a cui il diritto vieta la partecipazione alla Eucaristia sono gli scomunicati, gli interdetti e quelli che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto (ad es. coppie di fatto, sposati solo civilmente, ecc.). I battezzati non cattolici non possono essere ammessi alla comunione se non nei casi previsti dalla legge.

Inoltre chi è in peccato grave non deve celebrare né comunicarsi senza previa confessione sacramentale, a meno che non ci sia l’opportunità di farla e vi sia una ragione grave per comunicare; in questo caso deve fare un atto di perfetta contrizione che include il proposito di confessarsi quanto prima (c. 916; cfr CCC 1385).

I fanciulli non devono ricevere al sacra comunione senza l’adeguata catechesi, che li metta in grado di percepire il mistero secondo la loro capacità e di assumere con fede e devozione il Corpo di Cristo. Ma in pericolo di morte possono comunicarsi, se siano capaci di distinguere il Corpo del Signore dal cibo comune e di ricevere con devozione il sacramento (cc. 913 e 914).

Chi ha ricevuto l’Eucaristia può riceverla un’altra volta nello stesso giorno soltanto nel corso della Messa o in pericolo di morte come Viatico (c. 917).

Almeno un’ora prima della comunione non si deve prendere nessun cibo o bevanda, salvo acqua e medicine. Non sono tenuti a questa norma gli anziani, i malati e le persone che li curano. Anche il sacerdote che deve celebrare più volte può prendere qualche alimento tra una messa e l’altra, anche se non ci sia un’ora di intervallo.

La Chiesa raccomanda ai fedeli di ricevere con frequenza e devozione la sacra comunione, e con precetto li obbliga a riceverla una volta all’anno nel tempo di pasqua, a meno che per giusta causa compiano il precetto in altro tempo entro l’anno.

I malati devono ricevere il santo Viatico, anche più volte durante la malattia. I pastori devono vigilare perché essi possano ricevere il conforto dell’Eucaristia nel pieno possesso delle loro facoltà. In questo hanno anche una particolare responsabilità i familiari e le altre persone addette alle loro cure.

Ai fedeli è lecito partecipare al Sacrificio eucaristico e ricevere la comunione in qualsiasi rito cattolico. Non è invece lecita tale partecipazione in una Chiesa o comunità non cattolica salvo nei casi permessi dal diritto (c. 923).

3) La conservazione e venerazione della santissima Eucaristia

L’Eucaristia è anche il sacramento della presenza reale di Gesù Cristo sotto le specie del pane e del vino, nella quale rimane dopo la celebrazione del Sacrificio. La Chiesa conserva con venerazione l’Eucaristia e rende culto a questa permanente presenza eucaristica del Signore in vari modi.

L’Eucaristia deve essere conservata nelle chiese cattedrali e parrocchiali, e nella chiesa o oratorio annesso a una casa religiosa o di una società di vita apostolica.

Può anche essere conservata nella cappella privata di un Vescovo e, su licenza dell’Ordinario del luogo, nelle altre chiese, oratori o cappelle private (c. 934).

Di regola l’Eucaristia si conserva in un solo tabernacolo della chiesa o oratorio; esso deve trovarsi in un luogo degno e visibile atto alla preghiera. Il tabernacolo deve essere inamovibile, solido, non trasparente e chiuso con sicurezza in modo da allontanare il più possibile il pericolo di profanazione. Se c’è un motivo grave la santissima Eucaristia può essere trasferita, specie durante la notte, in un altro luogo più sicuro che sia decoroso (c. 938).

Davanti al tabernacolo deve essere permanentemente accesa un’apposita lampada che indica e onora la presenza di Cristo (c. 940).

Nel luogo dove viene conservata l’Eucaristia ci deve essere sempre chi ne abbia cura e custodisca la chiave del tabernacolo con diligenza. Se si tratta di una chiesa, essa deve rimanere aperta ai fedeli almeno per qualche ora al giorno, affinché possano pregare davanti al Santissimo Sacramento.

Nella Chiesa latina l’Eucaristia si conserva soltanto sotto la specie del pane. Le ostie consacrate si conservano nella pisside o altro vaso sufficientemente degno. Devono essere rinnovate con frequenza, consumando debitamente le precedenti; per cui, se è possibile, in quel luogo si deve celebrare la Messa almeno due volte al mese (c. 939).

Nel luogo dove si conserva l’Eucaristia si può fare l’esposizione del santissimo Sacramento sia con la pisside sia con l’ostensorio secondo le rubriche, ma non durante la Messa. E si raccomanda di farla almeno una volta l’anno in forma solenne con un tempo di adorazione prolungato (c. 941).

Ministro dell’esposizione e benedizione eucaristica è il sacerdote o diacono. In casi speciali l’accolito, il ministro straordinario della sacra comunione o altra persona designata dall’Ordinario del luogo possono fare l’esposizione ma non dare la benedizione, osservate comunque le disposizioni date dal Vescovo diocesano (c. 943).

Si raccomanda pure che, ove il Vescovo diocesano lo giudichi possibile, si svolga la processione pubblica nella solennità del Corpo e Sangue del Signore, nel modo determinato dallo stesso Vescovo (c. 944).

4) Le offerte per la celebrazione della Messa (cc. 945-958)

Il sacerdote ha la facoltà di applicare la Messa che celebra per chiunque, vivo o defunto. È un uso antico e legittimo della Chiesa che i fedeli diano al celebrante un’offerta affinché applichi la Messa secondo una loro intenzione. Con ciò i fedeli aiutano al sostentamento del culto e del clero.

Le regole del diritto canonico su questa materia mirano soprattutto a che sia vissuta con chiarezza questa tradizione e non si introducano abusi o confusioni. Si possono riassumere così:

- L’offerta da chiedere è stabilita dai Vescovi della provincia o dalla consuetudine. I fedeli possono dare di più. I sacerdoti devono essere disponibili a celebrare anche per le intenzioni di chi non può dare una offerta.

- Il sacerdote deve applicare una Messa per ciascuna offerta ricevuta, salvo nei casi eccezionali in cui il diritto permette di accumulare in una sola Messa le intenzioni di diversi offerenti consenzienti.

- Chi accetta offerte di messe ha l’obbligo di applicarle, entro l’anno, per le intenzioni degli offerenti, o di farle applicare da un altro al quale trasmette l’offerta ricevuta. Ciò esige che i sacerdoti e nei luoghi di culto ci sia una accurata registrazione degli impegni assunti, compiuti e da compiere.

d) La penitenza

È il sacramento della remissione dei peccati commessi dopo il battesimo (vid. CCC 1422 ss.). Si ottiene mediante la confessione contrita dei peccati insieme con il proposito di emendarsi, e l’assoluzione impartita dal confessore (c. 959).

Ministro del sacramento della penitenza è il solo sacerdote; infatti soltanto chi ha ricevuto il sacerdozio ministeriale può agire nella persona di Cristo Pastore e Giudice, come avviene nella confessione.

Ma perché il sacerdote possa dare validamente l’assoluzione è necessario inoltre che abbia la facoltà di assolvere i penitenti che ricorrono a lui. Si può dire che anche se ogni sacerdote ha la capacità o potestà di assolvere i peccati, egli ha pure bisogno dell’autorizzazione o competenza per poterla esercitare sui concreti penitenti che ricorrono a lui.

Tale facoltà di assolvere si ha per legge o per concessione dell’autorità competente. Per legge ce l’hanno il Papa, i Cardinali e i Vescovi per tutto il mondo, e altri pastori di anime (parroci, cappellani) per i loro sudditi o il loro territorio. Gli altri sacerdoti ricevono la facoltà per concessione dell’autorità (cc. 966-975).

Per facilitare la confessione dei fedeli si hanno varie regole riguardo alla facoltà dei confessori:

- Il sacerdote che ha ricevuto la facoltà di ricevere confessioni dall’Ordinario del luogo di incardinazione o del luogo dove ha il domicilio, può confessare ovunque, a meno che, in un caso particolare, l’Ordinario del luogo ne abbia fatto divieto (c. 967 § 2).

- Qualsiasi penitente in pericolo di morte può essere assolto da qualsiasi peccato o censura da parte di qualsiasi sacerdote (c. 976; CCC 1463).

- Nel caso di errore o di dubbio ragionevole, la Chiesa supplisce e pertanto l’assoluzione si deve ritenere valida (c. 144).

Il confessore deve esercitare il suo ministero secondo verità, giustizia e misericordia; deve quindi interrogare con prudenza il penitente, giudicare e consigliare secondo la dottrina della Chiesa, e assolvere il penitente che trovi ben disposto, dopo avergli imposto un’opportuna penitenza. Egli è inoltre tenuto al segreto, che per nessun motivo può violare (cc. 978-983).

I pastori devono facilitare i fedeli loro affidati affinché possano accostarsi alla confessione individuale, stabilendo orari convenienti. In caso di necessità ogni confessore deve ricevere le confessioni dei fedeli. In pericolo di morte vi è tenuto qualunque sacerdote (c. 986).

Soggetto della penitenza è ogni fedele che abbia commesso peccato dopo il battesimo.

Per la validità della confessione il penitente si deve convertire a Dio, cioè ripudiare i peccati commessi e avere il proposito di emendarsi (c. 987).

Oltre a queste disposizioni interiori egli è tenuto a confessare, secondo la specie e il numero, tutti i peccati gravi commessi dopo il battesimo e non ancora confessati, che ricordi dopo un diligente esame di coscienza. Si raccomanda di confessare anche i peccati veniali (c. 988).

Ogni fedele ha l’obbligo di confessare i peccati gravi almeno una volta l’anno (c. 989).

I fedeli hanno il diritto di scegliere il proprio confessore tra quelli approvati, anche di un altro rito cattolico (c. 991). Non può però un confessore assolvere validamente il proprio complice in un peccato contro il sesto comandamento tranne in pericolo di morte (c. 977).

Ogni fedele cui, in qualunque modo, sia giunta notizia dei peccati dalla confessione è tenuto al segreto come il confessore (c. 983 § 2).

Il luogo proprio della confessione è la chiesa o l’oratorio. In essi devono esserci sempre confessionali con una grata fissa tra confessore e penitente. Infatti il penitente non è tenuto a rivelare la sua identità al confessore, per cui i fedeli hanno il diritto di potersi confessare sempre attraverso la grata, la quale inoltre serve a tutelare la dignità del sacramento, favorisce la sincerità ed allontana il pericolo di scandalo. Oltre a questi, la Conferenza episcopale può determinare che si abbiano anche altri tipi di confessionali senza la grata (c. 964).

1) Le assoluzioni collettive (cc. 961-963)

La confessione personale e integrale dei peccati gravi, seguita dall’assoluzione, è l’unico modo ordinario di ottenere la riconciliazione con Dio e con la Chiesa; per cui soltanto nel caso di un’impossibilità fisica o morale si può ottenere il perdono in altri modi (c. 960).

Di recente si sono introdotti certi abusi sulle assoluzioni collettive, quelle cioè in cui il sacerdote dà l’assoluzione a più penitenti insieme senza la previa confessione individuale dei peccati. Il legislatore ha voluto determinare con precisione i casi e le condizioni in cui è valida una tale assoluzione. I casi sono due:

1.- Che vi sia imminente pericolo di morte e non bastino i sacerdoti per ascoltare le confessioni dei singoli penitenti.

2.- Che vi sia grave necessità, cioè:

a) quando la scarsità di confessori e di tempo non permette che possano essere ascoltati i singoli penitenti;

b) che di conseguenza i penitenti, senza loro colpa, dovrebbero rimanere a lungo privi della grazia o della sacra comunione;

c) non si considera grave necessità il solo fatto di un grande afflusso di penitenti, quale può essere una grande festa o un pellegrinaggio;

d) spetta al Vescovo diocesano giudicare quando si incorra in circostanze.

Di solito tali casi si presentano nei territori di missione, ma anche in posti di villeggiatura o simili, quando non è possibile avere sacerdoti sufficienti. Si tratta comunque di un ricorso straordinario imposto dalle circostanze, mai provocato volontariamente.

Per ricevere validamente l’assoluzione in questo modo, il penitente deve avere le disposizioni richieste (pentimento, proposito) e anche proporsi di confessare individualmente, quando ne abbia occasione, i peccati che lì per lì non può confessare. Di questi requisiti devono essere istruiti se possibile i penitenti prima dell’assoluzione collettiva (CCC 1483 1484).

2) Le indulgenze (cc. 992-997)

Dopo la remissione dei peccati per l’assoluzione, rimane ancora la pena temporale ad essi connessa. L’indulgenza è la remissione totale o parziale di questa pena temporale per concessione della Chiesa, la quale è dispensatrice del tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei Santi.

Elargire indulgenze spetta quindi all’autorità ecclesiastica competente, la quale di solito le concede annettendole al compimento di certe opere nel modo e nel tempo stabiliti.

Ogni fedele può lucrare indulgenze per se stesso o per i defunti, a patto che non sia scomunicato, si trovi in stato di grazia e abbia l’intenzione di acquistarle.

Le opere e le condizioni per le quali si può ottenere indulgenza (plenaria o parziale) si trovano nell’Enchiridion indulgentiarum promulgato da Paolo VI.

e) L’unzione degli infermi

Questo sacramento viene conferito ai fedeli gravemente infermi mediante l’unzione con olio e la formula stabilita, affinché il Signore per ministero della Chiesa li sollevi e li salvi (LG 11, c. 998, CCC 1499 ss.).

Il ministro dell’unzione degli infermi è soltanto il sacerdote. Il diritto e il dovere di amministrare il sacramento spetta ai pastori rispetto ai fedeli affidati alla loro cura pastorale; ma qualsiasi sacerdote può conferirlo se c’è una causa ragionevole. Difatti ogni sacerdote è autorizzato a portare con sè l’olio benedetto per amministrare l’unzione in caso di necessità (c. 1003).

Soggetto di questo sacramento è il fedele che ha raggiunto l’uso di ragione e si trova in pericolo di morte per malattia o vecchiaia. Nel dubbio se il soggetto abbia raggiunto l’uso della ragione o se sia gravemente malato o se sia morto il sacramento deve essergli conferito (cc. 1004-1008).

Come per ogni sacramento ricevuto da un adulto si richiede anche il suo consenso; ma poiché si tratta di un ausilio che può giovare decisivamente alla salvezza si deve conferire l’unzione dei malati a quelli che mentre erano nel possesso delle proprie facoltà mentali lo avessero chiesto almeno implicitamente (c. 1006).

Non si deve dare invece il sacramento agli infermi che perseverino ostinatamente in un peccato grave manifesto (c. 1007).

L’olio degli infermi deve essere benedetto. Questa benedizione la può fare:

- ogni Vescovo;

- coloro che in diritto sono equiparati al Vescovo diocesano;

- in caso di necessità, qualunque presbitero, ma soltanto nella stessa celebrazione del sacramento (c. 1000).

Le unzioni si devono compiere assieme alle parole come disposto nei rituali; ma in caso di necessità basta una sola unzione sul capo o in altra parte del corpo, pronunziando integralmente la formula (c. 1000).

f) Il sacramento dell’ordine

L’ordine sacro è il sacramento del ministero apostolico, "grazie al quale la missione affidata da Cristo ai suoi Apostoli continua ad essere esercitata nella Chiesa" (CCC 1536). Coloro che lo ricevono sono consacrati come ministri sacri, affinché configurati con Cristo Capo, ricevano la capacità di adempiere nella Sua persona le funzioni di insegnare, santificare e governare, ciascuno secondo il grado ricevuto (c. 1008).

È un sacramento di servizio alla comunità che segna con un carattere indelebile chi lo riceve e quindi non può essere ripetuto.

Le implicazioni ecclesiali e giuridiche dell’ordine sacro sono molte ed importanti, basti pensare che è il sacramento per il quale la costituzione gerarchica della Chiesa, voluta da Cristo, sussiste nel tempo (cfr. cap. V).

Caratteristica specifica di questo sacramento è che può essere conferito in diversi gradi o ordini. Questi sono: l’episcopato, il presbiterato e il diaconato. Essi vengono conferiti mediante l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria prescritta (c. 1009; CCC 1554 ss.).

L’episcopato conferisce al consacrato la pienezza del sacerdozio e lo fa diventare membro del Collegio dei Vescovi, successori degli Apostoli. Il presbiterato costituisce chi lo riceve collaboratore dei Vescovi nell’esercizio del sacerdozio. Il diaconato è un ministero non sacerdotale di servizio.

Il ministro della sacra ordinazione è il Vescovo. Egli come successore degli Apostoli nella pienezza del sacerdozio ha il potere di conferire ad altri i tre gradi dell’ordine (c. 1012).

La scelta di quelli che riceveranno l’episcopato e quindi saranno aggregati al Collegio episcopale spetta in definitiva al Romano Pontefice; per cui a nessun Vescovo è lecito consacrare un altro Vescovo senza mandato pontificio. L’infrazione di questo divieto è un delitto che comporta la scomunica automatica (ipso facto) del consacrante e del consacrato (cc. 1013 e 1382).

La scelta invece di chi deve essere promosso al presbiterato o al diaconato spetta all’autorità dell’istituzione dove il candidato verrà incardinato (diocesi o prelatura personale, istituto religioso o società di vita apostolica, ecc.). Pertanto nessun Vescovo deve ordinare chi non è suo suddito senza la richiesta scritta (lettere dimissorie) della suddetta autorità, a norma del diritto (cc. 1015 e 1382).

Soggetto dell’ordinazione può essere soltanto il battezzato di sesso maschile (c. 1024). Per tradizione ininterrotta, fondata sulla volontà del Signore quando scelse i suoi Apostoli, le donne non possono ricevere questo sacramento.

Nondimeno ciò non significa una discriminazione. In primo luogo perché nessuno ha nella Chiesa il diritto di essere ordinato giacché l’ordine sacro è finalizzato al servizio della Chiesa e quindi tocca sempre all’autorità ecclesiastica decidere in ultima analisi sulla promozione agli ordini di un soggetto. Poi perché l’ordine sacro non è il culmine della vita cristiana né i membri della gerarchia sono chiamati ad una santità più elevata, quindi a nessuno si preclude la pienezza della vita cristiana per il fatto di non venire ammesso agli ordini (CCC 1577-1578).

Trattandosi di un sacramento che destina permanentemente e, di regola, esclusivamente al servizio della società ecclesiale, con una forte incidenza nello status personale del soggetto, la Chiesa pone requisiti di vario tipo per poterlo ricevere lecitamente, cioè (cc. 1025-1052):

- Un periodo di prova e di formazione che si compie in seminario per il clero secolare o nell’istituto di vita consacrata per i consacrati. Durante questo periodo si devono compiere i passi stabiliti: ammissione, ministeri di lettore e accolito, richiesta degli ordini e impegno di compierli, assunzione del celibato, ecc.

- Gli studi e la pratica necessari per poter adempiere adeguatamente il ministero sacro: per i candidati al presbiterato comprendono due anni di filosofia e quattro di teologia, secondo il piano di studi e di formazione disposto dalla Santa Sede e adattato alle circostanze del luogo dalla Conferenza episcopale.

- Età: 23 anni per il diaconato, 25 per il presbiterato, 35 per l’episcopato. Per il diaconato permanente si richiedono 25 anni ai non sposati e 35 agli sposati oltre al consenso della moglie. Per passare ad un ordine superiore si richiede di avere esercitato il precedente.

- Libertà: a nessuno è lecito costringere alcuno agli ordini, oppure distoglierlo se è idoneo.

- Giudizio favorevole del Vescovo o del Superiore competente sulla idoneità del candidato, tenuto conto delle doti, della preparazione e delle virtù del candidato. Egli deve anche valutare l’utilità dell’ordinazione ai fini del servizio della Chiesa.

- Aver ricevuto la cresima, e gli ordini inferiori a quello che si intende ricevere.

- Che non ci sia impedimento, cioè un fatto che per legge esclude dagli ordini.

Gli impedimenti perpetui o irregolarità sono ad es. malattia psichica che renda inabile al ministero; avere commesso certi delitti quali eresia, apostasia o scisma, omicidio, mutilazioni o aborto; avere attentato il matrimonio quando c’era impedimento di vincolo, di voto o di ordine sacro; ecc. I semplici impedimenti sono temporanei: l’essere sposato, salvo che per il diaconato permanente; esercitare cariche civili incompatibili col ministero mentre si è in carica; il neofita finché l’Ordinario lo ritenga sufficientemente provato. I fedeli hanno l’obbligo di rivelare all’autorità gli impedimenti di cui venissero a conoscenza. Tutti gli impedimenti sono dispensabili dalla Santa Sede e alcuni anche dall’Ordinario.

L’ordinazione è bene che si tenga in un giorno di festa nella chiesa cattedrale, ma per giusta causa può essere celebrata in altra chiesa o in altro giorno (cc. 1010-1011).

Prima dell’ordinazione si devono presentare i documenti e gli attestati necessari per dimostrare i requisiti esigiti (di studi, di battesimo e cresima, ecc.). Dopo l’ordinazione essa deve essere annotata nell’apposito libro del luogo di ordinazione, e il Vescovo ordinante consegna a ciascun ordinato il certificato dell’avvenuta ordinazione, la quale va comunicata anche al parroco del luogo di battesimo.

3- Il matrimonio

Come realtà umana, il matrimonio è l’alleanza tra l’uomo e la donna che stabilisce tra loro una comunità di vita e di amore naturalmente ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole. Unità e indissolubilità sono caratteristiche essenziali del matrimonio (CCC 1603 ss.).

È proprio questa realtà umana che, tra battezzati, è stata elevata da Cristo Signore alla dignità di sacramento. Perciò il sacramento del matrimonio ha caratteristiche del tutto particolari. Infatti è il battesimo degli sposi che fa del loro vincolo matrimoniale un sacramento, una realtà allo stesso tempo naturale e soprannaturale, segno dell’unione di Cristo con la sua Chiesa (c. 1055 § 1).

Il matrimonio di due battezzati è di per sè sacramento. Il sacramento non è una aggiunta esterna o sovrapposta al matrimonio, ma è il matrimonio stesso tra battezzati che diventa segno e fonte di salvezza. Per questo tra due battezzati non può sussistere un matrimonio valido che non sia per ciò stesso sacramento (c. 1055 § 2).

Da qui deriva la competenza giuridica della Chiesa sul matrimonio dei cattolici. Alla Chiesa interessa ogni matrimonio in quanto esso è un’istituzione di grande rilievo personale e sociale; ma nel caso dei cattolici questo interesse diventa competenza giuridica in forza della realtà sacramentale in esso contenuta, che lo fa diventare una vocazione peculiare all’interno della Chiesa: il cammino specifico di santificazione della maggioranza dei fedeli.

Pertanto la Chiesa, riconoscendo allo Stato la competenza sul matrimonio negli aspetti specificamente civili, rivendica a sè il diritto di regolamentare il matrimonio dei cattolici per quanto riguarda la validità e l’efficacia, e anche di giudicare su queste in un caso concreto. Una regolamentazione però non arbitraria ma che tenta di corrispondere al meglio a quello che il matrimonio è, tale come Dio lo ha istituito (c. 1059).

Come avviene per gli altri sacramenti, il diritto coglie soltanto un aspetto del matrimonio. Esso ha una ricchezza umana, teologica ed ecclesiale che va ben al di là delle norme giuridiche. Ma non si deve dimenticare che il matrimonio è una realtà giuridica, una alleanza, un vincolo stabile tra un uomo e una donna, e il diritto matrimoniale canonico ha proprio il ruolo di tutelare tale realtà nel seno della Chiesa e di riflesso anche nella società civile.

Essendo il matrimonio una comunità di vita e di amore tra uomo e donna, l’amore ha un ruolo decisivo. È l’amore che spinge due persone a sposarsi; il matrimonio e l’alveo naturale dove corre l’amore, facendo di questo un impegno esclusivo e permanente. Così mentre tra due fidanzati il discorso è "ti sposo perché ti amo", tra i coniugi esso diventa: "ti amo perché ti ho sposato"; nel matrimonio l’amore si fa vincolo, comunità di vita, dovere. Ciò risponde pienamente alla natura umana, all’intima e profonda aspirazione dell’uomo ad amare e ad essere amato, al fatto che egli trova la sua realizzazione nel dono di sè. Questo rispecchia l’immagine e somiglianza di Dio che c’è nell’uomo.

In questa prospettiva va intesa la dottrina della Chiesa sul matrimonio in genere e, in modo specifico, il diritto matrimoniale canonico. Talvolta però si sente parlare del matrimonio come una sorta di fidanzamento indefinitamente prolungato, per cui se finisse l’amore anche il matrimonio cesserebbe di esistere. In questo ragionamento, tuttavia, non si coglie che se è vero che l’amore è quello che spinge alla donazione reciproca degli sposi nel matrimonio, questo, una volta posto in essere, non dipende più dal fatto che ci sia amore. Il matrimonio non è una donazione continuativa e revocabile in dipendenza dell’amore effettivo tra i coniugi, ma la realizzazione nella vita di una donazione già avvenuta e definitiva, fatta per amore.

Questa è la verità e la legge dell’amore veramente umano che le norme canoniche cercano per quanto possibile di cogliere e di tutelare. Certo nessuna legge umana può rianimare l’amore che si spegne, per questo ci vuole l’aiuto divino e la volontà delle persone; il diritto può soltanto dire cosa sia giusto in una certa situazione, tenuto conto che il matrimonio non coinvolge soltanto la coppia ma anche i figli e l’intera società della quale la famiglia è fondamento (CCC 1643-1654).

Per queste ragioni il diritto canonico si interessa piuttosto di quanto riguarda la validità del matrimonio; altri aspetti invece interessano la morale, la pastorale, ecc., benché tutti questi siano strettamente collegati fra loro.

a) Concetti generali

Tre sono i punti su cui poggia la celebrazione valida del matrimonio: b) consenso, c) impedimenti e d) forma. Come dice il c. 1057 § 1 l’atto che costituisce il matrimonio è il consenso delle parti manifestato legittimamente (nella forma dovuta) tra persone giuridicamente abili (senza impedimenti). Li vedremo di seguito; ma prima bisogna conoscere alcuni principi e concetti generali del sistema matrimoniale canonico.

Prima di tutto c’è il diritto di contrarre matrimonio (ius connubii) per cui tutti possono sposare se non osta una proibizione del diritto. Si tratta di un diritto naturale; gli ostacoli previsti dal diritto tendono proprio a tutelare il corretto esercizio di questo diritto (non sono arbitrari, e nessuno può aggiungerne altri a quelli previsti dalla legge).

In secondo luogo va notato che il matrimonio, essendo un’istituzione di grande importanza personale e sociale, gode del favore del diritto. Di conseguenza vige il principio che nel dubbio il matrimonio si deve ritenere valido finché non sia provato il contrario (c. 1060). Difatti nei processi matrimoniali al tribunale si chiede di rispondere se consta o meno la nullità del matrimonio in causa per i motivi adotti, non se il matrimonio sia valido.

Matrimonio canonico è quello celebrato da un cattolico secondo le leggi della Chiesa anche se l’altro coniuge non è cattolico.

Si chiama matrimonio rato (o anche rato e non consumato) il matrimonio valido tra battezzati (che è sacramento) e non ancora consumato. Se poi fosse consumato si dice matrimonio rato e consumato. Quindi non ogni matrimonio canonico è rato (quando uno dei due non sia battezzato).

Ciò ci porta al concetto di consumazione del matrimonio. Questa si ha quando i coniugi hanno compiuto tra loro, in modo umano, l’atto per sé idoneo alla generazione della prole, al quale il matrimonio è ordinato e nel quale i coniugi divengono una sola carne. Modo umano significa che l’atto coniugale sia liberamente accettato dai due e compiuto secondo natura. Non bisogna però che la generazione avvenga di fatto, basta che l’atto sia idoneo ad essa (c. 1061 §§ 1 e 2).

La consumazione aggiunge una peculiare saldezza al matrimonio sacramentale: mentre il matrimonio non consumato può essere sciolto dal Romano Pontefice in certi casi, il rato e consumato no. La consumazione si presume se i coniugi hanno convissuto dopo le nozze.

Si chiama matrimonio putativo il matrimonio invalido celebrato in buona fede almeno da una delle parti, finché entrambe vengano a conoscenza della nullità. Si tratta quindi di un matrimonio nullo ma ritenuto valido in buona fede almeno da una delle parti.

b) Il consenso matrimoniale

Nel matrimonio canonico vige il principio di consensualità. Soltanto il libero consenso delle parti può costituire il matrimonio. Il consenso non può essere supplito da nessuna potestà umana né mai nessuno può vincolare di propria autorità un altro (CCC 1625-1629). Nel matrimonio per procuratore, ad es., questo non fa altro che manifestare il consenso dato per scritto dalla parte assente (c. 1057 § 1).

Il consenso deve essere matrimoniale, cioè deve consistere nell’atto specifico di volontà con il quale l’uomo e la donna, con patto irrevocabile, si danno e accettano reciprocamente in matrimonio (c. 1057 § 2). In questa definizione si contengono in sintesi i requisiti e le condizioni perché il consenso sia sufficiente a far nascere il matrimonio: capacità, conoscenza, libertà, contenuto, donazione e accettazione reciproca nel matrimonio. Il diritto positivo cerca di individuare i casi in cui il difetto di alcuno di questi elementi vizia il consenso, stabilendo norme oggettive che i giudici debbono poi applicare nei casi concreti.

Il processo psicologico attraverso il quale un uomo e una donna arrivano alla decisione di sposarsi è complesso e coinvolge praticamente tutti gli aspetti della persona (affetti, intelletto, fantasia, volontà, passioni...); è questo processo la sede in cui si possono individuare i possibili difetti o vizi del consenso.

Ma allo stesso tempo bisogna distinguere tra i motivi per i quali una persona sposa un’altra e il consenso matrimoniale. Mentre i motivi possono essere molti e diversi (amore, bontà, bellezza, ricchezza, salute), il consenso matrimoniale è sempre quello definito sopra: un specifico atto di volontà. I motivi concorrono a prendere la decisione di sposare una persona, ma questa decisione, una volta attuata nel consenso matrimoniale, rimane per lo più indipendente dai motivi che l’hanno causata.

Vediamo ora i difetti o vizzi del consenso capaci di rendere nullo il matrimonio:

Incapacità. Essendo il matrimonio un tipo di unione alla quale l’uomo tende per natura, la capacità per celebrare il matrimonio si presume esistente in tutti dopo una certa età. Tuttavia ci sono situazioni nelle quali l’individuo non è capace di prestare un consenso valido.

Il c. 1095 considera incapaci a contrarre matrimonio:

a) "coloro che mancano di sufficiente uso di ragione": quelli cioè che per mancanza di età o per cause patologiche non sono capaci di intendere e di volere nei diversi ambiti della vita adulta e quindi anche in tema di matrimonio.

b) "coloro che difettano gravemente di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente". Qui si tratta di una mancanza specifica e grave di ragione sugli aspetti essenziali del matrimonio che può attribuirsi ad immaturità o ad altre cause patologiche.

c) "coloro che per cause di natura psichica, non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio". È in un certo senso un prolungamento del motivo precedente che prende in considerazione piuttosto l’incapacità di adempiere gli oneri matrimoniali essenziali, anche se ci sia la capacità di intenderli e volerli. È una causa di incapacità che prese spunto da certe malattie psicosessuali (omosessualità, ninfomania, satiriasi) quando presentano una certa gravità.

Si intuisce che l’applicazione di queste regole al caso concreto non è facile. Bisogna determinare quali siano i diritti e doveri essenziali del matrimonio, accertare (talvolta molti anni dopo) la grave presenza del difetto al momento delle nozze, anche se le manifestazioni eclatanti di esso sono avvenute dopo. Logicamente l’incapacità sopravvenuta dopo la celebrazione del matrimonio non rende questo invalido. Per questi accertamenti si richiede di regola l’intervento di un perito medico.

Ignoranza. Acconsentire su qualcosa implica necessariamente conoscere sufficientemente ciò su cui si acconsente. Per poter dare un consenso matrimoniale valido è necessario che i contraenti non ignorino che il matrimonio è la comunità permanente tra l’uomo e la donna, ordinata alla procreazione della prole mediante una qualche cooperazione sessuale (c. 1096).

Non si richiede però una conoscenza approfondita e ragionata, ancormeno un’esperienza, ma quella conoscenza che normalmente avviene con lo sviluppo naturale della persona; perciò dopo la pubertà si presume che il soggetto abbia la conoscenza sufficiente per sposarsi, finché non si dimostri il contrario.

Errore. Proprio perché la conoscenza minima richiesta sul matrimonio non implica conoscere con esattezza tutte le caratteristiche e proprietà del medesimo, l’errore sulle proprietà essenziali del matrimonio (indissolubilità, unità e sacramentalità) di per sè non invalida il consenso. Soltanto se tale errore ha determinato la volontà del soggetto allora vizia il consenso (c. 1099): non è lo stesso sposare pensando che il matrimonio è dissolubile, che sposare volendo che il concreto matrimonio che si celebra sia dissolubile. Solo in questo secondo caso si sta sottraendo al consenso matrimoniale un contenuto essenziale. Si possono avere tante idee sbagliate sul matrimonio in generale, ma poi quando si ama una persona la si vuole sposare per davvero.

Si può anzi essere certi o supporre che il matrimonio sarà nullo (ad es. se si ritiene che c’è un impedimento) e tuttavia volersi sposare; per cui sapere o opinare che il matrimonio è nullo non esclude necessariamente un vero consenso matrimoniale (c. 1100). Difatti anche se un matrimonio è nullo per impedimento o per difetto di forma si presume che il consenso prestato persevera finché non costi della sua revoca (c. 1107).

D’altro canto, il consenso matrimoniale non può essere generico ("mi voglio sposare") ma deve intervenire tra due persone concrete e determinate ("ti voglio sposare"), per cui l’errore di persona rende invalido il matrimonio (c. 1097 § 1).

Sono però le persone che si sposano non le loro qualità, per cui l’errore su una qualità dell’altro non è di per sè causa di nullità, anche quando la supposta qualità dell’altro sia stata il movente per sposarlo. Ad es. se qualcuno sposa l’altro perché ricco e poi risulta essere povero, non per questo il matrimonio è nullo. Si capisce che tutti vogliono trovare nell’altro delle buone qualità (bontà, salute, ricchezza...), e quindi se poi avviene un fallimento del matrimonio tutti dicono sinceramente: "se avessi saputo che era così non l’avrei sposato". Ma ciò non basta.

Si avrebbe qui di nuovo la trasposizione al matrimonio celebrato di un discorso che sarebbe valido soltanto prima del matrimonio, durante il fidanzamento. È la persona che si sposa con i suoi pregi e difetti, anche non conosciuti o non ben valutati; la validità del matrimonio non può dipendere dalla soddisfazione delle attese fatte sul conto del coniuge.

Ci sono però due casi in cui l’errore sulla qualità del coniuge rende nullo il matrimonio (c. 1097 § 2):

- quando la qualità è tale da identificare la persona come tale. Si suole portare l’esempio di chi senza conoscere l’altra persona sa che si tratta della primogenita di tale famiglia, per cui l’errore sulla primogenitura equivale all’errore di persona. Oggi è un caso molto raro.

- quando l’errore ricade su una qualità "diretta e principalmente intesa", prima del matrimonio ovviamente. In questo caso infatti la qualità non è solo un motivo per il quale si acconsente ma diventa oggetto del consenso matrimoniale stesso, quasi come una condizione, di modo che la persona che intende direttamente e principalmente una qualità dell’altro non acconsente se non in quanto tale qualità esiste.

Non è facile distinguere in pratica se una qualità è desiderata in generale, nel senso cioè che ogni sposo si augura e presuppone che ci sia, ovvero se è stata diretta e principalmente voluta. Tale difficoltà si presenta ad es. con la fertilità; certamente ogni nubente spera, si augura e desidera che l’altro possa generare, ma non per questo si può sempre affermare che detta qualità sia stata direttamente e principalmente intesa.

Dolo (c. 1098). Un tipo particolare di errore è quello provocato con inganno, cioè in malafede, al fine di carpire il consenso. In questo caso, se l’inganno ricade su una qualità dell’altra parte che per sua natura può perturbare gravemente la convivenza coniugale, il matrimonio è invalido. Infatti l’errore dolosamente provocato diminuisce la conoscenza e quindi la libera scelta dell’ingannato. Comunque si richiede che l’inganno avvenga effettivamente, che questo sia stato ordito con dolo e al preciso scopo di ottenere il consenso. Non si richiede invece che l’autore della frode sia l’altro sposo (può essere anche un terzo). Una qualità di grave rilievo è ad es. la sterilità, se taciuta con dolo.

Simulazione (c. 1101). È la discordanza tra quello che si dice di volere e quello che si vuole in realtà. Senza un consenso veramente matrimoniale non può nascere il matrimonio, per cui la Chiesa al di là delle formalità celebrative punta sulle intenzioni reali delle parti. Resta però il fatto che tali intenzioni rimangono spesso nell’animo dei nubendi.

In partenza si presume che le parole o i gesti adoperati nella celebrazione siano in conformità con l’animo interno. Infatti in una materia tanto importante come il matrimonio le persone non sogliono fingere.

Ma se in realtà una o entrambe le parti escludono con un positivo atto di volontà il matrimonio stesso oppure qualche suo elemento o proprietà essenziale, il matrimonio è invalido.

L’esclusione del matrimonio stesso si chiama simulazione totale: in questo caso in realtà non ci si vuole sposare, non c’è consenso.

L’esclusione di qualche elemento o proprietà si chiama simulazione parziale; si considerano essenziali la fedeltà, l'indissolubilità, la sacramentalità, la prole. In questo caso ci si vuole sposare ma rifiutando positivamente di accettare una parte del contenuto specifico e necessario del matrimonio, c’è un consenso non matrimoniale in quanto si vuole in realtà un altro tipo di unione.

Condizione (c. 1102). Il consenso matrimoniale si può dare sotto condizione cioè in dipendenza di un fatto o circostanza qualsiasi (ad es. "ti sposo se sei vergine"). La condizione può essere relativa a un fatto passato, presente o futuro.

La legge però non consente di sposare sotto condizione futura poiché il matrimonio non può essere in pendenza né a prova: è, o non è; per cui la condizione futura invalida il consenso. Così non si può contrarre matrimonio con la condizione "se avremo figli" o "se lascerai la droga".

Se invece il consenso matrimoniale si dà sotto condizione passata o presente, il matrimonio è valido o meno se la condizione si compie o no. Se uno dice "ti sposo se veramente sei incinta", il matrimonio è valido se di fatto la gravidanza esiste, altrimenti no.

Si intuisce il pericolo di porre condizioni al consenso, tra l’altro perché non è lecito iniziare la convivenza finché non si sappia se la condizione si compirà, cioè se il matrimonio esista davvero. Per questo non è lecito porre condizioni presenti o passate senza il permesso scritto dell’Ordinario.

Peraltro bisogna distinguere se la condizione si è riferita alla decisione di sposare o al consenso matrimoniale stesso. Nel parlare corrente tante volte tra fidanzati si esprimono desideri o richieste (abiteremo dai miei, lavorerò a casa, avremo figli) che non entrano poi nel consenso matrimoniale come vere e proprie condizioni.

Violenza e timore. Il consenso deve essere libero, per cui chi si vede costretto a celebrare per violenza o per timore grave che gli viene provocato dall’esterno, anche non intenzionalmente, in realtà non è veramente libero e il suo consenso è viziato (c. 1103).

La violenza è una costrizione fisica, per cui è palese che rende invalido il matrimonio. Diversamente avviene con la paura o il timore, che è di natura psicologica e ammette diverse intensità di reazione in chi lo soffre.

Affinché il timore renda invalido il consenso deve essere: a) grave, cioè causare una commozione seria in chi lo subisce, b) esterno, non frutto, cioè, della fantasia del soggetto e c) efficace, cioè che lo sposo sia veramente stato costretto a scegliere il matrimonio come via di uscita. Le pressioni dei genitori, il timore di dispiacere, non sono di per sé sufficienti a costringere al matrimonio. Possono esserlo le minacce di suicidio dell’altra parte, le minacce gravi dei parenti della donna, il ricatto, ecc.

Infine va detto che il consenso matrimoniale perché sia valido lo devono dare le due parti essendo presenti contemporaneamente di persona o tramite procuratore, e dato con parole o segni presenti ("ti sposo", non "ti sposerò" né "ti vorrei sposare").

c) Gli impedimenti

Sono fatti o circostanze che ostacolano il matrimonio rendendo inabile la persona a celebrarlo validamente (c. 1073); ad es. se uno dei nubendi è già sposato c’è l’impedimento di vincolo. Gli impedimenti hanno lo scopo di tutelare la dignità del matrimonio stesso, i diritti o doveri delle persone che vi intervengono e in generale il bene comune. Poiché si tratta di eccezioni al diritto naturale di contrarre matrimonio, gli impedimenti devono essere definiti espressamente dalla legge e vanno interpretati in senso stretto.

Soltanto l’autorità suprema può stabilire impedimenti. Nessuna consuetudine può stabilire o abolire impedimenti. L’Ordinario del luogo in casi particolari può stabilire un divieto temporaneo per causa grave, ma la sua infrazione non rende nullo il matrimonio, ma soltanto illecito (cc. 1075-1077).

Un impedimento si ritiene pubblico se può essere provato in foro esterno (testimoni, documenti, ecc.), altrimenti è occulto (c. 1074).

Gli impedimenti possono essere di diritto divino o di diritto ecclesiastico. Quelli di diritto divino non possono essere dispensati, quindi quando si parla di dispensa dagli impedimenti ci si riferisce sempre a quelli di diritto ecclesiastico. Spetta unicamente alla suprema autorità della Chiesa dichiarare quando un impedimento sia di diritto divino.

La dispensa dagli impedimenti dipende da varie circostanze (cc. 1078-1082).

a) In circostanze normali possono dispensare:

- La Santa Sede rispetto a tutti gli impedimenti. Tuttavia mai si dà dispensa dell’impedimento di consanguineità nella linea retta e nel secondo grado della linea collaterale (tra fratelli).

- L’Ordinario del luogo nei riguardi dei suoi sudditi e di quelli che dimorano nel suo territorio, rispetto a tutti gli impedimenti tranne quelli di ordine sacro, di voto pubblico perpetuo di castità emesso in un istituto religioso di diritto pontificio, e quello di crimine, la cui dispensa è riservata alla Santa Sede.

b) Se si scopre che c’è un impedimento quando già è tutto pronto per le nozze e non è possibile attendere senza grave danno l’arrivo della dispensa, possono dispensare da tutti gli impedimenti tranne quello dell’ordine sacro:

- L’Ordinario del luogo.

- Se non si può ricorrere all’Ordinario e il caso è occulto il parroco e il ministro assistente al matrimonio

- Il confessore nel foro interno se il caso è occulto.

c) In urgente pericolo di morte possono dispensare da tutti gli impedimenti escluso quello dell’ordine sacro del presbiterato (quindi incluso anche quello del diaconato):

- L’Ordinario del luogo.

- Il parroco e il ministro sacro che assiste al matrimonio se non si può ricorrere neppure all’Ordinario del luogo.

- Il confessore nel foro interno e solo se gli impedimenti sono occulti.

Studio particolare degli impedimenti

Età. Non possono celebrare validamente la donna prima di compiere quattordici anni e l’uomo prima dei sedici anni compiuti. La Conferenza episcopale può fissare età superiori, ma solo per la liceità (c. 1083).

Questo impedimento ha lo scopo di fissare oggettivamente il minimo di maturità biologica e psicologia per il matrimonio; si tratta però di un limite posto non dalla natura, che fa maturare alcuni prima alcuni dopo, ma da una legge ecclesiastica. Quindi l’impedimento è dispensabile.

Impotenza. Siccome l’atto coniugale è essenziale al matrimonio stesso, l’impotenza copulativa, cioè l’impossibilità di compiere (per anomalie organiche o psichiche) la copula, rende nullo il matrimonio se è antecedente e perpetua. Si tratta di un impedimento di diritto naturale (divino) che non può essere dispensato. È indifferente che l’impotenza sia dell’uomo o della donna, assoluta (impossibilità di compiere l’atto coniugale con chiunque) o relativa (impossibilità di compierlo con il consorte).

L’impotenza che sopraggiunge dopo il matrimonio o quella che è guaribile con mezzi leciti e proporzionati, non dirime il matrimonio. Diversa dall’impotenza è la sterilità, che di per sé non invalida il matrimonio (c. 1084).

Vincolo (c. 1085). Non può contrarre matrimonio chi è già legato in matrimonio anche se non consumato. Questo impedimento è richiesto dall’esclusività e indissolubilità del vincolo. Come tale è un impedimento non dispensabile.

Anche se il primo matrimonio è nullo o sciolto non è lecito celebrarne un altro mentre non costi con certezza la nullità o lo scioglimento.

Disparità di culto. Un cattolico non può celebrare valido matrimonio con un non battezzato, senza l’opportuna dispensa.

I matrimoni di religione mista sogliono presentare pericoli e difficoltà per la fede della parte cattolica e per l’andamento del matrimonio stesso; di qui il divieto. Ciò nonostante questo impedimento è dispensabile se la parte cattolica dà garanzie di evitare il pericolo di allontanarsi dalla fede e di fare il possibile per battezzare ed educare i figli nella Chiesa (vid CCC 1633-1637).

Inoltre la Chiesa considera valido il matrimonio tra un cattolico che si sia separato dalla Chiesa con atto formale e un non battezzato, giacché in questo caso non sussistono i pericoli anzidetti.

Se dopo il matrimonio sorgesse il dubbio sull’avvenuto battesimo di una delle parti, esso si ritiene valido finché si provi con certezza il non battesimo (c. 1086).

Ordine sacro. Chi ha ricevuto il sacramento dell’ordine in qualsiasi grado (diacono, presbitero o Vescovo) non può contrarre validamente matrimonio.

Nella Chiesa l’ordine sacro comporta l’impegno al celibato. Ovvio perciò che la legge abbia stabilito questo impedimento, che coinvolge anche i diaconi permanenti i quali non possono sposare dopo il ricevimento dell’ordine. La dispensa da questo impedimento è normalmente riservata alla Santa Sede e comporta il divieto di esercitare gli ordini (c. 1087).

Voto. Coloro che hanno fatto voto pubblico perpetuo di castità in un istituto religioso non possono celebrare validamente il matrimonio (c. 1088).

L’impedimento ha la finalità di tutelare gli impegni della professione religiosa. Si osservi comunque che non rientra nell’impedimento l’assunzione del consiglio evangelico di castità in un istituto secolare, né i voti temporanei, né gli altri vincoli sacri diversi dal voto (promessa, giuramento, ecc.). La dispensa da questo impedimento quando l’istituto è di diritto pontificio resta riservata alla Santa Sede tranne che in pericolo di morte.

Ratto. Se un uomo rapisce o comunque trattiene una donna al fine di contrarre matrimonio con lei, sorge l’impedimento di ratto, per cui non ci può essere matrimonio valido tra loro finché la donna, separata dal rapitore e posta in luogo sicuro e libero, scelga spontaneamente il matrimonio (c. 1089).

Si desidera con questo motivo di nullità tutelare la libertà della donna onde evitare poi dubbi sulla validità del suo consenso. Logicamente questo impedimento non è dispensabile.

Crimine. Questo impedimento sorge sempre tra due persone determinate, il coniuge di una delle quali viene ucciso. Comprende però due figure diverse: a) chi al fine di sposare una persona uccide il proprio coniuge o quello dell’altra, non può validamente sposarla. b) quando due hanno cooperato all’uccisione di un coniuge, anche se non al fine di sposarsi tra di loro, non possono poi farlo. Per la gravità che riveste, la dispensa è di regola riservata alla Santa Sede (cc. 1090 e 1078 § 2, 2º).

Consanguineità (c. 1091). Non è valido il matrimonio tra consanguinei in qualsiasi grado di linea retta (tra ascendenti e discendenti) e fino al quarto grado di linea collaterale (fratelli, zio-nipote, cugini).

Gli impedimenti che sorgono tra parenti hanno come fine di impedire che vengano snaturati i normali rapporti entro la famiglia, e di evitare l’endogamia. Non si dispensa mai della consanguineità in linea retta o nel secondo grado collaterale (fratelli), e se sussiste qualche dubbio su questi casi mai si deve permettere il matrimonio.

Affinità (c. 1092). È il legame di parentela che sorge tra un coniuge e i consanguinei dell’altro (parenti acquisiti). Soltanto in linea retta è nullo il matrimonio (suocero-nuora, suocera-genero).

Pubblica onestà. È la parentela che sorge dalla convivenza di fatto (matrimonio putativo o concubinato). L’impedimento vieta le nozze nel primo grado di linea retta tra l’uomo e le consanguinee della donna (madre o figlie di questa) e viceversa (c. 1093).

Parentela legale (c. 1094). È quella che sorge dall’adozione. L’impedimento rende nulle le nozze in linea retta (adottante-adottato) e nel secondo grado collaterale (fratelli).

d) La forma del matrimonio

La rilevanza sociale del matrimonio richiede che venga celebrato pubblicamente, al fine di tutelare la libertà dei nubenti e rendere nota e certa l’esistenza del vincolo tra di loro.

Benché, come si è detto, l’atto che costituisce il matrimonio è il consenso delle parti, la Chiesa esige per la validità che venga manifestato nella forma legittima, ovvero alla presenza dell’Ordinario del luogo o del parroco (oppure del sacerdote o diacono da essi delegato), e in presenza di due testimoni. Il ministro sacro assiste al matrimonio quando di persona chiede ai contraenti di manifestare il loro consenso e riceve tale manifestazione a nome della Chiesa (c. 1108).

Il ministro sacro assiste al matrimonio come testimone qualificato non come ministro del sacramento: i ministri del sacramento, nella Chiesa latina, sono gli stessi contraenti. Peraltro anche un laico in certi casi può ricevere la delega ad assistere al matrimonio come testimone qualificato (c. 1112).

Poiché è in gioco la validità, il diritto stabilisce con precisione norme sulla forma canonica del matrimonio (la competenza e la sua delega, l’esenzione e la dispensa dalla forma, matrimoni misti, ecc.).

La forma canonica si deve osservare per la validità quando almeno una delle parti sia cattolica e non si sia allontanata dalla Chiesa con atto formale.

Bisogna distinguere tra forma giuridica o canonica (che è quella esigita dalla legge: ministro assistente e due testi), e la forma liturgica che è il rito entro il quale normalmente si compiono le formalità giuridiche ma che non è necessario seguire per la validità.

Oltre alla forma giuridica ordinaria (assistente e due testimoni), esiste la forma chiamata straordinaria che consiste nel celebrare il matrimonio alla presenza dei soli due testimoni.

Questa forma straordinaria si può usare validamente quando non si può avere o andare alla presenza del ministro assistente competente senza grave incomodo e:

a) c’è pericolo di morte; o

b) non c’è pericolo di morte ma si prevede che le difficoltà per la presenza del ministro assistente competente dureranno per un mese.

Con ciò si vuole facilitare l’esercizio del diritto a contrarre matrimonio quando l’osservanza della forma ordinaria è impossibile o troppo onerosa (distanze, guerre, persecuzioni, ecc.).

Per causa giusta l’obbligo della forma canonica può venire anche dispensato in casi concreti, ad es. nei matrimoni misti se la parte non cattolica si oppone a celebrarlo in Chiesa. In questi casi si deve osservare per la validità qualche forma pubblica di celebrazione (la forma civile, ad es.). Il matrimonio è comunque canonico.

Celebrato il matrimonio in qualsiasi forma (canonica ordinaria o straordinaria, oppure civile), esso deve essere annotato nei registri dei matrimoni ed in quello del battesimo delle parti, sicché consti del loro stato di coniugati (cc. 1121-1123).

Il matrimonio può essere anche celebrato in segreto se ci sono motivi gravi che lo consigliano e con permesso dell’Ordinario del luogo (ad es.: due conviventi che tutti ritengono sposati e vogliono poi celebrare il matrimonio). Ciò significa che si fanno in segreto le indagini prematrimoniali, che tutti quelli che intervengono sono tenuti al segreto (coniugi, Ordinario del luogo, ministro assistente, testimoni) e che l’annotazione del matrimonio si compie in uno speciale registro della curia diocesana (cc. 1131-1133).

e) Effetti del matrimonio

Celebrato validamente il matrimonio sorge tra i coniugi un vincolo perpetuo ed esclusivo; il sacramento dà poi ai coniugi cristiani la grazia per vivere lo stato matrimoniale in armonia con la loro vocazione cristiana, malgrado le difficoltà che possano sorgere nella convivenza coniugale (c. 1134).

Entrambi i coniugi hanno uguali diritti e doveri nella comunità coniugale specie per quanto riguarda l’educazione dei figli (c. 1135).

Sono legittimi i figli concepiti o nati da matrimonio valido o putativo (nullo ma in buona fede per almeno uno dei coniugi). Si presume che il padre dei figli nati da donna sposata è il marito di costei finché non si dimostri il contrario. Anche i figli nati fuori del matrimonio vengono legittimati per il susseguente matrimonio dei genitori e sono equiparati in tutto ai figli legittimi, salvo nei casi in cui il diritto disponga diversamente (cc. 1137-1140).

f) Scioglimento del vincolo matrimoniale

Ogni matrimonio è di per sè perpetuo ed indissolubile; il matrimonio rato e consumato non può essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa tranne che la morte (c. 1141).

Oltre alla morte ci sono due casi in cui un matrimonio può essere sciolto: 1) quando non è stato consumato e 2) il chiamato scioglimento in favore della fede. Vediamoli.

1) La dispensa del matrimonio non consumato (c. 1142)

Il matrimonio non consumato fra battezzati o tra una parte battezzata e altra non battezzata, può essere sciolto dal Romano Pontefice se c’è giusta causa e lo chiede almeno una delle parti (anche se l’altra si oppone); si tratta di una dispensa dalla legge dell'indissolubilità, che per la mancata consumazione si può dire non consolidata.

La richiesta dello scioglimento implica l’apertura di un procedimento particolare teso a comprovare che ci sono gli estremi per la concessione della dispensa, esso inizia nella diocesi e passa poi alla Congregazione dei Sacramenti (vedi cap. XII, 7).

Abbiamo già visto che la consumazione si presume se i coniugi hanno convissuto dopo la celebrazione del matrimonio (c. 1061 § 2); in questo caso l’inconsumazione può tuttavia essere dimostrata con diversi argomenti nel menzionato processo.

2) Lo scioglimento in favore della fede (cc. 1143-1150)

Si parte sempre, in questo caso, da un matrimonio tra non battezzati dei quali uno si battezza; allora se la parte non battezzata non vuole coabitare con quella battezzata pacificamente e senza offesa al Creatore, il matrimonio si può sciogliere in favore della fede della parte che ha ricevuto il battesimo.

Lo scioglimento avviene proprio nel momento in cui la parte battezzata celebra nuovo matrimonio, ma perché possa farlo validamente si richiede:

- che non sia stata essa a dare motivo, dopo il battesimo, alla parte non battezzata per separarsi;

- che sia interpellata la parte non battezzata se vuole anch’essa ricevere il battesimo o se almeno voglia coabitare con la parte battezzata pacificamente, senza offesa del Creatore. Questa interpellanza si può omettere se non è possibile farla o consta che sarebbe inutile (ad es. se erano già separati da tempo e magari divorziati).

Se la risposta è negativa (nelle parole o nei fatti), allora la parte convertita può celebrare nuove nozze.

Un altro caso di scioglimento in favore della fede si ha quando riceve il battesimo chi ha contemporaneamente più mogli o più mariti, e non può o gli è gravoso rimanere con il primo coniuge che sposò. Allora può scegliere uno di essi e sposarlo di nuovo canonicamente lasciando gli altri.

Lo stesso avviene se chi riceve il battesimo non può ristabilire la convivenza con il coniuge a causa della prigionia o della persecuzione: allora può sposare un’altra persona. Si pensi ad es. a chi è stato separato della sua famiglia e deportato, e poi si converte e riceve il battesimo ma non può ricongiungersi con il proprio coniuge.

g) La separazione dei coniugi

Si intende qui la rottura della vita comune rimanendo però il vincolo. La convivenza coniugale è un diritto e un dovere per gli sposi, ma può essere interrotta per cause legittime (c. 1151). Queste possono essere:

- L’adulterio. Il coniuge innocente ha diritto di interrompere per sempre la convivenza a meno che non l’abbia consentito, datone il motivo o commesso a sua volta adulterio. Si esorta tuttavia vivamente al perdono per il bene della famiglia (c. 1152).

- Compromettere gravemente la salute morale o fisica del coniuge o della prole, o comunque rendere troppo dura la vita comune (sevizie, malattia pericolosa, deviazioni, ecc.). È causa di separazione mentre perduri lo stato di cose (c. 1153).

La separazione, anche se intrapresa di propria iniziativa deve poi essere deferita all’autorità ecclesiastica perché ne esamini la fondatezza e le possibilità di ristabilire la convivenza.

Sciolta la convivenza rimangono i doveri nati dal vincolo: fedeltà, sostentamento, educazione dei figli, ecc.

h) Convalidazione del matrimonio

È la possibilità che un matrimonio che si sa o si sospetta nullo diventi certamente valido. La nullità come abbiamo visto può provenire da un vizio del consenso, da un impedimento o da irregolarità nella forma.

Il consenso non può essere supplito da nessuna potestà umana, quindi la convalidazione di un matrimonio in cui difettava il consenso di una parte può avvenire soltanto quando essa dà il suo consenso. D’altro canto il consenso valido si presume che persevera finché non consti il contrario, anche se il matrimonio è nullo per altre cause (impedimento, forma).

Può esserci tanto una convalidazione semplice quanto una sanazione in radice.

1) La convalidazione semplice (cc. 1156-1160)

È quella che avviene mediante la rinnovazione del consenso di almeno una delle parti perseverando l’altra nel consenso dato al momento della celebrazione. Vediamo i casi possibili:

a) Quando il matrimonio è nullo per un impedimento. Una volta cessato l’impedimento o ottenuta la dispensa:

- se l’impedimento è occulto (non può essere provato nel foro esterno) basta la rinnovazione privata e segreta del consenso della parte che ne era a conoscenza, purché l’altra perseveri nel suo. Se è conosciuto dalle due, queste devono rinnovare il consenso anche privatamente e in segreto.

- se invece l’impedimento è pubblico il consenso deve sempre essere rinnovato da entrambe le parti e secondo la forma canonica.

b) Quando la nullità proviene da un vizio del consenso, il matrimonio si convalida se dà il suo consenso la parte che non lo aveva dato purché l’altra perseveri nel suo.

- se il vizio non si può provare basta che dia il consenso privatamente e in segreto.

- se invece il vizio può essere provato deve dare il consenso in forma canonica.

c) Quando la nullità proviene da un difetto di forma, il matrimonio deve essere di nuovo contratto secondo la forma canonica.

2) La sanazione in radice (cc. 1161-1165)

Consiste nella convalidazione che avviene senza rinnovazione del consenso e per concessione dell’autorità competente. Tale concessione comporta la dispensa dall’impedimento, se c’è, e dalla forma canonica se non fu osservata. È ovvio che non può essere sanato il matrimonio nullo per vizio di consenso, poiché il consenso non può essere dispensato.

La sanazione in radice serve quindi a convalidare un matrimonio risultato nullo per impedimento o per vizio di forma, anche all’insaputa delle parti o di una di esse, purché perseveri il consenso di entrambe.

Logicamente se si tratta di un impedimento di diritto divino la sanazione non può avvenire prima che cessi l’impedimento.

La sanazione può essere concessa dalla Santa Sede, e anche dal Vescovo diocesano per gli impedimenti che egli può dispensare e per la forma.

i) Pastorale e preparazione del matrimonio

In stretto rapporto con gli aspetti prettamente giuridici del matrimonio che abbiamo sinora visto, si colloca la pastorale previa e successiva alla celebrazione del medesimo. In realtà è una materia che solo parzialmente interessa al diritto, benché sia di grande rilievo per la vita della Chiesa. Perciò dopo aver segnalato l’obbligo dei pastori di prestare ai fedeli un’adeguata pastorale nel cammino matrimoniale, i canoni si centrano su quegli aspetti di essa che sono connessi con la celebrazione valida e lecita del matrimonio, cioè l’indagine previa che a tale scopo si deve compiere.

Tale investigazione o processetto prematrimoniale, comprende l’esame degli sposi, le pubblicazioni, l’acquisizione dei documenti e altri mezzi, al fine di comprovare che non ci siano impedimenti, che le parti siano a conoscenza degli impegni matrimoniali e li accettano.

Spetta alla Conferenza episcopale determinare con più precisione il modo di compiere l’investigazione prematrimoniale.

Inoltre ci sono diverse circostanze che non sono veri e propri impedimenti e tuttavia rappresentano una certa difficoltà ad ammettere le parti al sacramento, per cui il diritto comanda che in presenza di alcuna di esse si deve ottenere prima la licenza dell’Ordinario del luogo. Tali circostanze sono:

-il matrimonio dei girovaghi, per la difficoltà di comprovare il loro stato libero;

- il matrimonio che non può essere riconosciuto o celebrato secondo il diritto civile, per cui potrebbe costituire un illecito civile e gli sposi apparirebbero come liberi di fronte allo Stato.

- quello di chi è già vincolato da un’unione precedente (di fatto o di matrimonio solo civile) e vuole sposare in Chiesa un’altra persona, o comunque ha figli a carico. In questo caso il soggetto è libero di contrarre matrimonio canonico, ma non si possono ignorare i vincoli precedenti benché non costituiscano vero matrimonio.

- il matrimonio per procuratore; al fine di assicurare la validità del mandato dalla quale pende anche quella del matrimonio.

- il matrimonio del censurato (colpito da scomunica o interdetto) o quello di chi ha abbandonato notoriamente la fede cattolica; per assicurare la loro rettitudine e accettazione degli impegni anche sacramentali del matrimonio, e per evitare il possibile scandalo tra i fedeli.

- il matrimonio del minorenne se i suoi genitori sono ignari o si oppongono ragionevolmente.

In questi casi però se il matrimonio venisse celebrato senza la licenza dell’Ordinario del luogo, non per questo sarebbe invalido.

4- Altri atti del culto divino

Oltre ai sacramenti, che costituiscono il nucleo della liturgia della Chiesa, ci sono altri atti di culto che al diritto interessa regolamentare al fine di assicurare la loro valida e corretta celebrazione e quindi anche gli effetti giuridici derivanti. Tali sono i sacramentali, le esequie, la liturgia delle ore, il voto e il giuramento. Alla stregua dei sacramenti sono pure mezzi pubblici di santificazione e sono quindi compresi nella funzione di santificare della Chiesa.

a) I sacramentali (cc. 1166-1172)

Sono segni sacri che senza essere sacramenti in un certo senso li imitano, poiché con essi, per impetrazione della Chiesa, vengono significati e ottenuti effetti spirituali (SC 60; CCC 1677-1673). Sono principalmente le benedizioni (delle persone, dell’acqua, degli oggetti), ma anche le imposizioni delle mani, le unzioni, orazioni, ecc.

Molti sacramentali fanno parte dei riti che accompagnano i sacramenti (l’unzione nel battesimo, la preghiera del Padrenostro, la benedizione finale, ecc.), qui però interessano quei sacramentali che si celebrano come atti di culto in sé e per sè.

I riti per la celebrazione dei sacramentali si trovano nei libri liturgici, principalmente nel Rituale delle Benedizioni (nel Codice troviamo soltanto le norme principali attinenti ad essi).

Istituire sacramentali spetta solamente alla Sede Apostolica, come pure interpretarli, abolirne o modificarne alcuni. Qui c’è una differenza essenziale coi sacramenti: questi sono stati istituiti da Cristo e la Chiesa non può sopprimerne né aggiungerne alcuno e neppure modificarne la sostanza che è di diritto divino (materia, forma, effetti); i sacramentali invece sono di diritto ecclesiastico (umano).

I ministri ordinari dei sacramentali sono i chierici, ciascuno secondo il grado del sacramento dell’ordine che ha ricevuto; così:

- le consacrazioni e le dedicazioni si riservano specificamente ai Vescovi, ma può anche compierle validamente il presbitero autorizzato dal diritto o da una concessione legittima. Si dedicano le chiese e gli altari. Si consacrano le persone, ad es. le vergini, ma anche il sacro crisma per la confermazione.

- le benedizioni, alle persone e alle cose, possono essere impartite da qualunque sacerdote, tranne quelle riservate al Romano Pontefice (ad es. la benedizione Urbi et orbi) e ai Vescovi (ad es. l’olio per la cresima).

- i diaconi invece possono soltanto impartire le benedizioni che gli sono espressamente consentite dal diritto.

Anche i laici che abbiano le qualità convenienti possono amministrare i sacramentali che l’Ordinario del luogo giudichi opportuno.

Soggetto delle benedizioni sono i cattolici, ma anche i catecumeni possono riceverle, e persino i non cattolici se non vi si oppone una proibizione della Chiesa. È un’altra differenza con i sacramenti che soltanto i battezzati possono ricevere.

Anche le cose che si destinano al culto di Dio (chiesa, paramenti, calice...) si devono dedicare o benedire. Tale atto le costituisce in cose sacre che devono essere trattate con riverenza e non usate per usi profani o impropri, anche se appartengono a privati.

Un tipo speciale di sacramentali sono gli esorcismi in cui si chiede al Signore di allontanare il diavolo da una persona, animale o cosa. Poiché si tratta di casi difficili, il diritto stabilisce che può realizzare esorcismi soltanto chi ha licenza peculiare ed espressa dell’Ordinario del luogo, il quale la concederà solo a sacerdoti che siano dotti, pii, prudenti e di vita esemplare (c. 1172).

b) Liturgia delle ore (cc. 1173-1175)

La liturgia delle ore è da molto tempo una parte importante del culto pubblico della Chiesa. Ha come fine consacrare a Dio le ore del giorno dando compimento al monito del Signore "bisogna pregare sempre" (Lc 18, 1). Tutti i fedeli sono invitati a partecipare in questa preghiera pubblica ininterrotta con cui la Chiesa loda al suo Signore, ma per i chierici e i membri degli istituti di vita consacrata è un ministero che devono assolvere ogni giorno a nome della Chiesa e secondo i libri approvati (CCC 1174-1178).

c) Le esequie ecclesiastiche (cc. 1176-1185)

Sono gli atti di culto con i quali la Chiesa impetra l’aiuto spirituale per i defunti, ne onora i corpi e arreca ai vivi il conforto della speranza. Si devono celebrare secondo le norme liturgiche, che prevedono diversi modi di svolgimento (CCC 1680 ss.).

È un dovere dei pastori dare le esequie ai fedeli defunti tranne i casi in cui il diritto stabilisca che gliele devono negare. Anche ai catecumeni si devono dare le esequie.

L’Ordinario del luogo può permettere che siano celebrate le esequie dei bambini morti prima del battesimo e che i genitori intendevano battezzare, e anche dei battezzati non cattolici se non consta della loro volontà contraria e non è possibile avere un ministro proprio.

Devono essere privati dalle esequie se prima di morire non hanno dato segni di pentimento:

1) gli eretici, apostati o scismatici notori;

2) chi sceglie la cremazione del corpo per motivi contrari alla fede;

3) gli altri peccatori manifesti ai quali non è possibile dare le esequie senza scandalo dei fedeli.

Tuttavia se c’è qualche dubbio si deve consultare l’Ordinario del luogo, cui spetta decidere. La privazione delle esequie include quella di ogni messa esequiale.

Di regola le esequie si celebrano nella parrocchia del defunto o in quella dove è avvenuta la morte, a meno che il defunto o coloro cui compete decidere non abbiano scelto un’altra chiesa per il funerale. Le esequie del Vescovo diocesano (anche emerito) si celebrano nella cattedrale se non è stata scelta un’altra chiesa.

Le esequie dei religiosi e dei membri di una società di vita apostolica sono celebrate nella loro chiesa od oratorio dal Superiore o dal cappellano.

La tumulazione deve avvenire nel cimitero della parrocchia se ce l’ha, ma ad ogni fedele è consentito di scegliere per la propria tumulazione il cimitero salvo che ci sia una proibizione del diritto (ad es. non è più consentita la sepoltura in una chiesa a chi non è vescovo). Della tumulazione deve rimanere registrazione.

La Chiesa consiglia vivamente di seguire la tradizione di seppellire i corpi dei defunti, segno della speranza nella risurrezione; tuttavia non proibisce la cremazione salvo che sia stata scelta per ragioni contrarie alla fede.

d) Il culto dei Santi, delle sacre immagini e delle reliquie (c. 1186-1190)

Diverso dal culto a Dio, ma in stretto rapporto con esso, è il culto col quale la Chiesa venera i Santi, specie S. Maria Vergine, Madre di Dio. I Santi sono per noi segno vivente della potenza salvifica del Signore, esempio di vita cristiana e ci sostengono con la loro intercessione.

Il culto ai santi è regolato dalle norme liturgiche. Il Codice ricorda soltanto che è lecito venerare con culto pubblico solo quei servi di Dio che la Chiesa ha incluso nel catalogo dei Santi e dei Beati.

La devozione alle sacre immagini è antica nella Chiesa e si deve conservare; la loro venerazione è diretta a ciò che rappresentano. Tuttavia devono essere esposte nelle chiese con armonia, in modo che aiutino la devozione dei fedeli e non diano spazio a deviazioni.

Le immagini preziose, quelle cioè che sono insigni per l’antichità, l’arte o la devozione che attirano, si devono conservare accuratamente e non devono essere restaurate senza licenza scritta dell’Ordinario, il quale, prima di concederla, deve consultare dei periti.

Anche alle sacre reliquie la Chiesa rende culto. Per evitare abusi in materia la Chiesa esamina l’autenticità della reliquie e ne proibisce il commercio.

Le sacre immagini e reliquie che sono onorate con grande pietà popolare non possono essere alienate validamente né trasferite definitivamente di luogo senza licenza della Santa Sede (cc. 1292 § 2 e 1377).

e) Il voto e il giuramento

Sono atti di religione che quando sono riconosciuti dalla Chiesa costituiscono atti di culto. Inoltre sono vincoli che hanno conseguenze giuridiche per cui le leggi fissano i loro principali elementi.

Il voto è la promessa liberamente fatta a Dio di un bene possibile e migliore (per chi lo fa); si deve quindi adempiere per la virtù della religione. Può fare un voto chi ha uso di ragione e non è proibito dal diritto. È nullo il voto emesso per timore grave e ingiusto o per dolo. Il voto obbliga di per sé soltanto chi lo fa, non altri (cc. 1191-1193).

Il voto è pubblico se viene accettato a nome della Chiesa dal legittimo Superiore (così ad es. i voti religiosi); diversamente è privato. È personale se consiste in un’azione di chi lo fa (un pellegrinaggio, ad es.); è reale se l’oggetto della promessa è una cosa (un’elemosina); può anche essere misto (dipingere un quadro per una chiesa; c. 1192).

Il voto cessa per varie ragioni (c. 1194):

- dopo il tempo fissato per il compimento; ad es. se era temporale, o se si trattava di fare qualcosa entro un termine, trascorso il quale il voto cessa sia che si sia osservato oppure no.

- quando cambia sostanzialmente la materia della promessa; in tal caso l’oggetto del voto può diventare meno retto, nocivo o impossibile (ad es. se chi promise di digiunare si ammala e deve mangiare);

- se non si compie la condizione posta al voto;

- se viene meno il fine per il quale si fece il voto; ad es. dare una offerta per la costruzione di una chiesa che poi l’autorità decide di non fare.

D’altra parte se un terzo ha potestà sulla materia del voto, può sospenderne l’obbligo fintantoché il suo adempimento gli arrechi un danno (ad es. se per compiere una promessa si scombinano i piani di tutta la famiglia). Anche i voti fatti prima della professione religiosa sono sospesi fino a che il soggetto rimane nell’istituto (c. 1195).

Il voto cessa anche per dispensa. Oltre al Romano Pontefice possono dispensare dai voti privati se c’è giusta causa e non si reca danno al diritto di un altro:

- L’Ordinario del luogo e il parroco riguardo ai suoi sudditi e anche ai forestieri.

- Il Superiore di un istituto religioso o società di vita apostolica che siano clericali di diritto pontificio, riguardo ai membri, ai novizi e a quelli che dimorano in una casa dell’istituto (serventi, studenti, ecc.).

- Coloro ai quali sia stata delegata la potestà di dispensare dalla Sede Apostolica o dall’Ordinario del luogo (c. 1196).

Chi ha fatto un voto può commutarne l’oggetto in un altro migliore.

Giurare è invocare il nome di Dio a testimonianza della verità di ciò che si afferma o si promette di fare. Si chiama assertorio se si giura di dire la verità, si dice promissorio quando si giura di fare qualcosa. Dal giuramento liberamente fatto nasce un obbligo peculiare di religione che si aggiunge a quello naturale di dire sempre la verità (cc. 1199-1200 § 1).

Perché sia un atto di culto a Dio il giuramento si deve fare con verità (sinceramente), con giustizia (non si può giurare una cosa ingiusta) e con prudenza (cioè per un motivo proporzionato e d’accordo con le proprie possibilità). Inoltre, per la validità, il giuramento deve essere libero, per cui se è estorto con violenza o dolo o lo si fa per timore grave, è nullo (c. 1200 § 2).

Alle volte il diritto esige di corroborare con giuramento quel che si dice o promette; ad es. in un processo, o il giuramento di fedeltà quando si accede ad una carica, o in certi istituti di vita consacrata in cui i consigli evangelici si assumono con giuramento.

Il giuramento promissorio (quello di fare qualcosa) non vale se quel che si promette va direttamente a danno di terzi o del bene pubblico o della propria salvezza (c. 1201 § 2).

Il giuramento promissorio cessa, si sospende o si può dispensare per le stesse ragioni e condizioni del voto; in più può essere condonato da colui a vantaggio del quale fu emesso.

5- Luoghi e tempi sacri

Nell’ambito della organizzazione della liturgia ci sono anche norme che riguardano i luoghi in cui si celebra il culto di Dio, i tempi festivi e di penitenza.

a) Luoghi sacri

Sono quelli destinati al culto divino o alla sepoltura dei fedeli mediante la dedicazione o benedizione prescritte nei libri liturgici (chiese, oratori, altari, cimiteri, tombe). Il carattere sacro di un luogo esige che esso venga usato soltanto per atti di culto, di pietà o di religione. Eccezionalmente l’Ordinario può permettere qualche atto che non sia di religione e non sia contrario alla santità del luogo.

La profanazione di un luogo sacro avviene se in esso si compiono con scandalo azioni ingiuriose talmente gravi che a giudizio dell’Ordinario del luogo non sia più lecito celebrare il culto, fintantoché l’ingiuria sia riparata con il rito penitenziale previsto (cc. 1211 e 1376).

L’esecrazione di un luogo consiste nella perdita del carattere sacro che aveva acquisito con la dedicazione o la benedizione. Essa avviene se il luogo è distrutto in gran parte oppure se viene destinato permanentemente a usi profani (per decreto dell’Ordinario o di fatto; c. 1212). Così ad es. se una chiesa non può essere adibita al culto il Vescovo diocesano può ridurla a uso profano non indecoroso (museo diocesano, ecc.).

L’autorità ecclesiastica ha il diritto di esercitare liberamente nei luoghi sacri la sua potestà e le sue funzioni (di culto, di giurisdizione e di magistero). Anche se non siano di proprietà ecclesiastica, l’uso dei luoghi sacri cade sotto la potestà della Chiesa (c. 1213). Di solito le leggi civili garantiscono l’inviolabilità dei luoghi sacri.

b) I diversi luoghi sacri

Ci sono diversi tipi di luoghi sacri: chiese, oratori, cappelle private, cimiteri, santuari. Il diritto si occupa di ciascuno di essi.

La chiesa è l’edificio sacro ove i fedeli hanno diritto di entrare per partecipare al culto pubblico. L’ingresso durante le funzioni sacre dev’essere libero e gratuito (cc. 1214 e 1221).

La costruzione di una chiesa deve essere autorizzata dal Vescovo diocesano, il quale deve prima sentire il consiglio presbiterale e i rettori delle chiese vicine (c. 1215). La costruzione o restauro di una chiesa deve avvenire in accordo con i principi della liturgia e dell’arte sacra (c. 1216).

Le chiese devono essere dedicate con il rito stabilito. La dedicazione è riservata al Vescovo della diocesi, ma egli può delegare un altro sacerdote (c. 1217). Dell’avvenuta dedicazione deve rimanere documento scritto (c. 1208).

Ogni chiesa ha il suo titolo (il nome cioè in onore di cui è dedicata: SS. Trinità, S. Maria del Popolo, S. Francesco, ecc.), che non si può cambiare dopo la dedicazione (c. 1218).

Nelle chiese si possono compiere tutti gli atti del culto, salvi i diritti parrocchiali: le funzioni che spettano al parroco richiedono il suo permesso per essere compiute in altra chiesa (cc. 1219 e 530).

L’oratorio è il luogo che, su licenza dell’Ordinario, si destina al culto divino in favore di una comunità o gruppo di fedeli. Altri fedeli vi possono accedere col permesso del Superiore competente (c. 1223).

Prima di concedere la licenza l’Ordinario deve comprovare che l’oratorio è allestito in modo conveniente. Si consiglia poi che l’oratorio sia benedetto col rito prescritto; in qualsiasi caso esso va usato soltanto per atti di religione e non può essere convertito a usi profani senza licenza del medesimo Ordinario (c. 1224).

Negli oratori si possono effettuare tutte le cerimonie, eccetto quelle escluse dal diritto, dalle norme liturgiche o dall’Ordinario del luogo (c. 1225).

La cappella privata è il luogo destinato al culto, su licenza dell’Ordinario del luogo, in favore di una o più persone fisiche (una famiglia ad es.). Per celebrare la Messa o altre funzioni in una cappella si richiede licenza dell’Ordinario del luogo. I Vescovi però hanno diritto di costituire la propria cappella privata ove si possono svolgere le stesse funzioni che in un oratorio. È bene che anche la cappella sia benedetta liturgicamente (cc. 1226-1229).

Il santuario è il luogo sacro di culto ove, per un motivo peculiare di pietà, si recano i fedeli in pellegrinaggio con l’approvazione dell’Ordinario del luogo (c. 1230).

I santuari possono essere diocesani, nazionali e internazionali. Ciascuno di essi può avere statuti propri approvati dall’Ordinario del luogo, dalla Conferenza episcopale o dalla Santa Sede a seconda della categoria del santuario (cc. 1231, 1232).

I santuari sono luoghi privilegiati della pastorale soprattutto liturgica e della penitenza, per cui possono godere di alcune concessioni o privilegi in favore dei pellegrini (assoluzioni da censure, indulgenze, ecc.; c. 1233).

L’altare è la mensa ove ci celebra l’Eucaristia. Può essere fisso o mobile a seconda che sia unito al pavimento o che possa essere trasportato (c. 1235).

L’altare fisso è bene che sia costruito in pietra naturale, la mensa possibilmente di un solo pezzo. La Conferenza episcopale può autorizzare altre materie appropriate. Deve essere dedicato col rito liturgico mantenendo la tradizione di porre sotto l’altare reliquie di Santi (normalmente martiri).

L’altare mobile può essere costruito in qualsiasi materia degna e deve essere dedicato o benedetto (c. 1236).

Come luoghi sacri gli altari si devono usare soltanto per il culto. Sotto di essi non si devono seppellire cadaveri (sì invece reliquie), altrimenti non sarebbe lecito celebrarvi la Messa.

Il cimitero è il luogo sacro destinato alla sepoltura dei fedeli defunti.

La Chiesa desidera avere propri cimiteri o per lo meno potersi riservare uno spazio entro un cimitero civile. Entrambi siano benedetti liturgicamente. Se non fosse possibile si devono benedire di volta in volta i singoli tumuli (cc. 1240-1241).

Secondo il diritto canonico ogni parrocchia e istituto religioso possono avere il proprio cimitero. Altre persone giuridiche e famiglie possono avere un cimitero o un sepolcro proprio (c. 1241).

Nelle chiese non si possono seppellire defunti, eccetto per il Papa, i Cardinali e i Vescovi diocesani, che possono essere sepolti nella propria chiesa.

c) I tempi sacri

Sono i giorni festivi di precetto e i giorni di penitenza. Hanno il senso di ricordare con particolare rilievo determinate ricorrenze religiose, specie i misteri del Signore. Spetta alla suprema autorità ecclesiastica indire o abolire giorni di festa o di penitenza per tutta la Chiesa.

Il Vescovo diocesano può indire particolari giorni di festa o di penitenza per la sua diocesi. Può anche dispensare dai giorni di festa o di penitenza universali. Anche il parroco può, per giusta causa e seguendo le disposizioni del Vescovo diocesano, dispensare dall’osservanza di un giorno festivo o di penitenza o commutarla per un’altra opera pia (cc. 1244, 1245).

I giorni di festa in tutta la Chiesa sono principalmente le domeniche, in cui si celebra sin dai tempi apostolici la pasqua del Signore; inoltre sono feste di precetto il Natale, l’Epifania, l’Ascensione, il Corpus Domini, la Maternità divina di Maria (1 gennaio), l’Immacolata, l’Assunzione, S. Giuseppe, i SS. apostoli Pietro e Paolo e tutti i Santi. Tuttavia la Conferenza episcopale può abolire o trasferire alla domenica alcuni giorni di precetto, con l’approvazione ella Sede Apostolica (c. 1246).

L’osservanza del precetto festivo consiste nel partecipare alla S. Messa e nel riposo dai lavori o affari quotidiani. Se c’è una seria difficoltà l’obbligo cessa (ad es. malattia, se non c’è festa lavorativa civile, lavori di casa). Il precetto della Messa si può compiere anche nel vespro del giorno precedente (cc. 1247-1248).

I giorni e tempi di penitenza comuni a tutta la Chiesa sono tutti i venerdì dell’anno e il tempo di quaresima. In essi i fedeli si devono dedicare più intensamente alla preghiera, alle opere di carità e compiere sacrifici. In certi giorni si deve inoltre osservare l’astinenza dalle carni (tutti i venerdì dell’anno) e l’astinenza e il digiuno (il mercoledì delle ceneri e il venerdì Santo). Se un venerdì coincide con una solennità liturgica non si deve osservare l’astinenza (cc. 1249-1251).

L’astinenza obbliga a partire dai 14 anni compiuti. Il digiuno dalla maggiore età fino ai 59 anni compiuti (c. 1252).

La Conferenza episcopale può (c. 1253):

- determinare che l’astinenza invece che le carni riguardi un altro cibo;

- precisare ulteriormente l’osservanza del digiuno e dell’astinenza;

- sostituirli in tutto o in parte con altre forme di penitenza. Molte Conferenze hanno infatti permesso che i venerdì non di quaresima si possa sostituire l’astinenza con un tempo di preghiera, opere di carità, o altri sacrifici (non fumare, non bere alcolici, ecc.).

X. I beni temporali della Chiesa. Diritto patrimoniale canonico

Come tutte le istituzioni la Chiesa ha anche bisogno di usare dei mezzi materiali "nella misura che la propria missione richiede" (GS, 76). Di conseguenza la Chiesa ha il diritto proprio e indipendente da qualsiasi altra potestà di possedere, amministrare e alienare beni temporali per compiere i suoi fini.

Questi fini sono principalmente il sostentamento del culto e del clero, delle opere di apostolato e di carità (le opere di misericordia spirituali e materiali), che fanno parte della sua missione religiosa nel mondo (c. 1254). Contribuire a queste finalità è un dovere dei fedeli (c. 222), il che comporta anche il diritto di fronte alle autorità civili di devolvere beni temporali in favore della Chiesa (c. 1261).

Al suo interno la Chiesa organizza autonomamente le sue risorse economiche: la disciplina canonica sull’acquisto, la proprietà, l’amministrazione, ecc. dei beni della Chiesa costituisce il diritto patrimoniale canonico.

a) I beni

Ma questi beni che servono al funzionamento della Chiesa non sono radunati in un unico patrimonio intestato, per così dire, all’ente Chiesa cattolica; essi si trovano disseminati nei patrimoni delle persone giuridiche ecclesiastiche alle quali appartengono (la Sede Apostolica, le diocesi, le parrocchie, le associazioni, gli istituti di vita consacrata, ecc.). Tuttavia tra tutti questi beni c’è una certa unità per il fatto che, in un modo o nell’altro, tutti servono alle necessità ecclesiali sotto la suprema autorità del Romano Pontefice.

In altre parole, nella Chiesa i beni sono proprietà della specifica persona giuridica che li acquista, ma devono pur sempre servire a finalità ecclesiali e sono sotto la suprema autorità del Papa, al quale spetta regolamentare l’esercizio della proprietà nella Chiesa (c. 1256).

Tra i beni che servono alle attività ecclesiali c’è una categoria di speciale rilievo: sono i beni ecclesiastici. Questi sono appartenenti alle persone giuridiche pubbliche nella Chiesa. Non sono ecclesiastici invece i beni appartenenti alle persone giuridiche private.

Infatti, abbiamo visto che una caratteristica che definisce le persone giuridiche pubbliche è che esse sono costituite dall’autorità e compiono le loro attività in nome della Chiesa (c. 116 § 1) coinvolgendola dunque nel loro operato (cfr. cap. III, 2, b e cap. V, 4). Essendo pubblico il soggetto è logico che i suoi beni abbiano anche la considerazione di beni pubblici, cioè ecclesiastici.

La differenza tra i beni degli istituti pubblici (beni ecclesiastici) e quelli delle istituzioni private sta nel diverso regime giuridico al quale sono sottoposti secondo il c. 1257. I beni ecclesiastici in quanto beni pubblici sono retti dai canoni del Libro V del Codice, nonché dagli statuti della persona giuridica proprietaria. Invece i beni delle persone giuridiche private si reggono principalmente secondo gli statuti delle medesime.

Ciò comporta due cose: 1ª) che i beni ecclesiastici, proprio perché appartengono ad un ente pubblico canonico, sono anche della Chiesa. In diritto patrimoniale quando si parla di Chiesa (beni della Chiesa, proprietà della Chiesa, diritti della Chiesa, ecc.) si intende di regola qualsiasi persona giuridica pubblica canonica e non quelle private; 2ª) è di questi beni che si occupa principalmente il Codice, e quindi anche questo libro.

Ciò non significa che non si possa dire che anche i beni delle persone giuridiche private sono della Chiesa: lo sono in quanto appartengono ad un ente ecclesiastico i cui fini e attività rientrano in quelli della Chiesa; ma non sono beni ecclesiastici poiché questi enti non agiscono in nome della Chiesa. In questo senso il loro patrimonio e attività economica sono privati, rimangono nell’ambito della loro autonomia e responsabilità.

Insomma bisogna distinguere tre tipi di beni o di patrimoni a seconda del proprietario: a) i beni ecclesiastici, che sono quelli degli istituti giuridici pubblici e si reggono da quanto disposto nel Codice oltre che negli statuti dell’ente titolare; b) i beni delle istituzioni canoniche private, che non sono ecclesiastici e seguono gli statuti dell’entità proprietaria di essi; e c) i beni dei singoli fedeli che non hanno di per sé nessun rapporto col diritto canonico.

C’e una seconda categoria di beni che hanno una specifica rilevanza per il diritto canonico: le cose sacre. Sono, come sappiamo (cap. IX, 4 e 5), quelle destinate permanentemente dall’autorità ecclesiastica al culto divino (chiese, immagini, reliquie, paramenti, ecc.). Questa dignità fa sì che, chiunque sia il suo proprietario, tali cose devono essere trattate e usate nel modo e per gli atti stabiliti dalle norme canoniche, e sono sottoposte in questi aspetti all’autorità ecclesiastica, alla quale spetta la disciplina del culto, anche se appartengano a privati o a enti civili, e quindi non siano beni ecclesiastici.

Invece tra i beni ecclesiastici, c’è una categoria particolare che è quella delle cosiddette cose preziose. Beni o cose preziosi sono quelli che hanno un valore speciale di ordine artistico, storico, culturale, di pietà o devozione popolare, ecc. (ad es. una chiesa, un’immagine molto venerata, un archivio, un calice, gli ex-voto). Per questo motivo ci sono norme speciali miranti a tutelare le finalità proprie, l’integrità e la conservazione di questi beni della Chiesa.

b) L’acquisto dei beni

In questa epigrafe rientrano due questioni differenti. La prima riguarda i modi in cui la Chiesa può acquistare beni economici; e qui basta dire che può farlo in tutti i giusti modi alla stessa maniera di chiunque altro: compravendita o donazione, eredità o lascito, frutti o rendite, ecc. (c. 1259).

La seconda questione sono le vie o fonti di finanziamento della Chiesa. Sono sostanzialmente gli apporti dei fedeli, ma anche si possono considerare i frutti del suo patrimonio e gli eventuali aiuti da parte dello Stato.

La Chiesa ha per sè stessa il diritto di richiedere ai fedeli i mezzi necessari per le sue attività e fini (c. 1260). I fedeli hanno, come abbiamo visto, il dovere e il diritto di contribuire (c. 222). La comunione ecclesiastica include anche una certa comunicazione nei beni materiali, che nelle prime comunità cristiane era abbastanza intensa e generosa, come attestano gli atti degli Apostoli e le lettere di S. Paolo.

Gli apporti dei fedeli alla Chiesa sono diversi; di regola si preferiscono le offerte volontarie, si punta cioè sulla loro risposta responsabile di fronte alle varie necessità; ma la Chiesa ha anche la potestà di esigere contributi obbligatori che in alcuni luoghi, per ragioni storiche, costituiscono la fonte più cospicua di introiti (Germania, Austria, Svizzera).

Le offerte possono essere di diverso tipo, ma sono sempre donazioni, elemosine, fatte dai fedeli alla Chiesa. Di solito non sono generiche, ma hanno un destinatario concreto (la diocesi, il seminario, la parrocchia, un convento...), e spesso anche finalità determinate. Nel diritto patrimoniale vige il principio del rispetto della volontà del donante, per cui "le offerte fatte dai fedeli per un determinato fine non possono essere impiegate che per quel fine" (c. 1267 § 3).

Tra i differenti tipi di offerte volontarie hanno speciale rilievo le collette, questue o raccolte di denaro (subventiones rogatas li chiama il Codice) indette dall’autorità, nelle quali si chiede ai fedeli di contribuire a determinate necessità o iniziative (le missioni, la parrocchia, la ‘Caritas’). Si sogliono fare nelle Messe dei giorni festivi ma anche in altri modi (per la strada, per posta, sui giornali). Spetta alla Conferenza episcopale emanare norme al riguardo, ma anche l’Ordinario del luogo può indire questue speciali da fare nelle chiese e oratori aperti al pubblico. Logicamente il ricavato si deve destinare al fine proposto. Per fare questue in favore di un fine o istituto ecclesiastico, le persone private (fisiche o giuridiche) devono ottenere licenza dal proprio Ordinario e da quello del luogo dove si fa la raccolta (cc. 1262-1266).

Altre offerte volontarie sono le elemosine spontanee date dai fedeli di propria iniziativa. Su queste donazioni ci sono alcuni punti interessanti sotto il profilo giuridico:

a) Le offerte date a una persona fisica che in qualsiasi modo rappresenta una persona giuridica (anche privata), si intendono fatte alla persona giuridica a meno che non consti il contrario. Quindi le elemosine date, p. es., al parroco si intendono fatte alla parrocchia, non a lui.

b) Le donazioni in principio si devono accettare e per rifiutarle ci vuole una giusta causa e, se si tratta di qualcosa di importante, anche il permesso dell’Ordinario. Ma ci sono casi in cui il donante aggiunge alla sua offerta condizioni, oneri o modi di adempimento e allora accettare l’offerta vuole dire anche impegnarsi a compiere le richieste del donante (offrire certe messe, fare un ospedale, ecc.), quindi bisogna valutare se conviene o meno accettare, e comunque per farlo si richiede licenza dell’Ordinario a cui è sottomesso l’ente giuridico beneficiario (c. 1267).

Un altro tipo di contributi sono le offerte che si chiedono ai fedeli in occasione di servizi pastorali (matrimonio, battesimo, funerali, ecc.). Anche se in questi casi esiste un certo dovere di farle, esse non sono un ‘pagamento’ dei sacramenti o sacramentali. Per evitare abusi o scandali, il diritto stabilisce che i Vescovi della provincia determinino quanto si deve chiedere ai fedeli in ciascun caso; questi possono dare di più e comunque non si possono negare i servizi pastorali a chi non può dare l’offerta.

Come contributi obbligatori ci sono le tasse e i tributi. Le tasse sono le spese che i fedeli devono pagare per atti amministrativi da loro sollecitati (certificati, dispense, processi, pratiche); sono di due tipi, amministrative e giudiziarie. Anche le tasse amministrative devono essere fissate dai Vescovi della provincia e da esse viene esonerato chi non può pagarle (c. 1264).

I tributi sono oneri pecuniari imposti dall’autorità ai sudditi per le necessità generali o specifiche della Chiesa. Come mezzo di finanziamento hanno di regola un carattere eccezionale poiché si preferisce appellarsi alla responsabilità e generosità dei fedeli piuttosto che alle esazioni obbligatorie. Tuttavia la Chiesa ha il diritto di esigere tributi e il Codice ne prevede alcuni che spetta sempre al Vescovo diocesano decidere o meno di imporre (cc. 1263, 264). I tributi sono sempre di carattere generale, diocesano e devono essere moderati e proporzionati al reddito economico del soggetto passivo.

- il tributo ordinario è un contributo generale e fisso che il Vescovo diocesano, sentito il parere del consiglio per gli affari economici e quello del consiglio presbiterale, può imporre alle persone giuridiche pubbliche a lui soggette per le necessità diocesane.

- alle altre persone fisiche e giuridiche (private) a lui soggette, può il Vescovo diocesano imporre un tributo straordinario, ma soltanto in caso di grave necessità, quindi in maniera occasionale.

- il seminaristico è un tributo che il Vescovo può imporre a tutte le persone giuridiche che hanno sede nella diocesi in favore del seminario.

Oltre a queste vie di acquisto di beni in alcuni paesi lo Stato offre alla Chiesa determinati supporti economici, ad es. per il sostentamento del clero, per la costruzione di templi, esenzioni di imposta, ecc., con diversi modi di attuazione. In Italia oggi lo Stato aiuta la Chiesa (e altre confessioni) col 0,8 % dell’IRPEF delle persone fisiche che abbiano chiesto tale devoluzione nella loro dichiarazione, ed anche con la possibilità di dedurre dal reddito soggetto a tributo le donazioni fatte all’Istituto centrale per il sostentamento del clero (ICSC), fino a 2.000.000 di Lire.

c) Amministrazione dei beni ecclesiastici

L’amministrazione è l’insieme di atti e provvedimenti tesi a conservare e incrementare un patrimonio e a farlo servire per le finalità prefissate. Un’attività complessa e molteplice guidata da criteri giuridici ed economici; noi ci soffermeremo principalmente sui primi.

L’organizzazione economica della Chiesa si era in passato basata sull’istituto del beneficio, che elementarmente consisteva in una massa di beni (di regola fondiari) con le cui rendite si sostenevano le necessità della Chiesa (soprattutto i chierici, incaricati di amministrarli).

Per diverse ragioni storiche (specie l’incameramento da parte dello Stato delle proprietà ecclesiastiche) e anche funzionali, questo schema di un capitale immobile dalle cui sole rendite si doveva prevvedere alle varie necessità era diventato obsoleto, e il Concilio Vaticano II ha disposto il progressivo abbandono del sistema beneficiale (c. 1272).

Oggi le unità economiche sono le persone giuridiche, principalmente le diocesi (la Chiesa particolare) che, anche se non esclusivamente, radunano in loro tutte le attività della Chiesa e quindi anche i bisogni (culto, clero, apostolato, carità). Peraltro lo schema funzionale tende più ad essere quello del bilancio: la previsione cioè degli introiti e delle spese annue, che si tenta di realizzare.

Nel Codice viene delineato uno schema generale e opzionale di organizzazione economica diocesana in cui si prevede:

- Un’istituto per il sostentamento del clero che serve la diocesi, come ente autonomo con introiti e oneri specifici. Ad esso saranno via via destinati i beni dei benefici estinti. In Italia, in forza degli accordi Chiesa-Stato, si sono costituiti l’Istituto Centrale e gli Istituti diocesani per il sostentamento del clero.

- Un’istituto per la previdenza sociale del clero, che può essere collegato a livello nazionale con quegli delle altre diocesi secondo le norme della Conferenza episcopale.

- Un fondo comune diocesano per le altre necessità, specie per la retribuzione delle altre persone che servono la diocesi, che può essere anche collegato con quegli delle altre diocesi.

Sistemi di collegamento per la cooperazione interdiocesana possono essere attuati a livelli e con forme diversi, ma resta fermo il principio che i beni provenienti da diverse diocesi devono essere amministrati secondo norme concordate tra i Vescovi interessati (c. 1275).

Aparte le Chiese particolari, ogni persona giuridica deve anche avere il suo schema economico che preveda un consiglio di amministrazione con almeno tre persone (l’amministratore e due consiglieri). Il diritto universale raccomanda vivamente che si faccia ogni anno il preventivo; il diritto particolare può imporre tale obbligo.

Dal punto di vista funzionale, l’amministrazione dei beni ecclesiastici è regolata dai seguenti principi:

1) Il Romano Pontefice in virtù della sua potestà di governo su tutta la Chiesa, è anche il supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici. Ad egli spetta quindi regolamentare l’amministrazione dei beni, esigere che certi atti vengano sottoposti a determinati requisiti, ecc. (cc. 1256 e 1273).

2) L’amministrazione immediata dei beni spetta agli organi di rappresentanza della persona titolare di essi, a norma del diritto universale e particolare nonché dei propri statuti. Abbiamo già visto che ogni persona deve avere i propri organi economici: l’amministratore e un consiglio per gli affari economici (c. 1280).

3) Tale amministrazione è sottoposta alla vigilanza e controllo dell’Ordinario al quale la persona giuridica è soggetta. A lui spetta dare istruzioni, intervenire in caso di negligenza, nominare amministratori per una persona che non ne abbia, approvare gli atti di amministrazione straordinaria, ecc. (cc. 1276-1279).

Su queste basi il Codice stabilisce le regole che gli amministratori devono osservare nell’adempimento del loro incarico, il quale, poiché riguarda beni ecclesiastici, è sempre svolto in nome della Chiesa (c. 1282-1289).

Ci sono atti di amministrazione ordinaria e straordinaria. I primi sono quelli che riguardano la normale attività patrimoniale dell’ente secondo quanto stabilito negli statuti e nel bilancio, possono essere posti dagli amministratori a nome della persona. Gli atti di amministrazione straordinaria invece sono quelli che hanno maggiore rilievo e possono intaccare la stabilità economica della persona giuridica. Per porre validamente questi atti gli amministratori devono ottenere previamente il permesso scritto dell’Ordinario al quale la persona è soggetta. Nel caso delle diocesi il Vescovo deve ottenere il consenso del consiglio economico diocesano e del collegio dei consultori (c. 1277).

Per le diocesi spetta alla Conferenza episcopale stabilire quali siano gli atti di amministrazione straordinaria, mentre per le altre persone essi devono venire specificati negli statuti.

d) Alienazione di beni ecclesiastici

Nei contratti la Chiesa si adegua alle leggi civili vigenti nel territorio (cd. canonizzazione), a meno che non ci sia qualcosa di contrario al diritto divino o per diritto canonico si preveda altro.

Concretamente per alienare validamente beni che costituiscono il patrimonio stabile di un ente pubblico, il diritto canonico prevede che, al di sopra di un certo ammontare, ci sia bisogno di ottenere la licenza scritta dell’autorità competente o addirittura della Santa Sede. Quindi le persone giuridiche pubbliche non sono libere di disporre autonomamente di parti consistenti del loro patrimonio.

La Conferenza episcopale di ogni paese deve fissare per le alienazioni due somme: quella minima a partire dalla quale si richiede la licenza del Vescovo diocesano (per le persone a lui soggette: parrocchie, seminario) o di altra autorità designata dagli statuti; e quella massima a partire dalla quale c’è bisogno, anche, della licenza della Santa Sede.

Il Vescovo diocesano sia quando deve dare la sua licenza, sia quando egli stesso vuole alienare beni della diocesi, al di sopra della somma minima fissata dalla Conferenza, deve ottenere il consenso del consiglio economico diocesano e del collegio dei consultori.

Inoltre ci vuole sempre la licenza della Sede Apostolica per alienare validamente ex-voto e beni preziosi. Nella Curia romana di questi affari se ne interessa di solito la Congregazione per il clero.

Alienare beni ecclesiastici senza le dovute licenze costituisce reato (c. 1377) oltre a generare responsabilità pecuniarie dovute all’invalidità dell’atto (c. 1296).

Le stesse regole vigenti per le alienazioni si devono applicare a qualsiasi affare che possa intaccare il patrimonio della persona giuridica peggiorandone la condizione, inclusi gli affitti (cc. 1295 e 1297).

Come si vede la stabilità dei patrimoni è la regola nel diritto canonico, poiché i beni devono servire a scopi duraturi, tipici delle persone giuridiche.

d) Pie volontà e pie fondazioni

Si chiamano pie volontà gli atti con i quali i fedeli dispongono dei loro beni in favore della Chiesa destinandoli a specifici fini di culto o di carità. Il soggetto ecclesiastico che riceve i beni assume l’obbligo di compiere la volontà del donante o fondatore.

Poiché si tratta di beni che devono servire ai fini della Chiesa, l’autorità ecclesiastica è interessata all’efficace compimento della volontà del donante e quindi all’adeguata amministrazione dei beni. Perciò il c. 1301 affida all’Ordinario compiti di vigilanza e controllo sull’esecuzione di tutte le pie volontà entro la sua giurisdizione, chiunque sia il soggetto beneficiario incaricato di compiere la volontà pia.

Quando una volontà pia consiste in un capitale alle cui rendite si attinge per compiere i desideri del donante, allora siamo davanti ad una pia fondazione. Se i beni stessi sono costituiti in persona giuridica allora la fondazione è autonoma, avendo i propri statuti e organi di gestione; se invece la fondazione è affidata ad una persona giuridica esistente che se ne assume la gestione e l’adempimento dei fini, la fondazione si dice non autonoma (cc. 1303 e 115).

Perché si possa costituire una fondazione è necessario che l’autorità verifichi che il fine proposto dal fondatore è consono con la missione della Chiesa, che i mezzi sono sufficienti e che il ricevente è capace di compierli (c. 1304).

XI. Diritto penale canonico

Il Popolo di Dio è costituito come una società fondata sulla comunione di fede, di sacramenti e di disciplina. La Chiesa quindi ha il diritto di reagire anche con sanzioni penali di fronte agli attentati più gravi portati contro la comunione ecclesiale al fine di difenderla e ristabilirla (c. 1311).

a) Il delitto

È l’esterna e gravemente colpevole trasgressione di una legge o di un precetto, per la quale violazione l’autorità competente abbia comminato una pena.

Entro il suo ambito può emanare leggi penali chi gode della potestà legislativa (cc. 1315-1318); parimenti chi con potestà esecutiva può emanare precetti, "può anche comminare con un precetto pene determinate" (cc. 1319-1320).

Il delitto si chiama consumato quando gli atti del delinquente risultano di fatto efficaci a produrre il fatto delittuoso. Se invece, per qualche ragione (ad es., perché il delinquente desiste), il risultato delittuoso non si produce, siamo davanti a quello che si chiama conato di delitto, che in certi casi può anche venire punito ma sempre con una pena minore a quella stabilita per il delitto consumato (c. 1328). Ci sono poi delitti che consistono proprio nel intentare certi fatti, come il chierico o il religioso che attentano al matrimonio (c. 1394).

b) Il delinquente

È chi compie un delitto intenzionalmente (cioè con dolo) o perlomeno con imprudenza colpevole. Chi invece senza colpa agisce per ignoranza, inavvertenza o errore, oppure non ha l’uso della ragione, non commette delitto (cc. 1321, 1322).

Ci sono altre circostanze che possono esimere della pena come sono: l’età minore di 16 anni, il caso fortuito, la legittima difesa, la violenza e il timore, il caso di necessità (c. 1323).

Ci sono poi circostanze attenuanti, che comportano la mitigazione della pena oppure la sua sostituzione con una penitenza. Nel c. 1324 vengono elencate le principali, quali sono: l’imperfetto uso di ragione, non avere il reo compiuto i 18 anni, ignorare senza colpa che il fatto costituiva un delitto, l’ingiusta provocazione da parte della vittima. Ma il giudice può tenere conto di altre circostanze non elencate.

Ma ci sono anche circostanze che consentono al giudice di aggravare la pena come sono la pertinacia e l’abuso di autorità (c. 1326).

Diverse persone possono concorrere a commettere un unico delitto, sia come coautori di esso (partecipando ugualmente al fatto delittuoso), sia come complici (aiutando fisica o moralmente al delitto di un altro). Sono considerati ugualmente delinquenti e possono essere castigati con la stessa pena quando senza la loro opera il delitto non sarebbe stato commesso (c. 1329).

c) Le pene ecclesiastiche

La pena è la privazione di un bene (spirituale o temporale) come castigo di un delitto. Nella Chiesa le pene riguardano i beni e diritti che si hanno in essa, non quelli che si hanno nella società civile. Le pene ecclesiastiche sono di due tipi: pene medicinali o censure e pene espiatorie (c. 1312 § 1).

1) Le censure

Sono le più gravi e hanno come finalità medicinale far recedere il delinquente dalla sua condotta; esse quindi durano finché il reo abbia dato segni chiari di resipiscenza e soltanto allora egli ha il diritto di essere assolto dalla censura.

Le censure sono tre: scomunica, interdetto e sospensione. La scomunica è la più grave in quanto in una certa misura significa l’espulsione del reo della compagine ecclesiastica: egli non può partecipare come ministro a nessun atto di culto pubblico, né celebrare o ricevere i sacramenti né esercitare qualsiasi ufficio, funzione, ministero o incarico nella Chiesa (c. 1331).

L’interdetto è uguale alla scomunica in quanto vieta la celebrazione di atti di culto e la ricezione dei sacramenti, ma non l’esercizio di altri incarichi ecclesiastici (c. 1322).

La sospensione è una pena che può essere inflitta soltanto ai chierici, vietando loro di compiere tutti od alcuni atti della potestà d’ordine (atti di culto, predicazione, sacramenti), della potestà di governo, e anche di esercitare tutti od alcuni dei diritti o funzioni dell’ufficio; a seconda della norma o decisione con cui viene inflitta la pena (cc. 1333, 1334).

2) Le pene espiatorie

Mirano soprattutto a castigare il delinquente, privandolo di certi beni, diritti o facoltà in perpetuo o temporaneamente. Le più importanti sono (c. 1336):

- la proibizione o l’ingiunzione di dimorare in un certo territorio (solo per chierici e religiosi);

- la privazione di: potestà, ufficio, diritto, incarico, privilegio, grazia, titolo, onorificenza o facoltà; oppure del loro esercizio o godimento, ovunque o in un certo territorio;

- il trasferimento penale ad un altro ufficio;

- la dimissione dallo stato clericale. Questa pena non può essere stabilita da una legge particolare (c. 1317).

La legge può comminare altre pene espiatorie che siano congruenti con il fine soprannaturale della Chiesa (ad es. l’espulsione da un’associazione o da un istituto; c. 1312 § 2).

3) I rimedi penali e le penitenze

Oltre alle pene ci sono punizioni che hanno come finalità prevenire i delitti (rimedi penali), oppure sostituire o aggravare la pena dovuta ad essi (penitenze).

I rimedi penali sono l’ammonizione e la riprensione. La prima si può fare a chi si trova nell’occasione prossima di compiere un delitto o è sospettato di averlo commesso. La riprensione va fatta a chi col proprio comportamento ha causato scandalo o disordine (c. 1339).

Inoltre insieme alla pena o in luogo di essa si possono imporre penitenze consistenti in opere di pietà, carità o religione (c. 1340).

d) Applicazione delle pene

Le pene vengono inflitte di regola soltanto dopo una sentenza o decreto di condanna; ma ve ne sono alcune, che si chiamano latae sententiae, nelle quali si incorre automaticamente per il fatto stesso di aver compiuto il delitto o cooperato direttamente ad esso (c. 1314). Tra queste si possono annoverare la scomunica in cui cade ipso facto chi profana le specie consacrate (c. 1376), chi usa violenza fisica contro il Romano Pontefice (c. 1370 § 1) o chi coopera direttamente a procurare l’aborto (c. 1398). Si deve tuttavia tenere in conto che quando concorre alcuna circostanza attenuante non si cade nella pena latae sententiae (c. 1324 § 3).

La Chiesa si adopera, prima di imporre una pena, affinché siano tentate altre vie pastorali per ottenere l’emendamento del reo e il ristabilimento della giustizia; inoltre lascia al giudice un ampio grado di discrezionalità per apprezzare le circostanze che possono consigliare la mitigazione o la sospensione della pena, il suo differimento o anche la sostituzione di essa con una congrua penitenza, ma sempre tenendo anche conto delle esigenze della giustizia e di evitare o riparare lo scandalo.

La pena da infliggere per un certo delitto può essere stabilita nella legge come:

- Obbligatoria o facoltativa. Nel primo caso il delitto deve essere necessariamente punito (di solito nella legge si dice: "sia punito"); nel secondo si lascia al giudice potestà di applicare o non applicare la pena (quando la legge dice: "può essere punito").

- Determinata o indeterminata. Nel primo caso la legge indica in qualche modo una o varie pene da infliggere per il reato, allora spetta al giudice scegliere tra le varie determinate dalla legge (vedi, ad es., c. 1372). Se invece la pena è indeterminata, spetta al giudice scegliere una pena giusta (vedi, ad es., c. 1377).

e) Cessazione delle pene

Dopo la loro applicazione le pene cessano per l’adempimento della condanna, oppure se l’autorità competente concede la loro remissione.

Di solito possono rimettere una pena: l’autorità che aveva stabilito il reato, l’Ordinario che l’aveva inflitta (per sentenza o decreto di condanna) e l’Ordinario del luogo in cui si trova il delinquente (ed anche i loro delegati: ad es., il penitenziere). Ma ci sono pene la cui remissione è riservata alla Santa Sede (cfr, ad es., cc. 1367, 1370 § 1, 1382).

Le censure poi sono pene medicinali, che cioè mirano alla conversione del reo. Da questa quindi dipende la loro remissione: fintantoché il delinquente non si ravveda non possono essere rimesse, ma una volta che abbia dato segni di sincero pentimento egli ha diritto alla remissione: le censure cessano soltanto per la loro assoluzione.

Le censure di scomunica e di interdetto vietano la possibilità di ricevere i sacramenti, quindi anche l’assoluzione dai peccati. In esse, come si è detto, a volte si può incorrere latae sententiae cioè automaticamente nel momento in cui si commette il delitto. È dunque possibile che vada a confessarsi chi, senza che ci sia stato nessun procedimento a suo carico, si trova scomunicato o interdetto. In questi casi tuttavia il confessore può rimettere la pena, e quindi assolvere dai peccati, se al penitente risultasse duro rimanere in stato di peccato, imponendogli una congrua penitenza. Ma allora sorge l’obbligo di ricorrere entro un mese a chi poteva rimettere la pena (anche a cura dello stesso confessore, senza però dire mai il nome del penitente il quale dovrà ritornare dal confessore per ricevere le istruzioni dell’autorità).

Va infine ricordato che qualsiasi penitente che si trovi in pericolo di morte può essere assolto da ogni peccato e censura da parte di qualsiasi sacerdote, giacché la salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa.

f) I singoli delitti

Nel Codice vengono specificati i fatti che costituiscono reato in tutta la Chiesa e le relative pene. La legge particolare o un precetto possono, nel loro ambito, stabilire altri delitti e pene. In ogni caso la descrizione legale di un delitto deve essere precisa e chiara. Perché ci sia reato il delinquente deve avere compiuto i fatti come descritti nella legge.

I singoli delitti specificati nel Codice vengono raggruppati secondo la materia:

- Contro la religione e l’unità della Chiesa (cc. 1364-1369). Come sono l’eresia, l’apostasia e lo scisma; battezzare o educare i figli in una religione acattolica o lo spergiuro.

- Contro l’autorità ecclesiastica e la libertà della Chiesa (cc. 1370-1377). Tra i quali la violenza fisica contro il Papa, i Vescovi, i chierici e i religiosi; promuovere, dirigere o partecipare in una associazione che complotta contro la Chiesa; alienare beni ecclesiastici senza la debita licenza dell’autorità.

- Reati nello svolgimento degli uffici ecclesiastici (cc. 1378-1389). Come la celebrazione simulata dei sacramenti oppure fatta per simonia; consacrare un Vescovo senza mandato della Sede Apostolica; la violazione del sigillo della confessione; l’abuso o la negligenza colpevole nell’esercizio della potestà ecclesiastica.

- Reati di falsità (1390-1391). Che sono: la calunnia (nei diversi modi previsti) e la falsificazione, alterazione, distruzione, ecc. di documenti.

- Contro speciali obblighi (cc. 1392-1396). Come sono alcuni peccati più gravi contro la castità commessi da chierici o religiosi.

- Delitti contro la vita e la libertà altrui (cc. 1397-1398). Come l’omicidio, l’aborto, le violenze fisiche e il sequestro di persona.

Oltre ai delitti specificati il c. 1399 prevede che possa essere condannata con pena qualsiasi altra violazione della legge la cui gravità lo esiga.

Una buona parte dei delitti riguardano i chierici ed i religiosi il cui statuto personale ha una speciale rilevanza nella vita della Chiesa. Molti altri riguardano qualsiasi fedele, ma anche in questi casi se il reo fosse chierico o religioso la pena potrebbe essere più grave fino alla dimissione dal loro stato.

XII. Diritto processuale

L’esistenza di diritti e relativi doveri nella Chiesa implica la possibilità, per il soggetto, di farli valere nei casi in cui egli ritenga che siano stati ingiustamente lesi o messi in discussione; attraverso un processo nel quale vengano definiti, chiariti o stabiliti dall’autorità sia i diritti e i doveri stessi, sia i fatti a loro connessi. Mentre nelle norme si stabilisce quello che è giusto in una pluralità di casi simili, nei giudizi viene definito quel che è giusto (il suo di ciascuno) per un caso concreto. Nell’ultimo libro del Codice si prevedono le vie e i modi per una tutela efficace dei diritti quando su di essi sorge una controversia: i processi.

Ogni diritto quindi porta con sé la possibilità di essere rivendicato in un processo dinanzi all’autorità; tale possibilità si chiama azione processuale.

La Chiesa ha il diritto di giudicare le cause che riguardano le cose spirituali e le cose annesse alle spirituali, nonché la violazione delle leggi della Chiesa in ordine all’imposizione di pene ecclesiastiche (c. 1401). Le cause di canonizzazione dei Santi hanno come scopo verificare le virtù, i miracoli od il martirio dei Servi di Dio e sono regolate da una legge speciale contenuta nella Cost. Apostolica Divinus Perfectionis Magister, promulgata nella stessa data del Codice (25 gennaio 1983, c. 1403).

1- Organizzazione giudiziaria

La potestà di giudicare le controversie che insorgono all’interno della Chiesa spetta (come quella di legiferare e di governare amministrativamente) all’autorità ecclesiastica. Questa potestà risiede, per tutta la Chiesa nel Romano Pontefice e per ogni diocesi nel Vescovo diocesano, i quali di solito la esercitano tramite i loro giudici e tribunali, che agiscono con potestà vicaria o delegata.

In virtù del suo primato di regime il Papa è giudice supremo nella Chiesa: egli non può essere giudicato da nessuno e può avocare al suo giudizio qualsiasi causa. Nemmeno gli atti confermati in forma specifica dal Romano Pontefice possono essere giudicati, a meno che egli stesso abbia dato ad un giudice mandato per farlo. Difatti il Papa si riserva di giudicare (nelle materie che sono di competenza della Chiesa) i capi di Stato, i Cardinali, i Legati e le cause penali contro i Vescovi (cc. 1404-1405).

Inoltre ogni fedele ha il diritto di ricorrere al giudizio della Santa Sede in qualsiasi tipo di causa ed in qualsiasi momento. Se però un giudice aveva già cominciato a giudicare la causa può continuare fino a che la Santa Sede gli comunichi di avere avocato a sé la causa (c. 1417).

Ci sono dunque giudici e tribunali diocesani e giudici e tribunali della Sede Apostolica. Questi ultimi sono retti da norme speciali; tutti gli altri tribunali della Chiesa sono retti dalle norme del Codice. Occorre ricordare qui che, secondo il c. 87, le leggi processuali non possono essere dispensate dal Vescovo diocesano. Anche gli istituti religiosi possono avere i propri tribunali per giudicare le controversie sorte all’interno dell’istituto (c. 1427).

I tribunali ordinari della Sede Apostolica sono il Tribunale della Rota Romana e il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, per mezzo dei quali il Romano Pontefice giudica ordinariamente le cause a lui deferite.

La Rota Romana è il tribunale mediante il quale il Sommo Pontefice riceve gli appelli dei fedeli. Ad essa sono inoltre riservate le cause contenziose (non penali) contro un Vescovo, e le cause in cui è parte una persona (fisica o giuridica) che non ha Superiore al di sotto del Romano Pontefice (diocesi, istituti di vita consacrata di diritto pontificio, prelati, ecc.); giudica anche le cause che il Papa abbia avocato a sé e gli voglia affidare (cc. 1405 § 3 e 1444).

La Segnatura Apostolica è il Supremo Tribunale della Chiesa che riceve i ricorsi contro decisioni della Rota, giudica alcune cause contro gli Uditori rotali, decide le controversie amministrative, ed i conflitti di competenza tra tribunali che non siano soggetti allo stesso tribunale di appello. La Segnatura svolge anche certe funzioni di vigilanza e controllo sui tribunali inferiori.

In ogni diocesi poi il Vescovo è il giudice per tutte la cause non riservate alla Santa Sede. Egli può giudicare personalmente o tramite altri. Infatti, il Vescovo diocesano deve nominare un Vicario giudiziale o Officiale il quale costituisce con il Vescovo diocesano un unico tribunale. Può anche nominare Vicari giudiziali aggiunti o Vice-officiali che aiutino il Vicario giudiziale: tutti questi devono essere sacerdoti, di buona fama e almeno licenziati in diritto canonico (cc. 1420-1422).

Inoltre, siccome ci sono cause che devono essere giudicate da un collegio di tre o cinque giudici (c. 1425), il Vescovo diocesano deve chiamare a far parte del tribunale anche un numero sufficiente di giudici diocesani. Questi possono essere chierici ed anche laici, ma in un collegio giudicante soltanto uno dei membri può essere laico; gli altri devono essere chierici. Sempre che sia possibile, le cause matrimoniali devono essere giudicate da un collegio di tre giudici.

Spetta giudicare soltanto a chi è giudice, ma per svolgere l’istruttoria il giudice o il presidente del tribunale può nominare un uditore tra le persone approvate dal Vescovo per tale incarico. L’uditore raccoglie le prove e le trasmette al giudice (c. 1428). Anche quando una causa viene giudicata da un giudice unico egli può scegliersi, come consulenti, due assessori. Gli uditori e gli assessori possono essere chierici o laici di onesta condotta (c. 1424).

Quando a giudicare è un tribunale collegiale esso è presieduto, se possibile, dall’Officiale o da un Vice-officiale. Il collegio decide con maggioranza assoluta di voti. Il presidente del collegio giudicante deve designare tra i membri un ponente o relatore che redige la sentenza.

Nel tribunale deve esserci anche il promotore di giustizia che è tenuto ad intervenire come parte in ogni processo in cui è in pericolo il bene pubblico e nelle cause penali (c. 1430). Svolge un ruolo simile al pubblico ministero dei tribunali civili.

Per le cause in cui si tratta della nullità della sacra ordinazione o della nullità o dello scioglimento del matrimonio, deve essere nominato il difensore del vincolo il quale ha come compito addurre tutti gli argomenti ragionevoli contro la nullità o lo scioglimento (c. 1432).

Sia il promotore di giustizia che il difensore del vincolo sono parti nel processo, con i relativi diritti e doveri; possono essere chierici o laici e sono nominati dal Vescovo diocesano sia per tutte che per le singole cause.

In ogni processo deve anche intervenire un notaio che ha il compito di redigere gli atti e sottoscriverli, altrimenti gli atti sono nulli (c. 1437).

In luogo dei tribunali diocesani i Vescovi possono accordarsi per costituire un unico tribunale per le loro diocesi, con l’approvazione della Santa Sede (c. 1423). In Italia, ad esempio, le cause matrimoniali vengono definite nei tribunali regionali.

Per ogni tribunale che giudica le cause in prima istanza ci deve essere un tribunale di seconda istanza, al quale si possano appellare le decisioni del primo. La regola è che dal tribunale diocesano si appella a quello del Metropolita (quello dell’arcidiocesi), e che dal tribunale dell’arcidiocesi, quando giudica in prima istanza, si appella in seconda istanza a quello che il Metropolita abbia prescelto stabilmente con l’approvazione della Sede Apostolica (c. 1438). Anche la Conferenza episcopale può costituire, nel suo territorio e con l’approvazione della Santa Sede, uno o più tribunali di seconda istanza.

2- Il processo

Quando qualcuno ritiene che un altro ha disconosciuto o violato un suo diritto, lo strumento o la via attraverso la quale si possono far valere i propri diritti è il processo o giudizio. Consiste in una serie successiva di atti posti dai contendenti dinanzi al giudice o tribunale, al fine di ottenere una decisione vincolante che stabilisca quel che è giusto. È una lite ordinata dal diritto e diretta dall’autorità giudiziaria, allo scopo di stabilire la verità dei fatti e le conseguenze giuridiche che ne derivano.

Gli atti che integrano il processo sono ordinati tra di loro in modo che ciascuno deve essere realizzato nel momento stabilito, nella fase prevista, completata la quale si apre la successiva. Le fasi schematiche di un processo sono: introduzione, istruzione, discussione e decisione.

Ci sono differenti tipi di processo secondo le loro modalità di svolgimento o la loro materia: ordinari o speciali, scritto o orale, matrimoniale, penale, amministrativo, ecc. Nel Codice si regolano le fasi del processo ordinario scritto, facendo poi riferimenti ai tratti specifici degli altri. Tra i processi speciali i più rilevanti sono quelli matrimoniali, ai quali faremo alcuni riferimenti più dettagliati.

a) Le parti

Per definizione in ogni processo ci devono essere almeno due parti contrapposte; una che reclama l’intervento della giustizia poiché si ritiene vittima di una situazione ingiusta (parte attrice o attore), e l’altra contro la quale l’attore si rivolge (parte convenuta o convenuto). Questa dualità di parti contrapposte esprime quello che si chiama il principio del contraddittorio o contenzioso. Senza due parti non ci può essere un processo vero e proprio. Le parti possono essere una o più persone fisiche o giuridiche, e ricevono alle volte altri nomi secondo il tipo di causa (ricorrente, resistente, reo, accusa, appellante, imputato).

Un altro principio fondamentale del diritto processuale è quello dell’equilibrio tra le parti. Ad ognuna di esse devono essere date pari opportunità di addurre prove ed argomenti o avanzare richieste, per difendere la loro posizione. Altrimenti verrebbe leso il diritto di difesa.

Ma per essere ammesso come parte in un processo il soggetto, oltre ad essere capace di diritti e doveri, e di agire (per sé o tramite suoi rappresentanti), deve avere un titolo che lo legittimi ad agire in un concreto giudizio come parte attiva o passiva, deve cioè dimostrare di avere un interesse legittimo e degno di tutela nell’oggetto della causa. Questo requisito si chiama legittimazione. Così ad esempio non chiunque è legittimato a rivendicare i diritti di un terzo, se non è suo rappresentante; né chiunque può chiedere che venga dichiarato nullo qualsiasi matrimonio, ma solo il suo. A tutela del bene pubblico ci sono, come abbiamo visto, il promotore di giustizia e il difensore del vincolo, che sono parti nei processi in cui intervengono.

Le parti poi possono o devono, secondo i casi, essere rappresentate e difese in giudizio dai loro procuratori ed avvocati, che con la loro perizia tecnica possono meglio esercitare i diritti della parte che rappresentano. I patroni (avvocati e procuratori), oltre alla qualifica professionale richiesta, devono essere approvati dal Vescovo diocesano e quindi iscritti nell’albo del tribunale. Per poter agire a nome di qualcuno devono averne ricevuto il relativo mandato e presentarlo al tribunale. Il tribunale stesso può avere nel suo organico alcuni patroni che possano rappresentare e difendere chi voglia ricorrere alle loro prestazioni (cc. 1481-1490).

b) La competenza del tribunale

Perché un giudice o tribunale possa esaminare e decidere una causa non basta che sia stato regolarmente costituito dall’autorità, deve anche essere competente, avere cioè un titolo legale che gli permetta di giudicare il caso concreto che si presenta. Parimenti chi vuole iniziare una causa deve rivolgersi al tribunale competente, non a qualsiasi.

La competenza o titolarità viene attribuita ai differenti tribunali dalla legge, secondo criteri diversi: la materia, il luogo, il domicilio delle parti, il grado del giudizio (prima, seconda o ulteriore istanza). Difatti abbiamo visto che certe cause sono riservate al Papa ed altre ai tribunali della Santa Sede; in Italia i tribunali regionali sono gli unici competenti per le cause matrimoniali.

Si può dire che ogni possibile lite ha già previsti uno o più tribunali competenti a trattarla. Infatti, molte volte, chi vuole iniziare un processo ha la possibilità di scegliere uno tra i diversi tribunali competenti. Come regola generale è sempre competente il tribunale del domicilio o quasi-domicilio del convenuto, secondo il c. 1408. Ma nelle cause matrimoniali, ad es., è anche competente il tribunale del luogo dove fu celebrato il matrimonio (c. 1673).

Si capisce quindi che una delle prime cose che deve fare un giudice o tribunale quando riceve una richiesta è esaminare se è competente. Se si ritenesse competente ha il dovere di giudicare (e non può rifiutarsi), se si reputasse incompetente non deve giudicare (e deve rifiutarsi di farlo); altrimenti può essere punito (c. 1457).

3- Lo svolgimento del processo

Abbiamo detto che il processo è una serie concatenata e ordinata di atti che si succedono secondo regole precise che ne prevedono i passi e le fasi. Vige tra di loro il principio chiamato di preclusione, secondo il quale soltanto quando si è conclusa una fase può cominciare la seguente, senza che si possa tornare indietro.

Pertanto le parti devono realizzare le loro ‘mosse’ nel momento opportuno, dentro i termini stabiliti, altrimenti potranno o dovranno essere rifiutate dal giudice. Ci sono termini che si chiamano perentori (detti anche fatali), proprio perché, fissati dalla legge, non possono essere prorogati; altri termini si chiamano giudiziali o convenzionali, che per giusta causa possono essere prorogati dal giudice, prima però della loro decadenza (c. 1465).

Va anche detto che il processo è per certi versi nelle mani delle parti, le quali possono liberamente fare o astenersi di fare ciò che in ogni momento gli è permesso o richiesto: in una parola, hanno l’iniziativa. Ma, molte volte, il diritto sollecita anche il giudice ad agire d’ufficio, di propria iniziativa, sia per tutelare il bene pubblico, sia per evitare che per assenza o mancanza di iniziativa delle parti, la causa si prolunghi indebitamente o possa giungersi ad una decisione gravemente ingiusta (c. 1452).

a) Fase introduttiva

Il primo momento del processo ha come scopo stabilirne chiaramente i termini: le parti, il tribunale e l’oggetto della lite. Inizia con il libello introduttivo nel quale chi ha interesse o il promotore di giustizia, presenta al giudice la sua domanda. Nel libello l’attore deve indicare chiaramente: il giudice o tribunale al quale si rivolge, che cosa chiede (l’oggetto della lite), per quali ragioni e da chi (il convenuto); deve inoltre segnalare per somma capita le ragioni di diritto e di fatto su cui basa la sua domanda (c. 1504).

Ricevuto il libello, tocca al giudice decidere se ammetterlo o respingerlo. Questo lo farà verificando prima di tutto, come si è detto, se la cosa è di sua competenza e se l’attore ha capacità legittima di stare in giudizio. Poi deve anche esaminare se il libello è correttamente redatto e se la richiesta in esso contenuta appare almeno minimamente fondata. Se manca alcuno di questi requisiti dovrà rifiutare il libello o farlo correggere dall’attore. Contro il rigetto del libello l’attore può ricorrere (c. 1505).

Se decide di accettare il libello il giudice citerà le altre parti per la contestazione della lite, cioè per concordare insieme alle parti i termini della controversia: cosa si chiede e per quali motivi concreti. Sentite le richieste e le risposte delle parti, il giudice stabilisce per decreto il dubbio o i dubbi a cui si dovrà dar risposta nella sentenza. Ad esempio, in una causa di nullità matrimoniale, il quesito sarà se consta della nullità del matrimonio per tale o talaltro motivo.

Stabiliti i termini della lite essi non possono essere mutati, a meno che per grave causa il giudice, ad istanza di una parte, acconsenti a concordare di nuovo il dubbio. Ciò risponde a ragioni di chiarezza e di sicurezza per tutti quanti intervengono nel processo: devono sapere su cosa si contende e per quali motivi.

b) Fase istruttoria. Le prove

Contestata la lite con il decreto del giudice che ne fissa i termini, si instaura la lite che di regola dovrà proseguire fino alla sentenza decisoria. Si apre la fase in cui si raccolgono le prove. Il giudice deve fissare alle parti un congruo spazio di tempo per proporre e completare le loro prove.

In tema di prove va osservato il principio che l’incombenza di fornirle tocca a chi asserisce: l’onere della prova cade su chi afferma. Tuttavia non c’è bisogno di provare ciò che dalla legge stessa si presume; e neanche i fatti ammessi dalle parti contendenti, a meno che il diritto o il giudice, ciò nonostante, lo esigano (si pensi che oltre all’interesse privato dei contendenti può essere in gioco il bene pubblico) (c. 1526).

Le parti possono proporre ogni tipo di prova che sia lecita e sembri essere utile all’oggetto della causa (c. 1527). I più comuni tipi di prova sono:

a) Le dichiarazioni delle parti (cc. 1530-1538). Il giudice può interrogare le parti se lo consideri opportuno; e lo dovrà fare su istanza di una di esse o se sia utile al pubblico interesse. Egli può chiedere alla parte interrogata di prestare il giuramento. Le parti hanno il dovere di rispondere e dire tutta la verità. Il giudice farà le domande tenendo conto anche dei quesiti proposti dalle altre parti. Si chiama confessione giudiziale l’ammissione di un fatto resa dalla parte contro sè stessa davanti al giudice. La confessione ha come conseguenza che il fatto confessato non deve più essere provato dall’altra parte, ma ciò solo se non sia in causa il bene pubblico.

b) I testimoni (cc. 1547-1573). Le parti possono chiedere che siano chiamati a testimoniare coloro che conoscono fatti riguardanti la causa. Ma anche il giudice può chiamare d’ufficio qualcun teste anche non proposto dalle parti. Il Codice stabilisce chi può essere chiamato a testimoniare e coloro che sono esclusi o esentati dal dovere di farlo (ad es., chi è tenuto al segreto d’ufficio: chierici, medici, ecc.).

Soltanto il giudice può interrogare i testi; ma la parte che lo chiama in giudizio deve segnalare gli argomenti sui quali chiede sia interrogato il teste; anche le altre parti possono suggerire domande da fare. Di regola, i testi non devono conoscere le domande prima di essere esaminati.

Sia le parti che i testimoni legittimamente convocati devono presentarsi nella sede del tribunale e rispondere secondo verità davanti al giudice, ma se rifiutino o abbiano qualche impedimento egli può comandare che la loro deposizione sia raccolta in un altro modo legittimo (ad es., a cura del tribunale ove risiedono).

Ai testimoni devono essere rivolte domande brevi e semplici, adeguate alla loro capacità, non complicate, cavillose, subdole o che suggeriscano la risposta; che siano pertinenti alla causa e non rechino offesa. La loro deposizione a voce deve essere immediatamente redatta per iscritto dal notaio, anche tramite il magnetofono. Il verbale dell’interrogatorio sarà letto al teste dandogli la possibilità di aggiungere, sopprimere, correggere e variare quanto ritenga opportuno, e poi verrà firmato anche dal teste oltre che dal giudice e dal notaio.

Le testimonianze vanno valutate dal giudice tenendo conto: la condizione e onestà del teste; se parlò di scienza diretta o per sentito dire o in base alle proprie opinioni; se sia stato coerente e costante nelle sue affermazioni oppure dubbioso o variabile.

c) La prova per documenti (cc. 1540-1546). In ogni causa possono essere di prova documenti presentati dalle parti o richiesti dal giudice. Di solito si tratta di scritti, ma possono anche essere fotografie, registrazioni, e altri oggetti.

I documenti possono essere pubblici o privati. Sono pubblici quelli rilasciati da un pubblico ufficiale (civile o ecclesiastico) nell’esercizio del suo incarico e con le formalità stabilite. Gli altri sono privati. La differenza è notevole poiché quanto riferito direttamente in un documento pubblico si presume certo.

I documenti devono essere esibiti in originale o in esemplare autentico, e consegnati al tribunale perché possano essere esaminati dal giudice e dalle altre parti.

d) La prova periziale (cc. 1574-1581). Ci sono fatti o cose la cui dimostrazione richiede l’esame ed il parere di chi ha la scienza e la pratica necessarie per determinare la loro natura e consistenza: il perito.

Si deve ricorrere ai periti sempre che la legge o il giudice lo ritengano necessario per provare certi fatti o per conoscere veramente la loro entità. Così, ad es., quando è chiesta la nullità del matrimonio per impotenza o malattia mentale di un coniuge, secondo il c. 1680.

I periti vengono nominati dal giudice, sentite le parti o anche su loro proposta. Si può anche ammettere l’intervento di periti privati designati dalle parti e anche le relazioni fatte da periti fuori del processo.

Al perito devono essere forniti gli atti di causa e tutti gli elementi necessari perché possa espletare il suo compito; e il giudice deve precisare i quesiti sui quali egli deve esprimere il suo parere tecnico.

Ogni perito deve redigere la sua perizia separatamente dagli altri; indicando in essa i mezzi e il metodo di cui si è servito nell’esame delle persone o cose, e soprattutto gli argomenti sui quali si fondano le sue conclusioni.

Il giudice dovrà valutare attentamente i risultati delle perizie, esponendo poi nella sentenza le ragioni per cui egli ha accettato o respinto le loro conclusioni.

e) L’ispezione del giudice (cc. 1582-1583). Se lo ritenga opportuno al fine di conoscere meglio i fatti, il giudice può recarsi in un luogo o ispezionare qualche cosa.

f) Le presunzioni (cc. 1584-1586). Si può definire la presunzione come "la deduzione probabile di una cosa incerta a partire da un fatto certo". Possono servire molto nelle cause in cui mancano altre prove certe, e soprattutto perché ci sono cose molto difficili da provare direttamente. Si chiamano presunzioni iuris quelle stabilite dalla legge, e presunzioni hominis quelle formulate dal giudice.

La presunzione ha come effetto l’inversione dell’onere della prova; infatti, chi ha dalla sua parte una presunzione iuris non è tenuto a provare il fatto presunto: ad es., il c. 1061 § 2 stabilisce che se dopo il matrimonio i coniugi hanno coabitato si presume la consumazione, quindi sarà chi la nega in un caso concreto colui che dovrà dimostrare l’inconsumazione.

c) Pubblicazione, conclusione e discussione della causa (cc. 1598-1606)

Una volta raccolte le prove, prima di concludere il periodo probatorio, il giudice deve, sotto pena di nullità, procedere alla pubblicazione degli atti, ovvero permettere alle parti di prendere visione degli atti del giudizio. Le parti possono quindi presentare nuove prove, che saranno anche pubblicate in seguito.

Quando le parti dichiarano di non avere altre prove da produrre, o comunque non lo fanno nel tempo stabilito, o se il giudice ritenesse sufficientemente istruita la causa, egli decreta la conclusione in causa. Dopodiché non è più consentito ammettere nuove prove salvo che per motivi gravi o con il consenso delle parti.

Si passa allora alla fase di discussione nella quale le parti sono chiamate, entro un termine stabilito, a presentare le loro difese e osservazioni. Di regola le difese si fanno per iscritto, e si danno a conoscere alle altre parti perché possano rispondere e controbattere. Il giudice può anche convocare le parti per un dibattimento orale.

d) La decisione giudiziale (cc. 1607-1618)

Finita la discussione spetta al giudice pronunciare la sentenza. La sentenza si chiama definitiva se decide la causa principale, e interlocutoria se risolve una questione incidentale sorta lungo il processo.

Per emettere la sentenza il giudice (o i giudici) deve aver raggiunto la certezza morale su quello che decide. Per la sua decisione egli deve basarsi soltanto su quanto è negli atti, valutando le prove secondo coscienza a tenore della legge. Se non raggiunge la certezza morale deve sentenziare che non consta il diritto dell’attore.

La certezza morale che deve raggiungere il guidice è quella fondata sull’insieme dei dati di diritto e di fatto emersi nel processo, che esclude ogni dubbio ragionevole benché non si tratti di una certezza fisica. Dunque, il giudice deve essere moralmente sicuro della sua decisione.

Se si tratti di un collegio di giudici, il presidente li convoca ad una riunione per la decisione. A tale riunione i singoli giudici devono portare le loro conclusioni scritte e motivate. Sulla base delle singole conclusioni i giudici discutono per arrivare ad una decisione concordata. La decisione, come si è già detto, si prenderà con maggioranza assoluta di voti (c. 1426 § 1).

Il giudice (o il ponente del collegio giudicante) deve redigere la sentenza entro un mese dopo la decisione. La sentenza deve essere definitiva e congruente, cioè si deve dare risposta a ciascuno dei dubbi formulati nella contestazione della lite, determinando i doveri che ne conseguono per le parti e il modo in cui si devono compiere. Deve anche essere motivata, dando cioè le ragioni di diritto e di fatto su cui si fonda la decisione. Inoltre deve decidere sulle spese del processo.

La sentenza, perché abbia valore, deve essere pubblicata, resa nota alle parti con indicazione dei modi in cui può essere impugnata.

4- Impugnazione della sentenza

Contro una sentenza che si ritiene ingiusta, le parti hanno diverse possibilità di impugnazione, a seconda dei motivi per i quali esse la ritengono ingiusta. Questi ricorsi sono: l’appello, la querela di nullità e la restitutio in integrum.

a) L’appello

È il ricorso ordinario, in seconda istanza, al tribunale superiore rispetto a quello che ha emesso la sentenza. La parte che si considera lesa ha diritto di interporre l’appello (anche a voce) avanti allo stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata, entro il termine perentorio di 15 giorni utili dalla pubblicazione. Ci sono alcune decisioni che non possono essere appellate (ad es., quelle del Romano Pontefice o della Segnatura Apostolica). Durante il processo di appello si sospende l’esecuzione della sentenza impugnata, anche se si possono prendere misure cautelari.

Dopo l’interposizione dell’appello, il ricorrente ha un mese di tempo per proseguire l’appello; il che si fa inviando al tribunale superiore copia della sentenza impugnata insieme alla richiesta motivata che essa venga corretta. Il tribunale inferiore frattanto invierà tutti gli atti della causa al tribunale superiore, davanti al quale si proseguirà il giudizio di appello. L’appello interposto da una parte vale anche per le altre che devono quindi essere chiamate ad intervenire nel processo.

Il giudizio si svolge come quello di prima istanza, ma in secondo grado il dubbio posto al tribunale può essere soltanto se si debba confermare o riformare la sentenza impugnata, senza che si possano ammettere altri quesiti non proposti in prima istanza; e soltanto si possono produrre nuove prove se ci sia una causa grave o lo consentano tutte le parti.

Nelle cause di nullità di matrimonio (che, ripetiamo, sono quasi tutte) quando la sentenza di primo grado dichiara la nullità, ci deve essere sempre una decisione di secondo grado che la confermi; c’è per così dire un appello automatico, per cui il tribunale che ha emesso la sentenza affermativa invia d’ufficio gli atti al tribunale di appello anche se nessuna delle parti lo chieda (c. 1682). Soltanto dopo la conferma della nullità da parte del tribunale di appello le parti possono contrarre nuove nozze.

La cosa giudicata (res iudicata)

Si dice che la cosa passa in giudicato quando l’appello non è più possibile: sia perché non consentito, o perché le parti rinunciano ad esso o lasciano passare i termini, oppure quando si hanno due sentenze conformi sulla stessa richiesta (ad es. se la sentenza di secondo grado conferma pienamente quella di primo).

La cosa giudicata fa diritto tra le parti ed è immediatamente eseguibile; essa in partenza non può più essere sottoposta ad un nuovo giudizio secondo il principio ne bis in idem (non si può giudicare due volte lo stesso). Ma anche qui ci sono eccezioni, poiché le cause che riguardano lo stato delle persone (chierico, sposato, libero, ecc.) possono essere sempre riaperte se sorgono nuovi e gravi motivi non considerati prima; e anche si dà contro la sentenza passata in giudicato la restitutio in integrum come vedremo.

b) La querela di nullità

Un altro ricorso contro una sentenza è la querela nullitatis. In essa viene messa in discussione non la decisione sul merito della questione dibattuta, ma la validità formale della sentenza emessa, per irregolarità nel processo.

Queste irregolarità che consentono di chiedere la nullità della sentenza, possono consistere in vizi di nullità insanabile oppure vizi di nullità sanabile. Tra i primi (segnalati nel c. 1620) si possono annoverare i seguenti: che la sentenza sia stata emessa da giudice assolutamente incompetente, privo di potestà o coatto per violenza o timore grave; incapacità processuale di alcuna delle parti; che sia stato negato a qualcuna delle parti il diritto alla difesa; che la sentenza sia totalmente incongruente (non definisca la controversia). Vizi sanabili (c. 1622) sono tra gli altri: che sia mancato il numero di giudici stabilito; che la sentenza non sia motivata; che manchino le firme richieste o la data e luogo di emissione della sentenza.

La querela si interpone davanti allo stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata, il quale potrà decidere il ricorso secondo la procedura del processo orale; anche d’ufficio può il giudice ritrattare la sentenza o correggerla.

c) La restitutio in integrum (cc. 1645-1648)

Questo ricorso si dà contro una sentenza che sia passata in giudicato soltanto se consti palesemente della sua ingiustizia per uno dei motivi precisamente segnalati nel c. 1645 § 2: sentenza basata totalmente su prove rivelatesi false; scoperta di documenti che esigono una decisione contraria; inganno doloso di una parte; pronuncia emanata contro il disposto di una legge non di semplice procedura o su una cosa già passata in giudicato.

La restitutio in integrum deve essere chiesta entro tre mesi dalla scoperta dei motivi su cui è fondata. Secondo il motivo per il quale viene invocata, essa va chiesta allo stesso giudice che diede la sentenza impugnata oppure a quello di appello. Concessa la restitutio tocca al giudice decidere di nuovo sul merito della causa.

5- Esecuzione della sentenza (cc. 1650-1655)

Una volta che la sentenza è passata in giudicato, e quindi non è più soggetta all’appello, può essere mandata ad esecuzione. Spetta al giudice ordinare per decreto l’esecuzione della medesima; in certi casi questo decreto può essere incluso nella stessa sentenza da eseguire; in altri, il giudice emetterà un apposito decreto di esecuzione.

Eseguire amministrativamente la sentenza incombe al Vescovo della diocesi in cui fu emessa la sentenza di primo grado, il quale lo farà da sé o tramite altri. Ma se non lo voglia fare o sia negligente, allora l’autorità incaricata di eseguire la sentenza è il Vescovo del tribunale di appello.

Se la sentenza stabilisse che una cosa appartenga all’attore questa gli deve essere consegnata immediatamente. Se invece determinasse che il convenuto debba compiere un determinato obbligo, l’esecutore stabilisce un termine per l’adempimento.

6- Il processo contenzioso orale

È un processo ordinario ma più semplice e veloce nel quale, una volta stabiliti, come di regola, i termini della controversia e l’oggetto del contendere, le altre fasi si svolgono in udienza davanti al giudice.

Nell’udienza le parti presentano oralmente le loro richieste, si acquisiscono le prove (interrogatorio delle parti, dei testi e dei periti; presentazione di documenti, ecc.), si fa un dibattimento orale. In seguito il giudice, separatamente, decide la causa e comunica alle parti il suo verdetto; anche se poi dovrà redigere la sentenza con le relative motivazioni.

Il processo orale si svolge, in primo grado, davanti a un giudice unico e può essere utilizzato nelle cause per le quali il diritto non lo escluda (come lo sono quelle di nullità di matrimonio, e tutte quelle che richiedono un collegio di giudici), inoltre se una parte lo chiede si deve procedere secondo il processo ordinario scritto.

7- Processi speciali

Sono quelli che in qualche aspetto si discostano dal processo ordinario; i più importanti sono i processi matrimoniali, riguardanti sia la nullità del matrimonio che la separazione dei coniugi, oppure lo scioglimento del vincolo.

a) Il processo di nullità di matrimonio è un processo che ha per oggetto dichiarare se consta o meno della nullità di un matrimonio; non annullare il matrimonio come spesso si sente dire, poiché il matrimonio valido non può essere annullato da nessuno (e se rato e consumato non può neppure essere sciolto). Si tratta quindi di esaminare se, per i motivi addotti dall’attore, il matrimonio è risultato nullo sin dall’inizio.

Tra le specialità di questo processo si deve segnalare che soltanto i coniugi sono abili a impugnare il loro matrimonio (eccetto il promotore di giustizia quando la nullità sia già stata divulgata, c. 1674). E dopo la morte di uno dei coniugi non può più di regola essere impugnato il matrimonio (c. 1675).

Nella formula del dubbio (il quesito posto al tribunale) non basta chiedere se consta della nullità, ma si deve indicare il capo o capi di nullità, cioè il motivo o motivi specifici in base ai quali essa viene chiesta (ad es. perché una delle parti era già sposata, o perché incapace, ecc.).

Logicamente in queste cause deve intervenire il difensore del vincolo poiché è in gioco il bene pubblico. E se la nullità è chiesta per impotenza o per malattia mentale si deve ricorrere al parere tecnico dei periti (c. 1680).

Perché le parti possano passare a nuove nozze la nullità deve essere dichiarata da due decisioni conformi (cioè sostanzialmente coincidenti nelle motivazioni), per cui dopo la prima sentenza affermativa si ha una sorta di appello automatico al tribunale superiore il quale deciderà se si debba o meno confermare la prima sentenza.

Quando da documenti ineccepibili consta con certezza che c’era un impedimento non dispensato, o la mancanza della forma legittima o che il matrimonio fu celebrato tramite un procuratore senza mandato valido, si può seguire il processo documentale. In base a tali documenti il giudice può, sentite le parti e il difensore del vincolo, sentenziare che consta la nullità tralasciando le altre formalità del processo ordinario (cc. 1686-1688).

b) Le cause di separazione dei coniugi hanno quali tratti specifici salienti che possono essere definite per decreto del Vescovo diocesano oltre che per sentenza del giudice. In tali cause si segue poi il processo orale. Inoltre, in certi casi, il Vescovo diocesano può anche autorizzare che la causa di separazione sia presentata davanti al tribunale civile anziché a quello ecclesiastico.

c) Un terzo tipo di processo matrimoniale è quello di dispensa dal matrimonio rato e non consumato. In realtà non si tratta di un processo bensì di una procedura, poiché essa non finisce con una sentenza ma con la dispensa (o meno) del matrimonio concessa dal Papa. Tuttavia questa procedura per la dispensa si svolge in maniera simile ad un processo (cc. 1697-1706).

Infatti come dice il c. 1142 lo scioglimento o dispensa dal matrimonio rato e non consumato spetta al Romano Pontefice, per una giusta causa e su richiesta di una o entrambe le parti. La procedura dunque ha come finalità giudicare sul fatto dell’inconsumazione e sull’esistenza di una causa giusta. Tale giudizio, secondo il c. 1698, è competenza della Santa Sede, concretamente della Congregazione del Culto Divino.

La richiesta di dispensa deve essere presentata da almeno uno dei coniugi al Vescovo diocesano del proprio domicilio, il quale, se gli sembra fondata, incarica il tribunale (oppure ad un sacerdote idoneo) di fare l’istruttoria, che si svolge come nelle cause di nullità del matrimonio (citazione delle parti, intervento del difensore del vincolo, raccolta delle prove, argomentazioni pro e contro la richiesta).

Finita l’istruttoria, l’istruttore trasmette gli atti al Vescovo diocesano insieme ad una sua relazione.

Il Vescovo trasmette gli atti, con le osservazioni del difensore del vincolo, alla Sede Apostolica aggiungendo un suo voto secondo verità circa:

- il fatto dell’inconsumazione;

- l’esistenza di una giusta causa per la dispensa;

- l’opportunità di concederla.

La Congregazione del Culto deciderà se consta dell’inconsumazione e degli altri requisiti e proporrà o meno la dispensa al Santo Padre.

d) Ancora in sede matrimoniale esiste anche il processo di morte presunta del coniuge (c. 1707), al fine di dichiarare la morte di uno dei coniugi, quando essa non si possa dimostrare con un documento autentico (civile od ecclesiastico).

Il coniuge superstite non può considerarsi libero finché la morte presunta dell’altro non sia dichiarata dal Vescovo diocesano; il quale la dichiarerà soltanto dopo un’accurata indagine che lo porti alla certezza morale del decesso, fondata su testimoni, sulla fama o su altri indizi. La sola assenza del coniuge, anche se prolungata, non è sufficiente.

e) Un altro processo speciale è quello mirante alla dichiarazione di nullità della sacra ordinazione. Anche qui, come nel matrimonio, siamo innanzi ad un giudizio dichiarativo: si tratta non di concedere la nullità ma di vedere se l’ordinazione fu nulla dall’inizio per qualche motivo specifico.

La competenza per trattare queste cause spetta alla Congregazione del Culto Divino, la quale può tuttavia incaricare per ogni singola causa un altro tribunale da essa designato.

Ad impugnare la validità dell’ordinazione hanno diritto soltanto il chierico interessato e l’Ordinario a cui egli è soggetto o nella cui diocesi egli fu ordinato.

Il processo si svolge per lo più secondo il rito ordinario, ma, come nelle cause matrimoniali, deve intervenire il difensore del vincolo, e soltanto dopo una seconda decisione che confermi la nullità dell’ordinazione dichiarata nella prima, cessano per il chierico diritti e doveri propri dello stato clericale.

I processi penali (cc. 1717-1731)

Sono quelli che hanno come finalità stabilire la commissione di fatti delittuosi, accettarne le responsabilità ed infliggere le pene corrispondenti.

Tra le specialità che presentano questi processi risalta quella dell’indagine previa. L’Ordinario che ha notizia della commissione di un delitto deve, prima di tutto, fare (da sé o tramite un suo incaricato) un’indagine prudente che non metta in pericolo la buona fama di alcuno.

Soltanto dopo tale indagine, se emergano elementi sufficienti, l’Ordinario deciderà se si possa e sia conveniente procedere penalmente contro qualcuno e per quale via: per decreto estragiudiziale o attraverso un vero e proprio processo penale.

Se decidesse di procedere con decreto (nel caso la legge lo consenta), saremmo davanti ad un procedimento amministrativo e non ad un vero processo. Tale procedura tuttavia esige che si dia all’imputato la possibilità di difendersi rendendogli note l’accusa e le prove a suo carico. E il decreto deve contenere le motivazioni di diritto e di fatto su cui si basa.

Se invece l’Ordinario decreti che si debba avviare il processo penale, egli trasmette gli atti dell’indagine al promotore di giustizia perché questo formuli l’accusa davanti al giudice.

Il processo penale si svolge come il contenzioso ordinario con le caratteristiche seguenti:

- l’imputato deve sempre avere un avvocato, che se non provvede a scegliersi uno glielo dovrà nominare il giudice.

- durante il processo in via preventiva l’Ordinario può imporre all’imputato i divieti, ingiunzioni o proibizioni che, sentito il promotore di giustizia, ritenga convenienti per evitare scandali e garantire il corretto svolgimento del processo.

- nella discussione della causa l’imputato ha sempre il diritto di parlare o scrivere per ultimo (personalmente o tramite i suoi patroni).

- poiché un processo penale mette a repentaglio la buona fama dell’imputato, questi, se si considera innocente, ha il diritto che si vada fino in fondo affinché si possa arrivare ad una sentenza pienamente assolutoria.

Si dà poi la possibilità alla parte lesa per un delitto di costituirsi e di chiedere il risarcimento dei danni. Anche l’imputato che poi risulti innocente può chiedere di essere risarcito a norma del c. 128.

8- Giustizia amministrativa (cc. 1732-1739)

Quando ci si considera lesi da un atto dell’autorità ecclesiastica, le procedure per rivendicare i propri diritti non seguono la via ordinaria ma quella amministrativa. Infatti quella che in termini generici si chiama ‘amministrazione’ gode di certe prerogative (ma anche certi doveri) per il fatto che essa in principio opera per il bene pubblico e la sua attività si presume in partenza corretta ed imparziale. Ciò comporta che, come dice il c. 1400 § 2, i ricorsi contro un atto amministrativo si devono presentare soltanto davanti al Superiore gerarchico dell’autorità che ha emanato l’atto impugnato o davanti al tribunale amministrativo (non al tribunale ordinario).

Come per tutti i conflitti che sorgono nella Chiesa, anche qui si devono innanzitutto cercare le vie pacifiche di soluzione, per evitare se possibile di giungere ad una vera e propria contesa (c. 1733).

a) Il ricorso amministrativo

Anche per il motivo anzidetto, chi si ritiene leso da un atto amministrativo deve prima di tutto presentare, entro dieci giorni, domanda di revoca o correzione davanti allo stesso organo che ha emanato l’atto incriminato. Così si dà modo all’autore dell’atto di rivederlo prima che ci sia un ricorso contro di lui. Egli ha trenta giorni di tempo per rispondere, passati i quali la risposta si presume negativa inquanto il silenzio è interpretato come rifiuto del ricorso.

Soltanto dopo l’esito negativo di questa domanda di revisione l’interessato può ricorrere al Superiore gerarchico dell’autore dell’atto, entro quindici giorni utili a partire della risposta negativa. Questo ricorso amministrativo gerarchico può essere presentato davanti allo stesso autore dell’atto il quale lo deve trasmettere al Superiore.

Il Superiore competente a ricevere il ricorso è quello dell’autorità che ha emanato l’atto impugnato. Ad esempio, contro gli atti del Vescovo diocesano si deve ricorrere alla Santa Sede; invece si deve ricorrere al Vescovo diocesano contro gli atti di una autorità a lui sottoposta (Vicario, parroco, Superiore di un ente di diritto diocesano).

Sono passibili di ricorso tutti gli atti amministrativi singolari (decreti, precetti, rescritti), non quelli di carattere normativo generale né quelli giudiziali. Logicamente non si dà ricorso contro gli atti del Romano Pontefice e del Concilio ecumenico, anche se ad essi si può chiedere la grazia di rivedere un atto da loro emanato.

Può interporre il ricorso amministrativo qualsiasi soggetto (persona fisica o entità) che si ritiene onerata da un atto, e per qualsiasi giusto motivo (c. 1737).

Il ricorso amministrativo gerarchico non è di natura giudiziaria. In esso semplicemente l’autorità amministrativa superiore valuta se un atto di quella inferiore si deva confermare, revocare, annullare o comunque correggere.

b) Il ricorso contenzioso amministrativo

È il ricorso amministrativo che si presenta davanti al tribunale amministrativo. Il solo tribunale amministrativo attualmente esistente è la Segnatura Apostolica, alla quale spetta "dirimere le contese sorte per un atto di potestà amministrativa ecclesiastica" (c. 1445 § 2).

Possono essere impugnati gli atti amministrativi singolari posti o approvati da un dicastero della Curia romana; il che vuol dire che contro un atto posto da un inferiore si deve prima ricorrere al corrispondente dicastero (in via amministrativa) e poi, se il dicastero conferma l’atto, il ricorrente potrà rivolgersi al Tribunale (in via contenziosa) contro l’atto di conferma.

Non si può ricorrere per qualsiasi motivo, ma soltanto quando si ritenga che "l’atto impugnato abbia violato una qualche legge, nel deliberare o nel procedere" (Pastor Bonus, art. 123 § 1), ma il ricorrente può chiedere al Tribunale di giudicare anche sulla riparazione dei danni.

Il processo davanti alla Segnatura Apostolica si svolge secondo le norme speciali di questo Tribunale. Una caratteristica speciale di questo processo è che in fase preliminare la Segnatura deve decidere se il ricorso sia ammissibile o meno.

XIII. Rapporti tra la Chiesa e la comunità politica

Si tratta in questo capitolo di esaminare i principi giuridici che presiedono i rapporti tra la Chiesa e gli altri gruppi sociali, specie le comunità politiche.

Infatti, la Chiesa si presenta sin dalle sue origini non soltanto come una comunità di credenti e battezzati, ma anche come una società giuridicamente strutturata, fondata da Cristo e che da Lui ha ricevuto la missione di continuare nella storia la sua opera di salvezza.

"L’opera redentrice di Cristo, che ha come fine la salvezza degli uomini, riguarda anche la instaurazione dell’ordine temporale. La missione della Chiesa perciò non consiste soltanto nel portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche nel permeare e perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico" (AA 5).

La coscienza che la Chiesa ha di sè stessa, della sua fondazione, della sua organizzazione e missione, comporta che ella non si identifica né confonde con nessun’altra società. Ma questo pone il problema di quali devono essere i suoi rapporti con le altre organizzazioni e quali siano le vie e i mezzi dei quali si debba servire per compiere la sua missione. Infatti nel mondo in cui la Chiesa nacque, duemila anni fa, l’appartenenza ad un popolo determinava anche l’appartenenza alla sua religione. C’era unità o confusione tra comunità politica e comunità religiosa e quindi tra le relative autorità.

Sin dai primi passi la Chiesa si sa chiamata a congregare per Dio un popolo con genti di ogni razza, nazione e cultura, per edificare il Regno di Cristo, che non è di questo mondo e quindi non intende entrare in concorrenza con i regni della terra, ma che è presente e agisce in questo mondo per attirare le genti verso la luce della fede.

1- Il dualismo cristiano

Il cristianesimo quindi introduce una novità storica nelle relazioni tra religione e politica e più specificamente tra Chiesa e società civile; novità che si esprime in quello che è stato chiamato dualismo cristiano. La Chiesa è una società autonoma ed indipendente nell’adempimento della sua missione religiosa, ed in questo senso sovrana rispetto a qualsiasi altra. Su questo dualismo saranno impostati i suoi rapporti con le società politiche lungo i secoli.

I problemi che pone questa dualità non riguardano soltanto l’equilibrio tra due centri di potere, ma soprattutto l’individuo che, come cittadino e come fedele, appartiene al contempo alle due società e deve accomodare il suo comportamento alle esigenze di entrambe. Infatti il dualismo cristiano distingue, non separa né confonde il temporale dal religioso, e ne stabilisce i rapporti.

I primi cristiani, richiamandosi ai fatti e detti del Signore, interpretarono assai bene questo dualismo. Essi sapevano che bisognava rendere "a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc 12, 17; cf. Mt 22, 21); si consideravano cittadini dell’Impero uguali agli altri (non segregati né differenti), e quindi mentre si sottoponevano alle leggi e comandi legittimi delle autorità civili, nella loro vita religiosa e morale obbedivano a Dio ed alla sua Chiesa.

Da qui nacquero i primi conflitti poiché i cristiani si rifiutavano di ubbidire ai comandi dell’autorità imperiale di carattere religioso o comunque contrari alla legge divina, mentre per il mondo antico religione e politica erano entrambe sottoposte ad una sola autorità (monismo), in quanto si riteneva che la vita religiosa rientrasse nelle mansioni del potere politico. L’atteggiamento dei cristiani di fronte a questo dilemma è chiaramente sintetizzato nella risposta di Pietro al Sinedrio: "bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (Atti 5, 29; cf. ivi 4, 20). Da qui le persecuzioni e accuse contro i cristiani.

In fondo al dualismo ci sta sempre il problema della libertà della Chiesa. In ogni momento essa ha sempre rivendicato di poter liberamente organizzarsi e svolgere la sua missione, mediante la predicazione, il culto e le opere di carità.

2- Interpretazioni storiche del dualismo

Pur essendo chiari i principi, le interpretazioni dottrinali e pratiche del dualismo che si sono succedute lungo i secoli riflettono le mutevoli condizioni di ogni epoca. Da un lato la Chiesa stessa approfondisce il suo mistero e scopre nuove possibilità e metodi per compiere la sua missione; i quali, d’altro canto, sono in una certa misura in dipendenza dalla concreta configurazione sociopolitica della comunità civile, e dal suo atteggiamento nei confronti della religione e della stessa Chiesa.

1- Non appena uscita dalle catacombe, con la fine delle persecuzioni e l’Editto di Milano (313) dato da Costantino e Licinio, il cristianesimo diventa presto religione ufficiale dell’Impero, il quale però pretende di collocare la Chiesa al posto delle antiche religioni pagane, cioè non solo sotto la sua protezione ma anche sotto la sua competenza.

Gli imperatori cristiani, pur favorendo lo sviluppo e diffusione della religione cristiana, si attribuiscono, come prima, il ruolo di capi religiosi: convocano concili, dirimono dispute dogmatiche, nominano vescovi. Questa impostazione dei rapporti tra la Chiesa e l’Impero è stata chiamata cesaropapismo, in quanto vede il potere politico tentare di sostituirsi a quello ecclesiastico; e nell’Oriente è sopravvissuto fino al nostro secolo contribuendo anche alla scissione della Chiesa (scisma di oriente).

In Occidente, il trionfo delle invasione germaniche e il declino dell’Impero determinano momenti di caos e di riassestamento sociale ai quali la Chiesa sembra essere l’unica sopravvissuta; ma non senza fatica essa deve ancora difendere la sua libertà.

2- Nel medioevo feudale società civile e società ecclesiastica si confondono nell’unica ed omogenea respublica christianorum o christianitas, entro la quale i due poteri, secolare ed ecclesiastico, si intrecciano e si contendono la supremazia; le cariche ecclesiastiche sono spesso anche cariche politiche (lo stesso Romano Pontefice è anche signore territoriale, e così sarà sino alla fine degli Stati pontifici), per cui la scelta delle persone idonee a coprire tali cariche diventa una questione politica nella quale i principi secolari vogliono intervenire a scapito della libertà della Chiesa. Sorge così la famosa contesa delle investiture, che sul piano delle idee vedrà trionfare Gregorio VII (1073-1085).

Infatti, nel contesto della cristianità i rapporti tra i due poteri vengono decisamente assimilati ai rapporti che nella Chiesa intercorrono tra chierici e laici. Tutt’e due concorrono al raggiungimento dello stesso ideale, conservare ed estendere il Regno di Dio, ma il potere secolare deve essere guidato da quello sacerdotale.

Si instaura così un sistema di relazioni che si è chiamato ierocrazia. Non viene negato il dualismo di poteri, ma rimane oscurata la dualità di società in cui ciascuno di essi opera; e nel confronto tra le due autorità all’interno di un’unica compagine sociale è logico affermare la superiorità dell’autorità spirituale su quella terrena.

Alla Chiesa spetta sempre giudicare tutto ciò che nella vita degli uomini presenta una ragione di peccato (ossia quello che non è conforme al Vangelo), ma nel contesto medioevale questo giudizio non poteva non avere ripercussioni politiche più o meno dirette. Una delle più importanti è quella della scomunica, che ha lo stesso effetto di una deposizione poiché scioglie il vincolo di fedeltà dei sudditi verso il monarca o l’imperatore scomunicato. Anche attraverso questa via del giudizio morale (la ratio peccati) il Papa viene chiamato a risolvere le contese tra i principi cristiani, o a chiedere la loro collaborazione nella lotta contro l’eresia e il paganesimo.

Alla fine del medioevo si assiste da una parte ad una forte crisi di prestigio del papato, mentre si sente imperioso il bisogno di una profonda riforma della Chiesa; e dall’altra all’insorgere di nuove idee teologiche e politiche che mettono in discussione la natura gerarchica della Chiesa (specie il primato del Sommo Pontefice) e affermano sempre più la sovranità dei principi. Da questi fermenti avverrà, nel sec. XVI, lo smembramento della Chiesa ad opera della riforma protestante, e lo smembramento dell’Impero romano-germanico in tante monarchie assolute smaniose della loro sovranità senza limiti.

3- Nel contesto moderno il rapporto tra politica e religione si risolve di fatto in un predominio del potere temporale sintetizzato nella formula cuius regio eius religio, con la quale si pone fine alle guerre religiose. Essa significa che il principe sceglie quella che sarà la religione ufficiale nel suo regno con esclusione delle altre. Il confessionismo statale implica la considerazione della religione di Stato come fattore di unità politica, e quindi la repressione verso i culti dissidenti, i quali soltanto lentamente acquistano margini di tolleranza.

Negli stati in cui trionfa il protestantesimo si restaura il monismo: le comunità riformate diventano Chiese di Stato, il cui capo, in un modo o nell’altro, è il principe. Negli stati cattolici il dualismo viene diversamente interpretato: da parte statale, pur nella fedeltà dogmatica, la tendenza ad intervenire negli affari ecclesiastici si fa presente attraverso quella che è stata icasticamente chiamata "un’eresia amministrativa": il giurisdizionalismo nelle sue diverse forme nazionali (gallicanesimo francese, febronianismo tedesco, regalismo spagnolo e portoghese, giuseppinismo austriaco, ecc.).

Il giurisdizionalismo è una sorta di cesaropapismo moderno che interpreta largamente le competenze dei principi nelle materie ecclesiastiche, ottenute in base ad antichi o nuovi privilegi pontifici, o come contraccambio all’opera di difesa della fede e di evangelizzazione dei nuovi territori scoperti. In fondo però c’è sempre l’idea della sovranità assoluta del monarca, fondata anch’essa (alla stregua di quella del Papa) su titoli di diritto divino. Una sovranità della quale si considera oggetto anche la religione, quindi anche la vita e l’organizzazione della Chiesa nazionale, i cui rapporti con la Santa Sede sono più o meno sorvegliati dalla burocrazia statale.

I risvolti pratici del giurisdizionalismo sono diversi e variano d’intensità da paese a paese. In generale essi si concretizzano in quelli che sono stati chiamati iura maiestatica circa sacra: intervento sull’erezione di nuove circoscrizioni e sulle nomine per le cariche ecclesiastiche (regio patronato); sottoposizione della pubblicazione dei documenti ecclesiastici (specie quelli pontifici) al placet (benestare) del monarca; controllo e tassazione dei beni ecclesiastici; controllo dei tribunali ecclesiastici ad opera di quelli civili; ecc.

A queste ingerenze si fa fronte da parte ecclesiastica su due piani diversi: dottrinale e pratico. Nel primo, si rielaborano gli argomenti medioevali sulla supremazia del potere spirituale, interpretandoli in maniera più consona con la dualità sociale determinata dal consolidamento degli stati. Viene così proposta la dottrina della potestas indirecta della Chiesa sulle questioni temporali.

Secondo questa dottrina, Stato e Chiesa appaiono come società diverse e autonome ciascuna nel proprio ordine, guidate dalle rispettive autorità. Ma poiché la Chiesa ha una missione più eccelsa e trascendente di quella dello Stato, la sua giurisdizione non si limita agli affari prettamente ecclesiastici, ma si estende anche su quelle cose temporali che, pure indirettamente, riguardano il bene delle anime, acciocché le istituzioni civili non solo non impediscano ma favoriscano il compito spirituale della Chiesa.

Sul piano pratico però, la Santa Sede cede spesso alle pretese giurisdizionaliste dei principi cattolici, concedendo loro in forma di privilegi pontifici quelle competenze che i re pretendevano di possedere per proprio diritto. Da questo gioco politico nascono i concordati moderni, per la conclusione dei quali svolge un ruolo di spicco la diplomazia romana.

4- Il periodo rivoluzionario che inizia alla fine del secolo XVIII porta con sé grandi cambiamenti nella società civile e nei rapporti con le confessioni. L’illuminismo razionalista ispira l’idea di uno Stato liberale in cui l’esercizio del potere è limitato, diviso e regolato da una costituzione politica che garantisce ai cittadini uguali diritti, tra questi quello di libertà di culto. Nei confronti delle confessioni i postulati liberali richiedono l’abbandono della confessionalità e la separazione dello Stato dalla Chiesa.

Tuttavia l’attuazione pratica di tali premesse progredisce in vari modi nei diversi Stati, sia nel tempo che nelle modalità, rispecchiando la loro storia e tradizioni. Le rivoluzioni americana e francese sono appunto i due esempi tipici di queste differenze. I coloni nordamericani hanno come ideale la costruzione di una società libera e aperta, nella quale ciascuno possa praticare la religione che consideri più adeguata a sè, con una totale ma rispettosa separazione tra lo Stato e i gruppi religiosi cristiani allora presenti nelle colonie, la cui libertà viene garantita.

La rivoluzione francese, che ispirerà poi quelle di Europa e del Centro e Sud America, parte invece da uno spirito di rivincita contro tutto quello che rappresenta l’Antico regime. Oggetto di questa ostilità sarà anche quella stretta alleanza tra la monarchia e la Chiesa cattolica. Gli ideali della libertà religiosa e della separazione vengono spesso interpretati in senso laicista e anticlericale, come vie per escludere la religione dalla vita sociale e per sottoporre la Chiesa al potere politico. Difatti gli ordini religiosi furono sciolti, i beni ecclesiastici incamerati, le scuole ed altre opere cattoliche soppresse.

La risposta del magistero ecclesiastico ai fatti rivoluzionari e alle tesi del liberalismo non poteva che essere negativa. Oltre a deplorare i disordini e gli eccessi delle rivoluzioni, i Romani Pontefici condannavano le idee liberali: l’indifferentismo religioso che negava l’esistenza di un ordine morale oggettivo e consacrava la libertà dei culti, di pensiero e di stampa; lo Stato agnostico che escludeva la religione dalla vita sociale; la secolarizzazione del matrimonio e della scuola; il separatismo tra Stato e Chiesa tradotto in leggi laicizzanti che negavano la libertà di essa. C’era poi il problema degli Stati pontifici combattuti dentro e fuori dai liberali. Pio IX riassume nel Sillabo (1864) le condanne delle tesi liberali nei diversi campi.

Si può affermare che inizia così quella che poi si è chiamata dottrina sociale della Chiesa. Di fronte alle utopie liberali che tentano di fondare lo Stato su principi puramente razionalisti, e non più su un’ordine morale oggettivo, il magistero propone quei principi che rispecchiano il disegno divino sull’ordine della convivenza umana, proiettandoli sulle nuove e diverse questioni che sorgono in ogni momento storico.

Tra le altre questioni, Leone XIII (1878-1903) elabora quelle che devono essere le caratteristiche dello Stato cristiano ed i suoi rapporti con la Chiesa. Sulla base del dualismo evangelico Chiesa cattolica e Stato sono due società perfette, volute da Dio, che si devono mutuamente riconoscere libertà e autonomia ciascuna nel proprio ordine. Ma poiché i sudditi dell’una e dell’altro sono gli stessi uomini, le loro legislazioni si devono armonizzare sul principio che tutto quanto riguarda l’ordine morale e la salvezza delle anime è competenza della Chiesa.

Inoltre la dimensione religiosa dell’uomo si deve anche manifestare nella vita sociale, per cui lo Stato deve agire secondo i principi cristiani. Di conseguenza vengono condannati sia il separatismo che la libertà di culto la quale, ispirata all’indifferentismo, mette la religione cattolica alla pari delle altre. Le religioni non cattoliche devono però essere tollerate nella misura in cui ciò sia conveniente per tutelare la convivenza pacifica.

Leone XIII non ignorava però che molte nazioni fossero ormai lontane da questi principi; egli chiama dunque i cristiani ad essere presenti nella vita politica affinché, per quanto possibile, i valori di cui essi sono portatori siano recepiti dallo Stato.

5- Nella prima metà del XX secolo, la dottrina di Papa Leone sarà ribadita, con sfumature di circostanza, dai suoi successori fino a Pio XII. Ma questi dovettero affrontare nuovi problemi, specie quelli provocati dall’attuarsi storico delle differenti ideologie totalitarie (marxismo, nazismo, fascismo). Anche se ideologicamente distanti fra di loro, tutti questi sistemi si ricollegano al pensiero illuminista e presentano una concezione totalitaria dello Stato, che lo vede protagonista esclusivo ed assorbente della vita sociale. L’individuo ha senso soltanto come parte della comunità (nazionale o di classe) ed in tutto al suo servizio. Pio XI (1922-1939) dovette condannare più volte queste deificazioni dello Stato che non lasciavano spazio alla religione, specie nelle encicliche Non abbiamo bisogno (1931) contro il fascismo, Mit brenneder Sorge (1937) contro il nazismo tedesco e Divini Redemptoris (1937) contro il comunismo.

Le piaghe causate da queste ideologie fecero approfondire molto il magistero sulla dignità della persona ed i suoi diritti, sulla base di argomenti non solo di fonte rivelata, ma anche di diritto naturale che potessero essere da tutti capiti ed accettati. Inoltre appare sempre più decisiva l’importanza dell’apostolato laicale per cristianizzare una società ormai laicizzata e pluralista.

Di fronte agli eccidi della seconda guerra mondiale e al bisogno di ricostruzione dopo di essa, Pio XII difende un ordine, nazionale ed internazionale, di ispirazione cristiana basato sul rispetto dei diritti della persona. Anche se non ammette la libertà religiosa, il Pontefice sviluppa con ampiezza la dottrina della tolleranza di tutti i culti, e parla di una legittima laicità dello Stato democratico in una società sempre più pluralista.

Il pontificato di Giovanni XXIII segna una svolta importante nei rapporti Chiesa-società civile, riscontrabile sia nel magistero dello stesso Papa che nella dottrina del Concilio Vaticano II da lui convocato. Nella sua enciclica Pacem in terris (1963), Giovanni XXIII compie una positiva valutazione dei diritti umani; essi si fondano nel fatto "che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera". Tra i diritti elencati nell’enciclica si include quello "di onorare Iddio secondo il dettame della retta coscienza, e quindi il diritto al culto di Dio privato e pubblico". Si riconosce dunque la libertà religiosa sulla base del diritto naturale non su quella del relativismo liberale.

3- Il Concilio Vaticano II

Sulla scia del magistero precedente, l’ultimo Concilio ha trovato più larghi spazi di dialogo tra la Chiesa e le altre comunità; e lo ha fatto approfondendo, da un lato, la propria natura della Chiesa e, dall’altro, tenendo in gran conto la realtà di una società sempre più sensibile per quel che riguarda i diritti della persona.

La Chiesa vede se stessa come popolo di Dio radunato in Cristo, un’unica realtà nella quale misteriosamente si intrecciano elementi umani e divini, terreni e celesti, visibili ed spirituali, ad immagine del mistero del Verbo incarnato (LG 8). La sua missione è la continuazione di quella di Gesù e consiste nel "rendere partecipi tutti gli uomini della redenzione salvifica e, per mezzo di essi, ordinare effettivamente il mondo intero a Cristo" (AA 2a).

Infatti, la missione della Chiesa "non consiste soltanto nel portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche nel permeare e perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico" (AA 5). Si tratta non di una predicazione astratta ed esterna ma di incarnare il Vangelo nelle diverse circostanze storiche e vicende umane. Quindi la Chiesa è chiamata a intrattenere un rapporto con tutte le istanze terrene (cultura, politica, religione, scienza, ecc.) al fine di poterle elevare e perfezionare. Su questi rapporti si sofferma ampiamente la Costituzione conciliare Gaudium et spes.

Poiché "c’è nella Chiesa diversità di ministero ma unità di missione" (AA 2), tutti i fedeli, in forza del battesimo, sono chiamati a partecipare in essa, ciascuno secondo la propria condizione. Dal nostro punto di vista ci interessa soprattutto definire brevemente: di quale natura è questa missione che la Chiesa ha riguardo al mondo, quali rapporti determina con esso e come intende compierla.

La missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa è esclusivamente religiosa non temporale: essa non pretende di raggiungere un dominio di tipo politico, economico o sociale sulle realtà terrene (GS 42).

Su queste premesse, il Concilio ha riproposto il dualismo cristiano su diversi piani e prospettive:

a) Distinzione e rapporto tra ordine temporale e ordine religioso: Nella Costituzione Gaudium et spes (n. 36) si precisa cosa si debba intendere per autonomia delle realtà terrene: "Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma che è anche conforme al volere del Creatore... Se invece con l’espressione autonomia delle realtà temporali si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l’uomo può usarle senza riferirle al Creatore, nessuno che riconosca Dio ignora quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce".

Da ciò si possono dedurre tra le altre due considerazioni:

1) Che le leggi e l’ordine propri delle cose terrene e l’ordine morale non soltanto non si oppongono tra loro, ma fanno parte dello steso piano divino su tutto il creato, l’uomo incluso. Per cui l’uso corretto delle cose della terra implica il rispetto dei principi e valori propri di entrambi gli ordini: "perciò la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio" (GS 36).

2) Che la missione della Chiesa di condurre a Dio le cose create non implica che esse ricadano sotto il governo ecclesiastico, ma consiste nel guidare l’uomo ad un uso corretto delle realtà terrene che lo conduca alla perfezione, al compimento della sua vocazione divina.

Della rivelazione, infatti, non fanno parte le leggi e principi di ordine scientifico o tecnico che reggono la natura o la società; sì invece le leggi e i principi di ordine morale secondo i quali le cose terrene devono essere usate e ordinate (DH 14c). Sono questi i fondamenti etici della vita umana (individuale e sociale) che la Chiesa insegna con autorevolezza e verità; e li propone a tutti gli uomini, consapevole che soltanto nel loro rispetto i problemi dell’umanità possono trovare una risposta veramente umana.

b) Distinzione e rapporti tra società civile e società ecclesiastica: A livello sociale il dualismo è stato definito dal Concilio in termini di autonomia e collaborazione: "La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dell’altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti, in maniera tanto più efficace quanto meglio coltivano una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo" (GS 76).

Quindi due società di natura e finalità diverse, temporale l’una, soprannaturale l’altra, che agiscono ognuna secondo i propri criteri; ma entrambe trovano nel servizio all’uomo la loro ragione di essere e il loro punto d’incontro e di cooperazione.

La Chiesa da parte sua riconosce che "la città terrena, a ragione dedita alle cure secolari, è retta da propri principi" (LG 36) e quindi "non vuole in alcun modo intromettersi nel governo della società terrena" (AG 12c).

Parimenti per svolgere la sua missione religiosa la Chiesa chiede di poter godere "di tanta libertà d’azione quanta ne richiede la cura della salvezza degli uomini" (DH 13); specificamente essa rivendica il suo diritto di "predicare con vera libertà la fede, insegnare la sua dottrina sociale, esercitare senza ostacoli il suo ministero tra gli uomini e dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico quando i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime lo esigano". In queste sue attività la Chiesa usa "tutti e soli quei mezzi che siano consoni al Vangelo e al bene di tutti" (GS 76).

Pur nella loro distinta natura, la società ecclesiastica e quella civile in un certo senso si necessitano a vicenda, in quanto tutte e due concorrono alla perfezione dell’uomo al suo benessere personale e sociale, materiale e spirituale. Ciò risponde peraltro al disegno di Dio autore dell’ordine naturale e di quello soprannaturale, Creatore e Redentore dell’uomo e suo ultimo fine e felicità. I modi e le vie di una tale cooperazione saranno diversi secondo le circostanze ma devono partire dalla considerazione della dignità della persona e dei suoi diritti.

Su questa base la Chiesa intrattiene rapporti istituzionali con molti Paesi e organismi internazionali, e continua a concludere accordi di natura concordataria con diversi Stati, nei quali vengono definiti giuridicamente i loro rapporti. I concordati tra la Santa Sede e uno Stato sono trattati internazionali.

c) Autonomia dei fedeli nelle attività secolari. Ma soprattutto la Chiesa compie la sua missione di cristianizzare la società umana attraverso l’attività dei suoi membri, specie dei laici, la cui specifica vocazione li chiama a "cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio". È Dio stesso che li chiama "a procurare la santificazione del mondo, quasi dall’interno a modo di fermento, guidati dallo spirito evangelico... A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che sempre siano fatte secondo Cristo" (LG 31).

Ora, poiché ordinare secondo la legge di Dio le realtà terrene non significa negare la loro legittima autonomia né sottometterle al governo della Chiesa, i laici hanno da una parte il dovere di "riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio,... ricordandosi che in ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana" (LG 36); e dall’altra essi hanno il diritto a che i pastori gli riconoscano "quella giusta libertà che a tutti compete nella città terrestre" (LG 37).

Questa autonomia nelle attività secolari è stata consacrata al c. 227 del CIC, nel quale si avverte che nell’esercizio di questa libertà i fedeli "facciano in modo che le loro azioni siano animate dallo spirito evangelico e prestino attenzione alla dottrina proposta dal magistero della Chiesa, evitando però di presentare nelle questioni opinabili la propria tesi come dottrina della Chiesa". Ciò vuole dire che ogni cristiano è libero di sostenere qualsiasi opzione temporale che sia compatibile con la fede e la morale; la gerarchia o gli altri fedeli non gli possono imporre determinate scelte o strategie, né si possono presentare come rappresentanti dei cattolici negli affari temporali.

Infatti il messaggio evangelico contiene gli insegnamenti necessari alla salvezza degli uomini e per l’organizzazione della Chiesa, non invece un programma di organizzazione (politica, economica, culturale) della società civile: possono essere in sintonia col Vangelo molti progetti diversi in queste materie.

Il cittadino cattolico, poiché gode di questa libertà, si deve anche assumere la responsabilità delle sue attività nell’ambito della comunità civile, senza pretendere di implicare la Chiesa nelle sue personali opzioni. Seguendo l’invito del Concilio, "i fedeli imparino a distinguere accuratamente fra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto sono aggregati alla Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della società umana" (LG 36). Parimenti si deve distinguere chiaramente "tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in unione coi loro pastori" (GS 76).

La libertà religiosa

Uno dei documenti più importanti del Concilio è la Dichiarazione Dignitatis humanae (DH) sul diritto di libertà religiosa. Si tratta di un diritto civile che ha come fondamento "la stessa dignità della persona umana" e significa "che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito di agire in conformità alla sua coscienza, privata o pubblicamente, in forma individuale o associata entro i debiti limiti" (DH 2).

Sul piano morale ogni uomo ha il dovere di cercare e vivere la verità, "specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua Chiesa", ma quest’obbligo non può essere compiuto che in libertà, giacché "la verità non si impone che in forza della stessa verità" (DH 1); per cui, nella società civile, né lo Stato né nessun altra autorità o gruppo entro di essa è competente a determinare coattivamente le scelte religiose dei cittadini.

Soggetto della libertà religiosa civile sono anche la Chiesa e le altre confessioni religiose, che raggruppano i cittadini che appartengono ad una stessa religione. Esse hanno il diritto di organizzarsi secondo le proprie norme, praticare il culto, sostenere la vita religiosa dei propri aderenti, promuovere istituzioni e iniziative a scopo religioso, diffondere la loro dottrina, ecc.

La libertà religiosa deve essere tutelata e promossa dall’autorità civile alla stregua degli altri diritti umani, senza discriminazioni di sorta. Essa però ha anche dei limiti che sono quelli necessari per garantire i diritti di tutti, la pace, la giustizia e la moralità pubblica; in definitiva: l’ordine pubblico rettamente inteso.

Sulla base della libertà religiosa il dualismo cristiano trova un valido appoggio: anche uno Stato che si definisce laico e non riconosce la Chiesa "come autorità spirituale fondata da Cristo Signore" (cioè per un titolo di diritto divino), deve riconoscere che la religione dei cittadini non è di sua competenza e quindi rispettare la loro libertà e quella delle confessioni, tra di esse la Chiesa cattolica. Perciò il Concilio afferma che laddove "vige la forma della libertà religiosa non solo proclamata a parole né soltanto sancita con le leggi, ma anche tradotta nella pratica con sincerità, allora finalmente la Chiesa gode, di diritto e di fatto, della situazione di indipendenza necessaria all’adempimento della missione divina" (DH 13).

4- Diversi aspetti della missione della Chiesa riguardo al mondo

La missione religiosa della Chiesa è in sè profondamente umana: essa riguarda anzitutto l’uomo, creato da Dio, redento da Gesù Cristo e chiamato alla santificazione nello Spirito Santo. "L’uomo dunque, ma l’uomo singolo e intero, con corpo e anima, cuore e coscienza, intelletto e volontà" (GS 3); è Cristo, nuovo Adamo, che "proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, manifesta pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione" (GS 22).

Proseguendo l’opera del suo Fondatore, la Chiesa intende promuovere la dignità della persona e servire alla sua vocazione; e lo fa attraverso il suo ministero di verità e di carità "ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio" (GS 40).

Partendo dalla fede, la Chiesa sa che "nessuna legge umana può assicurare la personale dignità e libertà dell’uomo così bene quanto il Vangelo di Cristo" (GS 41). Rientra quindi nella sua missione proclamare e promuovere i diritti umani con la sua predicazione e con le opere di carità "destinate al servizio di tutti, ma specialmente dei bisognosi" (GS 42). Ella non pretende di "esercitare con mezzi puramente umani un qualche dominio esteriore" (GS 42), ma offre a tutti la forza del Vangelo al fine di risanare le ferite del peccato, origine di tutte le ingiustizie personali e sociali, poiché soltanto nella verità si raggiunge la piena libertà.

In attuazione di questi e altri più specifici indirizzi conciliari, i Pastori della Chiesa, specie i Romani Pontefici, si sono ripetutamente occupati dei diversi problemi riguardanti i diritti della persona: il diritto alla vita sin dalla concezione fino alla morte naturale, la libertà religiosa, la pace e lo sviluppo dei popoli, il matrimonio e la famiglia, la donna e i bambini, la scuola, ecc. Mentre incoraggiano le varie iniziative in favore della persona, essi hanno pure condannato con vigore le violazioni e minacce che insidiano la sua dignità.

Facendo ciò la Chiesa non esula dal suo compito proprio, come pretendono alcuni che vorrebbero un cristianesimo disincarnato; al contrario, come ricorda il c. 747 § 2, "compete alla Chiesa annunciare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine sociale, così come pronunciare un giudizio su qualsiasi realtà umana in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime". E tutti i fedeli, guidati dalla loro coscienza cristiana, devono contribuire affinché nella vita sociale sia sempre rispettata la legge evangelica.