Prima Domenica di AVVENTO 28 novembre 1999

Prima: Is 63, 16-17. 19; 64, 1-7; seconda: 1Cor 1, 3-9 Vangelo: Mc 13, 33-37

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Atteggiamento vigilante tra l’attesa e la speranza: ecco il punto nucleare delle letture liturgiche. Il vangelo ripete per tre volte: "vigilate, state allerta, vegliate", perchÈ non sapete quando giungerà il momento, quando giungerà il padrone di casa. Nella prima lettera ai corinzi, Paolo dice di aspettare la manifestazione di nostro Signore Gesù Cristo, che "vi confermerà fino alla fine". La bellissima invocazione a Dio del terzo Isaia esprime il desiderio che il Signore irrompa con il suo potere nella storia, come se si trattasse di un nuovo Esodo, ricordando che "Tu, Signore, sei nostro padre".

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Il giorno del Signore. Nell’avvento, la tradizione della Chiesa ha unito due venute: quella del Verbo nella debolezza della carne, che celebreremo il giorno di Natale, e quella del Signore nella maestà della sua gloria, che appartiene, quanto al tempo e al modo di realizzarsi, al regno del mistero nascosto nel cuore del Padre. Tra entrambe corre un filo di continuità: la venuta storica di Gesù preannuncia ed anticipa in certo modo la sua venuta ultima, alla fine della storia; chi esce con gioia incontro a Gesù di Nazareth nel mistero della sua nascita, non ha motivo per temere o disperare dell’incontro estremo e definitivo con il Cristo glorioso, Signore dell’universo e della storia. Per il fedele cristiano, il giorno del Signore non deve essere rivestito di scene terrificanti, di timori attanaglianti, di orribili fantasmi che paralizzano, di abbaglianti visioni apocalittiche. Con san Paolo, il cristiano è sicuro che "il Signore vi confermerà sino alla fine, perchÈ nessuno abbia di che accusarvi nel giorno di nostro Signore Gesù Cristo" (seconda lettura). Il giorno del Signore richiama il cristiano, ed ogni essere umano, alla responsabilità di fronte al mistero infinito dell’incarnazione e della redenzione.

Certezza e ignoranza. La rivelazione di Dio ci ha svelato la certezza dell’ultima venuta di Gesù, alla fine dei tempi. Su questo, noi cristiani non possiamo avere alcun dubbio. Ma Dio ci ha lasciato all’oscuro rispetto al tempo e alla maniera in cui avrà luogo la parusia. Si vede che per Dio queste questioni non hanno importanza. Dio non si rivela per soddisfare la nostra curiosità, nÈ per strappare dalla nostra anima la salutare speranza: si rivela per il nostro bene e per la nostra salvezza.

L’ignoranza sul quando e sul come mantiene noi uomini, generazione dopo generazione, in stato di allerta e di vigilanza, che è ciò a cui Gesù ci invita nel vangelo.

Abbandono nelle mani del Padre. Insieme a questo atteggiamento evangelico, il testo di Isaia ci propone l’atteggiamento di abbandono filiale, poichè Dio è nostro padre e nostro liberatore, il nostro ceramista, e noi siamo la sua argilla. Un atteggiamento che si ottiene e si configura in modo speciale nella preghiera, crogiolo dello spirito filiale e della fede solida in Dio. Questo spirito filiale fa gridare al profeta con invidiabile fiducia: "Magari squarciassi i cieli e scendessi!". Cinque secoli dopo, il desiderio di sarebbe trasformato in realtà con l’incarnazione del Verbo. Quando sarà stabilito nei disegni di Dio, il cielo tornerà di nuovo a squarciarsi e apparirà il figlio dell’uomo per giudicare vivi e morti e per stabilire definitivamente il suo reame di giustizia, di amore e di pace.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Vigilanza! Giunge il Natale. Nella nostra società corriamo il pericolo di "passare bene" il Natale, come si passano bene le vacanze estive o un giorno di festa nazionale. Cioè, andiamo forse alla messa di mezzanotte, perchè "la tradizione lo obbliga", adorniamo la nostra casa con un alberello di luci e un presepio, festeggiamo in famiglia con un banchetto sontuoso, vediamo in televisione qualche programma relativo alle feste natalizie, facciamo bei regali ai nostri amici e alle persone care, ravviviamo i legami familiari intorno al focolare... tutte cose buone! Ma la sostanza del Natale, il mistero più sublime della storia: Dio tra noi, Emanuele, ci sfugge come acqua tra le dita delle mani o svanisce come fumo nella nostra mente superficiale e poco propensa alla meditazione seria delle cose che realmente valgono la pena. Oggi la liturgia ci dice: Attenti! Vigilate per non perdere l’occasione di meditare su qualcosa di importante, di valutare dovutamente il mistero che stiamo per celebrare.

Vigilanza! Sei peccatore. Non sappiamo nè il giorno nè l’ora in cui verrà il Signore al termine della storia, ma conosciamo la sua venuta storica. Commetteremo il crimine audace di vivere indifferenti, al modo nocivo di peccatori incalliti, estranei del tutto al Bambino divino di Betlemme e al Signore della gloria? Siamo peccatori. Portiamo in noi l’inclinazione al peccato. Non possiamo smettere di vigilare, affinchè la venuta del Signore ci trovi preparati, vestiti con il vestito delle nozze. Siamo peccatori: il Natale ci ricorda che il Figlio di Dio si è fatto uomo per redimere l’uomo dal peccato. Ricordiamo! Vigiliamo! Che la venuta storica di Dio tra noi uomini ravvivi la nostra coscienza di peccatori e la nostra necessità di salvezza. Il Natale non è soltanto tempo per sentimenti di tenerezza, di intimità, di festa; lo è anche per risvegliare dal letargo la nostra coscienza e "far nascere Dio" nel nostro cuore.

 

 

 

 

Seconda Domenica di AVVENTO 5 dicembre1999

Prima: Is 40, 1-5. 9-11; seconda: 2Pt 3, 8-14 Vangelo: Mc 1, 1-8

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

L’immagine del "deserto" appare nella prima lettura e nel vangelo, e in essa si compendia il messaggio liturgico di questa domenica di avvento. Nell’esilio babilonese, sul punto ormai di terminare, una voce grida: "Preparate nel deserto una via al Signore" (prima lettura). Nel vangelo la voce che grida cosÏ è quella di Giovanni il Battista, il precursore del Messia, la cui venuta è già vicina. Anche nel "deserto", l’uomo dovrà prepararsi per la grande venuta ultima del Signore, nella quale "aspettiamo dei cieli nuovi e una terra nuova, in cui abiti la giustizia" (seconda lettura).

 

 

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Un deserto necessario. Nel mondo si hanno fenomeni per niente evangelici, per niente cristiani. Come i giudei esuli di Babilonia erano abbagliati dalla grandezza dell’impero e dalla fastosità dei suoi riti religiosi, gli uomini di oggi sentono la seduzione del progresso tecnico, il prurito di altre religioni che non sono cristiane, il richiamo di paradisi allucinanti dove regnano la droga, il sesso e l’alcool, la dolce e soporifera incoscienza del peccato, perfino di fronte alle esigenze basilari dei dieci comandamenti... In queste circostanze sorge la necessità del "deserto": luogo o stato dello spirito dove ricreare l’ambiente propio e favorevole per incontrarsi con Dio e con la propria dignità di immagine e figlio di Dio, mediante il silenzio interiore e il raccoglimento dei sensi, mediante la meditazione e la preghiera assidue. Di fonte alla perdita del senso di Dio e del senso del peccato, si richiedono "spazi", sia esteriori o interiori, di recupero di senso, di riacquisto di principi, valori e convinzioni ancorate nello stesso essere dell’uomo e del cristiano.

L’intervento divino. Dio desidera intervenire nella storia e nella vita dell’uomo, giorno per giorno. Gli uomini, tuttavia, non colgono l’intervento divino nè si lasciano condurre da esso, se non unicamente nel "deserto". Soltanto nel "deserto" gli uomini si rendono conto, come gli ebrei in Babilonia, che ci sono valli da innalzare, colline da abbassare e strade tortuose da raddrizzare, allo scopo di tornare un’altra volta alla terra promessa (prima lettura). Soltanto nel "deserto" ascoltano la predicazione di Giovanni il Battista, si convertono e ricevono il battesimo di acqua, preparazione del Battesimo con lo Spirito Santo, proprio dei discepoli di Cristo (vangelo). Dio continua nei nostri giorni il suo intervento nella vita dell’individuo e dei popoli. Impossibile riconoscere ed accettare tale intervento, se non si vive l’esperienza purificatrice e meditativa del deserto.

Il deserto fiorisce. Nell’ambiente sereno e silenzioso di "deserto" ci andiamo impregnando della verità di Dio, del senso del tempo, della norma suprema dell’esistenza. Dio è nostro re, che viene con potere e braccio dominatore per liberarci dal peccato e dalle sue conseguenze; Dio è nostro Signore, che porta con sè la sua ricompensa di vita e salvezza eterne; Dio è nostro pastore, che riunisce il gregge e ne ha cura amorosamente (prima lettura). Nel "deserto" conosceremo che il giorno del Signore giunge come un ladro e che il conteggio del tempo che Dio fa non coincide con quello degli uomini. Nel "deserto" sapremo che Dio non vuole che nessuno si perda, ma che tutti si convertano. Nel "deserto" vedremo con chiarezza che l’attesa della venuta del Signore deve portare l’uomo a una condotta santa e religiosa, cioè al compimento perfetto della volontà santissima di Dio (seconda lettura).

SUGGERIMENTI PASTORALI

Un "deserto" nella tua vita. La vita è movimento, azione, andare e venire, fare, progettare, progredire, cambiare. La tua vita, dal mattino alla sera, è piena di lavori e compiti, di appuntamenti e di riunioni, di contatti e relazioni, di rumore, smog, tensione nervosa...Puoi giungere a pensare che più che vivere "vieni vissuto" dal dinamico spiritello di ogni giorno. Come vivere? Come essere te stesso in pienezza? Come infondere spirito allo spiritello quotidiano, non poco materialista e volgare? Hai bisogno di "deserto". E sei tu stesso colui che può e deve costruirselo con pazienza, volontà e grazia di Dio. Dentro il tuo "deserto" ti sarà facile prepararti bene per il Natale, per la sorpresa di Dio in questo anno giubilare.

Sai chi viene? La risposta è facile e chiara per un cristiano: "Il Verbo di Dio che si fece uomo e nacque da Maria Vergine a Betlemme di Giuda". " la risposta catechetica, che abbiamo appreso da bambini. Ma ti chiedo ancora: Sai realmente chi viene? Alla risposta catechetica deve fare seguito la risposta dogmatica, cioè il ricco contenuto dottrinale della formulazione catechetica; e inoltre le risposta spirituale, ossia, il senso e l’incidenza che Gesù Cristo ha nel tuo mondo interiore (pensieri, decisioni, ideali, progetti) e nella tua relazione con il divino; e infine la risposta morale, quella che si dà con i comportamenti giornalieri secondo lo stile di Cristo, quella in cui Cristo modella la propria attività nell’insieme delle esperienze vitali. Sai realmente chi viene? ", la tua, una sapienza meramente nozionistica o incide vitalmente in tutta la tua personalità e in tutta la tua esperienza esistenziale? L’avvento è il tempo favorevole per dare una risposta completa a una domanda tanto semplice, ma tanto trascendentale.

 

 

 

 

Solennità dell’ IMMACOLATA CONCEZIONE 8 dicembre 1999

Prima: Gen 3, 9-15. 20; seconda: Ef 1, 3-6. 11-12 Vangelo: Lc 1, 26-38

 

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

I disegni di Dio per l’uomo e per il mondo erano meravigliosi, un vero paradiso, con l’ovvia limitazione del suo essere creaturale. Ma l’uomo, per istigazione diabolica, preferÏ erigersi il suo proprio paradiso, ribellandosi contro la sua stessa condizione, preferÏ eliminare Dio e mettersi al suo posto. Il risultato fu disastroso, la "nudità" più radicale della sua dignità e della sua sana relazionalità (prima lettura). Ma Dio è fedele nel suoi disegni e sollecito della sorte dell’uomo, e per questo al peccato di Adamo ed Eva risponde con un progetto stupendo di salvezza: "Porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la stirpe di lei; questa ti schiaccerà la testa". Questa promessa si compie quando Maria, all’annuncio dell’incarnazione del Verbo, annuncio fatto dall’angelo Gabriele, pronuncia la sua umile risposta: "Si faccia in me secondo la tua parola" (vangelo). Oh felice colpa! Perchè ci ha ottenuto un tale Salvatore e una tale Madre. SÏ, in Gesù e in Maria per merito di suo Figlio, Dio stesso ricreò nei suoi ineffabili disegni la natura umana e la elevò a un rango superiore (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Dio realizza i suoi disegni. La vita e la storia del mondo e degli uomini non fanno giri e giri per puro caso ed insita necessità. CosÏ sarebbe, se nulla nè nessuno fosse all’origine delle cose e degli avvenimenti. C’è, tuttavia, un Dio che ha creato l’universo, e in esso l’uomo; c’è un Dio che ha dato ordine a tutte le cose e ha tracciato un piano magnifico per l’uomo. Questo piano lo chiamiamo "storia della salvezza"; una storia che inizia con la storia dell’uomo, ha la sua pienezza in Gesù Cristo, centro e punto focale dell’universo e della sua storia, e terminerà con la fine dei tempi. Il piano di Dio era qualcosa di stupendo, la somma di tutti i beni, che il libro della Genesi denomina "paradiso". L’uomo primigenio, forse per inesperienza e certamente in virtù della sua libertà, si ribella contro tale piano divino e pecca.

Che cosa fa Dio, vedendo rovinato il suo piano per l’uomo? Non ricusa i suoi disegni di amore e di salvezza. Per questo "castiga" l’uomo e lo pone nel suo posto di creatura e nella sua condizione di essere limitato, imperfetto, debole, e inoltre con una libertà che non ha saputo usare in modo degno, al servizio del suo bene e nel rispetto del disegno di Dio. Di fronte a questa situazione, l’uomo, dall’intimo stesso del suo essere, si accorge che ha bisogno di salvezza. Chi, se non Dio, potrà salvarlo? Dio lo sa, e fa all’uomo una promessa che attraverserà i secoli fino a che si compirà la pienezza dei tempi.

Dio trae il bene perfino dal male. Nella sua provvidenza, Dio non cambia il suo piano nè lo corregge; fa ciò che non potremmo nemmeno immaginare: del peccato, che pretendeva di distruggere il disegno divino, si servÏ perchè risplendesse in modo più folgorante il suo amore per l’uomo e il suo piano di salvezza. In questo modo, il Verbo e Figlio di Dio entrò nella storia umana, per mezzo di Maria, e portò a pienezza e perfezione, sia la storia umana (Gesù è l’uomo perfetto) sia la storia della salvezza (Gesù è il Redentore dell’uomo e della storia). In Gesù Cristo la storia della salvezza ha raggiunto il suo culmine e la sua perfezione. In Lui, prototipo di ogni uomo, è giunto alla sua fase finale e completa. Ma la storia non termina in Lui, continua nella vita degli uomini durante i secoli, fino alla fine del mondo. Cristo redentore prolunga nella storia il disegno salvifico di Dio, e lo Spirito Santo lo interiorizza nel cuore degli uomini. Maria è la prima a partecipare in pienezza alla storia salvifica, in un modo privilegiato ed unico. Ma l’uomo di qualsiasi epoca della storia deve confrontarsi con questo piano di Dio e prendere posizione. La libertà, con cui il primo uomo si confrontò con il disegno di Dio, è la stessa con la quale l’uomo posteriore a Cristo può accettare o rifiutare il programma cristiano della redenzione. Ciononostante, l’offerta di salvezza in Cristo Gesù non soltanto resta in atto, ma risponde alle aspirazioni più profonde ed intime di ogni uomo, oggi, ieri e sempre.

 

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

La vita non è un caso. La tua vita non è una meteorite caduta dal cielo sul pianeta terra nel secolo ventesimo per puro capriccio del caso, come potrebbe essere caduta nei secoli XIX o XXI, o semplicemente non esser caduta affatto. No. La tua vita ha una ragione di essere, risponde a un progetto, fa parte di un piano grandioso tracciato da Dio fin dall’eternità. Scoprire il tuo posto in questo progetto divino, conoscerlo bene, valutarlo e donarti anima e corpo alla sua realizzazione è il compito più importante e più appassionante della tua esistenza terrena. " ciò che fece Maria in tutta la sua vita, come il vangelo di oggi esemplifica nel momento dell’annunciazione dell’angelo Gabriele. Il suo bellissimo esempio ci stimoli a seguire con atteggiamento obbediente e fedeltà la mappa di viaggio che Dio ha tracciato alla nostra esistenza. E pensiamo che non camminiamo da soli. Al nostro fianco, nel nostro mezzo ambiente, nella nostra parrocchia, ci sono altri uomini e donne che fanno parte dello stesso disegno di Dio. Sentiamoci solidali gli uni con gli altri.

L’Immacolata Concezione. Era nel disegno di Dio che Maria fosse redenta in un modo assolutamente originale dai meriti di suo Figlio Gesù Cristo, e in previsione della sua vocazione di Madre di Dio. Il luogo privilegiato di Maria nel piano di Dio porta con sè doni e grazie corrispondenti, alcune di carattere unico. Dio arricchisce anche la tua vita con grazie più che sufficienti perchè tu realizzi con dignità e perfezione il posto che Egli ti ha assegnato nella storia della salvezza. Non conta tanto che il posto sia grande o piccolo, piuttosto che Dio starà con te e ti benedirà con i suoi doni perchè tu riesca ad occuparlo degnamente.

 

 

Terza Domenica di AVVENTO 12 dicembre1999

Prima: Is 61, 1-2. 10-11; seconda: 1Ts 5, 16-24 Vangelo: Gv 1, 6-8. 19-28

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Lo Spirito del Signore mi ha mandato per dare la buona novella... mi ha inviato per annunciare.." (Is 61, 1-2). Un personaggio, figura di Cristo, si sente investito di una missione liberatrice e salvifica. Anche Giovanni Battista, che riconosce onestamente la sua funzione nel piano di Dio, si sa inviato non per soppiantare, ma per testimoniare la luce, il messia da tutti aspettato (Vangelo). Infine, Paolo, apostolo-inviato di Cristo, porta a compimento la sua missione mediante la predicazione e mediante delle lettere. In questa sua prima lettera ai tessalonicesi, li esorta a vivere in conformità con la salvezza che Cristo, l’inviato di Dio, ci ha conferito (seconda lettura).

 

 

 

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

Al di sopra di tutto. " questo, secondo me, il grande insegnamento della liturgia di oggi. Il profeta, per il popolo già ritornato dall’esilio babilonese, riceve una missione che in parte gli toccherà di realizzare tra i suoi contemporanei, ma che nella maggior parte rimanda alla figura del messia. A ragione Gesù farà propria questa missione del profeta, indicando cosÏ il compimento della Scrittura e la sua vocazione e missione messianiche. Giovanni il Battista, d’altra parte, è ben cosciente di chi sia lui e di quale sia la sua missione. Egli non è il messia: egli non realizza la figura messianica del testo di Isaia. Egli è soltanto una voce che prepara le via del messia., è soltanto un testimone della luce che illuminerà tutti gli uomini. Sapersi con una missione non è sufficiente, si deve conoscere qual è la propria missione nei disegni di Dio. La nostra missione, come quella di Giovanni il Battista, è quella di essere testimoni della luce, come quella di Paolo e quella dei primi cristiani è essere apostoli di Gesù Cristo. C’è, dunque, un filo continuo tra la missione del profeta, quella di Giovanni Battista, quella di Gesù, quella di Paolo e quella dei cristiani di tutti i tempi. Questa continuità garantisce e dà credibilità alla nostra coscienza e al nostro senso di missione tra gli uomini.

Missione con contenuto. Quando uno è inviato a qualcuno, lo è per comunicargli un messaggio. La missione è,ï pertanto, inseparabile dal messaggio che si deve comunicare. Qual è il contenuto della missione del profeta, del Battista, di Paolo? Considerando i testi liturgici, possiamo segnalare alcuni elementi di questo contenuto:

a) L’annuncio della liberazione da parte del messia, cioè, di Gesù di Nazareth: "Mi ha vestito con un abito di liberazione, e mi ha coperto con un mantello di salvezza". Una liberazione mediante la parola e mediante le opere. Una liberazione integrale, che evangelizza, che cura, che consola. Un annuncio che porta alla coscienza viva che "siamo liberi con la libertà con cui Cristo ci ha liberato"

b) La testimonianza di Cristo come luce del mondo, che è stato inviato dal Padre per illuminare le menti e le coscienze degli uomini. Una luce che sta in mezzo a noi, ma che non si vede, se non c’è qualcuno che ne dà testimonianza, come Giovanni il Battista

c) Lo stile di vita dell’uomo liberato e illuminato da Cristo, cosÏ come viene descritto nell’esortazione di Paolo ai tessalonicesi: allegria cristiana, preghiera, eucarestia, discernimento dei carismi, vita irreprensibile ed autentica.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Cristiani con missione. Non si può separare il nome di cristiano dalla missione. Per definizione, cristiano è il discepolo di Cristo che partecipa della stessa missione di Gesù Cristo. Se qualche volta ci sono stati cristiani "passivi", questa epoca certamente non può sere la nostra. Ogni cristiano deve essere cosciente del fatto che ha una missione da realizzare nella Chiesa: santificare la sua vita e collaborare alla santificazione di quella degli altri. I primi destinatari della missione siamo noi stessi, perchè soltanto quando noi siamo evangelizzati possiamo aiutare nell’evangelizzazione di altri. Come essere "missionari" di noi stessi? Lo Spirito Santo, che ci parla al cuore mediante la Bibbia e attraverso gli insegnamenti della Chiesa, andrà mostrando a ciascuno di noi le forme personali e concrete di realizzarlo. Ma siamo anche "missionari" dei nostri fratelli, qualsiasi essi siano, qualsiasi cosa facciano, indipendentemente dalle circostanze esistenziali in cui si trovino. Siamo "missionari", cioè, inviati dallo stesso Cristo ad annunciare a scuola, a casa, in ufficio, per strada, al club, al parlamento, ecc., che Gesù Cristo è il salvatore di tutti, che Egli è la luce del mondo che illumina tutte le oscurità della coscienza individuale e dell’esistenza sociale e collettiva, che Gesù Cristo Salvatore crea un mondo nuovo e un nuovo stile di vita, degni di essere vissuti.

Testimonianza ed Eucarestia. Il "missionario" cristiano compie la sua missione soprattutto quando è testimone, cioè quando incarna nella sua vita di tutti i giorni ciò che va predicando a parole nei diversi luoghi e circostanze quotidiane. La partecipazione quotidiana all’Eucarestia consolida la vocazione di testimone. In effetti, si dà testimonianza innanzitutto del fatto che l’Eucarestia è il centro di convergenza e il punto di riferimento della fede e della santità. Inoltre, partecipando al mistero della redenzione ed alimentandosi con il corpo e il sangue di Cristo, si riceve una forza spirituale inimmaginabile per essere testimoni di Cristo Salvatore, luce del mondo e re dei cuori degli uomini. Infine, con l’Eucarestia diamo testimonianza di pregustare già il Signore che viene, nel Natale, mediante l’attualizzazione liturgica del mistero, alla fine dei tempi, mediante la virtù della speranza di possedere pienamente ed integramente ciò che adesso pregustiamo soltanto sacramentalmente.

 

 

 

 

Quarta Domenica di AVVENTO 19 dicembre1999

Prima: 2Sam 7, 1-5.8-12. 14.16; seconda: Rom 16, 25-27 Vangelo: Lc 1, 26-38

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Dio mostra a Davide la sua gratitudine annunciandogli che gli costruirà una casa, cioè una dinastia, e che sarà per lui e per i suoi discendenti come un padre (prima lettura). La stessa gratitudine divina si fa evidente nell’annuncio dell’angelo Gabriele a Maria sulla sua vocazione di Madre di Dio per opera dello Spirito Santo. Maria sarebbe stata la "nuova casa", la "nuova arca" costruita da Dio nella pienezza dei tempi (vangelo). L’azione gratuita di Dio si manifesta, infine, in mezzo ai cristiani e al mondo intero, nel suo potere di consolidare i fedeli nella fede, nella sua rivelazione del mistero mantenuto in segreto fin dall’eternità, e adesso fatto conoscere a tutte le nazioni perchè rispondano a questa rivelazione con la fede (seconda lettura).

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

La gratuità di Dio. " innanzitutto un’opera della Trinità. " il Padre che promette a Davide una "casa", che invia l’angelo Gabriele a una vergine di nome Maria, e che rivela agli uomini il suo mistero; è il Figlio di Dio (figlio di Davide secondo la carne) colui nel quale tale promessa raggiunge il suo perfetto compimento: "Il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre, regnerà sulla stirpe di Giacobbe e il suo regno non avrà fine", e nel quale il Padre si rivela agli uomini; è per opera dello Spirito che il Figlio di Dio si fece figlio di Davide nel seno di Maria: "Lo Spirito Santo verrà si di te e il potere dell’Altissimo di coprirà con la sua ombra"; e tramite il quale i cristiani sono fatti figli di Dio. Questa gratuità trinitaria è caratterizzata da tre note: L’assoluta iniziativa divina (nè Davide, nè Maria, nè gli uomini hanno intrapreso qualcosa che meritasse l’intervento di Dio), una iniziativa che si deve vedere esclusivamente con la salvezza dell’uomo senza interesse alcuno da parte della divinità, e una salvezza caratterizzata dall’universalità di tutte le nazioni.

Le vie della gratuità. 1) La prima è quella della scelta: Dio sceglie chi vuole per e realizzare i suoi disegni nella storia. Scelse Davide, e non Samuele o Saul, per fondare la monarchia e la dinastia messianica. Scelse Maria, non Elisabetta o Anna, per essere la Madre del Messia o la TheotÛkos. Scelse Paolo e gli apostoli per rivelare agli uomini il mistero nascosto fin dall’eternità. 2) Un’altra via della gratuità divina è la missione che Egli affida. Non sono gli uomini che la cercano e che si affannano per raggiungerla; è Dio che la dà, e che accompagna l’uomo nella sua realizzazione. La missione concreta nella vita non se la inventò Davide, nè Maria Santissima, nè Paolo. L’inventore, datore e promotore della missione è soltanto ed esclusivamente Dio. 3) Una terza via è la salvezza. Soltanto Dio salva. Noi uomini siamo unicamente strumenti razionali e liberi, collaboratori responsabili o non di Dio nella realizzazione della sua opera salvifica. Chi volesse ergersi a salvatore per propria volontà, usurpando un diritto esclusivo di Dio, sarebbe reo di empietà e di superbia inaudite. 4) In questo ambito della gratuità, dobbiamo collocare il Natale. Non è, questo avvenimento, nè la sua memoria liturgica, qualcosa che ci sia dovuto ogni anno. Come nella sua stessa origine, continua ad essere oggi assolutamente gratuito. " un mistero, e quest’ultimo è sempre dono, grazia, pura liberalità divina.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Il Natale, un dono. Nella nostra mentalità "cristiana", diamo per scontato che il giorno 25 dicembre sia Natale. Questa festa fa parte del calendario civile, e segna, con le sue tradizioni popolari nei diversi paesi "cristiani", dei giorni di carica speciale di tenerezza e di gioioso ambiente familiare e casalingo. In molti paesi è tradizione scambiarsi regali, e aprire il cuore ai più bisognosi con un sorriso o con un aiuto in denaro o in beni materiali. Tutto ciò è buono e bello, e può essere ispirato dallo stesso avvenimento del Natale, ma è opera dell’uomo, è risultato della storia o esigenza delle circostanze presenti. Tutto ciò circonda il mistero, ma non vi entra. Per poter entrare nel mistero del Natale, abbiamo bisogno dell’intervento di Dio. Allora il Natale sarà soprattutto una realtà interiore, una profonda trasformazione, un impegno esigente. Il periodo di avvento è tempo di preparazione per accogliere il dono, per aprire la porta dell’anima al potere di Dio sulla mia vita. Come mi sto preparando, come mi posso preparare meglio per ricevere questo gratuito e stupendo dono di Dio?

Maria, figura dell’avvento. La vita di Maria, prima della prima Natività, può essere considerata come il primo e più vero "avvento". Maria si preparò per accogliere il dono di Dio in un clima di preghiera, essendo, come era, una fervorosa figlia di Israele. Si preparò vivendo la vita semplice di una fanciulla e adolescente ebrea, compiendo alla perfezione i suoi doveri religiosi e familiari. Si preparò con la lettura e la meditazione della Scrittura e delle grandi meraviglie di Dio in Essa narrate. Si preparò con la docilità allo Spirito Santo, che aveva riempito la sua anima fin dalla stessa concezione, rendendola una donna "piena di grazia". E tu, come ti stai preparando? O non hai nemmeno pensato che ci si debba preparare all’avvenimento più cruciale della storia umana? Come parroco e pastore di anime, che cosa stai facendo per aiutare i fedeli ad aprire il cuore all’irruzione misteriosa e gratuita di Dio nella loro vita personale e nella vita dei loro fratelli? L’avvento di Maria può ispirarci nel nostro avvento dell’anno 1999.

 

 

 

 

Messa della NOTTE di NATALE 24 dicembre 1999

Prima: Is 9, 1-3. 5-6; seconda: Tit 2, 11-14 Vangelo: Lc 2, 1-14

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Si ha un forte paradosso tra l’oracolo di Is 9, 1-6, in cui si parla di una luce che ha brillato,

e l’oracolo anteriore, in cui il popolo israelita "troverà soltanto angoscia ed oscurità, desolazione e tenebre, notte senza fine" (Is 8, 22-23). Lo stesso tono paradossale continua nel vangelo di san Luca: da un lato, la nascita di un bambino in una grotta, adagiato in una mangiatoia, dall’altro un angelo dice ai pastori, riferendosi a questo bambino: "Vi è nato oggi un Salvatore, che è il Messia, il Signore". E non si trova forse anche un paradosso nella seconda lettura, tra lo stare nel mondo e vivere i valori del mondo, da una parte, e, dall’altra, il non essere nel mondo e pertanto essere segnati da ciò che è il marchio cristiano?

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Il paradosso di Yaveh. Non poche volte, Dio si è mostrato nella storia di Israele in modo paradossale. Ricordiamo Abramo (senza figli, e Dio gli promette una discendenza più numerosa delle stelle del cielo e delle sabbie del mare), Giuseppe (schiavo ebreo e vicerè di Egitto), Mosè (un povero straniero davanti al faraone, per chiedergli di lasciar partire il suo popolo), ai valorosi di Gedeone (300, per sconfiggere un numeroso esercito di madianiti)...Nel secolo VIII a. C., Isaia conosce bene la devastazione portata a compimento nell’anno 734 da Tiglat Pileser III sulle terre della Galilea (paese di Zabulon e NaftalÏ) che d’ora in avanti sarà una regione semipagana odiata dai giudei. Tuttavia, proclama in nome di Dio che tale terra sarà la prima a vedere la luce della gioia, della pace e della giustizia "perchè un bimbo ci è nato, ci è stato donato un figlio" (prima lettura). Le vie di Dio non sono certamente quelle degli uomini, nè quelle degli uomini sono quelle di Dio.

Il paradosso di Gesù. Tutta la vita di Gesù è un gioco impressionante di contrasti e di controluci, e ciò si fa evidente nella sua stessa entrata nel mondo. Da una parte, Augusto, il signore dell’impero romano, dall’altra, un bambino ebreo impotente, ignorato, appena nato. Da un lato, un povero bambino nato in una grotta e adagiato in una mangiatoia, dall’altro, l’annuncio dell’angelo che questo bambino è il Salvatore, il Messia, il Signore, cioè, più grande e al di sopra dello stesso Augusto. Come Messia, quel bambino è il Salvatore del popolo di Israele che da secoli lo aspettava anelante; come Signore, è il Salvatore del mondo gentile e pagano, che aspettava, quasi senza saperlo, qualcuno che lo salvasse dalle guerre e dalla galoppante immoralità e vita disordinata in cui era immerso. Da un lato un annuncio meraviglioso, fatto niente meno che da un messaggero divino, dall’altro lato i destinatari del messaggio: alcuni ignoranti pastori, che oltretutto godevano di pessima fama tra i giudei.

Il paradosso del cristiano. Vedendo l’azione di Dio nella storia di Israele, e la vita di Gesù fin dai suoi stessi inizi, non dobbiamo forse pensare che tutta la vita cristiana sia un paradosso? " ciò che dice il testo della seconda lettura, presa dalla lettera a Tito. Da una parte, il cristiano vive nel mondo, tratta con uomini che non sono cristiani, ma che hanno dei valori, come per esempio la moderazione, la giustizia, la religiosità. Dall’altro, il cristiano è e deve vivere sempre come cristiano, che non è di questo mondo, ma che vive "conservando la beata speranza: la manifestazione gloriosa del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo". I valori, che condivide con gli altri uomini, li dive "cristianizzare", in modo che attraverso di essi esprima la sua fede, la sua speranza e la sua carità. In quanto uomo, deve assumere i valori umani, ma in quanto cristiano deve rivestire questi valori di un aspetto proprio, quello cristiano.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Un Natale uguale e diverso. Come tanti milioni di uomini, il giorni 24 e 25 dicembre non andrai a lavorare, mangerai allegramente un’anatra ripiena o qualche altro piatto tipico insieme con i tuoi cari, ascolterai e forse canterai canzoni popolari natalizie, godrai con i tuoi dell’albero di Natale in un angolo del salone, e perfino di un piccolo "presepio" con belle figure di porcellana...Ma se sei cristiano, tutto ciò devi farlo con senso cristiano, come espressioni tradizionali e storiche, e allo stesso tempo attuali, della fede nel mistero che la Chiesa celebra fin da duemila anni: la presenza salvatrice di Dio nella carne di un bambino appena nato. Tu, parroco, devi ricordare questo ai tuoi fedeli. Tu, padre o madre di famiglia, devi parlare di questo ai tuoi bambini, nella forma i cui essi lo possano comprendere. Tu, cristiano, chiunque tu sia, devi vivere questi giorni natalizi in gran parte come gli altri uomini, ma allo stesso tempo con spirito diverso. In tutti si deve notare che siamo e viviamo come cristiani.

Pace e gioia. Non so se qualche giorno si raggiungerà la globalizzazione della pace, ma la verità è che nel nostro anno 1999 non si è ancora raggiunta, essendoci, come ci sono, tanti focolai di orrore e di morte. " il duro contrasto tra il messaggio dell’angelo per la nascita di Gesù, e la realtà con cui l’uomo si scontra ogni giorno. La Chiesa non si stanca di insegnarci che la globalizzazione della pace è il risultato di uomini pacifici, costruttori di pace. Vivi in pace con Dio e con la tua coscienza? Vivi in pace con i tuoi familiari, vicini, compagni di lavoro, parrocchiani? Dalla pace interiore nasce la gioia, quella gioia che nulla e nessuno ci può strappare, anche se il tuo cuore stia sanguinando o se i tuoi occhi siano pieni di lacrime. " la gioia del credente, che sa di avere in Gesù il Salvatore del mondo e il Signore della storia.

 

 

 

 

Solennità della nascita del FIGLIO 25 dicembre 1999

Prima: Is 52, 7-10; seconda: Eb 1, 1-6 Vangelo: Gv 1, 1-18

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Le letture del giorno di Natale si incentrano tutte sul "mistero". Si tratta innanzitutto di un mistero nascosto nell’eternità di Dio (vangelo), preannunciato e prefigurato nel corso dei secoli per mezzo dei profeti (prima e seconda lettura), rivelato nella "carne" del Verbo (vangelo), testimoniato da Giovanni e da tutti coloro che accettarono Gesù, quando venne in questo mondo (vangelo).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Mistero nascosto e rivelato. "Al principio già esisteva il Verbo. Il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio" (Gv 1,1). Nell’ambito misterioso dell’eterno abitava il Verbo, insieme al Padre e allo Spirito. Un Verbo pronunciato dal Padre una volta per sempre. Un Verbo senza parole, unico, definitivo, completo. Il Padre, ricco di misericordia, volle che la sua Parola cominciasse a risuonare nella storia e nella vita degli uomini, "molte volte e in diversi modi per mezzo dei profeti" (Eb 1,1), "messaggeri che annunciano la pace, che portano la buona novella e proclamano la salvezza" e "sentinelle che vedono coi propri occhi che il Signore torna a Sion" (prima lettura). In questo modo, risuonando su labbra profetiche, l’unica Parola si fece molteplice, la Parola completa venne ad es¢sere parziale e limitata, la Parola definitiva si fece provvisoria. Grande mistero della Parola, mistero che culminerà nell’assunzione della carne nel seno di Maria Santissima! Che abisso di mistero ci rivela questo avvenimento imprevedibile, ineffabile, infinitamente gratuito, benchè atteso ed ardentemente desiderato dall’umanità intera!

Mistero testimoniato e che chiede risposta. "Giovanni ne diede testimonianza" (Gv 1,15). "La luce risplende nelle tenebre e le tenebre non la soffocarono" (Gv 1,5), la ricevettero (cf Gv 1, 12). " la testimonianza di coloro che hanno visto e udito. Che cosa? O meglio, chi? Hanno "visto" e "udito" la Parola nella carne e sulle labbra di Gesù di Nazareth. Lo Spirito ha fatto loro "vedere" e "udire" la Buona Novella, il Vangelo tratto dal cielo e che conduce al cielo. Quale Vangelo? Gesù è la luce che con la sua venuta al mondo illumina ogni uomo; Gesù è la vita per mezzo della quale nasciamo da Dio e giungiamo ad essere figli di Dio; Gesù è la grazia e la verità, che stando nel seno del Padre ci può rivelare e spiegare il mistero del Padre (Vangelo). Gesù è lo splendore della gloria del Padre e l’immagine perfetta del suo essere (seconda lettura), cioè, pienamente uguale al Padre nel suo essere, nel suo potere e nel suo amore.

Questo Gesù, che ci giunge mediante la testimonianza di Giovanni il Battista, degli apostoli e dei primi crisani, interpella ogni uomo perchè accetti il suo mistero personale e sia suo testimone tra gli altri. Di fronte al mistero di Gesù, ci sono coloro che lo rifiutano e coloro che lo accettano, coloro che si pongono al suo servizio e coloro che si disinteressano di Lui. Il Natale è una magnifica occasione perchè l’uomo esamini il suo atteggiamento davanti a Gesù Bambino: Accoglienza e testimonianza, o rifiuto e indifferenza?

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Messaggeri e sentinelle. Fin dagli inizi della storia della salvezza ci sono stati messaggeri e sentinelle di Dio per annunciarne il disegno e proteggere gli uomini, specialmente il popolo di Israele e la Chiesa, come nuovo Israele, dai loro nemici. Messaggeri per annunciare e proclamare le meraviglie di Dio nei confronti degli uomini, nei confronti del suo popolo. Pensiamo che la meraviglia più straordinaria di tutta la storia la stiamo proprio celebrando: la nascita del Figlio di Dio da una Madre Vergine. Sentinelle per spiare l’orizzonte della storia, prevedere i movimenti culturali, religiosi, ideologici, politici e sociali che riguarderanno la vita degli uomini e dei cristiani. Riflettiamo sul fatto che Gesù Cristo è "la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana" (CCC 450), e, di conseguenza, delle culture, religioni, ideologie, della politica e della società. Ogni cristiano è chiamato ad essere messaggero e sentinella: messaggero che proclama con la sua vita e la sua parola la conversione e la salvezza in Gesù Cristo; sentinella che avverte l’uomo delle cose buone che apportano i movimenti storici, e che lo previene e lo difende dai pericoli che quegli stessi racchiudono in sè. Tu, parroco, sei messaggero e sentinella per i tuoi fedeli? Tu, padre o madre di famiglia, sei messaggero o sentinella per i tuoi figli? Tu, catechista, sei messaggero o sentinella per quei bambini, giovani o adulti, ai quali impartisci, nel nome e da parte della Chiesa, la catechesi?

Qui-ora-adesso. Il mistero nascosto, rivelato e testimoniato, si celebra e si attualizza "qui". Cioè, nel luogo in cui un sacerdote e una comunità cristiana si riuniscono per celebrare il Natale. Qui vuol dire Roma, Amsterdam, Tokio o Buenos Aires. Qui vuol dire nella tua parrocchia, nella tua comunità religiosa, nel movimento o gruppo ecclesiale al quale appartieni. Il mistero, inoltre, si celebra e si attualizza "oggi": questo Natale del 1999, in cui ha luogo l’inaugurazione dell’anno giubilare per il 2000∞ anniversario dell’Incarnazione del Verbo; questo Natale, in cui non sono cessate le guerre, in cui qualche bambino morirà o semplicemente non parteciperà al banchetto della vita, in cui uomini e donne uniranno le loro mani in preghiera o le loro vite nell’azione per pregare e lavorare per la pace, per sradicare dall’umanità i mali che la affliggono. Il mistero infine si celebra e si attualizza "adesso": in questo momento della tua vita, della tua esperienza religiosa, della tua maturità umana e cristiana, della tua situazione familiare e professionale. In questo momento della vita degli uomini, per incidere in essa, se lo accolgono con tutta la forza di Dio, che ci giunge velata nella carne di un Bambino. Il "qui-ora-adesso" del Natale non è certamente un sonnifero della coscienza; piuttosto vuol essere una sveglia e uno stimolo per la nostra vita cristiana..

 

 

 

Prima Domenica di Natale la Sacra Famiglia 26 dicembre 1999

Prima : Gen 15, 1.6; 21, 1-3; seconda: Eb 11, 1.11-12. 17-19 Vangelo: Lc 2, 22-40

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Tema centrale di questa domenica sembra essere la fede. La prima lettura tratta della fede di Abramo, una fede indistruttibile, provata. Questa stessa fede è oggetto della seconda lettura, in cui l’autore della lettera agli Ebrei ci fa una vera apologia dei grandi uomini di fede nella storia della salvezza. Infine, il vangelo mette in risalto la fede della Vergine Maria, quando ascolta le parole che Simeone rivolge al suo bambino: "Gloria di Israele e luce delle nazioni", allo stesso modo che quelle dirette a lei stessa: "Una spada ti trapasserà l’anima".

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Fede nel Dio della promessa, della prova e del compimento. "Per la fede Abramo partÏ verso una terra che andava a ricevere in possesso, e partÏ senza sapere dove andava...Per la fede ricevette forza per fondare un lignaggio, perchè si fidò di ciò che gli era stato premesso" (Eb 11, 8.11). Dio promette ad Abramo terra e discendenza, e Abramo, fiducioso in Dio, non dubita un istante nel lasciare la sua patria e nello sperare ciò che era umanamente impossibile (prima lettura). Maria e Giuseppe contemplano Simeone che ha tra le mani il loro figlioletto e dice di lui cose meravigliose e sorprendenti. Ma Maria è donna di fede, è la madre dei credenti, e non ammette il benchè minimo dubbio sul destino e sulla missione grandiosa di suo figlio, in quel momento una creatura piccola e bisognosa di tutto: gloria di Israele e luce delle nazioni. Si vede chiaramente, tanto nel caso di Israele come in quello di Maria, che "nulla è impossibile a Dio" e che "tutto è possibile per colui che ha fede". Le promesse di Dio non sono terminate con la famiglia di Abramo e Sara o con quella di Maria e di Giuseppe. Le promesse di Dio continuano: la grande promessa della salvezza, la promessa di cieli nuovi e una terra nuova, dove regni la giustizia...La famiglia dei credenti ha fede in queste promesse di Dio? CosÏ come Dio compÏ la promessa fatta ad Abramo e a Maria, poichè credettero, compirà la sua promessa agli uomini che vogliono entrare nello spazio della fede.

Per la fede Abramo, messo alla prova, fu disposto a sacrificare Isacco" (Eb 11,17). Dio non risparmia a nessun credente le prove della fede, esse fanno parte della stessa "logica" divina. Una fede non messa alla prova, sarebbe forse fede? Venne messo alla prova Abramo, il padre dei credenti; vennero messi alla prova i patriarchi, e Mosè e Davide, e i profeti...E venne messa alla prova, giungendo la pienezza dei tempi, la Vergine Maria. "Sarà segno di contraddizione, e a te stessa una spada trapasserà il cuore" (Lc 2, 34-35). Dio mette alla prova la nostra fede, non come "tentatore", ma come educatore e padre che vuole temprare e perfezionare il nostro abbandono totale alla fede. Di fonte alle prove della fede, l’atteggiamento dell’uomo deve essere quello stesso di Abramo e di Maria.

La famiglia della fede. CosÏ come ogni famiglia di sangue può mostrare il suo albero genealogico, esiste anche la famiglia della fede, con il suo albero genealogico e con la sua storia concreta. Forse noi non potremo determinare - documenti alla mano - questo albero nè questa storia, ma ciò esiste, è un dato incancellabile, per quanto ignoto ci sia. La lettera agli Ebrei fa sfilare lungo il capitolo 11 grandi figure di questo albero genealogico della storia di Israele. Ogni Chiesa cristiana ha anche il suo albero genealogico, ricordiamo per esempio le prime: Gerusalemme, Antiochia, Galazia, Corinto, Roma. Ogni nazione e ogni chiesa particolare (diocesi) al giorni d’oggi si gloria anche del suo "padre nella fede". La festa della Sacra Famiglia fa riferimento in primo luogo ad ogni famiglia di sangue, ma include inoltre quest’altra famiglia della fede, poichè Maria, la credente, è Madre della Chiesa, e Giuseppe ne è il patrono speciale.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

I padri nella fede. I padri di sangue danno la vita, ma questo non basta; per essere veramente padri cristiani, essi debbono dare anche la fede. La prima scuola della fede, fin dagli inizi del cristianesimo, è stata la famiglia, e dovrà continuare ad esserlo. Una famiglia in cui i genitori non sono "praticanti", come potrà essere scuola di fede? Una famiglia in cui i genitori si disinteressano dell’educazione religiosa dei loro figli, che cosa può aspettarsi dai suoi figli quando cresceranno? Una famiglia in cui i genitori credono, ma in cui non c’è coerenza tra la vita e la fede, quale modello di fede sta offrendo ai suoi figli? Per i genitori cristiani, il trasmettere la fede non è qualcosa di facoltativo, nè qualcosa che possano delegare ai maestri di scuola o ai catechisti della parrocchia, nè qualcosa che manchi di interesse di fronte allo studio di altre materie più importanti. Per i genitori cristiani, trasmettere la fede è inerente al fatto stesso di trasmettere la vita. Se tutti i padri cristiani trasmettessero ai loro figli, con la parola e con l’esempio, la fede della Chiesa, in questo mondo cambierebbe qualcosa ...

La Chiesa è famiglia. Noi uomini possiamo formarci immagini diverse della Chiesa, che ne sottolineano aspetti reali e conseguenze storiche: la Chiesa-istituzione, la Chiesa-potere, la Chiesa-carisma, la Chiesa-società perfetta, la Chiesa-popolo... In questo giorno dedicato alla Sacra Famiglia vale la pena sottolineare che la Chiesa è famiglia: famiglia di Dio tra gli uomini, famiglia di fratelli che si amano e si aiutano a vicenda nella loro fede e nella loro vita cristiana, famiglia ferita nella sua unità, ma che la cerca sinceramente e ardentemente, famiglia che ha una stessa fede, uno stesso battesimo, uno stesso Dio e Padre, uno stesso Signore e uno stesso Spirito. Se come Chiesa siamo famiglia, viviamo tutti, con i nostri comportamenti, atteggiamenti, pensieri e parole, lo spirito di famiglia. Fissiamoci di più, sia nel dialogo tra le chiese sia nel dialogo ecumenico, su tutto ciò che ci unisce e su ciò che ci differenzia e ci separa.

 

 

 

La Maternità divina di MARIA 1° gennaio dell’anno 2000

Prima: Num 6, 22-27; seconda: Gal 4, 4-7 Vangelo: Lc 2, 16-21

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

La donna è il centro di attenzione della liturgia. Particolarmente la donna come madre, e questa donna e questa madre è Maria. San Paolo nella sua lettera ai Galati dice di Gesù Cristo: "nato da donna, nato sotto la legge" (seconda lettura), per indicarci che, come uomo, Dio necessariamente ha dovuto avere una madre. La benedizione liturgica della prima lettura sembra essere stata scritta rivolta a Maria madre: "Il Signore ti benedica e ti protegga; il Signore faccia risplendere su di te il suo volto e ti conceda il suo favore; il Signore ti mostri il suo volto e ti dia pace". Il volto del Signore è Gesù di Nazareth, il figlio di Maria. Il vangelo ci permette di intuirlo quando con impressionante semplicità ci dice, riferendosi ai pastori: "Partirono in fretta e trovarono Maria, Giuseppe e il bambino coricato nella mangiatoia".

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Donna e Madre di Dio. "Nato da donna" è Gesù. Donna, con tutta la sua femminilità, è Maria, la nuova Eva, origine e specchio di ogni donna redenta. Essendo Gesù il Verbo di Dio, risulta ovvio che Maria sia Madre di Dio, la gloria suprema della donna. Dio, nella sua immensa sapienza, ha voluto vivere l’esperienza di avere una madre, di specchiarsi nella tenerezza dei suoi occhi, di farsi cullare nelle sue braccia e di essere stretto al suo petto. Per essere Madre di Dio Maria non dovette rinunciare o lasciare al margine nulla della sua femminilità, al contrario, la dovette realizzare in nobiltà e pienezza, santificata come fu dall’azione dello Spirito Santo. Nascendo da una donna Dio ha innalzato e portato a perfezione "il genio femminile", e la dignità della donna e della madre. La Chiesa, celebrando il primo gennaio la maternità divina di Maria, riconosce gioiosa che Maria è anche madre sua, che durante i giorni e i mesi dell’anno genera nuovi figli per Dio.

Madre, benedizione e memoria. Nel disegno di Dio, che è fonte della maternità, quest’ultima è sempre una benedizione: come a Maria, si può dire a ogni madre: "Benedetto il frutto del tuo seno". Una benedizione innanzitutto per la stessa donna, che mediante la generazione dà compimento all’aspirazione più forte e più nobile della sua costituzione, della sua psicologia e della sua intimità. Benedizione per il matrimonio, in cui il figlio favorisce l’unità, il dono di sè, la felicità. Benedizione per la Chiesa, che vede accrescere il numero dei suoi figli e della famiglia di Dio. Benedizione per la società, che si vedrà arricchita con l’apporto di nuovi cittadini al servizio del bene comune.

La maternità è anche memoria. "Maria faceva ‘memoria’ di tutte queste cose nel suo cuore" (vangelo). Memoria non tanto di se stessa, quanto del figlio, soprattutto dei primi anni della sua vita, in cui dipendeva totalmente da lei. Memoria che ringrazia Dio per il dono inestimabile del figlio. Memoria che riflette e medita sulle mille e varie peripezie dell’esistenza dei suoi figli. Memoria che fa soffrire e piangere, che consola, che rallegra ed intenerisce. Memoria serena e luminosa, che recupera legami significativi del passato per benedire Dio e cantare, come Maria, un ‘magnificat’.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

La madre, "sole della casa". Il papa Pio XII, in un famoso discorso, ha applicato questa espressione alla madre. Come il sole, la madre apporta "calore" al focolare col suo affetto e la sua dolcezza; come il sole, la madre illumina gli "angoli oscuri" della vita casalinga quotidiana; come il sole, la madre incoraggia, suscita, regola e ordina l’attività dei membri della famiglia; come il sole, all’imbrunire, la madre si nasconde perchè comincino a brillare nella vita dei figli altre luci, altre stelle. La Vergine Maria fu il "sole" della casa di Nazareth per suo figlio Gesù e per il suo sposo Giuseppe. In lei ogni sposa ed ogni madre trova un modello da imitare, una via da seguire. Come può essere oggi, una sposa e una madre, sole della casa? Quali sono le espressioni di affetto e di dolcezza per "riscaldare" il focolare? Come illuminare gli "angoli oscuri" dello sposo, dei figli, e delle altre persone care che vivono nella stessa casa? Che forme di tatto e di misura dovrà usare, per orientare l’attività della famiglia verso l’unione, il benessere, la pace, la felicità,? In che modo dovrà "nascondersi", per non rendere opache nuove luci che possono apparire all’orizzonte dei suoi figli? Sarebbe una disgrazia per la famiglia e per la società il fatto che la madre, invece di essere il sole della casa, venisse ad essere notte e tenebra, tormenta e uragano. Madre! Sii sempre luce del focolare, alza il tuo sguardo verso Maria, la Madre, e segui i suoi passi.

Dar valore alla maternità. Nel modo attuale la maternità passa per uno stadio di ambivalenza. Da una parte, il fenomeno della diminuzione della natalità nel mondo, specialmente in Europa e Occidente, è reale ed evidente, cosÏ come si è quasi perduto il carattere "sacro" della maternità per la sua collaborazione all’opera del Creatore, e il rispetto delle leggi divine sulle forze e i limiti procreativi dell’uomo e della donna; dall’altra, la donna desidera soddisfare a ogni costo la sua vocazione intima alla maternità, o vuole avere meno figli per potersi dedicare di più e meglio al suo compito di madre educatrice, o adotta con amore e decisione figli "anonimi" o "orfani", a costo perfino di molti sacrifici. Di fronte a questa ambivalenza, appena delineata e che pertanto comprende molti altri aspetti, è necessaria una campagna perchè tanto la donna come la società in generale valutino di più la maternità. Che cosa si può fare nel tuo ambiente, per raggiungere questa valutazione? In che cosa possono le leggi, i mezzi di comunicazione, le istituzioni statali ed ecclesiali contribuire a dar valore alla vocazione originale e primaria di ogni donna?

 

 

 

Seconda Domenica di NATALE 2 gennaio 2000

Prima: Sir 24, 1-4. 8-12; seconda: Ef 1, 3-6. 15-18 Vangelo: Gv 1, 1-18

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Gesù, il Verbo fatto carne e che ha posto la sua casa tra di noi (vangelo), è la sapienza di Dio tra gli uomini. Una sapienza che esiste fin dal principio, che pose la sua tenda in Giacobbe e che in Gerusalemme ha stabilito il suo potere (prima lettura). Una sapienza che, non essendo umana, noi dobbiamo chiedere allo Spirito perchè Egli ci faccia comprendere e conoscere qual è la speranza alla quale siamo stati chiamati, e la gloria concessa in eredità al suo popolo (seconda lettura). Una sapienza che gode di potere creatore e dalla cui pienezza abbiamo ricevuto grazia su grazia (vangelo).

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Il Gesù del Vangelo. Il prologo che leggiamo in questa domenica, sintetizza i grandi tratti del mistero di Gesù Cristo, avendo come sfondo un parallelismo con la sienza personificata, della quale parla il siracide, che ne fa l’elogio, e che evidentemente Cristo supera. Gesù è un "uomo eterno", con un principio senza principio presso Dio (Gv 1, 1-2); la sapienza da parte sua dice di sè: "Prima dei secoli, fin dal principio, mi creò, e mai cesserò di esistere" (Sir 24,9). Gesù è con il Padre il creatore di tutto, e senza di lui nulla è stato fatto di quanto giunse all’esistenza (Gv 1,3). La sapienza a sua volta dice che "quando Dio stabiliva i cieli, lÏ ero io...quando gettava le fondamenta della terra, io ero al suo fianco, come confidente" (Prov 8, 27-30). Gesù è la vita e la via per giungere ad essa, e la verità che le dà sostanza e peso (Gv 1,4; 14,6). La sapienza a sua volta dice di sè che "chi mi trova, trova la vita, ed ottiene il favore del Signore" (Prov 8, 35). Gesù è la vera luce che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) e il saggio "farà brillare l’istruzione che ha ricevuto, e suo orgoglio sarà la legge dell’alleanza del Signore" (Sir 39,8). Gesù Cristo è la pienezza di tutto (Gv 1,16), e "i pensieri della sapienza sono più ampi del mare, i suoi disegni più profondi del grande abisso" (Sir 24,29).

Questo è il Gesù che la Chiesa predica e fa presente in mezzo al tempo e alla storia dei popoli. La Chiesa lo fa presente, non per luci proprie o a causa di potenti strumenti umani, ma Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, illumina gli occhi del suo cuore perchè lo conosca (Ef 1,18), in modo che in tale conoscenza collaborino l’intelligenza e l’amore. In questo senso ogni cristiano è un "illuminato". Ma non dalla scienza degli uomini, bensÏ dalla scienza di Dio. Qui risiede la vera sapienza della Chiesa, che ha in Dio la sua origine, la sua via e il suo destino.

La risposta dell’uomo a Gesù. La Bibbia non tralascia di dire chiaramente che chi non accetta la sapienza di Dio è uno stolto (cf Sal 14 e 53). La "stoltezza" è il risultato di chi non accoglie la sapienza di Dio, e, pertanto, non riceve Gesù Cristo nel suo cuore e nella sua vita. Al contrario, chi accoglie Gesù Cristo, perfino nello scandalo della croce, possiede la sapienza divina, salvezza, santificazione e redenzione (cf 1Cor 1, 18-31). In tutto ciò esiste il paradosso che Dio svela la sapienza agli umili e ai semplici, allo stesso modo in cui distrugge la sapienza dei saggi e fa fallire l’intelligenza degli intelligenti (cf Is 29,14). L’uomo è obbligato a dare una risposta al mistero di Gesù. Sarà, questa risposta, di accoglienza o di rifiuto? Sarà di stoltezza o di sapienza?

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

La sapienza cristiana. Il mondo è pieno di scienza, ma in buona parte sprovvisto di sapienza. Con la scienza, l’uomo apprende a maneggiare le cose, con la sapienza apprende ad essere signore di se stesso e ad orientare la sua vita per le vie di Dio. La scienza dà alla luce il progresso e lo sviluppo in tutti gli ambiti dell’esistenza umana e dello stesso universo, la sapienza dà alla luce la prudenza ed ogni virtù, dà alla luce la santità. La scienza rende la vita più gradevole e facile, più dinamica e intensa, la sapienza rende la vita più armoniosa e più felice. Con la scienza l’uomo sta superando costantemente se stesso, con la sapienza l’uomo giunge fino a Dio e acquisisce la "mente" di Dio. La scienza è un prodotto meraviglioso dell’uomo, la sapienza è uno dono stupendo di Dio...Non che si debba contrapporre la scienza umana e la sapienza cristiana. Entrambe possono essere possesso dell’uomo e nobilitarlo nel potere e nella dignità. Come la ragione e la fede, la scienza e la sapienza sono due ali con cui l’uomo vola nel suo pellegrinaggio verso Dio.

La Chiesa della Parola. La Chiesa è opera della parola di Dio, suo prolungamento nel tempo. La Chiesa non appartiene a se stessa, appartiene alla Parola. Per questo, il suo primo compito è prendere coscienza di sè, della sua origine e della sua missione tra gli uomini; una presa di coscienza non soltanto della gerarchia, ma di tutti i fedeli cristiani. Per questo, deve predicare la Parola senza cessare, in tutti gli angoli del pianeta; predicarla con autorità, come scelta da Dio per questa missione, e con umiltà, come colei che è al servizio dei misteri di Dio. Per questo, deve predicarla con competenza, affinchè la Parola sia conosciuta ed accettata; deve predicarla con integrità, per non mutilare la Parola di Dio. Per questo, non deve predicare se stessa ma la Parola, il Verbo di Dio fatto carne. Sacerdote, com’è la tua predicazione? Perchè la parola della Chiesa, la parola di ciascuno dei suoi figli, sia efficace nel mondo e nell’ambiente particolare di ognuno, quest’ultima deve giungere ad essere Chiesa della Parola.

 

 

 

 

Solennità dell’ EPIFANIA 6 gennaio 2000

Prima: Is 60, 1-6; seconda: Ef 3, 2-3.5 Vangelo: Mt 2, 1-12

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

La luce di Cristo brilla in modo singolare nei testi dell’Epifania. Il terzo Isaia canta, sotto il simbolo della luce, il trionfo e la centralità di Gerusalemme nel concerto delle nazioni (prima lettura). La luce di Gerusalemme è profezia, guarda verso una persona che sarà la luce delle nazioni e la gloria di Israele (Cf Lc 2, 32). Il vangelo ci narra la storia di alcuni "magi" che giunsero a Gerusalemme perchè avevano visto in oriente la stella del re dei giudei e venivano ad adorarlo (vangelo). E san Paolo nella lettera agli efesini afferma che il mistero di Cristo è stato rivelato per mezzo dello Spirito ai suoi santi apostoli e profeti (seconda lettura); mistero di Cristo che consiste nell’essere luce e gloria dell’umanità.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Cristo, luce universale. " una verità della nostra fede che "uno è morto per tutti" e "che nessuno più di lui può salvarci" (At 4,12). Questo mistero di salvezza della morte di Cristo (della sua vita e della sua resurrezione) illumina con splendore l’umanità nella sua totalità, senza esclusione alcuna. Dice magnificamente il catechismo: "La venuta dei magi a Gerusalemme per ‘rendere omaggio al re dei giudei’ (Mt 2,2) mostra che essi cercano in Israele la luce messianica della stella di Davide (cf Num 24, 17; Ap 22,16), colui che sarà il re delle nazioni (cf Num 24, 17-19)" (CCC 528). I Padri del Concilio Vaticano II diedero inizio alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa con queste parole: "Cristo è la luce dei popoli. Per questo, questo sacrosanto Sinodo... desidera ardentemente illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo, che risplende sul volto della Chiesa, annunciando il vangelo a tutte le creature" (LG 1). Questa verità fa parte del patrimonio perenne della Chiesa e dà fondamento alla ragione stessa del suo essere nel mondo.

Cristo, mistero di Dio. L’universalità salvifica di Cristo non consiste negli annali della storia umana, nè è deducibile mediante studi storiografici profondi, nè risulta dallo sforzo di penetrazione di una mente straordinaria e senza eguali. San Paolo, che dovette confrontarsi in prima persona con questa realtà e poi difenderla a spada tratta di fronte agli avversari, restò convinto intimamente - e cosÏ lo lasciò scritto - che c’è di mezzo "un mistero che consiste nel fatto che tutti i popoli condividono la stessa eredità, sono membri di uno stesso corpo e partecipano della stessa promessa fatta da Cristo Gesù attraverso il vangelo""(Ef 3, 6). Un mistero di Dio, che pertanto soltanto Dio può rivelare, nel modo previsto dalla sua provvidenza. Ai magi il mistero venne rivelato per mezzo di una stella; a Paolo mediante la visione e l’esperienza di Cristo sulla via per Damasco.

Questo Bambino è Luce universale avvolta nel mistero di Dio, senso e pienezza dell’umana esistenza (cosÏ fu per i magi, cosÏ fu per Paolo, cosÏ deve essere per ogni uomo): non si può non adorarlo ed offrirgli i nostri regali, come fecero i magi; non si può non consacrargli la nostra vita, come fece Paolo di Tarso. Sottomissione e offerta, obbedienza alla volontà divina e donazione sono le coordinate di ogni cristiano che accoglie con amore e con gioia il mistero di Cristo.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Cristiano, adora il tuo Dio. Esiste nell’uomo una tendenza innata ad "adorare", cioè, a sottomettersi sommessamente a qualcuno o a qualcosa che dà ragione del suo esistere. Nella Bibbia, specialmente nell’Antico Testamento, si menzionano con frequenza gli idoli e si previene contro di essi, "Non ti farai idoli...non ti prostrerai davanti a loro nè darai loro culto" (Dt 5,8-9). "Hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno bocca e non parlano.... sono come deità che non possono salvare". Tali idoli possono essere realtà materiali, che col loro potere abbagliano la strada dell’uomo ed attraggono il suo cuore, idoli realmente numerosi e potenti; possono essere anche persone che, con la loro grazia e incanto, insidiano ed alienano i pensieri e il cuore degli uomini; possiamo essere noi stessi, facendo del nostro io un soggetto adorante ed adorarlo in un narcisismo immaturo ed accecante. Di fronte agli idoli, il cristiano ode la voce della Chiesa e della coscienza che gli dice: "Adora il tuo Dio", l’unico Dio vero, il Dio vivo e fonte di vita. Soltanto Lui merita adorazione, obbedienza, dono di sè. Soltanto Lui ti rispetta senza schiavizzarti, soltanto Lui ti libera da qualsiasi idolo dentro o fuori di te. Come insegna il catechismo: "L’adorazione dell’unico Dio libera l’uomo dal ripiegamento su se stesso, dalla schiavitù del peccato e dall’idolatria del mondo" (CCC 1097).

Cristo e le religioni non cristiane. I magi dell’oriente non vennero a Betlemme a convertirsi alla religione cristiana, ma ad adorare il re dei giudei. Nulla sappiamo storicamente di loro, dopo questo incontro con il Bambino Gesù. Il fatto è che simboleggiano le grandi religioni dell’oriente che adorano Gesù Cristo, riconoscendo in lui una persona importante capace di far girare l’asse della storia, ma non necessariamente il Figlio di Dio. La figura dei magi non ha cessato di prolungarsi nei venti secoli del cristianesimo, ed oggi include tutti i non cristiani che cercano, nel chiaroscuro delle loro credenze religiose, l’unico Dio vero e il suo inviato, Gesù Cristo. L’atteggiamento di dialogo (dialogo dottrinale, ma anche etico e spirituale) con i non cristiani risponde al disegno di Dio, ed è sempre più urgente non soltanto in Oriente ma anche in Occidente, data l’intensa emigrazione e il fenomeno della mobilità umana. Questo dialogo sarà fruttuoso se il cristiano è fermamente attestato nella sua fede, e cerca con sincerità di scoprire nelle religioni non cristiane i "semi del Verbo".

Battesimo del SIGNORE 9 gennaio 2000

Prima: Is 55, 1-11; seconda: 1Gv 5, 1-9 Vangelo: Mc 1, 7-11

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Nel battesimo di Gesù, come in ogni battesimo, l’acqua occupa il posto centrale (vangelo). Nel banchetto di alleanza tra Dio e gli uomini, immaginato da Isaia, non può mancare l’acqua, accanto ad altre bevande (prima lettura). San Giovanni nella sua prima lettera ci dice che "Gesù Cristo venne con acqua e sangue" e che "tre sono quelli che rendono testimonianza di Gesù Cristo: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi" (seconda lettura). Nel vangelo, dopo che Gesù, battezzato da Giovanni, uscÏ dall’acqua, si aprirono i cieli, e lo Spirito Santo discese su di lui in forma di colomba. L’acqua è la realtà più presente in tutti i testi, l’acqua con tutta la sua ricchezza simbolica e con gli altri elementi che l’accompagnano e la completano.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

L’uomo, assetato di Dio. L’uomo è un essere naturalmente assetato: assetato di gioia e di felicità, assetato di giustizia e di pace, assetato di eternità, assetato di Dio. "Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perchè l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare l’uomo a sè e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa" (CCC 27). Questa sete di Dio nessuno la può spegnere, se non Dio stesso. per questo Dio, attraverso Isaia, invita ed esorta gli uomini: "Venite all’acqua o voi tutti assetati...prestate attenzione, venite e me; ascoltatemi e vivrete" (prima lettura).

L’acqua e Gesù. L’acqua che spegne la sete dell’uomo è l’acqua del battesimo. Gesù, prototipo di ogni essere umano, volle immergersi in quelle acque di purificazione, non perchè fosse peccatore, ma per essersi fatto carico del peccato del mondo. Nelle acque del Giordano, in quelle in cui Gesù si immerse, l’umanità intera si immerse in lui e con lui, e resterà purificata dal proprio peccato. Gesù Cristo, il Santo di Dio, santificò inoltre le acque del Giordano, e cosÏ la sete di santità che ogni uomo prova comincia ad essere soddisfatta con l’acqua del battesimo e cerca di essere spenta con l’acqua dello Spirito, attraverso un’esistenza spirituale, cioè, guidata e promossa dallo Spirito di Dio.

 

L’acqua e il sangue. Basta l’acqua per spegnere la sete? Nell’esistenza cristiana si aggiunge il sangue, quel sangue che, insieme con l’acqua, sgorgò dal costato di Cristo (Gv 19, 34). Dal costato di Cristo, trafitto da una lancia, emanarono, ci diranno i Padri della Chiesa, due sacramenti: il battesimo e l’eucarestia. Essi formano, insieme con la Cresima, i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Adesso non soltanto l’uomo ha sete di Dio, ma ha sete del Dio, rivelato in Gesù Cristo, "immagine perfetta del suo essere" (Eb 1,3). "Bevetene tutti (dal calice), questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per tutti per il perdono dei peccati" (Mt 26,28).

 

L’acqua, il sangue e lo Spirito. "I tre sono concordi" (seconda lettura). In che consiste questo accordo? Nel rivelare l’amore di Dio, che ci si è reso visibile in Cristo Gesù. In effetti, l’acqua (battesimo di Gesù) e il sangue (crocifissione di Gesù) manifestano che l’umanità di Gesù è una umanità come la nostra, contro ogni idealizzazione platonica ed ogni manipolazione gnostica. Lo Spirito, da parte sua, che viene dal cielo, rivela che Gesù, interamente uomo, è il Figlio in cui Dio si è compiaciuto. In che cosa consiste questo accordo? Consiste altresÏ nel fatto che lo Spirito è colui che dà efficacia all’acqua per purificare dal peccato e al sangue per saziare la sete di redenzione. "Il Mistero di salvezza si fa presente nella Chiesa per il potere dello Spirito Santo" (CCC 1111), e "la missione dello Spirito Santo è far presente e attualizzare l’opera salvifica di Cristo col suo potere trasformatore" (CCC 1112).

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

La spiritualità battesimale. Tramite il battesimo, il cristiano si è rivestito di Cristo, immagine e prototipo dell’uomo nuovo, creato ad immagine di Dio, ed ha davanti a sè il compito di farlo crescere fino alla piena maturità interiore. La vera novità comprende ogni uomo, ma ha radici specialmente nel cuore, un cuore nuovo capace di conoscere, amare e servire Dio con Spirito filiale, e di amare gli uomini e le cose di Dio. Questo è il compito insostituibile, fondamentale e permanente di ogni vita cristiana in qualsiasi stato, in qualsiasi epoca e in qualsiasi situazione.

A partire da questo nuovo modo≈ di essere, vissuto coscientemente per azione dello Spirito Santo, l’uomo nuovo imprime alla sia vita un dinamismo interiore orientato a sviluppare i tratti della sua condotta religiosa e morale, in conformità col suo modello Gesù Cristo, e mediante la purificazione incessante delle sue passioni disordinate di sensualità e superbia.

La costruzione, giorno dopo giorno, di questo uomo nuovo, costituisce l’obiettivo primordiale della vita cristiana e dell’apostolato nella Chiesa. Ne consegue che è necessario meditare assiduamente sulla ricchezza e la profondità del dono del battesimo e sull’impegno che porta con sè, una meditazione sia individuale che comunitaria. Perchè "tutto l’organismo della vita soprannaturale del cristiano ha la sua radice nel santo battesimo", dato che quest’ultimo lo rende capace di credere in Dio, di sperare in Lui e di amarlo mediante le virtù teologali; gli concede di poter vivere ed operare sotto l’impulso dello Spirito Santo; gli permette di crescere nel bene mediante le virtù morali (CCC 1266). Abbiamo, noi cristiani sufficiente coscienza della spiritualità battesimale? Che cosa posso fare io per sviluppare questa spiritualità in me stesso e nei miei fratelli.

 

 

 

Seconda Domenica del TEMPO ORDINARIO 16 gennaio dell’anno 2000

Prima: 1Sam 3,3-10.19; seconda: 1Cor 6,13-15.17-20 Vangelo: Gv 1, 35-42

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

La chiamata o vocazione occupa il centro delle letture di questa domenica, con la quale inizia il tempo ordinario. Una chiamata alla sequela, cioè, a rimanere con Gesù Cristo, come i discepoli del vangelo. Una chiamata alla quale si deve dare una risposta generosa, come fece Samuele: "Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta" (prima lettura). Una chiamata che implica una "spoliazione", un non appartenere a se stessi, ma a Dio e al suo Spirito; ne consegue, la chiara coscienza e l’esigenza di una vita pura, lontano dalla lussuria e da tutto ciò che contravvenga all’appartenenza al Signore (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

LA CHIAMATA. All’origine del concetto cristiano della vita c’è la realtà di una chiamata. Dio che chiama all’esistenza, alla fede cristiana, alla vita laicale, consacrata o sacerdotale, all’incontro felice con Lui nell’eternità. Questa chiamata implica già in sé la coscienza del fatto che l’uomo non è assolutamente autonomo. Dipende da Qualcuno che pronuncia il suo nome, lo chiama. All’origine stessa dell’esistenza si trova il richiamo di Dio, e lo stesso sviluppo della vita non sarà se non lo sviluppo delle chiamate divine. In questo contesto generale della chiamata, si situa la vocazione sacerdotale, quella chiamata che Dio dirige ad alcuni uomini per stare con Lui e per stabilire dei ponti tra Lui e gli altri uomini. Ogni uomo, ogni sacerdote, è un "chiamato", e nella corretta risposta alla chiamata si giuoca la sua identità, la sua realizzazione personale, e la sua felicità temporale ed eterna.

UN LUOGO E UN MODO DI CHIAMARE. Ogni vocazione alla vita sacerdotale, – vale lo stesso per la vita consacrata – è irripetibile nel tempo, nello spazio e nel modo. E, inoltre, non siamo noi uomini a determinare queste circostanze, ma lo stesso Dio che chiama. Dio può chiamare a 12, 15, 18, 23 o 34 anni, senza che noi uomini abbiamo alcun diritto di ribattere: Perché mi hai chiamato tanto presto? Perché mi hai chiamato tanto tardi? Il luogo e il momento, è sempre Dio che lo sceglie. A scuola, a casa, in una discoteca, in una chiesa. E che cosa dire sul modo tanto vario con il quale Dio chiama gli uomini al ministero sacerdotale? E sul processo così originale, mediante il quale Dio manifesta la sua volontà e porta l’uomo verso una risposta?

 

ALCUNI ASPETTI DELLA CHIAMATA. Il primo passo della chiamata è la ricerca che Dio stesso semina nel cuore dell’uomo. L’inquietudine, che racchiude in sé la ricerca, sorge spontanea nell’uomo, ma è Dio che ve l’ha posta, come passo previo della vocazione. Così la chiamata divina appare, agli occhi dell’uomo, come lo sbocco della sua inquietudine e della sua ricerca. Ai due discepoli che andavano dietro di lui, presso la riva del Giordano, Gesù Cristo domanda: Che cercate? Non avrebbero cercato, se Dio non avesse immesso in loro il desiderio di cercare, ma la ricerca stessa è qualcosa di personale, intrasferibile; è già una prima risposta.

Chi in qualche modo "cerca", Dio non lo chiama, almeno in modo ordinario, per via diretta, ma attraverso delle mediazioni umane: Elì fu il mediatore tra Dio e Samuele, Gesù lo fu tra Dio e i primi discepoli. Per il cristiano, la Chiesa, che è il "luogo" della salvezza, è anche il luogo della mediazione; è in essa e attraverso di essa che Dio continua a chiamare gli uomini. Una chiamata al sacerdozio al margine della Chiesa è inconcepibile. In ogni caso, si dovrà dire che non è una chiamata divina.

La vocazione sacerdotale è una chiamata alla spoliazione, all’espropriazione di se stessi per giungere ad essere proprietà esclusiva di Dio. Qui si radica il motivo fondamentale del celibato sacerdotale, e il diritto della Chiesa a chiederlo. Ma la vocazione è privazione che racchiude in sé rivestimento, espropriazione che implica appropriazione, spoliazione che conduce al possesso. In questo processo l’uomo non si "aliena", non subisce un’alienazione della sua personalità. Al contrario, raggiunge il massimo grado di identità e di autorealizzazione rispondendo in piena coscienza e libertà alla voce divina.

RISPOSTA ALLA CHIAMATA. Quando qualcuno chiama un’altra persona, quest’ultima deve dare necessariamente una risposta. Questa può essere positiva, negativa, neutra o indifferente. Ciò che l’uomo non può fare è lasciare la chiamata senza risposta. Quando Gesù disse ai due discepoli: "Venite e vedrete", questi, che cosa fecero? "Andarono con lui, videro dove viveva e passarono quel giorno con lui". E quando Samuele viene a sapere che è Dio che lo chiama, non dubita nel rispondere: "Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta". L’uomo è libero per dare l’una o l’altra risposta, ma è obbligato a dare una risposta, data la sua intrinseca condizione di chiamato.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

RISPOSTE AUDACI. Nel nostro mondo, nel nostro ambiente Dio continua a chiamare al sacerdozio e alla vita consacrata, come ha fatto durante tutta la storia della salvezza. Tuttavia, si constata una discesa molto notevole nel numero di risposte affermative, e, di conseguenza, nel numero di vocazioni sacerdotali, anche se nell’ultimo decennio la flessione discendente si è fermata e sembra cominciare di nuovo un movimento ascendente nel numero di vocazioni. Sebbene ci siano fattori culturali e storici che hanno potuto influire, – e sono da tutti conosciuti – non penso che noi cristiani siamo esenti da una certa responsabilità in tutta questa faccenda. Forse non abbiamo fatto abbastanza – o abbiamo fatto perfino poco – per promuovere, rinnovare e ravvivare la nostra fede, dopo il grande avvenimento ecclesiale che è stato il Concilio Vaticano II. Forse abbiamo pensato che le vocazioni sono una questione di cui si devono interessare "i preti", e, se siamo preti, gli incaricati della pastorale vocazionale. L’ambiente in cui crescono i giovani al giorno d’oggi richiede risposte audaci e contro corrente. La comunità parrocchiale e diocesana deve sostenerli ed appoggiarli in tali risposte. È in gioco il futuro della comunità credente e della stessa Chiesa. Con l’aiuto di tutti, l’audacia della risposta sarà più solida, convincente e numerosa.

A CHE COSA CHIAMA IL SIGNORE? Innanzitutto, chiama ad appartenergli e a stare con Lui. Il chiamato al sacerdozio deve essere convinto che la sua vocazione è una relazione particolare con Dio e con Nostro Signore Gesù Cristo. Senza una spiritualità consistente e ben formata, il chiamato cederà facilmente ai richiami del mondo e sarà travolto, come un castello di carte. Dio, dunque, chiama innanzitutto ad essere radicali ed esclusivi nell’amore verso di Lui, per Lui, e, partendo da Lui, ad aprire l’anima e il cuore a tutti gli uomini. Il sacerdote serve l’uomo, proponendogli la salvezza di Dio. Qui sta la sua proposta specifica. Tutto il resto è in funzione di essa. Non è accaduto in questi ultimi decenni, in non pochi casi, che il sacerdote si sia dedicato di più al servizio sociale che non al ministero della salvezza? Ecco un tema di riflessione per tutti i sacerdoti. Se la Chiesa è la comunità di coloro che aspettano la venuta del Signore, non è vero che ha dimenticato facilmente, nella predicazione, nell’istruzione catechetica, nel consiglio e nell’accompagnamento spirituale la grande realtà delle verità ultime dell’uomo? Ecco un importante compito da realizzare all’inizio del terzo millennio dell’era cristiana.

 

 

 

 

Terza Domenica del TEMPO ORDINARIO 23 gennaio dell’anno 2000

Prima: Gio 3,1-5.10; seconda: 1Cor 7, 29-31 Vangelo: Mc 1, 14-20

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Convertirsi, ecco la parola chiave di questa domenica. I niniviti, prima della predicazione minacciosa di Giona, fanno penitenza e si convertono. Gesù, secondo il vangelo di Marco, comincia la sua predicazione in Galilea invitando alla conversione: "Convertitevi e credete al Vangelo". Nella seconda lettura ci vengono segnalate le conseguenze della vera conversione, poiché il vero convertito vive con la coscienza che l’apparenza di questo mondo passa.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

DIO VUOLE LA CONVERSIONE. Dato che Dio ama l’uomo e desidera che quest’ultimo sia felice, vuole che si converta e viva. Convertirsi significa lasciare la via sbagliata di una felicità apparente e indirizzare i passi verso il cammino del bene, della verità e della pienezza. Questo è quanto fecero i niniviti quando Giona predicò nella loro città la distruzione a causa della loro cattiva condotta. Questo è quanto fecero allo stesso modo Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni quando Gesù li chiamò alla sua sequela: lasciando la via in cui si trovavano, seguirono la via di Gesù. Nella vita della Chiesa, il battesimo è il luogo della conversione prima e fondamentale; ma la chiamata di Cristo alla conversione, sotto la spinta della grazia, continua a risuonare nella vita dei cristiani, come compito ininterrotto di penitenza e di rinnovamento (cf. CIC 1427-1428).

CONVERSIONE, FEDE, SEQUELA. La conversione è allo stesso tempo una chiamata e una risposta. Dio ci chiama a convertirci, e l’uomo risponde con la conversione, grazie al dono della fede. In base alla fede in Dio, l’uomo si converte e vive l’esperienza nuova di essere orientato direttamente verso di Lui. La fede che precede la conversione, l’accompagna anche, e la segue per dare frutti di conversione nella condotta e nella vita quotidiane. Una conversione senza l’accompagnamento della fede non sarebbe altro che un mero e momentaneo sentimento, un "fervorino" suscitato da un’esperienza forte. Si ridurrebbe, cioè, a qualcosa di superficiale e privo di futuro. Tuttavia, quando la conversione si fonda sulla fede e ne è accompagnata, allora la cosa più naturale è che culmini con la sequela: calpestare le stesse orme di Cristo nel cammino della vita. Ai tempi di Gesù, erano i discepoli a scegliere il rabbino o maestro; Gesù fa il contrario: è lui che dice ai suoi eletti: segui i miei passi, cammina dietro le mie orme, così sarai mio vero discepolo.

PERCHÈ CONVERTIRSI? San Paolo nella seconda lettura ce lo dice: "Il tempo finisce… l’apparenza di questo mondo sta per terminare". In altri termini, convertirsi implica un doppio motivo: innanzitutto, la coscienza che questo mondo non è eterno, è invece effimero e passeggero; e in secondo luogo, la convinzione di fede che soltanto Dio ha vinto il tempo, non passa, vive nel regno dell’eterno. La fugacità della vita umana e l’eternità di Dio, Padre ricco di amore e di misericordia, sono due verità complementari con cui si deve motivare ogni vera conversione. Se ci fossero altri motivi, si dovrà pensare che sono spuri, e pertanto non degni di considerazione.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

È NECESSARIO CONVERTIRSI? Nel mondo e nella mentalità attuali, ci sono molti che sono lontani da Dio, che adottano comportamenti immorali nell’ambito familiare o professionale, sono estranei alla vita della comunità parrocchiale o ecclesiale, … e ciononostante credono di condurre una vita buona, pensano di non aver colpa, di non far male a nessuno, e, di conseguenza, di non avere necessità di conversione. Da che cosa dovrà convertirsi, quando l’uomo crede di stare sulla buona via? Questo è il vero dramma del nostro tempo. La lussuria non è un peccato, è semplicemente un’evasione; il drogarsi è in alcuni casi una necessità, in altri si presenta, per alcuni guiovani, come un’esigenza. Il mormorare o calunniare il prossimo è un convenzionalismo sociale o una richiesta a proprio guadagno. L’infedeltà matrimoniale si riduce a una "scappatella" sia nella realtà sia nei sogni… Quelli che pensano ed agiscono così, non vedono alcuna necessità di convertirsi, perché il loro comportamento è "normale" ed è accettato socialmente. Che cos’è ciò che è successo nella Chiesa, tra i cristiani, perché molti nostri fratelli nella fede pensino ed agiscano in questo modo? Vale la pena che esaminiamo a fondo questo punto, perché non accada che perfino i sacerdoti siano convinti che la conversione non li riguarda, né che non ne abbiano alcuna necessità.

LA FEDE OPERA LA CONVERSIONE. La fede è la risposta dell’uomo alla rivelazione che Dio ci fa della sua verità e del nostro bene. Essendo verità di Dio, non nostra, ha l’impronta dell’obiettività, e pertanto deve misurare il nostro comportamento. Questa verità di Dio per il nostro bene la troviamo nella dottrina dogmatica e morale della Chiesa. Riconoscere questo è indispensabile per aprire l’anima alla conversione, mentre non riconoscerlo è chiudere la porta ad ogni possibilità di convertirsi. Crediamo, noi cristiani, in tutti gli insegnamenti che la Chiesa propone alla nostra intelligenza e alla nostra fede? Sono le verità di fede e di morale, insegnate dalla Chiesa, i parametri con cui misuriamo la nostra condotta? I sacerdoti, predicano la conversione come realtà che nasce dalla fede, che è lavoro permanente, che ha una regola obiettiva? Anno dopo anno, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio, Gesù Cristo continua ad invitare alla conversione. Sarà ascoltato nel terzo millennio che stiamo appena cominciando? Seguire Cristo oggi non può equivalere ad un certificato di buona condotta, a qualcosa ben visto nell’ambiente sociale in cui si vive, a una moda passeggera e stravagante. L’autentica sequela di Cristo non può farsi senza una vera conversione, opera di una fede obiettiva, intensa e profonda.

 

 

 

 

Quarta Domenica del TEMPO ORDINARIO 30 gennaio dell’anno 2000

Prima: Deut 18, 15-20; seconda: 1Cor 7, 32-35 Vangelo: Mc 1, 21-28

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Insegnare", "insegnamento" sono parole frequenti nei testi del Nuovo Testamento. Appaiono anche varie volte nella liturgia di questa quarta domenica ordinaria. Gesù è presentato da san Marco come il maestro "che insegna con autorità", "un insegnamento nuovo" (Vangelo). Non è un insegnamento qualsiasi, ma quello di un profeta allo stile di Mosè, prototipo del profetismo nella mente degli israeliti, maestro e forgiatore del suo popolo (prima lettura). San Paolo, come profeta del Nuovo Testamento, impartisce ai corinzi il suo insegnamento sul matrimonio e il celibato, due stati e due cammini per vivere la dedizione e il dono di sé all’apostolato nella Comunità ecclesiale (seconda lettura). Questo insegnamento profetico, nuovo e dato con autorità, si rivolge all’uomo perché lo accolga e sia ricettore attivo della sua efficacia.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

GESÙ, IL MAESTRO. L’uomo, nascendo, non è un essere già formato; possiede soltanto la capacità di essere educato. Necessita, pertanto, di maestri. Nella storia dell’umanità sono esistiti diversi ambiti in cui il bambino e il giovane ricevono l’insegnamento dagli adulti: la famiglia, la scuola o l’università, la sinagoga o la chiesa, l’agorà o il foro, l’accademia o il club di dibattiti, il giornale o la televisione. Tutti gli insegnamenti che si ricevono sono – o almeno possono essere – utili ed arricchenti nell’opera dell’educazione di una persona. Gesù non è un concorrente di tali insegnamenti, ma un Maestro che col suo insegnamento infonde un’anima a tutti gli altri. Poiché il suo insegnamento incide nella storia, ma guarda altresì al mondo del futuro, al di là della storia. Gesù non si presenta nemmeno, né appare nei vangeli come un competitore dei maestri religiosi del popolo giudaico – e potremmo aggiungere dei popoli pagani – ma come il Maestro che porta a pienezza tutto l’insegnamento religioso del passato e soprattutto gode del potere di Dio per renderlo efficace nella vita degli uomini e al servizio del loro bene integrale. Ecco come Gesù, di fronte all’insegnamento degli scribi, povero di forza divina e fatto di formule cristallizzate nella tradizione degli antenati, si mostra nel vangelo con il Maestro per eccellenza, che possiede autorità propria in virtù del potere di Dio che agisce in lui, e che fa pensare gli uditori ad un insegnamento nuovo, cioè, definitivo, perché in esso si fondono parola e azione, significato ed efficacia.

PREFIGURAZIONE E PROLUNGAMENTO DELLA PAROLA. Già nella tradizione giudaica il profeta della prima lettura era interpretato come prefigurazione del Messia, che sarebbe dovuto apparire davanti ai suoi contemporanei come un altro Mosè, cioè come un profeta e maestro legislatore e forgiatore del nuovo popolo. Non è difficile immaginare che Gesù stesso – e con lui i primi cristiani – si sarebbero appropriati di questa prefigurazione, essendo Gesù il Messia atteso ed essendo la comunità cristiana il nuovo popolo forgiato dall’insegnamento e dall’azione di Gesù Cristo tra gli uomini. Essendo Gesù il profeta per eccellenza, egli è la pietra di paragone del vero o falso profetismo, come è allo stesso modo il punto di riferimento e il giudice di qualsiasi altra forma di profetismo extra-biblico (ai tempi del deutoronomista, il profetismo cananeo del dio Baal).

Paolo, da parte sua, (vale lo stesso per qualsiasi altro "maestro" delle comunità cristiane) non è un profeta o un maestro autonomo, ma il suo insegnamento fa riferimento a Cristo Maestro, o è un insegnamento illuminato dalla presenza di Cristo glorioso sulle labbra o nella penna di Paolo, sotto l’azione viva e vivificante dello Spirito Santo. Paolo insegna con autorità, ma non con la propria, bensì con la stessa autorità di Cristo presente in lui per il potere dello Spirito. Paolo insegna che ci sono due stati di vita: matrimonio e verginità, entrambi dono di Dio, entrambi chiamati alla dedizione e al dono di sé nell’apostolato. Però allo stesso tempo insegna che il celibe si trova in condizioni di vivere più radicalmente questa dedizione e dono di sé apostolici rispetto a colui che vive nell’impegno matrimoniale.

ALLA SCUOLA DELLA PAROLA. Ogni parola o insegnamento è come una chiamata che attende risposta. L’insegnamento, pertanto ha per sua stessa natura una struttura dialogica. Si può accettare, rifiutare o discutere l’insegnamento, ma è obbligatorio dialogare con esso. Quando si tratta dell’insegnamento evangelico e cristiano, non c’è altra risposta che l’accoglienza. Un’accoglienza che è innanzitutto accettazione dell’insegnamento ricevuto, perché è "insegnamento di Dio". Un’accoglienza che porta una carica non piccola di stupore, perché si tratta di insegnamenti nuovi, che non si ascoltano da "altri maestri" che quotidianamente si incontrano. Un’accoglienza che comporta forse qualcosa del timore reverenziale, perché in definitiva si tratta di accogliere il "mistero" di Dio nella nostra vita tanto impregnata di materia e di pensieri terreni. Un’accoglienza che, tuttavia, porta il sigillo della vittoria sulle cose importanti (il senso della vita e della morte, la realtà dell’aldilà, l’amore verso Dio e il prossimo come essenza dell’esistenza). Una accoglienza, infine, che non può tacere, ma che conduce alla diffusione dell’insegnamento appreso, perché "non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e udito".

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

UNA PAROLA VIVA. Nel grande mercato della parola, oggi esistente e spossante, non è facile trovare una parola viva e vivificante. Quante parole, quanti "insegnamenti" giungono oggi all’orecchio dell’uomo, del cristiano? Milioni! Tra tutti questi milioni di parole, dov’è la parola che dia vita e alimenti l’anima in questo giorno? Il maestro cristiano (sacerdote, padre di famiglia catechista…), attualizzando l’insegnamento di Gesù Cristo, deve dire parole vive, parole con forza di eternità, che non passino, ma che perdurino e diano senso, e servano da crogiolo a tutti i milioni di altre parole ascoltate. Di fronte a questa realtà tanto stupenda, uno sente la tentazione di chiedersi perché a volte le lezioni di religione e le omelie domenicali siano tanto noiose. Che cosa stiamo facendo della Parola Viva? Perché, se è viva, non riesce a vivificare il cuore del predicatore cristiano o dell’uditore? Qualcosa sta succedendo, che fa della Parola viva ed efficace una parola forse sterile e morta, o per lo meno senza grinta ed impulso vitale e trasformatore. Preghiamo tutti perché i maestri della Parola portino sempre sulle loro labbra e nel loro cuore la Parola di Vita.

ATTEGGIAMENTO DAVANTI AL MAESTRO. Quando la parola del maestro non è viva né vivificante, non possiamo aspettarci altro atteggiamento se non la noia e il rifiuto. Ciò è così evidente quasi come un assioma. Ma, perché, perfino quando la parola è piena di vita ed infonde vita, non è ascoltata né accolta? Già allora Gesù dovette affrontare questo rifiuto della sua Parola, perché gli uomini trovavano "duri" i suoi insegnamenti. E Paolo, non dovette forse far fronte a tanti che non mostravano interesse per il suo vangelo o semplicemente lo rifiutavano? Non ci deve meravigliare che la Parola Viva sia come uno spartiacque che divide gli uomini tra coloro che la accolgono e coloro che la rifiutano. La Parola Viva si ascolta nella libertà e per fare uomini liberi, ma ci sono coloro che scelgono di esercitare il proprio libero arbitrio rifiutando la fonte della libertà. La Parola Viva è come un seme che cade nella terra buona, ma questa terra è dura, non ha profondità, è piena di erbacce. Chiediamo a Dio che con la sua grazia ripulisca e coltivi il suo campo, in modo che gli uomini – i nostri fedeli, i nostri alunni, i nostri figli – accettino la Parola Viva, affinché essa dia nel loro cuore e nelle loro opere frutti abbondanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quinta Domenica del TEMPO ORDINARIO 6 febbraio dell’anno 2000

Prima: Gb 7, 1-4.6-7; seconda: 1Cor 9,16-19.22-23 Vangelo: Mc 1,29-39

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

 

Sofferenza, malattia, debolezza sono parole che appaiono nelle letture della liturgia odierna. Insieme ad esse se ne trovano anche altre, a mo’ di risposta: guarigione, predicazione, servizio. Il Vangelo presenta una giornata tipica del ministero apostolico di Gesù: predica, guarisce, si ritira a pregare, parte alla volta di altri luoghi per predicare e scacciare i demoni. Giobbe nella prima lettura si lamenta: "notti di sofferenza mi sono state assegnate… La mia vita è un soffio e i miei occhi non torneranno a vedere la gioia". Infine, Paolo si fa debole con i deboli per guadagnare i deboli, si fa schiavo di tutti per guadagnare tutti quelli che può (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

LA SOFFERENZA UMANA. Quando Giobbe dice che la vita dell’uomo è come un servizio militare, non fissa l’attenzione sugli aspetti eroici o gloriosi della milizia quanto su ciò che essa implica di lotta, dolore, sofferenza e difficoltà. Lo si voglia o no, all’origine, centro e termine dell’esistenza umana è presente il dolore. C’è il dolore dalla fatica quotidiana nel lavoro, e gli incubi che incalzano gli uomini dalla notte all’alba. C’è la realtà della malattia con tutte le sue varie forme, e l’angoscia del morire, del dover morire, sentendo ansie di eternità. C’è la sofferenza fisica col suo volto fiero e perturbatore, e c’è la sofferenza dell’anima, che ti scava dentro e ti va sprofondando in un abisso senza fondo. C’è la rinuncia obbligata in ragione di scelte superiori e belle, ma che per il fatto stesso di esser rinuncia non cessa di far male; e c’è la rinuncia volontaria per il bene degli altri, che porta con sé anche il suo carico di sofferenza. C’è soprattutto il dolore del peccato, questo dolore, la cui impronta resta nell’anima, perfino quando il peccato è già stato perdonato. Immenso dolore, quello dell’umanità! Infinito nonsenso della vita ed orribile assurdità! Coscienza che il dolore e la sofferenza dureranno quanto il tempo, per quanto progrediscano la medicina e la tecnologia biomedica.

IL MISTERO DEL DOLORE. Il dolore è una realtà alla porta di casa, e nell’intimo stesso dell’uomo. Il dolore è anche un mistero. Cioè, è qualcosa che l’uomo non riesce a comprendere, per quanto possieda una capacità straordinaria di intelligenza, qualcosa di incomprensibile per tutti. Qualcosa, inoltre, che, sfuggendoti di mano, non puoi dominare né maneggiare secondo la tua volontà, ma che ti si impone e ti soggioga. Né Giobbe, né la suocera di Pietro, né gli "indemoniati" di cui parla il vangelo avrebbero voluto soffrire o essere malati, erano piuttosto soggetti passivi di una forza superiore che gli si imponeva contro il loro volere. Mistero, anche, perché ci rimanda a qualcosa o a Qualcuno di superiore e al di sopra e al di là di noi, che entra nella nostra vita, e sul quale dobbiamo contare. Mistero, infine, perché richiede una "iniziazione" da parte di un esperto, non per comprenderlo, ma per integrarlo nella propria vita e riuscire a dargli un significato. Per noi, cristiani, l’esperto in dolore è nostro Signore Gesù Cristo. Soltanto lui può iniziarci alla scienza del dolore. Soltanto lui può predicarci con autorità il vangelo o la buona novella della sofferenza.

LA PROPOSTA CRISTIANA. Nei testi liturgici ci sono indizi di una proposta cristiana di fronte alla realtà del dolore e al mistero della sofferenza. Innanzitutto, come ci insegna Giobbe, dobbiamo adottare una posizione, non di rassegnazione, ma di ricerca di senso. Molto più importante del cercare calmanti per la sofferenza, è il cercare significato. Una ricerca che dura per la vita intera, perché il dolore ci accompagna fino alla tomba. In secondo luogo, noi cristiani dobbiamo cercare di alleviare il dolore. Il trovare senso al dolore non è un alibi per non fare nulla per alleggerire o alleviare la sofferenza degli uomini. Essendo la sofferenza un male, strettamente allacciato con il peccato, dobbiamo combatterla con decisione ed efficacia. Gesù non incrociò le braccia davanti a tanti malati, indemoniati, e a gente attanagliata da qualsiasi dolore. L’atteggiamento di servizio di fronte alla sofferenza, allo stile di Paolo che si faceva servo di tutti, è un imperativo squisitamente cristiano. L’insegnamento sul senso del dolore, e la testimonianza autentica di fronte alla propria sofferenza, alla luce del mistero di Cristo, costituisce una vetta nella proposta cristiana.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

IL VOLTO "BELLO" DELLA SOFFERENZA. Può essere "bello" il dolore? È il dolore realmente il male assoluto in cui non esiste una scintilla di bellezza? È possibile che si rifletta nello specchio del dolore un gesto bello? Per alcune persone, al giorno d’oggi, il dolore è più orribile della morte, per questo l’eutanasia o il suicidio risolvono il possibile dilemma. Per i medici, la cui professione è lottare contro il dolore, e per i quali quest’ultimo è il loro nemico, dev’essere difficile pensare al lato bello della sofferenza. Penso che dire ai familiari del moribondo o del malato terminale, o di chi ha subito un sopruso disumano, che il dolore ha anche un volto bello, risulta forse insolente o almeno uno sproposito. Ciononostante, la sofferenza ha una certa "bellezza" umana e cristiana. Il dolore, fisico e morale, umanizza, rende degno l’uomo nella sua umanità, lo fa più pienamente uomo, quando si accetta e si vive con nobiltà di spirito, anche se il corpo intero si contorce e possa soffrire le convulsioni più indicibili. Dà dignità a chi soffre, e dà dignità allo stesso modo alle sue persone care, quando queste lo sopportano e lo vivono con nobile eleganza. Soprattutto, il dolore "cristianizza", cioè, ci assimila a quel grande maestro ed artista del dolore che è Gesù Cristo. Il suo dolore è bello perché abbellisce tutta l’umanità, ripulendola dalla lebbra di peccato e infondendo nel vecchio corpo di un’umanità caduta la bellezza della purezza e dell’innocenza. Una pastorale della sofferenza non può prescindere da questo volto bello del dolore. Quali sono i modi e i momenti più appropriati per predicare la buona novella, il volto bello della sofferenza? Ogni sacerdote, ogni cristiano dovrà trovarli.

AL SERVIZIO DEI MALATI. Gesù Cristo fu medico di corpi e di anime. Il sacerdote deve seguire le orme di Cristo. Per vocazione, deve essere sempre disponibile per alleviare, nelle maniere migliori, le sofferenze degli uomini. Accompagnare chi soffre, consolarlo con le parole o con la semplice presenza, condividere un’angoscia o una pena molto profonda, pregare per chi soffre, e fare orazione con lui dalla sua condizione di sofferente... .Ascoltare il peccatore nella sua angoscia interiore, dirgli parole semplici ma vere, autentiche, uscite dal cuore, incoraggiare lo scoraggiato e il depresso, infondere serenità a chi è turbato e come divorato dal dolore… Il sacerdote, come Cristo, medico amoroso e compassionevole di corpi e di anime. Medico a tempo pieno, infaticabile, che si dona con totalità a tutti, come ci si presenta Gesù Cristo nel vangelo di questa domenica. Visito gli infermi, gli anziani? Porto loro la consolazione della mia parola e soprattutto dei sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucarestia? Credo che il servizio ai malati del corpo e dello spirito sia un elemento fondamentale del mio ministero? Che cosa si può fare nella mia parrocchia, nella mia comunità religiosa, per dare un volto "bello" alla sofferenza?

 

 

 

 

Sesta Domenica del TEMPO ORDINARIO 13 febbraio dell’anno 2000

Prima: Lev 13, 1-2.45-46; seconda. 1Cor 10, 31-11,1 Vangelo: Mc 1, 40-45

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Nella società del tempo di Gesù, come nella nostra, c’era emarginazione sociale e religiosa, tale è il caso dei lebbrosi. A questa emarginazione fa riferimento la prima lettura di questa domenica. Gesù Cristo, senza rispettare le norme esistenti rispetto agli emarginati, tocca il lebbroso, lo guarisce e lo reintegra nella società e nella vita civile (Vangelo). San Paolo, seguendo le orme di Cristo, propone ai cristiani di Corinto di evitare ogni motivo di divisione e di conseguente emarginazione, avendo cura di non scandalizzare nessuno e di farsi tutto a tutti per gloria di Dio (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

L’EMARGINAZIONE DELL’UOMO. L’emarginazione è un fenomeno sociale che è esistito nelle culture più antiche e continua ad esistere nelle più moderne ed attuali, anche se i motivi di detta emarginazione possono variare: la razza, la nazionalità, il ceto sociale, la religione, il livello culturale, la malattia. La lebbra per gli antichi, e fino a non molto tempo fa, come mette in evidenza l’isola di Molokai, era un tabù, quasi come può essere per molti oggi l’AIDS. Le società umane si difendono da tali tabù (le malattie contagiose) mediante l’isolamento del malato e una serie di misure che lo escludono dalla società. Le misure di cui parla il libro del Levitico nella prima lettura, misure che si applicavano nella società israelita, sono: non aver accesso ai villaggi, vestire in una certa maniera, coprirsi la barba, gridare alla vista di un’altra persona: "Immondo! Immondo!". Sono segni di lutto, e realmente il lebbroso era considerato praticamente come un morto, un cadavere ambulante; la tradizione giudaica giunge ad equipararlo a un bambino nato morto, e la sua guarigione equivaleva ad una resurrezione. Se a questo si aggiunge il nesso che nel mondo giudaico esisteva tra infermità e peccato, sulle spalle del lebbroso gravava un gravissimo delitto per il quale Dio lo castigava in questo modo. Ai poveri lebbrosi era proibito, non soltanto entrare a Gerusalemme, ma perfino lo stesso avvicinarsi alle mura della città santa. L’incubo sociale e religioso della lebbra è decisivo per comprendere il dramma umano e spirituale del lebbroso di cui ci parla il Vangelo.

L’ATTEGGIAMENTO DI GESÙ DI FRONTE ALL’EMARGINAZIONE. Innanzitutto, si deve dire che Gesù non considera la malattia in astratto, ma la vede nella carne e nell’angoscia dell’essere umano che ha davanti. Non teorizza sulla lebbra a distanza. No. Ha di fronte, ai suoi piedi, un lebbroso, e nelle sue mani è il reintegrarlo nella vita sociale o il lasciarlo morire nella sua solitudine e nella sua angoscia. Il comportamento di Gesù con questo disgraziato, gettato ai suoi piedi, mette in risalto che la legge suprema del cristiano, alla quale si devono sottomettere tutte le altre leggi, è l’amore, la carità verso l’uomo bisognoso. Gesù instaura un modo nuovo di agire e di comportarsi, che rompe con l’emarginazione del lebbroso, e lo conduce al possesso di tutti i suoi diritti civili, e pertanto alla reintegrazione sociale e religiosa. In primo luogo, Gesù, vedendo il lebbroso nel suo dolore, ha compassione di lui, con più precisione "ha viscere di tenerezza" nei suoi confronti, lo tratta con l’affetto di una madre, invece di allontanarlo, di rifiutarlo e di rimproverarlo per essersi avvicinato troppo. In secondo luogo, stende la mano, come Jahvè stese la mano per liberare il popolo nel passaggio del Mar Rosso, come si narra in vari testi dell’Esodo. Stende la mano, per segnalare il suo potere divino, perché perfino nel mondo greco la divinità si definiva come "quello la cui mano allevia il dolore". Gesù stende la mano su questo lebbroso per liberarlo dalle sue catene di solitudine, di angoscia, di miseria, di emarginazione, e per mostrare la bontà e la misericordia di Dio che agisce potentemente in lui. Ancor di più, Gesù lo tocca, condividendo in questo modo la sua stessa sorte e strappando il lebbroso al suo isolamento totale. Lo tocca, e, invece di essere contaminato dal malato, infonde nella carne del malato la sua purezza, la sua salvezza. Adesso, con la sua divina autorità grida alla supplica dell’infermo: "Lo voglio, sii guarito". La compassione, l’amore materno di Gesù, la misericordia del Padre che egli incarna, pongono in movimento il suo potere efficace sulla malattia. Infine, lo invia dal sacerdote per mostrare che non vuole esser trattato come un "guaritore", e che ama e sa compiere le legge, anche se a volte dove disobbedirle in ragione di un bene superiore.

IMITATORI DI CRISTO. San Paolo invita i corinzi, e tutti noi, ad essere imitatori suoi, come egli lo è di Cristo. Imitare Cristo è porre l’amore per l’uomo al di sopra della legge, è fare della carità la legge suprema. Per Paolo non è il caso della lebbra, ma il non mangiare carne sacrificata agli dei pagani e poi venduta nel mercato, cosa che poteva esser occasione di scandalo per alcuni cristiani di Corinto, i cosiddetti "deboli". Tali deboli non possono restare emarginati dalla comunità, lasciati da una parte, ma debbono essere amati in Cristo come tutti gli altri cristiani. Oggigiorno le circostanze che causano l’isolamento o l’emarginazione sono forse differenti, l’importante è continuare ad applicare il principio dell’amore al di sopra di tutto, non per motivi puramente o esclusivamente umanitari, ma, secondo quanto detto e compiuto da Paolo, per gloria di Dio.

 

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

LOTTA ALL’EMARGINAZIONE. I campi di emarginazione oggigiorno esistenti sono molti numerosi: emarginazione delle minoranze religiose, culturali, razziali all’interno di una nazione o regione; l’isolamento e perfino l’ostilità verso gli extracomunitari, ostacolando la loro integrazione nel tessuto sociale di una città; l’emarginazione dalla vita che subiscono tante creature nello stesso seno materno, o tanti anziani dimenticati e bisognosi socialmente, o tanti malati terminali; l’emarginazione economica di tantissimi milioni di uomini sulla terra, che vivono sotto minimi di dignità umana e di sussistenza, in tutti i continenti; l’emarginazione degli zingari, dei bambini di strada in tante megalopoli, degli indigeni in tante "riserve" create dagli occidentali perché non si "estingua la specie" e senza opportunità di elevazione culturale e sociale; emarginazione di gruppi o movimenti ecclesiali entro una parrocchia o una diocesi per motivi non sempre legittimi; emarginazione dei minorati, degli incapaci, dei disabili in mezzo a una società governata dalla competitività e dal lucro… Come discepoli di Cristo e per seguire le sue orme, dobbiamo lottare con coraggio contro tutte queste e altre forme di emarginazione esistenti nella nostra società. Si tratta di un’emarginazione, un isolamento sociale, un disprezzo in non poche occasioni, che Dio non vuole, perché tutti noi uomini siamo suoi figli e tutti noi uomini siamo fratelli. Nessun condizionamento ideologico, politico, educativo, sociale dovrà impedirci di impiegarci a fondo in questa lotta, come del resto sta già facendo in molti luoghi la Chiesa, mostrandosi in questo vera pioniera della causa dell’uomo e del bene sociale di tutti.

UMANIZZARE LA SOCIETÀ DALLA FEDE. La nostra fede cristiana non ci racchiude in un ghetto, né ci separa dall’uomo peccatore, impantanato nella miseria fisica, spirituale o morale. La nostra fede, seguendo la Parola di Dio nella liturgia di questa domenica, ci porta a lasciarci avvicinare e ad avvicinarci all’uomo bisognoso, sommerso forse in una solitudine spossante. Come cristiani, dobbiamo avvicinarci a tutti per guadagnarli tutti per Dio, per dare testimonianza che esser cristiano è anche promuovere l’uomo in tutto il suo essere e la sua dignità. La nostra fede ci induce inoltre a non fare distinzione di persone al momento di soccorrere e prestare il nostro servizio di carità: nessuna distinzione a causa della religione, della lingua, del paese, della cultura…. Gesù non distingue, rispetto a quelli che si avvicinano a lui per essere aiutati, tra buoni e cattivi, ricchi e poveri, nobili e gente del popolo, capo della sinagoga, soldato o lebbroso. "Fa il bene senza guardare a chi", come dice il proverbio. Non c’è dubbio che la Chiesa, i cristiani, nonostante possibili errori e sbagli, hanno giocato – e continuano a giocare nell’attualità – il ruolo più importante, nel pensiero e nell’azione, nell’ingente compito di configurare una società più umanizzata per tutti.

 

 

 

 

 

 

Settima Domenica del TEMPO ORDINARIO 20 febbraio dell’anno 2000

Prima: Is 43,18-19.21-22.24-25; seconda: 2Cor 1,18-22 Vangelo: Mc 2, 1-12

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Il binomio peccato/perdono richiama l’attenzione nella liturgia di questa domenica. Al popolo nell’esilio babilonese e che ha "stancato" Dio con i suoi peccati, Isaia annuncia il messaggio liberatore di Dio: "Sono io, io soltanto, che per mio conto cancello le tue colpe e smetto di ricordare i tuoi peccati" (prima lettura). Gesù dice al paralitico: "I tuoi peccati ti sono perdonati" (Vangelo). Paolo, a sua volta, davanti alle accuse di ambiguità e mancanza di serietà da parte di alcuni corinzi, reagisce stabilendo chiaramente che il suo atteggiamento, come quello di Gesù Cristo, è stato un sì all’uomo, al suo bene integrale; in Gesù, effettivamente, "tutto è stato sì, poiché tutte le promesse di Dio si sono compiute in lui" (seconda lettura).

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

LA PRESENZA DEL PECCATO. Il peccato è una realtà con cui ogni uomo deve fare i conti. E non soltanto l’uomo, ma anche i gruppi umani e la società. Perché esiste, sì, il peccato personale, ma ci sono anche peccati sociali, strutture di peccato. All’uomo e alle società umane sembra costare il rinunciare al peccato, apprendere in modo definitivo la lezione della grazia e della misericordia divina. Come ci ricorda la prima lettura, noi uomini, sia come individui che come società, facilmente ci stanchiamo di Dio, e cessiamo di invocarlo e di dargli culto. Così fecero gli esiliati di Babilonia, senza imparare a proprie spese, di fronte alla disgrazia in cui vivevano, lontano dalla loro patria e dalla città santa, per la loro infedeltà. Il peccato è presente anche nella società e negli uomini contemporanei di Gesù, nella cui mentalità c’è una stretta relazione tra malattia e peccato: la paralisi e il peccato, il male fisico e il male morale, il crimine e il castigo. E le accuse di cui è oggetto Paolo da parte dei suoi fratelli nella fede – accuse senza fondamento e forse anche malevole – non sono forse un esempio evidente della realtà del peccato nella stessa comunità cristiana? Laddove esiste una comunità umana – e cristiana – si devono fare i conti con questa realtà di peccato, benché non sia l’unica né la più importante. Riconoscere questa presenza del peccato, nell’uomo e nel mondo, è già un passo notevole verso il perdono, la riconciliazione fraterna, la misericordia di Dio, Padre e Signore dell’umanità. Che lo accetti l’uomo o no, l’autoassoluzione non esiste, per quanti metodi psicologici o psicanalitici si usino per convincere l’uomo di questo.

LA PRESENZA DEL PERDONO LIBERATORE. Nostro Signore non sarebbe un Dio ricco di misericordia, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, amico degli uomini, se davanti alla presenza del peccato restasse impassibile, indifferente. Desiderando e cercando il bene dell’uomo, gli manifesta il suo amore sia con il "castigo" pedagogico, sia con il perdono. Il peccatore non merita mai, né per alcun motivo il perdono, ma il perdono è uno dei nomi dell’amore. Per questo dice Dio nella prima lettura: "Sono io, soltanto io, che per mio conto cancello le tue colpe e smetto di ricordare i tuoi peccati". I vincoli del peccato, soltanto Dio li può sciogliere; il debito del peccato, soltanto Dio lo può cancellare; la memoria del peccato, soltanto Dio la può dimenticare. Gesù Cristo non si oppone a questa affermazione fondamentale della fede israelita; piuttosto la conferma, insinuando, con il potere sulla paralisi che guarisce, che nella sua umanità Dio si fa presente tra gli uomini. In questo modo, il peccato di tutto l’uomo è perdonato in tutto l’essere umano: nel suo spirito e interiorità (perdono dei peccati) e nella sua corporeità (guarigione dalla paralisi). Il perdono, d’altra parte, non appartiene al passato, ma è sempre attuale e presente, come lo stesso Dio. Dio perdonò il peccato di Israele, liberandolo dalla schiavitù d’Egitto, facendogli passare a piedi asciutti il mar Rosso, ma adesso il perdono di Dio creerà qualcosa di nuovo: traccerà un cammino nel deserto perché il popolo possa tornare a Gerusalemme. Adesso Gesù Cristo, la Chiesa in nome di Cristo, continuano a dire sì al peccatore che si pente: "Ti sono perdonati i tuoi peccati", perché anche noi glorifichiamo Dio col nostro sì. In effetti, tramite il battesimo abbiamo ricevuto lo Spirito del sì, quel sì che per il peccato diventa un no, ma la cui forza liberatrice torna a recuperarsi attraverso il perdono.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

LIBERARE L’UOMO TOTALE. Nella storia del cristianesimo, almeno in alcuni periodi, si è insistito molto sulla liberazione spirituale dal peccato, e poco o abbastanza meno sulla liberazione dell’uomo nella sua totalità (liberazione spirituale o religiosa, politica, economica, sociale, culturale). Oggi siamo forse più sensibilizzati, almeno sul piano della mentalità comune, verso questa liberazione, che comprende tutto l’uomo ed ogni uomo, come ama dire Giovanni Paolo II. Il testo evangelico offre una buona base per la comprensione di questa liberazione integrale. Gesù Cristo perdona i peccati, ma non ferma la sua azione liberatrice soltanto qui, guarisce poi il paralitico, liberandolo anche dalla sua malattia. Questa liberazione integrale – e integratrice, dato che non slega l’una dall’altra – è opera di Dio, ma noi, cristiani, siamo stati chiamati per facilitare questa opera divina, e per "manifestarla" tra gli uomini, in quanto Dio agisce nella storia con noi e per mezzo di noi. Importante è che nemmeno noi separiamo, seguendo Gesù Cristo, nessun tipo di liberazione, col rischio di ridurre e impoverire la forza liberatrice del cristianesimo e del Vangelo. Tra i miei fratelli cristiani, con cui convivo e lavoro, la fede cristiana è una forza liberatrice? Si pensa che la fede cristiana liberi l’uomo nella sua totalità? Quali iniziative si potranno intraprendere, nel nostro ambiente e nella nostra società, per promuovere di più, come cristiani, la piena liberazione dell’uomo?

IL SACRAMENTO DELLA LIBERTÀ. Tra i sette sacramenti della Chiesa ce n’è uno che è in relazione in modo particolare con il perdono dei peccati. Nella storia, secondo diverse accentuazioni, ha ricevuto vari nomi: "la confessione", "il sacramento della penitenza", "il sacramento della riconciliazione". Mi piacerebbe sottolineare che è anche il sacramento della libertà. La grazia del sacramento non soltanto libera dal peccato, ma libera la libertà per non peccare, concede lo Spirito del sì al potere della grazia. In un momento in cui questo sacramento non finisce di uscire dalla crisi che ha subito dopo il concilio Vaticano II, sottolineare questa dimensione dello stesso può contribuire alla sua riabilitazione e ad una ricezione più frequente. Questa dimensione racchiude le altre e dà loro unità. Chi si confessa, si libera da qualcosa che pesa sulla sua coscienza di fronte a Dio e di fronte al fratello; chi si pente, riconoscendo la sua colpevolezza, fa il primo passo affinché Dio lo liberi dalla sua colpa, e affinché la sua coscienza si senta liberata; chi si riconcilia con Dio e con la Chiesa, predispone la sua libertà per un esercizio futuro veramente libero. Quale posizione hai tu di fronte al sacramento della libertà? Credi che sia qualcosa "passato di moda"? Dedichi tempo sufficiente all’amministrazione di questo sacramento? Se sei religioso o consacrato, trovi nel sacramento una strada sicura di purificazione e perfezionamento della tua libertà? Se sei laico, sei cosciente che il sacramento non coarta, ma potenzia la tua libertà, la tua capacità di essere interamente libero, nell’anima e nel corpo?

 

 

 

Ottava Domenica del TEMPO ORDINARIO 27 febbraio dell’anno 2000

Prima: Os 2,16-17b.21-22; seconda: 2Cor 3, 1b-6 Vangelo: Mc 2, 18-22

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

La novità sponsale, il panno nuovo, il vino nuovo, l’alleanza nuova. Tutta la liturgia di oggi trasuda novità. Israele si è comportato con Jahvé come sposa infedele, ma adesso Jahvé la sedurrà di nuovo, portandola nel deserto, e la sposerà per sempre (prima lettura). Nel Vangelo, Gesù si presenta come il nuovo sposo, come il nuovo panno e il nuovo vino, che richiedono dall’uomo non un semplice adattamento, ma un cambiamento radicale. Infine, nella seconda lettura, Paolo si presenta, in confronto con la figura di Mosè, come ministro della nuova alleanza, basata non sulla lettera della legge come la mosaica, ma sulla forza dello Spirito che dà la vita. Tutta questa novità è opera divina, oggetto di pura gratuità di Dio, pieno di tenerezza e di amore nei confronti del suo popolo.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

DIO È SEMPRE NUOVO. Quando ero studente ho ascoltato una frase che si è incisa molto bene dentro di me: "Dio è sempre giovane". È eterno, ma non invecchia mai. Passano i secoli e i millenni, ma Lui è sempre lo stesso, è un perenne presente. Le idee che noi uomini ci formiamo di Dio, possono giungere ad essere obsolete, ma Dio è attualità. Gli uomini possono cambiare, passare dalla fedeltà all’infedeltà, ma Dio no, Dio è sempre fedele. Questa è la grande verità che ci insegna la liturgia nelle sue tre letture. Per gli israeliti contemporanei di Osea, il Dio dell’Esodo è un Dio remoto, dimenticato o almeno senza incidenza nel presente, e vivono lontano da Lui nell’ingiustizia e nel culto al piacere e al denaro. Dio dovrebbe castigarli, ma la sua fedeltà all’amore non glielo permette. Ciò che fa è rinnovare le meraviglie dell’Esodo, la sua grande novità, ma non mediante l’alleanza di un re con un vassallo, bensì mediante l’alleanza sponsale, in cui i due innamorati intrecciano un dialogo di intimità. Una nuova alleanza sigillata nell’intimo del cuore. L’alleanza sponsale si approfondisce nel Vangelo di Gesù Cristo, che, nel mistero sublime della sua passione, morte e resurrezione, si sposa con il nuovo popolo che è la Chiesa, inaugurando così l’alleanza ultima e definitiva di Dio con l’uomo. L’animatore della nuova alleanza sponsale tra Dio e gli uomini nella carne di Cristo è lo Spirito Santo, che tutto rinnova con la sua azione.

I SIMBOLI DELLA NOVITÀ. Il primo simbolo, che si trova nella prima lettura e nel vangelo, è quello sponsale. Con le nozze si dà inizio a una relazione nuova tra un uomo e una donna, tra Dio e il suo popolo. È una novità basata su un innamoramento tale, che non può cessare di essere esclusivo e fedele. Il secondo simbolo è il vestito nuovo. Soltanto con la tela nuova si può fare un vestito nuovo. Gesù è la tela nuova, che vuole vestire l’uomo con la novità del suo messaggio e della sua salvezza definitiva e totale. Può forse la novità di Cristo ridursi ad essere un rammendo delle tradizioni, dei riti, delle istituzioni del giudaismo o delle religioni pagane esistenti nel mondo ellenistico? Il terzo simbolo è il vino nuovo. Il vino nuovo richiede otri nuovi, perché se si versa in otri vecchi questi si rompono, e si getta via tanto l’otre che il vino. Gesù è il vino nuovo, l’otre vecchio è l’uomo non rinnovato dal mistero di Cristo paziente e glorioso, l’uomo appartenente alle religioni antiche, principalmente alla religione giudaica. Il vino nuovo di Cristo reclama uomini nuovi, disposti a bere il calice del vino nuovo con gioia e con sincerità. L’ultimo simbolo impiegato dalla liturgia del giorno è l’alleanza nuova. Questa alleanza l’ha sigillata Gesù Cristo nella sua stessa persona sull’altare della croce e sopra il trono dell’esaltazione alla destra del Padre. L’alleanza è sponsale. Lo sposo è Gesù Cristo, l’uomo-Dio, e la sposa è la Chiesa, la comunità sorta dalla Pasqua. Questa nuova alleanza sarà definitiva ed eterna.

IL CONTENUTO DELLA NOVITÀ. Secondo le leggi dell’alleanza sponsale, lo sposo dona una dote alla sposa. Nella prima lettura ci viene enumerata questa dote stupenda dello sposo: la giustizia e il diritto, l’amore e la tenerezza, la fedeltà. Nel vangelo Gesù aggiunge alla dote la gioia e la coerenza. Nella seconda lettera ai corinzi ci viene indicato inoltre lo Spirito. Meravigliosa ricchezza contenuta nella novità di Dio, nella novità del cristianesimo. La giustizia che Dio fa al suo amore misericordioso concedendoci la salvezza; il diritto che Dio impianta nelle relazioni umane; l’amore paterno e la tenerezza materna di Dio verso tutti i suoi figli, per quanto siano infedeli e peccatori; la fedeltà di Dio alla sua alleanza di re potente e soprattutto di sposo amante; la gioia del banchetto nuziale al quale tutti gli uomini sono invitati; la coerenza di Gesù, affinché la bontà che egli apporta all’uomo non si mescoli con il "mondo vecchio", né si perda tra la polvere delle cose antiche. Lo Spirito, fonte di ogni sorpresa e di ogni novità, che fa nuove tutte le cose col suo soffio divino.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

HA PERSO NOVITÀ IL DIO CRISTIANO? C’è un fatto che a noi cristiani deve togliere il sonno. È il constatare che nell’attuale mercato religioso molti cristiani si volgono ad altri dei, ad altre religioni. Curiosità? Rompere con la monotonia? Sperimentare emozioni originali, fuori dal comune? Forza di attrazione dell’esoterico? Voler dominare le forze potenti ed occulte del mondo soprannaturale? Paura della propria responsabilità? Sono domande che richiedono una viva analisi da parte di tutti i cristiani. Forse il Dio dei cristiani è diventato antiquato per l’uomo di oggi? O siamo noi, i cristiani, così ottusi da non riuscire a captare la sua incessante e perenne attualità per l’uomo del nostro tempo? Si deve rivedere l’immagine di Dio che noi cristiani presentiamo nella predicazione, nella catechesi. E, soprattutto, il concetto di Dio che "riveliamo" con la testimonianza della nostra vita. Se presentiamo un dio-poliziotto, che sta aspettando l’infrazione per farti la multa, se presentiamo un dio-tappabuchi, al quale si fa ricorso in casi di estrema necessità, se presentiamo un dio puramente trascendente, estraneo alla vita e alle preoccupazioni e gioie dell’uomo, se presentiamo un dio sindacalista, senza trascendenza, immerso nel sociale; se presentiamo un dio "finanziere", che retribuisce il buono con delle ricchezze e il cattivo con la povertà… la novità del Dio cristiano resta alienata. Domandiamoci: Dove si radica la novità del Dio dei cristiani? Come far presente ed efficace tra gli uomini oggi questa novità, che non si deve mai spegnere, che non deve mai morire?

MINISTRI DELLA NOVITÀ DI DIO. Tutti noi cristiani, ma in modo speciale noi sacerdoti, siamo al servizio della novità cristiana nel mondo. Per poter servire, abbiamo bisogno di conoscere che cosa è o in che consiste tale novità. Questa assoluta novità di Dio, assente in qualsiasi altra concezione religiosa, è la persona e il mistero, la presenza e il messaggio, la vita, la morte e la resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Dio si fa fratello nostro in Gesù Cristo; Dio ci accompagna nel cammino della storia, facendosi "storia", ed accettando tutte le condizioni della storia: dello spazio e del tempo, della natura e della persona, delle realtà terrene e dei valori spirituali, della lingua e della cultura, della vita e della morte, della grazia e del peccato. Dio ama l’uomo, come il migliore degli amici, fino a dare la vita per lui. Dio sta con l’uomo nel momento culminante della morte, per aprirgli le porte verso l’eternità. Dio è l’eterno vivente, che vivifica l’uomo perituro ed effimero. Di questa novità siamo ministri noi cristiani. Essa dobbiamo servire col nostro cuore, con le nostre labbra, con la nostra intera vita. Siamo veramente apostoli di Gesù Cristo, la novità di Dio, la Parola nuova e definitiva che Dio ha pronunciato una volta per sempre per il bene dell’umanità?

 

 

Nona Domenica del TEMPO ORDINARIO 5 marzo dell’anno 2000

Prima: Deut 5, 12-15; seconda: 2Cor 4,6-11 Vangelo: Mc 2, 23-3, 6

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il termine "sabato" appare nella prima lettura e nel vangelo, ma non è il centro della liturgia di oggi. Piuttosto, si deve pensare che il centro lo occupi l’atteggiamento umano di fronte alla legge, con un riferimento esplicito alla legge del sabato. Non è in discussione il compimento o meno del sabato (tanto la prima lettura, come il vangelo sono d’accordo sul valore del sabato), ma il rendere assoluta la lettera nel suo compimento, a discapito dello spirito, quando deve essere l’opposto, poiché "il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato" (vangelo). Questo "spirito" è la luce che Gesù Cristo ha acceso nei nostri cuori per mezzo del Vangelo, una luce che portiamo in fragili recipienti di fango (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

IL VALORE DELLA LEGGE. La legge del sabato, così come appare nel Deuteronomio, e in generale tutte le leggi della Scrittura, sono buone e debbono compiersi perché sono al servizio del bene integrale dell’uomo. Essendo al servizio dell’uomo, hanno un grande valore per umanizzare l’uomo, cioè aiutarlo a realizzarsi come uomo e ad essere così degno del Dio che lo creò. La prima lettura stabilisce chiaramente il grande valore antropologico della legge del sabato: il riposo dell’uomo contrapposto alle fatiche giornaliere del lavoro, e la liberazione da ogni forza di oppressione come fu per Israele la schiavitù in Egitto. Tuttavia, ogni legge, eccezion fatta per quella naturale e divina, nella sua formulazione e nel suo contenuto materiale è sottomessa all’usura del tempo. Per questo, aggrapparsi alla lettera e alla materialità della legge può perfino giungere ad essere contrario all’intenzione del legislatore e allo spirito e al contenuto della legge. Tale è il caso che ci si presenta nel testo evangelico: i farisei, per difendere la legge del sabato, si oppongono al vero bene dell’uomo (necessità di soddisfare la fame, ristabilimento di una persona impossibilitata a lavorare). Né rigorismo, né lassismo di fronte alla legge, né intransigenza, né condiscendenza. Senza negare il valore della legge, è necessario porre al di sopra la legge del valore.

LO SPIRITO DELLA LEGGE. Gesù Cristo nel vangelo mette in risalto lo spirito sulla lettera della legge. Non la Torah, o Legge mosaica, ma le prescrizioni farisaiche a salvaguardia della legge del sabato, proibivano di strappare le spighe, sgranarle e mangiarle. Gesù avrebbe potuto rispondere che tale prescrizione non si trovava nella Legge, ma nell’interpretazione eccessivamente rigorosa della Legge da parte dei farisei. Ma Gesù, invece di entrare in polemica, preferisce rispondere con un esempio tratto dalla storia di Israele: lo stesso Davide, tanto venerato e rispettato da tutti, fece ciò che non era permesso dalla legge per soddisfare la sua fame e quella dei suoi compagni. Se lo fece Davide… Ciò che importa non è la legge, ma lo spirito che anima la legge. In certe occasioni, il realizzare lo spirito della legge potrà portare a violare la legge stessa nella sua letteralità. È ciò che fece Gesù guarendo l’uomo che aveva la mano atrofizzata. Lo guarì di sabato, e oltretutto dentro la sinagoga, luogo dove si predica e si esorta all’osservanza della legge. Lo spirito della legge del sabato, secondo il vangelo, è che al centro di ogni legge c'è l’uomo, la realizzazione della sua piena umanità.

LA LEGGE DELLO SPIRITO. Noi cristiani, mediante il battesimo, abbiamo ricevuto la legge dello Spirito, che dirige tutta l’esistenza cristiana. Questa legge dello Spirito ci insegna innanzitutto che Gesù Cristo è il Signore del sabato e di ogni legge. Lo spirito dell’Antico Testamento, di tutte le sue leggi e prescrizioni, puntava verso Cristo come norma suprema dell’operare umano, e in Cristo raggiunge il suo massimo significato nel bene dell’uomo. Per questo, Paolo – e con lui ogni cristiano – è un uomo "spirituale", che lotta, soffre, vive e muore seguendo, sotto l’azione dello Spirito, la Legge di Cristo. Paolo sa di essere debole per compiere questa legge di Cristo, ma è anche cosciente che la forza dello Spirito agisce potentemente nel suo intimo. Il cristiano è colui che compie la legge dello Spirito, con la sicurezza che lo Spirito cerca sempre il suo bene e la sua realizzazione.

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

LA LEGGE AL SERVIZIO DELL’UOMO. Ogni legge positiva, ecclesiastica o civile, ha per oggetto di aiutare l’uomo alla piena realizzazione della sua umanità in tutte le sue dimensioni, inclusa pertanto la dimensione religiosa. Una legge che non aiuti a questo fine, manca di significato, e pertanto dovrà essere cambiata con un’altra che lo consegua. Nelle società umane è necessario che ci siano leggi che incitino al bene e dissuadano dal male, sia l’individuo sia la collettività umana. Di fronte a queste riflessioni, spontaneamente ci si pone domanda: perché in molte legislazioni nazionali ci sono alcune leggi che non incitano al bene né dissuadono dal male? Se le leggi si fanno nei Parlamenti, i deputati e i senatori cristiani hanno un grande compito e una enorme responsabilità. Essi, uniti, possono contribuire a migliorare le leggi affinché tutte siano al servizio della promozione dell’uomo nella sua integrità. Anche i cittadini cristiani hanno la loro parte di responsabilità all’ora del voto. Prima di dare il voto a qualcuno, non dovrebbero forse riflettere e valutare se l’eletto sarà coerente con la sua fede, e se pertanto cercherà sempre il bene integrale di tutti i cittadini?

IL GIORNO DEL SIGNORE. Il sabato è al servizio dell’uomo, e lo stesso vale per noi cristiani rispetto alla domenica. Pertanto, più che insistere e insistere sul dovere della domenica, sul "precetto" domenicale, dovremo mettere in rilievo la salvaguardia dei valori che la domenica rappresenta. Al di sopra di tutto, il valore supremo della redenzione dell’uomo per opera della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, che nella domenica si commemora e si attualizza. Poi, la dignità della persona umana, senza distinzione alcuna, poiché la celebrazione della domenica è valida per tutti, indipendentemente dalla loro condizione economica o dal loro strato sociale. Dignità che la domenica protegge e promuove con il riposo dal lavoro, la possibilità di una maggiore convivenza familiare, con la dedizione ad altre dimensioni dell’esistenza umana: cultura, sport, amicizia, hobbies, eccetera. Infine, la domenica, come il sabato per i giudei o il venerdì per i musulmani, ci porta a pensare che Dio, non l’uomo, è il Signore del tempo, e che il nostro tempo è breve e dobbiamo farlo rendere a profitto dell’uomo. Attualmente, in vari paesi d’Europa si permette che i negozi, e i grandi magazzini siano aperti durante la domenica. Mi chiedo se il criterio che ha diretto questo permesso legale sia stato il vero bene dell’uomo, o siano state semplicemente considerazioni economiche e di lucro.

 

 

Mercoledì delle CENERI 8 marzo dell’anno 2000

Prima: Gl 2, 12-18; seconda: 2Cor 5,20-6,2 Vangelo: Mt 6,1-6.16-18

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il mercoledì delle ceneri porta alla memoria di noi tutti la conversione e la penitenza, ma credo che la liturgia non sottolinei tanto questo aspetto, quanto l’interiorizzazione degli atti di penitenza e di conversione. Così, nella prima lettura Dio ci dice mediante il profeta Gioele: "Stracciate il vostro cuore, non le vostre vesti". Nel vangelo Gesù Cristo, insegnando sulle tre pratiche di pietà del giudaismo: digiuno, preghiera ed elemosina, per tre volte insiste: "Non fate il bene perché vi vedano gli uomini, e così vi ricompensino". Infine, san Paolo esorta i corinzi affinché si lascino riconciliare con Dio per sentire la sua forza salvatrice, e non lascino passare il tempo favorevole, il giorno della salvezza (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

UNA RELIGIONE INTERIORE. Religione vuol dire relazione giusta e dovuta tra l’uomo e Dio. L’uomo è un essere "intimamente legato a", dipendente da Dio, e in questo senso è "religioso". Tutte le religioni, in un modo o nell’altro, sono istituzioni in cui l’uomo è aiutato nella sua dimensione "religiosa", tanto per prendere coscienza di essa, quanto per esprimerla nel culto e nella vita. La religione cristiana è la religione fondata da Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio, in cui la relazione uomo-Dio raggiunge la sua massima interiorizzazione nella vita e nel cuore di un uomo. Una interiorizzazione che è allo stesso tempo suprema familiarità con Dio fino al grado di chiamarlo: Papà. Tutti noi cristiani siamo invitati a riprodurre in noi, per quanto è umanamente possibile, l’interiorizzazione e la familiarità di Gesù Cristo nelle sue relazioni con Dio, suo Padre. Soltanto quando c’è una vera interiorizzazione, le manifestazioni esterne della religione e le diverse pratiche del culto e della pietà religiosa cessano di essere oggetto di manipolazione da parte degli uomini, cessano di essere pura obbligazione "religiosa", per trasformarsi in una necessità del cuore e della vita. È proprio dell’esperienza umana che, quando qualcosa è calato profondamente nell’anima, si senta la necessità di manifestarlo e di esternarlo. Soltanto a partire dalla religione interiore il passo alle manifestazioni religiose, alla pietà popolare, è veramente autentico. In effetti, dal cuore stracciato nasce l’impulso interiore alla penitenza, al digiuno, alla preghiera.

DIO GUARDA L’INTENZIONE. Le pratiche religiose sono necessarie, ma se non sorgono dal cuore, dal recinto interiore dell’uomo, sono facilmente manipolabili e strumentalizzate dagli uomini al servizio di obiettivi egoistici. Gesù Cristo nel vangelo mette il dito su questo punto tanto delicato. Digiunare, fare elemosina, pregare, sono pratiche buone in sé, ma vengono strumentalizzate quando si compiono soltanto per esser visti e lodati dagli uomini. Agli occhi degli uomini, quelli che fanno elemosina facendo suonare una tromba perché tutti lo vengano a sapere, o che pregano negli angoli delle piazze perché tutti si rendano conto che pregano e che sanno a memoria lunghe orazioni, o che assumono un’espressione triste in volto per dare ad intendere che hanno digiunato, possono passare per uomini sommamente fervorosi e santi, ma non ingannano Dio, né lo possono ingannare. Dio guarda il cuore, e vede che il loro cuore è egoista, che il loro digiuno, la loro elemosina e preghiera non sorgono da un cuore pieno di Dio o almeno di pentimento e desiderio di conversione, ma che è pieno di egoismo.

LASCIATEVI RICONCILIARE CON DIO. Ogni uomo, anche se molto religioso, sente che il suo agire e la sua vita non sempre sono in pace e riconciliazione con Dio. Si rende conto che a volte non è legato a Dio, ma che ha rotto la sua relazione con Lui. Lasciarsi riconciliare è tornare ad accettare la nostra condizione "religiosa", e stabilire con Dio le relazioni autentiche: non di inimicizia o di odio, ma di amore e di amicizia, non di separazione o di allontanamento ma di vicinanza e di intimità. Non siamo noi che ci riconciliamo con Dio, dobbiamo piuttosto lasciarci riconciliare; siamo liberi per accettare la riconciliazione, ma non per crearla o iniziarla. Chi riconcilia noi cristiani con Dio, è nostro Signore Gesù Cristo, per mezzo della sua croce e della sua gloriosa resurrezione. Per questo, la domenica, in cui commemoriamo tali realtà e misteri, è il tempo propizio perché Gesù Cristo renda efficace in noi l’opera della sua riconciliazione con il Padre, e, di conseguenza, con gli uomini nostri fratelli.

SUGGERIMENTI PASTORALI

SENSO DELLA PENITENZA CRISTIANA. Già nella Didaché, alla fine del secolo I d.C., si parla delle pratiche penitenziali cristiane. Tali pratiche penitenziali e "religiose" sono state sempre presenti nella vita della Chiesa, e continuano ad esserlo. Secondo le epoche e i costumi dei popoli, queste pratiche erano più o meno rigorose, più numerose o più ridotte. Quando, al giorno d’oggi, leggiamo delle penitenze dei monaci irlandesi o dei gesti penitenziali degli uomini medievali, ciò ci sorprende, e pensiamo che fossero esagerati; ma non sembra che in quelle epoche e luoghi pensassero al nostro stesso modo. Al nostro tempo, la Chiesa ha attenuato le pratiche penitenziali prescritte, come il digiuno o l’astinenza, o la penitenza imposta dal sacerdote nel sacramento della riconciliazione. Ma al contempo non ha cessato di indicare altre pratiche di penitenza più in accordo col nostro tempo, e soprattutto la penitenza interiore, cioè, delle nostre passioni di orgoglio, di vanità, di desiderio di avere e dominare, della concupiscenza della mente e del cuore, dell’ansia di apparire… Questa è la penitenza che senza dubbio alcuno è più gradita a Dio, e inoltre quella che ci dà maggior beneficio spirituale, perché ci conduce a distaccarci dal nostro io e da tutto ciò in cui l’io occupa il primo luogo, perfino rispetto allo stesso Dio. Perché, che senso ha macerare il corpo, quando il cuore è putrido di egoismo? È la penitenza del nostro egoismo e del nostro orgoglio, quella che pratichiamo noi cristiani? Nella parrocchia, in famiglia, a scuola, si deve insegnare a poco a poco ai bambini e agli adolescenti questo tipo di penitenza, in cui risiede il vero significato della penitenza cristiana.

UNA INTENZIONE PURA PER DIO. Nella parrocchia ci sono molte celebrazioni ed attività. Al centro, c’è la celebrazione dell’eucarestia, dei sacramenti. Ci sono inoltre attività di catechesi e di aiuto e beneficenza a diverse categorie di persone: malati, anziani, emigranti, disoccupati; ci sono le attività culturali, sportive, sociali…Non è male domandarsi, ogni tanto, con quale intenzione le persone che dirigono le diverse attività le portino a compimento. Magari fosse sempre una intenzione pura per Dio, ma non poche volte si mescolano altre intenzioni molto umane, e in qualche caso le intenzioni umane forse sono quelle predominanti, se non le esclusive. Forse Gesù Cristo si vede obbligato a ripetere di nuovo: "Vi assicuro che già avete ricevuto la vostra ricompensa". Il periodo di quaresima che iniziamo, deve propiziare un esame della nostra coscienza, per vedere più a fondo e con sincerità quali sono le intenzioni dei nostri comportamenti, atteggiamenti, attività, progetti e realizzazioni.

 

 

 

Prima Domenica di QUARESIMA 12 marzo dell'anno 2000

Prima: Gen 9,8-15; Seconda: 1Pt 3,18-22 Vangelo: Mc 1,12-15

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

La salvezza è il punto di convergenza delle letture di questa prima domenica di quaresima. Gesù Cristo è il nuovo Adamo, che, nel deserto della tentazione e della preghiera, salva l’uomo dalle sue tentazioni e dal suo peccato, e lo invita ad entrare mediante la conversione e la fede nel Regno di Dio (Vangelo). La salvezza di Cristo è come prefigurata nella salvezza che Dio realizzò con Noè e la sua famiglia (l’umanità intera) dopo il diluvio mediante l’arcobaleno, segno della sua alleanza salvifica (prima lettura). L’arca di Noè, arca della salvezza, prefigura nella seconda lettura il battesimo, per mezzo del quale il cristiano partecipa della salvezza che Gesù Cristo ha portato agli uomini mediante la sua morte.

MESSAGGIO DOTTRINALE

L’uomo ha bisogno di salvezza. È un insegnamento costante della Bibbia. È allo stesso modo un’esperienza insita nella vita e nella coscienza di qualsiasi essere umano. L’uomo che entra nel suo intimo con sincerità, scopre in sé delle forze, degli impulsi che lo dominano, delle catene che lo assoggettano e non lo lasciano respirare liberamente né volare alle altezze cui ardentemente anela. L’uomo, incatenato in se stesso e nel carcere di un mondo ostile, cerca una mano amica, cerca un redentore, un salvatore, che spezzi le sue catene, che gli permetta di volare per gli spazi dell’amore, della verità, della vita. La Bibbia ci insegna che c’è un solo ed unico Salvatore, che è Dio, che ci offre la sua salvezza in Gesù Cristo. Di fronte al mondo caotico e peccatore delle origini, Noè è salvato da Dio, e con lui, come con un nuovo Adamo, Dio ricomincia una creazione nuova, il cui centro sarà il rispetto della vita. Questo nuovo Adamo e questa nuova creazione sono figura e immagine del nuovissimo Adamo, che è Gesù Cristo, e della nuovissima creazione, il cui centro è la vita nuova, vita di grazia, impiantata tramite la morte e la resurrezione di Cristo, e della quale l’uomo partecipa mediante il battesimo. In effetti, "il mistero di Cristo è la luce decisiva sul Mistero della creazione: rivela il fine in vista del quale, "in principio Dio creò il cielo e la terra": dalle origini, Dio pensava alla gloria della nuova creazione in Cristo" (CIC 280).

Caratteristiche della salvezza. A) Salvezza universale. Il Dio creatore di tutte le cose e di tutti gli uomini, desidera anche la salvezza di tutti. C’è, pertanto, una chiamata universale alla salvezza. Il diluvio (prima lettura), che è come una nera nube sul cielo della salvezza, cessa per opera di Dio, che fa risplendere l’arcobaleno come segno dell’alleanza salvifica di Dio con l’umanità intera e con lo stesso cosmo. Gesù Cristo ci chiama alla salvezza invitandoci ad entrare nel Regno di Dio attraverso la porta del battesimo (battesimo di acqua e Spirito, battesimo di sangue, battesimo di desiderio), una porta aperta a tutti, senza eccezione, giacché per tutti Cristo è morto ed è tornato alla vita. La discesa agli inferi, di cui ci parla la seconda lettura, è una maniera simbolica di esprimere l’universalità della salvezza apportata da Cristo, che si estende non soltanto al presente e al futuro, ma allo stesso passato dell’umanità a partire dalle sue stesse origini. B) Salvezza certa. Non possiamo dubitare della fedeltà di Dio, in cui si appoggia la nostra certezza di salvezza. Con la certezza con cui appare l’arcobaleno all’uscire del sole dopo la tempesta, con la certezza con cui Cristo è morto e risorto, con questa medesima certezza ci viene offerta la salvezza di Dio. Nulla e nessuno potrà strapparcela, come nessuna legge naturale potrà cancellare l’arcobaleno.

La risposta dell’uomo. San Marco riassume in due parole la risposta che Gesù aspetta dall’uomo di fronte alla presenza del Regno e all’offerta di salvezza: conversione e fede. "Convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15). La conversione non è un momento puntuale della vita umana e cristiana; non è neppure la reazione a una ideologia che con la sua forza utopistica ci attrae e ci abbaglia fino a "convertirci". La conversione cristiana è un conversione alla persona di Gesù Cristo, cioè, è un lasciare altre vie, per quanto attraenti possano apparentemente risultare, e prendere la via di Cristo. Allo stesso modo, la fede con cui siamo invitati a rispondere, non è soltanto una fede umana, né una fede puramente ‘religiosa', ma fede in Gesù Cristo, cioè fede nella sua vita e nella sua dottrina come cammino di salvezza per l’uomo. Una fede che non è unita al mistero di Cristo o che non conduce a Lui, è una fede insufficiente, che ha bisogno di essere completata e illuminata dalla vera fede in Cristo Gesù.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Convertirsi non è peccato. L’uomo soddisfatto di se stesso, che si sente forse umanamente realizzato, corre il rischio di pensare che la conversione sia quasi come una macchia nella sua vita di uomo onorato, qualcosa di indegno del suo onore e del concetto che ha di sé. Soprattutto, quando la vera conversione non è soltanto interiore, ma richiede di rendersi visibile nella vita di famiglia, nel lavoro professionale, nelle relazioni con la società. Non sarà forse peccato il riconoscersi peccatore? Non sarà peccato lasciare una via che ai propri occhi e a quelli degli altri sembrava retta, impeccabile, degna di lode? Forse si dovrà dire oggi agli uomini, agli stessi cristiani, che convertirsi non è peccato. In definitiva, è un esercizio di sincerità a tutta prova, perfino a prova di dolore e a costo di prestigio umano. Non è peccato riconoscersi peccatore e voler cambiare, camminare per un sentiero diverso da quello percorso, ricominciare forse la vita dopo molti anni di esistenza. Strappare la paura della conversione, come se si trattasse di qualcosa di orrendo e peccaminoso, è uno degli obiettivi della quaresima.

Vivere l’esperienza battesimale. La maggior parte di noi sono stati battezzati quando avevano pochi giorni o mesi di vita. In quel momento i nostri familiari fecero una grande festa, senza che noi ci rendessimo conto di nulla. Poi, forse è tradizione familiare celebrare l’anniversario di questo avvenimento, o forse tale avvenimento si conserva bel baule dell’oblio, dal quale lo estraiamo in qualche occasione particolare e basta. La Chiesa, tuttavia, ci insegna che il battesimo deve essere una esperienza vissuta tutti i giorni e fondamento di una autentica spiritualità cristiana. Vivere quotidianamente l’esperienza del battesimo è vivere l’esperienza della salvezza che Cristo ci offre giorno per giorno, è vivere la nostra appartenenza alla Chiesa e di conseguenza la nostra adesione e il nostro amore a Lei, è vivere l’esperienza di grazia e di amicizia gioiosa con Dio, è vivere la coscienza della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nel nostro intimo, è vivere un processo di progresso spirituale e di trasformazione che si ripete ogni giorno e non termina se non con la vita. In definitiva, vivere l’esperienza battesimale è vivere in santità, qualunque sia il nostro stato di vita, la nostra età e condizione, la nostra professione o il nostro compito in questo mondo.

 

 

Seconda Domenica di QUARESIMA 19 marzo dell’anno 2000

Prima: Gen 22, 1-2.9.10-13; Seconda: Rom 8, 31-34 Vangelo: Mc 9, 2-10

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

L’amore, sia di Dio per l’uomo, sia dell’uomo per Dio, compendia la liturgia di oggi. L’amore di Dio per i discepoli, Dio che, dopo il primo annuncio della passione, rivela loro lo splendore della sua divinità (Vangelo). Amore misterioso, paradossale, di Dio per Abramo, nell’infondergli un’assoluta fiducia nella sua provvidenza, di fronte al comando di sacrificare suo figlio Isacco (prima lettura). Amore di Dio che non perdonò il suo proprio Figlio, ma piuttosto lo donò alla morte per tutti noi (seconda lettura). Amore, d’altra parte, di Abramo per Dio, nell’essere disposto a sacrificare il suo unico figlio in obbedienza amorosa (prima lettura). Amore dei discepoli nella disponibilità per obbedire al Padre che dice loro: Questo è il mio Figlio prediletto. Ascoltatelo (Vangelo). Amore di Gesù che ci salvò mediante la sua morte e intercede per noi dal suo trono alla destra di Dio (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

I paradossi dell’amore. Dio è un mistero infinito. Il suo modo di agire e di amare è anche pieno di mistero. I misteri per la nostra mente e per la nostra logica umana risultano incomprensibili. Soltanto il cuore può socchiudere la porta del mistero e intravedere una minima parte della sua stupefacente grandezza. In effetti, alla logica umana risulta paradossale che Dio abbia dato un figlio ad Abramo, unica speranza della promessa che Dio gli ha fatto, perché poi gli chieda di sacrificarlo sul monte Moria. Come ci sembra allo stesso modo paradossale che Dio ami suo Figlio Gesù Cristo con un amore di Padre, e poi gli chieda di soffrire la massima ignominia degli uomini morendo su una croce come uno schiavo. E non meno paradossale è che l’uomo abbia ricevuto la salvezza di Gesù Cristo e poi si trovi nello sforzo di ogni giorno con tremende forze ostili che lo fanno dubitare di quella salvezza. Non cessa, tuttavia, di esser vero che Dio supera i paradossi e unisce gli estremi apparentemente contraddittori con legami inseparabili di amore. Non è che Dio ami meno in un caso che nell’altro. Piuttosto si dovrà dire che il suo amore è diverso. L’uomo, da parte sua, non cercherà di razionalizzare le vie dell’agire divino, poiché senz’altro fallirà sempre; tenterà piuttosto di dilatare il cuore e di cercare di "comprendere" con l’amore, poiché "il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende" (Pascal), tanto se si tratta dell’uomo, come se si tratta di Dio.

Tre modi di amare. Nelle relazioni umane l’amore adotta infinite forme. Nelle relazioni tra l’uomo e Dio accade lo stesso. La liturgia di oggi ci presenta tre di queste forme per esprimere l’amore.

A) Vedere. Sul monte Moria "Dio pro-vede" e in questa maniera manifesta il suo amore ad Abramo. Da parte sua, Abramo "vide" un ariete impigliato con le corna in un cespuglio e lo offrì in olocausto al posto di suo figlio. Così mostrò il suo amore riconoscente al Signore. Nel testo evangelico, Pietro, Giacomo e Giovanni videro Gesù trasfigurato con lo splendore della divinità, e attraverso gli occhi li prese il desiderio di rimanere lì contemplando e godendo amorosamente di tale esperienza ineffabile. Gli occhi sono le finestre dell’amore: attraverso di essi entra l’amore, come il raggio di luce per il cristallo, e per gli occhi passa trasparente e luminoso il raggio dell’amore dal cuore verso l’esterno, per incidere nella persona amata. Questo che accade con l’amore umano, succede allo stesso modo nelle relazioni di amore tra l’uomo e Dio.

B) Ascoltare. È dolce all’udito ascoltare la voce della persona amata. Per questo, Abramo, che ama Dio, ascolta la sua voce che lo chiama e subito risponde: "Eccomi", in un gesto di disponibilità a partire dall’amore. Per questo, il Padre invita i discepoli ad ascoltare Gesù, perché attraverso le sue parole giungano ai loro orecchi le rivelazioni dell’amore fino alla follia della croce. Ascoltare la voce dell’amato racchiude in sé una attitudine di obbedienza. Ne consegue che l’autentica obbedienza cristiana coincida con l’ascolto della voce divina, che pone in movimento il desiderio di fare ciò che vuole l’amato.

C) Sperimentare. Soltanto quando l’amore scende sul terreno dell’esperienza vitale è amore potente ed efficace. Un amore che non passi per l’esperienza corre il pericolo di degenerare in egoismo, in astrazione, o in puro sentimentalismo. Abramo sperimentò l’amore fedele di Dio, per questo il suo amore rimase diritto e fermo nel momento della prova. Gesù sperimentò l’amore del Padre e l’amore verso gli uomini, per questo poté abbracciare la croce con decisione e libertà. E Paolo, che ha sperimentato in modo forte l’amore di Cristo, chi lo potrà separare da tale amore?

SUGGERIMENTI PASTORALI

Amore-dolore: una difficile relazione. Amare una persona quando tutto va bene, quando l’amore sembra vivere in una eterna primavera, quando i frutti dell’amore sono dolci, quando la reciprocità nell’amore rende bella la vita e si guarda il futuro con gioia e speranza, è facile e perfino gradevole. Ma nelle storie d’amore, non tutto è sempre così. Nelle reali storie d’amore il dolore, la sofferenza, la prova, l’incomprensione bussano di tanto in tanto alla porta. E si affaccia all’anima la tentazione di dubitare dell’amore, di vedere nel dolore un distruttore dell’amore, di sentire che l’amore si va raffreddando e che può arrivare perfino a congelarsi. Perché accadono queste cose, se nei disegni di Dio il dolore non è che un volto diverso dell’amore? Non abbiamo sperimentato forse che il dolore e la prova rendono più profondo l’amore, come forze ingenti che purificano e potenziano la capacità di amare del cuore umano? L’amore e il dolore sono come i due poli (positivo e negativo) necessari perché si produca energia psichica e spirituale nell’essere umano. Non ci dice la stessa saggezza umana che una persona che non ha sofferto, né è stata provata, difficilmente giungerà ad essere persona matura? Mi sono posto anche a pensare perché l’uomo di oggi guarda di malocchio al dolore e lo odia con tanta passione. Non sarà perché si sta raffreddando tra gli uomini il vero amore: a Dio, agli uomini, alla vita?

Paura di ascoltare. L’uomo contemporaneo è colui che senza dubbio ha ascoltato ed ascolta più parole in tutta la storia fin dalle sue origini. Molte di tali parole lo lusingano, e le ascolta con piacere. Altre lo annoiano, e allora semplicemente chiude il canale di comunicazione o cerca un’altra conversazione più gradevole. Ci sono anche parole che gli causano paura, a volte molta paura. Parole dei genitori che non transigono con i suoi capricci, parole degli educatori che vogliono attenzione e riflessione, parole delle leggi che danno ordine alla convivenza umana, parole della Chiesa che insegnano il senso della vita, trasmettono i valori umani e cristiani, mettono davanti ai nostri occhi il destino dell’esistenza. Tali parole non poche volte risvegliano la paura che giaceva accovacciata nella nostra psiche. In verità, questa non è paura delle parole, ma paura di noi stessi, paura di elevarci al livello di esistenza che ci corrisponde come esseri umani e come discepoli di Gesù Cristo. Questa quaresima può essere un "momento di Dio" per strappare da noi la paura, ogni paura e qualsiasi paura.

 

 

Terza Domenica di QUARESIMA 26 marzo dell’anno 2000

Prima lettura: Es 20, 1-17; Seconda: 1Cor 1, 22-25 Vangelo: Gv 2, 13-25

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Noi predichiamo Cristo crocifisso, che è forza di Dio e sapienza di Dio" (seconda lettura). In questa frase vedo riassunto il messaggio centrale dei testi liturgici di questa terza domenica di quaresima. Forza e sapienza di Dio che superano e perfezionano la forza e sapienza del Decalogo (prima lettura). Forza e sapienza di Dio che instaurano un nuovo tempio e un nuovo culto, situato non più in un luogo, quanto in una persona (Egli parlava del tempio del suo corpo): la persona di Cristo crocifisso, morto e risorto, in cui la relazione tra Dio e l’uomo raggiunge la sua pienezza e il suo paradigma.

MESSAGGIO DOTTRINALE

Gesù Cristo, sapienza di Dio. La rivelazione di Dio è un lungo e progressivo cammino di sapienza divina. Tale sapienza si rivela adattandosi agli eterni disegni di Dio, ma anche allo sviluppo spirituale ed umano degli uomini. Questo non è imperfezione di Dio, ma condiscendenza, accettazione della storicità dell’essere umano con tutti i condizionamenti che essa comporta. Dopo lunghi secoli in cui la sapienza divina si venne manifestando in insegnamenti, istituzioni, profeti e saggi, la sapienza di Dio si incarna in Gesù di Nazaret, ma con caratteri abbastanza diversi da quanto atteso. Gesù dirà che non è venuto ad abolire la legge, ma a perfezionarla, per questo non basta il decalogo, col suo amore di Dio all’uomo, è necessario aggiungere che si tratta di amare Dio nel suo mistero trinitario rivelato da Gesù Cristo, e di amare il prossimo, perfino se è nostro nemico. Gesù, come nuovo tempio, interiorizza il culto cristiano, fondato non su sacrifici né riti esterni, ma sull’azione dello Spirito di supplica, lode e adorazione. Nell’uno, come nell’altro caso, si tratta di una sapienza che emana dallo Spirito di Dio, non opera dell’uomo né delle sua capacità superiori.

La croce, sapienza di Cristo e del Cristiano. La sapienza di Gesù Cristo brilla con una forza particolare nella follia della croce. La croce era l’oggetto più orribile agli occhi di un buon romano, e per un devoto giudeo era segno di maledizione divina. Per i contemporanei di Gesù lo scandalo dovette essere maiuscolo. A chi capita di fare della croce il segno più eloquente della sapienza di Dio e del cristianesimo! Certamente non agli uomini, ma capitò a Dio. Davanti alla figura di Cristo crocifisso, la sapienza umana o cade in ginocchio in attitudine di riconoscimento di una scienza misteriosa e superiore, o si ribella e soccombe sotto il peso insopportabile di qualcosa che oltrepassa l’umano ragionamento. Da venti secoli Gesù continua a proclamare dal Golgota che il legno della croce è il vero albero della scienza del bene e del male, della scienza della vita. Noi cristiani dobbiamo essere ben coscienti che sulla croce si trova la nostra vera sapienza, e che dobbiamo annunciare a tutti il Vangelo della croce, il vangelo della sofferenza.

La potenza di Cristo crocifisso. Nessun crocifisso prima di Cristo poté fare della croce il suo trono e il suo scettro. Solamente Cristo ha potuto portare a compimento questa trasformazione tanto impossibile: ha cambiato il segno di ignominia in segno di potere. Per noi che crediamo, in effetti, la croce è potenza di Dio. Il decalogo era segno del patto tra Dio sovrano e Israele suo vassallo; il tempio, con la sua imponente grandiosità di edificio, di rito e di sacrificio, era segno del potere e della trascendenza di Dio. Con Gesù l’onnipotenza di Dio si mostra evidente nella debolezza della carne, nella maledizione di un legno, nell’umana ignominia di un crocifisso. Noi uomini, generazione dopo generazione, siamo restii a comprendere almeno un poco questo grande mistero. Coloro che se ne lasciano sedurre, e vi entrano attraverso la fede e l’umiltà, otterranno per sé la vera sapienza, e saranno capaci di risvegliare l’interesse per essa negli altri.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Si può volare soltanto con due ali. L’uomo contemporaneo ha una fiducia illimitata nell’intelligenza scientifica, per il fatto stesso che vede le grandi conquiste alle quali è arrivato: nel mondo astronomico, nella tecnica biogenetica, nell’elettronica, e in qualsiasi forma del sapere empirico. L’intelligenza umana comprende altri aspetti, che hanno bisogno di sviluppo, come l’intelligenza filosofica, o quella morale o religiosa. Purtroppo, in questi campi, l’intelligenza, invece di aumentare, è andata diminuendo negli ultimi lustri. È un grande deficit nella vita e nella formazione dell’uomo attuale! Proprio perché l’intelligenza filosofica, morale o religiosa preparano o facilitano il cammino verso la fede, mentre quella scientifica non poche volte lo ostacola o, peggio ancora, lo liquida. È vero che la sola intelligenza scientifica non fa credenti, si richiede la fede. Ma senza il supporto di una vera intelligenza, la fede si trasforma in fideismo, come l’intelligenza senza il complemento della fede si trasforma in puro intellettualismo o in positivismo scientifico. Qual è la tua mentalità, quella dei tuoi familiari o vicini? Accetti la fede come vera scienza di Dio, al servizio del bene dell’uomo? Che cosa possiamo fare noi fedeli cristiani per volare, nei compiti di ogni giorno, con le due ali della fede e della ragione? Non ci sono forse molti che pretendono di volare con un’ala sola? Impresa impossibile!

Il decalogo della preghiera. Gesù Cristo nel vangelo supera il culto rituale del tempio, e lo situa nell’intimo dell’uomo. Nel 1973 il Papa Paolo VI propose ai fedeli che lo ascoltavano il decalogo della preghiera, una maniera pratica di vivere il culto interiore e di esprimerlo in modo adatto al nostro tempo.

1) Applicare in modo fedele, intelligente e diligente la riforma liturgica.

2) Fare una catechesi filosofica, biblica, teologica, pastorale, sul culto divino.

3) Non spegnere il sentimento religioso rivestendolo di nuove e più autentiche espressioni spirituali.

4) La famiglia deve essere la grande scuola di devozione, di spiritualità, di fedeltà religiosa.

5) Considerare il precetto festivo non soltanto come un dovere primario, ma soprattutto come un diritto, una necessità, un onore, una fortuna.

6) Se è permessa una certa autonomia nella pratica religiosa in gruppi distinti, non deve mancare la comprensione del genio ecclesiale, cioè di essere popolo, una sola anima socialmente unita, di essere Chiesa.

7) Lo svolgimento delle celebrazioni liturgiche è sempre un atto di grande serietà, che si deve preparare e realizzare con grande cura.

8) I fedeli collaborano al fedele compimento del culto sacro con il silenzio, la compostezza, ma soprattutto con la loro partecipazione.

9) La preghiera abbia i suoi due momenti propri di pienezza: personale e collettivo.

10) Il canto, attraverso il quale si esprime la ricchezza spirituale dei fedeli cristiani. Questo decalogo continua ad essere attualissimo dopo quasi trenta anni. Il compimento di questo decalogo sarà rinnovatore ed arricchirà la vita spirituale di ogni cristiano, dei gruppi, delle parrocchie.

 

 

Quarta Domenica di QUARESIMA 2 aprile dell’anno 2000

Prima: 2Cor 36, 14-16.19-23; Seconda: Ef 2,4-10 Vangelo: Gv 3,14-21

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"Dio ha tanto amato il mondo…": qui risiede il messaggio che la Chiesa ci trasmette mediante i testi liturgici. Questo amore infinito di Dio ha percorso un lungo cammino nella storia della salvezza, prima di giungere ad esprimersi in forma definitiva ed ultima con Gesù Cristo (Vangelo). La prima lettura ci mostra l’amore di Dio in azione in un modo sorprendente, come ira e castigo, per suscitare così nel popolo il pentimento e la conversione (prima lettura). La lettera agli Efesini mette in rilievo da una parte la nostra mancanza di amore che causa la morte, dall’altra l’amore di Dio che ci fa ritornare alla vita insieme con Gesù Cristo (seconda lettura). In tutto e al di sopra di tutto, l’amore di Dio in Cristo Gesù.

MESSAGGIO DOTTRINALE

Gesù Cristo, l’amore del Padre. "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito". Tutta la storia di Dio con l’uomo, come si presenta nella Bibbia, è una storia impressionante di amore. Dio che per amore crea, dà la vita, sceglie un popolo per farsi presente tra gli uomini, si fa ‘carne’ in Gesù Cristo per salvarci a partire dalla carne e l’uomo, che per orgoglio rifiuta l’amore cercando di ‘autocrearsi’, ‘autodonarsi la vita’, ‘autoscegliersi’ nel concerto delle nazioni tramite la sua potenza e la sua imperiale ambizione, ‘autosalvarsi’ con la scienza e la tecnica, con la parapsicologia e la religione cosmica. Sembrerebbe che l’uomo comprenda al contrario le cose di Dio, sembrerebbe che Dio gli voglia insegnare a sillabare l’amore nella sua mente e nella sua vita, ed egli è soltanto capace di pronunciare l’egoismo, l’odio o, almeno, l’indifferenza a ciò che non sia il proprio io. Sembrerebbe che Gesù, invece di essere la forma suprema dell’amore divino, sia al contrario per l’uomo causa di turbamento, del suo sentimento di fallimento, della sua frustrazione alienante. Che cosa succede nel cuore umano perché non possa scoprire in Gesù Cristo la sublimità dell’amore di Dio?

Due forme dell’Amore. L’amore non cerca se non il bene della persona amata. Ma le modalità di ricerca di tale bene possono variare. Davanti a un popolo o a un cuore ribelle, chiuso al cammino di Dio, l’amore divino acquisisce manifestazioni dure che cercano di portare l’uomo alla riflessione, al pentimento e alla conversione. Così nella prima lettura, davanti all’atteggiamento arrogante del popolo, Dio permette la conquista di Gerusalemme, l’uccisione di molti dei suoi abitanti, il saccheggio della città, la schiavitù e l’esilio in Babilonia. Dio agì in questo modo come sforzo supremo del suo amore che vuol portare gli abitanti di Gerusalemme ad una autentica conversione, mediante il riconoscimento dell’amore divino. Ma esiste un’altra forma di amore divino, ed è la grazia, il dono della salvezza per chi la accoglie e la fa fruttificare. Coloro che la accolgono "sono opera di Dio, creati in Cristo Gesù per realizzare le buone opere che Dio ci ha predisposto perché noi le praticassimo" (seconda lettura). Tali buone opere sono le opere dell’amore, con cui il credente risponde all’amore di Dio. Come formidabile educatore dell’uomo e dei popoli, Dio Nostro Signore usa l’una o l’altra forma di amore con l’unico interesse di trovare reciprocità di amore nell’uomo. Dio sa molto bene che soltanto nell’amare (amare Dio e l’uomo) e nell’essere amato, risiede la grandezza e la felicità dell’uomo.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Convertirsi all’Amore. I testi liturgici ci hanno mostrato che l’amore per Dio è darsi, donare se stessi, cercare il bene della persona amata. Questo amore non è il più frequente tra gli uomini, né risulta facile. È più frequente chiudersi nel proprio guscio, sentendosi al tempo stesso soggetto e oggetto del proprio amore. È più frequente ‘approfittare’ dell’altro (sposo o sposa, padre o figlio, amico o amica, creditore o cliente, alunno o maestro, parroco o parrocchiano…) per la soddisfazione del proprio io, dei propri interessi, gusti, passioni. È più frequente cercare il nostro bene che volere il bene degli altri; voler ‘bene’ a noi stessi invece di fare del bene al prossimo. È più facile non darsi, non far nulla per gli altri, non aiutare chi soffre delle necessità, non collaborare nelle diverse attività della parrocchia, non cercare forme concrete di amare Dio, la Vergine santissima, i nostri cari, i nostri fratelli nella fede, gli uomini indipendentemente dalla loro religione, razza o condizione. Ciononostante, nella maggioranza dei casi, ciò che è più frequente e facile non è il meglio nemmeno per noi stessi. Dobbiamo convertirci all’Amore: quell’amore che agisce in noi perché Dio ce lo regala e noi lo accogliamo con gioia. Dobbiamo convertirci all’Amore, che ci trae dal nostro proprio guscio e ci pone ‘indifesi’ davanti agli altri perché viviamo tramite la forza dell’Amore.

"Cristiano" uguale ad "umano". Si potrebbe ben dire: "Sono cristiano, e non reputo a me estraneo nulla di quanto è umano". Il concilio Vaticano II ci ha insegnato che "Cristo rivela l’uomo all’uomo". L’autentica umanità dell’essere umano non la troveremo nei programmi della TV o negli articoli della stampa, nell’invasione sonora della discoteca o nelle riunioni di massa con un cantante famoso, nella fugacità di una bevuta e di una droga o nella falsa consistenza di una relazione degenerata… In tutti questi campi è molto presente l’uomo, ma molto poco l’umano, i valori derivanti dalla sua dignità di immagine e figlio di Dio. A Giovanni Paolo II piace ripetere che "l’uomo è la via della Chiesa"; e si potrebbe aggiungere che "il cristiano è la via dell’uomo". È evidente che mi riferisco a un cristiano che sia veramente tale, e ad un uomo che si misura per la sua vocazione e dignità, non con parametri di altra indole. Per questo, qualcuno ha osato dire che "il terzo millennio o sarà cristiano, o semplicemente non sarà", poiché l’uomo finirebbe con l’autodistruggersi. Se questa è la verità, e lo è, non vale la pena di vivere a fondo la vocazione cristiana? Perché non lottare per instaurare nella società un vero umanesimo, cioè, un cristianesimo vissuto con autenticità? Ne vale la pena!

 

 

Quinta Domenica di QUARESIMA 9 aprile dell’anno 2000

Prima: Ger 31, 31-34; Seconda: Eb 5, 7-9 Vangelo: Gv 12, 20-33

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Mentre per gli uomini l’ordine abituale dei concetti è vita-morte, in Gesù Cristo è l’opposto: morte-vita. Di queste due realtà e della loro relazione ci parla la liturgia. È necessario che il granello di frumento muoia perché riviva e dia frutto, è necessario perdere la vita per vivere eternamente (Vangelo). Gesù, sottomettendosi alla morte in obbedienza filiale, vive adesso come Sommo Sacerdote che intercede per noi davanti a Dio (seconda lettura). Nella morte di Gesù che torna alla vita e dà la vita all’uomo si realizza la nuova alleanza, non più sigillata con sangue di animali ma scritta nel cuore, e, pertanto, spirituale ed eterna (prima lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Gesù, unione degli opposti. La tendenza umana più frequente è dividere, dissociare, separare, confrontare. Gesù, venuto da Dio, agisce in altro modo ed insegna anche a noi ad agire come lui. L’uomo tende a separare l’obbrobrio della sofferenza dallo splendore della gloria: Gesù li unisce in sé perché il Padre li vuole uniti in Cristo e in noi. In questo modo la sofferenza è gloriosa, e la gloria ha il dolore come peana. L’uomo vuol dare frutti senza morire, ma ciò è impossibile; Gesù accetta di essere grano che muore sotto la terra per dare frutto abbondante. In Gesù si danno la mano due realtà fortemente antagonistiche: la morte e la fecondità. Noi preferiamo di gran lunga l’essere serviti che non il servire; Cristo preferì servire all’essere servito; e in questo servire incondizionatamente gli fu ‘servita’ dal Padre la salvezza dell’umanità. Noi uomini in genere non siamo facilmente disposti a perdere la vita (darla per il bene degli altri), e tuttavia è così che la perdiamo. Cristo, invece, la perdette, non si aggrappò ad essa, e in questo modo la guadagnò per sempre ed ottenne anche a noi la possibilità di ‘guadagnarla’, seguendo le sue orme. Nella congiunzione di perdersi al mondo per guadagnare il mondo si compendia il mistero pasquale di Gesù Cristo.

L’ora di Gesù. Nel vangelo di san Giovanni si unisce l’incontro di Gesù con i ‘greci’ (rappresentanti dell’umanità non giudea) e l’ora di Gesù, cioè la sua passione-morte-resurrezione. L’ora di Gesù è, pertanto, l’ora della redenzione universale per la sofferenza e per la glorificazione. Entrambe gli aspetti brillano con fulgore particolare nella seconda lettura. Innanzitutto la sofferenza: "Lo stesso Cristo nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere a suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte. Apprese soffrendo quanto costi obbedire". Tali grida e tali lacrime, così umane, sono incluse nella sua ora, nel suo tempo e modo di salvarci. Non manca, tuttavia, l’ora della glorificazione: "Ottenuta così la salvezza, è stato proclamato da Dio Sommo Sacerdote". Sommo Sacerdote della nuova alleanza, del nuovo cuore umano, della nuova legge scritta nel più intimo e profondo dell’anima.

L’ora dell’uomo nuovo. L’ora di Gesù è anche l’ora dell’uomo nuovo. La sofferenza e la glorificazione di Gesù portano a compimento la profezia di Geremia, che la liturgia ci presenta nella prima lettura. L’alleanza nuova tra Dio e l’umanità sarà sigillata con il sangue di Cristo. Le stipulazioni di tale nuova alleanza non saranno scritte su pietra, né sarà Mosè colui che le comunicherà agli uomini; Dio stesso le scriverà nell’intimo del cuore, e lo Spirito Santo ‘leggerà’ con chiarezza, in modo intelligibile e personale, a chiunque vorrà ascoltarlo, il contenuto della nuova legge, la legge dello Spirito. Per questo ci dice san Giovanni che tutti saranno istruiti da Dio, tutti: dal più piccolo fino al più grande. La passione-morte-resurrezione di Gesù Cristo concede all’umanità intera la grazia di fare un patto di amicizia e di comunione con Dio Nostro Signore, e giungere così a essere uomini nuovi, autentici, e, più ancora, ‘divini’.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Soffrire per fedeltà. Il soffrire per soffrire è assurdo ed indegno dell’uomo. Il soffrire perché "non c’è altro da fare", perché questa è la condizione umana, è un motivo molto povero, anche se può essere frequente. Il soffrire per mostrare la mia capacità di autodominio o la mia grandezza umana è da pochi, e quasi sempre pecca di orgoglio. Il soffrire per fedeltà a princìpi ed a convinzioni che sostengono la propria vita, ecco il vero senso e valore della sofferenza. Soffrire per fedeltà alla propria coscienza, anche se gli stimoli esterni possono indurre piuttosto al carpe diem e alla soddisfazione delle mille sollecitazioni del vizio e del peccato. Soffrire per fedeltà ai doveri del mio stato e professione, con sincerità e costanza, senza paura di apparire ‘debole’ e senza timore del rispetto umano. Soffrire per fedeltà alle proprie convinzioni religiose: cattolico, religioso, sacerdote, agendo sempre e in ogni momento e situazione in modo coerente ed autentico. Tale sofferenza, agli occhi di Dio, non soltanto ha senso, ma ha un valore imperituro: valore di redenzione, come la sofferenza di Gesù Cristo. Tale soffrire, pur non essendo facile, non cessa di essere bello e soprattutto fecondo. Mettiamoci la mano sul cuore e domandiamoci se abbiamo sofferto per essere fedeli, se siamo disposti a soffrire per fedeltà a Dio e all’uomo, nostro fratello.

Una religione del cuore. È difficile mantenere l’equilibrio nelle relazioni tra gli uomini, e nelle relazioni degli uomini con Dio. O siamo freddi, perché fondiamo le nostre relazioni sulla ragione, che si regge per mezzo della logica, che non ammette di essere riscaldata da altre energie diverse dalla ragione, o siamo sentimentali, ponendo nel sentimento la base di una vera relazione, sia con gli uomini sia con Dio. Ma sappiamo che il sentimento è sottomesso ai "viavai" delle circostanze, degli influssi esterni, degli stati d’animo. Il sentimento è caldo, ma manca di logica, di ordine, di stabilità. O cerchiamo di fondare le relazioni nel cuore, dove la forza della logica si incontra con il calore del sentimento, e il sentimento caldo penetra nella freddezza della ragione. Il cuore è il luogo dell’incontro, della relazione più autentica tra gli uomini e dell’uomo con Dio. Per questo, la religione cristiana è una religione del cuore. Quando si è preteso di fare del cristianesimo una religione della ragione, si è caduti nella freddezza dell’astrazione o nel rigorismo dogmatico e morale, allo stile giansenista. Quando si è fatto del cristianesimo una religione del sentimento, il risultato è stato un sentimentalismo stucchevole e un fideismo poco intelligente. Soltanto il cuore (sede della ragione, dell’affettività e delle passioni) può dar forma alla religione cristiana. Se già vivi il cristianesimo del cuore, continua per questo cammino e aiuta altri ad entrarvi; se ancora non ti sei convertito alla religione del cuore, approfitta di questa quaresima. Non lasciar passare l’opportunità.

 

 

 

 

Domenica delle PALME 16 aprile dell’anno 2000

Prima: Is 50, 4-7; Seconda: Fil 2,6-11 Vangelo: Mc 14,1-15,47

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il fatto che un uomo soffra attira la nostra attenzione. Il fatto che soffra volontariamente e soffra per un altro, non sempre rientra nelle nostre categorie comuni. La liturgia di oggi ci mette sotto gli occhi la sofferenza volontaria di Gesù Cristo. "Nella sua condizione di uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" (seconda lettura). Sulle labbra di Gesù abbiamo ascoltato: "Abba, Padre. Tutto è possibile a te. Allontana da me questo calice amaro. Ma non avvenga come voglio io, ma come vuoi tu" (Vangelo). Secoli prima, il servo di Javeh, figura di Gesù Cristo, aveva pronunciato profeticamente queste parole: "Il Signore mi ha aperto l’udito, ed io non ho resistito né mi sono tirato indietro. Ho offerto le spalle a coloro che mi colpivano, la mia guancia a quelli che mi strappavano la barba; non ho volto il viso davanti agli insulti e agli sputi" (prima lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Il realismo della passione di Gesù Cristo. Il vangelo di san Marco è quello che con più realismo e perfino con una certa crudezza ci narra la passione di Gesù. La profezia del Servo di Javeh è divenuta insufficiente, per quanto le sue espressioni, all’ascolto, impressionino: colpi sulle spalle, scherni tirandogli la barba, insulti e sputi. Gesù realizza e vive una passione fisica, che scuote tutto il suo corpo; e una passione morale, una passione del cuore, che snerva la sua anima e quasi la paralizza. Sul Getsemani Gesù soffre paura, angoscia, tristezza mortale ed è preso ed ammanettato con violenza dalla gente che era venuta a lui con spade e bastoni (14,33-34.46). Nel sinedrio, dopo essere stato considerato blasfemo, alcuni cominciarono a colpirlo e a dargli degli schiaffi (14,65). Nel pretorio, i soldati romani intrecciarono una corona di spine e gliela cinsero (15,17). Sempre qui, lo colpivano sulla testa con una canna, gli sputavano, e, mettendosi in ginocchio, gli rendevano omaggio (15,19). Marco recisamente scrive: "Dopo lo crocifissero" (15, 24). L’evangelista termina il racconto dicendo: "Gesù, lanciando un forte grido, spirò" (15,37). Grido di dolore, grido in cui riassume tutta la passione.

Al lato della passione corporale, intrecciata con essa, la passione del cuore. Come si comportano i suoi? Guida lo tradisce (14,10), Pietro lo rinnega (14,66-72), tutti i discepoli lo abbandonano e fuggono (14,50). Come si comportano le autorità? Le autorità cercavano il modo di prenderlo con inganno e di dargli la morte (14,1), pagano Giuda perché tradisca il suo maestro (14,11), mandano un drappello di gente armata perché arresti Gesù (14,43), cercano un’accusa per dargli la morte (14,55), lo condannano come blasfemo (14, 63-64), aizzano la gente perché Pilato liberi Barabba e mandi Gesù al supplizio della croce (15,11-13), sul Golgota, trionfanti, si burlano di lui (15,31-32). Egli, l’innocente, è giudicato e condannato. Egli, il Signore, è schiaffeggiato da un servo, schernito dai soldati, è oggetto di scherno e di ludibrio della gente. E soprattutto, Egli, il Figlio di Dio, sente, nel suo intimo più segreto, l’abbandono del Padre (25,34). Questo realismo della passione recupera uno splendore particolare, inedito, se lo osserviamo con la certezza che Gesù lo avrebbe potuto evitare, ma non volle. Assunse tutto il dolore della passione volontariamente, nel pieno esercizio della sua libertà, come espressione suprema della sua libertà docile all’amore a suo Padre e ai suoi fratelli, gli uomini.

I frutti della sofferenza. Il primo frutto si produce nell’umanità dello stesso Gesù: "Dio lo esaltò e gli diede il nome sopra ogni nome" (seconda lettura); cioè, la sua umanità tornò alla vita, ad una nuova vita, e il Padre glorificò la sua umanità facendola partecipe della vita stessa di Dio. Il secondo frutto che i testi ci indicano è la salvezza ottenuta mediante l’amore che patisce fino all’eroismo la morte su una croce: tale amore dolente salva il ladrone che implora misericordia da lui; tale amore, che culmina con un grido impressionante, salva il centurione, che riconosce nel crocifisso il Figlio di Dio. Tali sofferenze di Gesù salvarono Pietro che, subito dopo averlo rinnegato, scoppiò a piangere come un bambino. In Pietro, nel centurione e nel buon ladrone si trova simboleggiata l’umanità che, nonostante tutto, è toccata dal dito di Cristo salvatore.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Una solitudine accompagnata. Nella società attuale non sono poche le persone che vivono in solitudine e che la sentono come una pesante lastra di pietra sopra le loro vite. Gli anziani che si sentono soli, abbandonati forse dalla loro stessa famiglia. I bambini orfani, e quelli abbandonati dai genitori alla porta di un ospedale o nell’atrio di una chiesa. I mendicanti che non hanno famiglia né un tetto sotto il quale rifugiarsi. I giovani che vivono "soli" e non poche volte con angoscia i primi problemi dell’esistenza: il vuoto di senso, l’impossibilità di un lavoro, l’angoscia di fronte al futuro, il rifugio fugace e ingannevole della droga, del sesso, dell’alcool. La solitudine degli immigranti, strappati dalle loro radici naturali, dalla loro patria e famiglia, e non poche volte maltrattati. Questi solitari forzati, e tutti gli altri che ci possono essere nel nostro ambiente, debbono trovare nei cristiani una compagnia buona e sincera, un’accoglienza fraterna, un aiuto efficace, una solidarietà aperta e perfino contro corrente, una compassione veramente cordiale. Sappiano inoltre questi solitari forzati che Gesù Cristo li accompagna nella loro solitudine e in un certo modo la vive e la condivide con loro; non soltanto questo, ma anche che Cristo assume e redime la loro solitudine con la propria, durante la sua passione e morte sulla croce. Cristo nella sua atroce solitudine seppe di essere accompagnato misteriosamente dal Padre, da sua madre Maria, dalle sante donne. Nella più inclemente solitudine, l’uomo deve sapere che qualcuno lo accompagna e prega per lui, che Qualcuno è al suo fianco.

Fiducia nel dolore. È uno dei meravigliosi insegnamenti che Gesù Cristo lascia, come una bandiera sul Golgota, all’uomo concreto e all’umanità intera. Nessuno ha sofferto come Gesù, e nessuno come Gesù ha avuto tanta fiducia in mezzo alla sofferenza crudele e spietata. A colui che crede, il dolore non fa perdere la fiducia. Quando soffri, come reagisci? Con ira contro la società, contro il tuo destino, contro Dio stesso? Con debolezza fino al punto di essere tentato al suicidio o all’eutanasia? Con stoica rassegnazione di fronte all’inevitabile? Con una fiducia matura, grande, piena di fede, luminosa di fronte al futuro? Dimmi come soffri, e ti dirò chi sei. L’atteggiamento fiducioso di Cristo nel suo Padre celeste e verso il futuro illumini noi, che siamo cristiani.

 

 

Giovedì SANTO 20 aprile dell’anno 2000

Prima: Es 12,1-8.11-14; Seconda:1Cor 11, 23-26 Vangelo: Gv 13, 1-15

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"Portò il suo amore fino alla fine" (Vangelo). Queste parole sono la chiave di comprensione della Parola di Dio in questo Giovedì santo. Questo amore è quello che celebravano annualmente gli israeliti commemorando la festa di Pasqua, festa di liberazione dalla schiavitù egizia (prima lettura). Questo amore lo manifestò Gesù in forma suprema nella lavanda dei piedi (Vangelo) e nella donazione di se stesso in pane e vino, trasformati nel suo corpo e nel suo sangue (seconda lettura). Questo è l’amore che si ripete ogni volta che i cristiani si riuniscono per celebrare la Cena del Signore (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

L’amore di Dio è storico. La storia dell’amore di Dio nei confronti dell’uomo risulta non poche volte incomprensibile, perché Dio ama sempre con un amore puro, disinteressato, che ricerca il bene della persona amata, mentre l’amore umano non sempre gode di queste caratteristiche. Inoltre, l’amore di Dio non guarda ai "diritti" della persona amata, perché l’uomo non possiede "diritti" per essere amato da Dio. Comunque, nella storia dell’amore di Dio per l’uomo, la liturgia di oggi ci viene incontro con momenti importanti di tale amore: l’esodo di Israele dall’Egitto nella seconda metà del secolo XIII a.C., e l’ultima Cena di Gesù con i discepoli per celebrare con essi la nuova Pasqua nel suo sangue. Non per merito proprio, ma per l’amore che Dio ha per Israele, quest’ultimo passa da una condizione di schiavitù ed oppressione in terra straniera ad una situazione di libertà e in cammino verso la terra promessa. Israele sapeva perfettamente che non si sarebbe mai potuto liberare da solo dalla mano potente del faraone egizio. Ma Dio, che ama Israele, sì, lo poteva, e lo fece in modo sorprendente, imprevedibile, sconcertante.

Passarono i secoli e il popolo israelita si dimenticò di Javeh e delle sue meraviglie, continuò il proprio cammino e si infangò nel peccato. I profeti, sapendo che Dio è fedele al suo amore, cominciarono a parlare di un nuovo esodo, di una nuova Pasqua, come qualcosa che doveva venire nel futuro e rivelare in modo ancor più meraviglioso e sorprendente l’amore di Dio. Gesù Cristo è il nuovo esodo e la nuova Pasqua. Egli realizza la nuova liberazione dalla schiavitù del peccato e concede ai liberati il dono di poter entrare nella patria definitiva, la Gerusalemme celeste. Questo amore definitivo ed ultimo di Dio verso l’uomo è ciò che i primi cristiani celebravano quando si riunivano per la Frazione del Pane, per mangiare il Corpo e il Sangue di Cristo, che alimenteranno il nostro sguardo per tutta l’eternità, nel cielo.

L’amore "umile" di Dio. Nell’antico esodo, Dio si mostrò al faraone e agli israeliti con potere straordinario e temibile; nel nuovo esodo, inaugurato da Gesù Cristo, Dio ci mostra il suo amore nell’umiliazione e nell’abbassamento, con cui ci invita a cambiare le nostre categorie. In effetti, siamo soliti pensare, in modo molto umano, che Dio può trionfare soltanto con la forza e il potere, ed abbiamo bisogno di vedere come Egli trionfa attraverso la via irriconoscibile dell’umiliazione. Nell’ultima Cena Gesù mostra l’amore "umile" di Dio nel lavacro dei piedi ai discepoli. È impressionante! Si fa schiavo per indicare che è Signore. Si umilia per manifestare la sua divina grandezza.

L’amore "umile" di Dio continua ad agire nell’Eucarestia. Innanzitutto, umiliandosi nelle specie del pane e del vino, fino al punto di non essere riconosciuto da molti, poi, accettando, con un amore fuori da ogni immaginazione, che perfino labbra peccatrici e sacrileghe lo possano far presente tra gli uomini, o che possa essere ricevuto indegnamente da uomini senza coscienza. Fino a tali estremi inverosimili giunge l’umiliazione dell’amore di Dio per gli uomini!

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Vivere è servire amando. Nelle normali categorie umane mettiamo in relazione "vivere" con "passarsela bene", "godere", "aver successo". Non che ci sia da riprovare tutto ciò, ma nemmeno da identificarlo con "vivere". Almeno il concetto cristiano del "vivere" si mette in relazione più con il "servire", non in una qualsiasi maniera, ma per amore. Il grande pericolo che ci può insidiare è confondere il servire gli altri con il servirsi degli altri. Questo può succedere dentro la famiglia: i genitori si servono dei figli invece di servirli, o i figli dei genitori, il che è anche possibile. Può succedere nella parrocchia: servirsi della parrocchia o del parroco per il proprio beneficio o, al contrario: che il parroco si serva dei suoi fedeli per fini egoisti. Ciò può accadere allo stesso modo in un’impresa, in una banca, in un ufficio amministrativo, in un ministero. Perché tutti sappiamo che le istituzioni sono per il servizio del bene comune, ma non poche volte noi uomini le mettiamo al servizio del nostro bene particolare. Chi veramente sia cristiano e voglia continuare ad esserlo, dovrà esaminarsi a fondo per vedere se per lui la vita è un servizio, come lo fu per Gesù Cristo, e se sa servire gli altri per amore, o piuttosto se serve invece il suo proprio io, servendosi degli altri.

È l’ora dell’incontro. Quando due persone si amano, cercano di incontrarsi con frequenza per sentire le vibrazioni dell’amore, per comunicarsi le loro cose e ripetersi in vari modi che si amano. Un amore dove non si dà l’incontro, risulterà un amore "virtuale", estraneo alle esigenze più perentorie dell’amore. L’ultima Cena è l’ora dell’incontro con Gesù Cristo sotto il velo del mistero, e l’Eucaristia è il luogo dove si incontra l’Amato. Quando si ama Gesù, e lo si ama con passione, come l’unico amore della vita, allora si anela all’ora e al luogo dell’incontro. Gesù Cristo non ha orari per l’appuntamento, siamo noi a poter scegliere "l’ora dell’incontro". Può essere la mattina, prima di andare al lavoro, può essere alla fine della serata, quando, affaticati dall’attività quotidiana, ci ringiovaniamo al contatto con Gesù Cristo Eucaristia. Può essere in qualsiasi momento della giornata, perché Egli sta sempre in attesa. L’importante è che ogni giorno io possa davvero incontrarmi con l’amore di Gesù Cristo e, al contatto col fuoco del suo amore, possa sentire che anche il mio cuore si accende di amore per Dio e di amore per gli uomini. Gesù Cristo, tuttavia, è un amante difficile: non si dà al primo incontro, il suo amore non è come quello del fiore di un giorno, il suo amore è profondo, trasformante, eterno. Si deve perseverare nell’incontro e si deve perseverare nell’amore. Rendiamo grazie a Dio del fatto che ci siano molte persone per cui l’incontro quotidiano con Gesù Cristo nell’Eucaristia sia tanto imprescindibile come il respirare. Sei tu una di queste?

 

 

 

 

 

 

 

 

Venerdì SANTO 21 aprile dell’anno 2000

Prima: Is 52,13 - 53,12; Seconda: Eb 4,14-16; 5, 7-9 Vangelo: Gv 18, 1-19, 42

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"Noi", "nostri" sono termini ripetuti nei testi liturgici di questo venerdì santo. Non è un "noi" senza alcuna aggiunta, ma con una nota molto peculiare: in quanto peccatori. Nel quarto canto del Servo di Javeh i termini sono frequenti: "Con le sue piaghe ci guarì", "noi lo credevamo castigato", "portava i nostri dolori", "erano le nostre ribellioni quelle che lo trapassavano" ecc. (prima lettura). Nella seconda lettura, presa dalla lettera agli Ebrei, troviamo frasi come "manteniamoci fermi nella fede che professiamo", o "Non è egli un sommo sacerdote incapace di aver compassione delle nostre debolezze". Anche nel Vangelo, benché non vengano impiegati questi termini, essi sono impliciti in tutta la narrazione della passione e morte di Gesù secondo san Giovanni, i cui destinatari siamo noi, gli uomini peccatori.

MESSAGGIO DOTTRINALE

Gesù, servo di Javeh. Il mistero di Gesù, uomo di dolori, costituisce un contrappunto e una sfida alla mentalità comune dei mortali. È la sfida formidabile della croce, non come supplizio o castigo, ma come strumento di salvezza e trono di grazia. Nel secolo V prima di Cristo, l’autore dei canti del Servo di Javeh intuì già con grande realismo la sfida, imponente per la ragione umana, di un uomo amato da Dio e allo stesso tempo umiliato nella sua dignità fino al punto di "non sembrare uomo né avere aspetto umano". Come è possibile tale situazione? Non sono gli uomini quelli che la rendono possibile, ma unicamente il potere di Dio. Certamente, il potere di Dio risplende nella benedizione che concede ai suoi eletti e amici, e questo, la mente umana lo percepisce con chiarezza. Ma non risulta tanto chiaro per l’uomo lo splendore del potere divino nel disprezzo, nella sofferenza e nella morte ignominiosa di coloro che Egli ama. Come comprendere che il potere divino ci si può mostrare tanto impotente? Ecco il mistero del Servo di Javeh, il mistero di Gesù nelle lunghe ore della notte del giovedì e del venerdì di passione. Gesù, soffrendo fino alla morte di croce, incarna in sé e realizza pienamente la figura del Servo di Javeh, e mette così in evidenza il grande mistero del potere di Dio, sconcertante se lo consideriamo isolatamente, ma efficace e profondo se non lo separiamo dal mistero della resurrezione. Gesù Cristo, servo di Javeh, è uno dei volti di Dio nel racconto della passione.

Cristo, sommo sacerdote. La lettera agli Ebrei ci offre un altro volto di Gesù: quello di sommo sacerdote che espia per i peccati del popolo. Nella liturgia ebraica, soltanto il giorno dell’espiazione il sommo sacerdote poteva scaricare sul capro espiatorio i peccati di tutta la nazione, ed entrare nel sancta sanctorum così purificato e, alla presenza stessa di Dio, offrire a Lui il sangue purificatore delle vittime sacrificate. Per noi, cristiani, il vero giorno dell’espiazione è il venerdì di passione, in cui Gesù squarcia il velo del tempio, entra nel santuario di Dio ed offre se stesso come vittima di propiziazione non soltanto per i peccati di Israele, ma di tutti i popoli. Il sangue di Gesù sofferente è il sangue prezioso del Figlio che purifica i peccati del mondo e riconcilia l’umanità con Dio. Nella passione, Cristo, sacerdote della nuova alleanza, apre le porte del perdono e della salvezza a tutti gli uomini ben disposti: "si fece causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono". Per l’uomo salvarsi equivale, pertanto, a riconoscere Cristo come sommo sacerdote della nuova alleanza nel suo sangue.

Cristo, re sul trono della croce. È qualcosa di caratteristico del vangelo secondo san Giovanni il presentare la figura di Gesù, in tutto il cammino della passione, come un gran re che va a prendere possesso del suo regno. Sul Getsemani Egli rivela, a coloro che vogliono catturarlo, che abbraccia liberamente la passione, mediante un gesto di potere divino (Gv 18,6). Ad Anna risponde con una dignità veramente regale (Gv 18, 20.21). A Pilato confessa la sua regalità, una regalità assestata sul potere della verità e dell’amore (Gv 18, 36-37). Pilato, da parte sua, presenterà Gesù davanti a giudei con queste parole: "Ecco il vostro re!" (Gv 19,14). Infine, anche se i giudei hanno dichiarato di non avere altro re che il cesare, Pilato comanda di collocare sulla croce un cartello con questa iscrizione: "Gesù di Nazaret, re dei giudei" (Gv 19,19), e oltretutto in tre lingue (ebraico, latino e greco), perché tutto il mondo lo venisse a sapere. Soltanto Dio può fare della croce un trono, di un giustiziato un re sovrano, di uno straccio umano l’uomo nuovo, prototipo dell’umanità. Sulla croce rifulge il volto di Cristo, insanguinato e deforme, ma già trasfigurato da un potere regale che lo incorona e lo esalta, e lo costituisce vincitore del peccato e della morte, Signore degli uomini e della storia.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Gesù, fratello universale. Si è soliti dire che tutti siamo fratelli perché tutti siamo figli di Adamo. Come cristiani, dobbiamo dire, inoltre, che siamo fratelli perché Cristo ci ha affratellato tutti facendoci figli di Dio. Gesù, tanto per la sua condizione umana come per la sua filiazione divina, è il fratello universale: nella sua vita amò tutti, perdonò tutti, accolse tutti, a tutti offrì la sua salvezza, tutti volle aiutare col suo potere sulle forze della natura o della storia. È un fratello che ci comprende, perché ha vissuto l’esperienza umana in pienezza, è stato tentato come noi, ha sofferto come noi e più di noi. È un fratello il cui potere ci rafforza davanti al nostro peccato e debolezza, il cui amore ci stimola ad amare i nostri fratelli come egli ci ama, il cui aiuto ci conforta nei momenti di prova e di difficoltà, la cui consolazione ci infonde pace e gioia anche nel dolore, la cui grandezza di spirito ci eleva verso le altezze di Dio e dei valori cristiani. Dobbiamo confessare Gesù come fratello universale davanti agli altri, perché egli confessi noi davanti al Padre celeste. Tutti siamo fratelli di Gesù perché ci ha redento, e tutti siamo chiamati a praticare la fraternità in Cristo Gesù, il fratello vero che mai ci verrà meno. In un mondo in cui i legami familiari sono a volte tanto effimeri e fragili, deve guadagnare consistenza sempre maggiore la fraternità fondata in Gesù Cristo.

Fiducia in Cristo salvatore. Gesù, come Servo di Javeh, ha caricato si di sé i nostri peccati. In quanto sommo Sacerdote della nuova alleanza ha squarciato il velo che separava l’uomo da Dio e ha dato accesso all’uomo alla stessa intimità del Padre e del mistero di Dio. Come re, che ha il suo trono sulla croce, ha dato dignità al dolore umano e lo ha posto al servizio del suo regno di verità, di giustizia e di amore. Come non avremo, noi, fiducia in lui? È la fiducia di chi si appoggia sulla roccia e non su sabbia mobile; di chi serve un re potente, che ci assicura la vittoria sul nostro egoismo e sul nostro peccato, qualsiasi esso sia; di chi, come sommo ed eterno sacerdote, ci purifica da ogni macchia e ci concede il dono della sua grazia ed amicizia. Fiducia perché è un re, non altezzoso, ma mansueto ed umile di cuore; perché è il servo di Javeh, ben cosciente che è venuto non ad essere servito, ma a servire e a dare la sua vita in riscatto di molti; perché è un sommo sacerdote che ci comprende, dato che apprese soffrendo quanto costi obbedire (Eb 5,9). Sarà capace la nostra sfiducia di vincere il suo amore e il suo dono di sé? Ascoltiamo con gioia la voce di Gesù: "Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo".

 

 

Veglia PASQUALE 22 aprile dell’anno 2000

Prima: Es 14,15-15,1; Seconda: Rom 6, 3-11 Vangelo: Mc 16, 1-8

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Camminiamo in una vita nuova, poiché Cristo è risorto". Questa vita nuova del cristiano, della quale ci parla la lettera ai Romani (seconda lettura), è soltanto partecipazione della vita nuova di Cristo risorto, cioè, di colui che vive per sempre (vangelo). Nella prima lettura vediamo Dio che agisce in favore degli israeliti: il passaggio del mar Rosso, che è passaggio di frontiera, è soprattutto cambiamento di vita, da una vita miserabile in schiavitù ed oppressione a una vita di libertà. Il cristiano, mediante il battesimo, raccoglie tutta l’esperienza del popolo di Israele (passaggio alla libertà per mezzo della vittoria sul peccato) e il mistero insondabile della resurrezione di Cristo (passaggio alla vita nuova, quella immarcescibile e immortale) (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

La vita nuova, dono di Dio. La vita nuova è la vita che non conosce frontiera alcuna di tempo. È vita, pienezza di vita, ma di natura diversa dall’esistenza temporale, che è sottomessa a legge e misura. La prima espressione di vita nuova ce la offre la prima lettura: è la vita nuova nella libertà. Perché sia autentica vita non basta la "libertà da" (dalla schiavitù di Egitto e dalla oppressione del faraone), si deve andare oltre e giungere alla "libertà per" (per servire Dio nella terra promessa, che è la terra della propria identità). Si tratta di esser liberi per vivere servendo il Dio vivo. Questo è dono di Dio, non merito né frutto delle forze umane. Senza l’intervento di Dio, Israele continuerebbe ad esperimentare sulla propria carne la disgrazia della schiavitù. Tale dono di Dio ad Israele raggiunge il suo vertice nel dono della vita immortale al corpo di Cristo risorto, e si prolunga nella vita di grazia e di verità, che batte nel cuore di ogni credente.

Cristo e la vita nuova. Le donne, delle quali ci parla il testo evangelico, andavano in cerca di un cadavere, e si incontrarono con il Vivente: "È risorto. Non è qui". L’angelo, messaggero di Dio, annuncia alle donne l’entrata di Gesù nella vita nuova, quella vita definitiva, al di sopra della temporalità, vita che emana dalla vita stessa di Dio. Nella logica dell’evangelista "il sepolcro è vuoto perché Cristo è risorto" e non "Cristo è risorto perché il sepolcro è vuoto". L’importante non è il sepolcro vuoto, il che potrebbe ammettere altre spiegazioni, ma che Cristo è vivo, è entrato con tutta la sua umanità nella sfera divina di una vita nuova, senza fine, senza frontiere di spazio, di tempo, di materia. La sua vita nuova è primizia della nostra, speranza sicura di una vita che ci appartiene, non perché l’abbiamo vinta al gioco, ma perché ci è stata concessa per il battesimo: "Se siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo anche con lui".

La vita nuova e il cristiano. Essere cristiano è partecipare della vita stessa di Cristo, logicamente, non della vita terrena di Gesù, cosa impossibile, ma della sua vita in Dio e per Dio, nella sua vita di eterno Vivente. Per mezzo del battesimo viene concesso a noi uomini il dono iniziale e primigenio di partecipare della vita nuova di Cristo; per mezzo degli altri sacramenti, della vita di preghiera, della sottomissione filiale alla volontà di Dio, la partecipazione iniziale va crescendo ed acquistando maturità, assomigliando il più possibile alla vita di Cristo, fino al punto di poter dire con san Paolo: "Vivo, io, ma non sono più io quel che vive, è Cristo che vive in me", o in termini della liturgia di oggi, fino al punto di "essere vivi per Dio, in unione con Cristo Gesù" (Rom 6,11). A questa vita nuova siamo chiamati tutti noi uomini, e tutti riceviamo la sufficiente grazia di Dio per rispondere affermativamente alla chiamata. Il solo fatto di pensare a questa vita nuova riempie l’anima di gioia, tanto più lo sperimentarla, già in questa stessa vita temporale, anche se sotto il velo della carne.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Vivere per Dio. La vita di cui ci parla la liturgia di oggi è un vivere per Dio. Non si riferisce, pertanto, ai sei, venticinque, quaranta, sessantatré o ottantanove anni che un uomo possa vivere in questo mondo. Non si riferisce nemmeno direttamente alla vita virtuosa e di grande elevazione morale, che potrebbe ottenersi, strettamente parlando, con le proprie forze umane. Si tratta di una vita, caratterizzata dalla presenza attiva, amorosa ed efficace di Dio nel cuore del credente. Cioè, una partecipazione storica, concreta, umana, della stessa vita di Dio. La vita morale del cristiano deve essere frutto di questa vita divina nell’anima, per cui la vita morale non sarà mai separata dalla fede. Chi vive per Dio, vive per gli altri, giacché negli altri scopre la presenza viva di Dio. Chi vive per Dio, vuole comunicare ad altri questa stessa vita divina, e si trasforma in apostolo della vita vera. Chi vive per Dio, traspira felicità e così contagia altri e risveglia in essi il desiderio di Dio, di vivere per Dio come lui. Vivo io per Dio? Mi sento felice di vivere per Dio?

Il battesimo, sacramento di vita. La cosa più normale tra genitori cristiani è voler battezzare i propri figli a pochi giorni o mesi dalla nascita. Tramite il registro civile, il bambino entra a far parte della società umana e della comunità in cui è nato. Tramite il battesimo, entra a far parte della comunità ecclesiale e della parrocchia in cui è stato battezzato. Per mezzo del registro civile, comincia la vita nella società; per mezzo del battesimo, comincia la vita nella fede della Chiesa e nella Chiesa, comunità di fede. I genitori, ed a ragione, si interessano molto perché il bambino cresca sano, forte, con uno sviluppo normale, con un peso equilibrato. Si preoccupano ugualmente perché impari a poco a poco a parlare, a leggere e scrivere; perché acquisisca una buona educazione, al fine di prepararlo nel miglior modo possibile per la vita ed assicurarne il futuro. Purtroppo si interessano meno, in non pochi casi, perché cresca nei figli la vita divina, la vita di fede che cominciò il giorno del battesimo. Dimenticano, lamentevolmente, che la crescita dei loro figli nella fede e nella vita di preghiera, di amicizia con Dio, costituisce un fondamento fermo della loro vita posteriore e della loro felicità nel presente e nel futuro. Pensiamo che un vero credente sarà sempre e comunque un uomo che emana felicità e pace.

 

 

Domenica di RESURREZIONE 23 aprile dell’anno 2000

Prima: At 10,34.37-43; Seconda: Col 3, 1-4 Vangelo: Gv 20, 1-9

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Noi cristiani siamo chiamati ad essere "testimoni di speranza" in mezzo al mondo che ci circonda. Il vangelo menziona diversi atteggiamenti davanti al sepolcro vuoto: quello del discepolo amato che "vide e credette" è l’unico che permette l’apertura alla speranza che Cristo sia risorto. Pietro, nella casa di Cornelio, il centurione romano che prestava il suo servizio a Cesarea Marittima, dà aperta testimonianza che Gesù è stato risuscitato da Dio di tra i morti, infondendo così una speranza nel mondo pagano, rappresentato dal centurione (prima lettura). Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di san Paolo ai Colossesi, l’apostolo invita a porre la speranza non nelle cose del mondo, ma nelle cose di lassù, in Cristo risorto e glorioso.

MESSAGGIO DOTTRINALE

Cristo risorto, nostra speranza. Una delle questioni fondamentali di ogni esistenza umana è sapere che cosa si può sperare o dove porre la propria speranza verso il futuro. E soprattutto, se è possibile una speranza che apra la porta del cuore umano oltre la soglia della morte. Questo problema percorre praticamente l’umanità dai suoi stessi inizi, e corrisponde ad una esigenza naturale dell’essere umano alla sopravvivenza oltre la corruzione corporale del composto umano. Soddisfa l’uomo la sola sopravvivenza nel ricordo degli altri, in un mondo superiore, spirituale ed impersonale? Soddisfa l’uomo la mera immortalità dell’anima? La verità è che all’anima individuale già manca qualcosa senza il corpo, e il corpo cessa di essere tale senza riferimento all’anima. La magnifica ed originale convivenza in cui hanno vissuto in un essere umano con nome e cognome, la vogliono prolungare nella vita futura. Qui entra appieno la fede cristiana, e ci pone davanti agli occhi la resurrezione di Gesù Cristo. Cioè, c’è qualcuno in cui la convivenza psichico-somatica, infranta dalla morte, si prolunga nell’eternità mediante la resurrezione. Questi è Gesù Cristo. Pertanto, Cristo risorto è l’unico che può dar fondamento solido, inamovibile, sicuro alla nostra speranza.

Testimoni della resurrezione, testimoni di speranza. È vero che gli autentici testimoni sono gli uomini, non gli oggetti. Tuttavia, non è sbagliato affermare che il sepolcro vuoto ci dà una testimonianza, benché imperfetta, della resurrezione e della speranza cristiana. La sua testimonianza è ambigua, perché il fatto di essere vuoto può ricevere altre spiegazioni, ma non c’è dubbio che una di esse, la più plausibile per coloro che hanno vissuto con Gesù ed hanno ascoltato i suoi insegnamenti, è la resurrezione. Molti daranno un’interpretazione errata alla testimonianza del sepolcro, allo stile di Maria Maddalena: "Si sono portati via dal sepolcro il Signore, e non sappiamo dove lo hanno posto"; molti altri, come Pietro, davanti alla testimonianza, adotteranno l’atteggiamento da notaio che con fredda obiettività certifica il fatto: "Entrò nel sepolcro, e vide le bende per terra". Ma ci saranno anche molti altri che, come Giovanni, non soltanto certificheranno il fatto, ma che "vedranno e crederanno, comprendendo la Scrittura, secondo la quale Gesù doveva resuscitare dai morti". Questa testimonianza del sepolcro vuoto è per tutti una testimonianza di speranza. Giungerà un giorno, conosciuto soltanto da Dio, in cui i corpi resusciteranno e convivranno di nuovo in un eterno e gioioso abbraccio con la propria anima.

Al di sopra della testimonianza del sepolcro, e di molto maggior valore, è la testimonianza convinta di Pietro in casa di Cornelio o quella di Paolo nella lettera ai cristiani di Colossi. Pietro dirà: "Noi siamo testimoni. Egli ci comandò di dare testimonianza. Di lui danno testimonianza tutti i profeti". Paolo, da parte sua, esorterà i colossesi: "Giacché siete risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù". Si testimonia qualcosa di cui si è convinti, qualcosa per cui si è disposti a dare la vita, se fosse necessario. Dal fatto stesso della testimonianza sorge, per propria forza, la speranza: Speranza nella resurrezione, speranza nella vita con Cristo.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Una speranza che non delude. Nella vita noi uomini abbiamo molte piccole speranze. Sono speranze legittime, buone, ma povere, molto parziali ed incomplete. Speriamo di vivere una vita lunga e di vedere come sarà il mondo tra quaranta, cinquanta anni. Speriamo di trovare un lavoro buono e ben retribuito. Speriamo, se siamo giovani, di avere il denaro necessario per comprare il proprio appartamento o la macchina nuova. Speriamo che i bambini crescano sani, conducano bene i loro studi, si comportino sempre bene in casa. Speriamo che ci tocchi la lotteria o di vincere al ‘Totocalcio’, o che vinca la nostra squadra preferita di calcio o di baseball. Speriamo. Sì, l’uomo è un essere nato per sperare. Ciò che succede è che tutte queste piccole speranze, o non le raggiungiamo, e allora restiamo delusi o, una volta che le otteniamo, non soddisfano la nostra capacità di speranza e ci rimandano ad altre nuove ed effimere speranze come quelle già raggiunte. Soltanto Dio può soddisfare pienamente ogni nostra capacità di speranza, già qui in questo mondo in cui viviamo e lavoriamo, e nella vita dopo la morte, in cui lo vedremo così come è e lo ameremo con tutto il nostro essere. Sappiamo che non ci delude, perché è Dio e il suo nome è ‘il Fedele’. Ma inoltre, per la fede, siamo certi che non delude perché Gesù Cristo, risorto, è entrato nell’eternità con la sua natura umana, e vive l’esperienza di una speranza trasformata in unione e amore indicibili con Dio, suo Padre.

Una speranza per tutti. Dio vuole che tutti si salvino, e pertanto ha chiamato tutti a godere della beatitudine del cielo. Tutti non vuol dire "tutti i buoni" secondo le nostre categorie umane. Non significa nemmeno "tutti i cattolici" o "tutti i cristiani". Tutti significa semplicemente tutti. Cioè, l’intera umanità. La speranza è una porta aperta a tutti: i buoni e i cattivi, i cristiani e i non cristiani, i grandi e i piccoli, i forti e i deboli, i famosi e gli sconosciuti, i credenti e gli increduli. Questa è una grande e bella verità del cristianesimo: nessuno è escluso dalla speranza cristiana; la disperazione non può avere l’ultima parola. Si dice che oggi molti uomini hanno perduto la speranza o semplicemente che l’hanno messa in letargo. Non sarà un aspetto importante della vocazione cristiana, nel mondo di oggi, il dare ragione della nostra speranza? Una speranza grande, con la maiuscola, che non sfuma con le piccole speranze legittime, ma che in esse si sviluppa, si rinvigorisce e si accresce.

 

 

Seconda Domenica di PASQUA 30 aprile dell’anno 2000

Prima: At 4, 32-35; Seconda: 1Gv 5, 1-6 Vangelo: Gv 20, 19-31

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Fede e pace" è il binomio in cui la liturgia di questa domenica riassume il messaggio fondamentale. Nel testo evangelico le troviamo insieme: innanzitutto la pace come dono di Cristo risorto ai suoi discepoli: "La pace sia con voi", poi la confessione di fede dell’incredulo Tommaso: "Signore mio e Dio mio!" e l’aggiunta di Gesù: "Credi perché mi vedi? Beati quelli che senza aver visto crederanno". Nella prima lettura si indicano gli effetti della fede e della pace: l’unione di menti e cuori, la comunione dei beni, la testimonianza degli apostoli su Cristo risorto. Infine, nella prima lettera di san Giovanni si mette in risalto il grande potere della fede, che è capace di vincere il mondo (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Fede in Cristo risorto. I quattro vangeli dedicano le ultime pagine alle apparizioni di Gesù ai suoi. Sono apparizioni che presuppongono una certa fede in Gesù, anche se non nella sua resurrezione. Mediante esse Gesù non soltanto conferma la fede nella sua persona, ma ottiene che il mistero della resurrezione faccia parte del contenuto della fede dei discepoli. In questo modo Gesù completa la loro fede, l’illumina con uno splendore che resta fino ai nostri giorni, e infonde loro una pace che nessuno potrà strappare dal loro cuore. I discepoli non erano preparati per l’incontro scioccante con Cristo risorto. Nella loro immaginazione ciò si presentava come qualcosa di impossibile, incredibile, pura fantasia di donne impressionabili e febbricitanti: il tempo le avrebbe riportate alla realtà. Le apparizioni di Gesù, pertanto, dovettero cadere tra di loro come una "bomba" che li lasciò terrorizzati e stupefatti. Era possibile? Era vero? Sì, non sono visioni, è lo stesso Cristo che abbiamo conosciuto prima che venisse crocifisso. Sì, porta ancora nel corpo le impronte gloriose dei chiodi. E allora successe il miracolo: credettero nella resurrezione di Cristo, credettero nella resurrezione dell’uomo. E non poterono più cessare di comunicare, a coloro che trovarono sul loro cammino, questa esperienza ineffabile e magnifica. E grazie ad essi, alla loro testimonianza di fede, noi oggi, dopo venti secoli, continuiamo a credere nella resurrezione.

L’efficacia della fede. Una fede che non cambia la vita dell’uomo, non trasforma le sue categorie mentali e vitali, relazionali ed operative, non è vera fede in Cristo risorto. San Luca, ben cosciente di ciò, ci parla dell’efficacia della fede tra i primi cristiani di Gerusalemme. Il primo frutto è l’unione nel medesimo pensare e nel medesimo volere, perché il pensiero si nutriva dell’insegnamento degli Apostoli e il loro volere era guidato unicamente dall’amore sincero degli uni per gli altri. Quando l’esperienza di Cristo risorto occupa il centro della vita, allora le differenze del pensare e del volere contano molto poco, fino al punto di poterle facilmente sottomettere al potere dell’amore sincero. Un secondo frutto è la comunità dei beni, per farla finita non soltanto con le differenze ideologiche, ma anche con le differenze economiche, portando a compimento il desiderio di Mosè in Deut 15,4: "Non ci saranno poveri tra i tuoi". Il terzo frutto è la testimonianza che gli Apostoli danno di Cristo risorto: la frequenza, l’ardore, l’audacia con cui predicano questo mistero che ha trasformato la loro esistenza per sempre. Non possono non parlare di ciò che hanno visto ed udito, come dirà Pietro in un altro episodio degli Atti degli Apostoli. Questa efficacia della fede si manifesta soprattutto mediante la pace, quella pace integrale che impregna la persona intera del credente in Cristo e che fiorisce nella gioia e soprattutto nell’amore. Quella pace che è un dono dello Spirito che Cristo risorto "ha infuso", come in una nuova creazione, sui suoi discepoli.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

La fede che vince il mondo. Sotto la parola "mondo" il Nuovo Testamento significa varie cose: l’universo, l’umanità, e, in senso morale, tutto ciò che si oppone a Cristo e alla sua rivelazione, tutto ciò che è peccato. E quest’ultimo significato è quello al quale ci riferiamo, cioè la fede è l’unica che può vincere il mondo. Le leggi umane possono migliorare il comportamento dei cittadini, ma non sconfiggere il peccato; ancor più, alcune volte tali leggi sono leggi "mondane", giacché permettono o perfino promuovono azioni che attaccano la stessa dignità dell’uomo. Le istituzioni (istituzioni benefiche, sociali, educative, religiose, ecc.) aiutano l’uomo nella costruzione di se stesso, ma nemmeno esse possono strappare dall’umanità il mondo di peccato e di opposizione a Gesù Cristo e al suo messaggio. Meno ancora può sradicare il male e il peccato, di sé e degli altri, l’essere umano lasciato alle sue proprie forze. Potrà portare a compimento una lotta titanica, eroica ma, nel suo tentativo, sarà sempre sull’orlo del fallimento. L’unica cosa che, con assoluta certezza e garanzia, possa vincere ed annichilire i mali del mondo è la fede in Cristo risorto. Una fede intera, che non esclude nulla del mistero di Cristo; una fede viva, che anima e dà significato alle azioni e alle attività dell’uomo; una fede operante, che si concretizza in opere di giustizia, di solidarietà, di carità cristiane; una fede ardente ed appassionata, che comunica la sua passione agli altri. La tua fede, vince realmente il mondo? Sono queste le caratteristiche della tua fede, della fede dei cristiani con cui convivi?

Ogni domenica è Pasqua. La fede in Cristo risorto, la gioia e l’amore che provoca la fede nella resurrezione, debbono esser presenti ed attive tutti i giorni della nostra vita. Ma in modo speciale la domenica, in cui celebriamo precisamente il trionfo di Cristo sulla morte, sul peccato e su ogni male. Ogni domenica noi cristiani festeggiamo il passaggio (Pasqua vuol dire passaggio) di Cristo risorto e glorioso attraverso le nostre vite. Un passaggio di perdono, di salvezza, di gioia, di amore. Un passaggio con cui Cristo glorioso ci invita a fare lo stesso; a perdonare, ad aiutare gli altri a salvarsi, a godere e ad amare. Se noi cristiani vivessimo con sempre maggiore coscienza il ricco significato della domenica! A volte mi domando perché la domenica risulta tanto noiosa per molti, perché per altri è soltanto occasione di sfrenatezza, perché in altri casi si vive sotto il motto della passività e della pigrizia... Non sarà forse che molti cristiani hanno un’idea sbagliata e ingiusta di ciò che la domenica è nei disegni di Dio? Occasione stupenda per leggere nel catechismo della Chiesa i numeri dedicati a questa celebrazione ecclesiale (nn. 2174-2188; 1166-1167).

 

 

Terza Domenica di PASQUA 7 maggio dell’anno 2000

Prima: At 3, 13-15. 17-19; Seconda: 1Gv 2,1-5 Vangelo: Lc 24, 35-48

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Sembra strano che nel periodo pasquale si parli di conversione, ma mi sembra che in questa parola si incentri l’attenzione della liturgia domenicale. Devono convertirsi innanzitutto i discepoli di Gesù per accettare, senza dar adito ad alcun dubbio, il mistero della resurrezione (vangelo). Debbono convertirsi i giudei, perché non accettare Gesù risorto come Messia vuol dire praticamente autodistruggersi (prima lettura). Debbono convertirsi, vivere in permanente stato di conversione, i cristiani, per non lasciarsi abbagliare dalla "gnosi" e per non separare in tal modo dogma e morale, religione ed esistenza cristiana, in contrasto con il modo di vivere di Gesù Cristo (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Conversione dei discepoli. I discepoli di Gesù non furono certamente degli eroi nelle lunghe ore della passione e morte del Maestro. Nella loro mente la resurrezione di Gesù non occupava nemmeno nessun luogo. Neanche nella loro immaginazione o nel loro ricordo. Erano ottusi e ciechi al mistero. Erano scossi dal suo "fallimento" e guardavano il futuro come un ritorno al passato. Avevano necessità di convertirsi, di cambiare atteggiamento, di tornare sul giusto cammino, per questo avevano urgente bisogno che lo stesso Gesù desse loro una mano, presentandosi a loro vivo ed identico a quello che avevano amato e seguito per alcuni anni. Avevano bisogno di vedere di nuovo Gesù, di ascoltarlo, di toccarlo. Avevano bisogno che egli spiegasse loro il senso degli ultimi tristi avvenimenti, che erano già preannunciati nella stessa Scrittura (la Legge, i Profeti e i Salmi). Avevano bisogno che Gesù infondesse loro di nuovo fiducia e li lanciasse con nuovo impulso alla missione: "Di questo voi siete testimoni". Davanti a tanto schiaccianti dimostrazioni di amore e di accondiscendenza da parte di Gesù, si cominciò a realizzare nell’anima dei discepoli il processo di conversione, e Gesù aprì loro l’intelligenza perché comprendessero le Scritture. La conversione dei discepoli non partì da una loro iniziativa, ma dall’azione di Cristo risorto nelle loro menti e nel loro cuore.

La conversione dei giudei. I giudei, davanti alla guarigione del paralitico compiuta da Pietro, restano ad occhi aperti. Pietro approfitta di questo momento favorevole per dare testimonianza di Gesù e della sua resurrezione. Come se dicesse loro: "Non è ammirazione ciò che deve invadere il vostro spirito, ma pentimento e conversione". È vero che hanno agito per ignoranza, (sebbene sembri essere una ignoranza non innocente, ma colpevole), ma ciò che hanno fatto è qualcosa di molto grave: "Avete consegnato e avete rifiutato Gesù davanti a Pilato; avete rifiutato il Santo e il Giusto; avete chiesto che si perdonasse un assassino; avete ucciso l’autore della vita". Non soltanto i giudei avevano fatto qualcosa di molto grave, ma fecero altresì qualcosa di sgradevole agli occhi di Dio, poiché Egli risuscitò Gesù, il Messia sofferente, dai morti. Davanti alla colpevolezza e al disgusto di Dio per il loro comportamento, che si può fare? Chiudersi nel guscio della loro ignoranza colpevole? Considerare ridicola e infondata la testimonianza di Pietro? Ma allora, come spiegare la guarigione del paralitico? Pietro indica loro il vero cammino: "Pentitevi e convertitevi, perché siano cancellati i vostri peccati" (prima lettura).

La conversione permanente dei cristiani. Cristiano vuol dire convertito alla via di Cristo, alla fede in Cristo. Ma la conversione non è qualcosa di puntuale, ma costante e duraturo per tutta la vita. La nostra conversione e la nostra fede possono essere alterate, essere in pericolo davanti a nuovi modi di pensare e di comportarsi; possono soffrire il contatto pernicioso di idee ed atteggiamenti che non provengono da Dio, ma dal padre della menzogna. È ciò che stava succedendo ai cristiani a cui Giovanni indirizza la sua prima lettera. La loro fede correva il pericolo di essere contaminata in qualcosa dal virus del movimento gnostico. Forse pensavano che, essendo stati illuminati da Cristo risorto, avevano raggiunto il massimo grado di conoscenza (gnosi), e credevano, per questo stesso fatto, di essere già salvati, separando in tal modo la loro fede in Cristo risorto e la loro condotta morale. Giovanni va loro incontro, mettendoli in guardia davanti al pericolo: "Colui che dice: "io lo conosco", ma non rispetta i suoi comandamenti, è un bugiardo". Non basta credere, è assolutamente necessario unire le opere alla fede, adempiere ai comandamenti come esigenza della conoscenza che abbiamo ricevuto da Cristo risorto. Qui è il segreto della conversione permanente.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Aprire gli occhi. A chi è cieco o tiene gli occhi chiusi, risulta impossibile vedere la realtà. Non può vedere la bellezza della luce e dei colori, non può vedere gli ostacoli che si interpongono nel suo cammino, non può vedere un sorriso né la tenerezza di uno sguardo amico. Se siamo ciechi nella fede, o se i nostri occhi sono volontariamente chiusi, non potremo mai comprendere le opere meravigliose di Dio, la storia della salvezza portata avanti dallo Spirito, il mistero di Cristo morto e risorto, la presenza, testimonianza ed azione della Chiesa tra gli uomini. Abbiamo bisogno che, come ai discepoli, Cristo risorto ci apra gli occhi dell’intelligenza per capire le Scritture. Chiediti perché non comprendi certe cose della Chiesa, certe verità della dottrina cattolica, certi comportamenti morali che la Chiesa propone ai suoi fedeli; domandati perché non comprendi la presenza del male nel mondo, se Dio è buono, perché non comprendi che ci siano ingiustizie, crimini, odi. Non ti aiuterebbe forse a comprendere tutte queste cose una fede viva, autentica, ferma e vigorosa? Chiedi a Cristo risorto che ti apra gli occhi dell’intelligenza. Chiedigli che, una volta aperti i tuoi occhi, ti faccia testimone di ciò che hai visto.

Noi siamo testimoni. La Chiesa ha bisogno, più che di maestri, di testimoni, ci insegna il Paolo VI. Ogni cristiano, immerso nel mistero della morte e resurrezione di Gesù Cristo tramite il battesimo, è chiamato ad essere testimone. Tutti i cristiani, in quanto comunità di fede, debbono dire come Pietro: "Noi siamo testimoni". E testimone significa che è disposto a certificare con la propria vita ciò che dice e soprattutto ciò che fa in virtù della sua fede in Gesù Cristo. Come cristiano, debbo esser disposto a porre la testimonianza di Cristo risorto, dell’amore infinito e paterno di Dio, dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa e nel cuore degli uomini, davanti alla mia propria vita. Davanti alla mia stessa vita porrò anche le mie convinzioni religiose fondamentali, i miei valori morali irrinunciabili, i miei atteggiamenti profondi davanti alla vita, al mondo e a Dio. Se tutti noi cristiani, o almeno la maggioranza, siamo testimoni di questo calibro, allora realmente saremo capaci di cambiare a poco a poco la mentalità, gli atteggiamenti, i comportamenti, le verità che sostengono ed animano la vita dei nostri contemporanei. Vuoi essere tu testimonio di Cristo? Non aspettare ad esserlo veramente. Comincia oggi stesso.

 

 

Quarta Domenica di PASQUA 14 maggio dell’anno 2000

Prima: At 4, 8-12; Seconda: 1Gv 3, 1-2 Vangelo: Gv 10, 11-18

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Oggi si celebra nella Chiesa la giornata mondiale per le vocazioni al sacerdozio. I testi liturgici ci delineano Gesù come modello dei sacerdoti. In primo luogo, il sacerdote, come Gesù, deve essere buon pastore, disposto a dare la sua vita per le sue pecore (Vangelo). Il sacerdote, allo stesso modo di Gesù, deve essere per gli uomini una pietra angolare che sostiene tutto l’edificio delle loro convinzioni e valori spirituali, morali ed umani (prima lettura). Infine, il sacerdote, come Gesù, è stato eletto per essere figlio di Dio e per vivere l’esperienza di un amore tenero e filiale verso Dio, suo Padre (seconda lettura).

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

 

Gesù, modello di Pastore. Pastore è colui cui si affida la cura di un gregge di pecore. Quali sono le funzioni che tale immagine implica? Innanzitutto, conservare tutte le pecore che gli sono state affidate. Nessuna deve perdersi, nessuna deve morire per fame o per malattia. Per mantenerle egli deve esser disposto a difenderle dai lupi, a procurare loro un luogo in cui rifugiarsi durante le fredde notti, a dirigerle verso prati con abbondanti pascoli. Deve inoltre conoscerle una ad una, per rendersi conto subito se gliene manchi una, per preoccuparsi di ognuna come se fosse l’unica. Gesù, il Buon Pastore, conserva, difende, protegge, guida, alimenta i cristiani con la sua stessa vita, mediante i sacramenti e mediante la gerarchia della Chiesa.

Gesù Cristo, Buon Pastore, è il prototipo dei sacerdoti, che, come buoni pastori, debbono dedicare la loro vita intera a conservare nella fede i fedeli che sono stati loro affidati. Come il buon pastore, il sacerdote deve anche difendere la fede dei suoi fedeli da tante tentazioni e insidie che oggi sono presenti nella nostra società. Li difenderà da una fede individualista e soggettiva, da una morale dominata dal criterio della maggioranza, da una spiritualità eclettica, scioccamente sentimentale e fatta di apparenze, da una liturgia fredda, legalista e quasi senza risonanza interiore. Sentirà inoltre la necessità di alimentare i suoi fedeli con la verità della Parola di Dio, con l’insegnamento della dottrina cattolica, compendiata nel catechismo, con la testimonianza di una vita santa e generosa, donata senza misura al bene e al servizio dei fratelli nella fede.

Gesù Cristo, pietra angolare. Cristo è la pietra rifiutata da voi, costruttori, che si è trasformata in pietra angolare, dice Pietro davanti ai membri del sinedrio. Gli uomini vogliono, non poche volte, costruire una società senza Cristo, considerando che egli sia una pietra qualsiasi nella costruzione del mondo. Ma si sbagliano, egli è la pietra fondamentale, senza la quale tutto l’edificio se ne viene giù, senza la quale le altre pietre mancano di coesione e di punto di riferimento. O si costruisce una società con Cristo nel centro della stessa, o detta società è destinata, prima o poi, alla rovina.

Il sacerdote, rappresentante di Cristo, è pietra angolare della Chiesa; è lo stesso Cristo che, per mezzo di lui, continua ad esercitare nella Chiesa il suo potere di salvezza, il suo amore di fratello maggiore e redentore, il suo impulso alla fraternità e solidarietà umane. Nell’ipotesi che scompaiano i sacerdoti, l’edificio della Chiesa crollerebbe e si trasformerebbe in pure rovine.

 

Gesù Cristo, modello di Figlio. Il Padre mi ama, dice Gesù nel vangelo. Ed egli ama il Padre, come l’unigenito, come il figlio prediletto. E poiché lo ama, lo conosce intimamente e fa soltanto ciò che è a lui gradito. Nella seconda lettura ascoltiamo: "Siamo chiamati figli di Dio, e così è in verità". Siamo figli di Dio, che hanno il loro modello nel Figlio, in Gesù. Come sacerdoti, desidereremo ardentemente che tutti gli uomini godano della paternità di Dio e si sentano felici di essere suoi figli. Come sacerdoti, collaboreremo con il Padre perché i cristiani siano sempre più coscienti della loro filiazione divina, e trovino in essa la base dei loro atteggiamenti e comportamenti. Come sacerdoti, daremo testimonianza ai nostri fratelli di ciò che significa essere figli di Dio e vivere come tali sull’incudine di ogni giorno.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Il padre mi ama. La necessità di amare ed essere amato è essenziale nel cuore umano. L’amore dei padri e dei figli, l’amore degli sposi, degli amici, l’amore dei fratelli nella fede, o dei fratelli nella vita consacrata... Senza tale amore la vita diventa insulsa e la voglia di vivere scompare. Nelle nostre comunità cristiane possono esserci fedeli che si sentono soli o dimenticati, che pensano di non essere amati, che si considerano un poco inutili nella Chiesa. A tutti, ma in modo speciale ad essi, si deve predicare questa grande verità del cristianesimo: "Il Padre mi ama". Non sei solo, se il Padre ti ama, ti accompagna. E tu, ami Dio Padre? Non sei inutile, se il Padre ti ama e col suo amore dà senso alla tua vita, facendola entrare nella storia della salvezza. E tu, credi veramente nell’amore che il Padre ha per te? Credi che l’amore del Padre dia un senso meraviglioso alla tua vita? Come sacerdoti, ad esempio del Buon Pastore, abbiamo qui un modo concreto di aiutare i nostri fedeli: ricordiamo loro, e aiutiamoli ad esserne coscienti, che il Padre li ama e non li lascerà mai alla deriva.

 

Non c’è altro. San Pietro, nella prima lettura, è molto chiaro e preciso: "In nessun altro vi è salvezza". Nessun uomo della storia, per quanto grande e geniale sia stato? Nessuno! Nessuna medicina, nessuna invenzione, nessuna tecnica? Nessuna! Nessuna ideologia, nessun sistema religioso? Nessuno! Nessun essere extraterrestre, se è vero che esistono? Nessuno! Nessun angelo venuto dal cielo? Nessuno! Soltanto Gesù Cristo è nostro salvatore, il salvatore di tutti e di ciascuno degli uomini. Predicare questo nella nostra società, nel nostro mondo, può scandalizzare, ma è qualcosa di irrinunciabile per i cristiani. Non predicarlo sarebbe nascondere la luce perché non illumini gli uomini, o far sì che il sale divenga insipido e degno di disprezzo. La pretesa cristiana di un unico Salvatore, Gesù Cristo, non l’abbiamo inventata noi, né possiamo manipolarla a nostro piacimento e secondo le circostanze. La confessione di Cristo, unico Salvatore, è essenziale al cristianesimo. Il modo, il contegno, il tempo e il luogo per la confessione di fede è opera dei cristiani, guidati dalla luce dello Spirito Santo.

 

 

Quinta Domenica di PASQUA 21 maggio dell’anno 2000

Prima: At 9, 26-31; seconda: 1Gv 3, 18-24 Vangelo: Gv 15, 1-8

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Rimanete uniti a me, così come io lo sono a voi", ci dice Gesù nel vangelo. L’unità è il tema dominante nei testi di questa domenica. Unità in primo luogo tra Cristo, la vite, e i cristiani, i tralci (vangelo). Unità dei cristiani tra loro, indipendentemente dalla loro storia passata e della loro provenienza, come nel caso di Paolo (prima lettura). Unità tra le parole e i fatti, per raggiungere codesta unità interiore della coscienza, che è tranquilla di fronte a Dio (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

L’unità fondante. Nel giudaismo la vite simboleggiava le difficili relazioni tra Dio e il suo popolo, Israele, nel corso di dodici lunghi secoli. Questa relazione si fondava soprattutto su tre elementi: la Terra, la Torah e il Tempio. Sulle colonne del tempio si poteva vedere in rilievo la vite, simbolo del popolo di Israele alla presenza di Javeh, suo Dio. Gesù riprende questa immagine, ma cambiandone il significato. Adesso è lui la vite, non Javeh. Ed i tralci non sono più il popolo di Israele, ma i credenti in Cristo. Dio, il Padre di Gesù, non resta al margine del simbolo, adesso è il vignaiolo. In altri termini, è il Padre che ha inviato Gesù a questo mondo, e in lui ha posto il fondamento di ogni vera unità. Egli è il punto di unione sul quale si fonda qualsiasi altra vera unione tra gli uomini, "perché senza di me non potete far nulla". L’unione ecclesiale, familiare, religiosa, politica, … che voglia essere qualificata come autentica, stabile e feconda, non può lasciare al margine la realtà di Cristo, chiave di volta di ogni esistenza individuale o collettiva. In questo senso, il cristianesimo non è soltanto una opzione che fa appello alla libertà, è una esigenza di identità e di progresso, che fa appello al senso comune.

 

L’unità ecclesiale. Quando Paolo, dopo essersi convertito, si presenta a Gerusalemme, i cristiani ne hanno paura, si allontanano da lui, perché non riescono a credere alla sua conversione. Grazie a Dio interviene Barnaba, che lo presenta alla comunità, e certifica la sua conversione e il suo zelo nella predicazione del Vangelo di Gesù Cristo a Damasco. Paolo allora è ricevuto nella comunità, si integra in essa, e può dedicarsi con libertà al suo compito di evangelizzazione, soprattutto tra i giudei di origine ellenista. È evidente che fin dagli inizi gli apostoli presero coscienza del fatto che la Chiesa era una sola, e che tutti coloro che ne facevano parte erano uniti nella stessa fede e nello stesso zelo ardente per predicare dappertutto il nome di Gesù. Anche se Paolo si convertì a Gesù a Damasco e lì ricevette il battesimo, è ben ricevuto a Gerusalemme, come poi lo sarà anche ad Antiochia e a Roma, perché la Chiesa è una sola nella diversità di luoghi e di culture. Così fu fin dagli inizi, così ha continuato ad essere ed è tuttora. E noi, cristiani di oggi, saremo capaci di porre, al di sopra delle tensioni interne, l’unità?

L’unità interiore. San Giovanni nella seconda lettura ci esorta a "non amare a parole né con le labbra, ma con i fatti e in verità". Ci deve essere unità tra ciò che pensiamo e ciò che realmente facciamo. Senza tale unità saremo internamente divisi, in una incoerenza maligna che ci andrà corrodendo la coscienza. Cioè, il cristiano deve avere una coscienza unificata, senza screpolature né divisioni, perché possa essere tranquilla di fronte a Dio, "osservando i suoi comandamenti e facendo ciò che a lui è gradito". È vero che non sempre il cristiano agisce in modo coerente, per cui la coscienza gli rimorde e lo condanna. Allora sappiamo che "Dio è più grande della nostra coscienza", e che pertanto può di nuovo ristrutturarla, unificarla. È un invito stupendo alla fiducia nell’azione di Dio e nel potere misterioso dello "Spirito che Egli ci ha dato". Unità interiore, frutto della fedeltà alla Parola di Dio e ai suoi comandamenti.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Uniti, benché diversi. Innanzitutto, l’unità intraecclesiale. Noi cattolici dobbiamo essere uniti affettivamente ed effettivamente, uniti con la Gerarchia ecclesiastica, uniti tra noi stessi. Uniti nel medesimo fine e destino, accettando e rispettando il pluralismo di opzioni pastorali, mantenendo l’unità sostanziale. È possibile che ci siano diocesi, parrocchie che non permettano l’azione di gruppi ecclesiali approvati dall’autorità della Chiesa? Non è vero che è molto ciò che ancora si può fare nel campo della collaborazione tra diocesi, parrocchie, congregazioni religiose, movimenti ecclesiali? Il nemico è forte. Se non ci uniamo, saremo sicuramente sconfitti, avendo sprecato forse molte energie in questioni inutili e di poco conto. Ne uscirà perdente la proclamazione efficace del Vangelo, e saremo occasione di scandalo, più che di edificazione. Amiamo l’unità. Cerchiamo l’unità, al di sopra di tante piccole differenze non sostanziali. All’unità intraecclesiale, si deve aggiungere l’unità delle diverse Chiese separate: il dialogo, la collaborazione ecumenica. Un processo lento, ma irreversibile, perché in esso, più degli uomini, è impegnato lo stesso Dio, "lo Spirito che parla alle Chiese" e le sospinge incontenibilmente verso l’unità. I passi che si sono fatti e che si stanno facendo, sono piccoli, ma sicuri. Dobbiamo creare una mentalità "ecumenica" in noi stessi, nelle nostre comunità religiose, parrocchiali…L’unità è un gran bene che Dio ci vuole regalare. Preghiamo per accoglierlo con gratitudine ed amore.

Dare frutti. Uniti alla fonte della vita e della santità che è Cristo, uniti come fratelli nella stessa fede e nell’unica Chiesa, unificati nell’intimo della nostra coscienza, daremo frutti. Perché dall’unione nasce la forza, nasce l’efficacia. E dare frutti è un imperativo della nostra fede, della nostra vocazione cristiana. Quali frutti? Certamente e in primo luogo, frutti di santità, di ricchezza spirituale nel cuore, di trasparenza divina nel nostro essere e nel nostro agire. Frutti, poi, di solidarietà, di collaborazione, di giustizia, di rispetto vicendevole, di dedizione ai più bisognosi, di parlare edificante, di bontà nei rapporti, eccetera. Quali sono i frutti che Dio sta chiedendo a te, adesso? Quali sono i frutti che Dio chiede alla nostra parrocchia, alla nostra comunità? "Dai frutti li conoscerete". Dai frutti si saprà se siamo uniti a Cristo, se saremo rimasti nel suo amore.

 

Sesta Domenica di PASQUA 28 maggio dell’anno 2000

Prima: At 10, 25-27.34-35.44-48; seconda: 1Gv 4, 7-10 Vangelo: Gv 15, 9-17

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Chi non ama non conosce Dio, perché Dio è amore". Bellissima sintesi della presente liturgia. La vita cristiana si svolge nel cerchio dell’amore, che comincia in Dio, si rende visibile in Gesù Cristo, si prolunga negli uomini e ritorna allo stesso Dio. Essendo Dio amore, in lui è il punto di messa in moto di ogni movimento di amore (seconda lettura). Gesù Cristo, incarnazione dell’amore di Dio, chiama i suoi discepoli amici, cioè, creati dall’amore e per l’amore (vangelo). L’amore di Dio in Cristo verso gli uomini non è esclusivista né limitato, ma aperto ed universale, perché nell’amore di Dio non c’è preferenza di persone, ed egli può far partecipi tutti del suo Spirito, forza e presenza dell’amore nell’uomo (prima lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Il cerchio dell’amore. "L’amore consiste nel fatto che Egli ci amò" (1Gv 4,10). Non ha origine, l’amore, nel cuore dell’uomo, ma nel cuore di Dio. Dio è la fonte inestinguibile ed unica dell’amore. Lontano da Lui, l’amore non merita tale nome. Ed ogni amore vero è nato da Dio, e ritorna a Dio, come le acque dell’oceano che evaporano, nutrono la sorgente dei fiumi e ritornano, dopo un lungo percorso, alla loro stessa origine. Dio è il principio di ogni amore, ma l’amore cristiano passa attraverso Gesù Cristo. Cioè, il Padre scarica tutto il suo amore nel Figlio, e il Figlio a sua volta lo comunica ai suoi discepoli. "Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi". Amici di Gesù Cristo, non più servi, siamo capaci di amarci mutuamente, con l’amore nuovo ed incontaminato del Padre, che ci concede di essere fratelli di suo Figlio. Data la vocazione dell’uomo alla vita e data l’eternità dell’amore, quest’ultimo si orienta, già in questo mondo e soprattutto nell’aldilà, verso la sua origine che coincide adesso con il suo fine: Dio stesso. Lì otterremo la conoscenza vera di Dio e di tutte le cose in Lui, che ci sarà concesso dalla forza incontenibile dell’amore.

Le caratteristiche dell’amore. Un amore, innanzitutto, immeritato. L’amore non consiste nel fatto che noi abbiamo amato Dio (seconda lettura), né nel fatto che noi abbiamo preso l’iniziativa di scegliere Gesù Cristo come maestro e modello della nostra vita (vangelo), né nel fatto che Cornelio e la sua famiglia fossero degni di ricevere il vangelo e la fede in Gesù Cristo. Se fosse così, l’amore non avrebbe la sua definizione in Dio, ma nell’uomo. Allora, quanto diversa, quanto povera sarebbe la definizione dell’amore! In realtà, l’amore si definisce a partire da Dio, che ce lo concede gratuitamente, come l’esistenza, come la missione, come il destino ultimo della vita. Se lo meritassimo, l’amore non sarebbe amore, ma ricompensa dovuta.

L’amore inoltre è creativo e universale, è sacrificato e gioioso. Crea l’amicizia, codesta capacità straordinaria di amore vicendevole e disinteressato, come quello di Gesù verso i suoi discepoli, come quello dei discepoli verso Gesù. Crea anche la vocazione, sia alla fede nel messaggio e nella persona di Cristo (prima lettura), sia al discepolato e alla sequela radicale del suo stile di vita e della sua missione (vangelo). L’amore è universale, perché non fa distinzioni di temperamenti, né di razze, né di culture, né di qualità. Si ama perché si ama, e basta, senza preferenza alcuna di persone (seconda lettura). L’amore sa di sacrificio, perché "nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici", e perché l’amore esige l’obbedienza ai comandamenti dell’amato (vangelo). Non dovette forse Pietro sacrificare la sua mentalità, quando, davanti al dono dello Spirito Santo a Cornelio e alla sua famiglia, ordina che essi siano battezzati nel nome di Gesù Cristo? E non deve forse sacrificarsi il cristiano a cui è indirizzata la prima lettera di Giovanni, per porre al di sopra della conoscenza (la gnosi) l’amore? L’amore, infine, è gioioso. Il gaudio che sente Cristo di essere amato e di amare suo Padre; il gaudio dei discepoli, nel sapersi amati e nel poter amare con lo stesso amore di Dio. Il gaudio di Cornelio e dei suoi, che, investiti di Spirito Santo, esaltano con gioia la grandezza di Dio.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Amore e responsabilità. Parole che evocano un libro di Karol Wojtyla sull’amore umano, specialmente nel matrimonio e nella famiglia! Due parole che nell’esperienza cristiana si intrecciano e si ricercano vicendevolmente: l’amore per forza della sua natura è responsabile; la responsabilità autentica si fonda e si mantiene soltanto a base di amore. Una responsabilità che, nel caso dell’amore cristiano, si configura in primo luogo come preghiera di supplica a Dio: "Signore, dammi, concedici il dono dell’amore", perché nell’amore non esistono gli autodidatti, siamo eterni apprendisti di Dio, nostro unico Maestro. Una responsabilità che acquista la forma della costanza nell’amore, perché non si contempla nello specchio degli amori tanto labili delle love stories, o dei famosi latin lovers, ma nelle acque cristalline dell’amore permanente e fedele di Dio stesso. Una responsabilità nell’amore, per nulla facile, amore che è oggetto preferito di molti attentati provenienti dal mondo circostante; una responsabilità che, per questo, si appoggia e si fortifica nell’azione dello Spirito Santo, che possiede in sé la forza dell’amore. Al termine del periodo di Pasqua ci si addice, sicuramente, un piccolo esame sull’amore. E poi…al lavoro!

Nell’orbita dell’amore. La psicologia insegna che l’uomo cerca un centro intorno al quale far girare la sua esistenza terrena. Quando ha raggiunto tale centro, che può essere molto vario, la vita umana acquista stabilità, significato ed una certa armonia e felicità. Quando il centro nella cui orbita giriamo è l’amore, tutto nella vita, tutto, senza alcuna eccezione, resta innamorato, cioè, impregnato, imbevuto dall’amore. Ed allora il sole dell’amore risplende nel firmamento delle nostre ore e dei nostri giorni, facendoli brillare con una luce duratura, rallegrante, ringiovanente e gratificante. Che cosa non può fare l’amore, soprattutto se proviene da Dio stesso? Si ama a scuola e nel lavoro, in famiglia e nella vita sociale, nella malattia e nella vecchiaia, nei momenti di dolore e nelle ore di gioia. Si amano i propri cari, il vicino che appartiene ad un altro partito politico, il compagno di lavoro che non va a messa, benché sia cattolico, il capo ufficio col suo brutto carattere, il barbone che tutti i giorni incontro all’ingresso della metropolitana, il poliziotto che con la legge in mano e un sorriso sulle labbra mi fa una multa di 200.000 lire… Non far passare nessuna occasione per esercitarti veramente nell’amore.

 

 

 

 

 

 

 

Solennità dell’Ascensione del SIGNORE 4 giugno dell’anno 2000

Prima: At 1, 1-11; seconda: Ef 1, 17-23 Vangelo: Mc 16, 15-20

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Che significato ha l’Ascensione di Gesù Cristo nella storia della salvezza, nella quale Dio Padre ha collocato questo mistero? Per Gesù Cristo significa che ha terminato la sua permanenza tra gli uomini, che è stato intronizzato alla destra del Padre per regnare con Lui sul cielo e sulla terra, che eserciterà dal cielo la sua azione benefica e salvatrice sull’umanità, per mezzo dello Spirito Santo (vangelo, prima lettura). Per gli apostoli vuol dire che adesso, potenziati dallo Spirito alla Pentecoste, inizia realmente la loro missione di testimoni di Gesù Cristo (vangelo, prima lettura). Per noi cristiani ha il significato di aprirci alla speranza nella vita futura con Dio e di lanciarci al mondo intero per evangelizzarlo ed unirlo in una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Valore dell’Ascensione per Gesù. Il Verbo di Dio si fece carne in Gesù di Nazareth (Gv 1,14). Adesso, dopo la resurrezione e un periodo di apparizioni ai discepoli per confermarli nella fede, "il Signore Gesù fu elevato al cielo e si sedette alla destra di Dio" (vangelo). La sua missione come rivelatore del Padre, come Maestro dell’umanità, come Redentore di tutti gli uomini, è finita, ma non terminata. È compiuta in Lui come capo, ma non è terminata nel suo corpo, che è la Chiesa. L’Ascensione, in un certo modo, è il punto di arrivo della missione di Gesù e il punto di partenza della missione dello Spirito Santo alla comunità dei credenti in Cristo.

Con l’Ascensione, Gesù entra come Signore nel regno di suo Padre e con Lui comincia a regnare glorioso con giustizia e con amore, con misericordia e perdono, con verità e santità. Regna sugli avvenimenti della storia e sulla vita degli uomini, in un modo che noi in gran parte ignoriamo e che a volte ci sconcerta. Salendo ai cieli portò con sé come prigionieri gli uomini che accettano la sua sovranità nel cuore e nell’esistenza di ogni giorno (seconda lettura), aprendo così all’umanità le porte della casa del Padre, cioè la vita e la felicità di Dio (cf. CCC 661).

Significato dell’Ascensione per gli Apostoli. Fino ad ora gli apostoli hanno praticato soprattutto la recettività della persona e del messaggio di Gesù. Con l’Ascensione e con la Pentecoste inizia per loro una tappa nuova: La trasmissione di ciò che hanno ricevuto dal loro Maestro e Signore. Vanno ad esercitare la loro attività di trasmissione mediante la testimonianza del Vangelo addirittura fino all’eroismo del martirio. È necessario annunciare il Vangelo e testimoniarlo "finché Cristo non ritorni". Per tale missione si sono preparati durante la convivenza con Gesù; per tale missione saranno accompagnati dallo Spirito di Gesù, che riceveranno entro non molti giorni (prima lettura). Tale missione è contrassegnata dalla speranza, senza che si possa aver certezza del tempo e del momento fissati dal Padre per stabilire definitamente il Regno mediante la seconda venuta di Cristo. La venuta immediata o mediata non interessa tanto. Ciò che importa è la speranza nella sua venuta.

Valore dell’Ascensione per noi. Come gli apostoli, noi dobbiamo essere uomini della speranza, alla quale l’Ascensione di Cristo ci stimola. Aspettiamo innanzitutto la venuta gloriosa del Nostro Signore Gesù Cristo. E aspettiamo con serenità un futuro migliore e più cristiano, più impregnato dal vangelo di Gesù Cristo, più docile al disegno di Dio sulla storia e alla sua azione misteriosa. L’Ascensione suscita in noi lo sforzo ascetico per disporci all’azione elevante di Dio. Risveglia allo stesso modo l’interesse e il lavoro per l’unità di tutti i cristiani e di tutti gli uomini, codesta unità possibile, reale, ma imperfetta, che raggiungerà il suo compimento nel cielo nell’unione tra gli uomini e con Dio.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Spendersi per il Regno. La costituzione dogmatica sulla Chiesa presenta quest’ultima sotto la figura del Regno: "La Chiesa è il Regno di Cristo presente già in mistero" (LG 3). Spendersi per il Regno significa spendersi per la Chiesa secondo la condizione, le possibilità e la dedizione di ciascuno. Questo spendersi per il Regno si può realizzare in qualsiasi circostanza della vita quotidiana, perché ciò che più conta è l’atteggiamento interiore e l’offerta della vita al Regno di Dio. Tuttavia, spendersi per il Regno acquista una connotazione particolare: lavorare nella Chiesa, per la Chiesa e al servizio della missione storico-salvifica della Chiesa. Se un giovane o un adulto passano delle ore della settimana davanti alla televisione, perché non dedicare almeno lo stesso numero di ore a lavorare per il Regno di Cristo tra gli uomini? Se c’è tanta gente che i fine settimana si diverte nelle discoteche, non sarà possibile che questa stessa gente si metta a fare del bene (azione sociale, visita a malati negli ospedali, volontariato cattolico, accompagnamento di anziani, ecc.) in quegli stessi fine settimana? Se tutti noi cristiani collaboriamo, sicuramente il Regno di Cristo crescerà tra gli uomini al di là delle nostre proprie aspettative.

A misura del dono di Cristo. Tutti siamo chiamati a collaborare nell’opera della Chiesa, ma ciascuno secondo il dono ricevuto. Chi ha ricevuto il carisma dell’autorità, collaborerà esercitando l’autorità con amore e allo stesso tempo con fermezza. Chi ha ricevuto il dono dell’insegnamento (dottori nelle scienze ecclesiastiche, professori di religione, catechisti), collabori nella costruzione e diffusione del Regno con il suo insegnamento retto, completo, esposto in modo adatto ed interessante. Quelli ai quali è stato dato il carisma di dare la vita (padri di famiglia, ministri dei sacramenti, direttori spirituali) pongano con generosità tutte le proprie qualità al servizio della vita, sia questa la vita fisica, quella sacramentale o la vita spirituale. Coloro che sono stati scelti per essere missionari (sacerdoti, religiosi o laici), costruiscano il Regno di Cristo laddove ancora non esiste, o dove è appena alle fondamenta, o dove una volta ci fu una costruzione compiuta e bella ed oggi si trovano delle rovine. Qui ciò che conta è che tutti, senza eccezione, lavoriamo, e che ciascuno lo faccia nella misura del dono di Cristo. Saremo, noi cristiani, disponibili per questo grande compito che Cristo ci affida all’inizio del terzo millennio?

Domenica di PENTECOSTE 11 giugno dell’anno 2000

Prima: At 2, 1-11; seconda: Gal 5, 16-25 Vangelo: Gv 15, 26-27; 16, 12-15

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Nella festa di Pentecoste lo Spirito Santo invade con la sua presenza tutti i testi liturgici. Il vangelo tratta dello Spirito di verità, che illuminerà discepoli e li condurrà alla verità completa. Nella prima lettura, ciò che era stato una promessa si fa compimento, e lo Spirito Santo viene con il suo potere sugli apostoli e sugli altri discepoli di Gesù, riuniti con Maria nel Cenacolo. Quando lo Spirito Santo entra e si impossessa del cuore di un discepolo di Gesù, allora tutta la sua esistenza cristiana e il suo comportamento cambiano e producono frutti dello Spirito, che si sintetizzano nell’amore (agàpe) (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

La rivelazione dello Spirito. Lo Spirito è impercettibile dai sensi. Dio ce lo rivela in maniere umane: tramite la sua azione nell’intimo dell’uomo e mediante dei simboli. Sono due i simboli che utilizza san Luca negli Atti. Il primo è il vento impetuoso e creatore, come l’alito di Dio sul primo uomo (Gen 2), che scuote l’essere umano, lo spoglia di sé, penetra nel recinto segreto dell’anima, ed apporta vita e santità. Il secondo è il fuoco, che, sotto forma di lingue, si posa sui discepoli e li purifica e trasforma. Tale fuoco dello Spirito deve ardere sempre, per questo san Paolo ci esorta a non spegnare lo Spirito (cf 1Tes 5,19).

Nei testi di oggi ci vengono segnalati diversi modi di operare dello Spirito negli uomini, e, pertanto, di rivelarsi a noi.1) È lo Spirito di verità, che illumina l’uomo perché comprenda la verità completa. Così come Gesù Cristo è la pienezza della verità e della rivelazione, come ci insegna la Dei Verbum, lo Spirito ci illuminerà perché comprendiamo il mistero di Cristo. Fu così che i discepoli, nel giorno di Pentecoste, ricevettero quella luce che aprì le loro menti ad una comprensione superiore e più piena di tutta la vita di Cristo, della sua origine e del suo destino, e soprattutto del mistero della sua passione, morte e risurrezione. 2) Lo Spirito dà testimonianza di Cristo, cioè, non soltanto insegna, ma accredita con autorità il mistero di Cristo. Darà innanzitutto testimonianza nel cuore dei discepoli riuniti nel Cenacolo, una testimonianza tanto esauriente che possa trasmettersi arrivando fino a trasformare quei discepoli in testimoni. Nel corso del tempo, darà testimonianza nell’anima di ogni cristiano, servendosi della parola e della vita dei testimoni umani. Sì, lo Spirito è il testimone di Cristo nel cuore della storia. 3) Lo Spirito glorifica Cristo, perché non ha messaggio proprio, ma dirà unicamente ciò che ha udito. La gloria con cui Cristo appare, nel suo splendore e grandezza, agli occhi degli uomini, è opera dello Spirito Santo: il suo meraviglioso potere di fare miracoli, il fulgore del suo sguardo, il fascino della sua parola, la forza e la generosità del suo amore infinito, la commovente tenerezza verso i bambini e verso i malati ed i bisognosi…

I frutti dello Spirito. Nell’intimo di ogni uomo si confrontano delle forze opposte. Da una parte, la carne (l’uomo con le sue passioni disordinate, con la sua tendenza verso il male) e dall’altra lo spirito (i nobili aneliti che si annidano nell’uomo, la sua aspirazione verso il bene, grazie allo Spirito Santo). In tale campo di battaglia, che è l’uomo, il male cerca di vincere mediante le sue opere nei diversi ambiti della vita: l’ambito religioso, con l’idolatria e la stregoneria; l’ambito sociale, con le inimicizie e le discordie, la rivalità, l’ira, l’egoismo, le contese, le divisioni e le invidie; l’ambito personale, con intemperanze, ubriacature ed orge; l’ambito sessuale, mediante la fornicazione, la mancanza di purezza e la sfrenatezza. In questo stesso campo di battaglia, il bene, – e lo Spirito Santo che lo incoraggia e lo promuove -, cerca di vincere il male mediante l’amore autentico, fondato in Cristo e nella sua testimonianza; un amore che si dimostra operativamente nella tolleranza, amabilità, bontà, fede, mansuetudine, e nel dominio di se stessi; un amore che si gode nella gioia vera e nella pace, che è compendio di tutti i beni. La battaglia è certa e costante. La vittoria dipende dall’uomo, dal fatto che quest’ultimo si lasci trascinare dal male o che preferisca esser condotto e lasciarsi guidare dal bene.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Il cuore della vita cristiana. L’immagine del cuore ci riferisce e ci porta alla mente l’amore, e lo Spirito Santo è l’Amore personale all’interno del mistero trinitario, e per questo è il cuore della vita cristiana. Essere cristiano significa, in definitiva, saper amare. E chi ci insegna l’arte di amare in modo cristiano? Non proprio i libri di Ovidio, di Erick Fromm e dell’ultimo pensatore che abbia teorizzato sull’amore. L’arte dell’amore cristiano la insegna personalmente a ciascuno di noi lo Spirito Santo, ponendo davanti ai nostri occhi Cristo, soprattutto Cristo crocifisso. Lo Spirito Santo ci insegna l’arte di amare la verità cristiana, contenuta sostanzialmente nel Credo e sviluppata con grande bellezza ed autorità nel catechismo della Chiesa cattolica. Lo Spirito ci insegna l’arte di amare la liturgia della Chiesa e i suoi sacramenti, fonte di grazia e santità per ogni cristiano e per tutta la Chiesa. Lo Spirito ci insegna l’arte di amare la morale cristiana che, con le sue esigenze a volte non facili, infonde nobiltà e dignità, elevazione e prestanza morale a chiunque la ama e la vive. Lo Spirito insegna l’arte di amare la preghiera e la vita spirituale, come via sicura ed efficace per unirsi a Dio e per vivere nella gioia dell’amore la stessa vita divina. Se lasciamo agire lo Spirito con libertà, Egli ci farà uomini autentici e santi nella Chiesa ed al servizio della Chiesa.

Camminate secondo lo Spirito. L’esortazione di san Paolo comprende tutta la vita del cristiano, a qualsiasi età e in qualsiasi condizione o professione, ogni giorno della settimana ed ogni ora del giorno. Sia che ti trovi in casa con i tuoi genitori, oppure a scuola, a lezione di geografia, nel club sportivo a giocare a pallacanestro, in chiesa, prendendo parte alla celebrazione eucaristica… comportati secondo lo Spirito. Stai svolgendo un lavoro difficile in ufficio, sei felice perché hai incontrato un amico che non vedevi da tempo, ti stai divertendo in discoteca, sei andato a far visita ai tuoi suoceri, sei andato con la famiglia a fare una passeggiata in campagna… agisci mosso dallo Spirito. Sei svogliato e triste per una brutta notizia, trabocchi di euforia perché hai sostenuto un esame brillante, hai un problema con tua moglie o tuo marito, con i tuoi figli... Invoca lo Spirito Santo, chiedigli la sua luce e la sua forza, fatti guidare da ciò che Egli ti ispirerà. Questo è essere cristiano! È tanto difficile? Se lo tenti con semplicità e fiducia, saprai che è possibile, e che è altresì fonte di pace e di felicità.

 

 

Solennità della Santissima TRINITÀ 18 giugno dell’anno 2000

Prima: Deut 4, 32-34.39-40; seconda: Rom 8, 14-17 Vangelo: Mt 28, 16-20

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il mistero trinitario è un mistero di Dio-Amore. Ciò è evidente nelle letture della liturgia. Dio-Amore interviene con mano forte e braccio potente per trarre fuori il suo popolo dall’Egitto, simbolo di servitù e di oppressione (prima lettura). Dio-Amore regala ai suoi discepoli una missione meravigliosa ed assicura loro la propria compagnia nel corso dei secoli (vangelo). Dio-Amore fa gli uomini suoi figli adottivi perché possano gridare con Gesù Cristo: "abba", cioè, "Padre".

MESSAGGIO DOTTRINALE

Il Dio di Mosè. Benché nell’AT si incontrino già figure che preparano la rivelazione del mistero trinitario, il Dio dell’AT, il Dio di Mosè, si rivela nella sua unicità di fronte ad altri dèi che non sono divini. Nella pedagogia di Dio nei confronti dell’uomo, ha luogo innanzitutto la rivelazione di un Dio unico e personale che nel suo amore inenarrabile si sceglie un popolo, lo libera e fa alleanza con lui. Nella capacità di apertura dell’uomo al divino, si trova innanzitutto la rivelazione del suo carattere unico, personale e salvifico di fronte agli avvenimenti ed alle situazioni che in quei secoli remoti incontrarono gli israeliti. Il politeismo circostante (soprattutto gli dei cananei: Baal, dio della terra e dei suoi frutti, Astarte, dea della fecondità, e Moloch, dio che esigeva sacrifici umani) esercitavano una forte attrattiva sulla religiosità, ancora elementare, delle dodici tribù di Israele. Si doveva proclamare e difendere a tutti i costi l’unicità di Dio: "Riconosci oggi e convinciti che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra, e che non ce n’è un altro" (prima lettura). Nella stessa linea del deuteronomista, il secondo Isaia pone in bocca di Dio queste parole: "C’è qualche dio fuori di me, qualche altro appoggio che io non conosca?" (Is 44,8) e poco prima aveva detto degli idoli: "Tutti loro sono una nullità, le loro opere sono un niente, vento e vuoto sono le loro statue" (Is 41, 29). La tentazione dell’idolatria non appartiene al passato, è in agguato all’angolo di ogni epoca e di ogni quadrante della storia. Ai nostri giorni, in una società plurietnica e religiosamente individualista, la tentazione sembra quasi invadente.

Il Dio di Gesù Cristo. Dopo una preparazione secolare, Dio considerò che l’uomo era in grado di ricevere la rivelazione della sua vita intima, del suo mistero trinitario. Dio-Amore invia suo Figlio perché faccia scorrere un poco per noi il velo della sua misteriosa intimità, e lo Spirito Santo ci istruisca interiormente perché non siamo sciocchi, né restiamo offuscati e ciechi davanti a tanto splendore divino. Il Dio di Gesù Cristo è innanzitutto un Dio di donazione: il Padre ci dona suo Figlio, il Padre e il Figlio ci donano il loro Spirito, il Padre, il Figlio e lo Spirito ci donano la propria vita rendendoci figli di Dio. Il Dio di Gesù Cristo è un Dio di salvezza: Il Padre vuole che tutti gli uomini si salvino, il Figlio porta a compimento la salvezza di tutti nel suo sangue, lo Spirito rende efficace nel cuore di ogni uomo la salvezza di Dio.

Il Dio di Gesù Cristo è un Dio di missione: mettetevi in cammino, ammaestrate tutti i popoli, battezzateli nel nome dello Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnate loro a mettere in pratica tutto ciò che io vi ho comandato. La rivelazione di questo mistero divino si può cogliere un poco con l’intelligenza, ma si penetra ancor di più con il cuore e con l’esperienza di Dio nella preghiera. Per questo, tale mistero non è una barriera tra Dio e l’uomo (se così fosse, Dio non ce lo avrebbe rivelato), ma un impulso intenso, vivo, costante a desiderare di addentrarsi di più in lui per restarne meravigliati, entusiasti.

Dio con noi. Il vangelo secondo san Matteo comincia con la nascita dell’Emanuele (Dio con noi), e termina allo stesso modo con la presenza di Gesù Cristo glorioso tra i suoi discepoli e nella storia umana: "Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine di questo mondo" (vangelo). Israele aveva già esperimentato nella sua storia la presenza e la vicinanza di Javeh. Adesso il nuovo Israele, la Chiesa, esperimenta la vicinanza del Padre nella presenza e sul volto del suo Figlio, Gesù Cristo, in virtù della Spirito Santo, la cui missione è far presente nel tempo e nella storia la verità completa su Dio e sull’uomo. Nel tempo della Chiesa, non soltanto il Figlio, ma anche il Padre e lo Spirito, sono realmente con noi e in noi.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

La delusione degli idoli. In tutte le epoche è stato vero che, se Dio non esiste, si dovrà inventarlo. E così è stato effettivamente. Non c’è popolo né cultura, dalla più primitiva alla più avanzata, che non si sia fabbricata i suoi dèi. La storia delle religioni ne fa fede. Neppure gli atei sono esenti da questa legge. Essi cambieranno il volto dei propri idoli, divinizzeranno il "Partito", daranno culto al "Capo", lotteranno per piantare il cielo sulla terra…È evidente che non si può assassinare ciò che l’uomo porta inscritto nella sua stessa natura. Nella storia umana, le generazioni hanno visto cadere molti idoli, ma ne sorgono di nuovi. Nel momento in cui ci tocca di vivere, gli idoli creati dal consumismo sono strepitosamente caduti, crollano altri idoli come la tecnica, il progresso, il denaro, l’erotismo…Siamo in un momento molto propizio perché noi cristiani parliamo al mondo non di idoli, ma del Dio unico e vero, che Gesù Cristo ci ha rivelato. È una enorme pena che, quando molti uomini hanno bisogno di qualcuno che parli loro di Dio, noi cristiani ci tuffiamo nel silenzio per ignoranza, per timore o per eccessiva prudenza umana. Non abbiamo paura, Dio stesso metterà sulle nostre labbra le parole giuste affinché parliamo bene di lui.

Rendere visibile Dio-Amore. Probabilmente, noi cristiani non rendiamo visibile Dio, perché non abbiamo un’esperienza viva di lui, perché il nostro rapporto con Dio è a volte più un’astrazione che non un’esperienza con un Dio vivo, che si chiama Padre, Figlio e Spirito Santo. La giustizia si rende visibile in un uomo giusto, la verità in un uomo autentico, l’amore in un uomo che ama realmente, dunque in questa medesima maniera Dio si rende visibile in un uomo che ha esperimentato l’amore, la tenerezza, la grandezza e la bellezza di Dio; in un uomo "che ha visto, ha udito, ha toccato" Dio nella Sacra Scrittura, nella preghiera, nei sacramenti, nel fratello. Non è forse vero che ogni cristiano dovrebbe essere come un ostensorio del Dio vivente, dell’Amore trinitario? Se Dio non è maggiormente presente nel nostro mondo, non scoraggiamoci. Diciamo a noi stessi: "È ora di sforzarsi, è ora di assumersi delle responsabilità". Al lavoro!

 

 

 

Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di CRISTO 25 giugno dell’anno 2000

Prima: Es 24, 3-8; Eb 9, 11-15 Vangelo: Mc 14, 12-16.22-26

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

L’alleanza, o patto, è il punto di riferimento, quasi obbligato, dei testi liturgici. L’alleanza sigillata con il sangue di Cristo è il cuore del culto e della vita della Chiesa. "Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che sarà versato per tutti" (vangelo). Questa alleanza è prefigurata dall’antica alleanza, sigillata con sangue di vitelli, e le conferisce carattere definitivo: "Questo è il sangue dell’alleanza che il Signore ha fatto con voi, secondo le clausole già dette" (prima lettura). L’alleanza nel sangue di Cristo perpetua la presenza di Dio tra noi e purifica l’umanità da tutti i suoi peccati "per poter dar culto al Dio vivo" (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

L’antica alleanza. Il testo della prima lettura menziona alcune parti del rito di alleanza, rito comune a tutti i popoli orientali dell’epoca. Innanzitutto il carattere reciproco dell’alleanza: Javeh da una parte e il popolo dall’altra; poi, le clausole del patto, che indicano i contenuti obbliganti verso i quali si impegnano sia Dio che il popolo; il sacrificio di comunione, che culminerà in un banchetto; il rito di aspersione del sangue sui contraenti del patto, mediante il quale quest’ultimo viene ratificato. La condiscendenza di Dio con l’uomo giunge fino a questi estremi di un patto reciproco! Questo patto ci parla con chiarezza luminosa dell’amore di Dio e della sua eterna fedeltà. Questo patto, nonostante tante infedeltà allo stesso da parte di Israele, fu sempre nelle sue vicissitudini storiche un punto di riferimento incontrastato e un segno inequivocabile di speranza e di rinnovamento permanente. Israele apprese, a poco a poco, nella sua lunga esperienza storica, che Dio non abbandona mai, che la sua fedeltà "dura per sempre". Vedendo la fedeltà di Dio, Israele sentì la forza di attrazione della fedeltà, di rispondere al patto di Dio con un Amen sincero e definitivo.

La nuova alleanza. A causa delle costanti infedeltà di Israele a Javeh, Dio rivelò al profeta Geremia la promessa di una nuova alleanza, un’alleanza inscritta nell’intimo del cuore, che concederà a tutti il dono della conoscenza di Dio e del suo perdono misericordioso (Ger 31, 31-34). Tale promessa giunse a compimento definitivo in Gesù Cristo, nella cena pasquale che egli mangiò con i suoi discepoli la sera che sarebbe stato consegnato, nel sangue dell’alleanza, sparso per tutti sulla vetta del calvario. I giudei ricordavano l’antica alleanza ogni anno alla festa di Pasqua; noi cristiani ricordiamo e riviviamo la nuova alleanza, ogni giorno, ma in special modo la domenica, nella celebrazione eucaristica. La festa dell’alleanza non è più annuale, ma quotidiana, settimanale. Non dimentichiamo: alleanza reciproca di Dio con la Chiesa e con ognuno dei suoi figli, e, di conseguenza, alleanza della Chiesa e di ciascuno dei suoi figli con Dio. Tutti e ciascuno di noi cristiani dobbiamo apprezzare la bellezza di una alleanza con Dio nel sangue di Gesù Cristo, e, allo stesso tempo, la serietà e la responsabilità di un patto, al quale abbiamo giurato fedeltà.

La novità dell’alleanza. Il vangelo e la seconda lettura presentano alcuni tratti di questa novità. 1) In Gesù Cristo coincidono il mediatore dell’alleanza (nell’antica alleanza, Mosè) e la vittima sacrificata, con il cui sangue essa si sigilla e ratifica (nell’antica, il sangue dei vitelli). 2) L’alleanza nel sangue di Cristo, non è più soltanto con il popolo di Israele, ma con l’umanità intera. Per questo, il suo sangue "è sparso per tutti" e ci ottiene "una redenzione eterna". 3) L’alleanza che Cristo stabilisce tra Dio e l’umanità non solamente è nuova, è altresì definitiva. Così come la rivelazione trova la sua pienezza in Cristo, allo stesso modo in lui trova pienezza l’alleanza. Egli non sigilla la penultima, ma l’ultima alleanza in assoluto. 4) L’alleanza tra Dio e l’uomo in Cristo Gesù è presente, con il suo carattere definitivo, nella storia, e per questo sottomessa alle diverse situazioni spazio-temporali. Questa alleanza culminerà e raggiungerà la sua perfezione, alla fine dei secoli, nell’eternità con Dio. Per questo, Gesù dice ai suoi discepoli: "Non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo nel regno di Dio".

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Sacerdoti della nuova alleanza. La nuova alleanza è destinata a tutti gli uomini. Gesù Cristo, il mediatore di essa, ha bisogno di labbra perché giunga a tutti la buona notizia di questa alleanza. Ha bisogno di labbra e di mani perché consacrino il pane e il vino dell’alleanza nuova e lo distribuiscano agli uomini. Sia Dio sia gli uomini hanno bisogno di sacerdoti. È necessario che la comunità cristiana prenda una maggiore coscienza di questa necessità. Se non ci sono sacerdoti, chi farà presente nel mondo la mediazione di Cristo tra Dio e gli uomini? Se le famiglie cristiane non hanno figli, o ne hanno uno, al massimo forse due, non sarà giocoforza che il numero dei chiamati da Dio al sacerdozio diminuisca? Se le nuove coppie convivono senza sposarsi, o si sposano soltanto civilmente, o, ciò che è peggio, non sono coppie eterosessuali, non sarà quasi impossibile che i loro figli, qualora ce ne siano, riescano ad ascoltare la chiamata di Dio ad una vocazione sacerdotale? Sono domande gravi. Tutta la comunità cristiana se le deve porre, e deve collaborare nella misura in cui possa cercare ed offrire risposte valide.

Dare culto al Dio vivo. Nell’Eucarestia è presente Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Per questo, la Chiesa cattolica ha dato e continua a dare culto di adorazione all’Eucarestia, non soltanto durante la messa, ma anche al di fuori della sua celebrazione. Papa Giovanni Paolo II ha scritto: "La Chiesa e il mondo hanno grande bisogno del culto eucaristico. Gesù ci aspetta in questo sacramento dell’amore. Non risparmiamo il nostro tempo per andare ad incontrarlo nell’adorazione, nella contemplazione piena di fede e pronta a riparare le grandi colpe e i delitti del mondo. Non cessi mai la nostra adorazione" (cf CCC 1380). Ci sono coloro che attribuiscono al trambusto della vita il non aver tempo per il culto eucaristico, ma siamo sinceri… hanno, sì, tempo per andare a vedere la partita di calcio, per passare gran parte della notte in discoteca, andarsene un fine settimana a sciare, restare immobili davanti alla televisione vedendo un film o divertendosi a un programma di varietà. Sono tutte cose in sé buone, ma, perché non fare uno spazio, tra queste o altre attività, per andare a Messa o per entrare qualche minuto in chiesa ed adorare Gesù Cristo sacramentato? Mi perdoni il Signore, ma almeno, almeno, la … par condicio!

 

 

 

XIII Domenica del TEMPO ORDINARIO 2 luglio dell’anno 2000

Prima: Sap 1,13-15; 2, 23-24; seconda: 2Cor 8,7.9.13-15 Vangelo: Mc 5, 21-43

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il punto di convergenza delle letture si situa nella potenza della fede. Nel Vangelo, all’incapacità dei medici di guarire l’emorroissa, corrisponde la forza di guarigione della fede in Gesù; alla potenza della morte che è stata imposta alla figlia di Giairo, risponde un maggior potere di Cristo per farla ritornare in vita in virtù della fede. Questi due esempi evangelici evidenziano che Dio (e Gesù, Messia e Figlio di Dio) non ha creato la morte, ma che egli è il Signore della vita (prima lettura), ed ha, pertanto, potere sulla stessa morte. La forza della fede e il potere di Dio si manifestano nella vita dei cristiani, poiché grazie alla potenza della fede essi sono capaci di superare tutte le barriere etniche e culturali, ed di esprimere le loro carità fraterna ai fratelli di Giudea mediante la colletta (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

La fede vince la morte. Il potere della morte è universale. È un potere inquietante, che suscita preoccupazione, angoscia. È un grande interrogativo, inchiodato nel cuore della storia. Dio vuole la morte? La morte ha l’ultima parola? Ha qualche senso il morire? Un abbozzo di risposta lo troviamo nella liturgia di oggi. 1) La morte, non come passaggio da uno stato di vita ad un altro, ma come perdita della relazione con la fonte della vita che è Dio, come ladro che ci strappa violentemente il tesoro della vita, non ha la propria origine in Dio, ma è entrata nel mondo per invidia del diavolo. Il carico di angoscia, di disperazione, di nichilismo che la morte porta sulle sue spalle, proviene dal nemico di Dio e dell’uomo, dal nemico della vita, che è il demonio. 2) L’uomo è stato creato a immagine di Dio, Signore della vita; per questo, l’uomo è stato creato per la vita, non per la morte; è stato fatto immortale, come lo stesso Dio. Chi crede in Dio, Signore della vita, crede nel suo potere sulla morte e nella vittoria della vita sulla morte. 3) La potenza della vita sulla malattia e sulla morte trova due esempi nel potere della fede sia dell’emorroissa sia di Giairo.

Impotenza degli uomini e potere della fede. Il vangelo presenta un altissimo contrasto tra l’incapacità umana di fronte all’infermità e alla morte, da una parte, e, dall’altra, la forza impressionante della fede. L’emorroissa era malata da dodici anni, di una malattia di sterilità, terribile per una donna ai tempi di Gesù. Era ricorsa a tutti i rimedi umani, ma tutti erano risultati un fallimento. Non soltanto non migliorò, ma era peggiorata. La donna, nella sua tragica situazione, è disperata, l’incapacità umana è manifesta. L’unico atteggiamento davanti a tale incapacità è la fede. Ciò che l’uomo, con tutti i suoi mezzi, non può fare, lo può ottenere il potere della fede. Con questa convinzione ella si avvicina a Gesù, lo tocca con la mano e con la fede, e ne resta guarita. A Giairo accade lo stesso. Sua figlia è morta. Non c’è più rimedio: la morte ha vinto. Non appartiene all’esperienza umana il poter far tornare in vita. Ma la fede è più forte della morte. E per questo Gesù dirà a Giairo: "Non temere. Basta che tu abbia fede". E Giairo con la fede diede per la seconda volta la vita a sua figlia. Magnifici esempi della forza della fede!

Il potere della fede si chiama carità. La seconda lettura ci parla della colletta organizzata da Paolo in alcune delle comunità da lui fondate, in favore dei fratelli bisognosi di Giudea. La colletta mostra il potere della fede. Paolo e i cristiani, provenienti dal mondo greco-romano, debbono vincere pregiudizi razziali molto potenti; debbono superare un certo antisemitismo esistente già nella cultura ellenistica; debbono sovrapporsi a tutti gli ostacoli culturali: mentalità chiusa dei cristiani di Giudea, idea che tutti debbano essere come loro (circoncidersi, non mangiare alimenti impuri, osservare il calendario di feste ebraico…), se vogliono essere autentici cristiani. Il potere della fede in Cristo Signore si impone su tutti questi aspetti, e spinge i cristiani gentili ad un gesto straordinario di carità, perché tutti siamo fratelli in Cristo, e dobbiamo aiutarci gli uni gli altri.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

La fede fa "miracoli". Certamente, la fede in Gesù Cristo e nelle verità che egli propone da credere. Ma, in modo speciale, la fede come fiducia ed abbandono nel potere di Gesù Cristo. Non pensiamo che il potere della fede sia qualcosa del passato, di tempi oscuri dove la fede, la superstizione e l’irrazionalità camminavano di pari passo e mescolate tra loro. Il potere della fede non è limitato né nello spazio, né nel tempo; non è nemmeno limitato dal corpo o dall’anima. Il potere della fede è totale. Oggi continuano ad esserci miracoli, e miracoli frequenti, in gente che con una fede immensa chiede a Dio, per intercessione della Vergine Santissima o di qualche santo, la guarigione del corpo o dell’anima. Se uniamo insieme i miracoli che annualmente sono riconosciuti dalla Congregazione dei Santi, ne sommiamo varie decine. Esistono inoltre quelle migliaia di piccoli "miracoli", che nessuno conosce, se non gli interessati, ma che essi sanno essere opera del potere di Dio. E se la fede è tanto potente, perché noi uomini, in molte occasioni, abbiamo tanto poca fede? Quali paure si trovano nascoste nel nostro spirito, che ci impediscono tale fede gigantesca capace di far fiorire il miracolo nel deserto di un modo forse eccessivamente razionale?

L’Internazionale della solidarietà. "La fede agisce mediante la carità", ci dice san Paolo. Grazie a Dio, nella coscienza collettiva del nostro tempo, c’è una sensibilità maggiore nei confronti delle necessità dei nostri fratelli cristiani, e di tutti gli uomini. In quest’anno giubilare, sia benvenuta l’Internazionale della solidarietà dei cristiani presenti nei governi e nei parlamenti, per condonare in parte o del tutto il debito estero di molti paesi soprattutto dell’Africa e dell’America Latina. Sia benvenuta l’Internazionale della solidarietà di fronte alle calamità naturali che colpiscono sia il nostro paese, sia altri paesi del mondo. Sia benvenuta l’Internazionale della carità tra le diverse Chiese cristiane, tra le diverse conferenze episcopali, tra le diverse diocesi. Sia benvenuta l’Internazionale della carità tra gli stessi cristiani, in modo che, invece di aumentare, la distanza tra ricchi e poveri si veda a poco a poco diminuita. È già molto ciò che si fa, illuminati dalla fede, nel campo della solidarietà. Resta moltissimo da fare. Che cosa posso fare io? Che cosa può fare la mia parrocchia, la mia diocesi?

 

 

 

XIV Domenica del TEMPO ORDINARIO 9 luglio dell’anno 2000

Prima: Ez 2,2-5; seconda: 2Cor 12, 7-10 Vangelo: Mc 6, 1-6

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

La domenica scorsa i testi liturgici si incentravano sulla potenza della fede. Questa domenica sono incentrati sulle difficoltà per credere e sull’atteggiamento degli uomini davanti ad esse. Gli israeliti, a cui rivolge la parola il profeta Ezechiele, dubitano della fedeltà di Dio, che li ha abbandonati alla loro propria sorte nell’esilio di Babilonia. Di fronte a questa situazione si ribellano, e il loro cuore si indurisce per le cose di Dio (prima lettura). Anche i nazareni soffrono una crisi di fede di fronte a Gesù che, da una parte, ha operato grandi segni e miracoli, e, dall’altra, è uno qualsiasi degli abitanti di Nazareth, è "il figlio del falegname" (vangelo). Paolo non è esente da difficoltà nella sua fede, ma si mantiene fermo perché una voce nel suo intimo gli ripete: "Ti basta la mia grazia" (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Lo scandalo della fede. Credere è accettare l’irruzione di Dio nella propria vita e nella storia degli uomini. È accettare che l’uomo, con tutta la sua tecnica e tutto il suo sapere, non ha nelle sue mani tutti i fili degli avvenimenti. È accettare il rischio che Qualcuno ti indichi la strada, che tu non vedi. In questo senso, la fede è un autentico scandalo. Lo scandalo della fede non è cosa di questi ultimi secoli, né soltanto dei cristiani o degli uomini religiosi; lo scandalo riguarda ogni essere umano, perfino gli atei. Che essi lo vogliano o no, la fede è anche per loro una pietra d’inciampo nella loro marcia attraverso la vita.

Gli israeliti del secolo VI a.C. vennero scioccati, e divenne per loro un vero dramma il vedere che Gerusalemme era conquistata dai babilonesi, che li deportarono in gran numero al proprio paese. Dove sta la fedeltà di Javeh alle sue promesse? Dove sta, si domandavano gli israeliti, il braccio potente di Javeh? Non si è mostrato più potente Marduk (dio babilonese) che non Javeh? Javeh ci ha abbandonato. Lo scandalo dovette essere imponente!

Non minore dovette essere lo scandalo dei nazareni. Essi conoscevano la famiglia di Gesù. Una famiglia assolutamente uguale alle altre del villaggio. Conoscevano molto bene Gesù: la sua infanzia e gioventù, i suoi genitori, il suo lavoro, i suoi parenti; lo avevano visto crescere come uno dei tanti…No, non possiamo credere ciò che ci raccontano di lui. Gli deve essere accaduto qualcosa di strano! È evidente che non vi è cosa peggiore per la fede che abituarsi a vivere con il mistero al nostro fianco.

La fede di Paolo è messa alla prova in modo diverso. Egli è stato "rapito" fino al terzo cielo, cioè, ad una esperienza di Dio assolutamente stupefacente e profonda. Ciononostante, tale esperienza non lo libera dal pungiglione della "carne" (una malattia? La coscienza della sua debolezza di fronte alla missione? La coscienza dell’abisso tra se stesso, con tutti i suoi limiti, e Dio, con tutta la sua grandezza? Il sentire il peso del proprio peccato?). Come è possibile questo? Perché Dio non lo libera da questa spina che lo tormenta? Anche Paolo passò per lo scandalo della fede.

Atteggiamenti davanti allo scandalo della fede. La liturgia presenta alla nostra considerazione tre atteggiamenti di fronte allo scandalo della fede. Il primo è quello degli israeliti. È l’atteggiamento di ribellione, di ostinazione, di durezza di cuore. Invece di cercare soluzione ai loro dubbi sulla fedeltà di Dio, vi si afferrano, si chiudono in essi, per cui il loro cuore si indurisce davanti alla voce di Dio che giunge loro tramite il profeta Ezechiele. Invece di cercare di risolvere i propri dubbi di fede, vi si sprofondano sempre più. Il secondo atteggiamento è quello degli abitanti di Nazareth. Essi non possono dubitare dei segni e dei prodigi che ha fatto Gesù a Cafarnao e nei villaggi circostanti. Però non possono credere che un uomo normale, e del loro popolo, come era Gesù, riesca a fare tali cose. Essi se ne sarebbero resi conto da prima. Non sono così sciocchi! Qualcosa di strano e di singolare è successo, benché non sappiano cosa! Il terzo atteggiamento, molto diverso dai precedenti, è quello di Paolo. L’esperienza di Damasco ha segnato per sempre la sua vita. Ciò che accade, lo si deve spiegare a partire da questa esperienza, e così, a partire da tale esperienza della fede, egli giunge a due conclusioni: 1) di fronte alle crisi di fede, è presente la grazia di Cristo per affrontare le crisi stesse con decisione e con coraggio; 2) nella mia debolezza, proprio là è dove sono più forte, ma non con la mia forza, bensì con la forza di Dio. La prova della fede è un momento straordinario per accrescerla e per consolidarla.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Le difficoltà della fede oggi. Il credere trova delle difficoltà in qualsiasi epoca e in qualsiasi punto della terra. Quali sono le difficoltà che oggi trovano i nostri contemporanei nel loro cammino di fede? Alcune sono quelle di sempre, poiché la fede è un dono e lo si deve accogliere nella preghiera e con umiltà. Ai nostri giorni, si sono accentuate alcune difficoltà. Per esempio, il disinteresse più o meno marcato per ciò che non sia immediato e non apporti qualcosa di utile all’uomo, oggi, qui ed adesso; l’eccessiva fiducia nella ragione scientifica, a discapito della ragione filosofica che predispone alla fede; lo spirito relativista dominante in ampi settori della società, spirito nel quale "Dio" è un punto di vista qualsiasi, in concorrenza con altri apparentemente più attraenti; non poche volte si menziona anche l’immagine di una Chiesa retrograda, arroccata nel passato nella proposta di alcune verità dogmatiche o morali. C’è ancora chi dice di non credere perché la fede lo aliena e gli fa sognare un mondo inesistente, togliendogli energie per lavorare nel mondo in cui vive; o chi pensa che la fede sia cosa da "vecchie"… Bene, immagino che tu potrai aggiungere qualche altra difficoltà alla lista…

"Forti nella fede". Se mille tentazioni non fanno una caduta, nemmeno mille difficoltà fanno un solo dubbio di fede. Le difficoltà sono "magnifiche" per rafforzare la nostra fede, se le sappiamo affrontare con coraggio e con decisa coerenza. Viene una difficoltà? Prega, in primo luogo. Poi, cresci davanti ad essa, in modo che ti sembri piccola, anche se è grande. Pensa anche che ti aiuterà a maturare nella tua fede, perché una virtù non messa alla prova sarà sempre una virtù immatura. Non ti dimenticare, d’altra parte, di esser vigilante, perché, se vigili, la vedrai venire e cercherai il modo di difenderti e di attaccarla. Non ti dimenticare nemmeno del fatto che non sei l’unico ad avere tale difficoltà; che prima di te ci sono stati molti che l’anno avuta e l’hanno superata, e che anche adesso che tu hai questa difficoltà di fede, altri come te la stanno avendo in qualche parte del nostro pianeta, e stanno lottando come te per vincerla. E, perché non ricorrere a qualcuno che ti dia una mano, qualcuno esperto in queste cose di fede, come può essere un sacerdote amico, una religiosa che lavora nella tua parrocchia, un parrocchiano che è passato per la tua stessa prova e l’ha superata felicemente? È bello sentire la solidarietà, la compagnia, l’appoggio umano e spirituale di una persona amica!

 

 

 

XV Domenica del TEMPO ORDINARIO 16 luglio dell’anno 2000

Prima lettura: Am 7, 12-15; seconda: Ef 1, 3-14 Vangelo: Mc 6, 7-13

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il punto di incontro delle letture è la missione. Il vangelo parla della missione che Gesù dà ai Dodici: "Cominciò a inviarli a due a due, dando loro potere sugli spiriti immondi". Il profeta Amos, nella prima lettura, sottolinea che egli profetizza, non per volontà o iniziativa personale, ma "perché il Signore lo afferrò e gli fece lasciare il gregge dicendo: ‘Va’ a profetizzare al mio popolo Israele’". L’inno cristologico della lettera agli efesini (seconda lettura), canta i frutti della missione nella coscienza dei cristiani: la benedizione di Dio Padre, l’elezione in Cristo, l’adozione filiale, la redenzione e il perdono dei peccati, la rivelazione dei disegni di Dio sulla storia, il battesimo nello Spirito Santo.

 

 

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

La missione nella Chiesa-comunione. L’ecclesiologia del Vaticano II ha messo in risalto la concezione della Chiesa-comunione; e questa concezione della Chiesa si è sviluppata notevolmente nei decenni successivi fino ai nostri giorni. L’ecclesiologia di comunione racchiude in sé l’ecclesiologia di missione. Nelle parole e negli insegnamenti di Gesù le troviamo entrambe: "Padre, che tutti siano uno…" (Gv 17,21); "questo vi comando, che vi amiate gli uni gli altri" (Gv 15,17), da una parte; e, dall’altra, "Ne scelse Dodici per inviarli a predicare" (Mc 3-14); "Cominciò a inviarli a due a due" (Mc 6,7); "Andate e predicate" (Mt 28,19). La comunione tra le Chiese reclama che quelle che hanno più evangelizzatori, catechisti, consacrati, sacerdoti, li mandino a quelle che ne hanno meno o che ne siano urgentemente bisognose. In questo deve prevalere il bene supremo di tutta la Chiesa, sul bene particolare di una Chiesa locale. La comunione all’interno di ciascuna Chiesa locale richiede allo stesso modo un marcato significato di missione ed un notevole spirito missionario per evangelizzare e promuovere l’evangelizzazione dei fedeli cristiani su una retta concezione della Chiesa, come Chiesa-comunione, al di sopra di altre concezioni: Chiesa-istituzione benefica, Chiesa-società perfetta, Chiesa-potere, ecc. Urgente missione da realizzare da parte di tutti!

Missione di Gesù – Missione della Chiesa. L’evangelista Marco mette in rilievo che la missione dei Dodici (della Chiesa) è la stessa missione di Gesù. In effetti, in Mc 6,13 ci dice che i Dodici "predicavano la conversione, scacciavano demoni, guarivano". Ciò corrisponde alla missione di Gesù: "Convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15); "aveva guarito molti, e quanti soffrivano dolori gli si facevano addosso per toccarlo" (3,10), e infine "andò a predicare nelle loro sinagoghe per tutta la Galilea, scacciando i demoni" (Mc 1, 39). Dei Dodici si aggiunge che "ungevano gli infermi con olio". Si tratta forse di un riferimento all’uso, invalso tra i primi cristiani, dell’unzione degli infermi in nome del Signore, da parte dei presbiteri della Chiesa, come esorta la lettera di san Giacomo in 5,14. In san Giacomo, al posto dei Dodici si trovano i presbiteri (continuatori dei Dodici) e invece dell’invio diretto di Gesù abbiamo l’unzione in nome del Signore, cioè, in nome di Cristo glorioso nel cielo. Per mezzo di tutte queste azioni Gesù per primo, e poi i Dodici, ci hanno mostrato i segni rivelatori della presenza del Regno di Dio tra gli uomini.

Caratteristiche della missione. Non poche sono quelle che vengono indicate nei testi liturgici di questa domenica. 1) Potremmo dire che si chiede ai Dodici (e a tutti gli uomini con una missione) la comunione (due a due), la povertà (non prendere niente per il cammino, eccetto un bastone), la coerenza in un comportamento umile (restare nella casa, senza cercarne un’altra migliore…), in una condotta retta dalla libertà di spirito (se in qualche posto non vi ricevono, andate via e scuotete la polvere…), in un comportamento coraggioso ed intrepido (Amos che profetizza, anche se con pericolo della propria vita…). 2) I Dodici in missione incontreranno le stesse difficoltà che ha incontrato Gesù. Così come non hanno accolto né hanno ascoltato Gesù, così, in qualche occasione, non accoglieranno o ascolteranno nemmeno i Dodici. Otto secoli prima accadde lo stesso al profeta Amos, il cui messaggio di giustizia sociale e di critica al culto esteriore vennero anche rifiutati dal sacerdote di Betel, Amasia. 3) La missione è caratterizzata dai frutti, dai risultati, mediante la creazione di comunità di fede, in cui si benedice Dio Padre, perché ci ha scelti in Cristo, ci ha reso figli adottivi, ci ha redento in suo Figlio, ci ha fatto conoscere i misteri della sua volontà e ci ha suggellato con lo Spirito mediante il battesimo (seconda lettura).

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

"La missione della Chiesa si trova ancora agli inizi" (Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio 1). Queste parole possono essere pronunciate in ogni generazione e in ogni epoca storica, perché è necessario ricominciare sempre. In effetti, essendo il Vangelo per tutti, quando giungono nuovi uomini al nostro pianeta si deve cominciare con essi il compito di evangelizzazione. D’altra parte, constatiamo che i credenti in Cristo, dopo duemila anni di cristianesimo, sono approssimativamente il 27% della popolazione globale. Resta, pertanto, un 73% al quale si deve far giungere il Vangelo di Gesù Cristo. Non sarà, il nostro secolo XXI, l’ora di Dio per tutti quei popoli, soprattutto asiatici, che ancora non conoscono Cristo? Da quanto detto risulta evidente che tutti noi cristiani dobbiamo vivere "in stato di missione". I padri di famiglia sono "missionari" dei loro figli; i maestri, dei loro alunni; i medici e gli infermieri, dei propri pazienti; i volontari, di coloro che assistono; i parroci ed i loro collaboratori, dei fedeli della parrocchia…L’unica cosa che in questa ora di Dio non possiamo fare è starcene a braccia incrociate, stare senza far nulla. Sarebbe una posizione irresponsabile ed indegna di un buon cristiano!

Liberi per la missione. Per essere "missionari" si richiede di essere liberi. Liberi per accettare questa dimensione propria della vocazione cristiana; liberi per rispondere a Dio con generosità, senza vincoli di istinti e di passioni egoiste; liberi per seguire docilmente le luci e i movimenti dello Spirito Santo dentro noi stessi. Ci si chiede di essere liberi da ogni attaccamento ai beni e ai mezzi materiali, per presentarci con il vangelo puro, senza glossa; liberi da ogni orgoglio ed ansia di potere, con la chiara coscienza che siamo servitori dell’uomo. Ci si chiede di essere equipaggiati unicamente con un grande amore per Gesù Cristo, nostro modello; equipaggiati con il Vangelo fatto vita; equipaggiati con la fiducia in Dio e con la speranza nell’azione dello Spirito Santo nel cuore degli uomini.

 

 

XVI Domenica del TEMPO ORDINARIO 23 luglio dell’anno 2000

Prima: Ger 23, 1-6; seconda: Ef 2, 13-18 Vangelo: Mc 6, 30-34

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Riunire. Questo è il concetto chiave della liturgia attuale. "Io stesso riunirò il resto delle mie pecore" dice Javeh (prima lettura). Gesù vede la folla con compassione ed esclama: "sono come pecore senza pastore" (vangelo), ma egli, il buon pastore, le riunirà in un solo gregge (Gv 10,16). Gesù, buon pastore, riunisce in un solo gregge anche coloro che "erano lontani" (pagani) e coloro che "erano vicini" (giudei), per mezzo del suo sangue versato sulla croce (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Come pecore senza pastore. Nella sostanza delle cose, l’umanità si trova fin dagli inizi in una situazione simile, benché cambino le circostanze apparenti: pastori che abbandonano le proprie pecore, e pecore che abbandonano i loro pastori. Il profeta Geremia, nella prima lettura, fa menzione dei re-pastori di Giuda (metafora molto frequente nella cultura di quel tempo), che, invece di pascolare le pecore, le smarriscono, le disperdono e le mettono in fuga. Re-pastori che, invece di obbedire a Dio, che parla loro per mezzo di Geremia, per il bene delle pecore, obbediscono a criteri umani, sotto la cui guida causano la rovina del gregge, che andrà in esilio a Babilonia. Sei secoli dopo, Gesù vede "come pecore senza pastore" le moltitudini galilee che accorrono a lui per ascoltare la sua parola di verità e di salvezza. Pecore senza pastore, sì, perché i pastori del popolo (sacerdoti, scribi) non sembravano mostrare interesse per le pecore, segnate dalla maledizione per il fatto di non conoscere la legge (Gv 7, 49). Da che l’uomo è uomo, ha avuto bisogno di guide che gli indichino la via e lo dirigano per il sentiero della sua autentica umanità verso l’orizzonte della felicità e di Dio. Dove sono, e chi sono tali guide? In una crisi epocale come la nostra, gli uomini non guardano più verso i "guru" della scienza, della tecnica, della religione "a propria scelta", ma verso i pastori della Chiesa. Siamo noi, i pastori della Chiesa, all’altezza del nostro incarico in questo momento drammatico e stupendo della storia?

Pastori falliti. I testi della liturgia qualcosa ci debbono insegnare. Ci parlano di pastori falliti, che hanno fallito nel compito e nella responsabilità loro affidata. Pastori falliti, innanzitutto di Israele, e poi di Giuda, furono molti dei suoi re. Ma non soltanto i re, anche alcuni profeti fallirono nel loro incarico di pastori, perché non profetizzavano la Parola di Dio, ma le loro proprie parole; allo stesso modo, tra i sacerdoti ci furono coloro che fecero smarrire non poco le loro pecore. E, se quelli che sono colonne dell’edificio, traballano, chi potrà mantenersi in piedi? Questo è il grande dramma della storia in ogni generazione. Anche nella nostra. Una generazione senza pastori vive allo sbando, si agita infelice nella palude del nonsenso. Una generazione con pastori che non lo sono, si vede sull’orlo della sfiducia nell’autorità, vive il supplizio della confusione, si racchiude nel soggettivismo atroce e senza solidarietà. Ogni generazione richiede con urgenza pastori-testimoni, che indichino con la loro vita il vero cammino dell’uomo.

Il Buon Pastore. Nella prima lettura, Dio si presenta come il Pastore per eccellenza delle pecore di Giuda. Con il trascorrere dei secoli, l’immagine di Dio-Pastore si incarna e si riflette in Gesù Cristo, Buon Pastore. Che cosa fa un pastore buono? Innanzitutto, sentire profondamente una sincera compassione per le pecore smarrite, disorientate, senza guida. Poi, riunire le pecore sotto la propria guida, per evitare, da una parte, che i lupi le acchiappino e le divorino, e dall’altra per dare a tutte l’alimento della verità e del bene. In seguito, avrà cura che crescano e si moltiplichino, e che in tal modo prolunghino nella storia delle generazioni le sue meraviglie in favore degli uomini. Infine, sceglierà altri pastori che lo aiutino nel suo compito di guida, e con essi continuerà a portare le pecore a verdi praterie e a fresche acque (puro vangelo, sana filosofia, dottrina dogmatica e morale della Chiesa, azioni e segni potenti di Dio per mezzo di loro). Il Buon Pastore ha bisogno di molti e buoni pastori.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

In cerca di orientamento. I sociologi che tastano giorno per giorno lo stato della società in cui viviamo, sono d’accordo sul fatto che l’umanità è giunta al termine di un viaggio storico. Nel momento attuale, essa possiede i migliori mezzi per intraprendere un viaggio fenomenale e grandioso per il futuro, ma i "piloti" non hanno idea di dove dirigersi, a che termine giungere. Corrono, volano, solcano il mare della storia non poche volte senza alcuna rotta. Per questo, il nostro tempo è un momento magnifico, un’opportunità straordinaria per la Chiesa. Da duemila anni, la Chiesa fondata da Gesù Cristo sa da dove viene e dove va. La Chiesa possiede la mappa della rotta, affinché l’umanità raggiunga il suo destino, il termine della storia, che non può essere altro che Dio. Come dice il cardinale Tonini, siamo giunti a un momento in cui nei fori internazionali e nei parlamenti si parlerà di Cristo, "origine, guida e meta dell’umanità". Non soltanto nei grandi fori, ma anche nei piccoli fori della diocesi, della parrocchia, dell’azione cattolica, dei gruppi e dei movimenti, Cristo e i valori cristiani recupereranno terreno nella società, che cerca ansiosamente in essi una guida certa e sicura.

Uniti sotto uno stesso Pastore. Di fronte ad una società che affannosamente reclama orientamento, è urgente che tutti noi cristiani ci uniamo sotto uno stesso Pastore, il Buon Pastore. Perché il primo orientamento che Cristo offre agli uomini è proprio l’unità nella verità e nella carità. Essendo molti i secoli in cui le divisioni hanno prevalso, i passi nel cammino verso l’unione piena (campo della dottrina dogmatica e morale) sono lenti e progressivi. Non ci deve meravigliare. Gli esperti e i responsabili delle Chiese andranno, con l’aiuto di Dio, chiarendo i diversi temi ed offrendo le soluzioni più corrispondenti al disegno di Dio. Noi fissiamo la nostra attenzione sul fatto che, se è molto ciò che ci divide, è molto di più ciò che ci unisce. Promuoviamo con la nostra parola e con la nostra vita l’unità nella verità, ma allo stesso e modo e molto di più l’unità nell’amore verso tutti i cristiani, nel rispetto verso i membri di altre Chiese, nella collaborazione per incoraggiare e difendere i fondamentali valori umani e cristiani... Che in questo compito unitario ci guidi sempre Cristo Pastore, l’unico Pastore di tutti. Uniti sotto uno stesso Pastore potremo più facilmente e con maggior efficacia essere vere guide per la nostra società.

 

 

 

 

 

 

 

XVII Domenica del TEMPO ORDINARIO 30 luglio dell’anno 2000

Prima: 2Re 4, 42-44; seconda: Ef 4, 1-6 Vangelo: Gv 6, 1-15

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Uno dei principi basilari della fede cristiana è la "sovrabbondanza" da parte di Dio nei confronti dell’universo e particolarmente nei confronti dell’uomo. Questo principio predomina come tema dei testi liturgici. Nella prima lettura, ad Eliseo sono sufficienti venti pani per alimentare cento uomini. Gesù Cristo, da parte sua, nel vangelo sazia la fame di 5000 persone con soli cinque pani e due pesci, e, inoltre, "raccolsero dodici cesti pieni di pezzi di pane e di ciò che era avanzato del pesce". Infine, nella seconda lettura, l’unità della comunità cristiana (Chiesa) è frutto sovrabbondante del pane eucaristico che giunge a tutti i cristiani in qualsiasi luogo essi si trovino.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Un principio basilare dell’operare divino. Se ripassiamo l’opera di Dio, la cosa più sorprendente è proprio la prodigalità divina con la creazione e particolarmente con l’uomo. Una prodigalità che potrebbe sembrare eccessiva, se la misuriamo con criteri umani. Le conoscenze astronomiche attuali ci permettono di ammirare, molto più che non nei tempi passati, la generosità di Dio con la creazione. Non minore ammirazione provocano gli studi sul microcosmo dei corpi, in special modo del corpo umano. Non è forse ogni cellula, ogni neurone dell’uomo un prodigio e uno spreco di generosità divina? D’altra parte, il principio che ha retto l’azione divina nella creazione, è stato allo stesso modo il principio rettore della sua attuazione storica. Come ci dice san Paolo, "laddove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia". La storia, con tutte e con ciascuna delle sue intricate vicissitudini, è, sì, la storia del peccato umano, ma è soprattutto la storia della sovrabbondanza della grazia divina. Dio fu sovrabbondante nella sua misericordia con il genere umano in Noè, con il popolo di Israele in Abramo, con la monarchia israelitica in David, con l’umanità intera in Gesù Cristo redentore. La sovrabbondanza del pane nelle letture di questa domenica è un’espressione ulteriore del principio che stiamo commentando.

 

I mediatori della sovrabbondanza divina. Il primo punto chiaro che non si può dimenticare è che la sovrabbondanza non proviene dall’uomo, ma da Dio. L’uomo è semplicemente un mediatore, sebbene necessario. Perché né nel caso di Eliseo, né in quello di Gesù Dio parte da zero: non crea il pane, ma lo moltiplica. Dio può partire da due, da cinque o da venti (la quantità non importa molto a Dio), ma ha voluto partire da qualcosa. È bello questo volere di Dio! Come è allo stesso modo stupendo che Dio voglia la mediazione degli uomini al momento di distribuire la sua sovrabbondanza. Non lo fa direttamente. Javeh si servì della mediazione di Eliseo, e quest’ultimo a sua volta di quella di un uomo di Baalsalisà. Gesù Cristo mediò la sovrabbondanza di Dio, e a loro volta gli apostoli mediarono tra Gesù e la folla. Ogni cristiano, ma soprattutto il sacerdote, è mediatore della generosità di Dio nei confronti degli uomini. Meraviglia della grazia! Richiamo alla generosità e alla responsabilità!

 

I destinatari della sovrabbondanza divina. La sovrabbondanza divina è destinata "alla gente" (prima lettura), "a una gran folla, venuta da tutti i villaggi" (vangelo). Dio mostra la sua sovrabbondanza anche nel destino della stessa: non pochi privilegiati, ma tutti. Assolutamente nessuno è escluso dal "pane" divino. Soltanto chi non lo accetta, per il fatto di essere saziato da altri "pani", o per presunzione, giacché il pane di Gesù (pane di orzo) è il pane dei poveri, della gente comune. Tale pane divino è la sua Parola di vita, che vivifica chi la riceve; è il pane della carità (il cristiano che mediante la sua carità si trasforma in pane per gli altri), che soddisfa le necessità vitali ed elementari di ogni essere umano; è soprattutto il pane dell’eucarestia, prefigurata nella moltiplicazione dei pani, come ci insegna il catechismo (CCC 1335). La sovrabbondanza divina è il supremo eguagliatore dell’uomo; sopprime ogni differenza, perché non c’è nessuno che non sia bisognoso della generosità di Dio.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Il pane che ci unisce. Sociologicamente parlando, il pane è un fattore di uguaglianza e di unione. C’è una grande varietà di pane, ed ogni paese ha i modi propri di farlo, ma è pane per tutti e lo è allo stesso modo. Sulla tavola del ricco o del povero, su quella di un tunisino o di un colombiano, sul quella di un banchiere o di un muratore c’è sempre del pane; codesto pane che è frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Ma nel nostro mondo attuale, non ci sono forse tavole, non ci sono mani senza pane? Non ci dovrebbero essere, perché la sovrabbondanza di pane è grande. Tuttavia, ce ne sono. Chi di noi non ha nella sua memoria occhi, grandi come due pagnotte, di bambini affamati che implorano clemenza, che sospirano per un pezzo di pane? Sarà possibile che il pane che ci unisce si trasformi nel pane che ci separa?

Il pane che ci unisce è soprattutto il pane eucaristico: il Corpo di Cristo. Tale pane meraviglioso che evidenzia nella storia la sovrabbondanza dell’amore di Cristo verso coloro che credono in lui. Tale pane viene offerto a tutti i credenti giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, sulla stessa tavola: l’altare del sacrifico redentore. E mi domando con stupore: perché gli uomini, tanto affamati di spiritualità, non si avvicinano con maggior frequenza a questo "Pane divino e pieno di grazia" che li può saziare?

Memoria e speranza. La sovrabbondanza del pane è "memoria" dei prodigi realizzati da Dio con gli israeliti durante i quaranta anni di peregrinazione per il deserto, in cui venne data loro da mangiare la manna, "pane degli angeli". È necessario ricordare, per ringraziare, per essere sicuri che Dio continui ad operare anche tra di noi, dandoci il pane della sua parola e della sua eucarestia. Ma, oltre che ricordare, si deve anche sperare. Sperare che Dio porti a compimento meraviglie ancor maggiori. Dopo l’esodo dall’Egitto, Mosè inaugura la pasqua giudaica, Gesù inaugura la pasqua cristiana, prefigurata nella moltiplicazione dei pani. Il monte Sinai è rimpiazzato dal monte sul quale Gesù si ritira a pregare. Agli israeliti il mare aprì un varco affinché lo potessero attraversare, Gesù cammina nella notte sulla superficie delle acque del mare di Galilea. Mosè si ritirò in solitudine per ricevere da Dio il decalogo, Gesù si ritirò in solitudine per mantenere la fedeltà alla sua missione e difendersi da ogni trionfalismo politico. Fratello nella fede, fa memoria del passato per ringraziare, chiedere perdono. Ma soprattutto guarda con fiducia verso il futuro per consacrarlo al Signore e viverlo con la speranza che non delude.

 

 

Domenica XVIII del TEMPO ORDINARIO 6 agosto dell’anno 2000

Prima: Es 16, 2- 4. 12-15; seconda: Ef 4, 17. 20-24; Vangelo: Jn. 6, 24-35

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Si può dire che i testi liturgici si concentrino sulla fede come principio ermeneutico dell’esistenza umana. La fede interpreta la vita degli israeliti che camminano esausti per il deserto ed assicura loro che non sono abbandonati, ma che Dio, col suo potere e il suo amore paterno, è con loro (prima lettura). La fede interpreta la vita degli uditori di Gesù, in modo tale che siano capaci di vedere nella moltiplicazione dei pani un segno della presenza efficace di Dio in mezzo a loro (vangelo). La fede interpreta il cristiano, facendogli scoprire che non è più uomo vecchio, ma uomo nuovo, e che deve far risplendere la novità di Cristo nella sua vita (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

La fede come memoria. Il credente è un uomo della memoria. Deve ricordare, ricordare sempre. Ricordare la storia di fede cristiana, che non inizia nel nostro secolo, ma che risale a secoli assai lontani, alla storia di Abramo, prototipo di fede in Dio per tutte le generazioni. Ricordare tante meraviglie che Dio ha realizzato in tale storia secolare, come per esempio quella che ci narra la prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo. Quegli israeliti che erano usciti dall’Egitto vittoriosi e contenti, camminano adesso per il deserto affaticati, scoraggiati, senza orizzonti di speranza; ma Dio, il Dio liberatore, non li lascia nel pericolo; adesso diventa piuttosto il Dio compagno e guida della loro marcia per il deserto, sostegno ed appoggio nelle loro necessità. Un padre, può forse abbandonare i suoi figli? Ricordare anche il grande dono che Dio ci ha fatto in suo Figlio Gesù Cristo, che è passato per questo mondo facendo il bene, come vero medico di corpi e di anime. Ricordare il pane moltiplicato per alimentare i corpi, e ricordare il pane della sua Parola e della sua Eucarestia per alimentare le anime. Ricordare ai primi cristiani che essi erano trasformati dalla loro immersione nelle acque del battesimo, e ricordare il nostro battesimo, per mezzo del quale siamo stati incorporati a Cristo e alla sua Chiesa. Questo semplice esercizio di memoria, quanto fa bene al credente, al cristiano!

La fede come ermeneutica. Lo si voglia o no, il credente è interpretato dalla sua fede. Potremmo dire: "Dimmi in chi credi, in che cosa credi, e ti dirò chi sei, come vivi". Pertanto, la fede in Cristo interpreta la vita di ogni cristiano. Cioè, il suo modo di pensare, di agire, di lavorare, di vivere, di amare, di esercitare la sua professione è, deve essere, illuminato dalla fede in Gesù Cristo. Quando codesta fede in Cristo non è qualcosa di pochi individui, ma fa parte di un gruppo o di una maggioranza, allora sfocia in cultura cristiana: la fede impregna tutti i settori della vita comunitaria e sociale. In mezzo alle difficoltà e alle tentazioni sperimentate dagli israeliti, in mezzo alla sollecitazione puramente politica e socio-economica degli uditori di Gesù, la fede li aiutò ad interpretare gli avvenimenti e le opere di Dio con altri occhi, purificati proprio dal collirio della fede. Quella stessa fede interpretò in tal modo la vita dei primi cristiani, che li trasformò in uomini nuovi, "creati secondo Dio, nella giustizia e nella santità della verità". Nella misura in cui i credenti in Cristo andarono aumentando nel primo secolo e nei secoli seguenti, furono lievito nella massa umana, crearono cultura, e infine riuscirono a configurare la società in conformità con la fede in Gesù Cristo. Non è, questa, una grande sfida che dobbiamo affrontare al giorno d’oggi, noi cristiani, in un ambiente cosiddetto post-cristiano, ma socialmente e culturalmente ancora radicato nel cristianesimo? La missione storica dei credenti in Cristo, all’inizio del secolo XXI, è e sarà senza dubbio il far fiorire quelle radici, perché il buon profumo di Cristo si espanda di nuovo nella nostra società.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Pane e fede, fede e pane. Dio è il primo a non abbandonare l’uomo alle sue necessità più fondamentali di sussistenza. Per questo, soccorre il suo popolo con pane, carne ed acqua nella sua lunga marcia dall’Egitto alla Terra Promessa; Gesù, da parte sua, imitando Dio suo Padre, davanti ad una folla indebolita dalla fame, compirà lo stesso gesto divino moltiplicando i pani e i pesci. Ma il pane, benché necessario, è insufficiente; deve essere accompagnato dalla fede, in modo che Dio non sia un semplice benefattore, ma altresì il Dio trascendente e santo; in modo che la gente non veda in Gesù un candidato a re, ma il Messia di Israele e il Figlio di Dio. La dimensione sociale del cristianesimo è ovvia, ma nasce dalla fede in Gesù Cristo. E perderebbe la propria caratteristica, se, separandola dalla fede, facesse del cristianesimo un supermercato gratuito o un’agenzia di beneficenza sociale. Il pane senza la fede manca di sapore cristiano. La fede senza pane, semplicemente non ha sapore. Noi cristiani siamo invitati ad unire nel nostro operare il pane con la fede e la fede con il pane. La separazione, purtroppo, ha causato non pochi danni entro la stessa vita della Chiesa e nell’immagine che del cristianesimo si sono formata quelli che non sono cristiani. Se ognuno accoglie l’invito ad unire pane e fede, fede e pane, il cristianesimo e il mondo saranno migliori, ed apriranno una buona strada per il terzo millennio cristiano.

Il potere della fede. Noi uomini siamo abituati a vedere il potere nel denaro, nelle armi, nelle influenze, nello stato, nell’autorità morale, per esempio di Madre Teresa di Calcutta, di Papa Giovanni Paolo II. Io vorrei sottolineare oggi, con la liturgia, il potere della fede. Perché è evidente che l’autorità morale di Madre Teresa o di Giovanni Paolo II non proviene principalmente dalle loro qualità, ma dalla loro fede, una fede così grande in Dio, da esser capace di rompere barriere e distruggere muri, una fede tanto ardente che non li trattiene nel loro donare se stessi né l’età, né la malattia, né le difficoltà che si potrebbero interporre nel loro lavoro per Dio. Si può pensare all’opera materiale e spirituale di Madre Teresa, al crollo del muro di Berlino, ai viaggi nei Luoghi Santi del cristianesimo in occasione del Grande Giubileo dell’Incarnazione, ma ci sono mille altri aspetti non tanto vistosi, tuttavia sommamente efficaci, che mostrano nelle loro vite il potere della fede. Riflettiamo semplicemente e con gratitudine sul potere della fede in noi stessi, nelle persone che sono al nostro fianco e con le quali conviviamo, in tantissimi cristiani sparsi per tutti gli angoli del nostro pianeta. Come brilla il potere della fede, per esempio, nei santuari mariani: Lourdes, Fatima, Guadalupe! Si domandi ciascuno che cosa può fare perché altre persone sperimentino nella propria carne il potere della fede. Il potere della fede è la leva che sostiene ed innalza il mondo.

 

 

Domenica XIX del TEMPO ORDINARIO 13 agosto dell’anno 2000

Prima: 1Re 19, 4-8; Ef 4, 30-5,2; Vangelo: Gv 6, 41-51

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

La settimana scorsa la liturgia sottolineava il potere della fede. La liturgia attuale pone l’accento sull’efficacia, sul potere dell’Eucarestia. Il pane eucaristico che Cristo ci dà è prefigurato nel pane che un messaggero di Dio offre ad Elia, "con la forza del quale egli camminò quaranta giorni e quaranta notti verso il monte di Dio, l’Oreb" (prima lettura). Il pane del quale parla Cristo nel vangelo è il pane disceso dal cielo, è il pane della vita, di una vita che dura per sempre, è la sua carne per la vita del mondo (vangelo). Carne offerta come oblazione e vittima dal soave aroma, che dà forza ai cristiani "per vivere nell’amore con cui Cristo ci amò" (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Il pane che rende forti. Elia si trova in una situazione quasi disperata. Jezabel lo ha minacciato di morte. Per evitare il peggio, si dà alla fuga. Giungendo a Berseba di Giuda, non sa che cosa fare, è senza orientamento. Angosciato, si augura la morte. In quel momento Dio interviene mandandogli, per mezzo di un angelo, del pane dal cielo. Il pane che Dio gli dà innanzitutto lo trae fuori dalla sua angoscia e dal suo smarrimento, e poi gli procura forze straordinarie per andare fino al monte Oreb, alle fonti stesse dello jahvismo, dove Dio si rivelò a Mosè come Jahvé, dove Dio strinse un’alleanza col suo popolo, e dove Dio diede a Mosè le due tavole della Legge. Questo pane del cielo che fortificò Elia è prefigurazione del pane disceso dal cielo, che è Cristo stesso. È tale la forza di codesto pane divino, che può cambiare radicalmente l’uomo, rendendolo "amabile, compassionevole, capace di perdonare e di amare come Cristo". Questo pane di vita infonde tale vigore nell’anima, che vince "ogni amarezza, ira, collera, maldicenza, e qualsiasi tipo di malvagità". Questo pane del cielo ha sostenuto e dato forza a milioni e milioni di esseri umani nel corso dei secoli. L’Eucarestia non è soltanto il centro di tutti i sacramenti e della srtessa vita cristiana, ma anche la maggior forza del cristianesimo.

Il pane di vita. Il pane che l’angelo offre ad Elia fa dimenticare a quest’ultimo il suo tedio della vita e gli infonde nuova voglia di vivere per essere propagatore e difensore della fede in Jahvè. Gesù è il pane vivo, disceso dal cielo; cioè, il pane che dà la vita nuova, il cui potere insospettato ha operato meraviglie nei primi cristiani che si riunivano settimanalmente per la frazione del pane. Rafforzati con questo alimento celestiale, essi diffusero la Buona Novella di Gesù Cristo in tutti gli angoli dell’impero romano, si sforzarono di vivere una vita morale che richiamava l’attenzione dei pagani, furono disposti a soffrire persecuzioni e perfino il martirio. Quando nel cuore dell’uomo abita Gesù Cristo, rendendolo partecipe della sua propria vita divina mediante il pane dell’Eucarestia, "non sono più io che vivo – per usare parole di san Paolo – è Cristo che vive in me". D’altra parte, il pane che dà la vita di Cristo al credente, è anche il pane che fa vivere. Fa vivere l’uomo scoraggiato, infondendogli ragioni per vivere; fa vivere l’uomo disorientato, aprendogli orizzonti di futuro e di speranza; fa vivere l’uomo smarrito, indirizzando i suoi passi per il cammino dell’amore, per essere, come Gesù, un pezzo di pane per gli uomini suoi fratelli; fa vivere l’uomo disperato della vita, mostrandogli che è bello donarsi a Dio e agli altri, con Gesù Cristo, come oblazione e vittima dal soave aroma. Questo pane divino ci dà la vita, ci fa vivere e inoltre ci insegna l’arte di vivere. Arte che consiste nell’essere grano di frumento che muore, marcisce e rivive, si trasforma in spiga, è stritolato per diventare farina, è ammassato e messo al fuoco per trasformarsi in pane dorato e saziare la fame di Dio che tanti uomini hanno.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

I frutti dell’Eucarestia. In forma semplice e molto ricca il catechismo della Chiesa parla dei frutti della comunione. Sono straordinari. In primo luogo, l’Eucarestia accresce la nostra unione con Cristo. Ricevendo la comunione, riceviamo lo stesso Cristo e stringiamo vincoli di amore e di unione con Lui. Tutte le anime innamorate di Gesù Cristo sanno ciò che questo significa. In secondo luogo, l’eucarestia ci separa dal peccato, noi che tanto facilmente ci vediamo ad esso inclinati. Cristo eucarestia cancella i nostri peccati veniali, rendendoci capaci di rompere i legami disordinati con le creature. Cristo eucarestia ci preserva da futuri peccati mortali, perché ci fa sperimentare la dolcezza della sua amicizia. Cristo eucarestia ci fa Chiesa, cioè ci dà coscienza di essere uniti nella fede della Chiesa e di essere tutti fratelli, perché tutti ci alimentiamo con uno stesso pane. Cristo eucarestia ci chiede un impegno in favore dei poveri, per dimostrare con la vita la nostra fraternità e per rendere visibile tra gli uomini che l’amore verso Dio e Gesù Cristo non soltanto non ci esime dall’amare i più bisognosi, ma ci obbliga a ciò. Cristo eucarestia è, infine, pegno della gloria futura, come dice sant’Ignazio di Antiochia, rimedio di immortalità. È di grande necessità spiegare ai fedeli, specialmente ai bambini e ai giovani, i frutti dell’Eucarestia con parole semplici, chiare, efficaci. Una buona catechesi è la maniera migliore per fomentare una frequente e fruttuosa ricezione del Corpo di Cristo.

Eucarestia e fede. L’Eucarestia non dà frutti in modo automatico, anche se la sua efficacia non proviene dall’uomo, ma dal sacramento. Come ogni dono divino, fruttifica soltanto nella terra della fede e dell’amore. Se siamo poveri di fede e di amore, chiediamo al Signore che accresca in noi le virtù teologali. Se abbiamo dei dubbi sui frutti dell’eucarestia, siamo sicuri che la nostra fede e il nostro amore non sono ancora sufficientemente grandi per far fiorire e fruttificare in noi il corpo e il sangue di Cristo. L’eucarestia ha in sé tutta la forza di Dio, siamo noi, con la nostra piccolezza, con il nostro orgoglio, con la nostra poca fede, ad impedire alla forza di Dio di manifestarsi nelle nostre vite. Diciamo al Signore con tutta l’anima: "Signore Gesù, credo nell’eucarestia, aumenta la mia fede". "Signore Gesù, amo l’eucarestia, aumenta il mio amore". Chiediamo al Signore una fede e un amore giganti, perché nella nostra vita si faccia verità l’efficacia dell’eucarestia, e siamo così testimoni vivi di tale efficacia nel nostro ambiente di famiglia e di lavoro. È anche questo un momento molto propizio per esaminare il nostro fervore eucaristico, come partecipiamo alla messa, come e con quale frequenza riceviamo Gesù Cristo nella comunione, quale risonanza ha la comunione nel nostro comportamento quotidiano.

 

 

Solennità dell’Assunzione della VERGINE MARIA 15 agosto dell’anno 2000

Prima: Ap 11, 19; 12,1-6 ; seconda: 1Co 15, 20-26; Vangelo: Lc 1, 39-56

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Ha fatto grandi cose in me l’Onnipotente". Con queste parole del Magnificat Maria sintetizza lo spirito dei testi liturgici. Dio ha scelto Maria per realizzare i suoi disegni di salvezza. "Non hai gradito olocausti e sacrifici... ecco, io vengo per fare la tua volontà" (seconda lettura). Dio ha concesso a Maria il privilegio di essere sua madre: "Concepirai e darai alla luce un figlio... Egli sarà Figlio dell’Altissimo" (vangelo). Dio ha glorificato Maria come nessun’altra creatura: "Un gran segno apparve nel cielo: una Donna, vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi, e una corona di dodici stelle sul suo capo" (prima lettura). La liturgia dell’Assunzione di Maria canta le grandezze che Dio ha fatto nella sua umile serva.

MESSAGGIO DOTTRINALE

La grandezza nella piccolezza. Innanzitutto si deve dire che lo spirito con cui Maria vive la sua piccolezza è di una magnanimità straordinaria. L’umiltà, la semplicità, la povertà, il sentimento di indigenza, la mancanza di potere, l’atteggiamento di abbandono e di fiducia non incidono nell’anima di Maria per ridurla ad un’ipocrita meschinità o a un sentimento di inferiorità. Maria è grande nella sua piccolezza. È grande quando si riconosce umile serva del Signore e gioca tutta la sua vita alla carta del servizio. È grande quando canta piena di gioia che "Dio ha esaltato gli umili, e ha rimandato a mani vuote i ricchi", manifestando una esperienza personale e una specie di legge nell’agire di Dio con gli uomini. È grande quando, sapendosi piccola e bisognosa, ricorre con frequenza alla preghiera perché Dio le riveli i misteri di suo Figlio, i misteri del Regno. È grande quando a Cana di Galilea, cosciente della sua mancanza di potere, dice a suo Figlio: "Non hanno vino", e poi ai servitori: "Fate ciò che vi dirà". È grande quando dal cielo, vestita di sole e coronata di stelle, continua a prodigarsi e a servire i suoi figli che camminano per la valle della vita verso l’eternità. Ci sono anime che di fronte all’indigenza, alla piccolezza, all’impotenza si rimpiccoliscono, si impauriscono, si riducono come uva secca, si sminuiscono psicologicamente e nel loro agire con gli altri. Maria non fa parte di queste anime, Maria si ingrandisce con la piccolezza, cresce di fronte all’indigenza, si rafforza e potenzia col potere di Dio di fronte alla sua mancanza di potere e alla sua coscienza di povertà.

La piccolezza nella grandezza. Maria sa molto bene che la grandezza non è sua, non le appartiene, ma che è di Dio, appartiene a Dio. Per questo, Maria, davanti alle grandezze che Dio ha realizzato nella sua vita, non si insuperbisce, ma mantiene un atteggiamento saggio e fondamentale: e cioè, in se stessa, Ella continua ad essere povera e piccola. "La mia anima loda la grandezza del Signore... perché ha posto i suoi occhi sulla povertà della sua serva" (vangelo). Maria è una donna dalla fede semplice, ma ferma e forte; dalle convinzioni profondamente radicate, dalla coscienza di se stessa chiara e trasparente. Grazie a ciò, può continuare ad essere piccola in mezzo alle meraviglie che Dio ha realizzato nei suoi confronti, e in mezzo ai privilegi con cui l’ha colmata al di sopra di qualsiasi altra creatura. La maternità divina, l’assunzione in anima e corpo alla gloria celeste, privilegi senza pari nella storia, la commuovono di riconoscenza verso Dio, ma non le fanno dimenticare la realtà della sua piccolezza e della sua appartenenza al gruppo degli anawim. Ella ha appreso molto bene una delle paradossali lezioni di suo figlio: "Chi vuole essere grande tra di voi, sarà vostro servitore, e chi vorrà essere il primo, sarà schiavo di tutti" (Mc 10, 43-44). Maria ebbe bisogno di molta umiltà per continuare ad essere semplice in mezzo alle meraviglie che Dio operò in lei e per mezzo di lei.

SUGGERIMENTI PASTORALI

"La piccola via". Così santa Teresa di Lisieux definì la sua spiritualità. Ella non si considerava né degna né capace di grandi opere missionarie, come san Francesco Saverio, né di grandi opere di dottrina, come sant’Agostino o san Tommaso d’Aquino. Non si riteneva dotata di grandi qualità di eloquenza, come san Bernardino da Siena o sant’Antonio di Padova. Si considerava troppo piccola e debole per soffrire il martirio cruento, come gli apostoli Pietro e Paolo. Ma non per questo si scoraggiò. Nella preghiera chiese al Signore che le indicasse il suo cammino di santità, la sua piccola via, e Dio gliela manifestò: "Nel cuore della Chiesa io sarò l’amore". Cioè: "Non posso essere martire, né missionaria, né maestra di dottrina, né donna di grande eloquenza, ma posso, sì, amare. La mia vocazione nella vita è l’amore". La maggioranza degli uomini e delle donne del nostro pianeta, della nostra parrocchia, non potranno fare né faranno "grandi cose". Ma nulla e nessuno impedisce loro di amare, di camminare per la via dell’amore giorno per giorno, con gioia e con continuità, in tutto ciò che faranno. È stato anche il cammino della Vergine santissima che adesso, dal cielo, ci invita a seguire i suoi passi. Questo cammino dell’infanzia spirituale è urgente, necessario, per gli uomini e le donne del nostro tempo.

La vera grandezza. Dove risiede la vera grandezza? Sant’Agostino ci direbbe: "Non la cercare fuori, cercala dentro di te". L’uomo è grande se ha un cuore grande, se è stato ingrandito dalla grazia divina, se la sua vita intera trasuda dono di sé, santità e virtù. Non si è grandi per essere un pozzo di sapienza, ma per mantenersi umili sul piedistallo della scienza. Non si è grandi perché si possiede autorità e potere su milioni e milioni di essere umani, ma perché si riconosce che tale autorità e potere si sono ricevuti da Dio per metterli al servizio degli altri. Non si è grandi per ciò che si fa (un giro di 180 grandi alla storia, un’opera d’arte famosa, un premio letterario internazionale, una ricerca scientifica premiata con il Nobel...), ma perché si fanno queste cose con cuore di bambino riconoscente, sapendo che tutto ciò è un regalo di Dio. La vera grandezza non è contraria all’umiltà, né all’obbedienza, né alla vocazione di servizio. Piuttosto, in tutto ciò trova il suo piedistallo e la base autentica di umanesimo cristiano. Non è forse Maria, assunta in cielo, un magnifico esempio della vera grandezza? Maria, incoronata regina dell’universo, ha forse rinunciato ad essere la serva del Signore? Maria è la sintesi più perfetta di grandezza nella piccolezza e di piccolezza nella grandezza. E noi, cristiani, abbiamo molto da imitare da lei. Che cosa è ciò che ce lo impedisce? Che cosa aspettiamo? Che ella, con la sua umiltà e la sua grandezza, ci accompagni nel nostro cammino per la vita verso la gloria del cielo.

 

 

Domenica XX del TEMPO ORDINARIO 20 agosto dell’anno 2000

Prima: Prov 9, 1-6; seconda: Ef 5, 15-20; Vangelo: Gv 6, 51-58

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Le letture dell’odierna domenica sembrano incentrarsi sul mistero dell’Eucarestia: che cosa è o chi è questo mistero che si nasconde dietro le specie del pane e del vino? La risposta è ampia e piena di sfumature: E’ un uomo, Gesù di Nazareth, uguale a noi, ma che è disceso dal cielo (vangelo). È la sapienza di Dio che ci invita a un banchetto per acquisire intelligenza (prima lettura). È il Figlio del Padre, che ci vuol fare partecipi della sua vita divina (vangelo). È il Signore glorioso, cui la comunità cristiana intona salmi, inni e cantici spirituali (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Mysterium carnis. Il mistero dell’Eucarestia è di un realismo eccezionale: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue...". Niente simbolismi o astrazioni utopistiche, aliene da ogni concretezza e realtà! La carne e il sangue dell’uomo che sta loro parlando, di Gesù di Nazareth, del Verbo che si è fatto carne ed ha abitato tra noi! Non è soltanto ricordo né celebrazione, non è l’incarnazione di un’idea bella e generosa, non è una formula magica o uno scongiuro rituale ed arcano, è "la carne del figlio dell’uomo", è l’umanità e la divinità di Gesù di Nazareth quella che ci viene donata nel pane transustanziato. Che meraviglia, ma anche gioia! Si trema di stupore davanti ad un alimento tanto sublime che ci viene dato in un modo tanto sorprendente e rimpiccolito. Si gioisce e si esulta pieni di giubilo davanti a questa invenzione tanto indicibile e propriamente divina, come è l’Eucarestia. Chi, se non Dio, poté inventare un mistero così grande?

Mysterium fidei. Dopo la consacrazione del pane e del vino, il sacerdote dice: "Questo è il sacramento della nostra fede". E l’assemblea risponde: "Per la tua croce e resurrezione ci hai salvati, Signore". Mysterium fidei, mysterium salutis. Meraviglioso compendio dell’Eucarestia! Soltanto attraverso la fede siamo resi capaci di scoprire nel pane eucaristico la presenza di Cristo, Sapienza di Dio; come Sapienza di Dio, rende partecipe chi di Lui si alimenta di quella stessa Sapienza, "che è al di là di ogni capacità umana" e che gli permette di conoscere i misteri di Dio (prima lettura). Soltanto la fede ci conduce a far scorrere il velo delle specie per vedere Cristo, Figlio di Dio, e Signore glorioso del tempo e della storia, dell’umanità e della creazione intera (vangelo, seconda lettura). Soltanto lo sguardo della fede penetra nel mistero della morte e risurrezione che si verifica quando il sacerdote consacra il pane e il vino per la remissione dei nostri peccati, e per la redenzione integrale della nostra povera esistenza.

Mysterium amoris. L’Eucarestia è l’ultimo e supremo gesto di amore che Dio si inventò in favore dell’umanità. Nel vangelo Gesù ci dice: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui... chi mi mangerà, vivrà per mezzo mio". Formule che in altre parole ci parlano di rimanere nell’Amore, vivere per l’Amore. Nella misura in cui la creatura umana ha sperimentato un amore che non sia puramente sensibile ed è stata elevata ad altre forme dell’amore, sarà meglio preparata per cogliere più facilmente l’amore di Cristo Eucarestia. Un amore, originariamente spirituale e sensibile, ma che, data la natura unitaria dell’essere umano, trabocca alla sfera sensibile e a tutta la realtà psico-somatica della persona. Un Amore, presente nel pane eucaristico, che l’assemblea cristiana celebra ed adora nella liturgia domenicale con canti e con inni di lode e azioni di grazie (seconda lettura). L’Amore merita di esser celebrato pubblicamente perché si contagi a tutti e per testimoniarlo agli altri.

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

"Il Corpo di Cristo... Amen". L’Eucarestia è uno dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. È conveniente sottolineare l’importanza della catechesi preparatoria alla ricezione di questo sacramento. Catechesi ai bambini che riceveranno per la prima volta la comunione, e catechesi ai catecumeni adulti che si preparano per questo incontro meraviglioso con Cristo, Sapienza di Dio, Figlio di Dio, Signore della storia. Quanto è necessaria una catechesi integrale! Integrale, perché vi prende parte tutta la comunità parrocchiale: il parroco, il o la catechista, i genitori, ma in modo speciale la mamma o la nonna, la maestra o il maestro di religione a scuola, ecc. Integrale soprattutto perché si tratta di una catechesi che racchiude in sé l’integrità della persona (sia bambino che adulto). Si richiede indubbiamente la conoscenza completa –e adattata– della dottrina cattolica sull’Eucarestia. Ma è necessario altresì che la catechesi comprenda la dimensione cultuale e liturgica dell’Eucarestia, con ciò che essa significa di adorazione e di ringraziamento. È allo stesso modo necessario che il catechizzando percepisca e si convinca delle conseguenze morali che la ricezione dell’Eucarestia comporta. Se Gesù Cristo si trasforma nel principio vivificatore della nostra esistenza mediante l’Eucarestia, sarà possibile vivere in modo diverso ed opposto a come egli visse tra di noi? Quando il cristiano, ricevendo la comunione, alle parole del sacerdote: "Il Corpo di Cristo", risponde con un "Amen", sta dichiarando due cose: 1) Credo che ciò che vedo sotto le specie di pane è il Corpo di Cristo, e voglio alimentarmi di esso; 2) Credo che Cristo viene a me per purificarmi e per rafforzarmi nelle lotte quotidiane della vita, e perché io sia così un’immagine sua tra gli uomini.

Il culto all’Eucarestia. Nella Chiesa cattolica l’Eucarestia si celebra, ma si conserva anche nel Tabernacolo perché i fedeli possano renderle culto fuori della celebrazione della messa. Noi cattolici dobbiamo insistere sul culto eucaristico, perché è forse diminuito tra i fedeli, e perché sono molti i benefici che esso apporta. Le forme di culto sono varie: culto individuale mediante visite a Cristo nella Eucarestia; culto comunitario, mediante ore eucaristiche, adorazione durante il giorno, processioni con il Santissimo Sacramento, ed altre forme di devozione. Le forme possono cambiare, ciò che deve sempre rimanere è il desiderio ardente di adorare il nostro Salvatore, riparare il suo cuore dalle offese che riceve, esprimergli la nostra riconoscenza e il nostro amore e il vivo desiderio che tutti gli uomini lo amino e trovino in lui il proprio cammino di salvezza. Come posso io incoraggiare il culto eucaristico innanzitutto in me stesso, e poi nei fedeli della mia parrocchia, nella mia comunità religiosa? Abbiamo come sicura una cosa: Cristo Eucarestia mette ordine ai costumi, forma il carattere, alimenta le virtù, consola gli afflitti, rafforza i deboli, invita all’imitazione tutti coloro che si avvicinano a Lui.

 

 

Domenica XXI del TEMPO ORDINARIO 27 agosto dell’anno 2000

Prima: Gs 24, 1-2. 15-17; seconda: Ef 5, 21-32; Vangelo: Gv 6, 60-69

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Nel decidersi sta la chiave dei diversi testi liturgici. Le tribù riunite da Giosuè a Sichen debbono decidersi se servire Jahvé o altri dei. Esse decidono per Jahvé (prima lettura). I discepoli di Gesù, scandalizzati dalle sue parole (mangiare la mia carne e bere il mio sangue) sono situati da Gesù davanti a una decisione: "Anche voi volete andar via?". Pietro, in nome degli altri discepoli, si decide per Cristo: "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna" (vangelo). Infine, nella seconda lettura, la decisione irrevocabile di Cristo per la sua Chiesa serve da esempio alla decisione mutua degli sposi nell’amore.

MESSAGGIO DOTTRINALE

Un decidere responsabile. Essere uomo con uso di ragione significa essere obbligato a decidere nelle piccole e nelle grandi cose della vita. In altri termini, vivere è dover decidere. Questo è già qualcosa di molto importante, poiché ci differenzia da tutte le altre creature dell’universo. Ciononostante, è incompleto, perché si può decidere bene, ma si può anche decidere male. Più importante che non il solo decidere, è il decidere bene. Che cosa implica una buona decisione? Ecco alcuni aspetti significativi. 1) Decidere bene implica lasciare. Lasciare innanzitutto ciò che impedisce o almeno rende difficile la buona decisione. Le tribù di Israele debbono lasciare, rinunciare agli dèi dei loro padri e agli dèi degli amorrei (prima lettura). I discepoli debbono prescindere dai propri pregiudizi culturali e religiosi davanti allo scandalo dell’Eucarestia (vangelo). I coniugi debbono rinunciare a qualsiasi altro amore sponsale che non sia quello del proprio coniuge (seconda lettura). 2) Decidere bene è preferire. Certamente, preferire il bene al male, ma in molte occasioni sarà preferire il meglio al buono. Si preferisce il bene o il meglio, in conformità con la vocazione e missione che ciascuno ha ricevuto nella vita. Tutto ciò che si opponga alla vocazione cristiana si deve lasciare, e tutto ciò che la favorisca si deve preferire. Ciò che contribuisca maggiormente a vivere la mia vita cristiana è quello che debbo preferire ad altre cose, per quanto buone esse siano. Questa è la strada per prendere una decisione responsabile.

Un decidere credente. Perché una decisione sia responsabile, si deve fondare su basi solide. Queste non sono né i sentimenti, né i gusti o i capricci, né le convenienze personali, né la fredda e pura ragione, né il volontarismo a oltranza. Si deve decidere a partire dalla fede, dalla fiducia totale nella fedeltà e nel potere di Dio. Gli israeliti si sentivano attratti dagli dèi dei popoli vicini, ma avevano l’esperienza che Jahvé è l’unico Dio fedele, ricco di misericordia e di pietà. Pietro e i discepoli hanno sperimentato, nella convivenza con Gesù, che soltanto lui "ha parole di vita eterna", per quanto possano suonare scandalose agli orecchi. Quando un uomo e una donna si danno un sì per sempre, lo fanno "nel Signore", cioè fiduciosi nel potere di Dio che li aiuterà a mantenere la loro decisione. È la fede, una fede limpida, ferma, certa, irrevocabile quella che spinge e mette in azione la capacità umana di prendere una decisione. Quando le decisioni, invece di basarsi sulla fede o sulla ragione illuminata dalla fede, si fondano su qualsiasi altra cosa, si corre un grandissimo rischio: che la decisione traballi e soccomba con il passare degli anni, con il cambiamento delle situazioni, con il logorìo della convivenza quotidiana. La fede fonda le nostre decisioni sulla verità e sul bene, che sono colonne inamovibili e che sopportano tutti gli urti e tutte le tempeste.

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Non decidere alla leggera. Nella nostra società non poche volte si prendono decisioni alla leggera. È vero che ci sono molte piccole decisioni di ogni giorno che nemmeno si pensano e che, del resto, non hanno importanza né conseguenze manifeste. Per esempio, l’ora di uscire a far spese, in quale ristorante cenare o quale menù scegliere per il pranzo domenicale. Anche se sarebbe meglio pensare anche prima di queste piccole decisioni, al fine di formare la capacità e l’abitudine di prendere sempre decisioni mature, ci sono, tuttavia, decisioni che riguardano non soltanto un momento o un aspetto, ma tutta la nostra vita. Per esempio, sposarsi o no, con chi sposarsi, cambiare religione, abortire o non abortire, essere o no praticante, collaborare o non collaborare con la parrocchia, scegliere l’uno o l’altro lavoro professionale, ecc. Queste decisioni non si debbono mai prendere alla leggera. In tal modo, si fa a se stessi un gravissimo danno, e oltretutto, si pregiudica notevolmente la società in generale e specialmente la società familiare. Ci si domanda come sia possibile che in cose di tanta trascendenza, si possa decidere in modo tanto superficiale. La risposta che do oggi a me stesso è che la gente, soprattutto i più giovani, non sono stati formati per decidere in conformità con la verità e con il bene. Sono figli del presente effimero, sono figli della cultura usa e getta, sono figli delle soddisfazioni immediate. Come avranno la capacità per prendere decisioni di tutta la vita?

La decisione si forma. Si sa che ci sono persone che per temperamento sono capaci di decisione, ed altre che sono meno decise o indecise. Indipendentemente dal temperamento che si abbia, si deve formare l’uomo per la decisione, in modo che quest’ultima sia ferma, responsabile e matura. Il temperamento molto deciso dovrà uniformare la decisione con la prudenza, per non rischiare in eccesso. Il temperamento indeciso dovrà sviluppare la sua intrepidezza e il suo coraggio, al fine di fare opportunamente il passo verso la decisione. Sia l’uno che l’altro prenderanno le decisioni con piena coscienza e libertà, per decidere in modo degno dell’uomo. Una decisione sotto la spinta dell’occasione, sia quest’ultima psicologica, fisica o morale, non sarà mai buona, così come non permetterà nemmeno la crescita dell’uomo in dignità e in umanesimo. Perché l’essere umano possa portare a compimento decisioni giuste e che lo arricchiscano, si richiede di uniformare le decisioni col il loro proprio oggetto, cioè, con la conoscenza del bene e della verità. Una decisione buona matura al calore della riflessione e della ponderazione, che sono aliene da una parte da qualsiasi precipitazione o leggerezza e, dall’altra, da ogni abbandono, pigrizia mentale o permanente stato di perplessità. E i genitori, stanno formando i figli perché possano prendere decisioni mature? Diamo noi adulti esempio ai giovani di buone decisioni, ferme e responsabili? Siamo convinti che formare la capacità di decisione sia più importante per il futuro di un uomo che non il sapere molta informatica o l’avere un titolo universitario?

 

 

 

Domenica XXII del TEMPO ORDINARIO 3 settembre dell’anno 2000

Prima: Dt 4, 1-2. 6-8; seconda Gc 1, 17-18. 21b-22.27; Vangelo: Mc 7,1-8a. 14-15.21-23

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

In che consiste la religione autentica? Qual è il vero culto? A queste domande rispondono le letture della domenica ventiduesima del tempo ordinario. La prima lettura risponde che la religione autentica consiste nel compiere fedelmente tutti i comandamenti del Decalogo. Gesù Cristo, nel vangelo, insegna che la Parola di Dio (Sacra Scrittura) è al di sopra delle tradizioni e delle leggi umane. Pertanto, la vera religione si trova nel cuore dell’uomo, che ascolta e mette in pratica la Parola di Dio. San Giacomo nella lettera ci dirà che la religione pura e ineccepibile davanti a Dio consiste nell’amore verso il prossimo, specialmente verso i più bisognosi.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Ascoltare e fare la Parola. La lingua ebraica non distingue tra parola e fatto. Per questo non si può separare l’ascoltare dal fare, né il fare dall’ascoltare. Il decalogo è chiamato "le dieci parole" che si debbono ascoltare e mettere in pratica. Queste dieci parole, che riassumono tutta la legislazione mosaica, le "ha pronunciate" Dio per il bene del suo popolo e, pertanto, possiedono delle caratteristiche propriamente divine. Mentre gli altri popoli si reggono tramite leggi e precetti sorti dalla sapienza e dalla volontà umane, il decalogo gode della sapienza dello stesso Dio. Quali sono alcune di queste caratteristiche divine? 1) Le dieci parole sono immutabili. Nulla può esserne sottratto e nulla può essere aggiunto. Sono parole di Dio "pronunciate" perché l’uomo viva; e l’uomo vive quando ha dei punti di riferimento fissi, non sottomessi ai cambiamenti storici. 2) Nelle dieci parole si compendia la sapienza di cui Dio ha dotato Israele agli occhi degli altri popoli. Una sapienza niente affatto teorica, ma che avvolge la vita e la penetra in tutte le sue espressioni. Codeste dieci parole continuano ad essere fino ai nostri giorni l’anima del popolo di Israele e l’anima delle comunità cristiane. L’autentica religione e il vero culto consistono nell’ascoltare e fare la Parola.

Comandamento di Dio versus tradizioni umane. In polemica con i farisei e gli scribi, Gesù getta loro in faccia qualcosa di estremamente grave: "Lasciando il precetto di Dio, voi vi afferrate alla tradizione degli uomini". Non che Gesù rifiuti le tradizioni di Israele. Non si tratta di rifiutarle, ma di metterle nel luogo che loro spetta nel disegno di Dio e nella cornice di una religione autentica. Le tradizioni sono buone quando non allontanano dal Decalogo né vi si oppongono, ma nascono come rami nuovi dal medesimo albero del Decalogo. Se invece nascono da situazioni meramente circostanziali o da una volontà umana rigorosa e ristretta, si dovrà affermare che tali tradizioni sono caduche e periture. Il grande errore dei farisei e degli scribi è voler conservare ad ogni costo un gran cumulo di tradizioni degli antenati, non solo avvelenando la coscienza del popolo giudeo, ma perfino contraddicendo con quelle tradizioni i principi immutabili e sapientissimi del Decalogo. La vera religione è quella che mette la Parola di Dio al di sopra dei costumi e degli usi degli uomini.

La Parola della verità. La Parola della verità è la rivelazione di Dio contenuta nella Scrittura e che il Signore ha seminato nel cuore di ciascuno dei credenti. Il cristiano deve essere docile a questa Parola, in modo che non soltanto la ascolti, ma la metta in pratica. Qual è la parola di verità? Fondamentalmente l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo, cuore della vera religione cristiana. Chi compie questa Parola di verità otterrà da Dio la salvezza. L’uomo deve essere molto sincero con se stesso per non restare solamente uditore, ma diventare praticante di codesta Parola. Si deve giungere a fare la Parola della verità. In ciò consiste la vera religione agli occhi di Dio.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Una religione del cuore. Uomo religioso è colui che si sente intimamente legato tramite una relazione dialogale con la divinità. Se il dialogo e la relazione umana non possono essere puramente razionali né puramente sentimentali, molto meno lo può essere il dialogo con Dio. Per questo, io difendo una religione del cuore, essendo quest’ultimo il centro interiore della persona. Il cuore, pertanto, visto non soltanto come fonte dell’affettività, ma altresì come sede della ragione, dei sentimenti, della volontà, della coscienza, della decisione. Nella religione del cuore è ogni uomo che entra in comunicazione con Dio: chi parla e chi ascolta, chi è interpellato e chi risponde, chi esprime le sue esperienze intime e chi si sente accolto e compreso. Forse ancora possono rimanere in alcuni cristiani delle orme di giansenismo, ed è necessario farla finita con esse. Il cristianesimo del futuro sta chiedendo una religione del cuore, che giunga ad essere il cuore della religione. Nella tua esperienza personale, la religione cattolica, è una religione del cuore? È il culto cristiano un culto del cuore? Nella vita liturgica e sacramentale della tua parrocchia, si tiene conto di questa dimensione integrale della religione, che comprende tutta la persona? È molto, moltissimo, ciò che si può ancora fare perché la religione cattolica giunga ad essere, in ogni famiglia, in ogni parrocchia, in ogni diocesi, in tutta la Chiesa, una religione del cuore.

Autenticità versus apparenza. L’autenticità dovrebbe essere la carta di identità di ogni uomo, particolarmente di ogni cristiano. Ma, che cosa significa autentico? La risposta dipende dalla concezione dell’uomo che si abbia. In una concezione cristiana, "autentico" non è colui che dà libero corso agli impulsi del proprio istinto, ma colui che è fedele a se stesso e all’immagine dell’uomo integrale che la ragione e la fede disegnano nella sua coscienza. "Autentico" è l’uomo che nel suo agire si lascia guidare dalle convinzioni, l’uomo la cui volontà è mossa sempre verso il suo fine come persona umana e come figlio di Dio. In definitiva, essere autentico si intende come un ideale di essere se stessi e non altri, non una maschera. In questo senso "autentico" è chi non vive di apparenze, né riduce alle apparenze il suo valore e la sua ricchezza umana. Nell’educazione dei bambini e degli adolescenti conviene avere molto presente questo, perché, a causa della televisione e di altri mezzi di informazione, è forte l’attrattiva delle luci della ribalta, delle passerelle di moda; è grande la tentazione del successo facile e abbagliante, della fama effimera ma gratificante. In breve, è facile e tentatore il voler vivere di apparenze. Chiedi agli adolescenti, ragazzi e ragazze, che cosa vogliono essere da grandi e ti renderai conto, dalle risposte, della forza di seduzione delle apparenze. Che cosa faremo, come cristiani, per restituire autenticità alla società, all’educazione?

 

 

Domenica XXIII del TEMPO ORDINARIO 10 settembre dell’anno 2000

Prima: Is 35, 4-7a; seconda: Gc 2, 1-5; Vangelo: Mc 7, 31-37

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Uno degli attributi di Dio è quello di liberatore. Questo è l’attributo messo specialmente in risalto nei testi liturgici di questa domenica. Dio libera gli uomini dalla loro triste condizione di esuli, e la natura della loro aridità infeconda (prima lettura). Libera gli uomini dalle loro infermità del corpo e dello spirito: "Ogni cosa ha fatto bene, fa udire i sordi e fa parlare i muti" (vangelo). Libera il cristiano da qualsiasi preferenza di persone, perché tutti, ricchi o poveri, siamo uguali davanti a Dio (vangelo).

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Una natura libera al servizio dell’uomo. Dio ha creato la natura, ma poi non se ne è disinteressato. Essendo questa il focolare dell’uomo, Dio esercita anche su di essa la sua provvidenza, affinché serva all’uomo. Tale provvidenza divina "libera" la terra dalle sue miserie, come possono essere la siccità e l’infecondità. Ci dice la prima lettura che "la terra bruciata si tramuterà in una palude e il paese arido in sorgente di acque". Dio è il Signore della natura ed esercita la sua libertà con dominio assoluto su di essa per aiutare materialmente e spiritualmente l’uomo. Materialmente, facendola fruttificare in abbondanza, in modo che l’uomo possa alimentarsi con i suoi frutti. Spiritualmente, facendo sentire all’uomo il potere e il peso delle calamità naturali, in modo che si veda bisognoso di elevare i suoi occhi al Signore della natura e ad implorare la sua benedizione. L’orgoglio umano, nemico del vero bene dell’uomo, è invitato ad umiliarsi davanti a queste disgrazie naturali, che sono per lui come una piattaforma per risalire verso Dio, lasciando da parte l’orgoglio. Lasciando liberi per un momento i poteri distruttivi della natura, Dio cerca soprattutto di liberare l’uomo da se stesso, che è ciò che conta veramente.

Dio liberatore dell’uomo. L’uomo è un mistero di carne e di spirito. Dio manifesta il suo amore all’uomo offrendogli una liberazione integrale, che deve accettare con riconoscenza e cuore semplice. Libera la sua carne dalla malattia. Lo fa direttamente, quando così risulta necessario per il bene dell’uomo, come consta da tanti infermi miracolosamente guariti. Lo fa indirettamente, mediante il potere che ha dato agli uomini per studiare il corpo umano, conoscerne le malattie e guarirle. Il vangelo di oggi narra la guarigione di un sordomuto da parte di Gesù. Ma Dio interviene sull’uomo anche per guarire il suo spirito. Lo guarisce dalle malattie psichiche, lo libera del potere del demonio e del peccato, lo irrobustisce per opera dello Spirito davanti alle tentazioni e alle inclinazioni al male. Quando e come agisce il Dio liberatore dell’uomo? Sono domande per le quali soltanto Dio ha la risposta; evidentemente, una risposta sicura e a beneficio dell’uomo. Ma la cosa più importante è che noi uomini abbiamo la coscienza chiara e la piena sicurezza che Dio ama e vuole il bene dell’uomo. Importante è anche che siamo umili e ricorriamo a Dio con semplicità per chiedergli: "Signore, liberami da ogni male; liberami, innanzitutto, da me stesso, perché la mia vita sia un canto di lode al tuo santo nome". Qui si incastona perfettamente l’esortazione di San Giacomo nella seconda lettura: "Non mescolate con la preferenza di persone la fede che avete in nostro Signore Gesù Cristo glorificato". Il credente, liberato da se stesso per mezzo del battesimo e dell’eucarestia, non può tornare alla schiavitù del passato. Sarebbe come contravvenire alla liberazione di Dio.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Ha fatto tutto bene. Con queste parole reagì la folla quando si rese conto che Gesù aveva guarito il sordomuto. Sono molti, del resto, i testi del Vangelo che raccontano le opere buone di Gesù in favore dell’uomo. Cosicché san Pietro dirà di Gesù, in uno dei suoi discorsi ai primi cristiani, che "passò facendo il bene". Giovanni Paolo II ci dice che "la carità dei cristiani è il prolungamento della presenza di Cristo che dona se stesso". Sì, Cristo desidera continuare a fare il bene tra di noi e ai nostri giorni mediante i cristiani. Cristo desidera continuare a liberare l’uomo dalle necessità materiali, dalle malattie, dalle calamità naturali, dai mali spirituali, mediante i cristiani. È veramente bello constatare la generosità di tanti milioni di cristiani nel soccorrere i più bisognosi, in qualsiasi parte del mondo. Veramente Cristo deve essere contento, perché può continuare a fare il bene nella storia degli uomini mediante i cristiani. Allo stesso tempo, come credenti cristiani, dobbiamo porci delle domande: faccio io personalmente tutto il bene che posso fare? Faccio in modo che altri, singolarmente o comunitariamente, facciano il bene? Qual è il tipo di bene che più mi piace fare: quello materiale, spirituale o entrambi allo stesso tempo? Sono convinto che attraverso di me Cristo glorioso continua ad essere presente tra gli uomini facendo il bene? E non dimentichiamo che fare il bene agli uomini disinteressatamente è un modo stupendo di liberarli.

Voler essere liberato. La liberazione possiede una forza di attrazione singolare. È un chiaro indizio che l’uomo, coscientemente o no, si vede e sperimenta se stesso, almeno parzialmente, come "schiavizzato". Diciamo che non sono pochi i lacci che l’uomo, nelle diverse epoche della vita, incontra nel cammino della sua esistenza. Per esperienza si sa che di tali lacci, soprattutto dai più profondi e forti, l’uomo non si può disfare da solo. Ha bisogno di essere liberato. Per questo si ha bisogno di voler essere liberati. Perché si dà il caso che l’uomo, per ragioni inspiegabili e molte volte complesse, ami i "dolci" legami che lo "schiavizzano". Legami che, per quanto dolci siano, lo vanno poco a poco strangolando, fino a giungere ad uccidere la sua libertà. La liberazione, pertanto, è possibile soltanto per chi vuole essere liberato. Un altro aspetto diverso è a chi ricorrere per essere liberati, perché nel nostro mondo e nel nostro ambiente ci sono forse molti che si danno arie di "liberatori", ma ciò che liberano non è l’uomo, nella sua grandezza e dignità, bensì i puledri sbrigliati delle sue passioni, i suoi egoismi, le sue ambizioni, i suoi incubi, i suoi istinti. Diciamolo senza riserve: il vero liberatore dell’uomo è Dio. Il vero liberatore dell’uomo è Gesù Cristo, che morì per noi e per noi resuscitò. Hai accettato, accetti realmente e di tutto cuore di essere liberato da Gesù Cristo? Se vuoi essere liberato, non dubitare, Egli ti libererà. Avendo sperimentato a fondo la liberazione di Cristo, sentirai il pungolo di dire ad altri chi può concedere loro la vera liberazione che cercano.

 

 

 

Domenica XXIV del TEMPO ORDINARIO 17 settembre dell’anno 2000

Prima: Is 50, 5-9a; seconda: Gc 2, 14-18; Vangelo: Mc 8, 27-35

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

In che cosa consiste l’essenza dell’uomo? La liturgia di oggi ci dà una risposta. Nella prima lettura, tre sono i tratti dell’uomo secondo il disegno di Dio: l’uomo è un essere "che ascolta", che soffre, che esperimenta la presenza e l’assistenza di Dio. Il vangelo presenta Gesù come la perfetta realizzazione dell’uomo: l’Unto di Dio, l’uomo dei dolori, il servo obbediente fino alla morte, colui che perde la sua vita per salvare quelle degli uomini. Infine, san Giacomo nella seconda lettura insegna che l’uomo è quello in cui fede ed opere si uniscono in alleanza indissolubile per raggiungere la perfetta realizzazione umana.

MESSAGGIO DOTTRINALE

L’uomo secondo Dio. Penso che la definizione dell’uomo non si debba cercare né soltanto né principalmente nell’uomo (sebbene non debba escludersi questa ricerca), dato che egli non è autocreativo né si chiama da solo all’esistenza. La definizione più autentica dell’uomo la può dare chi lo ha creato e lo ha chiamato dal non essere all’essere, dal nulla all’esistenza. Nel terzo canto del Servo si delinea in certa maniera una sintesi di antropologia teologica. Il primo tratto, non riportato dalla lettura liturgica, definisce l’essere umano come colui che riceve da Dio il dono di parlare parole di vita per gli altri, soprattutto per chi è stanco e spossato. Poi, appaiono in questo canto altri tre tratti che si trovano nel testo liturgico: 1) l’uomo è l’essere che Dio ha reso capace di "ascoltare", come i discepoli. È un discepolo di Dio, il che implica non soltanto l’ascolto teorico, ma allo stesso tempo l’ascolto che conduce alla prassi, alla realizzazione di quanto si è ascoltato, della voce originaria che lo precede e che ordina la sua vita. In altri termini, l’uomo è un discepolo obbediente di Dio. 2) L’uomo non è un essere per la morte, come direbbe Heidegger, ma è, sì, un essere per la sofferenza. La sofferenza è l’incudine sulla quale si forgia l’uomo; è lo stampo in cui si configura la sua personalità; è la frontiera, il caso limite che rivela la sua temporalità; è la cifra reale e misteriosa della condizione umana. 3) L’uomo è l’essere assistito da Dio, in cui Dio mostra la sua presenza costante ed efficace. Codesta presenza divina risulta essere la roccia su cui si fondano tutte le grandi certezze dell’uomo; il faro luminoso che orienta l’uomo nell’oscurità; lo stendardo che lo infiamma nella battaglia per essere e farsi uomo ogni giorno. A modo di conclusione, si può dire che chi esclude dalla concezione dell’uomo la solidarietà, l’ascolto, il dolore, la presenza divina, non sa realmente che cosa sia l’uomo.

Cristo, il vero uomo. Gesù è in primo luogo il Messia, l’Unto di Dio, che sottomette tutta la sua persona alla missione che Dio gli affida, giungendo perfino all’obbedienza della croce. Per questo, in Gesù si uniscono l’Unto e il Servo della sofferenza, non come due titoli contrapposti della sua condizione umana, ma come due nomi di una medesima persona, che la definiscono e la caratterizzano. Perfino quando Gesù viene paragonato con altre figure della Bibbia (Mosè, Elia, Giovanni il Battista, Salomone, Giona...), egli è diverso. Come egli stesso dirà: "Ecco uno maggiore di Giona... ecco uno maggiore di Salomone". D’altra parte, nella sua condizione sofferente, Gesù non si autolesiona né rinnega la sua sorte, ma mantiene una assoluta fiducia in Dio, che lo assisterà in mezzo al dolore e che lo risusciterà dai morti. Per tutto ciò, Gesù chiama "satana" Pietro, quando quest’ultimo tenta di allontanarlo sia dalla sua missione redentrice, sia dalla sua perfetta condizione umana secondo Dio. In Gesù, infine, si fa realtà anche un altro tratto messo in evidenza da san Giacomo nella seconda lettura: la coerenza tra la fede e le opere; non le opere della legge, ma le opere della fede. Possiamo dire che l’autocoscienza di Gesù coincide con la sua autorelizzazione.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Uomo e cristiano. Non poche volte nella storia del pensare – e anche probabilmente del vivere – queste due realtà hanno camminato per strade diverse. Sembrava quasi ad alcuni che non si possa essere pienamente uomo essendo perfettamente cristiano, o che non si possa essere pienamente cristiano, essendo perfettamente uomo. In definitiva, è, in termini antropologici, il dilemma posto da secoli tra fede e ragione, tra scienza e fede. In un nuovo clima culturale e spirituale, Giovanni Paolo II, in continuità con la dottrina cattolica, ha affermato categoricamente: "La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si eleva verso la contemplazione della verità". Traducendo la frase in termini antropologici, si può affermare: "l’uomo e il cristiano sono come le due ali con cui lo spirito umano si eleva verso la realizzazione della sua piena umanità". Forse può essere fruttuoso domandarci perché, nel passato e probabilmente anche oggi, si è separato l’uomo dal cristiano o il cristiano dall’uomo. Quali aspetti, quali tratti del vivere cristiano hanno potuto oscurare e perfino alienare da una concezione autentica dell’uomo? Quali modelli di cristiano si sono presentati o si presentano ai nostri giorni, che possano sembrare ad altri, cristiani o no, meno umani o perfino disumanizzanti? Il concilio dichiarò magnificamente che Cristo rivela l’uomo all’uomo, ma ci si può domandare: tutti noi cristiani, seguiamo in ciò le orme di Cristo? Non c’è dubbio che, a questo riguardo, c’è ancora molta strada. Percorrerla è compito di ciascuno e di tutti i cristiani.

Il paradosso cristiano. "Chi vorrà salvare la sua vita la perderà, ma chi la perde per me e per il vangelo la salverà", ci dice Gesù. È il grande paradosso cristiano, cioè umano. In termini paradossali, Gesù Cristo pone la grande battaglia dell’esistenza umana. È la battaglia tra l’egoismo e il dono di sé, tra la seduzione dell’io e l’attrazione di Dio, tra il culto della personalità e il culto della vera umiltà. Normalmente, però in modo sbagliato, si pensa che essendo egoisti ci si realizzerà, si salverà la propria identità, si otterrà una personalità di grande spessore. Il risultato, dopo un certo tempo, è la coscienza di star cercando l’impossibile, la frustrazione per tante energie sprecate inutilmente e, magari, anche il rendersi conto di aver sbagliato strada, accettare il proprio errore e indirizzare i passi per la giusta via. Questo giusto cammino è quello dello svuotarsi di sé per riempirsi di Dio, quello del darsi agli altri disinteressatamente, senza cercare compensazioni di nessun genere, è quello dell’umiltà profonda di chi sa ed accetta che tutto ciò che è e proviene da Dio lo deve porre al servizio degli altri. Questo è il cammino della salvezza. Questo è il cammino dell’autentica realizzazione dell’uomo. Questo è il cammino del paradosso cristiano. Fratello, camminiamo insieme e con gioia per questo cammino. È quello che Cristo ha indicato a noi, suoi discepoli.

 

 

Domenica XXV del TEMPO ORDINARIO 24 settembre dell’anno 2000

Prima: Sap 2, 12. 17-20; seconda: Gc 3, 16-4,3; Vangelo: Mc 9, 30-37

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Gesù Cristo con la sua persona, con il suo insegnamento e con la sua vita ha portato un cambiamento al mondo dell’uomo. Su questo cambiamento si incentrano in qualche maniera i testi liturgici dell’attuale domenica. All’empio che non comprende né accetta la vita del giusto si chiede implicitamente di cambiare atteggiamento (prima lettura). I discepoli di Gesù hanno bisogno di cambiare mentalità di fronte ai sorprendenti insegnamenti del loro Maestro (vangelo). San Giacomo propone ai cristiani un programma spirituale che implica un cambiamento dello stile di vita che conducevano prima (seconda lettura).

 

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Cambiare atteggiamento. Qual è l’atteggiamento dell’empio nei confronti del giusto? Del pagano o del giudeo rinnegato che viveva in Alessandria d’Egitto, verso il giudeo fedele alla legge che regola tutta la sua vita? Secondo il libro della Sapienza, l’empio pensa che il giusto sia un fastidio per lui, perché è la coscienza critica del suo operare; invece di ammirarlo ed imitarlo, come dovrebbe, preferisce metterlo alla prova; perfino alla prova della morte, scavalcando le leggi umane e divine, per vedere se il Dio in cui confida lo protegge e lo salva. Nei versetti 21 e 22 dello stesso capitolo si aggiunge: "Così pensano, ma si sbagliano... Non conoscono i segreti di Dio". Si sbagliano. Il loro atteggiamento non corrisponde a ciò che Dio vuole. Si deve, pertanto, cambiare. Il giusto, il fedele, il santo deve essere ammirato e proposto come modello degno di imitazione. È vero che l’uomo fedele è un richiamo alla coscienza, ma questo deve esser causa di gioia e di gratitudine. Perché non ricorrere a Dio con la fiducia del giusto, invece di mettere quest’ultimo alla prova perfino con la morte?

Cambiare mentalità. Ai discepoli di Gesù non entra in testa che il loro Maestro debba passare per il tunnel della sofferenza, che per essere il primo si debba essere il servo di tutti, che nelle nuove categorie del Regno di Cristo il bambino occupi un luogo primordiale. Non è facile per essi lasciare la concezione in cui erano stati educati fin dall’infanzia. Ma se vogliono essere discepoli di Cristo, debbono cambiare. Debbono accettare che la sofferenza è via di redenzione per Gesù Cristo e continua ad esserlo per i cristiani. Si devono convincere vitalmente che il servire non è un favore che si fa qualche volta, ma lo stile vitale dell’essere cristiano e del vivere come cristiano. Dovranno dimenticare che il bambino è qualcosa che non conta nella riunione dei grandi, per giungere alla certezza che accogliere chi non conta, l’emarginato, il debole, il bisognoso, è accogliere Cristo, e, mediante Cristo, lo stesso Padre celeste. Il comportamento e la compagnia di Gesù, da una parte, e l’azione dello Spirito, dall’altra, realizzeranno il miracolo.

Cambiare vita. Se cambiare il modo di pensare è difficile, molto di più lo è il cambiamento di vita. Il Battesimo e l’Eucarestia ristrutturano l’uomo dall’interno, gli infondono un nuovo modo di essere e un principio nuovo di agire. In esso sta la base del cambiamento di vita, ma questo cambiamento richiede grazia di Dio, lavoro umano, tempo perché le nuove strutture siano vitalmente assimilate, e configurino, giorno dopo giorno, azione dopo azione, il comportamento umano. Soltanto quando si sia raggiunta la nuova configurazione esistenziale, "la sapienza che viene dall’alto, che è pura, pacifica, indulgente, docile, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia", guiderà l’operare umano e ciascuno dei suoi atti. Senza questa configurazione che richiede grazia, sforzo e tempo, le vecchie strutture continueranno ad essere in vigore e con esse l’agire condotti dalle contese, dalle avidità, dai desideri di piaceri, dalle invidie. Cambiare la vita è il grande compito del cristiano, portato a compimento con costanza ed entusiasmo.

 

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Cambiare a partire da Dio. La cultura in cui viviamo e la mentalità dei nostri contemporanei è fatta per il cambiamento. Si cambia più facilmente lavoro, computer, macchina, casa, paese... Si cambiano anche i modi di pensare e di vivere, i valori di comportamento e perfino la stessa religione. Il cambiamento è all’ordine del giorno, e, chi non cambia, presto passa a far parte dei retrogradi. Il cambiamento, al contrario, è proprio dei progressisti, che sembra lo portino nel proprio DNA. Ma, certo, non ogni cambiamento è buono per l’uomo. Né ogni cambiamento indica progresso. Ci sono cambiamenti che sono una disgrazia: lo dicano tanti emigranti, obbligati per necessità a lasciare la loro patria; lo confermino tante giovinette, costrette a vendere il proprio corpo al supermercato della prostituzione; lo gridino tanti bambini, obbligati a lavorare in condizioni inumane o rapiti per commerciare con i loro organi. Questi cambiamenti gridano verso il cielo! Il cambiamento al quale la liturgia ci invita è il cambiamento a partire da Dio. Cioè, quel cambiamento che Dio vuole e spera dall’uomo perché sia più uomo, perché viva meglio e più pienamente la sua dignità umana. Il cambiamento che Dio vuole è quello dall’ingiustizia alla giustizia, dall’abuso al servizio degli altri, dall’infedeltà alla fedeltà, dall’odio all’amore, dalla vendetta al perdono, dalla cultura della morte alla cultura della vita, dal peccato alla grazia e alla santità.

Il tuo programma di vita. Con maggiore o minore chiarezza, ogni uomo si traccia un proprio progetto di vita. Che cosa vuole essere, che cosa vuole fare, a quali valori non può rinunciare, di quali mezzi servirsi. Penso che ogni cristiano dovrebbe avere un piccolo progetto o programma di vita nella sua condizione precisamente di cristiano. Che cosa farò per Cristo e per i miei fratelli. Quali valori proporrò ai miei figli. Per quali valori lotterò nella mia vita personale, familiare, sociale. Quanto tempo dedicherò alla mia missione di apostolo di Gesù Cristo nella mia comunità parrocchiale, diocesana, dentro il movimento a cui appartengo. Quale iniziativa, piccola o grande, proporrò per incoraggiare il senso di Dio, per promuovere le vocazioni al sacerdozio o alla vita consacrata, per visitare ed aver cura degli infermi o di coloro che vivono soli nel mio quartiere, nella mia parrocchia. Non è necessario che sia un programma grande, completo. Fa’ un piccolo programma per un anno. Un programma che ti aiuti a crescere nella tua vita spirituale: dedicare, per esempio, ogni giorno un certo tempo alla preghiera, o confessarti con più frequenza e regolarità, o lottare con più decisione ed energia contro il vizio dell’alcool o della droga leggera. Un programma che ti mantenga attivo nella tua missione ecclesiale: dare catechesi, far parte del coro parrocchiale, prestare più attenzione all’educazione spirituale e morale dei tuoi figli. Alla fine del giorno, o almeno della settimana, rifletti un po’ su come lo hai portato a compimento. Quanto bene può fare un piccolo programma!

 

 

 

 

Domenica XXVI del TEMPO ORDINARIO 1 ottobre dell’anno 2000

Prima: Num 11, 25-29; seconda: Gc 5, 1-6; Vangelo: Mc 9, 38-43.47-48

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

I testi di oggi fanno tutti riferimento alla vita comunitaria, sia nel popolo in marcia verso la terra promessa, sia nella comunità ecclesiale. La prima lettura parla della donazione dello Spirito di Dio ai settanta capi del popolo in cammino attraverso il deserto. Nel vangelo si riflettono certi aspetti della vita dei discepoli e dei primi cristiani nelle loro relazioni interne e nelle relazioni con coloro che non appartengono alla comunità cristiana. Alla fine della sua lettera, san Giacomo si rivolge ai membri ricchi della comunità, per recriminare la loro condotta e farli riflettere su di essa alla luce del giudizio finale.

MESSAGGIO DOTTRINALE

Una comunità imperfetta. La prima cosa che salta agli occhi, leggendo i testi di oggi, è che la comunità cristiana primitiva e, prima ancora, la comunità giudaica del deserto sono segnate dalla limitazione e dall’imperfezione. Risulta evidente l’intolleranza esclusivista rispetto a coloro che non appartengono al proprio gruppo sia da parte di Giosuè: "Mio Signore Mosè, proibisciglielo" (prima lettura), sia da parte di Giovanni: "Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni in tuo nome e che non viene con noi, e abbiamo cercato di impedirglielo" (vangelo). Un altro punto è lo scandalo che alcuni membri "forti" e "grandi" della comunità danno ai "piccoli", mettendo in pericolo la loro fede semplice e la loro stessa appartenenza a Cristo (vangelo). Tra coloro che causano uno scandalo imponente sono i ricchi, che ripongono la sicurezza nelle loro ricchezze. E che oltretutto approfittano abusivamente dei poveri, non pagando giornalmente il salario agli operai, dandosi al lusso e ai piaceri, calpestando a discapito del povero la legge e la giustizia (seconda lettura). Apprendiamo una cosa: nessuna comunità cristiana concreta è esente da imperfezioni, debolezze e miserie. Il Papa, davanti a questa realtà, ci invita, rivolti al passato, a purificare la memoria e, rivolti al futuro, al pentimento e al rinnovamento. Una comunità imperfetta ci fa vivere più coscienti che lo Spirito di Dio, non l’uomo, è l’anima che la vivifica e la santifica con la sua presenza e i suoi doni.

Una comunità, riflesso di Cristo. Innanzitutto, si deve ricalcare la grande tolleranza o, meglio, l’enorme apertura di spirito di Gesù Cristo di fronte a coloro che non appartengono al gruppo, alla comunità credente. "Non glielo impedite", dice Gesù a Giovanni e ai discepoli. Questo comportamento di Gesù trova la sua prefigurazione in quello di Mosè, quando sa che il suo spirito è stato comunicato a Eldad e Medad che non appartenevano al gruppo dei settanta: "Forse sei geloso di me? Magari tutto il popolo di Jahvé profetizzasse perché Jahvé gli ha dato il suo spirito!". Gesù motiva la sua posizione con due riflessioni: 1) Chi invoca il mio nome per fare un miracolo, non può poi immediatamente parlare male di me. La persona di Gesù esercita un influsso universale, non può restare racchiusa entro i limiti istituzionali. 2) Chi non è contro di noi, è con noi. E questo è verità, perfino quando non si appartiene alla medesima comunità di fede. D’altra parte, entro la comunità le relazioni tra i diversi membri debbono reggersi tramite il comandamento della carità. Codesta carità che potremmo chiamare "piccola", è moneta corrente per la convivenza quotidiana. Semplicemente, per fare un esempio, dar un bicchier d’acqua con l’unica intenzione di vivere la carità cristiana. Un altro modo di vivere la carità è evitare lo scandalo. Per amore verso il fratello si deve essere disposti a farla finita con qualsiasi cosa che lo possa danneggiare. Nei rapporti all’interno della Chiesa deve regnare anche la giustizia tra i padroni delle terre e i salariati. I ricchi, da parte loro, devono essere ben coscienti che le loro ricchezze non sono tanto per goderle e sperperarle, quanto per metterle al servizio dei bisognosi.

SUGGERIMENTI PASTORALI

La libertà dello Spirito. Nel catechismo della Chiesa ci viene insegnato che "La Chiesa considera tutto ciò che di buono e di vero si trova nelle religioni... come un dono dato da colui che illumina ogni uomo, perché abbia finalmente la vita" (CIC 843). Lo Spirito è come l’anima della Chiesa, ma senza carattere esclusivo né escludente. Lo Spirito gode di autonomia per agire al di là del corpo ecclesiale. Noi figli della Chiesa dobbiamo cercare di conoscere le manifestazioni e l’impronta dello Spirito in altre religioni, e sentirci pieni di gioia per esse. Tutto ciò che nasce dall’azione dello Spirito, dovunque sia, sarà buono, santo e autentico. È vero che, insieme all’azione dello Spirito e mescolate con essa, ci sono le azioni umane, con tutta la loro imperfezione e perfino il peccato. Per questo, è necessario il discernimento, quella capacità di saper distinguere e separare l’opera dello Spirito dall’azione degli uomini. Distinguere e separare, non eliminare. "Non spegnete lo Spirito", ci esorta san Paolo. Nella congiuntura attuale della società e della Chiesa – e sicuramente questa situazione si accentuerà nel futuro – è importante che noi cristiani sappiamo accogliere la libertà dello Spirito. È importante, inoltre, che siamo educati, fin da piccoli, alla tolleranza e libertà di spirito, ma soprattutto alla prudenza e al discernimento cristiani. Hai avuto qualche opportunità, a scuola, al lavoro, nelle relazioni di amicizia, di esercitarti nella tolleranza, nel rispetto, nella prudenza e nel discernimento?

Autorità e ricchezza nella Chiesa. Nella Chiesa soltanto alcuni sono stati chiamati da Dio per esercitare l’autorità istituzionale, ma tutti abbiamo il diritto e il dovere di esercitare l’autorità della santità. Dato che il cristiano concepisce l’autorità come servizio, la gerarchia pratica il suo servizio vigilando sul buon cammino della comunità ecclesiale nella dottrina, nella vita morale, nelle azioni liturgiche. Da parte loro, le anime sante esercitano la loro autorità sulla comunità ecclesiale, dando con generosità le loro vite a Dio e agli uomini, attraendo molti verso Dio e verso lo Spirito, con il loro comportamento e la loro testimonianza di vita. Sono due modi diversi di esercitare l’autorità, entrambi al servizio di tutta la Chiesa. Si può dire inoltre che molti membri della gerarchia, oltre che per l’autorità giuridica di cui godono, eccellono anche per la loro autorità morale, per la loro santità.

Nella Chiesa esistono alcuni ricchi di beni, e molti di loro sono allo stesso tempo ricchi di amore vero. Nella Chiesa ci sono anche i poveri di beni, ma che possiedono una ricchezza straordinaria di fede, di amore e di speranza. Ci sono anche, purtroppo, gli altri, i ricchi di beni e poveri di amore, i poveri di beni e ricchi di ansie di lucro e di ricchezze. Non ci inganniamo. Nella Chiesa i veri ricchi sono i santi. Se, oltre ad essere ricchi di santità, sono ricchi di dollari, molto meglio. Purché li pongano al servizio di tutti.

Domenica XXVII del TEMPO ORDINARIO 8 ottobre dell’anno 2000

Prima: Gen 2, 18-24; seconda: Eb 2, 9-11; Vangelo: Mc 10, 2-16

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il tema del matrimonio domina la liturgia di questa domenica. Da una parte, la legge di Mosè, che permette di ripudiare la sposa "per qualcosa di male" (secondo come lo si interpreti, potrebbe essere l’infedeltà coniugale, o perfino un pasto mal preparato); dall’altra, Gesù, che torna alla legge originaria posta nella natura, secondo la quale "l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e saranno due in una sola carne" (prima lettura, vangelo). Nella seconda lettura, Gesù sposo della Chiesa, si dà ad essa fino alla morte, per purificarla e santificarla con il suo sangue. In questo modo viene ad essere il vero prototipo dell’amore sponsale.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

La vittoria sulla solitudine. È molto emozionante vedere come Dio, secondo il libro della Genesi, si interessa della solitudine dell’uomo. Comprendiamo che Dio non ha creato l’uomo per vivere in solitudine, ma in relazione, in compagnia. La compagnia degli animali domestici è buona, non viene criticata, ma è insufficiente. Adamo dà a ciascuno il suo nome; con ciò si vuol significare che esercita dominio e signoria sopra di loro. Ma non basta. È una relazione di dominio, è una relazione dispari, che non dà pienezza di realizzazione e di gioia all’essere umano. L’unica relazione piena, soddisfacente, rallegrante, è la relazione con chi è uguale a lui, "carne della sua carne". È la relazione propria degli esseri umani. Il grado sommo di questa relazione è la relazione matrimoniale dell’uomo e della donna, per mezzo della quale "i due diventano una sola carne". Il matrimonio non è, dunque, l’unica forma di relazione, né l’unico modo di vincere la solitudine. La relazione di amicizia, dell’essere compagni, confratelli di religione, ecc. vince anche la solitudine dell’uomo. Tuttavia, il matrimonio e la famiglia sono istituzioni naturali in cui la vittoria sulla solitudine può raggiungere la massima altezza.

La vittoria sulla divisione. Essere solo è triste, penoso. Essere interiormente diviso, lo è ancora di più. Divisione dell’intelligenza e della volontà: mi sposo o non mi sposo? Divisione del cuore: tra tutti i ragazzi e le ragazze che conosco, chi mi può aiutare di più a vincere la solitudine e farmi felice? Ed io, chi posso aiutare meglio ad amare e ad essere felice? Divisione delle esperienze vive: tante esperienze con questo, quello o quell’altro partner, che lasciano l’anima vuota, il cuore mezzo rotto, l’amarezza della frustrazione, la scontentezza di se stessi, la coscienza non tranquilla e perfino gravemente ferita! Il matrimonio, vissuto in tutto il suo splendore e bellezza, unifica. Unifica le forze dell’intelligenza, che si orientano verso la vita matrimoniale e familiare. Unifica le forze della volontà, che accetta l’amore della persona amata e tende a farle del bene. Unifica il cuore, incentrandolo nello sposo o nella sposa e nei figli. Unifica le esperienze della vita, che sono vissute tutte in riferimento all’esperienza fondamentale, che è l’esperienza coniugale e familiare. È vero che, già nel matrimonio, ci si può scontrare con forze centrifughe che tentano di nuovo di dividere, di incrinare l’unità. È vero che possono esistere situazioni estremamente dure e difficili. Nell’amore profondo ed autentico che è riuscito, al momento di sposarsi, a superare la "divisione", esistono risorse ed energie per promuovere e difendere l’unità di fronte alle forze ostili. È l’amore di cui Gesù Cristo Nostro Signore è il migliore modello. In Cristo tutto il suo essere è unito dall’amore all’umanità, amore che non gli risparmia nessun sacrificio. Nessuno ama più di colui che dà la vita per l’amato. Per mezzo del sacramento del matrimonio i cristiani partecipano dell’amore con cui Cristo Sposo amò la Chiesa Sposa. Quell’amore redentore di Cristo, efficacemente presente nei coniugi cristiani, li farà superare qualsiasi tentazione di divisione, e promuovere l’unità come il maggior bene dei coniugi, della famiglia e della società.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Matrimonio: parola univoca. È un principio di sapienza umana e cristiana il dare a ciascuno il proprio nome. Oltretutto, è un elemento di chiarezza e di trasparenza. Non si tratta di giudicare nessuno; al contrario, come cristiani dobbiamo essere umanamente comprensivi, anche se dobbiamo accettare che in questo, come in molte altre cose, si possano avere pregiudizi e posizioni offensive. Ciò di cui realmente si tratta è parlare con proprietà. Se cominciamo a parlare di "matrimonio di fatto", di "unione libera", di "matrimonio gay", del "diritto a essere diversi", e a riconoscere tutto ciò giuridicamente, la confusione, invece di diminuire, senza dubbio aumenterà. Il matrimonio è un’unione stabile e libera tra un uomo e una donna, giuridicamente riconosciuta dallo stato (matrimonio civile) e/o dalla Chiesa (matrimonio ecclesiastico). Ciò che non corrisponda a questa definizione, non è matrimonio; per questo converrà cercare e dargli un altro nome, facendolo sempre con rispetto e chiarezza. Evidentemente, il rispetto nei confronti di quelli che sono differenti è un obbligo di tutti, ma questo rispetto non significa in alcun modo connivenza e molto meno equiparazione di stato. La realtà del matrimonio è qualcosa di molto serio e sacro, perché si possa giocare con essa. Forse, per non tenere conto di ciò, succede ciò che sta succedendo con questa istituzione, sempre meno simile al suo significato univoco. Uno, ignorante, si chiede spontaneamente che cosa è ciò che sta accadendo nei parlamenti perché si prendano decisioni a volte estremamente gravi, che riguardano la natura delle cose, e lo stesso futuro della famiglia e della società. Ci rendiamo conto che a poco a poco ci possono fare il lavaggio del cervello? Che l’imperialismo politico (parlamento) e culturale (mass-media) ci si è installato in casa, quasi senza volere?

Catechesi al quadrato. La coscienza cristiana e la fedeltà alla nostra vocazione missionaria ci impegnano a una catechesi al quadrato, che spiana tutto, e ad una intensa azione evangelizzatrice sul matrimonio che giungano a tutti, cristiani o non cristiani, e che utilizzino tutta la gamma di risorse per realizzarla. Si deve "formare la mente" dei bambini sulla natura del matrimonio e sul suo senso cristiano. E a maggior ragione gli adolescenti, i giovani e gli adulti. Si dovrà porre mano alla lezione di religione a scuola, alla catechesi in parrocchia, all’omelia domenicale, al dialogo in famiglia e in altri ambienti, ai giornali e alle riviste, alla radio, televisione e internet. Dobbiamo duplicare la catechesi e l’opera di evangelizzazione, per superare in azione di massa e in efficacia coloro che fanno proposte equivoche sul matrimonio, che tanto turbano e sconcertano la gente semplice. Si suole dire che la migliore arma difensiva è l’attacco. E l’attacco, in questo campo del matrimonio, è la verità della nostra fede. Diciamo la verità senza paura, sicuri della vittoria.

 

 

 

Domenica XXVIII del TEMPO ORDINARIO 15 ottobre dall’anno 2000

Prima: Sap 7, 7-11; seconda: Eb 4, 12-13; Vangelo: Mc 10, 17-30

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Tra tanti valori che l’uomo incontra nella sua esistenza, qual è il valore più importante, il valore supremo? Il libro della Sapienza risponde che essa è e possiede un valore superiore e più prezioso di valori come il potere, la ricchezza, la salute, la bellezza (prima lettura). L’incontro con il giovane "ricco" permette a Gesù di riaffermare il valore superiore della sua sequela sui beni e le ricchezze di questo mondo (vangelo). L’autorità e la penetrazione efficace della Parola di Dio merita di esser riconosciuta come valore supremo, così come Dio stesso (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Valori e gerarchia di valori. Tanto gli individui che le società si reggono per mezzo di valori, cioè, per mezzo di tutto ciò che è apprezzato come un bene e che oggettivamente lo è. I valori personali sono quelli che configurano il modo di essere, di vivere e di agire delle persone, così come i valori sociali sono quelli che configurano il modo di essere, di agire e di vivere di una società. I valori sono molteplici e riguardano diverse aree dell’esistenza umana (valori vitali, economici, culturali, morali e religiosi). Di fronte alla varietà e alla molteplicità di valori, è necessario stabilire un ordine tra di essi, e, di conseguenza, una gerarchia. In una autentica gerarchia i valori religiosi occupano il primo posto, poi vengono quelli morali, culturali, vitali e infine quelli economici. Qualsiasi cambiamento in questo ordine gerarchico, risulta a discapito della persona umana, e, in definitiva, della società. Se al di sopra della sequela di Cristo poniamo i beni di questo mondo (valori economici), la "borsa" migliorerà, ma a svantaggio e danno della persona umana e della fede cristiana. Se il fitness e la bellezza si mettono al di sopra dei valori morali, la società ne ricaverà grandi atleti e corpi snelli, ma a detrimento dei valori più profondamente umani, come la giustizia, l’onestà, la lealtà, la fedeltà, la dignità della persona. Fino ad ora abbiamo parlato soltanto di valori e gerarchia di valori. Seppure di passaggio, si deve menzionare l’esistenza anche di "antivalori". Ossia, di tutto ciò che l’individuo o la società considerano come un male, e che in realtà lo è. L’attaccamento alle ricchezze è un male per l’uomo, perché gli impedisce si seguire Cristo e di porre in Dio il suo cuore.

Caratteristiche del valore superiore. In primo luogo, il valore superiore spiega tutti gli altri e dà loro senso e pienezza. L’amore verso Dio come valore supremo non si oppone al valore dei beni materiali, né a quello della salute, né a quello della bellezza. Dio vuole che l’uomo conti sui mezzi necessari per la sua vita, curi la propria salute e la bellezza della sua figura. In questo modo, i beni materiali non sono soltanto valori economici, né la salute e la bellezza soltanto valori vitali, ma acquisiscono una pienezza che in sé non hanno: fanno parte del disegno di Dio nei confronti dell’uomo. La Parola di Dio e la sua autorità non si oppongono all’autorità e alla parola dei genitori, degli educatori, dei governanti; piuttosto, infondono in esse una forza e un’efficacia che in sé non possiedono. In secondo luogo, è Dio che illumina l’intelligenza umana, per vedere quale sia il valore superiore tra una serie di valori e come si ordinino tra di loro tali valori. L’uomo da solo, senza l’illuminazione di Dio, corre il rischio di costruire gerarchie sbagliate. La prima lettura, pertanto, comincia precisamente così: "Supplicai e mi venne concessa la prudenza. Invocai e venne a me lo Spirito di sapienza". In terzo luogo, il vero valore finisce sempre col ricompensare con frutti buoni, sia per l’individuo, sia per la società. "Con essa mi vennero insieme tutti i beni", dice la Sapienza. E Gesù risponde a Pietro, che rappresenta i Dodici: "Nessuno che abbia lasciato casa, fratello, sorelle, madre, padre, figli e lavoro per me e per il Vangelo, resterà senza ricevere il cento per uno al momento presente ...e nel mondo venturo la vita eterna".

SUGGERIMENTI PASTORALI

Dove si trova il tuo valore, lì è il tuo cuore. I valori che reggono la vita di una persona o di una società sono l’indice della sua categoria umana e cristiana. Attualmente, c’è qualcosa nel nostro ambiente che ci deve far riflettere: nelle statistiche sugli interessi e i valori dei cittadini, quali sono i valori che più interessano e preoccupano? In moltissimi, la salute; in molti altri, il lavoro; non pochi si mostrano preoccupati anche per l’ambiente. Poi vengono gli altri. Ci rendiamo conto che in una retta scala di valori non sono precisamente questi ultimi che occupano il vertice? Al contrario, essi sono valori economici, vitali, che stanno alla base della piramide gerarchica. Ebbene, dove sono i tuoi valori, lì sta il tuo cuore, cioè tutta la tua persona (intelligenza, volontà, affettività, sensibilità). Vali ciò che vali nei tuoi valori. Se il tuo valore predominante è la salute, sul cui altare sacrifichi tutti gli altri valori, la tua categoria umana e cristiana sarà piuttosto bassa. Se il tuo valore predominante è Dio, allora ti elevi a una grande categoria umana e cristiana che si rifletterà poi nella tua vita morale, nel tuo lavoro, nella tua famiglia, nella stessa cura della tua salute. Teniamo ben presente questo: Dio, come valore supremo, ci impedisce di disprezzare gli altri valori; più ancora, ci comanda positivamente di stimarli, di averne cura, di cercarli ordinatamente. Dio come valore supremo è la massima ricchezza dell’uomo.

Si vive di valori. Non è indifferente per gli uomini e per i popoli il fatto che predominino gli uni o gli altri valori. Primo, perché i valori influiscono sulla mentalità di un individuo o di un gruppo e la conformano. Ma soprattutto perché i valori determinano la vita. Vivrai secondo quali siano i tuoi valori. Se i tuoi valori predominanti sono quelli vitali, tutte le tue attività saranno determinate da essi, cioè da una buona salute e da un ambiente sano. Perché si lavora? Per contare su mezzi che permettano di stare in forma. Perché si prega? Per chiedere a Dio salute. Perché si evita la droga, l’alcool, il tabacco? Non per il disordine morale che implicano, ma perché pregiudicano la salute. Per quale partito si vota? Per quello che assicuri il miglioramento della sanità e dell’ambiente. La salute si trasforma nell’asse intorno al quale gira tutto il resto nella vita, e al cui valore se ne sacrifica qualsiasi altro. Quali sono i valori che governano e dirigono la tua vita? Nel tuo ambiente (familiare, parrocchiale, comunitario), quali sono i valori supremi? Che cosa puoi fare, perché i valori religiosi siano sempre più in te e nei tuoi amici, nei familiari, nei compagni di classe o di lavoro e perché questi valori abbiano il primo posto nella loro scala dei valori?

 

 

Domenica XXIX del TEMPO ORDINARIO 22 ottobre dell’anno 2000

Prima: Is 53, 2a.3a.10-11, seconda: Eb 4,14-16 Vangelo: Mc 10, 35-45

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

L’espressione "servire per redimere" sintetizza il contenuto sostanziale della liturgia di oggi. "Chi vuol essere grande tra voi, si farà vostro servitore. E chi vuole essere il primo tra di voi, sarà il servo di tutti", ci dice Gesù nel vangelo. Gesù precede tutti noi nel servizio, realizzando in sé la figura del servo di Javeh, disprezzato, emarginato, uomo dolente ed infermo, che dà se stesso in espiazione (prima lettura), e la figura del Sommo Sacerdote, che può aver compassione delle nostre debolezze perché è stato tentato in tutto come noi, tranne che nel peccato (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Potere e servizio. Gesù nel vangelo sembra contrapporre due concezioni della società e delle relazioni tra gli uomini. Una di esse, verticale, incentrata sul potere, un potere che mette in risalto la differenza tra i potenti e coloro che potere non hanno, tra chi domina e chi è dominato, tra gli oppressori e gli oppressi. Questa concezione va contro le esigenze più perentorie della natura libera dell’uomo, può essere mantenuta soltanto con la forza delle armi, e porta in sé il virus mortale che la distruggerà. A questa concezione Gesù Cristo oppone la sua, quella che è venuto a portare al mondo con la sua presenza, quella che vuol lasciare come eredità ai suoi discepoli. La concezione di Gesù è orizzontale, mette in rilievo l’uguaglianza tra tutti e si incentra sul servizio. Un servizio generoso, fino al punto di essere battezzati con Cristo nel sangue del martirio e di bere insieme con lui il calice della passione. Nessuno è obbligato a servire, perché nessuno è obbligato ad amare, e il servizio espiatorio e redentore di Cristo e dei suoi discepoli sorge dalla fonte dell’amore autentico. La forza delle armi viene sostituita, in questa nuova società, dalla forza dell’amore vero, l’arma più efficace della storia e delle relazioni tra gli uomini e le nazioni, arma, tuttavia, non poche volte ignorata, disprezzata, abbandonata, distrutta. La società vittoriosa con le armi dell’amore non è contaminata, non ha nessun virus che la corroda. È una società sana, libera, amabile, solidale. Questa è la società per cui Dio si fece presente tra noi nella vita di Gesù di Nazaret; questa società è la ragione di essere della Chiesa e di tutti noi che vi apparteniamo. Non è utopia, è vangelo, buona novella di Dio. Saremo tanto meschini da permettere che si trasformi in utopia ciò che è l’essenza stessa del cristianesimo?

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

 

Caratteri del servizio cristiano.

A) Il servizio cristiano, come viene esposto nei testi liturgici di questa domenica, si caratterizza innanzitutto per essere espiatorio e redentore. È l’esperienza del servo di Javeh (prima lettura), colui che, per aver conosciuto nella sua vita la sofferenza e la prova, giustificherà molti e porterà su di sé le loro colpe. È l’esperienza storica di Gesù, che è venuto non ad esser servito, ma a servire e a dare la sua vita in redenzione e riscatto di molti (vangelo) e che, come sommo sacerdote della Nuova Alleanza, ha esperimentato il soffrire, essendo come è uno di noi, in tutto uguale a noi, meno che nel peccato (seconda lettura).

B) Il servizio cristiano è anche partecipativo. Cristo servo desidera vivere ed esser presente in mezzo ad una comunità di servi. Per questo, tra i cristiani il primo deve essere il servo di tutti, cioè, deve essere il primo nel servizio. Questo non è qualcosa di opzionale, è legge costitutiva della comunità cristiana.

C) Infine, il servizio è efficace e fecondo. Fu efficace e fecondo nella vita del servo di Javeh, che "per le fatiche della sua anima, vedrà luce, si sazierà". Fu fecondo ed efficace tra i primi cristiani, che si consideravano, come Paolo, servi di Cristo nel servizio ai fratelli, e che formarono comunità fondate sull’amore e sulla solidarietà. Fu efficace e fecondo in Gesù, che come sommo sacerdote penetrò nei cieli e che adesso è seduto nel trono di grazia per il bene nostro e a nostro beneficio. A codesto trono tutti gli uomini hanno accesso, e a partire da esso Gesù Cristo serve all’umanità il tesoro della sua grazia e della sua misericordia.

Cristiano ossia servitore. È indubbio che nel cristianesimo attuale ci sia una maggiore coscienza della Chiesa come comunità di servizio, di ogni cristiano come servitore, anche se ci possono essere individui o gruppi nei quali questa coscienza sia diminuita o quasi non esista. Questa coscienza è una grande ricchezza della Chiesa del nostro tempo. Una coscienza che percorre l’intero corpo ecclesiale. Diamo grazie al Signore perché questa coscienza è già un frutto della sua grazia redentrice. La coscienza, lo sappiamo, è insufficiente. Dalla coscienza si deve passare all’esperienza di vita. E questo passaggio, grazie al Signore, lo hanno compiuto anche, e lo compiono ogni giorno, molti figli della Chiesa. La Chiesa è in prima linea a livello sociale nel servizio agli emarginati (tossicodipendenti, malati di AIDS, emigranti, bambini abbandonati...). La Chiesa è in prima linea nell’aiuto efficace, per quanto piccolo, ai paesi che soffrono calamità naturali, o il terribile flagello della guerra. È in prima linea nel servizio all’uomo, soprattutto all’uomo indifeso, difendendo con vigore e costanza i diritti fondamentali dell’essere umano, particolarmente il diritto più fondamentale, quello della vita. La Chiesa è in prima linea nella promozione e nella difesa dei valori umani e cristiani. In ogni parrocchia, in ogni diocesi, quanti modi, a volte molto semplici, di servire l’uomo!

Servire e soffrire. Anche se spiritualmente il servizio può essere una sorgente di gioia, la sofferenza, con le sue diverse facce, non è assente dal servizio stesso. Per servire si deve soffrire. Si deve soffrire la fatica, il duro sforzo del dare se stessi stando in prima fila, soffrendo perfino la malattia. Si deve soffrire molte volte l’umiliazione, e perfino il disprezzo e l’ingratitudine di quelli che servi. Si deve soffrire, in altre occasioni, il dramma dell’enorme distanza tra ciò che si fa al servizio dell’uomo, e le ingenti necessità di molti milioni di uomini nel mondo. Si deve soffrire forse l’incomprensione degli altri, i commenti irrisori e a volte mordaci, le interpretazioni sbagliate che alcune persone possono dare al tuo servizio. Non è facile servire soffrendo. Si può fare grazie alla forza della meditazione orante della Parola di Dio che vivifica lo spirito; grazie all’energia che ci viene dal pane eucaristico; grazie a una fede gigantesca, che fa scoprire nell’uomo, chiunque esso sia, lo stesso Cristo vivo e presente tra di noi nell’oggi della nostra vita. Fratello o sorella che soffri per servire, non avere paura! Nel servizio sofferto al prossimo troverai con tutta sicurezza Dio e troverai te stesso.

 

 

 

Domenica XXX del TEMPO ORDINARIO 29 ottobre dell’anno 2000

Prima: Ger 31, 7-9; seconda: Eb 5, 1-6 Vangelo: Mc 10, 46-52

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

I testi liturgici mettono in risalto l’efficacia di Dio nella sua azione con gli uomini. Dio è efficace facendo ritornare dall’esilio alla patria anelata numerosi figli di Israele (prima lettura). Gesù Cristo, con il potere efficace di Dio, concederà la vista al cieco Bartimeo che vince qualsiasi ostacolo, pur di vedere realizzato il suo grande desiderio di vedere (vangelo). L’efficacia salvifica di Dio si mostra in modo speciale in Cristo, sommo sacerdote, che trae fuori gli uomini dall’ignoranza e dal dolore, e li libera dai loro peccati.

MESSAGGIO DOTTRINALE

Un Dio efficace per amore. Efficace è colui che raggiunge, per strade giuste, con i migliori mezzi e nel minor tempo possibile, tutto ciò che si propone. Questa è una definizione accettabile per la mentalità comune. Però l’efficacia di Dio risulta non poche volte sconcertante. Perché nessuno dubita del fatto che Dio sia efficace, ma i modi e i tempi dell’efficacia divina seguono percorsi estranei a quelli umani. Molte volte le vie giuste per Dio non sono giuste per gli uomini, e viceversa. Ai giudei non dovette sembrare una via giusta l’esilio di Babilonia, ma lo fu per Dio, che così manifestò la forza del suo amore e della sua misericordia facendoli ritornare alla loro patria, perché "io sono per Israele un padre, ed Efraim è il mio primogenito" (prima lettura). Salire a Gerusalemme è bello, ma farlo in compagnia di Gesù che lì troverà la croce e la morte, sfida inevitabilmente le nostre categorie umane e la nostra volontà di sequela. Tuttavia, non c’è alcun dubbio che sulla croce rifulga la forza divina dell’amore, e l’amore potente del Redentore. Tale efficacia misteriosa dell’amore redentore continua viva e vivificante nel corso dei secoli fino ai nostri giorni. Ai primi cristiani dovette sembrare alquanto sorprendente che Gesù, in quanto sommo sacerdote, non provenisse dalla tribù di Levi. Ma così l’efficacia divina brillò con nuovo fulgore, costituendo Gesù Cristo non soltanto come sommo sacerdote del popolo giudaico, ma dell’intera umanità, alla maniera di Melchisedec. Nella vita non c’è nulla più efficace dell’amore, e Dio è Amore. Ma l’efficacia dell’amore, più che con la pura ragione, si scopre con l’amore puro e sincero.

I requisiti dell’efficacia divina. La liturgia di questa domenica ce ne indica alcuni.

A) Credere e sperare. Gli esuli di Babilonia non potevano dimenticare le meraviglie di Dio nella storia del loro popolo. Dio aveva mostrato la forza del suo braccio nell’Esodo e nella conquista della terra promessa. Essi credono e confidano che Dio tornerà ad agire efficacemente in loro favore, anche se non sanno quando né come. Bartimeo ha una fede immensa che Gesù, il Messia discendente da David, possa guarire la sua cecità; per questo grida senza alcun timore e con audacia: "Gesù, Figlio di David, abbi pietà di me". I giudei credevano che Dio avesse concesso al sommo sacerdote, nella festa dello Yom Kippur, il potere di perdonare i peccati di tutto il popolo. E noi cristiani crediamo con assoluta sicurezza che Gesù Cristo, nostro sommo sacerdote, distrusse sulla croce i peccati del mondo. È impossibile che Dio manifesti la sua efficacia in chi non crede in essa.

B) Sentirsi bisognoso della forza di Dio. I giudei nell’esilio sapevano molto bene che da soli non avrebbero potuto essere rimpatriati. Bartimeo era ben cosciente che nulla avrebbe potuto fare per recuperare la vista. Gli ebrei, e anche noi cristiani, siamo convinti che soltanto Dio può perdonare i peccati. Chi è autosufficiente e non sente la necessità della forza di Dio, non potrà mai essere testimone della sua efficacia nella vita degli uomini e nella storia.

C) Essere coerenti. Se accettiamo l’efficacia divina nella nostra vita, dobbiamo accettare l’essere coerenti con le sue esigenze. Cioè, come cristiani, dobbiamo essere una specie di "vetrina" dell’azione efficace di Dio in noi. Gli esuli di Babilonia si mettono in cammino verso la Palestina, Bartimeo segue Gesù sulla strada per Gerusalemme, i cristiani non soltanto sono stati redenti da Cristo sommo sacerdote, ma vivono come redenti.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Signore, che io veda! Il cieco Bartimeo è figura e simbolo dei discepoli di Gesù in quel momento storico, in cui Gesù passò per Gerico, e in tutti i tempi. Di fronte al mistero della croce e della morte ignominiosa, noi cristiani esperimentiamo con non poca frequenza la cecità di Bartimeo, il suo immobilismo, la sua indigenza. "Bartimeo, un mendicante cieco, seduto vicino alla strada". Quanti "Bartimeo" nel nostro tempo davanti al grande mistero della passione e del dolore innocente! C’è molta cecità negli uomini di fronte l’ingiustizia della sofferenza, come se il non soffrire fosse la vetta della perfezione umana. A molti i piedi si fanno di piombo davanti alla sola idea di camminare con Cristo verso la città del dolore e della morte. Restiamo immobili nel territorio del nostro ego, troppo svogliati per metterci in cammino verso la terra del dolore altrui. Siamo indigenti, immensamente indigenti che qualcuno – o, meglio, Qualcuno – ci apra gli occhi e ci strappi alla nostra immobilità. Cristiano è colui che non ha paura della sofferenza. Chi dice con medesima decisione "sì" alla salute e al benessere, e "sì" alla sofferenza e alla tribolazione. Perché il sì del cristiano è un sì al mistero di Dio-Amore, e per quelli che amano Dio tutte le cose contribuiscono al loro bene. Magari il Signore conceda a tutti noi cristiani di ripetere qualche volta: "Signore, che io veda!". Perché vedendo io creda, e credendo segua fermamente i tuoi passi verso la croce.

Seguire Cristo. Cristiano è colui che crede in Cristo e cammina dietro alle sue orme. La sequela di Cristo non è la sequela di una dottrina, per esempio quella pitagorica, quella di Aristotele o di Zenone. Cristiano non è neppure chi segue un cammino di vita tracciato in pagine imperiture, allo stile dei grandi maestri di morale d’Oriente e Occidente. Cristiano è colui che segue una persona, la persona di Gesù di Nazareth. Più ancora, cristiano è chi presta a Gesù Cristo la sua natura umana per farsi presente nella storia, nell’oggi di ogni giorno. In altre parole, essere cristiano è essere trasparenza di Cristo per gli altri, lasciarsi interpretare da lui. Siamo, noi cristiani, trasparenza di Cristo? Sei tu trasparenza di Cristo nella tua famiglia, nella tua parrocchia, tra i tuoi amici? O sei piuttosto una deformazione di Cristo? Prendere sul serio la nostra vocazione cristiana è stato un imperativo storico fin dagli inizi del cristianesimo. Che posso fare io, per essere trasparenza di Cristo in ogni luogo e circostanza? Costruiamo una catena di trasparenze di Cristo affinché il mondo, il nostro mondo, sia salvato dall’unico Salvatore.

 

 

 

Solennità di tutti i SANTI 1 novembre dell’anno 2000

Prima. Ap 7, 2-4. 9-14; 1Gv 3, 1-3 Vangelo: Mt 5, 1-12a

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Dov’è l’identità cristiana? La liturgia di questa festa ci dà una buona risposta. Autenticamente cristiano è colui che vive lo spirito che anima le beatitudini pronunciate da Gesù nel gran discorso della montagna (vangelo). È cristiano veramente chi porta il sigillo di Dio sulla fronte e indossa la bianca veste lavata nel sangue dell’Agnello (prima lettura). O, meglio ancora, cristiano è colui che è stato fatto figlio di Dio e vive con l’ardente speranza dell’incontro definitivo con il Padre (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Presente e futuro. Nella seconda lettura e nel vangelo esiste una forte tensione tra il presente e il futuro, tensione propria dell’essere e dell’operare cristiano. C’è tensione tra l’adesso, in cui già siamo figli, e ciò che non si è ancora manifestato, ciò che saremo dopo la nostra morte; tra la realtà presente della grazia, che agisce in modo salvifico nell’uomo, e il mistero che il futuro ci riserva nella presenza ed intimità di Dio. C’è tensione tra la prima e l’ottava beatitudine, riferite al presente (beati i poveri di spirito, perché di essi È il regno dei cieli; beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi È il regno dei cieli) e le altre beatitudini, in cui la motivazione è sempre nel futuro: i mansueti possederanno in eredità la terra, quelli che piangono saranno consolati, quelli che hanno fame e sete di giustizia saranno saziati, i misericordiosi otterranno misericordia, i puri di cuore vedranno Dio, gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio. È la tensione di ogni esistenza cristiana e della vita stessa della Chiesa. Il cristiano, per mezzo del battesimo, GIÀ è salvato, GIÀ è figlio di Dio, GIÀ ha un piede in cielo. Ma la condizione storica dell’uomo da una parte, e, dall’altra, il suo libero arbitrio, lasciano la porta aperta a un futuro sconosciuto e incerto. Chi può assicurare infallibilmente all’uomo che userà bene la sua libertà fino al momento finale della sua esistenza? Per questo, il carattere definitivo della salvezza e della comunione con Dio non può cessare di essere trasferito al futuro, anche se, certamente, con la speranza posta nella misericordia del Padre.

Il sigillo di Dio sulla fronte. Il sigillo, su un oggetto o su un animale, indica appartenenza. Il sigillo di Dio sulla fronte dell’uomo indica coloro che hanno accettato di appartenere a Dio. Tale sigillo ha la lettera tau, l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, che, come l’omega in greco, rimanda a pienezza e compimento. Per questo, il numero di 144.000 dei sigillati da Dio, indica l’ampiezza universale dei salvati, presi da tutti i popoli a da tutti i punti cardinali. Questi non soltanto appartengono a Dio, ma indossano una veste bianca lavata nel sangue dell’Agnello. Cioè, sono stati salvati in quanto hanno reso effettiva nella loro esistenza l’opera redentrice di Cristo. D’altra parte, la tau ha forma di croce greca, per cui sembra obbligato il riferimento alla croce di Gesù Cristo. Nel sangue di quest’ultimo l’uomo peccatore ha lavato i suoi peccati, e nel legno della croce Cristo ha inchiodato la condanna che pendeva su ciascuno di noi. Codesto sigillo divino lo riceviamo nel momento del battesimo, in cui Dio ci fa figli del suo amore. Questo è il sigillo di coloro che si trovano dentro il Regno dei cieli e vogliono vivere in esso degnamente, incarnando in sé, nel lungo cammino della vita, le beatitudini. Perché la santità battesimale non è un albero già perfettamente formato, ma un seme, che deve crescere e giungere a trasformarsi in albero. Nella misura in cui il Regno di Dio e le beatitudini si sviluppano in noi, in tale misura diventiamo santi ed eredi del cielo. La santità, grazie a Dio, non ha nulla di magico né di automatico.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Le beatitudini al contrario. Beati i ricchi (i ricchi di beni materiali, i ricchi di scienza e di tecnica, i ricchi di fama e di potere), perché di essi è il regno della terra. Beati gli iracondi, i collerici, quelli di carattere impositivo, i prepotenti, perché essi spoglieranno la terra dai deboli e impotenti, dai mansueti di cuore, dai "buoni a nulla" e dagli incapaci. Beati coloro che ridono e quelli a cui la vita e tutto il mondo sorride, perché essi pensano di avere già il paradiso sulla terra e non avranno bisogno di essere consolati. Beati quelli che non hanno fame né sete di giustizia, perché già sono sazi di ingiustizie, di meschinità e di malvagità. Beati quelli senza misericordia, i duri di cuore, perché non hanno bisogno di misericordia, perché essi non accettano la debolezza della dolcezza e della pietà. Beati i contaminati da amori macchiati, da amori illeciti, da amori marcatamente egoisti, perché essi resteranno ciechi per le cose di Dio, per tutto ciò che sia altruista, spirituale e divino. Beati coloro che lavorano per la guerra, i violenti, i costruttori di armi e di missili, perché essi saranno chiamati figli di Marte, eroi della mitraglietta, e stanno collaborando alla costruzione di un futuro nuovo, la cui legge fondamentale sarà la legge della giungla. Beati quelli che sfuggono alla giustizia degli uomini per mezzo di influenze o di tangenti, perché di essi è il regno di questo mondo, e in questo mondo vivono come re. Il porre le beatitudini al contrario ci può aiutare a valutare molto di più tutta l’energia rivoluzionaria, tutta la forza imponente delle vere beatitudini. È la differenza che esiste tra un uomo santo e un criminale.

Il Cielo. Ci sono coloro che vogliono fare un cielo della terra, ed altri che vogliono fare una terra del cielo. Entrambe le posizioni distano molto dalla discrezione cristiana davanti al mistero infinito che ci sfugge. Dobbiamo anelare ardentemente al cielo, ma dobbiamo rispettarne con cuore semplice ed intelligenza illuminata il carattere misterioso. Dobbiamo confessare che coloro che hanno voluto costruire nella terra un cielo, si sono sbagliati tanto grossolonamente che gliene è venuto un inferno. Ma dobbiamo ammettere, allo stesso modo, che coloro che sono saliti dalla terra al cielo hanno perduto radicalmente la bussola del mistero. Non vogliamo supplire alla nostra ignoranza del cielo addobbandolo con spezie della terra. Accettiamo ciò che ignoriamo e i limiti di ciò che sappiamo. Perché sappiamo che il cielo si riassume nella comunione eterna dei salvati con Dio uno e trino, e con tutti i fratelli che hanno accettato nelle loro vite la salvezza di Dio. Sappiamo che tale comunione concederà a ciascuno nella sua individualità, e come membri della Chiesa celeste il massimo di felicità di cui si può godere. Sappiamo che godremo di tale felicità divina con il nostro essere integrale, corpo ed anima. Accettiamo questa dotta ignoranza, con fede e con amore.

 

 

Commemorazione di tutti i FEDELI DEFUNTI 2 novembre dell’anno 2000

Prima: Is 25, 6-9; Rom 5, 5-11 Vangelo: Gv 6, 37-40

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

La liturgia nella commemorazione dei fedeli defunti canta la vittoria di Cristo e del cristiano sulla morte. In effetti, nella seconda lettura, san Paolo dice ai romani che Cristo morì per noi, e in tal modo, giustificati adesso per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui, cioè vinceremo con Cristo il peccato e la morte. A questa vittoria allude Isaia (prima lettura), quando insegna che lo stesso Dio: "Vincerà la morte definitivamente, e asciugherà le lacrime e il pianto". Il cristiano riceve dal suo Signore e Maestro l’alimento che già in questa terra è alimento di vita eterna: l’eucarestia pane di vita, anticipazione della vita con Dio dopo la morte (vangelo).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

La morte è stata vinta. La realtà più drammatica dell’esistenza umana è dover morire, avendo nell’anima sete di immortalità. Questa morte non è soltanto drammatica, è anche in non poche occasioni assurda, quando viene falciata una vita giovane e promettente, quando a pagare il salario alla morte è una vita innocente, quando la morte giunge inaspettata, quando tronca un futuro magnifico, quando crea un acuto problema nella famiglia, quando... La drammaticità e l’assurdità aumentano quando si manca di fede o quest’ultima è smorta, quasi completamente spenta. In questo caso, tutto crolla, perché si vive come chi non ha speranza. In tal caso, la morte porta nella sua mano la palma della vittoria, e la vita termina sotto la lastra di pietra di un sepolcro, lasciando i vivi nella disperazione e nell’angoscia senza senso. La fede cristiana, invece, ci dice che la morte è un tunnel nero che termina in un nuovo mondo di luce e di vita risplendenti. Ci dice che la morte è certamente una perdita, da parte di chi se ne va (perde la sua relazione col mondo) e da parte di chi rimane (perde un essere amato), ma una perdita che Dio è capace di trasformare, in un modo a noi sconosciuto, in guadagno, perché la morte dell’uomo, come nel caso della crisalide, sbocca nella vita. In Cristo risorto, vincitore della morte, tutti abbiamo già cominciato, in una certa maniera, a vincere la morte mediante la partecipazione alla sua resurrezione.

Eucarestia e vita. Il cristiano, come qualsiasi altro essere umano, sente giorno per giorno il passaggio dal tempo sul suo corpo, l’avvicinarsi dell’incontro definitivo con la realtà della morte, la chiamata costante della terra. Il cristiano non è esente da tutto ciò che questo significa esistenzialmente per ogni uomo, nella sua unità psicosomatica. Mentre si va avvicinando al tramonto della vita, il cristiano esperimenta, tuttavia, a un livello profondo, la chiamata della vita divina, la voce del Padre che gli dice: Vieni! Questa esperienza si fa, senza dubbio, nella preghiera personale in cui ciascuno parla da cuore a cuore con il Padre che chiama, con il Figlio che salva, con lo Spirito che vivifica. Questa esperienza si approfondisce nella ricezione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo nell’Eucarestia. Perché il cristiano, quando mangia del pane e beve dal calice, riceve Cristo vivo, nella sua umanità e nella sua divinità, pegno ed anticipazione della gloria del cielo. E perché, ogni volta che si celebra l’Eucarestia, si realizza l’opera della nostra redenzione e "dividiamo uno stesso pane che è rimedio di immortalità, antidoto per non morire, ma per vivere con Gesù Cristo per sempre" (S. Ignazio di Antiochia, Ep. 20, 2), come ci ricorda il Catechismo (CCC 1405). L’ansia di immortalità e di vita eterna, che si annida in ognuno degli uomini e delle donne del pianeta, viene soddisfatta, lentamente ma in modo continuo ed efficace, dalla straordinaria esperienza di vita nuova che va impossessandosi dell’uomo al contatto frequente con l’Eucarestia. Con l’Eucarestia ben ricevuta va crescendo nell’uomo la vita, la vita nuova di Cristo risorto e glorioso nel cielo.

SUGGERIMENTI PASTORALI

La virtù della speranza. Sperare è desiderare quello che ancora non si possiede. E sta chiedendo di darsi con tutta l’anima ad ottenerlo il più presto possibile. Esiste la speranza umana con un orizzonte puramente temporale. Lo studente spera di ottenere buoni voti agli esami; il giovane spera si sposarsi e di formare una bella famiglia; il malato spera di ristabilirsi presto, mentre chi è sano spera di non ammalarsi, il marinaio spera di giungere a casa ed abbracciare la sua sposa e i suoi figli; il missionario spera di poter costruire una chiesa per i suoi fedeli che ne sono sprovvisti; il sacerdote spera che si riempia la sua parrocchia in tutte le messe domenicali, eccetera. Queste speranze umane, buone e perfettamente legittime, Dio le completa in noi cristiani, concedendoci la virtù teologale della speranza. Questa speranza cristiana ha la sua meta principale e definitiva nel cielo, dove tutti speriamo di arrivare con l’aiuto di Dio, al termine della nostra vita terrena. Ma la speranza cristiana ha anche le sue mete parziali, più piccole, e che sono ordinate all’ultima meta. Per esempio, la speranza del bambino di fare la prima comunione e quella della giovane novizia di fare la professione religiosa; lo sforzo e la speranza di un parroco perché i suoi parrocchiani vadano a messa la domenica, o la speranza di una catechista che i suoi alunni assimilino bene la fede e la vita cristiana, ecc. Abbiamo per certo che la speranza, quando è autentica, quando Dio ce la infonde, non inganna mai né delude chi in essa ripone la propria fiducia.

La morte non è il peggio. Chi non ha fede può facilmente pensare che la morte sia il peggiore dei mali, perché con essa si torna al nulla, al mondo del non essere. Il buon cristiano guarda alla morte con altri occhi, perché la morte non è l’annichilamento dell’essere, ma la porta per un nuovo modo di essere e di vivere per sempre. I cimiteri cristiani non sono soltanto luoghi del ricordo, sono soprattutto luoghi di speranza, luoghi dai quali sale verso Dio l’anelito di eternità degli uomini. Per questo, la morte non è il peggiore dei mali, né tanto meno il male assoluto. Il maggiore dei mali dell’uomo è il peccato, è il mal uso della libertà, è la volontà di rifiutare Dio adesso, nel tempo, e poi, per sempre nell’aldilà. I martiri sono quegli uomini che con la loro vita e la loro morte ci stanno dicendo che vale la pena di morire per non peccare, per non offendere Dio e la nostra vocazione cristiana. Per questo, i martiri debbono avere un luogo maggiore nell’educazione cristiana dei bambini e dei giovani. Essi, con la loro morte per la fede, ci stanno gridando che la morte non è il peggio, e che non ha l’ultima parola. Cristo, il Vivente, ci aspetta con le braccia aperte dell’altra parte della frontiera.

 

 

Domenica XXXI del TEMPO ORDINARIO 5 novembre dell’anno 2000

Prima: Dt 6, 2-6, seconda: Eb 7, 23-28 Vangelo: Mc 12, 28b-34

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Ama il Signore tuo Dio..."; "ama il prossimo…". Questo è il messaggio della liturgia odierna e l’essenza dell’amore cristiano. Questo è il comandamento più grande di tutti (primo amore a Dio, secondo amore al prossimo), ci dice Gesù nel vangelo. Nella prima lettura, il popolo di Israele confessa la sua fede nel Dio unico e, a partire da essa, professa il suo amore totale ed esclusivo a Javeh. Gesù Cristo, nostro sommo sacerdote, manifesta ciò che insegna offrendo se stesso al Padre per la salvezza degli uomini e intercedendo nel cielo a nostro favore.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Un amore "nuovo". La risposta di Gesù allo scriba che gli ha domandato quale tra i 613 comandamenti che esistevano al suo tempo era il primo e più importante, è tratta dall’Antico Testamento. La prima parte la prende dal Deuteronomio, corrispondente alla prima lettura di questa domenica; la seconda, dal libro del Levitico, riferita all’amore verso il prossimo (19,18). La novità dell’amore cristiano non si trova nel contenuto, già conosciuto e rivelato da Dio. La novità si fonda sull’unione indissolubile tra entrambi i comandamenti, facendo di essi uno solo: "Non esiste altro comandamento –(si faccia caso all’uso del singolare)– più grande di questi". L’amore a Dio e l’amore al prossimo non sono due puledri che corrono ciascuno per conto suo nello stadio della vita. Essi sono piuttosto, aggiogati al medesimo carro, sul quale l’uomo corre attraverso la storia e l’attraversa in marcia verso il suo destino e il suo fine nell’eternità. Affinché sia cristiano, questi due amori debbono giungere a costituire un unico amore inseparabile. Questo amore cristiano è "nuovo", inoltre, perché in esso si riassumono e strutturano tutti gli altri precetti esistenti nel mondo giudaico, come anche tutti i comandamenti, leggi e precetti dell’esistenza cristiana in ogni momento della storia. Il vincolo dell’amore è il vincolo della perfezione. E a partire dall’amore tutti i precetti si rivestono della bellezza e della perfezione stessa dell’amore. Il testo evangelico termina dicendo: "E nessuno osava fargli domande", per indicare che la risposta ha colpito nel segno, e che pertanto qualsiasi altra domanda sarebbe superflua. Noi cristiani, questo amore "nuovo", lo scopriamo nella croce di Cristo, dove il nostro sommo sacerdote si offre come vittima di amore al Padre per amore agli uomini peccatori (seconda lettura).

Un culto "nuovo". Lo scriba, facendosi eco delle parole di Gesù, replica: "L’amore a Dio e l’amore al prossimo vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici" (vangelo). Un culto "nuovo" sembra insinuarsi in queste parole; un culto, dove gli olocausti e i sacrifici non valgono per se stessi, ma solo in quanto espressione di amore e in quanto predisposizione per l’amore sia a Dio sia al prossimo, o forse meglio, a Dio nel prossimo e al prossimo in Dio. In questo senso, non importa che il tempio di Gerusalemme scompaia, sia distrutto, perché, dove esiste l’amore vero, l’amore "nuovo", potrà continuare il culto "nuovo", nel quale le vittime non saranno gli animali (tori e capri) ma l’uomo, nella profondità del suo essere e della sua persona. Questo culto "nuovo" non ha bisogno di molti sacerdoti (nel tempio di Gerusalemme c’erano quotidianamente centinaia di sacerdoti che esercitavano il proprio ministero), ma di uno solo, Gesù Cristo, sommo ed eterno sacerdote davanti al Padre per redimere gli uomini. I sacerdoti della nuova alleanza non aumentano il numero, ma prolungano nel tempo l’unico sacerdozio di Gesù Cristo. Parafrasando sant’Agostino, il tempio "nuovo", in spirito e in verità, esige anche un culto "nuovo", in spirito e in verità; il culto "nuovo" reclama un cuore nuovo, che canti sì un cantico "nuovo" con le labbra, ma soprattutto con la vita.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Due legni per una croce. Nella croce di Cristo si uniscono per sempre il legno verticale, amore a Dio, e il legno orizzontale, amore al prossimo. Non esiste la croce senza l’unione di entrambe i legni. Non esiste l’amore cristiano senza l’unione di entrambi gli amori nell’unico mistero della croce. È importante questa affermazione, perché non è piccola la tentazione di separare ciò che Gesù Cristo ha unito per sempre. La tentazione di amare tanto esclusivamente Dio, da dimenticarci degli uomini; o la tentazione di amare tanto esclusivamente gli uomini, da dimenticarci di Dio. Questa tentazione, se non è vinta, porta con sé conseguenze abbastanza nocive. Per esempio, si lascia la preghiera perché "il donarsi agli altri e le attività in favore degli altri sono già preghiera". O si è giunti a tale "perfezione" nell’amore a Dio che si può con libertà mormorare e parlare male del prossimo con la coscienza tranquilla. Dato che è molto più difficile mantenere aggiogati insieme questi due amori che non separarli, dobbiamo vigilare molto attentamente sulle nostre attitudini e i nostri comportamenti nei confronti di Dio e nei confronti dei nostri fratelli. Se al termine di ogni giorno, ogni cristiano esaminasse la sua coscienza su questo amore "nuovo" e si proponesse di andare progredendo giorno dopo giorno nell’amore, l’esperienza vissuta del cristianesimo migliorerebbe in molti di noi. La cosa più significativa di questi due amori, verticale ed orizzontale, è che essi costituivano una croce, non una comoda poltrona. L’esperienza e la vita di Cristo ci dicono eloquentemente che l’amore cristiano, portato alle sue estreme conseguenze, termina con una croce. Da questa croce l’amore si apre ai quattro punti cardinali, si fa universale.

Amore ed Eucarestia. L’amore di Gesù Cristo al Padre e agli uomini fino alla croce e alla resurrezione si rinnova ora dopo ora in ogni altare dove si celebra l’Eucarestia. L’amore verticale ed orizzontale di Gesù, il suo amore universale, non è passato alla storia, ma incrocia ora dopo ora e giorno dopo giorno la fine dei tempi. L’Eucarestia è l’amore redentore di Gesù reso eterno, al di là delle condizioni storiche della sua passione e morte. Nell’Eucarestia si ripete, sotto il velo del sacramento, la sua passione di amore nel cuore della storia. A questa luce si comprendono due urgenze pastorali: a) una catechesi generalizzata e permanente, dai bambini fino agli adulti, sulla ricchezza di significato e sui frutti stupendi dell’Eucarestia. Chi riesca a scoprire la profondità dell’amore di Gesù Cristo nell’Eucarestia, si innamorerà di essa sicuramente; b) il risvegliare nella coscienza dei cristiani il fatto che l’eucarestia di Gesù è inseparabile dall’eucarestia dei cristiani, cioè, che l’amore di Cristo a Dio e agli uomini nell’Eucarestia è un imperativo ineludibile affinché il cristiano giochi nella sua vita l’unica carta dell’amore a Dio e al prossimo. Il fare l’Eucarestia porta con sé, in forza del dinamismo della grazia, il farsi eucarestia.

 

 

 

Domenica XXXII del TEMPO ORDINARIO 12 novembre dell’anno 2000

Prima: 1Re 17, 10-16; seconda: Eb 9, 24-28 Vangelo: Mc 12, 38-44

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Un atteggiamento di generosità disponibile e fiduciosa accomuna i testi della domenica attuale del tempo ordinario. La generosità è l’atteggiamento della vedova di Sarepta, che non dubita nel dare una focaccia ad Elia a costo del suo proprio ultimo sostentamento (prima lettura). È anche l’atteggiamento della vedova, osservata unicamente da Gesù, che deposita tutto ciò che possiede, per quanto sia un nonnulla, nel tesoro del tempio (vangelo). È soprattutto l’atteggiamento di Gesù, che dà se stesso fino alla morte, una volta per sempre, come vittima di riscatto e di salvezza (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Generosità si declina al femminile. Nella liturgia di oggi le donne giocano un ruolo predominate e positivo. Oltretutto, si tratta di donne vedove, con tutta la precarietà che questo termine recava con sé nei tempi remoti del profeta Elia (secolo IX a.C.) e di Gesù. Non poche volte la vedovanza andava unita alla povertà, e perfino alla mendicità. Tuttavia, i testi sacri non ci presentano queste due buone vedove come esempio di povertà (ciò si sottintende), ma come esempio di generosità. Nei tre anni di siccità che colpì tutta la regione, alla vedova di Sarepta restavano soltanto dei grani di farina ed alcune gocce d’olio, per farne una focaccia con cui alimentarsi, lei e suo figlio, e poi morire. In tale situazione, già umanamente drammatica, Elia le chiede qualcosa di inesplicabile, di eroico: di dargli quella focaccia che stava per mettere nel forno. La donna acconsente. C’è una specie di istinto divino che la spinge ad agire così. È il dono della generosità, che Dio concede a coloro che hanno poco o nulla. Non pensa alla sua sorte; pensa soltanto ad obbedire alla voce di Dio che le giunge per mezzo del profeta Elia.

La vedova del tempio è una donna eccezionale. Essendo, com’era, povera e bisognosa, non aveva nessun obbligo di dare elemosina per il culto del tempio o per l’azione sociale e benefica che i sacerdoti realizzavano in nome di Dio con gli aiuti ricevuti. Se avesse avuto un obbligo, la sua azione sarebbe stata, sì, generosa, perché diede il poco che aveva, tutto il suo vivere. Ma il suo gesto brilla di luce nuova e splendente, proprio perché si situa al di là dell’obbligo, sul piano della generosità amorosa nei confronti di Dio. Il contrasto tra l’atteggiamento della vedova e quello dei ricchi che gettavano molto, ma del superfluo delle loro ricchezze, nobilita e fa risaltare di più la generosità della donna.

La fonte di ogni generosità. La generosità delle due vedove emana dalla generosità stessa di Dio, che ci si manifesta in Cristo Gesù. Generosità di Gesù, che si offre una volta per sempre in sacrificio di redenzione per tutti gli uomini: nulla e nessuno resta escluso da codesta generosità. Generosità di Gesù che, come sommo sacerdote, entra glorioso nei cieli per continuare da lì la sua opera sacerdotale in favore nostro: continua nel cielo la sua intercessione generosa ed eterna per gli uomini. Generosità di Gesù che verrà, alla fine dei tempi, senza relazione con il peccato, come salvatore che ha distrutto il peccato ed ha instaurato la nuova vita. Nella sua esistenza terrena, Gesù era ben cosciente di non essere venuto al mondo per condannare, ma per salvare. Nella sua parusìa o seconda venuta, mantiene la medesima coscienza di salvatore, al di sopra di qualsiasi altro attributo.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

La generosità del cuore. Non poche volte noi uomini ci riempiamo di ammirazione quando ascoltiamo o veniamo a sapere che qualcuno ha compiuto un gesto di grande generosità. Per esempio, sappiamo che qualcuno ha dato, di tasca propria, 200 milioni di dollari per un ospedale, o ha creato una fondazione con fini di ricerca o educativi, dotandola di 450 milioni di dollari... Tutto ciò va molto bene, e magari ce ne fossero molti di questi uomini generosi, che sono disposti a vuotare le borse perché altri esseri umani ricevano educazione e possano essere assistiti degnamente in un ospedale! Senza sminuire l’importanza della quantità, voglio sottolineare che, secondo il vangelo, più che la quantità vale l’atteggiamento. Cioè, se quei milioni sono stati dati con vero amore e in atto di servizio; più ancora, se l’aver dato quei milioni ha comportato una rinuncia. Per esempio, prescindere da un viaggio in crociera nell’oceano Atlantico o nel Mediterraneo, o non comprare alla propria sposa un diamante prezioso valutato vari milioni di dollari, o forse vivere con maggiore austerità la vita di ogni giorno. Quando la generosità, non riguarda soltanto le tasche, ma anche il cuore, è più autentica. Per questo, chi dà poco, ma è tutto ciò che può dare, e lo dà con tutta l’anima, questi è generoso, e la sua generosità agli occhi di Dio vale come quella del ricco che si è privato di milioni di dollari. Cristiano, se hai molto, dà molto; se hai poco, dà quel poco, ma, sia in un caso come nell’altro, fallo con tutta la sincerità e la generosità del tuo cuore. Agli occhi di Dio ciò è quello che più conta. È da sperare che lo sia anche ai tuoi propri occhi.

Generoso, fino a che punto? In questa materia, non ci sono leggi matematiche. Il principio fondamentale è chiaro: dà, sii generoso. Che cosa dare, fino a dove giungere nella generosità, non ammette una sola ed unica riposta. Saranno le circostanze quelle che andranno segnando certe norme alla nostra generosità: per esempio, un terremoto o un uragano, un’inondazione ingente e distruttrice, una guerra tribale, un’epidemia, eccetera. Sarà soprattutto lo Spirito di Dio ad indicare a ciascuno, nell’intimo della sua coscienza, le forme e il grado per portare a compimento azioni generose, nate dall’amore, nate dal cuore. L’importante è che nessuno di noi dica mai: "Fin qui". Non è possibile porre limiti allo Spirito di Dio. Non è male se ci esaminiamo e ci domandiamo: sto dando tutto ciò che posso? Sto dando tutto ciò che lo Spirito Santo mi chiede di dare? Sto dando come debbo dare: senza attaccamento, generosamente, senza cercare compensi? Noi cristiani d’oggi dobbiamo essere come i cristiani di Macedonia, di cui parla Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: "la loro estrema povertà si è tramutata nella ricchezza della loro generosità. Posso testimoniare infatti che hanno dato secondo i loro mezzi, e anche al di là dei loro mezzi, spontaneamente, domandandoci con insistenza la grazia di prendere parte a questo servizio a favore dei santi" (8, 2-4). Consideriamo la generosità una grazia di Dio, e chiediamola con semplicità di cuore, ma anche con insistenza. Dio non la negherà a chi gliela chiederà veramente. Sono molti coloro che hanno necessità, e che trarranno beneficio dalla nostra generosità.

 

 

 

Domenica XXXIII del TEMPO ORDINARIO 19 novembre dell’anno 2000

Prima: Dan 12, 1-3; seconda: Eb 10, 11-14.18 Vangelo: Mc 13, 24-32

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Al termine del ciclo liturgico B la liturgia della Chiesa non può offrirci un tema migliore di quello della speranza. Daniele, guardando speranzoso verso il futuro, profetizzerà: "Allora si salverà il tuo popolo, tutti gli iscritti nel libro". Nel discorso escatologico Gesù vede il compimento delle profezie dell’Antico Testamento: "Il Figlio dell’uomo... riunirà dai quattro venti gli eletti, dall’estremo della terra fino all’estremo del cielo" (vangelo). L’autore della lettera agli Ebrei contempla Cristo seduto alla destra di Dio, aspettando fino a che i suoi nemici siano posti come sgabello sotto i suoi piedi

MESSAGGIO DOTTRINALE

Non un resoconto, ma un mistero. Né i profeti né gli evangelisti furono reporters del loro tempo, molto meno della fine dei tempi, che, mentre ignorano, non cessano tuttavia di annunciare. Mediante un linguaggio misterioso, marcatamente simbolico, tentano di mettere noi lettori o uditori nel mistero della fine del tempo e della storia. È necessario pertanto stare attenti, per non confondere linguaggio e messaggio. Il linguaggio non può non essere antropomorfico: la fine del mondo vista come una conflagrazione universale terrificante, una specie di terremoto cosmico che trascina con sé l’universo intero e lo distrugge al completo, un cataclisma imponente, il cui fuoco incandescente divora, bruciandola, tutta la materia. Nascosto dietro questa rappresentazione scenica di impressionante vivezza, c’è un messaggio divino: "Il mondo non è eterno. La storia avrà un termine". Il rivestimento letterario, proprio della apocalittica giudaica, molto appropriato per i tempi di persecuzione che correvano (nel caso di Daniele la persecuzione di Antioco IV Epifane, ai tempi di Marco probabilmente quella di Nerone), non deve distrarci, molto meno angosciarci, e meno ancora nasconderci e farci perdere il messaggio di rivelazione di Dio. Il messaggio è rivelazione di Dio, e, pertanto, certo, irrevocabile, vero, valido, "il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno". In quanto mistero, tuttavia, non è alla portata della nostra umana conoscenza, né è manipolabile a soddisfazione della nostra curiosità o del nostro orgoglio. Come mistero, è irruzione imprevedibile, apparizione repentina e impossibile da cogliere, svelamento inaspettato e abbagliante. Come mistero, si spera in Dio, il Signore del mistero, in atteggiamento vigilante e fiducioso.

Il termine della vita e il termine del tempo. Per l’evangelista Marco, la distruzione di Gerusalemme e del tempio serve da simbolo dei tempi finali del mondo e della storia. Allo stesso modo, l’immagine del fico da quando fiorisce in primavera fino a che maturano i fichi, serve per mettere in risalto il tempo intermedio tra la storia concreta della sua epoca e la fine della storia. C’è dunque una relazione tra il tempo e l’eternità, tra il termine di una epoca e il termine della storia, tra la fine della vita e la fine del tempo. Tra entrambi i termini ci sono certe somiglianze: in primo luogo, la certezza del termine, evidente rispetto alla fine della vita, oggetto di fede rispetto al tempo; poi, il suo carattere imprevedibile, totalmente quanto alla fine del tempo, parzialmente quanto al termine della vita; inoltre, il suo valore decisivo: in un caso si decide sulla sorte dell’individuo, nell’altro sulla sorte dell’umanità intera. Infine, entrambe rivelano la condizione dell’uomo e del suo mondo, una condizione limitata, imperfetta, precaria, che rimanda necessariamente a un'altra realtà superiore, dove tale condizione riceve perfezione e completamento. In questa maniera la fine della vita equivale in certo modo alla fine del tempo per ogni essere umano; e la fine del tempo, in qualche maniera, è prefigurata nella fine della vita. Con la morte, possiamo dire, giunge ad ogni uomo la fine del suo tempo in attesa della fine di tutti i tempi. Entrambi i momenti finali si vivono alla luce risplendente della speranza cristiana.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Speranza e speranze. È un luogo comune dire che l’uomo vive di speranza. Ed è vero. Il bambino spera di diventare grande o di avere una motocicletta. Lo studente spera di superare gli esami. Gli sposi novelli sperano di avere un figlio. Il disoccupato spera di trovare un lavoro. Il carcerato spera di lasciare quanto prima il carcere. Il commerciante che ha appena aperto un negozio, spera che gli vada bene... Speranze, speranze, speranze. Tutte buone, legittime, perfino necessarie. Ma, alla fine, speranze piccole, speranze di poco valore. Speranze unite a un bene che non abbiamo e che desideriamo possedere. Speranze che ci rimandano alla Speranza, con la maiuscola, singolare, che ci fa risalire dalle circostanze stesse della vita quotidiana e corrente fino a Dio Nostro Signore. Speranze che non sempre sono soddisfatte, che ci possono ingannare e deludere, che nella loro pochezza e labilità ci fanno pensare a quella Speranza che non inganna, che mantiene sempre sveglio il desiderio, e che gode di inamovibile fermezza e di assoluta garanzia. La Speranza con maiuscola non è frutto del nostro sforzo né dei nostri ardenti desideri, ma grazia e carisma dello Spirito, virtù teologale che ha per anelito lo stesso Dio e l’unione definitiva e perfetta con Lui. È questa la speranza che ci dà accesso alla pienezza e alla realizzazione del nostro essere personale a partire da Dio, in Dio e con Dio. È la Speranza che tutti dobbiamo avere, che a tutti auguro.

Un lieto fine per il cristiano. Gesù Cristo, parlando dell’ora finale, secondo il vangelo di Marco, nomina soltanto gli eletti; dei condannati, se ce ne fossero, cosa che ci è ignota, in Marco non ci viene detto nulla. L’ultimo giorno si chiuderà con una lieta fine. Lo sappiano e lo tengano presente tutti i profeti di sventura! La sorte finale di ogni uomo è avvolta nel mistero più assoluto (sappiamo soltanto che si trovano in cielo i santi canonizzati), ma un finale come quello del vangelo di oggi infonde un grande conforto e una straordinaria fiducia nel potere e nella misericordia di Dio. Perché dobbiamo sapere che non soltanto stiamo in attesa in questo mondo, ma che siamo attesi nell’altro, innanzitutto da Dio, ma poi dalla santissima Vergine Maria, dai santi, dai nostri familiari, da tutti i nostri cari. Tutti coloro che ci aspettano sono interessati che la nostra vita termini bene, che la storia dell’umanità e dell’universo culmini con una lieta fine solenne e generale. Per questo Cristo, il nostro sommo Sacerdote, morì su di una croce ed adesso, sul trono con suo Padre, ci aspetta per darci l’abbraccio della comunione definitiva e perfetta. Ce lo darà, se ci lasciamo santificare da lui, se permettiamo, cioè, che faccia fruttificare in noi i frutti della sua redenzione.

 

 

Solennità di Gesù Cristo RE DELL’UNIVERSO 26 novembre dell’anno 2000

Prima: Dan 7, 13-14; seconda: Ap 1, 5-8 Vangelo: Gv 18, 33b-37

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

In questo giorno non ci può essere altro tema dominante che la regalità di Gesù Cristo. Questa regalità è prefigurata nel testo del profeta Daniele: "Gli diedero potere, onore e regno... il suo regno non sarà distrutto" (prima lettura). Nel vangelo la regalità di Gesù viene affermata in termini categorici. A Pilato disse: "Allora tu sei re?". Gesù rispose: "Sì, tu lo dici, sono re". La seconda lettura, tratta dall’Apocalisse, conferma e canta la regalità di Gesù: "A lui la gloria e il potere nei secoli dei secoli. Amen". Allo stesso tempo, i cristiani sono resi partecipi della regalità di Cristo: "Ha fatto di noi un Regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre".

MESSAGGIO DOTTRINALE

Due concezioni del re. Pilato e Gesù rappresentano due concezioni contrapposte del re e della regalità. Pilato non può concepire altro re né altro regno che un uomo con potere assoluto come l’imperatore Tiberio, o, per lo meno, con un potere limitato a un territorio e ad alcuni sudditi, come il famoso Erode il Grande. Gesù, tuttavia, parla di un regno che non è di questo mondo, cioè, che non ha la sua provenienza nel mondo degli uomini, ma nel solo Dio. Pilato pensa a un regno che si fonda su un potere che si impone tramite la forza dell’esercito, mentre Gesù ha in mente un regno imposto non con la forza militare (in tal caso "la mia gente avrebbe combattuto perché non fossi consegnato ai giudei"), ma tramite la forza della verità e dell’amore. Pilato non può concepire in nessun modo un re che sia condannato a morte dai suoi stessi sudditi senza che opponga resistenza, e Gesù è convinto e sicuro che sul legno della croce egli instaurerà in modo definitivo e perfetto il suo misterioso regno. Per Pilato, dire che qualcuno regna dopo morto è un controsenso e un assurdo, per Gesù, invece, è perfettamente chiaro che è la più vera realtà, perché la morte non può distruggere il regno dello spirito. Due regni diversi, due concezioni differenti. Dopo duemila anni dallo storico incontro tra Gesù e Pilato, non è la concezione di Gesù Cristo l’unica che ha potuto superare il test della storia?

Caratteristiche del regno. Il regno di Gesù è un regno preannunciato, in cui si compie ciò che i profeti di secoli anteriori avevano promesso da parte di Dio . La sovranità di Gesù è quella del Figlio dell’uomo, a cui Dio dà ogni potere e ogni regno (prima lettura). In secondo luogo, è un regno che vince tutte le potenze del male, simboleggiate da Daniele nelle quattro bestie; Cristo, in effetti, le vincerà tutte sulla croce, che l’evangelista Giovanni vede come un trono, ponendo tali potenze demoniache come sgabello dei suoi piedi. In terzo luogo, il regno di Gesù Cristo gode di una grande singolarità: non è di questo mondo, ma è presente in questo mondo, anche se non si vede, perché appartiene al regno dello spirito. In quarto luogo, il re si definisce come testimone della verità, e i sudditi come coloro che sono della verità e ascoltano la sua voce. Sì, Cristo è re in quanto dà testimonianza della verità, cioè della Parola del Padre che egli incarna, e che lo Spirito interiorizza e rende efficace nei cuori degli uomini. Gli uomini sono sudditi di Cristo Re se sono della verità, cioè, se vivono, pensano, ed agiscono mossi dalla sintonia con la Parola di Gesù Cristo, e ad essa connaturati. In quinto luogo, Gesù non è re dello spazio, ma del tempo, di tutti i tempi. Egli è l’alfa e l’omega, il centro del tempo e il suo principio normativo, "Quello che è, che era e che viene". Infine, Cristo non soltanto è re, ma rende partecipi i cristiani della sua regalità: ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre. In questa maniera, i cristiani partecipano della sovranità di Cristo, con le caratteristiche appena descritte.

 

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Far sì che il Re lo sia veramente. Quando un re è dispotico, tiranno, sfruttatore dei suoi sudditi, allora è giusto e necessario ribellarsi contro di lui. Ma se un re è giusto, buono, dedito al benessere dei suoi sudditi, comprensivo, buon governante, è necessario che i sudditi gli lascino fare il re e lo lascino essere re veramente. L’assolutismo regio di secoli passati ha perturbato e sfigurato la figura nobile di un re autentico. Si deve fare tutto il possibile per recuperarla nella mentalità comune degli uomini, particolarmente dei cristiani, perché non possiamo rinunciare a chiamare Cristo, Signore e Re dell’universo. E sarebbe penoso che i cristiani, almeno alcuni, intendessero questa sovranità di Gesù con le caratteristiche negative di un sovrano assoluto e dispotico. Gesù Cristo vuole regnare "per questo è venuto a questo mondo"; si deve lasciare che Cristo sia re veramente. Sia re come egli vuole esserlo, non secondo concezioni politiche obsolete; che sia re di tutti gli uomini e di ogni uomo; dei suoi pensieri e sentimenti, della sua volontà ed affettività, del suo tempo e della sua esistenza; del suo lavoro e del suo riposo; di tutta la vita dell’uomo, per infondere in essa una presenza divina, una sovranità che eleva, una regalità spirituale. Qual è la tua concezione di Gesù Cristo re? Lasci che Gesù Cristo sia veramente re della tua vita? Che cosa fai, che cosa puoi fare perché Cristo regni nel cuore degli uomini e della storia? Che cosa prometterai a Gesù nella sua festa di Re dell’universo?

Un regno di sacerdoti. In Gesù Cristo si uniscono, sul legno della croce, il suo sacerdozio e la sua regalità. Noi cristiani, siamo popolo di re e siamo un regno di sacerdoti, in virtù della morte e resurrezione di Gesù Cristo. Siamo un regno di sacerdoti perché amiamo e seguiamo la dottrina della verità, perché tutti insieme nella liturgia cantiamo le lodi e le glorie del Signore, perché mossi dalla fede lasciamo che egli guidi i nostri passi verso il Padre. Ciascuno nella sua individualità, e tutti come comunità di fede e di adorazione. Siamo inoltre un popolo di re, perché il regno di Gesù Cristo non sottomette né schiavizza, ma rende uomini liberi, perfettamente liberi di fronte a se stessi e alle proprie passioni, di fronte al mondo con i suoi poteri e le sue insidie, di fronte a Dio che attrae con tenerezza e con amore. Sono convinto che la bellezza della vita cristiana sia nascosta per la maggioranza degli uomini, perché sono del tutto sicuro che, il giorno che la intravedessimo, ce ne innamoreremmo, e ci si aprirebbero gli occhi dell’intelligenza e dell’amore. Da tutti e da ciascuno di noi dipende che la Chiesa sia un popolo di re e un regno di sacerdoti.