Prima Domenica di AVVENTO 3 dicembre dell’anno 2000

Prima: Ger 33, 14-16; seconda: 1Tes 3,12- 4,2 Vangelo: Lc 21, 25-28.34-36

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

La venuta del Signore è presente nei testi della liturgia attuale; mediante questa espressione la liturgia vuole mostrarci il senso cristiano del tempo e della storia. Verranno giorni, ci viene detto nella prima lettura, in cui farò germogliare per Davide un Germoglio di giustizia. Gesù, nel discorso escatologico di san Luca, dice che gli uomini vedranno venire il Figlio dell’uomo in una nube, con grande potere e gloria. Nella prima lettera ai Tessalonicesi, san Paolo li esorta ad essere preparati per la Venuta di nostro Signore Gesù Cristo, con tutti i suoi santi.

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Memoria e profezia. In queste due parole si sintetizza tutta la concezione cristiana del tempo. Quando parla del tempo, il cristiano pensa al tempo presente con le sue vicissitudini e circostanze. È il presente del tempo di Geremia (anno 587 a.C.), in cui Gerusalemme giaceva sotto l’assedio di Nabucodonosor; è il presente della comunità cristiana di Tessalonica o dei destinatari del vangelo secondo san Luca. Da questo presente si lancia lo sguardo all’indietro e si fa memoria: la promessa di Dio a Davide circa un regno ereditario, che adesso si trova in pericolo; la venuta storica di Gesù Cristo, che con la sua passione, morte e resurrezione ha inaugurato la fine del tempo, della quale i cristiani già in una certa maniera partecipano. Ma i cristiani non sono uomini del passato. Dalla loro vita presente lanciano anche uno sguardo verso il futuro, questo futuro racchiuso nel reliquiario della profezia, nel libro sigillato con sette sigilli, e che soltanto l’Agnello ritto in piedi (resurrezione) e "come immolato" (passione e morte) può aprire e leggere (cf Ap c.5). La profezia ha a che vedere con la seconda venuta di Gesù Cristo, con la sua parusia trionfante, circondato da tutti i santi, venuta per proclamare definitivamente la giustizia e la salvezza; una profezia che scuoterà le fondamenta dell’orbe e farà sorgere un mondo nuovo. Il cristiano vive dentro la memoria e la profezia, tra la prima venuta di Cristo e la sua futura venuta al termine della storia. Natività e Giudizio finale di salvezza sono le due colonne sulle quali gli uomini costruiscono il ponte della decisione e della responsabilità. Con codesto ponte, la seconda venuta non è che il prolungamento e il coronamento della prima, dell’Incarnazione e del Mistero Pasquale.

Fisionomia di colui che viene. Chi è colui che viene? Innanzitutto, è un Rampollo, un Germoglio di giustizia. Cioè, un discendente del tronco di Davide, che praticherà il diritto e la giustizia (virtù proprie di un buon re). In una lettura cristiana, tale Germoglio è Gesù Cristo, che è venuto al mondo per trarre la giustizia di Dio, cioè, la salvezza per mezzo dell’amore (prima lettura). Colui che viene è il Figlio dell’uomo in una nube con grande potere e gloria. È una persona, pertanto, che abita nel mondo di Dio e che partecipa del suo potere e della sua gloria. Colui che viene a Natale e colui che verrà nel giudizio finale è il Verbo incarnato nel seno di Maria (vangelo). Colui che viene è Nostro Signore Gesù Cristo, cioè Cristo glorioso, vincitore della morte e del peccato, che vive nell’eternità ma che si fa presente nel tempo storico (seconda lettura).

Atteggiamento del cristiano. Il vangelo ci indica due atteggiamenti: vegliare e pregare. La vigilanza è molto opportuna, affinché, quando giungerà a noi il Verbo nella carne di un bambino, sappiamo accettare e vivere il mistero. La preghiera è ancora più opportuna e necessaria, perché soltanto mediante la preghiera si apre alla mente e al cuore umano il mistero delle azioni di Dio. Da parte sua, san Paolo segnala ai tessalonicesi altri due atteggiamenti: crescere e abbondare nell’amore gli uni verso gli altri, e nell’amore nei confronti di tutti; comportarsi in modo che si sia graditi a Dio. Quale migliore maniera di prepararsi alla venuta dell’Amore, se non mediante la crescita nell’amore? Gesù Cristo, nella sua vita terrena, non cercò altro se non di fare ciò che era gradito a suo Padre, per questo, una maniera stupenda di prepararsi per il Natale è cercando di esser graditi a Dio in tutto.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Il significato del tempo. Per noi, cristiani, non c’è significato del tempo se non in Gesù Cristo. Egli è il centro della storia e dei cuori. La storia ha in lui il suo punto di partenza (Cristo è l’alfa) e il suo punto di arrivo (Cristo è l’omega). Il tempo e la storia culminano in lui, raggiungono in lui la loro pienezza assoluta e il loro senso supremo. Senza Gesù Cristo, il tempo e la storia sono soltanto un puro accidente. Con Cristo, sono un disegno di Dio, una storia di salvezza, un’incudine sulla quale forgiare la nostra decisione nella libertà e responsabilità. Per noi, il tempo non è una semplice successione di secondi, minuti ed ore; una catena di giorni, mesi ed anni; una successione e una catena senza meta precisa, alla deriva, sotto la spinta di forze impersonali dominatrici che portano al caos. Per noi, il tempo, con i suoi secoli e millenni, è una storia, diretta e governata al timone da Dio; per noi, il tempo ha un principio di unità e di armonia, di coerenza e di coesione, non negli imperi o nelle ideologie, tanto caduchi come gli stessi uomini, ma in Gesù Cristo, che è di ieri, di oggi e di sempre. La nostra vita quotidiana, con i suoi luoghi comuni, la sua monotonia, le sue stesse volgarità, fa parte di un progetto divino, è una tessera entro il grande mosaico della storia della salvezza pianificata da Dio. Nel senso del tempo è incluso inseparabilmente il senso del mio tempo. Non dà forse, questa realtà della nostra fede, un grande valore alla vita di ogni cristiano, alla tua vita?

Crescere ed abbondare nell’amore. San Giovanni della Croce concludeva così una delle sue poesie: "solo nell’amore è il mio destino". La prima venuta di Cristo, nel Natale, è una venuta di amore e, allo stesso modo,è venuta di amore pure il suo ritorno alla fine dei secoli, la sua parusia. Tra l’amore di Cristo che viene e che verrà si intercala la vita umana che, come in una sinfonia, svilupperà il tema dell’amore con cui comincia e si conclude il pezzo musicale. Crescere mette in risalto l’aspetto dinamico dell’amore: crescere nell’amore di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; nell’amore a Maria e ai santi. Crescere nell’amore alla propria famiglia, ai parenti, agli amici, agli sconosciuti, ai bisognosi, ai malati, ai peccatori... Come? Rifletti su ciò che ti viene in mente: senza dubbio saranno molte cose. Abbondare mette in risalto la generosità nell’amore, questo tratto tipico dell’esistenza cristiana. Sei generoso nell’amore, o lo vai misurando con il metro del tuo egoismo? Beati i generosi nell’amore, perché essi prenderanno parte al suo corteo, al momento della parusia di Gesù Cristo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Solennità dell’Immacolata Concezione di MARIA 8 dicembre dell’anno 2000

Prima: Gen 3, 9-15; seconda: Ef 1, 3-6.11-12 Vangelo: Lc 1, 26-38

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Il mistero di Maria santissima consiste nell’armonizzare, nel suo essere e nella sua personalità di donna, piccolezza e grandezza. Ella è la serva del Signore, che vuole far unicamente la sua volontà, ed è l’eletta per essere Madre di Dio (vangelo); ella è la figlia di Eva, della sua carne e del suo sangue, ma è altresì la redentrice di Eva, che schiaccerà la testa del serpente tentatore (prima lettura). Ella è figlia di Dio, come qualsiasi creatura umana, e soprattutto come ciascuno dei cristiani, ed è allo stesso modo madre di Dio, per il fatto di essere madre di Gesù Cristo, Verbo Incarnato (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Piccolezza e grandezza di Maria. Maria non è un fenomeno della natura. Nella sua natura femminile, è una figlia di Eva come tutte le donne del mondo. Ha corpo di donna, psicologia di donna, sentimenti di donna, modi di essere e di agire propri della condizione femminile. Nella Galilea del secolo I d.C., nulla la distingue dalle altre donne giudee: i suoi tratti fisici, condizioni socio-economiche, prescrizioni legali discriminatorie, modi e stile di vita corrispondono tutti a quelli propri di una donna giudea. In tale personalità concreta di donna giudea si racchiude un mistero di grandezza, reale e invisibile allo stesso tempo. La concezione immacolata di Maria o la sua maternità divina saranno proclamate come dogma di fede alcuni o molti secoli dopo; ma l’esperienza reale delle stesse, Maria la visse nella sua esistenza terrena, interamente giudea. La visse come una realtà totalmente interiore ed ineffabile, entro una relazione unica di intimità, di comunione e di adesione a Dio. Il battesimo cristiano vince, in chi lo riceve, il serpente tentatore e la sua azione maligna nel presente e nel passato della storia umana. A Maria venne anticipato questo battesimo, grazie ai meriti di suo Figlio: al momento di essere concepita, ricevette il battesimo dello Spirito Santo.

Maria non si aspettava di essere madre del Messia. Nell’ambiente religioso del suo tempo, ella condivideva, con tutti i giudei, la credenza e l’attesa prossima del Messia che avrebbe liberato Israele dai suoi nemici. Come donna umile, povera, contadina, considerava addirittura una follia che Dio ponesse gli occhi su di lei per essere la madre del Messia. Inoltre, che il Messia provenisse da Nazaret era ritenuto da tutti impossibile. Nulla c’era nei suoi genitori, nel suo ambiente, nello scorrere della sua esistenza che servisse da indizio per una vocazione così grande e nobile. Tutto ciò è vero, ma un giorno, all’improvviso, un’esperienza e visione angelica la turbò nel profondo dell’anima. Prima, non comprese quel saluto tanto strano: "Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con te"; poi, comprese molto meno che "avrebbe dato alla luce un figlio, che sarà chiamato Figlio dell’Altissimo" (vangelo). La semplice donna nazarena impiegò molto tempo a tornare in sé. Poi, passata la visione, passò giorni e notti pensando e ripensando a quanto aveva visto ed ascoltato per farlo incastonare nella sua psicologia e nella sua vita, scrutando i misteriosi disegni di Dio. Infine, nell’incontro con sua cugina Elisabetta mostrerà a parole il risultato della sua meditazione: "Ha posto gli occhi sull’umiltà della sua serva, per questo da ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata".

Maria è sorella e madre nostra. In quanto sorella, uguale a tutti i cristiani: figlia adottiva di Dio per mezzo di Gesù Cristo, eletta per essere erede del Regno di Dio, ordinata ad essere lode della gloria di Dio, come tutti coloro che hanno posto la loro speranza in Cristo (seconda lettura). La sua grandezza ha radici nel fatto che ella fuse nella sua vita simultaneamente l’essere sorella nostra con l’essere nostra madre. Ci dice la Costituzione dogmatica sulla Chiesa: "Maria cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, coll’obbedienza, la fede, la speranza ed l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo, ella è diventata nostra madre nell’ordine della grazia" (LG 61). E poco prima leggiamo: "La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce l’unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia. In effetti, ogni salutare influsso della beata Vergine verso gli uomini... sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo, si fonda sulla mediazione di questi, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia" (LG 60).

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Rispettare l’umiltà e la grandezza di Maria. Rispettare vuol dire mantenere i due aspetti, perché sono le due ali con le quali Maria volò attraverso la storia del suo tempo e deve continuare a volare attraverso la nostra storia. E ben sappiamo che è impossibile volare con un’ala sola. Nel secoli passati, si accentuarono tanto le grandezze di Maria, che si giunse in certe occasioni a dimenticare la sua umiltà. Al nostro tempo, possiamo correre l’altro rischio: vederla così vicina a noi, piccola come noi, da dimenticarne la straordinaria grandezza. Si deve mantenere piccolezza e grandezza, perché così fu la realtà storica di Maria, e così ella continua a far presente il mistero di Dio tra di noi. Santa Teresina di Lisieux sottolineò la piccolezza di Maria. Il giorno della sua professione religiosa (8 settembre 1890) scriveva: "Nascita di Maria! Che bella festa per diventare sposa di Gesù! In effetti, era lei, la piccola, effimera Vergine santa, quella che presentò il suo piccolo fiore al piccolo Gesù". Ma Teresina non cessò mai di cantare le glorie e le grandezze di Maria. Per esempio, nella sua ultima poesia intitolata. Perché ti amo, oh Maria!, ella dice che la gloria di Maria è più brillante di quella di tutti gli eletti insieme, la chiama regina degli angeli e dei santi, e parla dello splendore della sua gloria suprema. La stessa Vergine Maria sarà molto contenta se noi contempliamo la sua piccolezza senza dimenticare la sua grandezza, e ci lasciamo cogliere dallo stupore davanti alla sua grandezza in mezzo alla sua umiltà e piccolezza.

Maria: ammirabile e imitabile. Le due cose; e le due cose inseparabili. È ammirabile, perché Dio ha compiuto in lei opere grandi. Allo stesso modo, è imitabile, perché non ha mai cessato di essere piccola come noi, pur in mezzo alla sua eccellenza e alla sua gloria. Come cristiani, dobbiamo ammirare Maria, la donna più eccelsa uscita dalle mani del Creatore, albero in cui fruttificano la scienza di Dio e la vita divina. Ma Maria è anche come una madre e una sorella, che sta vicino a noi, ci accompagna nel nostro cammino, e le cui virtù tanto umane sono accessibili a tutti. Con parole affettuose di madre ci dice che anche la nostra vita è un giardino. Se seminiamo virtù, come Maria, le virtù anche fioriranno.

 

 

 

Seconda Domenica di AVVENTO 10 dicembre dell’anno 2000

Prima: Baruc 5, 1-9; seconda: Fil 1, 4-6.8-11 Vangelo: Lc 3, 1-6

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Nella Natività la Parola di Dio si farà carne, ma già nella liturgia dell’Avvento la Chiesa vuole che meditiamo sulla Parola e la interiorizziamo a poco a poco nella nostra anima. San Luca ci dice che la Parola di Dio fu rivolta a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto (vangelo). Il profeta Baruc contempla i figli di Gerusalemme che vivevano nell’esilio "convocati da oriente a occidente dalla parola del Santo e godendo del ricordo di Dio" (prima lettura). San Paolo mostra la sua gioia ai filippesi per la collaborazione che hanno prestato al Vangelo, cioè alla Parola di Dio trasformata in Buona Novella per gli uomini, a partire dal primo giorno fino ad oggi (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Le tappe della Parola. "In principio era il Verbo". Questa Parola divina, prima di incarnarsi in Gesù di Nazaret, ha compiuto un lungo percorso attraverso la storia umana. La liturgia ci presenta alcune di tali tappe millenarie: a) la Parola che parla del futuro, un futuro trasformato dal potere di Dio, per dare coraggio e consolazione agli uomini. È la Parola, per esempio, del profeta Baruc. In linguaggio poetico il profeta immagina Gerusalemme vestita a lutto, come una madre che ha perso gran parte dei suoi figli. Baruc intona un canto alla città di Gerusalemme rinnovata, trasformata dalla mano potente di Dio: "Rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio"; b) la Parola che parla al presente in cui il passato giunge al suo compimento. In Giovanni il Battista si compie l’oracolo di Isaia: "Voce di colui che grida nel deserto: preparate le vie del Signore, raddrizzate i suoi sentieri". Giunge al presente della vita dei giudei (Pilato procuratore di Giudea, ed Erode tetrarca di Galilea, regioni abitate in gran parte dai giudei) e della vita dei pagani (Filippo tetrarca di Iturea e di Traconide, Lisania tetrarca di Abilene, regioni pagane). La Parola rivolta al futuro è soprattutto Parola di incoraggiamento e di consolazione; la Parola incamminata verso il presente è piuttosto Parola di esortazione e di impegno, di conversione per il perdono dei peccati; c) la Parola che ogni giorno si vive e con la quale si collabora con amore e con gioia. La Parola di Dio si fa vita nella quotidianità dei cristiani e nelle loro occupazioni giornaliere. E tutti sono chiamati a collaborare con il Vangelo, con la Parola della Buona Novella, perché giunga a tutti gli angoli dell’impero romano e fino ai confini del mondo.

Le qualità della Parola. A) La Parola di Dio è universale nel suo destino, perché, essendo Parola di salvezza, è rivolta a tutti gli uomini di tutti i tempi: ai giudei e ai pagani dei tempi di Giovanni il Battista e di Gesù Cristo, agli americani, asiatici, africani, europei ed australiani dei nostri giorni (vangelo).

B) La Parola di Dio è unificatrice: unisce tutti i dispersi di Israele affinché si mettano in cammino da oriente a occidente, allo scopo di formare il popolo di Dio che gli rende culto a Gerusalemme (prima lettura). Ha forza per unificare tutti i cristiani dei nostri giorni e tutti gli uomini.

C) La Parola di Dio è personalizzata e allo stesso tempo comunitaria: fa appello a un uomo, ma perché la faccia arrivare a tutto il popolo (vangelo). Oggi come ieri continuano ad esserci uomini carismatici a cui Dio rivolge la sua Parola, ma in funzione della comunità ecclesiale e della stessa comunità umana.

D) La Parola di Dio è come un seme che va crescendo, fino a riuscire a trasformarsi in spiga: "Chi iniziò in voi l’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù" (seconda lettura).

E) La Parola di Dio non è fatta per metterla "sotto il moggio" (Mt 5,14), ma per proclamarla pubblicamente come fece Giovanni: "E andò per tutta la regione del Giordano proclamando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati" (vangelo), e come poi farà Gesù, che percorrerà tutte le città e i villaggi proclamando il Vangelo di Dio.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

La Parola di Dio oggi. La lettera agli Ebrei ci dice che la Parola di Dio è viva ed efficace, tagliente come spada dal filo doppio (4,12). Il testo sacro non dice fu o sarà, ma è. Dio continua a parlare agli uomini nell’oggi della storia. È la stessa Parola che parlò per mezzo dei profeti, che risuonò sulle labbra di Giovanni il Battista, che si incarnò in Gesù Cristo, che venne proclamata dagli apostoli. Dio desidera continuare il suo dialogo con l’uomo. Se nel nostro tempo non si percepisce la Parola di Dio, non è che Dio abbia cessato di parlarci, è che abbiamo messo a tacere coscientemente o inconsciamente la sua voce. Dio ci parla per mezzo della Scrittura sacra, letta ed interiorizzata nella preghiera; ci parla nelle azioni liturgiche della Chiesa, soprattutto nella celebrazione eucaristica, la cui prima parte è dedicata alla liturgia della Parola. Dio ci parla per mezzo dei pastori, dei vescovi nelle loro diocesi, del Papa in tutta la Chiesa come pastore universale. Dio ci parla per mezzo dei profeti, codesti uomini di Dio che interpretano gli avvenimenti della vita e della storia a partire da Dio e mossi da Dio stesso. Dio ci parla per mezzo dei martiri e dei santi, che con il loro sangue e la loro vita gridano all’umanità il mistero insondabile di Dio, del tempo e dell’eternità, del vivere storico dell’uomo. Dio parla per mezzo della coscienza, perché nella fedeltà ad essa siamo salvati e collaboriamo con Cristo all’opera della salvezza. Dio prosegue parlando a noi uomini in molti modi. Ascoltiamo la sua voce? Facciamolo, prima che sia tardi...

Parola di salvezza. La Parola di Dio viene alla storia, si incarna in Gesù di Nazaret per parlarci di salvezza. Nel vangelo la citazione di Isaia ha subìto un cambiamento significativo. Invece di: "Tutti vedranno la gloria di Dio", san Luca dice: "Tutti vedranno la salvezza di Dio". Nel Natale, noi cristiani, e tutti gli uomini di buona volontà, vediamo questa salvezza di Dio. A Natale risuona una Parola di salvezza. Diciamo meglio: è l’unica Parola che risuona in questa notte santa. Siamo molto abituati dalla storia a dividere gli uomini in buoni e cattivi, in conservatori e progressisti, in quelli di sinistra o di destra, in partiti e ideologie. La Parola di Dio sembra passare al di sopra di tutte queste divisioni. La Parola di Dio non divide, unisce tutti nell’anelito e nel gioioso possesso della salvezza, che Dio ci manda incarnata in un Bambino. Dio vuole che la sua Parola di salvezza sia efficace nei nostri giorni e nelle nostre vite. Dio ci spinge affinché lasciamo operare efficacemente la sua Parola di salvezza. Quali ostacoli incontro nella mia vita e nel mio ambiente? Che cosa faccio, o che cosa posso fare perché la Parola di Dio sia viva ed efficace in me e nei miei fratelli?

 

 

TERZA DOMENICA DI AVVENTO 17 DICEMBRE DELL’ANNO 2000

Prima: Sof 3, 14-18a; seconda: Fil 4, 4-7 Vangelo: Lc 3, 10-18

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

I testi liturgici di questa terza domenica di avvento sono un inno alla gioia. Gioia per gli abitanti di Gerusalemme, che vedranno allontanarsi il dominio assiro e l’idolatria, e potranno rendere culto a Javeh con libertà (prima lettura). Gioia dei cristiani, una gioia costante e traboccante, perché la pace di Dio "custodirà le loro menti e i loro cuori in Cristo Gesù" (seconda lettura). Gioia dello stesso Dio, che esulta di giubilo nel trovarsi in mezzo al suo popolo per proteggerlo e salvarlo (prima lettura). Gioia che Giovanni il Battista comunica al popolo, mediante la predicazione della Buona Novella del Messia salvatore, che con la sua venuta instaurerà la giustizia e la pace tra gi uomini (vangelo).

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

Perché rallegrarsi? Sono varie le cause che si trovano nei testi liturgici.

A) Innanzitutto, perché Dio ha annullato la sua sentenza. Sofonìa immagina Javeh come un giudice di tribunale che, dopo aver emesso sentenza di condanna, la annulla. Come non rallegrarsi? Storicamente, si riferisce alla pesante oppressione che l’impero assiro esercitava sul regno di Giuda al tempo di re Giosia, e dalla quale Javeh lo ha liberato (prima lettura).

B) Rallegrarsi, perché Javeh è in mezzo a te. Questa presenza divina di potere e di salvezza libera da ogni paura, e rinnova il regno di Giuda con il suo amore. È una presenza protettrice e sicura (prima lettura).

C) Rallegrarsi, perché il cristiano possiede la pace di Dio che supera ogni intelligenza (seconda lettura). Codesta fede in Dio, che è frutto della fede e del battesimo, e che si esperimenta in modo efficace nella celebrazione liturgica, quando "presentiamo a Dio le nostre richieste, mediante la preghiera e la supplica, accompagnate dall’azione di grazie" (seconda lettura).

D) Infine, rallegrarsi perché Giovanni il Battista, il precursore, proclama la Buona Novella di Cristo (vangelo), e, con lui e come lui, tutti i precursori di Cristo nella società e nel mondo. Per tutto ciò, possiamo dire che il cristianesimo è la religione della gioia. Ma, la gioia nel Signore, come ci ricorda san Paolo.

La gioia del precursore. La gioia di Giovanni il Battista è espressa mediante tre immagini. L’immagine del padrone e del servo, con cui si indica la superiorità di Gesù su Giovanni. Gesù è come il padrone che, quando giunge dalla campagna o dalla città, ha a sua disposizione un servo (Giovanni il Battista), che gli slega la cinghia e i calzari. Giovanni è allegro perché il Messia, suo padrone, sta per arrivare. Usa anche l’immagine dell’agricoltore che, giungendo l’estate, sega le spighe, le trebbia, separa mediante il forcone il grano dalla paglia, conserva il grano e brucia la paglia. La gioia di Giovanni è la gioia di chi raccoglie il frutto del suo lavoro, il frutto di tanti altri profeti che prepararono insieme a lui la venuta del Messia. Da ultimo, Giovanni si rallegra perché, mentre egli battezza in acqua, colui che sta per venire, cioè il Messia, battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Ossia, in Spirito che è fuoco purificatore dal peccato, fuoco propulsore e diffusore di grandi imprese. Nel battesimo, il cristiano riceve lo Spirito, uno dei cui primi frutti è la gioia.

Il vangelo della gioia. Riflettendo sulla pericope evangelica, il vangelo della gioia si rivolge ad ogni tipo di persone: alla gente in generale, ai pubblicani, agli stessi soldati. Questo vangelo consiste soprattutto nella donazione e nell’amore al prossimo, che ogni categoria deve vivere secondo le proprie circostanze. Così la gente è invitata a condividere con i più bisognosi il vestiario e il cibo. I pubblicani vivranno l’amore fraterno riscuotendo le tasse con esattezza e giustizia, senza addizioni egoiste per il proprio lucro personale. Rispetto ai soldati, da una parte, siano contenti del salario che ricevono, supponendo che sia giusto; dall’altra, non facciano estorsioni a nessuno, e nessuno denuncino falsamente. Riassumendo, il vangelo della gioia si impianta e produce frutti magnifici laddove si vive il comandamento dell’amore, ciascuno secondo la sua professione e la sua condizione di vita.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Rallegrarsi già del futuro. Sofonìa annuncia la liberazione di Gerusalemme e di Giuda, ma essa ancora non è giunta. Ciononostante, già lo stesso annuncio deve essere causa di gioia. Giovanni il Battista gioisce già in anticipo della venuta del Messia, anche se quest’ultimo ancora non si è fatto presente. Noi cristiani viviamo con gioia questo periodo di avvento, pur sapendo che non è ancora giunto il Natale. Noi cristiani siamo stabiliti nel presente, ma con lo sguardo posto nel futuro, che deve essere sempre fonte di gioia. C’è un vecchio proverbio che dice: "Ogni tempo passato fu migliore". Certamente non è vero. Ma non è neppure cristiano. Il cristiano, uomo della speranza, dirà piuttosto: "Ogni tempo futuro sarà migliore", e questo gli infonde una grande gioia. Meglio, non precisamente per merito degli uomini, ma per azione misteriosa ed efficace dello Spirito Santo nella storia e nelle anime. Meglio, perché il progresso scientifico, e soprattutto morale dell’umanità, senza dimenticare l’ambivalenza e le deficienze del progresso stesso, contribuisce in qualche modo al regno di Dio nel tempo e nella vita degli uomini. E, come non rallegrarci del futuro, se siamo convinti che il futuro è nelle mani di Dio, perché Egli è il Signore della storia, e colui che ha in suo potere le chiavi del futuro? Perfino in mezzo alla prova e alla tribolazione, il futuro sorride al cristiano maturo nella fede.

Gioia e pace. Amore, gioia e pace sono doni dello Spirito Santo. In quanto doni dello Spirito Santo, sarebbe un errore identificare l’amore con il sentimento amoroso o con le avventure sentimentali, la gioia con il chiasso, e la pace con l’assenza di guerra, di distruzione e di morte. La pace di Dio è qualcosa che, ci dice san Paolo, supera ogni intelligenza. E lo stesso vale per la gioia. Essendo doni dello Spirito santo, unicamente chi li ha ricevuti tramite la fede, è in condizioni di sperimentarli, conoscerli, possederli, goderne e trasmetterli. C’è una certa reciprocità tra entrambi i doni dello Spirito. La pace che abita nell’anima del credente ispira una gioia interiore attraente, che si materializza nello stile della persona, che si contagia perfino con la sola presenza. Da parte sua, la gioia della quale lo Spirito dota il credente, trasmette pace ed ordine nella vita, serenità ed armonia, e soprattutto una specie di atarassia, di imperturbabilità spirituale, che provoca in tutti ammirazione. Perché non chiedere allo Spirito Santo che ci conceda più abbondantemente questi doni della pace e della gioia per prepararci al Natale? Rallegriamoci nel Signore. Viviamo la Pace di Dio. Il Natale è ormai alle porte.

 

 

Quarta Domenica di AVVENTO 24 dicembre dell’anno 2000

Prima. Mic 5, 1-4; seconda: Eb 10, 5-10 Vangelo. Lc 1, 39-48

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Quali sono le giuste relazioni tra l’uomo e Dio? Una risposta a questo interrogativo ci viene dalla liturgia di oggi. I testi ci indicano principalmente le relazioni di Gesù e di Maria. Relazione di Gesù con suo Padre (seconda lettura), con Giovanni il Battista nel seno materno (vangelo), con la profezia (prima lettura), con il sacerdozio levitico (seconda lettura). Relazione di Maria con lo Spirito Santo, con Elisabetta, sua cugina (vangelo), e soprattutto con il Verbo (vangelo).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Relazioni di Gesù. Essere ed esistere come uomo è essere ed entrare in relazione. Le relazioni umane possono essere sommamente variate, ma alla fine si riducono a tre fondamentali: relazione con Dio, con l’uomo e con il mondo che lo circonda. Alla liturgia interessano le due prime relazioni. La relazione fondamentale di Gesù è con suo Padre. È una relazione filiale di obbedienza: "Io vengo per fare, o Dio , la tua volontà" (seconda lettura). È l’obbedienza di un figlio che cerca di essere gradito in tutto a suo padre. Questa obbedienza filiale giungerà fino all’estremo del sacrificio. Non si può separare, nel mistero cristiano, il Natale dalla passione, il Natale dalla Pasqua. Gesù mantiene la sua obbedienza al Padre mediante la sua relazione con la profezia, una relazione di compimento. Il profeta Michea apostrofa Betlemme, dicendole che non sarà la città più piccola di Giuda, perché in essa nascerà il dominatore di Israele. Gesù, nascendo a Betlemme, porta a compimento la profezia, in atteggiamento di obbedienza alla storia salvifica tracciata dal Padre. La relazione di Gesù con Maria è una relazione occulta, straordinaria: Gesù alimenta la fede di Maria e, nello stesso tempo, si nutre del sangue di Lei. Il vangelo ci parla, infine, di una relazione misteriosa di Gesù, nel seno di Maria, con Giovanni il Battista nel seno di Elisabetta. La presenza di Dio nella storia, mediante Maria santissima, riempie di gioia l’ultimo dei profeti di Israele e rappresentante ultimo e qualificato dell’Antico Testamento, Giovanni il Battista. È il gaudio messianico, che preannuncia l’ora della salvezza. L’obbedienza filiale di Gesù, che assume la condizione del tempo e della storia, fruttifica nella gioia redentrice che reca agli uomini.

Relazione di Maria. Ci sono due relazioni di Maria, che non compaiono nei testi liturgici, ma che sono implicite: la relazione con lo Spirito Santo e con il Verbo incarnato nel suo seno. Senza queste due relazioni non si spiega l’episodio della visita di Maria a sua cugina Elisabetta. La relazione intima e personale dello Spirito Santo con Maria ha reso possibile che il Verbo di Dio assuma carne e si vada formando uomo nel suo seno materno. La relazione di Maria con il Verbo di Dio è estremamente misteriosa e delicata: misteriosa, perché la fecondazione del suo seno è opera di Dio stesso; delicata, perché sta dando a Dio la sua carne e il suo sangue, ma soprattutto il suo amore, la sua dedizione, il totale dono di sé. La relazione di Maria con Elisabetta è di servizio. Viene ad aiutarla negli ultimi mesi di gravidanza. Viene spinta da legami naturali, ma soprattutto dallo Spirito di Dio e dal Verbo che avverte presente nel suo seno: un movimento naturale, e, allo stesso tempo, un movimento dello Spirito. Nel canto del Magnificat, Maria eleva la sua voce a Dio per lodarlo e ringraziarlo con gioia per il mistero che racchiude nel suo seno, nonostante la sua piccolezza e la sua umiltà. Come non lodare chi si è degnato di ricorrere a lei per portare a compimento il suo disegno di salvezza, e l’aspirazione più sublime e intensa degli uomini? Da ultimo, in Maria si porta a compimento anche la profezia di Michea: Ella è colei che "darà alla luce quando sarà il tempo" il Messia. La relazione di maternità, attraverso la quale si esprime tutta la femminilità di Maria in rapporto a Gesù.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Quali sono le giuste relazioni tra l’uomo e Dio? Una risposta a questo interrogativo ci viene dalla liturgia di oggi. I testi ci indicano principalmente le relazioni di Gesù e di Maria. Relazione di Gesù con suo Padre (seconda lettura), con Giovanni il Battista nel seno materno (vangelo), con la profezia (prima lettura), con il sacerdozio levitico (seconda lettura). Relazione di Maria con lo Spirito Santo, con Elisabetta, sua cugina (vangelo), e soprattutto con il Verbo (vangelo).

 

 

Relazioni di Gesù. Essere ed esistere come uomo è essere ed entrare in relazione. Le relazioni umane possono essere sommamente variate, ma alla fine si riducono a tre fondamentali: relazione con Dio, con l’uomo e con il mondo che lo circonda. Alla liturgia interessano le due prime relazioni. La relazione fondamentale di Gesù è con suo Padre. È una relazione filiale di obbedienza: "Io vengo per fare, o Dio , la tua volontà" (seconda lettura). È l’obbedienza di un figlio che cerca di essere gradito in tutto a suo padre. Questa obbedienza filiale giungerà fino all’estremo del sacrificio. Non si può separare, nel mistero cristiano, il Natale dalla passione, il Natale dalla Pasqua. Gesù mantiene la sua obbedienza al Padre mediante la sua relazione con la profezia, una relazione di compimento. Il profeta Michea apostrofa Betlemme, dicendole che non sarà la città più piccola di Giuda, perché in essa nascerà il dominatore di Israele. Gesù, nascendo a Betlemme, porta a compimento la profezia, in atteggiamento di obbedienza alla storia salvifica tracciata dal Padre. La relazione di Gesù con Maria è una relazione occulta, straordinaria: Gesù alimenta la fede di Maria e, nello stesso tempo, si nutre del sangue di Lei. Il vangelo ci parla, infine, di una relazione misteriosa di Gesù, nel seno di Maria, con Giovanni il Battista nel seno di Elisabetta. La presenza di Dio nella storia, mediante Maria santissima, riempie di gioia l’ultimo dei profeti di Israele e rappresentante ultimo e qualificato dell’Antico Testamento, Giovanni il Battista. È il gaudio messianico, che preannuncia l’ora della salvezza. L’obbedienza filiale di Gesù, che assume la condizione del tempo e della storia, fruttifica nella gioia redentrice che reca agli uomini.

Relazione di Maria. Ci sono due relazioni di Maria, che non compaiono nei testi liturgici, ma che sono implicite: la relazione con lo Spirito Santo e con il Verbo incarnato nel suo seno. Senza queste due relazioni non si spiega l’episodio della visita di Maria a sua cugina Elisabetta. La relazione intima e personale dello Spirito Santo con Maria ha reso possibile che il Verbo di Dio assuma carne e si vada formando uomo nel suo seno materno. La relazione di Maria con il Verbo di Dio è estremamente misteriosa e delicata: misteriosa, perché la fecondazione del suo seno è opera di Dio stesso; delicata, perché sta dando a Dio la sua carne e il suo sangue, ma soprattutto il suo amore, la sua dedizione, il totale dono di sé. La relazione di Maria con Elisabetta è di servizio. Viene ad aiutarla negli ultimi mesi di gravidanza. Viene spinta da legami naturali, ma soprattutto dallo Spirito di Dio e dal Verbo che avverte presente nel suo seno: un movimento naturale, e, allo stesso tempo, un movimento dello Spirito. Nel canto del Magnificat, Maria eleva la sua voce a Dio per lodarlo e ringraziarlo con gioia per il mistero che racchiude nel suo seno, nonostante la sua piccolezza e la sua umiltà. Come non lodare chi si è degnato di ricorrere a lei per portare a compimento il suo disegno di salvezza, e l’aspirazione più sublime e intensa degli uomini? Da ultimo, in Maria si porta a compimento anche la profezia di Michea: Ella è colei che "darà alla luce quando sarà il tempo" il Messia. La relazione di maternità, attraverso la quale si esprime tutta la femminilità di Maria in rapporto a Gesù.

 

 

Saper stabilire buoni rapporti. Nella conversazione umana è frequente ascoltare: "Si deve saper stabilire buoni rapporti". Con ciò si vuol dire che è bene avere molte relazioni, e soprattutto aver relazioni con gente influente. La ragione è evidente: così si ha la possibilità che si aprano molte porte nei diversi ambiti della vita umana: politico, finanziario, sociale, professionale, educativo, religioso... Io voglio invitare i miei fratelli nella fede e nel sacerdozio a saper stabilire buoni rapporti con persone di straordinaria influenza: con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; con Maria santissima, nostra madre e nostra regina; con i santi, nostri fratelli e protettori dal cielo. Queste relazioni non ti danno accesso, è chiaro, a un eccellente posto di lavoro, né a un affare coi fiocchi. Queste relazioni esercitano il proprio influsso nel tuo intimo, trasformandolo; nella tua visione delle cose e della vita, facendo sì che sia secondo Dio; nella tua relazione con gli uomini e con le cose, in modo che sia sempre ispirata dall’amore e dal servizio; nella tua relazione con la tua propria storia, trasformandola, forse, da una storia senza significato a un significato con storia. Quanti beni ci possono venire "e possiamo ottenere per gli altri", se sappiamo metterci in relazione con Dio, con la Vergine, con i santi! Nel campo della storia è importante saper stabilire buoni rapporti; non lo sarà allo stesso modo nel campo dello spirito? Beati coloro che sanno stabilire buoni rapporti, perché saranno come un albero frondoso che può dare frutti maturi: frutti di bene, di felicità, di salvezza.

Stabilire buoni rapporti per il Regno. Noi cristiani viviamo nel mondo, nel regno della storia, anche se apparteniamo al Regno di Dio. E nel regno della storia contano non poco le relazioni umane. Non abbiamo di che disprezzarle. E non dobbiamo neppure abusarne, mettendole al servizio dei nostri interessi egoisti. Dobbiamo servircene per l’edificazione del Regno di Dio. Dobbiamo stabilire buoni rapporti con coloro che hanno potere, perché ci aiutino in favore di coloro che, non soltanto non hanno potere, ma nemmeno alimento, casa, vestito, diritti. Dobbiamo stabilire buoni rapporti con i bisognosi, affinché prendano coscienza del fatto che il Regno di Dio appartiene a loro e li invita a porre tutti i mezzi per rendere più umana la loro esistenza, più degna, più libera, più felice. Si deve stabilire buoni rapporti con le forze vive e potenti di un popolo, di una città, di uno stato, di un paese, per convincerle, se ancora non lo sono, che sono figli del Regno di Dio nella misura in cui utilizzano le loro forze e il loro potere a beneficio dei più bisognosi. E una volta convinti, che mettano mano all’opera. Se tutti noi cristiani utilizzassimo le nostre relazioni per metterle al servizio del Regno, sicuramente il mondo camminerebbe per rotte più umane e più segnate dalla nostra fede in Gesù Cristo. Gesù Cristo entrò in contatto con la storia per instaurare il Regno di suo Padre. Dopo 2000 anni, che cosa facciamo noi cristiani?

 

 

Messa della NOTTE DI NATALE 24 dicembre dell’anno 2000

Prima: Is 9, 1-3.5-6; seconda: Tt 2, 11-14 Vangelo: Lc 2, 1-14

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"È nato per noi un Salvatore", è il messaggio centrale della liturgia di questa notte santa. Un Salvatore con dei tratti straordinari profetizzati da Isaia: Dio forte, sempre Padre, principe della pace... (prima lettura). Un Salvatore che viene per tutti, ma specialmente per i più piccoli ed umili, come erano, per esempio, i pastori (vangelo). Un Salvatore che ci insegna a rinunciare all’empietà e alle passioni mondane, ed a vivere con saggezza, giustizia e pietà nel tempo presente (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

I tratti del nostro Salvatore. A) Forse la prima cosa che attrae del nostro Salvatore è l’essere un bambino appena nato, e oltretutto in povertà. Non ha fatto ancora nulla: non ha predicato, né realizzato miracoli, non è stato crocifisso, né è risorto. Ci comincia a salvare per il fatto stesso di nascere. È evidente che non salva per quello che fa, o per la condizione sociale ed economica che detiene, ma per ciò che è: Dio fattosi bambino. Il mondo non si salverà per mezzo delle opere straordinarie e grandiose degli uomini, ma per la presenza e la trasparenza di Dio nella vita dei cristiani.

B) È un salvatore per tutti. Nella prima lettura, il salvatore è promesso alla Galilea dei gentili, dove, insieme a popoli di stretta osservanza giudaica, c’erano anche molte città interamente pagane, ed altre con mescolanza di razze e di religioni. Nel vangelo, i primi beneficiari dell’annuncio di un Salvatore sono i pastori, gente umile, e che godeva di pessima fama tra i giudei. San Paolo, nella lettera a Tito, ci dice che "si è manifestata la grazia salvatrice di Dio a tutti gli uomini", senza alcuna eccezione (seconda lettura). Nessuno, per nessun motivo, può cadere nella disperazione davanti al nostro salvatore.

C) Il salvatore è allo stesso tempo re, discendente di Davide, che possiede le migliori qualità per regnare sugli uomini: gode del dono del consiglio, ha il potere stesso di Dio, è per tutti come un padre, gli interessa oltremodo la pace, governa con equità e giustizia cercando il bene di tutti. Il nostro re e salvatore ha tutti i requisiti per portare al mondo la pace, la giustizia, il benessere, la felicità.

D) È un bambino, come tutti i bambini del mondo, ma allo stesso tempo assolutamente singolare. In effetti, il cielo stesso interviene per rallegrarsi e glorificare Dio per la presenza di questo bambino sulla terra.

Gli uomini davanti al Salvatore. A) Se il Bambino che celebriamo questa notte santa è il salvatore di tutti, non c’è altro atteggiamento che accettare con amore la sua salvezza. Per accoglierla con amore, è necessario il riconoscere sinceramente di averne bisogno, e altresì la coscienza che l’autosalvezza è impossibile; la salvezza ci viene data, non fa parte dei diritti umani, né è oggetto di conquista. Accogliere la salvezza richiede un atto di piena libertà e una singolare valutazione della persona che mi salva, per pura iniziativa sua e senza chiedermi nulla in anticipo. Se qualcuno non accoglie questo Bambino salvatore è, nel maggiore dei casi, per ignoranza: Non sa che cosa perde.

B) Chi lo accoglie, deve farlo con gioia; con la gioia di chi era avvolto in dense tenebre, e adesso gli giunge la luce; la gioia del contadino all’ora della mietitura e del raccolto; la gioia dei soldati che, secondo gli usi di quei tempi antichi, ottenuta una vittoria, si spartivano il bottino.

C) L’accoglienza del nostro Salvatore è forza di rinnovamento ed impegno per la vita. Il Bambino ci salva affinché facciamo presente nelle nostre vite, come lui, la prudenza, la fortezza, la giustizia, la pietà. Non c’è alcun dubbio che la salvezza di Dio non è una salvezza di occasione e a buon prezzo; equivale alla salvezza dell’uomo e alla salvezza del mondo. "Al di fuori di lui, non c’è salvezza".

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

na notte da non dimenticare mai più. Nella vita di ogni uomo c’è qualche episodio, qualche momento della sua esistenza che non dimenticherà mai. Codesti momenti o episodi li chiamiamo abitualmente forti, perché impressionano fortemente la nostra intelligenza, la nostra sensibilità e la nostra memoria. Se qualcuno ha avuto un incidente mortale, dal quale è uscito vivo per miracolo, lo potrà forse dimenticare? O, non so, l’arrivo del primo figlio tanto desiderato dagli sposi, o quella notte insonne in cui, dopo tanti mesi apparentemente infecondi, l’artista intuisce un quadro o un’opera letteraria, o la morte di un essere molto amato, o la prima operazione chirurgica, il primo progetto architettonico o la prima messa. Voglio dirti che questa notte di Natale, Natale giubilare per i duemila anni della nascita di Cristo, deve essere un’esperienza religiosa tanto forte nella tua vita, che tu non la possa dimenticare mai più. Ti invito a metterti nel mistero che celebriamo con tutta la tua persona e con tutta la tua capacità di esperimentare l’amore. Ti invito a chiedere a questo Bambino divino, con cuore umile e con intensità, che ti ottenga il miracolo di una fede, di un amore e di una speranza così vivi, così penetranti, così profondi, da rimanere per sempre incisi nella tua memoria. Ci saranno molti milioni di uomini, purtroppo, per cui questo Natale sarà un giorno qualunque o una nascita qualunque. Che per te non sia così. Mi viene da immaginare che Dio sta desiderando di incidere questa notte a lettere d’oro nella tua mente, nel tuo cuore, e nel resto della tua vita futura.

Se il Salvatore bussa alla tua porta... La società in cui viviamo, ci ha obbligato ad essere prevenuti nei confronti di chi bussa alla porta. Può essere una persona amica, ma può essere anche un criminale, uno sconosciuto con cattive intenzioni, una persona pericolosa... Di fronte a ciò, mettiamo in azione sbarre, chiavistelli, uno spioncino alla porta, ecc. ... Tutte le misure sembrano poche per proteggere l’integrità della nostra vita e la nostra privacy. Se questa notte un Bambino bussa alla tua porta, sarai capace di riconoscere che è il tuo Salvatore? E se il Salvatore bussa alla tua porta, sei ben disposto e desideroso di spalancargliela? La grande tragedia degli uomini sta nel fatto che il Salvatore bussa alla loro porta, e non gli viene aperto. Forse perché, essendo un bambino, si pensa che non possa salvarci. O forse perché la salvezza che ci offre è diversa da quella che sogniamo, anche se quest’ultima può essere sbagliata o estremamente limitata. Se Dio ti regala la salvezza, non può essere quella che tu vuoi, ma quella che egli ti dà. Se te la regala, accettala come è. Se te la regala, ringrazialo per questo. Se te la regala, poni l’attenzione nell’amore con cui codesto Bambino te la dà, pensa che ti ama veramente. Se te la regala, tu a tua volta regalala ad altri, perché si tratta di un dono strano: più lo dai, più lo accresci. Se il Salvatore, questa santa notte, bussa alla tua porta... che aspetti? Spalancala. Ti assicuro che nella vita non ti pentirai di averlo fatto.

 

Messa DI NATALE 25 dicembre dell’anno 2000

Prima: Is 52, 7-10; seconda: Eb 1, 1-6 Vangelo: Gv 1, 1-18

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Potremmo dire che le letture del giorno di Natale si concentrano nel dare una risposta al grande interrogativo che ha attraversato duemila anni di cristianesimo: "chi è Gesù Cristo?" La risposta la troviamo, soprattutto, nel prologo del vangelo secondo san Giovanni. Il Verbo, il creatore dell’universo, la luce del mondo, il rivelatore del Padre, eccetera. Questa risposta del vangelo è collocata nell’ambito del profetismo dell’Antico Testamento: Gesù Cristo, il messaggero che porta la pace e la salvezza (prima lettura); Gesù Cristo, l’ultimo e definitivo profeta di Dio (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Chi è Gesù Cristo? In tutto il mondo cristiano il giorno 25 celebriamo la nascita di un bambino: Gesù di Nazaret, che ha rivoluzionato, nel corso di duemila anni, la storia dell’umanità, soprattutto dell’Occidente. Quelli che non sono cristiani forse si domandano chi è questo bambino che i cristiani celebrano con tanta solennità. E non è male che anche noi, in questa singolare occasione del Natale, ce lo domandiamo. O, ancora meglio, che lo domandiamo alla Bibbia, attraverso la quale Dio ci parla e si rivela a noi.

Gesù Cristo è il Verbo. È il Verbo che vive nel seno di Dio, e che pone la sua tenda tra gli uomini, in un determinato momento della storia. Gesù Cristo, prima di essere una parola pronunciata dalla storia, è "La Parola" pronunciata dallo stesso Dio. Nel mondo di Dio, il Padre sta pronunciando eternamente La Parola. A Betlemme, al tempo dell’imperatore Augusto, La Parola eterna è pronunciata da labbra umane, si trasforma in parola di carne. Si chiama Gesù di Nazaret. Chi è Gesù? È il Verbo, che, essendo pronunciato dagli uomini, suona Gesù di Nazaret. Chi è il Verbo? È Gesù, che il Padre chiama La Parola. Nel mistero di Gesù Cristo non si può separare l’eternità dal tempo, il Verbo da Gesù. Sarebbe tradire la rivelazione di Dio. Nel corso della storia, Dio aveva pronunciato parole per mezzo dei profeti, parole che manifestavano in modo incompleto la rivelazione di Dio. Con Gesù Cristo, il Padre pronuncia l’ultima, definitiva ed unica Parola, nella quale si compendia e giunge a pienezza tutta la rivelazione (seconda lettura).

Gesù è la vita e la vera luce del mondo. Vita e luce sono due immagini molto usate in tutto l’Antico Testamento. Dio è il creatore della vita (piante, animali, uomo). Allo stesso tempo che creatore, è anche il signore, che dispone di essa secondo i suoi imperscrutabili disegni. L’uomo è stato creato per la vita, non per la morte. Ciononostante, a causa del peccato, il regno della morte si è installato nella storia. Quando noi cristiani proclamiamo che Gesù è la vita, affermiamo che egli è il vincitore della morte e il restauratore della vita nell’umanità. Restaurando la vita, quest’ultima è come un faro di luce in un mondo prigioniero della tenebra. Confessando che Gesù di Nazaret, nel momento stesso di nascere, è vita e luce degli uomini, stiamo affermando anche che non è una vita qualsiasi, o una qualsiasi luce, effimera e debole, ma la Vita e la Luce originarie, presenti in Dio stesso. Poiché è Vita e Luce, la sua storia personale, una qualsiasi in se stessa tra le storie degli uomini, è fonte di Vita e di Luce per l’umanità intera.

Gesù è il rivelatore del Padre. "Dio, nessuno lo hai mai visto, il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, ce lo ha rivelato". Gesù Cristo non soltanto è rivelato dai profeti, per esempio da Michea, come messaggero di pace, di consolazione e di salvezza, o non soltanto è rivelato come superiore agli angeli (seconda lettura). Egli stesso, in persona, è rivelatore. E quale altra realtà più profonda può rivelarci, se non il mistero di Dio, dal quale viene e nel quale abita, mistero assolutamente sconosciuto per gli uomini? Il Padre non è visibile. Si rende visibile e presente in Gesù Cristo. Egli lo fa visibile parlandoci del Padre, per esempio con le parabole del padre misericordioso, e soprattutto ci parla del Padre nel suo modo di vivere e di stare nel mondo, tra gli uomini.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Per te, chi è Gesù Cristo? Dobbiamo lasciare le questioni generali e domandarci in modo molto personale: "Per me, chi è Gesù Cristo?". Secondo come si risponda a questa domanda con le labbra, con il cuore e soprattutto con la vita, la nostra esistenza seguirà una rotta o l’altra, seguirà alcuni parametri o altri, secondo i quali vivere. Se Gesù Cristo è tutto per me: il mio Dio, il mio salvatore, il mio modello, il mio tutto, cercherò di rendere reale nella mia vita questa convinzione. Se Gesù Cristo è un uomo straordinario, il più enigmatico e grandioso tra i figli di Adamo, ma niente di più che un uomo, sarò forse un grande ammiratore della sua figura, cercherò di seguire la sua vita moralmente esemplare, ma non cadrò mai in ginocchio davanti a lui, né lo invocherò come redentore, né sarò disposto a dare la mia vita per il fatto di credere in lui. Se Gesù Cristo non è stato altro che "un hippie tra yuppies", come qualcuno ha detto, o un messia fallito, come pensano molti ebrei, o un "avatar" tra tanti altri che sono esistiti e che continuano a venire all’esistenza, che senso ha continuare ad essere discepolo di Gesù di Nazaret? A che scopo continuare a fare una pantomima recitando il credo? Che questo Natale riaffermiamo la nostra fede in "Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo", in "Gesù Cristo, redentore dell’uomo".

Presenza di Cristo nella storia. Gesù Cristo è il vivente. Egli non è passato alla storia, come tanti personaggi che un giorno, secoli o millenni fa, ciò non importa, amarono e furono amati, percorsero gli stessi spazi o spazi simili a quelli che oggi percorriamo in paesi o città del nostro pianeta. Gesù Cristo non appartiene al passato. Mentre noi uomini abbiamo, per la nostra stessa condizione storica, una relazione con il passato e con il futuro, Egli è un presente senza altra relazione. Egli vive, sta al tuo fianco, ti accompagna. Egli ti ama, si interessa di te, ti illumina con la sua luce, ti dice parole di verità e di vita. Egli vuole il tuo bene, non ti lascia tranquillo quando prendi una brutta strada, è un amico che agirà sempre bene con te davanti alla verità, di fronte all’eterno destino. Gesù vive nel tuo cuore attraverso l’amicizia e la comunione con lui. Vive nell’eucarestia, nel tabernacolo. Vive nella Bibbia, Parola immortale di Dio all’uomo. Vive negli uomini e nelle donne che credono in lui, lo amano e seguono i suoi passi. Vive nel Papa e nei Vescovi, che lo rappresentano davanti agli uomini. Vive nei bambini innocenti, egli, che non cessò mai di essere bambino nella sua relazione con suo Padre. Egli vive per darci la vita, per ricordarci sempre che il nostro destino è la vita o, meglio, la Vita.

 

 

Domenica della SACRA FAMIGLIA 31 dicembre dell’anno 2000

Prima: 1Sam 1, 20-22.24-28; seconda: 1Gv 3, 1-2.21-24 Vangelo: Lc 2, 41-52

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Quale altro concetto può riassumere i testi di questa domenica, se non quello della famiglia? Si parla della famiglia di Dio: Dio Padre, il Figlio di Dio, e gli uomini resi figli di Dio per mezzo della fede (seconda lettura, vangelo). Nella prima lettura e nel vangelo si menzionano due famiglie, tra le quali sembra esserci un certo parallelismo, con alcune somiglianze e con molte differenze. Sono la famiglia di Anna e quella di Maria. Ad entrambe le donne, Dio concesse un figlio in un modo singolare. Il profeta Samuele ad Anna, Gesù di Nazaret a Maria.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

La famiglia di Dio. Quando parliamo della famiglia di Dio, non possiamo farlo se non in modo analogico. In Dio, per esempio, non esiste la sessualità, e per questo non c’è un padre da una parte e una madre dall’altra. In Dio non esiste neppure la molteplicità di natura, conseguentemente una stessa ed unica natura viene partecipata dal Padre e dal Figlio. Ciononostante, la rivelazione ci parla di Dio come Padre, di Gesù Cristo come Figlio naturale di Dio, e dei cristiani come figli adottivi di Dio. I tratti più belli e pieni del padre e della madre: il loro amore generoso, disinteressato, la loro capacità di donazione, la loro fecondità, la dedizione ai figli, il loro desiderio ardente che crescano sani e che siano felici, questi ed altri aspetti si trovano in Dio in modo eminente. Allo stesso modo, brillano nel Figlio di Dio l’affetto e l’obbedienza filiale, la gratitudine, il volere e cercare ciò che è gradito al Padre, l’intimità e l’assoluta fiducia nel Padre. Il cristiano è figlio nel Figlio, e, pertanto, il Padre riconosce come figli soltanto quelli che hanno incarnato gli stessi tratti filiali di Gesù Cristo, suo Figlio. San Giovanni, di fronte a questa realtà della famiglia divina esclama, come estasiato: "Guardate quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (seconda lettura). E nel vangelo, Gesù, ritrovato nel tempio dopo tre giorni di ricerca da parte dei suoi genitori, dice loro: "Non sapevate che dovevo occuparmi delle cose del Padre mio?". È importante elevarsi fino alla famiglia di Dio perché, in un certo modo, è l’archetipo della famiglia umana.

La famiglia di Anna e di Maria. Due famiglie di cui ci parla la Bibbia! Una, quella di Anna, appartiene all’Antico Testamento; l’altra, quella di Maria, al Nuovo. Entrambe le famiglie: Elkana ed Anna, Giuseppe e Maria, erano giusti agli occhi di Dio. Anna era sposata e non poteva aver figli, essendo sterile, Maria era promessa a Giuseppe ed era vergine. Anna chiede a Javeh che le conceda un figlio, Maria gli chiede che si faccia in tutto la sua volontà. Dio ascolta la preghiera di Anna, rendendo fecondo il suo seno; Dio compie la sua volontà con Maria, rendendola madre senza cessare di essere vergine. Samuele, figlio di Anna, occupa un posto rilevante nella storia della salvezza; Gesù, figlio di Maria, ne occupa il vertice e la pienezza. Elkana è il padre naturale di Samuele, Giuseppe è soltanto il padre legale di Gesù. Samuele, a tre anni, venne portato al santuario di Silo, davanti a Javeh, e consacrato a lui per tutta la vita. Gesù fu consacrato a Javeh a quaranta giorni dalla sua nascita, e visse trent’anni a Nazaret con i suoi genitori. Samuele visse nel santuario al servizio di Javeh; Gesù, a dodici anni, rimase nel tempio senza che i genitori lo sapessero, lasciò stupefatti i maestri per la sua intelligenza e le sue risposte e, a Maria e Giuseppe rispose con una domanda enigmatica: "Perché mi cercavate? Non sapevate che dovevo occuparmi delle cose del Padre mio?". Della relazione di Samuele con i suoi genitori il libro sacro non ci dice nient’altro; Gesù, al contrario, visse a Nazaret con i suoi genitori fino all’età di trenta anni, in atteggiamento di obbedienza filiale. Nei due casi, si mette in evidenza un elemento comune: tanto nella famiglia di Anna, come in quella di Maria, Dio conta e si conta su Dio. Le condizioni culturali e sociologiche della famiglia possono cambiare enormemente, ma il fatto che Dio conti e che si conti su Dio costituisce un aspetto essenziale di ogni famiglia, in qualsiasi condizione culturale, politica o sociologica.

 

 

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Essere e fare famiglia. Innanzitutto, essere famiglia. E questo vuol dire un padre, una madre e almeno un figlio e, se di più, meglio. Pur dando per scontato il mio rispetto per ogni essere umano, in qualsiasi stato o condizione, penso che si debba essere chiari e chiamare le cose con il loro nome. Per questo, ritengo che una donna sola con un bambino, non È famiglia, come non lo è nemmeno, anche se questi casi oggi come oggi sono rari, un uomo solo con un bambino. Penso che due lesbiche con un bambino non SONO famiglia, come non lo sono nemmeno due omosessuali con un bambino. In questi casi, la maggior parte delle volte, se non tutte, Dio non conta, né si conta su Dio.

In secondo luogo, essendo famiglia, fare famiglia. Cioè, costruire giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, l’edificio familiare. La famiglia si costruisce con la collaborazione di tutti i suoi membri, e compiendo ciascuno le sue proprie funzioni di padre, madre e figli. Se le funzioni o i ruoli si traspongono o si alterano, non si costruisce la famiglia. Per esempio, se i genitori sono quelli che obbediscono ai capricci del figlio o dei figli, o se i figli soffrono non poche volte i capricci dei genitori (divorzio, un’amante...). L’edificio della famiglia non si finisce mai di costruire, è un compito di tutta la vita. È un compito che esige il sacrificio degli uni e degli altri (sposi, genitori, figli) per rendersi scambievolmente tutti felici.

Salvate la famiglia! Che la famiglia sia attaccata da molte parti, risulta alquanto ovvio. Che fino ad ora l’istituzione familiare abbia resistito bene agli attacchi, benché molti siano caduti nella battaglia, è anche vero. Sembra sempre più chiaro a politologi, sociologi, e ad uomini dei mezzi di comunicazione di massa, che la voce unanime della Chiesa cattolica, da sempre, ma più intensa a partire dal secolo XX, per salvare la famiglia, per salvare la società e l’uomo, sia una voce profetica e piena di sapienza, che si deve ascoltare. Al momento di portare a termine il giubileo dell’Incarnazione del Verbo, la Chiesa e tutti gli uomini retti e giusti, debbono levare la loro voce molto in alto per gridare: "Salviamo la famiglia!". Si deve salvarla dal linguaggio equivoco che la insidia da ogni parte. Si deve salvarla da tutti i virus che la distruggono: divorzio, infedeltà, mentalità edonista, individualismo egoista. Si deve salvarla promuovendo il senso della famiglia, valutando la ricchezza umana e spirituale della famiglia. Si deve salvarla formando i giovani nell’amore, nella responsabilità, nel dono di sé e nella capacità di donazione. Si deve salvarla, offrendo diversi modelli di autentica famiglia. Nessuno se ne escluda. Ciascuno ha la sua parte in questo grande compito di salvare la famiglia.

 

 

 

 

 

 

 

Solennità di MARIA , MADRE DI DIO 1° gennaio 2001

Prima: Num 6, 22-27; seconda: Gal 4, 4-7 Vangelo: Lc 2, 16-21

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Far memoria, ricordare, è proprio del popolo di Israele, di Maria santissima e del cristiano. Il popolo di Israele fa memoria, nel culto, delle meraviglie che Dio ha realizzato in esso, che si riassumono nella benedizione e nella pace (prima lettura). Maria ricorda gli avvenimenti che ha vissuto intorno al mistero della sua maternità divina (vangelo). La comunità cristiana fa memoria di Gesù, come un essere interamente umano (nato da donna, nato sotto la legge), ma allo tesso tempo Figlio di Dio, capace di liberare l’uomo da ogni schiavitù (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Memoria delle "meraviglie del Signore". Nel popolo di Israele, caso unico, c’è una chiarissima coscienza della presenza di Dio nella sua marcia per i sentieri della storia, molte volte, per la mente umana, tortuosi ed oscuri. A partire da Adamo, tutto risponde a un disegno, a una storia salvifica, e Dio è l’artefice e la guida di tale storia. Gli israeliti non cessano di ammirare, generazione dopo generazione, le opere sorprendenti e grandiose portate a compimento da Dio per il bene del suo popolo: le piaghe d’Egitto, la liberazione dalla schiavitù egizia, la rivelazione del Sinai e il dono del Decalogo, la vittoria sui diversi nemici che debbono affrontare nel loro cammino verso la terra promessa, la terra che emana latte e miele, la presenza divina viva e consolatrice nel tempio di Gerusalemme, l’insperato ritorno dall’esilio di Babilonia... Il luogo per eccellenza della memoria è la liturgia nel santuario prima, e poi nel tempio di Gerusalemme. Innanzitutto, la liturgia delle grandi feste: Pasqua, Pentecoste, i Tabernacoli. Poi, la liturgia di ogni giorno e delle feste minori, come l’inizio dell’anno, i noviluni o la festa dei purim. La memoria di tutti questi grandi avvenimenti si raccoglieva in maniera concentrata, al termine della liturgia del giorno, nella benedizione (prima lettura), e si proiettava come auspicio per il futuro. Grazie alla memoria delle meraviglie del Signore, l’Antico Testamento esiste, e noi cristiani conosciamo le nostre origini e il modo di agire di Dio nella storia. I primi cristiani continueranno a ricordare le meraviglie di Dio nella vita di Gesù e della Chiesa primitiva: per questo abbiamo il Nuovo Testamento e il grande mistero che dà ragione d’essere della nostra esistenza, della nostra missione nel mondo e del nostro destino finale.

Nostra Signora del ricordo. In due occasioni, che hanno a che vedere con i misteri dell'infanzia di Gesù, san Luca menziona Maria, che ricorda gli avvenimenti vissuti. Non si tratta di un atto isolato, passeggero, ma di un atteggiamento di Maria, che ella mantiene durante la sua vita terrena. Nel Magnificat, ricorda la misericordia di Dio, di generazione in generazione, per quelli che lo temono. Maria ricorda, soprattutto, gli avvenimenti in cui Ella ha preso parte: incarnazione del Verbo, nascita di Gesù, adorazione dei pastori e dei Magi, circoncisione del Bambino, imposizione del nome, eccetera. Ricorda i fatti, ma principalmente il mistero ineffabile che nei fatti si nasconde, per entrare in esso per mezzo della fede e dell’amore. Evochiamo anche la figura di Maria, negli ultimi anni della sua vita, mentre ricorda la vita di Gesù a Nazaret, la vita pubblica di suo figlio, il mistero pasquale, la Pentecoste, gli inizi della Chiesa... Maria entra nel "deposito" del ricordi, non con la nostalgia di esperienze profonde ed irripetibili, ma con la gioia di chi rivive quei momenti nel presente, grazie alla profondità e ricchezza del mistero che in essi si racchiude e che interpella tutti noi. Maria, la dimensione femminile e materna della Chiesa, mette in risalto il ruolo della memoria, della contemplazione attiva, affinché il cristianesimo si mantenga fedele alle sue origini e in esse trovi l’impulso più genuino all’azione e all’apostolato.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Esiste un’amnesia cristiana? L’amnesia, nella vita umana, è uno dei sintomi di età avanzata, di decrepitezza. A maggior numero di anni, minore capacità di ricordo. Questo fenomeno umano, si verifica allo stesso modo nelle società e nelle istituzioni? Se c’è amnesia storica, è segno che la società, o un’istituzione ha perso vitalità e sta invecchiando? Riferendomi alla Chiesa, si può parlare di un’amnesia cristiana? Almeno, ci sono certi sintomi preoccupanti: esistono al giorno d’oggi dei battezzati che non conoscono l’essenziale del catechismo, a volte neppure i dieci comandamenti; battezzati che ignorano le grandi pietre miliari della storia della salvezza, perfino i grandi misteri della vita di Gesù Cristo; battezzati che non conoscono perfino i momenti più significativi della storia della Chiesa; le grandi verità del dogma e della morale cristiani... Che dire, in questi casi, se non che la Chiesa ha perduto memoria in non pochi dei suoi figli? Per recuperarla, non c’è altra via che creare il gusto del ricordo, far apprezzare alle giovani generazioni il tesoro straordinario della tradizione cristiana, aiutarli a far memoria di essa con la coscienza che nel passato si trovano i semi che fioriscono nel presente e che daranno il loro frutto maturo nell’avvenire. Non sarà inutile segnalare che il cristiano con amnesia delle sue origini e della sua storia commette un grave peccato di omissione, che lo pregiudica nella sua identità cristiana, ma che fa anche danno alla comunità ecclesiale, perché la invecchia, invece di rinnovarla e di ringiovanirla.

Ricordare pregando il rosario. Uno dei mezzi più efficaci che la Chiesa offre alla pietà cristiana per ricordare è la recita del santo Rosario. Il rosario si prega in onore e lode di Maria santissima, ma il centro dei misteri che si ricordano lo occupano gli eventi principali della vita di Gesù Cristo. In questa pratica di pietà, che è caduta notevolmente in disuso al nostro tempo, al culto di Maria si unisce il ricordo delle grandi verità del mistero cristiano, realizzandosi in questo modo una sintesi molto raccomandabile tra fede e pietà. Nel ricordo di questi avvenimenti, ci accompagna Maria, che li visse in modo personale, e che adesso ci fa da guida e da modello. Con lei e come attraverso la sua memoria, ricordiamo i misteri gaudiosi, che hanno a che vedere con la venuta del Messia tra di noi, dell’Emanuele, ed ai quali Maria prese parte in un modo unico ed eccezionale. Ricordiamo anche i misteri dolorosi, misteri che si riferiscono agli ultimi giorni della vita di Gesù tra gli uomini, in cui Egli consumò l’opera della Redenzione morendo su una croce, ai piedi della quale Maria condivideva il suo dolore e collaborava in modo singolare all’opera della Redenzione. Ricordiamo, infine, i misteri gloriosi, in cui celebriamo il trionfo di Gesù Cristo e, associato a Lui, e per opera sua, il trionfo di Maria santissima, portata in corpo ed anima alla gloria celeste. Sarà passata di moda la pratica del rosario? Come pregare il rosario, individualmente o in gruppo, affinché sia memoria viva dei misteri della nostra fede, condotti maternamente per mano da Maria?

 

 

 

Solennità dell’Epifania del SIGNORE 6 gennaio 2001

Prima: Is 60, 1-6; Ef 3, 2-3.5; Vangelo: Mt 2, 1-12

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Gesù Cristo, fin dalla sua nascita, è un segno di contraddizione per gli uomini. Per alcuni, come i saggi che vengono dall’Oriente (vangelo) o come per Paolo, proveniente dalla diaspora, è epifania, manifestazione folgorante del suo mistero (seconda lettura); epifania prefigurata nella prima lettura, secondo la quale tutti i popoli si sentiranno attratti dalla luce e dalla gloria di Gerusalemme. Per altri, che vivono a Gerusalemme, capitale del giudaismo, e che detengono l’autorità politica (Erode) o religiosa del popolo giudaico (sacerdoti o maestri della legge), Gesù, il Messia, non è che il rivale pericoloso (per Erode) o un semplice oggetto di scienza sacra, sul quale informano con l’obiettività dell’esperto (sacerdoti, scribi).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

Atteggiamenti paradigmatici di fronte a Gesù. Già dagli inizi stessi della sua vita, e poi in tutto il Vangelo, si trovano due atteggiamenti fondamentali degli uomini verso Gesù: accettazione o rifiuto. Maria, Giuseppe, i pastori, i saggi di Oriente o Magi (vangelo di oggi), Simeone e la profetessa Anna accettano la realtà e il mistero che avvolgono Gesù di Nazaret. Il re Erode, i sacerdoti e i maestri della legge (vangelo), gli abitanti di Betlemme, prendono una posizione di rifiuto. Fin dagli inizi, Gesù è una bandiera discussa: alcuni, pieni di gioia, vogliono portarla sempre molto alta; altri, ostili, vogliono abbassarla e distruggerla. Non è il caso, ma è facile percepire che, già nell’Antico Testamento, questi due sono gli atteggiamenti degli uomini davanti a Dio, che nel Nuovo Testamento sono le posizioni degli individui e dei popoli di fronte a Gesù Cristo e di fronte alla Chiesa primitiva, e che tali posizioni sono continuate nella storia fino al presente. Che l’uomo lo voglia o no, che lo sappia o no, la persona di Gesù ha a che vedere con la sua vita, e non proprio in un modo puramente accidentale. Gesù è lo spartiacque della vita umana e della storia. La ragione si trova nel fatto che ogni uomo, nel fondo della sua coscienza, cerca un Salvatore, e l’unico vero Salvatore è Gesù Cristo. Questa verità non è un assioma filosofico né una deduzione sillogistica, ma un’amorosa rivelazione di Dio "agli apostoli e profeti" e, attraverso di essi, a tutti gli uomini (seconda lettura). Gli uomini possono sbagliare nella ricerca del Salvatore, possono perfino pensare a cercare altri salvatori, ma, in qualsiasi caso, colui che cercano, il bersaglio verso il quale dirigono la freccia del loro cuore, è Gesù di Nazaret, il Redentore del mondo.

Dagli atteggiamenti ai fatti. Gli atteggiamenti conducono logicamente all’azione. I Magi scoprono nel firmamento la stella del Messia, si mettono diligentemente in cammino, vincono non poche difficoltà, e, davanti al Bambino Gesù, si prostrano, lo adorano e gli offrono i loro regali: oro, incenso e mirra. Sono fatti concreti con cui manifestano la loro gioiosa accettazione. Essi sono i rappresentanti dei popoli pagani, prefigurati nella prima lettura, presa da Isaia: "Alla tua luce cammineranno i popoli, e i re allo splendore della tua aurora". Erode trasalisce di spavento, indaga, dissimula le proprie intenzioni, trama la morte di questo bambino. I sommi sacerdoti e scribi, da parte loro, mostrano la loro conoscenza della Scrittura, limitandosi semplicemente a prendere informazioni. Nel corso della vita di Gesù, e nei ventuno secoli di cristianesimo, quanti milioni di azioni a favore e contro Gesù, di rifiuto e di accettazione! Questa è una chiave di valore straordinario per leggere e comprendere la storia di Occidente, ma anche di Oriente, la storia universale. Le grandi demolizioni e cadute degli imperi, i grandi fenomeni di cambiamento di paradigma politico, culturale o sociale, con tutte le conseguenze che comportano, i grandi movimenti ideologici, non ricevono forse la loro luce più potente dall’"evento Cristo", rifiutato da alcuni, accettato da altri? Tutti, ma specialmente gli storici, dobbiamo riflettere su questa chiave storica.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Attenti ai segni di Dio! I Magi videro una stella nuova nel firmamento, e questa suscitò il loro interesse e la loro ricerca. Fu un segno che Dio inviò loro, e non lo lasciarono passare senza far nulla, ma decifrarono il suo significato e si misero in marcia. In effetti, l’anno 7 a.C. si effettuò la congiunzione di Giove e di Saturno nella costellazione dei Pesci. Giove rappresentava la sovranità universale, Saturno era la stella del popolo giudaico e i Pesci significavano la fine dei tempi. Conclusione: in Giudea è nato il re universale, nella pienezza dei tempi. Attenzione, riflessione, azione! Dobbiamo stare attenti perché Dio va seminando, giorno per giorno, non pochi segni della sua presenza e del suo amore efficace, nella piccola realtà della nostra vita e nei diversi eventi della storia locale, nazionale o internazionale. Dobbiamo riflettere, perché si tratta di segni, non di evidenze, e perché i segni per loro stessa natura rimandano ad un’altra realtà al di là di essi stessi. Una volta interpretato correttamente il segno, dobbiamo passare dall’attenzione e dalla riflessione all’azione, affinché il segno di Dio fruttifichi nella terra dei fatti concreti. Dio continua a parlare oggi all’uomo con parole e con azioni, forse ciò che accade è che noi uomini non siamo preparati per decifrare il suo linguaggio. I martiri del secolo XX, non sono forse un segno di Dio? Due milioni di giovani riuniti a Roma per la Giornata Mondiale e il Giubileo della Gioventù, non sono forse una parola significativa che Dio ci rivolge? E i Movimenti ecclesiali? E il rinascere dello spirito religioso e dell’ansia di trascendenza?

Un mondo con qualcosa da offrire a Dio. Ogni anno noi cristiani celebriamo il Natale, l’Epifania. Dio si dona a noi, piccolo e impotente, su una mangiatoia o tra le mani di sua Madre, Maria. Si offre come Salvatore, come Amore, come cammino di vita, a tutti, senza eccezione. Che cosa offre, in cambio, il mondo al Salvatore? Che cosa gli offriamo noi, ciascuno di noi? Ha il mondo un poco più di pace da offrire a chi è chiamato il "principe della pace"? Ha il mondo un poco più di solidarietà verso i più bisognosi, siano essi individui o nazioni, da offrire a chi volle farsi in tutto solidale con gli uomini, tranne che nel peccato? Offre il mondo più pane a coloro che hanno fame, più medicine a quelli che sono malati, più aiuto per l’educazione a coloro che non hanno possibilità, sapendo che "quando lo avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me"? Può contare il mondo su più verità, più onestà, più giustizia, per chi è la Verità, per chi è il Giusto per eccellenza? Il mondo, ogni anno nuovo, può offrire molte cose buone a Dio. Ciascuno di noi è parte di questo mondo, e può e deve contribuire per offrire "qualcosa" a Dio. Con che cosa pensi di contribuire questo primo anno del terzo millennio?

 

 

Seconda Domenica di NATALE 7 gennaio 2001

Prima: Sir 24, 1-4.12-16; seconda: Ef 1, 3-6. 15-18; Vangelo: Jn 1,1-18

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

La Parola incarnata, Gesù Cristo, è un dono del Padre. In questa frase tento di riassumere il senso della liturgia di questa seconda domenica dopo Natale. Il Padre ci ha benedetto con ogni sorta di beni spirituali, tra i quali eccelle il dono messianico, per mezzo di Cristo (seconda lettura). Nella storia delle benedizioni divine, che corrisponde alla storia dell’uomo, Dio ha dato se stesso come dono della Sapienza, innanzitutto al popolo di Israele (prima lettura), e poi al popolo cristiano, giacché Gesù Cristo è Sapienza di Dio, l’unico che abbia visto Dio e che ce lo possa rivelare (vangelo). In codesta medesima lunga storia, Dio ci viene dato come Parola eterna, che ha preso carne mortale in Gesù di Nazaret (vangelo).

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Dono per Israele, dono per il mondo. Non c’è nulla di più straordinario del fatto che Dio abbia voluto essere dono per l’uomo. Non si tratta di dargli delle cose, degli oggetti materiali. Questo già sarebbe grande, ma resta piccolo di fronte alla meraviglia di un Dio, che fa dono di se stesso. Nella storia delle relazioni di Dio con l’uomo, innanzitutto è un dono che si incarna sotto la forma di sapienza. È una sapienza divina, quella che troviamo nella prima lettura. Preesisteva presso Dio ed è uscita dalla sua bocca, e allo stesso tempo ha posto la sua tenda in Gerusalemme ed ha il suo luogo di riposo in Israele. Cioè, in mezzo alla sapienza umana, tanto straordinaria, dei popoli confinanti, come Mesopotamia ed Egitto, Israele gode di una sapienza superiore, per mezzo della quale Dio gli rivela i suoi disegni e progetti e gli manifesta il senso delle cose e della storia. Con il passare dei secoli, giungendo il momento culminante di tutta la storia, si verifica un cambiamento singolare: Dio non soltanto si dà come dono spirituale (sapienza), ma personale (incarnazione del Verbo, della Parola di Dio). Nessun segno di ammirazione è capace di esprimere, in modo adeguato, questo dono eccezionale. Che Dio strappi il mistero della sua trascendenza, entri nella storia e si dia a noi in una creatura umana appena nata, chi lo potrà comprendere? (Vangelo). Non basterà l’eternità per sorprenderci davanti a questo grande mistero. Non è una "necessità" di Dio; non si sente obbligato da nessuno; non lo perfeziona nella sua divinità. Soltanto l’amore lo spiega, l’amore che è diffusivo e generoso. Inoltre, non è soltanto un dono personale, è anche un dono universale, mondiale. "Luce per tutte le nazioni". Finché esisterà la storia, Dio sarà un dono per tutti, senza distinzione alcuna. Gli uomini potranno dire: "Non lo voglio", "Non ne ho bisogno", ma non potranno mai pronunciare con le labbra: "Ne sono escluso", "Non è per me". Gesù Cristo è il dono del Padre per tutta l’umanità.

Un dono in pienezza. Sono belle le immagini che utilizza il Siracide per comunicarci codesta pienezza: la sapienza, ricorrendo ad immagini vegetali, dice di se stessa che è come un cedro del Libano, come palma di Engaddi, come una pianta di rose in Gerico o un frondoso terebinto. Ricorre anche ad immagini aromatiche per descrivere, con diversi linguaggi, la stessa pienezza: l’aroma del lauro indiano (cinnamomo), il profumo del balsamo o della mirra, l’odore penetrante del galbano, dell’onice e dello storace; soprattutto, l’incenso che fumiga nel tempio, e nella cui composizione entrano tutti gli aromi qui menzionati. La bellezza e l’eleganza degli alberi, la freschezza e il colorito dei rosai, l’intensità dei profumi si radunano per sottolineare la pienezza del dono divino della sapienza. Il vangelo è più sobrio di immagini, ma più ricco di significato. Parla della "gloria del Figlio unico del Padre, PIENO di grazia e di verità" e, poco dopo: "dalla sua PIENEZZA tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia". E l’inno della lettera agli efesini, non si riferisce forse alla pienezza dell’uomo, quando dice che "Dio ci ha destinato ad essere adottati come figli suoi per mezzo di Gesù Cristo"? La grandezza e pienezza del dono ci rimandano alla grandezza e pienezza del Donante. La nobiltà obbliga alla gratitudine!

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Un dono venuto da lontano. Non sono gli astri distanti quelli che, dopo molti anni o secoli, ci regalano i loro raggi di luce; non è la terra che, in angoli tanto diversi e lontani, offre all’uomo la prodigalità dei suoi minerali e dei suoi frutti vegetali; non è l’uomo che ci dona la sua creatività, il suo lavoro, il suo genio. Tutte queste realtà appartengono al mondo creato. Il Dono ci viene dal mondo e dalla distanza increati, dall’aldilà di ogni creatura, dal Dio trascendente. Gesù Cristo, il Dono di Dio, viene da lontano, ma si introduce nel cuore degli avvenimenti e dell’essere umano fino al punto di essere uomo tra gli uomini. Qui si radica la nostra perplessità. Lo vediamo tanto uguale a noi, che ci può capitare di pensare che non venga dal mondo di Dio. Nelle braccia di sua Madre non c’è nulla che lo mostri divino. E purtroppo, in non poche occasioni, noi uomini, dal fatto che Egli non appaia come Dio, concludiamo che non può esserlo, né lo è. Diremo che è un grande personaggio della storia, che la sua personalità è enormemente seduttrice, che la sua morale è di una altezza e nobiltà grandiose, che la sua capacità di trascinare è imponente, che è un paradosso vivente, essendo il più amato e il più odiato tra i nati di donna... Ma, nel nostro ragionamento non possiamo giungere all’affermazione fondamentale: "È un Dono di Dio, venuto dallo stesso mondo di Dio". Venendo al mondo e facendosi uomo, è venuto a rimanere con noi; allo stesso tempo, stando con noi, ma provenendo dal mondo di Dio, è venuto a portarci con Lui nel mondo lontano dal quale è uscito, mondo ignoto, ma che è la nostra patria vera e definitiva. Accettiamo con fede e con amore questo Dono vicino, come lo è un bambino, ma trascendente, come lo stesso Dio?

Testimoni del dono divino. Giovanni, il Battista, è chiamato nel vangelo "testimone della luce, affinché tutti credano per mezzo di lui". Testimone, Giovanni, di codesta luce, di codesta sapienza divina che è Gesù Cristo. Seguendo il Battista, tutti in una certa maniera siamo chiamati ad essere testimoni del dono divino, Gesù Cristo. Il mondo crederà se aumentano i testimoni di Cristo. E se nel nostro paese la fede diminuisce, non sarà perché sono diminuiti i testimoni? I maestri possono chiarire la verità del Dono divino, ma i testimoni fanno la verità, e facendola la accreditano e la garantiscono. Cristo, Dono di Dio per l’uomo, ha bisogno di testimoni. Bambini, testimoni di Cristo per i bambini e per gli adulti; giovani, testimoni di Cristo per i giovani e quelli non tanto giovani; adulti, testimoni di Cristo per gli adulti, e per i bambini e i giovani. Testimoni convinti e audaci, allo stile di Papa Giovanni Paolo II. Cristo ha bisogno di padri di famiglia, che non abbiano paura di donare la fiaccola della loro testimonianza cristiana ai propri figli; di educatori, che siano testimoni di Cristo per i propri alunni; di parroci, che testimonino con la loro vita santa il Dono di Cristo a tutti i loro fedeli. Sono un autentico testimone di Cristo? Che cosa faccio, e che cos’altro posso fare perché la mia testimonianza sia credibile e Dio la renda efficace?

 

 

 

Battesimo di GESU’ 14 gennaio 2001

Prima: Is 40, 1-5.9-11; seconda: Tt 2, 11-14; 3, 4-7; Vangelo: Lc 3, 15-16.21-22

 

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Senza che vi appaia la parola novità, nuovo, tutti i testi liturgici si riferiscono, in certa maniera, alla novità dell’azione di Dio nella storia. È nuovo il linguaggio di Dio in Isaia: "è finita la schiavitù..., che ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati... , ecco viene il Signore Javeh con potenza, con il braccio egli detiene il dominio". È assolutamente nuovo che Gesù sia battezzato da Giovanni, che il cielo si apra, che lo Spirito discenda in forma di colomba, che si oda una voce dal cielo: "Tu sei il mio figlio prediletto". È nuova la realtà dell’uomo che ha ricevuto il battesimo: "un bagno di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo, che sparse su di noi con larghezza per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore".

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

La novità viene da Dio. L’uomo, fin dagli stessi inizi, porta in sé il deterioramento e la vecchia carne del peccato. In essa sta immerso, come in un pozzo profondo, dal quale è impossibile uscire da soli. Siccome si tratta di una realtà comune a tutta l’umanità, non è neanche possibile che qualcuno, per mezzo soltanto del proprio valore e volere, possa aiutare altri ad uscire. Questa è la triste condizione umana. L’uomo può gridare, disperarsi, bestemmiare; o può sentire il peso della colpa, chiedere perdono e aiuto, sperare. Ciò che è chiaro è che soltanto Dio può dargli una mano; soltanto Dio può cambiare la sua vecchia carne in pura novità di grazia e di misericordia. È ugualmente chiaro che Dio vuole dare una mano ed agire in favore dell’uomo, perché "egli è stato creato a immagine e somiglianza sua". La liturgia presenta tre momenti storici dell’intervento di Dio: innanzitutto, interviene per liberare il popolo israelita dalla schiavitù di Babilonia (prima lettura), poi per rivelare al mondo la filiazione divina di Gesù (vangelo), infine per manifestare agli uomini la nuova situazione creata in coloro che hanno ricevuto il battesimo (seconda lettura). La conseguenza è logica: Se Dio è intervenuto nel passato con una irruzione di vita e di speranza nuove, Dio interviene nel presente ed interverrà nel futuro, perché il nome più proprio di Dio è la fedeltà.

La novità è invisibile. La novità che Dio infonde nel cuore degli uomini incide e si ripercuote nella storia, ma è in sé invisibile, interiore, nettamente spirituale. Prima fa nuovo il cuore, poi dal cuore dell’uomo e con l’aiuto dell’uomo, trasforma anche la realtà storica. Negli esuli di Babilonia prima creò la nostalgia di Sion, il desiderio e la decisione del ritorno, poi dispose i fili della storia affinché tale desiderio e decisione giungesse a compimento. Nel caso di Gesù, la teofania del battesimo ci fa scoprire una novità iniziale, che si andrà dispiegando durante tutta la sua vita pubblica e soprattutto nel mistero della sua morte e risurrezione. La novità del battezzato si andrà percependo soltanto con il tempo, nella misura in cui esista una coerenza vitale tra la novità infusa da Dio e l’esistenza concreta e quotidiana del cristiano. Per noi, che giudichiamo dal di fuori, non poche volte risulta difficile svelare la relazione tra la novità interiore e le sue manifestazioni storiche nella vita ordinaria di ogni essere umano. Per questo, quanto è difficile dare un giudizio sulla vita vera, quella interiore, degli uomini, e con quanta facilità ci possiamo sbagliare!

La novità è efficace. Se viene da Dio, non può essere altrimenti. L’azione di Dio si compie, se l’uomo non la ostacola. La teofanìa che ci narra il vangelo suppose che Gesù, Figlio di Dio, fosse battezzato da un uomo, Giovanni; senza questa azione di Gesù, tale teofania non avrebbe avuto luogo. La rigenerazione ed il rinnovamento interiore dell’uomo sono assicurati "se l’uomo rinuncia alla empietà e alle passioni mondane" (seconda lettura), che come tali impediscono qualsiasi azione dello Spirito di Dio. D’altra parte, dobbiamo ammettere che l’efficacia di Dio non è manipolabile a nostro piacimento ed arbitrio. Dio mostra la sua efficacia quando e come vuole. Non sono gli esuli di Babilonia quelli che pongono a Dio tempi e modi di agire per liberarli dalla schiavitù; è Dio che li decide e li realizza.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Battesimo, epifania di Dio. Nel vangelo il battesimo di Gesù è una epifania. Lo stesso deve essere il battesimo del cristiano: una epifania di ciò che Dio è e di ciò che Dio fa nell’uomo. Il battezzato, potremmo dire, è un uomo in cui si manifesta il Dio trinitario, in virtù della relazione personale che mantiene con ciascuna delle persone divine. Come Figlio del Padre, vive una vera relazione filiale, soprattutto nella preghiera e nell’adorazione. Come redento dal Figlio e sommerso nella sua stessa vita, instaura con lui una relazione principalmente di sequela e di imitazione. Come tempio dello Spirito Santo, vive con la coscienza di una relazione sacra, santificante, vivificatrice del suo esistere quotidiano, modellatrice della sua vita familiare, professionale e sociale. Il battezzato è allo stesso tempo epifania dell’azione di Dio nell’uomo: un’azione purificatrice, che manifesta il perdono di Dio; un’azione trasformante, che mette in risalto il potere di Dio; un’azione unificatrice delle energie e delle capacità del cristiano, che sottolinea il mistero unitario di Dio; un’azione vivificante, che rivela, per mezzo dell’uomo, la straordinaria vita di Dio uno e trino. È importante che la predicazione e la catechesi tengano molto conto, sviluppino e spieghino questi aspetti spirituali e pastorali del sacramento del battesimo. Così il battesimo non sarà il sacramento dell’"incoscienza", ma il sacramento della epifania quotidiana di Dio nella vita, nella fede e nell’agire del battezzato.

Battezzati per sempre. Nel catechismo si dice che il battesimo imprime carattere, cioè, il battesimo si riceve una sola volta per tutta la vita. Che cosa accade, allora, quando non si vive come cristiani? Quando si rinnega la propria fede? Quando si cambia religione e credo? L’impronta della impressione battesimale rimane. Una impronta che è memoria, ed è invito: "Ricorda che sei un battezzato", "Sii ciò che sei, vivi ciò che sei". Sei libero, ma l’impronta divina ti indica il vero cammino per la tua libertà, lontano da miraggi ingannevoli. E che accade al battezzato che vuole vivere come tale? Deve ratificare ogni giorno con la vita l’impronta divina, che porta impressa. Deve testimoniare decisamente e con coraggio la trasformazione che Dio ha operato nel suo essere per mezzo del battesimo. Deve essere un battezzato che viva cosciente del suo battesimo giorno dopo giorno, per sempre.

 

 

Seconda Domenica del TEMPO ORDINARIO 21 gennaio 2001

Prima: Is 62, 1-5; seconda: 1Cor 12, 4-11; Vangelo: Gv 2, 1-12

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

L’immagine delle nozze occupa un posto centrale nella liturgia di oggi. Nel vangelo si parla delle nozze di Cana, ma soprattutto si insinua Gesù come sposo. Gerusalemme non sarà chiamata "Abbandonata" né "Devastata", ma sarà chiamata "Sposata", e la sua terra avrà uno sposo (prima lettura). La comunità cristiana, sposa di Cristo, gode della diversità di carismi che l’unico e medesimo Spirito sparge su di lei per metterli al servizio di tutti, e che costituiscono il dono nuziale di Cristo sposo (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

La prefigurazione sponsale del Messia. Nell’Antico Testamento si menziona con frequenza la figura dello sposo per parlare delle relazioni di Javeh con il suo popolo Israele. Dio, in quanto sposo, mostra da una parte gelosia verso il suo popolo; una gelosia, che si manifesta come castigo, quando la sposa non corrisponde; un castigo di purificazione e che invita a ritornare al primo amore. D’altra parte, Dio si rivela come sposo fedele, che, nonostante tutto, mantiene la sua parola di alleanza, di indissolubilità e di lealtà. Infine, è uno sposo che trabocca di gioia nello stare col suo popolo e nell’accompagnarlo nelle sue vicissitudini. Poiché Javeh è geloso, Gerusalemme venne abbandonata da Lui e devastata dai suoi nemici; poiché è fedele, tornerà ad essere chiamata "sposata". Poiché è uno sposo gioioso, infonde e sparge codesta medesima gioia in tutto Israele, come un dono prezioso e magnifico per la sposa. La figura sponsale di Javeh, con le tre caratteristiche indicate, prepara la rivelazione di Gesù come sposo della Chiesa nel Nuovo Testamento.

È giunta l’era messianica. Nel Nuovo Testamento il messia appare sotto la figura dello sposo. Nel testo delle nozze di Cana, Gesù è insinuato come sposo nelle parole del maestro di sala allo sposo: "Tutti servono per primo il vino buono e, quando già sono ubriachi, quello meno buono. Ma tu hai conservato il vino nuovo fino ad ora". In realtà, il "tu" si riferisce non tanto allo sposo, quanto a Gesù. Questo testo è importante, dato il carattere programmatico che possiede nella struttura del quarto vangelo. C’è qualcosa di caratteristico, in questa figura di Gesù sposo? 1) Certamente, il potere di cambiare l’acqua in vino allude all’incipiente gioia e pienezza di grazia del Regno di Dio. L’acqua dell’Antico Testamento, del messia atteso, si trasforma in vino del Nuovo Testamento, del messia giunto. 2) L’abbondanza messianica. Gesù non trasforma in vino pochi litri d’acqua, ma una grande quantità (240 litri). La sovrabbondanza e generosità di Gesù all’inizio della sua vita pubblica caratterizzerà il resto della sua esistenza terrena e la vita stessa del cristianesimo, di cui costituirà un elemento strutturale. 3) Il messia sposo manifesta la sua gloria ai discepoli, che hanno creduto in lui. La gloria dello sposo è proprio il donarsi in pienezza alla sposa, e, in questa maniera, iniziare una nuova era di relazioni di Dio con l’umanità: l’era cristiana.

Il dono nuziale del messia-sposo. Il dono nuziale è il simbolo dell’alleanza tra gli sposi. Il dono che Gesù-sposo offre alla Chiesa-sposa sono i carismi, che concede mediante il suo Spirito. Tutti e ciascuno dei carismi Cristo li dona alla sua Chiesa, affinché possa realizzare la sua vocazione sponsale. Lo Spirito distribuisce questi carismi con grande libertà, ma allo stesso tempo indirizza tutti loro all’utilità comune di tutta la Chiesa. Con essi, la Chiesa può garantire la sua fedeltà all’alleanza sponsale con Cristo. A maggior abbondanza di carismi nella Chiesa, maggior possibilità di realizzare con perfezione la sua vocazione sponsale e la sua missione di sacramento universale di salvezza tra gli uomini.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

La generosità, virtù cristiana. Dare e darsi, donare e donarsi, donazione, generosità... sono parole frequenti nel vocabolario dei cristiani. Le ascoltiamo non poche volte nelle omelie, nella catechesi, nella conversazione quotidiana. Grazie a Dio, non sono soltanto parole, ma una vera realtà nella Chiesa. C’è la generosità nel dare parte dei propri beni. Non c’è dubbio che i cristiani dei paesi ricchi danno notevoli quantità di denaro ed altri beni economici ai cristiani e non cristiani dei paesi poveri, o che soffrono il flagello della guerra o delle calamità naturali. È immenso il bene che fanno la Caritas internazionale, Adveniat, Kirche im Not, Missio, I Cavalieri di Malta, i Cavalieri di Colombo, e tante altre istituzioni benefiche di carattere nazionale o internazionale. C’è la generosità del dare se stessi. Quanti missionari e missionarie, quante volontarie e volontari, che danno la loro vita, fuori della propria patria, in paesi lontani, in mezzo a grandi difficoltà, con il rischio perfino di finire la vita crivellati di pallottole o sotto la lama del machete! Tutti loro hanno marciato verso i propri destini disposti a perdere la vita, se è necessario, per guadagnarla di nuovo in Cristo. C’è la generosità interiore, la generosità del cuore nei confronti di Dio, con il vicino, con il figlio malato di aids o tossicodipendente, con il marito in stato terminale, con la madre anziana che non può più badare a se stessa. Tante persone che forse non danno denaro, o ne danno poco, perché non ne hanno, e non partono nemmeno come missionarie o volontarie verso altri paesi, ma che danno se stesse, danno il loro affetto, la loro pazienza, la loro disponibilità, il loro tempo, la loro virtù, la loro scienza...

La nuova era compie duemila anni. In questi ultimi decenni si è parlato molto di nuova era (New Age). È un movimento culturale e religioso recente, che si oppone come alternativa al cristianesimo. Secondo esso, il cristianesimo ha compiuto il suo ciclo vitale, scritto nello zodiaco, e il nuovo ciclo sta già alle porte, il ciclo dell’acquario, che instaurerà una nuova era nella storia dell’umanità. È un movimento confuso e diffuso, senza struttura e senza fusto, ma che, come la nebbia, penetra in tutti gli spazi: arte, mezzi di comunicazione, cinema, religione, istituzioni, ecc. È un nuovo messianismo con ornamenti di scientifico e di spirituale allo stesso tempo. Di fronte a tale situazione, sommariamente descritta, è necessario affermare che di messia ce n’è uno solo, e che tale messia atteso dal popolo di Israele e dalle nazioni è già arrivato duemila anni fa con l’incarnazione del Verbo in Gesù di Nazaret. Che la nuova era cominciò con Gesù Cristo Messia, e che, dopo duemila anni, continua ad essere assolutamente nuova, perché non è tanto opera degli uomini, quanto di Dio stesso. Attenti alla moda della nuova era, e alla nuova era di moda!

 

 

Terza Domenica del TEMPO ORDINARIO 28 gennaio 2001

Prima: Neh 8, 2-4a.5-6.8-10; seconda: 1Cor 12, 12-31a; Vangelo: Lc 1, 1-4; 4, 14-21

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Sia la prima lettura che il vangelo parlano del libro della Scrittura. Esdra, nella prima lettura, legge il libro della Legge di fronte a tutto il popolo, "chiarendo e interpretando il senso, perché comprendessero la lettura". Nella sinagoga di Nazaret, Gesù si alza, un giorno di sabato, per fare la lettura del volume del profeta Isaia, che gli venne dato dal sacrestano della sinagoga (vangelo). Per fare realtà e vita la Scrittura, Dio ha posto nella Chiesa gli apostoli, i profeti, i maestri, il dono delle lingue, il dono di interpretazione..., in modo che la Parola di Dio sia viva, vivifichi e permanga per sempre.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

La Scrittura, libro del giudaismo. Si può dire che il giudaismo, il cristianesimo e l’islamismo sono in certa maniera le religioni del Libro. I giudei hanno la Torah (Rivelazione di Dio nell’Antico Testamento), i cristiani il Vangelo (Antico e Nuovo Testamento), i musulmani il Corano. Per un pio giudeo del tempo di Gesù, due erano i punti fondamentali di riferimento religioso: il tempio e la Torah. In entrambi è presente Javeh con la sua benevolenza e il suo amore. In entrambi dialoga con l’uomo come un amico con i suoi amici, come si vede nella prima lettura, in cui il popolo intero fece un grande festeggiamento "perché aveva compreso le parole che gli avevano insegnato". Entrambi sono via di salvezza non solo per i giudei, ma per tutte le nazioni. Nel tempio era permanentemente acceso il candelabro dalle sette braccia, per segnalare la provvidenza di Javeh sul suo popolo. Ogni giorno, quando il giudeo pregava, copriva la sua fronte e le sue braccia con filatteri, per aver sempre presenti alcuni testi fondamentali della Torah: Es 13, 1-10 (legge della Pasqua); Es 13, 11-16 (consacrazione dei primogeniti); Deut 6, 4-9 (amore di Dio su tutte le cose), Deut 11, 13-21 (compimento dei comandamenti). Quando nell’anno 70 d.C., venne distrutto il tempio di Gerusalemme, il popolo giudaico rimase unicamente con la Torah come punto di riferimento religioso e come centro di unificazione e identità dei giudei dispersi. La Scrittura è il libro del giudaismo perché è Parola di Dio e perché è il codice fondamentale della sua identità religiosa e culturale.

Gesù, il libro e il cristiano. Gesù, come buon giudeo, ascoltò e lesse la Torah scritta e orale in molteplici occasioni e celebrazioni religiose. Era familiarizzato con essa, perché in essa era stato educato per trent’anni, e in essa si vedeva riflesso, in virtù della coscienza che aveva di se stesso. Per questo, Gesù potrà dire senza esitazione alcuna nella sinagoga di Nazaret: "Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete appena udito" (vangelo). Dopo l’ascensione di Gesù ai cieli, i primi cristiani, grazie alla maggior comprensione del mistero di Gesù per opera dello Spirito, fecero di Gesù il libro vivente, il vangelo della nostra salvezza. In questo modo, il cristianesimo non è principalmente la religione del libro, ma la religione della persona di Gesù Cristo, libro sempre vivo che rivela agli uomini le vicissitudini e i tortuosi cammini della storia. Nella Scrittura cristiana (Antico e Nuovo Testamento), si fa presente e viva la persona di Gesù per tutti i credenti. Per questo, i primi cristiani, sia provenienti dal giudaismo, sia dal mondo pagano, non predicano la Torah, ma il Vangelo. Per questo, fin dagli inizi del cristianesimo ci sono carismi in rapporto con il libro della Scrittura: gli apostoli, che predicano il Vangelo che è Gesù, i maestri, che insegnano la continuità, discontinuità e superamento del Vangelo rispetto al libro della Torah, i profeti, che leggono gli avvenimenti della vita e della storia alla luce del Vangelo, libro vivente di Gesù, ecc. (seconda lettura). Nel corso dei secoli e dei millenni, i cristiani si sono ispirati e continuano ad ispirarsi al Vangelo (Antico e Nuovo Testamento), libro vivente di Gesù, come guida inequivocabile del loro essere e del loro agire credenti.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Lettura cristiana della Bibbia. Tutta la Bibbia è cristiana. L’Antico e il Nuovo Testamento sono i due polmoni con cui respirano la fede, la morale e la pietà dei cristiani. Marcione, nel secolo II, volle sopprimere l’Antico Testamento dal cristianesimo, ma la sua posizione venne rifiutata dalla Chiesa come eretica. Nella storia del cristianesimo, ci sono stati dei credenti o delle comunità cristiane che in certi campi della fede e della morale si sono fermati all’Antico Testamento; per esempio, nella concezione di Dio o della giustizia, nel rigorismo della legge, ecc. Come non c’è anima senza corpo, non ci può essere nemmeno Nuovo Testamento senza Antico. Per questo, è necessario che noi cristiani, fin da piccoli, fin dall’educazione di base, ci familiarizziamo con tutta la Bibbia: con l’Antico e con il Nuovo Testamento. Allo stesso tempo, è urgente che sappiamo leggere l’Antico Testamento "con occhi cristiani", in quanto in esso è già presente, in forma velata, il Nuovo Testamento. Poiché "tutta la Scrittura è un solo libro, e codesto libro è Cristo", ci insegna Ugo di san Vittore. Che grande compito hanno tra le mani i catechisti che preparano i bambini alla prima comunione e alla cresima! Quanto è importante che i catechisti di giovani e adulti sappiano guidarli a una lettura cristiana della Bibbia!

La Bibbia mi legge ed interpreta. La Bibbia è un libro sacro, che dà norma alla nostra fede e alla nostra vita. Pertanto, non può essere un libro di passatempo o di lettura superficiale, non impegnativa. La Bibbia non è un libro che si legge per conciliare il sonno la sera. La Bibbia è Parola che Dio rivolge personalmente a me quando la leggo. E a partire dal testo la Parola di Dio mi interpella, mi legge e mi interpreta. Mi interpella, cercando una risposta a ciò che mi dice mediante la lettura del testo. Mi legge, sviscerando i segreti del mio cuore, e suscitando il desiderio di cambiamento. Mi interpreta, dando un orientamento sicuro alla mia esistenza: al mio modo di essere, di pensare, di vivere, di agire nel mondo, e muovendo la mia volontà a seguirlo. Nel supermercato delle interpretazioni, non poche delle quali disumanizzanti, l’uomo corre il rischio di imbattersi nell’una o nell’altra interpretazione errata o dannosa. È un imperativo, pertanto, per noi cristiani, lasciarci interpretare dalla Parola del Dio vivo, poiché Essa è l’interpretazione più genuina ed autentica dell’uomo, in qualsiasi tempo e luogo questi si trovi. La domenica, nella liturgia della Parola, ascolto la Parola di Dio con la coscienza e il desiderio di essere letto ed interpretato da Essa? Come sacerdote, mi lascio interpretare dalla Parola di Dio prima di spiegarla ed interpretarla per la comunità?

 

 

 

 

Quarta Domenica del TEMPO ORDINARIO 4 febbraio 2001

Prima: Ger 1, 4-5.17-19, seconda: 1Cor 12,31 B 13,13; Vangelo: Lc 4, 21-30

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Gesù Cristo, Geremia, Paolo: Tre uomini con un’unica missione, il cui vertice è Gesù Cristo, pienezza della rivelazione e della missione salvifica di Dio. In effetti, Gesù è l’inviato del Padre per la salvezza dei poveri, senza distinzione alcuna tra giudei e gentili (vangelo). La missione profetica di Gesù si trova prefigurata in Geremia, il grande profeta di Anatot durante il primo quarto del secolo VI a.C., della cui vocazione e missione, ai tempi della riforma religiosa del re Giosia, e poi durante l’assedio e la caduta di Gerusalemme, tratta la prima lettura. Paolo, segregato fin dal seno di sua madre, prolunga nel tempo la missione profetica di Gesù, ponendo l’accento sull’amore cristiano, come il carisma che relativizza tutti gli altri e che costituisce la vera misura di tutto l’operare umano (seconda lettura).

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Caratteristiche della missione. Sono vari i caratteri che i testi liturgici mettono in risalto, trattando della missione profetica. Sottolineo quelli che considero di maggior rilevanza ed incidenza nel nostro tempo.

1. La missione viene da Dio. È Dio che dice a Geremia: "Prima di formarti nel grembo materno ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni" (Ger 1,5). Gesù nella sinagoga di Nazaret non attribuisce a se stesso la missione, ma la legge già profetizzata nelle Scritture, cioè, già prevista dallo stesso Dio. San Paolo, da parte sua, sa molto bene che ogni carisma proviene dallo Spirito di Dio, massimamente il carisma per eccellenza, che è quello dell’agape.

2. Una missione in doppia direzione. Da un lato distruggere, dall’altro edificare (Ger 1,10); da una parte, l’annuncio: proclamare la Buona Novella ai poveri, dall’altro la denuncia: nessun profeta è ben accolto nella sua terra (vangelo); da una parte, la svalutazione di tutto senza la carità, dall’altra, la carità come valore supremo (seconda lettura). È la dinamica della missione e la dinamica della vita cristiana, dai suoi inizi fino ai nostri giorni.

3. Una missione universale. Geremia è chiamato da Dio "profeta delle nazioni"; Gesù Cristo è stato unto dallo Spirito per aiutare i poveri, i prigionieri, i ciechi, gli oppressi, e per proclamare a tutti un anno di grazia del Signore, cioè, un giubileo. Se Dio è creatore e padre di tutti, tutti sono allo stesso modo oggetto del suo amore e della sua redenzione.

4. Una missione con dei rischi. Il rischio innanzitutto che gli uomini non ascoltino né accettino il messaggio di Dio, comunicato dal profeta. Il rischio anche di essere maltrattati, considerati nemici pubblici, ritenuti dei guastafeste e dei profeti di sventure. La biografia di Geremia è intessuta di episodi di questo genere. Gesù stette sul punto di essere lapidato dagli abitanti di Nazaret, e Paolo visse delle relazioni non poco tese con i cristiani di Corinto, quando scrisse loro la sua prima lettera.

5. Una missione senza timore e con la forza di Dio. Dio dice a Geremia: "Non avere paura di loro... Oggi io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese". Gesù, di fronte ai nazareni che vogliono gettarlo giù dal precipizio, ci dice san Luca, che "aprendosi il passo tra di loro, se ne andò". Che coraggio sovrumano e che potere di Dio nell’atteggiamento di Gesù! E Paolo, non mostra forse una forza divina, quando antepone l’agape cristiana alla scienza, alla povertà totale, alle fiamme, alla stessa fede?

6. Una missione che esige una risposta. Può essere una risposta di rifiuto, come nel caso di Geremia: "Essi lotteranno contro di te" (prima lettura). Può essere una risposta doppia, come nel caso di Gesù: da una parte, consenso ed ammirazione, dall’altra, indignazione e desiderio di gettarlo da un precipizio (vangelo). E Paolo, nella seconda lettura, proponendo ai corinzi il carisma della carità, non fa che chiedere loro di rispondere con generosità a detto carisma.

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

La missione cristiana, una provocazione. Per l’uomo, qualunque siano le circostanze, ogni proposta che venga da Dio è una provocazione, perché lo trae fuori dalla sua routine, dai suoi schemi mentali, dalla sua aurea mediocrità. Gesù provoca i nazareni, ferendo il loro orgoglio con il non fare a Nazaret i miracoli realizzati a Cafarnao, e li provoca ponendo fine ai privilegi giudei e dando altresì preferenza ai gentili sui giudei, come accade negli esempi che Gesù fa di Elia e di Eliseo. L’agape che Paolo propone alla Chiesa di Corinto è una provocazione maiuscola per questi greci educati nel culto della ragione e dell’eros. Anche essere e vivere oggi come cristiano è provocatorio, ma si tratta di una provocazione salutare. Si deve provocare insicurezza nella mentalità, perché si realizzi una vera conversione, un cambiamento di mentalità, una metanoia. Si deve provocare con la "debolezza" di ogni uomo, affinché acquisti rilevanza e senso in ogni vita umana la forza e il potere di Dio. Si deve provocare con le cianfrusaglie di felicità che gli uomini comprano al supermercato della società o della cultura, affinché aprano gli occhi all’autentica felicità che si trova in Dio e che Dio ci dà. Si deve provocare l’uomo nelle sue miserie e meschinità, affinché prenda coscienza della sua grandezza come immagine di Dio, come figlio di Dio. Se il cristiano non provoca né scuote l’uomo nel suo intimo, è segno che ha perso la forza revulsiva e mordente, ha perso la sua ragione di essere nella storia.

L’Ágape, misura di tutto. Un grave e frequente errore dell’uomo è confondere il contatto fisico o la relazione sessuale, o l’eros sentimentale, con l’amore, con l’agape. L’amore cristiano non è un momento passeggero, epidermico o sentimentale, effimero come le foglie di autunno, insoddisfacente come ogni "gioco" egoista o spesso sensuale. L’amore cristiano si riflette corporalmente e sentimentalmente, ma la sua più pura essenza è interiore, spirituale, divina. L’amore cristiano è un atteggiamento dell’anima che misura ogni oggetto, ogni scienza, ogni relazione, ogni attività, ogni avvenimento. È l’amore cristiano la misura delle tue relazioni con gli altri, della tua vita familiare, del tuo denaro, del tuo lavoro o professione, dei tuoi divertimenti? È l’amore cristiano, nella tua parrocchia o nella tua diocesi, il vero metro con cui si misurano tutte le altre realtà parrocchiali o diocesane? Se l’amore è la misura di tutto, la misura dell’amore è un amore senza misura. Quanto resta ancora da fare!

 

 

 

Quinta Domenica del TEMPO ORDINARIO 11 febbraio 2001

Prima: Is 6, 1-2.3-8; seconda: 1Cor 15, 1-11; Vangelo: Lc 5, 1-11

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il mistero della libera e gratuita scelta di Dio pervade le tre letture liturgiche. Isaia è eletto durante un’azione liturgica nel tempio di Gerusalemme: "Ho udito la voce del Signore che mi diceva: Chi invierò? (prima lettura). Pietro, da parte sua, percepisce la scelta divina in mezzo al suo mestiere di pescatore: "Non temere, da adesso sarai pescatore di uomini" (vangelo). Infine, Paolo, evoca l’apparizione di Gesù risorto, sulla via di Damasco, a lui, "il più piccolo degli apostoli... ma per grazia di Dio sono ciò che sono" (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Un Dio liberissimo nella scelta. Soltanto un Dio libero può fare appello alla libertà dell’uomo. Soltanto se Dio è libero, si può parlare di scelta, non di coazione. La Bibbia intera testimonia la sovrana libertà di Dio in tutte le cose e in ogni situazione. I testi liturgici attestano la libertà divina nella scelta degli uomini. Dio è liberissimo per scegliere la persona che vuole: Isaia, nato a Gerusalemme da famiglia agiata, probabilmente di stirpe sacerdotale; Pietro, proveniente da Betsaida, pescatore nel lago di Tiberiade; Paolo, originario di Tarso di Cilicia, con titolo accademico di rabbino, per un certo tempo persecutore della Chiesa di Cristo. Dio è liberissimo di scegliere nel modo e nel tempo che desideri. Isaia durante una liturgia nel tempio di Gerusalemme, mediante una teofania cultuale; Pietro, su una barca, dopo una pesca miracolosa, segno di una presenza divina; Paolo, sulla via per la città di Damasco, con il cuore ardente di odio verso i cristiani. Isaia, Pietro, Paolo, tre paradigmi della libertà di Dio nella scelta degli uomini per il grande compito di collaborare con Lui nella redenzione dell’umanità.

Scelta ed esperienza di Dio. Nei suoi misteriosi disegni, Dio ha voluto unire la scelta ad una esperienza forte di Dio da parte dell’eletto. I modi di compiere tale esperienza differiscono gli uni dagli altri, ma l’esperienza è comune ad ogni scelta. Questo significa che soltanto in codesta esperienza profonda, secondo età, circostanza, educazione e carattere, l’uomo può rendersi conto della scelta divina. In questa esperienza di Dio si percepisce con una lucidità solare, da una parte, la distanza e la trascendenza di Dio, e, dall’altra, l’indegnità dell’uomo. Isaia, da una parte, entra nel mistero di Dio, Re e Signore onnipotente, dall’altra, si sente perso ed impuro per vedere e parlare da parte di Dio (prima lettura). Pietro, davanti alla grandiosità della pesca, possibile soltanto per mezzo del potere di Dio, non ha altra reazione, se non esclamare: "Allontanati da me, Signore, che sono un peccatore" (vangelo). L’apparizione di Gesù risorto a Paolo lo fa cadere a terra da cavallo, restare cieco, umiliarsi di fronte al potere di Dio, e, infine, ricevere il battesimo dalle mani di Anania. Il Dio tre volte santo non può irrompere nella storia, senza che l’uomo sia scardinato dalle sue sicurezze umane e sia invitato a porre ogni fiducia nello stesso Dio.

L’unica risposta degna. L’uomo, che Dio ha scelto, può dare diverse risposte, ma ce n’è soltanto una degna di Dio e dell’uomo: L’umile accettazione. Abbiamo, anche nei testi liturgici di oggi, tre paradigmi differenti di un unico atteggiamento: Isaia, alla domanda di Dio: "Chi invierò?", risponde: "Eccomi, manda me". Pietro, ascoltando Gesù che lo chiama ad essere "pescatore di uomini", insieme con i suoi compagni di lavoro, reagisce generosamente: "Lasciarono tutto e lo seguirono". Non meno generoso è l’atteggiamento di Paolo, dopo la caduta a terra e dopo aver udito la voce di Gesù risorto. Egli domanda al suo interlocutore: "Che cosa vuoi che faccia?". Poi, nella prima lettera ai corinzi (seconda lettura), ricordando codesta visione di Gesù, da una parte si considera il minore degli apostoli ed indegno di portare questo nome, ma, dall’altra, è convinto che "ho faticato più di tutti gli altri; non io, però, ma la grazia di Dio che è con me".

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Un Dio che ha bisogno degli uomini. Nella storia della salvezza appare chiaro che Dio ha voluto salvare gli uomini per mezzo di altri uomini. L’unico Salvatore è Dio, ma gli uomini sono le sue mani per distribuire la salvezza a tutti coloro che la chiedano, sono le sue labbra per predicarla nelle migliaia di lingue del nostro pianeta, sono i suoi piedi per portarla a tutti gli angoli della terra, soprattutto laddove ancora non la conoscono, anche se la anelino vivamente. È un gesto imponente della condiscendenza di Dio nei confronti dell’umanità, del suo infinito amore fino ad abbassarsi ad essere mendicante dell’uomo! Dio mendica da te, sacerdote o laico, religioso o volontario, il tuo aiuto. Glielo negherai? Mendica da te, giovane, la tua gioventù, per offrire la sua salvezza ai giovani del mondo, e forse non soltanto la tua gioventù, ma tutta la tua vita per salvare l’uomo, per liberarlo da se stesso, per nobilitare la sua vita di figlio di Dio. Mendica da te, adulto, la tua maturità nello stato di vita in cui ti trovi, perché collabori con Lui nella salvezza di te stesso, nella salvezza di coloro che vivono nel tuo ambiente famigliare, professionale, sociale, culturale. Mendica da te, pensionato, anziano, il tuo tempo, la tua esperienza umana e spirituale, la tua saggezza della vita, perché tu la trasmetta agli altri, perché tu contribuisca a costruire un mondo più umano e più cristiano. Ascolteremo, noi uomini, il grido di Dio che chiede il nostro aiuto?

Libertà di Dio, disponibilità dell’uomo. Dio fa appello liberamente a uomini dotati di libertà, una libertà che Egli ci ha dato creandoci e che dobbiamo esercitare per essere autentici, per essere veramente uomini. Dio non forza l’uomo, né lo farà mai, ad essere e a comportarsi come tale. L’uomo può usare la sua libertà per degradarsi come le bestie, per rinnegare lo stesso Dio che gli diede la vita, per costruire la sua esistenza sull’egocentrismo, per vivere senza speranza. Questo tale non sarà disponibile davanti alla libertà di Dio. Dio vuole che si realizzi come uomo, che si faccia uomo, e lui non è disponibile, preferisce rotolarsi nella terra fangosa dei quadrupedi. Dio gli si propone come Signore della sua vita, ed egli non è disponibile, anela piuttosto ad essere lui il suo proprio signore e padrone. Dio lo chiama a costruire la sua esistenza e la sua felicità sulla donazione, sul dono di sé, ma lui non è disponibile, non ha orecchi se non per le sirene incantatrici del suo ego, che lo attraggono e soffocano in lui ogni altruismo, ogni umana fraternità. Dio vuole infondergli una speranza di eternità, di vittoria della vita sulla morte, e lui non è neppure disponibile, è tanto attaccato al tempo e alla materia che considera perfino impensabile l’eternità, un aldilà del tempo, una vita felice con Dio e con i figli di Dio nel cielo. Che cosa posso fare per essere sempre disponibile per Dio, perché anche altri siano ugualmente disponibili?

 

 

 

Sesta Domenica del TEMPO ORDINARIO 18 febbraio 2001

Prima: Ger 17, 5-8; 1Cor 15, 12.16-20; Vangelo: Lc 6,17.20-26

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Nelle letture sembra intravedersi un’antitesi. Si contrappongono la benedizione per chi confida in Dio, alla maledizione per chi confida nell’uomo (prima lettura, salmo responsoriale). Luca, nel vangelo, oppone la beatitudine dei poveri e affamati, di coloro che piangono, ai lamenti dei ricchi e dei soddisfatti, di coloro che ridono e di coloro che sono lodati da tutti. Infine, nella seconda lettura, si ha una contrapposizione tra coloro che non credono alla resurrezione dei morti (alcuni corinzi), e coloro che credono in essa, giacché Cristo è risorto (Paolo e tutta la tradizione cristiana).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Benedetto chi confida nel Signore. La vita umana è un esercizio continuo di fiducia. I figli hanno fiducia nei genitori, e i genitori nei figli. Lo sposo ha fiducia nella sposa, e viceversa. L’alunno confida nel maestro, il passeggero nel pilota dell’aereo... Nella vita spirituale tutta la fiducia si deve porre in Dio, perché tale vita è completamente opera di Dio, gli uomini sono soltanto dei collaboratori. Posso aver fiducia in un sacerdote, ma in quanto rappresenta il potere, la bontà, la misericordia di Dio; posso porre la mia fiducia in una religiosa, in un catechista, nella Parola di Dio, nei sacramenti, ma non è tanto in essi, quanto nel Dio che attraverso di essi mi parla, nel Dio che essi mi comunicano. Se ponessi la mia fiducia soltanto nel sacerdote, nella religiosa, nel catechista, nella Bibbia, nei sacramenti, senza giungere fino a Dio, prima o poi tale fiducia si spegnerebbe, resterei deluso da tutti loro, la mia vita perderebbe la sua bussola e la sua rotta, e comincerei ad essere un giocattolo di me stesso e dell’ambiente che mi circonda. La liturgia di oggi ce lo insegna mediante antitesi, a prima vista sconcertanti, ma che hanno un unico fondo: fiducia in Dio o fiducia nei mezzi umani. Il povero, l’affamato, chi piange e chi è odiato, è chiamato "beato" perché, non avendo sicurezze umane, pone tutta la sua fiducia nel Signore (vangelo). La prima lettura ci dice che chi confida nel Signore è come un albero piantato vicino all’acqua; il suo fogliame si mantiene verde, in anno di siccità non cessa di dare frutti. Cioè, Dio gli infonde costantemente vita, gioventù, dinamismo, che fruttificano in opere buone. E chi può credere nella resurrezione dei morti, se non chi confida totalmente nel fatto che Dio ha risuscitato Gesù Cristo, come primizia di coloro che dormono il sonno della morte? (seconda lettura).

"Maledetto" chi confida nell’uomo. Conviene chiarire che qui non si parla dell’uomo "come mediatore" tra Dio e gli uomini, ma ci si riferisce alle qualità, alle forze e alle sicurezze umane, ai mezzi umani, siano i miei, siano quelli di altri. Nel campo spirituale, il porre la fiducia nelle "cose umane" termina in sicuro fallimento. Per questo il ricco, il soddisfatto, colui che ride e chi è lodato da tutti, è chiamato "maledetto", non perché sia ricco, soddisfatto... , ma perché pone la sua sicurezza nella propria ricchezza, nella sua soddisfazione, nel suo divertimento, nella lode umana; cioè, confida in sé e nelle sue cose, e non in Dio (vangelo). Allo stesso modo, colui che confida nell’uomo o in se stesso è come un cardo nella steppa, secco e senza frutto. Ossia, una vita sterile, improduttiva per il Regno di Cristo. Nella prima lettera ai corinzi, san Paolo parla di alcuni che non credono alla resurrezione dei morti. Perché non credono, se non perché confidano troppo nei consigli della sapienza umana, della propria intelligenza, dell’evidenza dei sensi?

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Una nuova scala di valori. I valori sono come il cemento di una vita. Quali sono quei valori che sono di moda oggi in molti uomini del nostro tempo, e nei quali essi pongono, se non tutta, quasi tutta la loro fiducia? Un valore, per esempio, è eccellere sugli altri, battere dei records, entrare nel libro dei Guinness. I campi per eccellere sono molto vari: gli sport, la musica, la scienza, l’invenzione tecnologica, la letteratura, la medicina, perfino il crimine, o qualsiasi altra cosa della vita reale degli uomini. L’importante è emergere, richiamare l’attenzione, essere visto dagli altri, apparire in televisione o sui giornali. Perché non "eccellere" nella fiducia in Dio? Perché non confidare in Dio, più che nella propria eccellenza musicale, scientifica, letteraria, sportiva o criminale?

Un altro valore della nostra società è la salute. La salute è un gran bene, un dono di Dio, ma non può intronizzarsi come regina di ogni attività e di ogni altro valore. Si può sacrificare la coscienza alla salute? È degno dell’uomo il "culto del corpo", trascurando con questo il coltivare lo spirito? È tanto importante la salute di una donna, al punto che ad essa venga immolata la vita dell’essere che porta in grembo? Ma la salute è l’unica, la vera fonte della felicità? Non è forse un bene che si deteriora e finisce? Non è l’eutanasia l’ultima conseguenza dell’eccessiva valutazione sociale della salute? E che senso ha, allora, il dolore, la malattia, soprattutto quella cronica o quella terminale? Confidare ciecamente nella salute è confidare in un fondamento inconsistente. Come magnificamente canta il salmista: "Avrò fiducia nel Dio della mia salute, della mia salvezza!". Esaminiamo i nostri valori, quello in cui poniamo la nostra fiducia e sicurezza nella vita. Dovremo cambiare la nostra scala? Si dovrà fare, forse, qualche aggiustamento?

Tra realtà e speranza... La beatitudine, la felicità di chi confida nel Signore (i poveri, gli affamati, quelli che piangono, quelli odiati dagli uomini...), è una realtà già qui sulla terra, o piuttosto una proiezione per l’eternità nel cielo? In poche parole: Può, un uomo che soffre la povertà, la malattia, il disprezzo.. essere felice, se confida nel Signore? La risposta è chiaramente affermativa. Ci sono milioni di uomini e donne, nei conventi e fuori di essi, che vivono alla giornata, senza conto in banca, "dell’elemosina che ricevono", e che Dio rende felici nella loro povertà. Evidentemente, tale felicità sarà sempre limitata, piccola, in attesa della felicità di giungere a possedere eternamente Dio, la sua vera ricchezza. Ci sono migliaia e migliaia di infermi che soffrono, alcuni con dolori indicibili, a cui Dio regala un sorriso sempre fresco e stimolante. È chiaro che la perfezione di tale sorriso avrà luogo nel cielo, quando potranno abbracciare definitivamente il Dio della loro consolazione. Ci sono molti esseri umani che sono stati calunniati, dimenticati, vessati dai loro fratelli, e non portano alcun rancore, e sanno perdonare, ed accumulano nel loro intimo una pace e una beatitudine inimmaginabili. Pace e beatitudine che otterranno il loro coronamento nell’altra riva della vita, quando trionferà la giustizia e la verità... Sembra chiaro che le beatitudini evangeliche non sono soltanto per viverle nell’ "aldilà"; sono un’esperienza che si vive tra la realtà e la speranza.

 

 

Settima Domenica del TEMPO ORDINARIO 25 febbraio 2001

Prima. 1Sam 26, 2.7-9.12-13.22-23; seconda. 1Cor 15, 45-49; Vangelo: Lc 6, 27-38

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Il punto di riferimento della liturgia di oggi sembra essere la generosità. Generosità di Davide nei confronti di Saul, che lo perseguitava per ucciderlo, impedendo ad Abisai di dargli la morte (prima lettura). Generosità del cristiano verso tutti gli uomini, fino a giungere ad amare i "nemici" (vangelo), imitando in questo la misericordia del Padre celeste. Infine, generosità di Gesù Cristo che, essendo spirito vivificante per mezzo della sua resurrezione, ci rende tutti partecipi della sua condizione spirituale e celeste (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

La logica dell’equivalenza. Nella Bibbia questa logica appare sotto due formule diverse. La prima si situa nell’ordine della giustizia verso il male ricevuto. È la legge del taglione: "Occhio per occhio, dente per dente" (Es 21,24). Quando venne formulata per la prima volta, significò un passo avanti dalla vendetta, che chiedeva di rendere il doppio, alla giustizia, che chiedeva equità nel restituire il male ricevuto. Tale formulazione non è cristiana, poiché Gesù ci insegna: "Non rendere male per male" (cf Mt 5, 38-42). Purtroppo, dopo venti secoli di cristianesimo, ci sono non pochi cristiani che continuano ad applicare la legge del taglione. La seconda formulazione la troviamo nel vangelo di oggi: "Trattate gli altri come volete che essi trattino voi". Nell’Antico Testamento, questa "regola d’oro" viene formulata negativamente: "Non fare a nessuno ciò che dispiace a te" (Tb 4,15). La formulazione di san Luca è positiva, e non si situa sul piano della giustizia, ma su quello dell’amore. È una regola molto buona, perché tutti vogliamo il meglio per noi. Si potrebbe, pertanto, formulare in quest’altro modo: "Se tu vuoi essere trattato da tutti nel miglior modo possibile, tratta tutti allo stesso modo". È una formulazione pienamente cristiana, ma ancora imperfetta ed incompleta. Imperfetta, perché il punto di riferimento è l’io, l’uomo. Incompleta, perché l’espressione "gli altri" si riferisce, almeno nella mentalità dei contemporanei di Gesù, ai giudei, ed esclude, pertanto, i non giudei ed anche i nemici. La logica dell’equivalenza nell’ordine dell’amore è cristiana, ma la radicalità della nostra fede supera la logica dell’equivalenza e giunge fino alla logica del "di più".

La logica del "di più". In una certa maniera, ci sono figure dell’Antico Testamento che vivono nella logica del di più, anche se la formulazione di questa logica è propria di Gesù Cristo. La prima lettura, in effetti, espone un gesto veramente generoso di Davide verso il re Saul, che lo stava perseguitando a morte: Avendo occasione di farla finita con lui, non lo fa "perché Saul è il consacrato di Javeh". La logica del di più la formula Gesù in termini umanamente sconcertanti: "Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi calunniano" (Lc 6,27-28) e: "Voi, invece, amate i vostri nemici, fate il bene e prestate senza sperare niente in cambio" (Lc 6,35). La mente umana chiede di odiare i nemici, Gesù ci chiede di amarli. La mente umana chiede di fare il male a chi ci odia, Gesù chiede che gli facciamo il bene. La mente umana chiede di maledire chi ci maledice, Gesù chiede che lo benediciamo. La mente umana chiede di reclamare il prestito che si è fatto a qualcuno, Gesù ci chiede di prestare, anche se non ci restituiranno quanto abbiamo prestato. La mente umana chiede che restituiamo calunnia per calunnia, Gesù ci chiede di restituire, per calunnia, preghiera. Ecco l’essenza più pura del cristianesimo! A questa scuola di cristianesimo dobbiamo andare tutti noi cristiani, perché penso che ci restino ancora molte lezioni da imparare e da vivere. Nella seconda lettura ci troviamo nella logica del "di più", della generosità, ma in una dimensione nuova, la dimensione dell’eternità. Cristo risorto, vincitore della morte, prodiga a noi la logica del di più, rendendoci partecipi della sua vita di risorto, cioè, concedendoci il dono di vincere la morte e di entrare a vivere in un mondo retto dalla vita e dallo Spirito di Dio. Chi vive l’essenza del cristianesimo, che è la carità, ha spalancate le porte della nuova vita.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Per il cristiano non ci sono nemici, solo fratelli. La legge vigente nel cristianesimo è la legge della fraternità. Tutti siamo fratelli, nell’ordine della creazione, perché tutti abbiamo un medesimo Creatore e Signore, che ci ha fatto a sua immagine e somiglianza. Tutti siamo fratelli nell’ordine della Redenzione, perché Gesù Cristo ha redento tutti noi, mediante il suo sangue versato sulla croce, concedendoci la grazia di giungere ad essere figli di Dio. Da questa fraternità universale nessuno è esente, e dove c’è fraternità non può esserci inimicizia. Al giorno d’oggi, ci sono uomini che obiettivamente possiamo chiamare "nemici", in quanto si oppongono ai cristiani o li rifiutano, o non permettono loro di praticare la propria fede, né di diffonderne la dottrina. Essi considerano i cristiani nemici dello stato, approfittano di qualsiasi occasione per criticare il cristianesimo, si fanno beffe, in privato o in pubblico, dei segni sacri per i cristiani, ecc; ma soggettivamente, il cristiano non li considera nemici, sono fratelli, e per questo li perdona, li discolpa, li ama, prega per loro. In definitiva applica il principio che ci insegna san Paolo: "Non ti far vincere dal male; piuttosto, vinci il male con la forza del bene" (Rm 12,21). Nella vita quotidiana familiare, parrocchiale, professionale, questo principio ha innumerevoli applicazioni ed occasioni per venire praticato. Esaminati. C’è qualcuno che consideri "nemico", perché ti ha fatto un gioco sporco, perché ha cambiato partito politico o squadra di calcio, perché ha ottenuto, in vece tua, un posto di lavoro migliore, perché pensa in certe cose in modo differente dal tuo? Convinciti che, per essere cristiano, non devi aver nemici, ma fratelli.

La vera rivoluzione della storia. Nel corso dei secoli, si sono realizzate numerose rivoluzioni: politiche, per esempio il passaggio dall’impero romano all’impero dei "barbari"; sociali, come l’abolizione della schiavitù; economiche, come il passaggio dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione elettronica; religiose, culturali, artistiche, ecc. Ogni rivoluzione porta con sé un cambiamento di paradigma, di modello nei modi di vita e nei comportamenti degli uomini. Al di sopra di tutte queste rivoluzioni effimere, divorate lentamente o rapidamente dal tempo, sussiste e persiste nella storia una rivoluzione permanente, che è quella cristiana. Nella sua essenza, è una rivoluzione autentica e non superabile, perché si è realizzata e continua a realizzarsi con l’Amore, vero motore della storia ed ultimo destino dell’umana esistenza. Chi sa amare, chi non si stanca di amare, rivoluziona la sua "piccola storia" di familiari, amici, vicini, compagni di club e di lavoro... e , a partire da quella, rivoluziona la grande storia dell’umanità. Il suo nome non apparirà mai nei grandi libri di storia, nemmeno sui giornali, ma con il suo amore sta rinnovando continuamente l’uomo, sta collaborando alla "rivoluzione cristiana".

 

 

 

Mercoledì delle CENERI 28 febbraio 2001

Prima: Gl 2, 12-18; seconda. 2Cor 5, 20-6,2; Vangelo: Mt 6, 1-6. 16-18

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Vi supplichiamo, in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio", ci esorta san Paolo nella seconda lettura (2Cor 5,20). Riconciliazione è parola chiave nella liturgia del mercoledì delle ceneri. Riconciliazione significa cambiamento "a partire dall’altro", per questo, implica la conversione a Dio e a partire da Dio, alla quale chiama il profeta Gioele nella prima lettura: "Tornate al Signore, vostro Dio". Gesù nel vangelo interiorizza le pratiche religiose e penitenziali del giudaismo: l’elemosina deve essere nascosta; il digiuno, gioioso; e la preghiera, umile. "E il Padre, che vede ciò che è nascosto, ti ricompenserà".

MESSAGGIO DOTTRINALE

La priorità del cuore. Con il termine cuore si vuol dire l’interiorità, non in opposizione, ma come origine di ogni azione esteriore di riconciliazione e penitenza. Per questo, non parliamo di esclusività, ma di priorità. Con una espressione molto efficace, il profeta Gioele propende per codesta priorità: "Stracciate il vostro cuore, non le vostre vesti" (prima lettura). È evidente che il profeta non intende l’espressione in modo escludente, giacché nel versetto 15 continua: "Promulgate un digiuno, purificate la comunità, tra l’atrio e l’altare piangano i sacerdoti", tutte azioni esteriori. Il testo evangelico pone davanti ai nostri occhi Gesù, che porta al massimo grado di interiorità le tre pratiche tipiche della religione giudaica - e possiamo dire di ogni religione, compresa quella cristiana - : 1) L’elemosina, che oggi potremmo tradurre con carità, solidarietà, assistenza sociale, volontariato, cioè, tutte le forme possibili di aiuto al bisognoso. Gesù ci insegna lo stile proprio di fare carità: in segreto, senza alcuna ostentazione, cercando unicamente di compiacere Dio e di compiere nel mondo la sua santissima volontà. 2) La preghiera, cioè, tutto l’insieme di attività spirituali che legano l’uomo intimamente a Dio. Dalla santa Messa alla preghiera privata, dalla meditazione all’orazione liturgica, dal sacramento della penitenza alle diverse forme di religiosità popolare. Per il cristiano ciò che conta è che, qualsiasi sia l’attività spirituale, sia un vero incontro con Dio Padre nell’intimità del cuore. 3) Il digiuno, ossia, tutto ciò che implichi rinuncia a se stesso, distacco da sé per guadagnare in disponibilità nei confronti di Dio e del prossimo. Possono essere i sacrifici volontari, le piccole noie della vita di ogni giorno, l’assumere con decisione e coraggio le prove della vita, la lotta costante e coraggiosa contro le tentazioni... Qui ciò che importa è la gioia spirituale con cui si affrontano tutte queste situazioni, una gioia che si ripercuote nell’atteggiamento e nel comportamento verso Dio e verso gli uomini.

Ministri di riconciliazione. "Siamo ambasciatori di Cristo, ed è come se Dio stesso vi esortasse per mezzo di noi", ci dice san Paolo nella seconda lettura, ed aggiunge: "Giacché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio". San Paolo ci mostra la dimensione ecclesiale della riconciliazione. È Dio che pone nel cuore dell’uomo il dono della riconciliazione (lasciatevi riconciliare da Dio), ed è l’uomo colui che lo accoglie (o lo rifiuta), ma la Chiesa è lo strumento scelto dallo stesso Dio affinché ci ricordi, per mezzo dei suoi ministri, questo dono straordinario, ed è allo stesso tempo la mediatrice voluta da Dio di ogni riconciliazione. Per questo, per la Chiesa è un’esigenza della sua fedeltà a Dio tanto il predicare dovunque e in tutti i modi possibili la riconciliazione con Dio e tra gli uomini, quanto l’amministrare efficacemente codesta riconciliazione per mezzo del sacramento della penitenza e del perdono. La liturgia di oggi è un avvertimento nitido ai vescovi e ai sacerdoti, affinché siamo sempre preparati a promuovere la riconciliazione, e disponibili a riconciliare l’uomo con Dio e con i suoi fratelli per mezzo del sacramento.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Globalizzare la riconciliazione. Con questo termine si cerca di estendere la riconciliazione a tutti gli uomini, in tutte le latitudini e in qualsiasi strato della società. Come cattolici, dobbiamo riconciliarci innanzitutto con noi stessi, con la nostra coscienza posta davanti a Dio e alla sua volontà. Allo stesso tempo, dobbiamo cercare la riconciliazione entro la stessa Chiesa cattolica, dato che una persona o una comunità non riconciliate non potranno nemmeno riconciliare altri. Sotto l’impulso e la guida del Santo Padre e dei nostri Vescovi, dobbiamo promuovere la riconciliazione con tutte le comunità cristiane separate della Chiesa cattolica: con la nostra preghiera, con la nostra testimonianza, con la nostra solidarietà., con il nostro aiuto materiale o spirituale. Si deve promuovere allo stesso modo la riconciliazione con i membri di altre religioni (ebrei, musulmani, buddisti, induisti,...). È probabile che entro le nostre stesse parrocchie ci siano membri di altre Chiese cristiane, o di altre religioni: dovrà iniziare per mezzo loro l’impulso e il desiderio di riconciliazione. Come? Cercando di realizzare le forme che i nostri vescovi o parroci ci segnalano: ma altresì, lo Spirito ispirerà a ciascuno altri modi concreti, personali o collettivi. La riconciliazione globale comprende tutti i settori della vita, oltre a quello religioso: riconciliazione del Nord più sviluppato e del Sud, che lo è di meno, a livello mondiale o a livello nazionale; riconciliazione tra laici, non poche volte ostili ad ogni senso religioso, e credenti, che a volte esagerano i comportamenti laici; riconciliazione tra gli emigrati, provenienti da paesi in guerra o in condizioni economiche minime, e gli abitanti dei paesi che li accolgono; riconciliazione negli stadi di calcio tra i tifosi di una squadra o dell’altra, della squadra nazionale di diversi paesi... Una cosa inoltre resti chiara: la globalizzazione della riconciliazione esclude qualsiasi conseguenza negativa.

La riconciliazione permanente. Il fenomeno della globalizzazione reclama una riconciliazione permanente, in costante riciclaggio. L’uomo, le comunità umane non si riconciliano una volta per sempre, ma hanno necessità di mantenersi in atteggiamento continuo di riconciliazione. Nella riconciliazione succede la stessa cosa che accade in amore: se non lo si alimenta, si raffredda, diventa abitudine, e muore. Giorno dopo giorno si deve rinnovare l’atteggiamento dell’anima verso la riconciliazione, e ci si deve esercitare in atti di riconciliazione, per quanto siano piccoli, per mantenerla viva e per farla crescere. Quante occasioni hai al giorno di praticare la riconciliazione? Non lo so, ma sicuramente più di una. Non lasciarla passare. Traine profitto. Per giungere a creare nell’anima un atteggiamento di riconciliazione, si richiede di averla praticata, senza stancarsi, in molte occasioni. Perché non riflettere, al termine della giornata, se hai avuto qualche opportunità di riconciliarti con Dio, perché hai commesso qualche mancanza, o sei stato meno generoso con Lui? Se hai avuto qualche occasione di praticare la riconciliazione con gli altri (familiari, vicini, emigranti, cristiani di altre Chiese, mendicanti...) e se hai saputo approfittarne? Una riflessione che può cambiare abbastanza la tua vita e quella di chi ti sta intorno!

 

 

Seconda Domenica di QUARESIMA 11 marzo dell’anno 2001

Prima: Gen 15, 5-12.17-18; seconda: Fil 3, 17-4, 1 Vangelo: Lc 9, 28-36

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Suggerisco, come centro unificatore delle letture, il concetto di pienezza. Gesù Cristo nel vangelo rivela la pienezza della Legge e della Profezia, apparendo ai discepoli tra Mosè ed Elia; rivela allo stesso modo la sua pienezza più che umana, che risplende nel suo essere sfolgorante e trasfigurato. In Gesù Cristo giunge anche alla sua pienezza la promessa straordinaria fatta ad Abramo (prima lettura). Nella seconda lettura, san Paolo ci insegna che ai cristiani, cittadini del cielo, è comunicata la pienezza di Cristo, che "trasformerà il nostro misero corpo in un corpo glorioso come il suo".

MESSAGGIO DOTTRINALE

Gesù Cristo, pienezza sublime. Sappiamo che il termine "pienezza" è relativo alla capacità dell’oggetto o della persona a cui si riferisce. D’altra parte, non è soltanto un termine con valore quantitativo (capacità di un bicchiere o di una giara), ma principalmente con valore qualitativo (pienezza dell’amore, della salvezza...). Infine, il concetto di pienezza non si trova al margine della storia, ma è intimamente legato ad essa (pienezza di un ciclo storico, di un impero...). Quanto detto ci offre un aiuto per cogliere meglio che cosa significa che Cristo è pienezza sublime. Innanzitutto, la sua pienezza umana è giunta al massimo grado nella trasfigurazione, in cui lo splendore della divinità ha penetrato tutta la sua umanità, e una voce dal cielo lo confessa "suo Figlio prediletto". In codesta medesima esperienza della trasfigurazione, Gesù raggiunge la pienezza della rivelazione, concentrata in due figure dell’Antico Testamento, rappresentanti delle due grandi parti in cui si divideva la rivelazione divina: la Legge o tradizione scritta, il cui rappresentante è Mosè, e la profezia o tradizione orale, rappresentata da Elia. Gesù Cristo è il vertice verso il quale si orientavano sia la Legge che la profezia. Cristo è anche la pienezza della promessa fatta ad Abramo: benedizione, terra, fecondità. In effetti, il Padre ci ha benedetto con ogni genere di benedizioni in Cristo, ci ha fatto partecipi di un cielo nuovo e di una terra nuova, ha fatto di noi un popolo nuovo fecondato con il suo sangue redentore. Gesù Cristo è, allo stesso modo, pienezza della storia. La marcia della storia è giunta al termine nella vita storica di Gesù di Nazaret. Prima della sua presenza storica, tutti gli avvenimenti marciavano e guardavano verso di Lui; dopo la partenza da questo mondo, Gesù è il portabandiera della storia, e gli uomini marciano dietro di lui con la coscienza di non poter sorpassarlo nella sua pienezza umana e divina. Gesù Cristo, infine, riempie con la sua pienezza non soltanto la storia, ma anche l’aldilà della storia. In effetti, la pienezza di Cristo, di cui già partecipiamo nel tempo per mezzo della grazia, ci inonderà e ci darà la pienezza corrispondente alla nostra capacità di essere figli nel Figlio. Il cielo, in realtà, non è altro che la pienezza del Cristo presente in ciascuno dei salvati.

La pienezza di Cristo ci interpella. Interpella lo stesso Abramo, perché la promessa e l’alleanza di Dio con lui avrà compimento pieno soltanto in Cristo. Abramo credette in Dio, gli obbedì, e in questo modo aprì le porte della storia a Cristo. Interpella Mosè, il cui Decalogo anela, per così dire, alla sua pienezza nella Legge di Cristo, coronamento del decalogo e di ogni legge umana. Interpella Elia, il fedele interprete della storia, come lo saranno tutti i veri profeti, il cui significato più genuino e definitivo sarà dato da Cristo, a partire dal legno della croce e della salvezza; Cristo, in effetti, non è un interprete qualsiasi di una particella della storia, ma l’interprete ultimo e definitivo della storia, di tutta la storia umana. Interpella Pietro, Giovanni e Giacomo, ai quali, in relazione alla loro missione futura, venne concessa un’esperienza singolare del mistero di Cristo; in essi, interpella tutti noi, discepoli ed apostoli. Interpella Paolo e i cristiani, che, essendo stati elevati da Cristo a cittadini del cielo, debbono vivere in conformità con ciò che sono, e non trasformarsi in "nemici della croce di Cristo". Cristo, dalla cui pienezza tutti abbiamo ricevuto, interpella ogni uomo, perché è lui l’uomo in pienezza ed è lui, allo stesso tempo, la pienezza dell’uomo.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto... La pienezza totale di Cristo e la partecipazione di ogni uomo a tale pienezza non se la sono inventata né il Papa, né i vescovi; fa parte della rivelazione cristiana. Se a un buddista, a un ebreo, a un musulmano venisse chiesto di rinunciare a parte dei loro libri sacri, o ad una dottrina che essi considerano rivelazione divina, come reagirebbero? Si può rinunciare a qualcosa in cui lo stesso Dio è impegnato? A noi, cristiani, viene richiesto di essere i primi nel mostrare coerenza con la rivelazione cristiana, che comprende l’Antico e il Nuovo Testamento. Noi cristiani, per coerenza con la nostra fede, dobbiamo essere rispettosi con i credenti di altre religioni, ma dobbiamo chiedere anche ai non cristiani il rispetto dovuto alla nostra fede. Sarebbe una buona iniziativa dai parte dei cristiani spiegare, in modo semplice e convincente, la pretesa cristiana della pienezza di Gesù Cristo: che cos’è ciò che significa, come influisce nella relazione con le altre religioni, in che modo spiega la salvezza universale voluta da Dio, come possiamo conoscerci meglio gli uni gli altri per evitare così malintesi, confusione, manipolazione... Si parla di dialogo ecumenico, interreligioso, e questo è stupendo; tuttavia, è ben risaputo che la base di ogni dialogo non può essere altra se non il rispetto della persona e dell’identità dell’interlocutore. Diciamo la verità cristiana con carità, con rispetto. Soltanto allora potrà cominciare il dialogo autentico e fruttuoso con coloro che cercano ed amano la verità.

Una vita trasfigurata. L’esperienza di Pietro, Giovanni e Giacomo durò soltanto un attimo. I suoi effetti, tuttavia, continuarono per tutta la vita. Non fu qualcosa di indimenticabile e di efficacemente trasformante? Anche nella nostra vita ci sono stati e potranno esserci momenti di "trasfigurazione", di esperienza nuova e gratificante di Dio. A volte, tale esperienza di Dio si prolunga per un certo tempo o perfino una vita intera, ma con non poca frequenza passa l’intensità con cui si è esperimentato Dio. Deve, ciononostante, lasciare la propria impronta. Questa impronta, io la chiamo "vita trasfigurata". In altre parole, vita di chi ha visto e vede il volto di Dio nelle realtà e negli avvenimenti dell’esistenza. Vede il volto di Dio in quel bambino sorridente ed attivo, come lo vede allo stesso modo in quell’altro piccolo handicappato. Vede Dio negli occhi trasparenti di una giovane dall’anima pura, che ha consacrato a Dio la sua intera vita; ma lo vede anche negli occhi di una prostituta, obbligata a questo lavoro forzato per sopravvivere e sostenere genitori e fratelli. Scopre il Vivente nelle specie del pane e del vino, non meno che nelle scintille di redenzione che saltano dalla pietra focaia di una coscienza indurita e peccatrice. Tutto viene trasfigurato, perché tutto porta con sé in qualche modo il marchio originale: made by God.

 

 

 

 

 

 

 

 

Prima Domenica di QUARESIMA 14 marzo 2001

Prima. Deut 26, 4-10; seconda: Rm 10, 8-13; Vangelo: Lc 4, 1-13

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Non è difficile scoprire, nelle tre letture di oggi, una confessione di fede o piccolo "credo". Il credo del popolo israelita, professato nel tempio, durante la festa delle Primizie: "Mio padre era un arameo errante... Il Signore ci diede questa terra che emana latte e miele. Per questo, traggo le primizie di questa terra che il Signore mi ha dato" (prima lettura). Le tre risposte che Gesù dà a satana nel testo evangelico costituiscono una confessione di fede esistenziale da parte di Gesù: "Non di solo pane vive l’uomo", "Adorerai il Signore tuo Dio", e "Non tentare il Signore tuo Dio". Infine, nella seconda lettura si trova una formula molto concisa ed antica di professione cristiana: "Gesù è il Signore", che Dio ha risuscitato dai morti.

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

La confessione di fede di Gesù. In un momento tanto esistenziale, come è la tentazione, e in certe circostanze tanto favorevoli per cadervi, Gesù esce vincitore mediante il ricorso alla Parola del Dio vivo. Di fronte alla prima tentazione, di carattere materiale ed economico (fa’ che queste pietre si trasformino in pane), Gesù confessa che ci sono beni superiori all’alimento, e che non si può ridurre l’essere umano a un oggetto di consumo, ad un homo oeconomicus, senza trascendenza. Agli attacchi diabolici nel campo politico, che lo invitano ad usare mezzi illeciti e ingiusti per ottenere potere e influenza (tutti i regni della terra io ti darò...), e a lasciare al margine la volontà di Dio, Gesù confessa con vigore che non è disposto a lasciarsi ingannare dall’ambizione di potere, e che Dio è per lui un assoluto e basta ("Adorerai il Signore tuo Dio"). Quando, nella terza tentazione, satana lo attacca dal lato della religione, citando la Sacra Scrittura, ed inducendolo a chiedere a Dio un miracolo, Gesù dichiara apertamente che l’uomo non deve mai mettere alla prova Dio (Non mettere alla prova il Signore tuo Dio). Le tentazioni di Gesù (economica, politica, religiosa), sono le tentazioni del popolo di Israele nel deserto. E sono le tentazioni di ogni uomo. Il popolo di Israele è soggiaciuto ad esse, Gesù le ha vinte, all’uomo è stata data da Cristo la capacità di vincerle, se accetta il mistero della Redenzione.

La fede cristiana non è "idee", ma "storia". Il "credo" che ci presenta la liturgia odierna non è formato da alcune idee elevate su Dio, la sua essenza e i suoi attributi, o sulla ragione di essere dell’uomo e del mondo nella mente divina. Il "credo" del popolo di Israele, di Gesù e della comunità cristiana è un credo marcato dalle vicissitudini storiche di un popolo, di un uomo-Dio, di una comunità credente. Il credo di Israele inizia con la storia di Giacobbe, un arameo errante, e della sua discendenza, condotti da Dio, nel corso di due secoli, fino a portarli alla terra promessa. Gesù, nella sua confessione davanti alle tentazioni, che cosa fa, se non situarle nelle relazioni della storia stessa di Dio con il suo popolo? Il credo del popolo cristiano si fonda sulla storia di Gesù di Nazaret, costituito Signore da suo Padre, con il resuscitarlo dai morti. Le idee non sono per essere credute, ma per essere pensate; la storia, quando Dio entra in essa, non deve essere tanto oggetto di riflessione, quanto di professione di fede.

Due fedeltà che Dio vuole unite. I testi liturgici manifestano la stupenda fedeltà di Dio all’uomo. In mezzo alle oscurità e agli "assurdi" della storia, Dio camminò fedelmente accanto al suo popolo in Egitto, nel lungo errare per il deserto, fino ad introdurlo alla terra promessa ad Abramo (prima lettura). Dio fu allo stesso modo fedele nei confronti di suo Figlio, Gesù Cristo, davanti ai duri attacchi del demonio, e davanti alla tremenda sconfitta della morte (vangelo, seconda lettura). Dio vuole che a questa fedeltà sua si unisca la fedeltà dell’uomo. Gesù unì la sua fedeltà a quella del Padre in un modo straordinario. Gli israeliti del deserto non risponderanno con la stessa fedeltà. All’uomo, al cristiano di oggi, viene offerta l’alternativa: sceglierà di unire la sua fedeltà a quella di Dio, come Gesù Cristo?

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Confessare la fede in un mondo tentatore. La tentazione è una compagna inseparabile della vita umana. Il tentatore è uno solo, e tanto orgoglioso che non ha remore nel tentare lo stesso Figlio di Dio. Le forme che adotta e i mezzi che utilizza per tentare gli uomini vanno cambiando con i tempi, i costumi, le culture, anche se le tentazioni fondamentali sono sempre le stesse: Avere, potere, sapere, piacere. In qualsiasi tentazione immaginabile si include qualcuno di questi ingredienti. La società attuale offre al tentatore un ventaglio di possibilità numerosissime. Diciamo che le forme e i modi che il demonio possiede di tentare l’uomo di oggi sono cresciute in una maniera geometrica, e l’uomo è stato in certo modo sorpreso da questa valanga di tentazioni, e con non poca frequenza vive abbastanza sprovvisto e poco protetto di fronte ad esse. Come credenti in Cristo, è un onore per noi e una grande audacia confessare la nostra fede in mezzo a questo mondo tentatore, che si è riproposto di dimenticarla, di affogarla e di emarginarla tra le cose inutili che non si osa abbandonare del tutto. Le tentazioni provenienti dal mando saranno per noi una occasione importante per confessare Gesù Cristo, nostro Dio e Signore, e, mediante la nostra confessione di fede, per vincere la tentazione con la forza di Dio. Non dobbiamo aver paura di questo mondo tentatore. "Questa è la vittoria che vince il mondo: la vostra fede".

Non lasciarci cadere in tentazione. Il cristiano, come qualsiasi altro essere umano, è debole, ed ha altresì la coscienza di esserlo. Ma lo accompagna anche la coscienza di possedere una forza superiore, che gli viene da Dio. Poiché è debole, è convito che le aggressioni del tentatore possano distruggerlo. Poiché conta sulla forza di Dio, è sicuro che non c’è tentazione, per potente che sia, che non possa vincere. Per questo il cristiano, chiede varie volte al giorno nel padrenostro: "Non lasciarci cadere in tentazione". Ovviamente, si riferisce a qualsiasi tentazione, ma in modo speciale a quella grande tentazione che è l’idolatria e l’apostasia. Il culto di altri "dei" o idoli sta in agguato fortemente all’uomo attuale, perché nel supermercato della religione e del sacro, insieme a "prodotti" genuini, ce ne sono molti che sono succedanei e non autentici. Anche l’apostasia è molto tentatrice nel nostro tempo. Apostata è chi rinnega la religione cristiana. Al giorno d’oggi, forme light di apostasia potrebbero considerarsi il sincretismo religioso promosso in parte dall’ignoranza e in parte dall’accentuazione del sentimento, l’ateismo pratico di chi si chiama cristiano, ma vive come pagano, l’atteggiamento agnostico di non pochi santoni liberali e laici, che officiano nel panteon della dea scienza e del dio progresso e gli rendono culto. Come individui, e come membri della Chiesa, preghiamo tutti i giorni con fervore il padrenostro, e chiediamo umilmente al Signore che "non ci lasci cadere in tentazione".

 

 

 

 

 

 

Terza domenica di QUARESIMA 18 marzo dell’anno 2001

Prima: Es 3, 1-8.13-15; seconda: 1Cor 10, 1- 6.10-12 Vangelo: Lc 13, 1-9

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Le letture di oggi ci descrivono alcuni tratti del Dio cristiano. Nella prima lettura, Dio appare come fuoco che non si consuma e definisce se stesso: Io sono colui che sono. Il vangelo, da parte sua, ci presenta un Dio misericordioso, che desidera ardentemente la conversione del peccatore, che sa aspettare prima di intervenire con la sua giustizia. Il Dio cristiano è anche un Dio provvidente, che ci mette davanti agli occhi la storia di Israele, affinché stiamo attenti e ci manteniamo in piedi (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Dio è fuoco che non si consuma. Nella mentalità antica il fuoco è simbolo di potere e di forza divini. Nell’Antico Testamento è altresì simbolo della presenza divina nella creazione (il sole, il raggio...) e nell’intelaiatura storica degli uomini. Dato che Dio è eterno, il fuoco della sua presenza e del suo potere non può consumarsi. Che bella maniera di esprimere la vicinanza costante di Dio verso Mosè e verso i discendenti di Israele! La presenza potente di Dio tra i suoi, giunge a piena realizzazione nel momento in cui il Verbo stesso di Dio si incarna nel seno di Maria e si fa in tutto simile all’uomo, ed eccezione del peccato. Gesù, durante la sua vita pubblica, dirà: Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e che cosa è ciò che voglio, se non che arda? Si tratta del fuoco che è Dio stesso, nella sua misteriosa prossimità all’uomo; un fuoco, che deve fiammeggiare, che batte e si scuote come una bandiera al vento, nel cuore della storia e di ogni essere umano.

Dio definisce se stesso come colui che è. Javeh dice a Mosè: "Dirai agli israeliti: " ‘Io Sono’ mi manda a voi"". Il fuoco di Dio non è distruttore, ma amico e benefattore dell’uomo, in cui l’uomo stesso può riporre la sua fiducia. Senza escludere una possibile interpretazione essenziale del nome divino rivelato a Mosè, sembra più appropriata, tenendo conto del contesto, un’interpretazione esistenziale. Come se Mosè dicesse agli israeliti in Egitto: Mi manda a voi il Dio in cui potete avere la fiducia e la totale sicurezza che vi libererà. Non soltanto per gli israeliti in Egitto, ma anche per i giudei in altre epoche della loro storia e per i cristiani in diverse occasioni di questi ultimi venti secoli, la situazione può apparire disperata. Non ci sono orizzonti, non c’è quasi speranza. Chi potrà salvarci? Chi potrà trarci fuori da questa situazione angosciosa? Dio ha ripetuto e continuerà a ripetere fino alla fine dei tempi le stesse parole che troviamo nella prima lettura: Io sono colui che sono. Spiegalo così agli israeliti: ‘Io Sono’ mi manda a voi. La fiducia in queste parole divine rinnova costantemente la storia.

Un Dio che anela alla ‘conversione’ dell’uomo. Prima di tutto, Mosè ‘si converte’ a Javeh e si mette in marcia verso l’Egitto per portare a compimento, da parte di Dio, la liberazione degli israeliti. Gesù, nel vangelo, ci avverte che Dio non ama il castigo, ma il pentimento e la conversione – i galilei assassinati nel tempio e i 18 gerosolimitani morti nel crollo della torre di Siloe, non morirono perché Dio li castigò. La storia di Israele e la storia del cristianesimo sono per tutti noi un invito forte alla conversione. Perché, come ci dice il vangelo, se non vi convertite, perirete.

Un Dio paziente, che sa aspettare. Dio sa che convertirsi veramente non è facile, né è cosa di alcune ore o giorni. Poiché conosce l’intimo dell’uomo, Dio sa aspettare, non ha fretta, quando vede una disposizione sincera per la conversione. La parabola del fico, narrata da Gesù nel vangelo, è di grande conforto per l’uomo debole, e non poche volte sterile nei suoi sforzi di conversione. Dio non soltanto attende, ma altresì agisce nella coscienza umana perché si converta e dia frutti. Sarà l’uomo così ingrato, di fronte a tanta bontà e misericordia di Dio? Siamo cristiani. Non dimentichiamo che con Cristo è giunta la pienezza dei tempi, come ci ricorda la seconda lettura. Con la pienezza dei tempi giunge anche la pienezza della pazienza divina. La respingeremo? Signore, liberaci da questo male, il male estremo.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Saper aspettare allo stile di Dio. Un grande peccato dell’apostolo, del cristiano impegnato, del missionario, è o può essere l’impazienza, l’incapacità di aspettare il momento di Dio. Un parroco, per esempio, può sentirsi impaziente di fronte a certe situazioni attraverso le quali passa la parrocchia: genitori che non battezzano i propri figli, battesimi più sociologici che religiosi, coppie di fatto o sposate soltanto civilmente, notevole diminuzione della natalità, ignoranza religiosa da parte dei fedeli, presenza attiva e distruttiva dei Testimoni di Geova, disintegrazione familiare, dissenso su certe verità di fede e di morale cristiane... A che scopo proseguire, se ci sono problemi quotidiani nella vita di un parroco? Innanzitutto, conviene dire che insieme ai problemi esistono fatti confortanti entro la stessa parrocchia: una fede più matura e responsabile, nuclei di vita cristiana rinnovata e fiorente, presenza generalmente positiva dei gruppi e movimenti ecclesiali, crescente aiuto economico e morale ai più bisognosi, eccetera. Non sono, questi, segni chiari di speranza? Di fronte ai problemi, che sono assai reali, non perdere le staffe; ancora meno, sprecare le proprie energie lamentandosi, spazientendosi, guardando verso il passato... Si deve agire, sì, agire e saper aspettare. Agire con fede e con amore, i mezzi più efficaci per cambiare la vita degli uomini. Aspettare, senza fretta e senza posa. Mai venir meno nell’attesa e nella speranza. Nella pazienza, ci dice Gesù, possederete le vostre anime; nella speranza troveremo la nostra salvezza e quella dei nostri fratelli.

Non cessare di predicare il Dio cristiano. Dio è uno solo, per questo il Dio cristiano ha tratti comuni al Dio in cui credono i giudei o i musulmani. Ciononostante, ci sono anche aspetti differenti, che in nessuna maniera debbono essere taciuti. Si deve parlare del Dio presente e vicino all’uomo, del Dio misericordioso che sa aspettare... E si deve parlare anche del Dio che, essendo uno, coesiste in tre persone, qualcosa che costituisce il tratto più distintivo della concezione cristiana di Dio. D’altra parte, è vero che si deve parlare di problemi morali, di cambiamento di mentalità, di laicismo e di liberalismo ideologici, ...ma non sarà qualcosa di molto più importante parlare di Dio? Il cristianesimo non è un sistema morale, che implica una religione; il cristianesimo è innanzitutto una religione, una fede, dalla quale si deduce una morale, un modo di vivere e di essere presenti nel mondo e nella società. Può essere che, parlando di più del Dio vivo e vero, qualcosa cambi anche nel modo di vivere e di pensare dei nostri contemporanei. Accettiamo la sfida.

 

 

Quarta domenica di QUARESIMA 25 marzo dell’anno 2001

Prima: Gs 5, 9.10-12, seconda: 2Cor 5, 17-21 Vangelo: Lc 15, 1-3. 11-32

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Lasciatevi riconciliare con Dio", ecco una chiave di lettura dei testi liturgici di questa domenica di quaresima. Nella prima lettura, Dio si riconcilia con il suo popolo, concedendogli di entrare nella terra promessa, dopo aver vagato per quarant’anni senza meta attraverso il deserto. Nella parabola evangelica, il padre si riconcilia con il figlio minore, e, sebbene non tanto chiaramente, anche con il figlio maggiore. Infine, nella seconda lettura, san Paolo ci insegna che Dio ci ha riconciliati con se stesso per mezzo di Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

L’iniziativa divina nella riconciliazione. La parola greca tradotta come riconciliazione significa etimologicamente cambiamento a partire dall’altro. Riconciliarsi vuol dire cambiare a partire dall’altro, nel nostro caso, a partire da Dio. È Dio che riconcilia con se stesso il popolo di Israele, facendogli attraversare il Giordano come se fosse un nuovo Mar Rosso, rinnovando con lui la Pasqua e l’Alleanza come sul Sinai, dandogli come alimento non più la manna, ma i frutti della terra che conquisteranno e in cui definitivamente si stabiliranno. È il padre buono della parabola lucana, che riconcilia con sé il figlio minore, abbracciandolo e baciandolo, e facendo sì, in questa maniera, che il figlio si riconcili con se stesso. È anche il padre buono che prende l’iniziativa di riconciliare il fratello maggiore con il minore, non tenendo conto del passato e valutando dovutamente il pentimento del cuore. E che cosa è ciò che Paolo scrive ai cristiani di Corinto? È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Riconciliarsi, in definitiva, è dire a Dio: Grazie per aver fatto il primo passo. Accetto il tuo perdono, accetto il tuo amore.

Riconciliarsi guardando verso il futuro. Riconciliarsi con Dio significa innanzitutto riconoscere che qualcosa non è andato bene nelle nostre relazioni con Lui nel passato. Significa inoltre che c’è un interesse nel ristabilire buone relazioni con Dio nel presente e per il futuro. Per gli israeliti del deserto, passare il Giordano significa lasciare indietro un passato di ribellione, di lamenti, di insicurezza, rinnovare con Dio l’alleanza di fedeltà, e donare se stessi alla conquista della terra promessa. I due figli della parabola debbono rompere con gli ultimi anni di vita, nelle relazioni con il padre e nelle loro reciproche relazioni, per poter entrare nel futuro con la recuperata dignità di figli. La riconciliazione del cristiano con Dio guarda alla parte di vita che gli resta per fare il bene, e si proietta soprattutto verso l’altra riva della vita. E il messaggio di riconciliazione che Dio ha depositato nelle nostre fragili mani, non è forse un messaggio che dobbiamo rendere efficace adesso, nel presente, e nel futuro che bussa continuamente alla nostra porta? Mi riconcilio nel presente, ma gli effetti della riconciliazione debbono prolungarsi nel futuro; senza questa efficacia nel futuro, riconciliarsi non cessa di essere una parola forse bella, ma vuota, senza ripercussioni efficienti e, di conseguenza, un’autentica frustrazione.

Cristo, pace e riconciliazione nostra. Cristo è il mediatore ultimo e definitivo della riconciliazione con Dio. Nel battesimo di Gesù le acque del Giordano sono purificate, e il nuovo popolo ha la possibilità di riconciliarsi con il Padre. La vita di Gesù Cristo, soprattutto la sua morte e resurrezione, è il cammino scelto dal Padre per riconciliarci con Lui e con tutti i redenti. Soltanto in Cristo e per Cristo riusciamo a sentire la forza salvatrice di Dio, che ci vuole riconciliare con sé. Cristo è l’ultima parola di riconciliazione che il Padre rivolge all’uomo e al mondo. Per questo, chi vive riconciliato con Dio in Cristo, è una nuova creatura. Le cose vecchie sono passate, ed è apparso qualcosa di nuovo, come ci ricorda san Paolo. Il passato non conta; ciò che importa adesso è il futuro, in cui condurre una vita riconciliata con Dio e con gli uomini; un futuro nel quale essere veri evangelizzatori della riconciliazione.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Il lungo cammino della riconciliazione. Riconciliarsi è bello, ma può diventare duro e difficile. Richiede un cambiamento, e, come ogni cambiamento nella vita, esige di rompere schemi fatti, lasciare vie comuni e risapute, aprire nuove brecce, arare nuovi campi. In definitiva, uscire dalla nostra dolce comodità e routine, e lanciarci a vivere giorno per giorno nella nuova rotta che Dio ci va tracciando, rotta di donazione e di amore disinteressati. Riconciliarsi con Dio, riconciliarsi con gli altri, implica di esser disposti a guardare al passato con occhi di pentimento, e a lasciarlo senza troppo curarsene, per quanto esso continui a essere attraente per noi. Per riconciliarsi veramente con Dio e con i nostri fratelli, non basta ricorrere al sacramento della riconciliazione, ricevere il perdono di Dio e....arrivederci! Questo è soltanto l’inizio. Adesso segue il lavoro giornaliero e costante per strappare dall’anima le cause profonde, a volte assai occulte, dell’allontanamento, dell’opposizione e della lontananza di Dio, e qualsiasi segno di essi nella nostra condotta. Adesso viene il lavoro tenace per conquistare il nostro cuore e la nostra vita per l’amore, la concordia, l’unione e l’armonia filiali verso Dio, e fraterne verso gli uomini. Ogni uomo, se è sincero con se stesso, si rende conto che ha bisogno, in un grado maggiore o minore, di riconciliazione. Riconciliati tu per primo, e poi aiuta gli altri a conseguire un’autentica riconciliazione.

Una Chiesa riconciliata e riconciliatrice. Il Papa ci ha insegnato con il suo esempio a non aver nessuna remora nel chiedere perdono. La Chiesa è santa, ma noi suoi figli siamo peccatori. E i peccati dei figli lasciano un’impronta nel volto della Chiesa. Per questo, il sacerdote, in nome della Chiesa e come suo rappresentante, ogni giorno nella santa messa la riconcilia con Dio. D’altra parte, la Chiesa, in quanto comunità di coloro che credono in Cristo Signore, è ben cosciente delle divisioni e dei contrasti, delle differenze e delle disarmonie dottrinali e pratiche che ribollono nel suo seno. Si sono compiuti alcuni passi nel cammino della riconciliazione. Ne restano ancora molti da compiere. Si deve continuare ad avanzare nella riconciliazione tra diverse comunità ecclesiali, tra i membri di una medesima comunità ecclesiale, tra diversi ordini, congregazioni ed istituti religiosi, tra diverse diocesi... Soltanto una Chiesa riconciliata verticalmente con Dio ed orizzontalmente con i suoi fratelli nella fede, potrà essere fermento di riconciliazione nella società. Vivi riconciliato con Dio? È, la tua parrocchia, una parrocchia internamente riconciliata? Sei agente di riconciliazione nella tua famiglia e nell’ambiente di lavoro?

 

 

Quinta domenica di QUARESIMA 1 aprile dell’anno 2001

Prima: Is 43, 16-21; seconda: Fil 3, 8-14 Vangelo; Gv 8, 1-11

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Ecco, faccio una cosa nuova (Is 43,19). La novità è senza dubbio uno dei punti salienti dei testi liturgici di oggi. In linguaggio poetico, pieno di immagini sorprendenti ed audaci, il profeta evoca un nuovo esodo e una nuova liberazione (prima lettura). La donna adultera, della quale tratta il vangelo, scopre nell’atteggiamento di Gesù una novità mai vista, che la libera e la trasforma. Paolo di Tarso si confronta con l’assoluta novità del mistero di Cristo, e per questo tutto ritiene come spazzatura, pur di ottenere Cristo e vivere unito a lui (seconda lettura).

 

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

La vecchia novità di Dio. Qualcosa di nuovo può farlo chi ha in sé la fonte della novità. Un poeta ha in sé la fonte della poesia, e per questo può in qualsiasi momento essere poeticamente creativo. Un genio politico può sorprenderci con la sua creatività in qualsiasi momento della sua vita. Un uomo carismatico dello spirito può porre in gioco il suo carisma, perfino quando meno si potrebbe aspettarselo. Questo, che accade con uomini straordinariamente dotati, affonda le sue radici in Dio stesso, la novità per eccellenza e fonte di ogni novità. Nella storia di Israele la novità divina non si è esaurita nel grande avvenimento dell’Esodo. Sette secoli dopo l’Esodo egizio, Dio muove i fili della storia per creare una nuova situazione e far tornare a Gerusalemme gli esuli di Babilonia (prima lettura). Per la povera donna sorpresa in adulterio e condannata alla lapidazione, dovette essere una gioiosa novità l’atteggiamento di Gesù nei suoi confronti: "Nessuno ti ha condannato? ... Nemmeno io ti condanno". Non meno ricco di novità dovette essere per gli accusatori dell’adultera il comportamento di Gesù: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra...Udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani..." (Vangelo). Chi è costui che osa porsi al di sopra della legge di Mosè? Ai nostri orecchi, infine, suona abbastanza conosciuta questa espressione della "novità cristiana". Paolo, che l’ha sperimentata fino in fondo, la riassume così: conoscere Cristo (conoscenza che è frutto dell’esperienza della fede), sperimentare il potere della sua resurrezione, condividere i suoi patimenti e morire la sua morte, ottenere così la resurrezione di tra i morti (seconda lettura). Si può dire che la storia della salvezza si riassume nella storia dei nuovi interventi di Dio, sempre in vista della salvezza degli uomini.

La novità divina non parte da zero. In verità, nessuna novità religiosa, politica, sociale o economica parte da zero. Il nuovo affonda le sue radici nell’antico, senza distruggerlo, ma assumendolo in modo creativo. Una novità senza radici si secca e sparisce in poco tempo. Il nuovo, perché sia fecondo, ha la sua paternità nella storia. Nemmeno Dio, nelle nuove meraviglie che va realizzando con il correre degli anni e dei secoli, agisce a partire da zero. Se così fosse, non potremo parlare di una storia della salvezza, ma di azioni puntuali di Dio, slegate l’una dall’altra, interventi di un Dio franco tiratore, che agisce ad impulsi, al margine di ogni piano. Per questo, Isaia vede nel nuovo intervento di Dio in favore degli esuli di Israele in Babilonia non una novità assoluta, ma un nuovo esodo, stabilendo così una passerella tra il passato e il presente. Gesù con il suo comportamento non liquida senz’altro la legge mosaica, ma si situa al di sopra di essa, e la interpreta nel suo vero senso: "Va’, e non peccare più". Le azioni nuove di Dio nella marcia della storia dei popoli e nella vita di ogni persona non prescindono mai da ciò che già si è costruito. L’uomo di Dio, il cristiano, è colui che sa leggere la storia e la vita degli uomini in una continuità costante, senza rotture, anche se non senza sorprese. Per questo, nella visione cristiana della storia, il presente non è se non l’unione di due rive, quella del passato, in cui è radicato, e quella del futuro, verso il quale si proietta.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Senza paura della novità di Dio. Il cristianesimo, fin dalle sue stesse origini, ha sperimentato una sana tensione tra il passato e il futuro, tra il nuovo e il vecchio, fra la tradizione e il progresso. Quelle forme di vita cristiana che riescano a mantenere entrambi i poli della tensione saranno autentiche. Quelle altre, che accentuino in tal modo uno dei poli sì da perdere l’equilibrio, camminano per un sentiero errato. Non abbiamo paura in nessun modo della tradizione, ma nemmeno del progresso, della novità che Dio va creando in ogni periodo della storia. La novità, se è di Dio, porta con sé sempre un superamento di ciò che già esiste. La tradizione, se è autentica, dà peso e solidità ai nuovi apporti. Il cristiano è "come un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" (Mt 13,52). Due esempi di novità nel nostro tempo: l’inculturazione, i movimenti ecclesiali. Sono, in effetti, fenomeni nuovi, ma che "vengono da lontano". San Paolo è, in certa maniera, il primo campione dell’inculturazione del Vangelo in categorie e mentalità ellenistiche. Non c’è dubbio che ogni epoca storica abbia dovuto realizzare questo medesimo lavoro, fino ai nostri giorni. Una maggiore coscienza del pluralismo culturale, oggi vigente, e la sfida di illuminare con il Vangelo culture ancestrali estranee al cristianesimo, infondono al processo attuale di inculturazione un nuovo volto. D’altra parte, i movimenti si radicano allo stesso modo nelle origini del cristianesimo. Gli studi sociologici del Nuovo Testamento hanno mostrato che, sia Gesù di Nazaret, sia i primi cristiani furono in gran parte predicatori itineranti, allo stile dei filosofi popolari contemporanei. Nella spiritualità di molti movimenti ecclesiali, si trova l’intenzione di "tornare alle fonti", "tornare alle origini del cristianesimo". Sì, sociologicamente e canonicamente i movimenti ecclesiali sono qualcosa di nuovo nella Chiesa, ma la loro ascendenza non è di ieri. Nelle viscere stesse del cristianesimo è presente l’audacia di innestare i talli nuovi sul vecchio tronco.

La novità sempre nuova. Le novità umane, come tutte le cose di questo mondo, hanno il proprio ciclo vitale dalla nascita alla morte. Sono novità, e cesseranno di esserlo, per via di estinzione o di logoramento o di decadenza. La moda è come la vetrina in cui si presenta la fugacità delle novità umane. Ma c’è una persona, Gesù Cristo, che porta la novità dentro di sé, che è novità sempre presente senza scomparire nel passato e senza perdere il futuro. Gesù Cristo, la novità assoluta, "ieri, oggi e sempre". Vive, eternamente giovane, con la vita di chi ha sconfitto definitivamente la morte. Vive, infondendo una pressante forza di novità, in coloro che gli aprono il cuore ed assimilano il suo stile di vita. Veramente Cristo è in ogni momento della storia l’Uomo Nuovo, che ha lo stesso messaggio eterno di Dio, ma sempre nuovo e rinnovatore dell’uomo. Perché a volte noi cristiani siamo vecchi, o ci crediamo tali? Sii sempre nuovo, seguendo i passi dell’Uomo Nuovo.

 

 

 

Domenica delle PALME 8 aprile dell’anno 2001

Prima: Is 50, 4-7; Fil 2, 6-11 Vangelo: Lc 22, 14-23, 52

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il dolore! Realtà storica e disegno di Dio. Qui si trova il centro del messaggio della Domenica delle Palme. Il Servo di Javeh (prima lettura) soffre colpi, insulti e sputi, ma il Signore lo aiuta e gli insegna il senso del dolore. San Paolo, nell’inno cristologico della lettera ai filippesi (seconda lettura), canta a Cristo che "si spogliò della sua grandezza, assumendo la condizione di servo". Nella narrazione della passione secondo san Luca, Gesù affronta sofferenze indicibili e inenarrabili, alla maniera di uno schiavo, ma sa che tutto è disposto dal Padre e per questo affida al Padre il suo spirito.

MESSAGGIO DOTTRINALE

Cristo, uomo dei dolori. La sofferenza di Cristo può misurarsi quantitativamente, e già così è enorme. Ciononostante, il valore supremo del dolore di Cristo si radica soprattutto nella sua qualità. Qualità che si basa su tre pilastri: Gesù è l’uomo perfetto, che sperimenta e vive la sofferenza con perfezione; Gesù è il Figlio di Dio, e pertanto è Dio stesso che soffre in Lui; Gesù è il redentore del mondo e dell’uomo, che assume il dolore iniettando in esso la potenza salvifica di Dio. Per questo, nella vita di Cristo, soprattutto negli avvenimenti della sua passione e morte, il dolore è una realtà storica, ma anche mistica, è solidarietà con l’uomo, e allo stesso tempo giudizio e giustificazione dell’uomo peccatore, ossia, mistero di salvezza. Il racconto della passione secondo san Luca ci porta come per mano alla contemplazione orante di Cristo nei diversi episodi di questo mistero di dolore: contempliamo il dolore contenuto, discretamente manifestato, di Gesù nel Cenacolo, di fronte al tradimento di Giuda (Lc 22,22), o di fronte alla discussione inopportuna dei discepoli su ranghi e primi posti (LC 22, 24ss). Vediamo il dolore intenso, estenuante ed estremo al Getsemani, fino al punto di versare gocce di sangue a causa della solitudine, dell’abbandono degli uomini e del suo stesso Padre, del peso del peccato del mondo. Ripassiamo interiormente il dolore ineffabile dell’amore rinnegato da Pietro, il dolore degnissimo dell’amore schernito dalla marmaglia dei soldati, tra bestemmie e bassezze, il dolore nobile dell’innocente condannato dai capi del popolo e dal potere dominante, il dolore sacro e puro per il disonore che gli è stato inflitto nell’essere posposto a un criminale, il dolore fisico dei chiodi che trapassano le sue mani i suoi piedi, e l’ultimo dolore dell’agonia. Cristo "uomo dei dolori ed avvezzo al patire", Cristo che raccoglie nel suo corpo e nella sua anima, come in una conca, ogni dolore ed ogni pena.

Cristo non è solo nel suo dolore. Già il Servo di Javeh, figura di Cristo, ha la sicurezza che, in mezzo ai suoi dolori, "il Signore lo aiuta" (prima lettura). Al Getsemani il Padre gli invia un angelo, non per liberarlo dal dolore, ma per confortarlo (cf. Lc 22,43). Sulla via del Calvario lo accompagna un gruppo di donne, "che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui" (Lc 23,27). Crocifisso alla destra di Gesù si trova il buon ladrone, che riprende il suo compagno di crimini e proclama l’innocenza di Gesù: "Costui non ha fatto niente di male". Durante la passione, Gesù ha sentito sia l’abbandono del Padre, sia la sua intima ed ineffabile compagnia e prossimità, e per questo può esclamare prima di spirare: "Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito". La glorificazione del dolore di Cristo – e la conseguente solidarietà con lui – la indica san Luca dopo la sua morte, mediante la confessione del centurione: "veramente quest’uomo era giusto", mediante il pentimento della folla, che "tornava in città percuotendosi il petto", e soprattutto mediante l’annuncio alle donne che sono accorse al sepolcro: "Non è qui. È risorto". La seconda lettura sottolinea la vicinanza di Dio a Cristo obbediente fino alla morte con termini di esaltazione: "Gli diede il nome che è al disopra di ogni nome". Né Dio né l’uomo lasciarono Cristo solo nel dolore. Questa affermazione è valida per ogni uomo. L’uomo, così come Gesù, troverà negli uomini la causa del suo dolore, e in essi troverà anche la presenza amica e il conforto solidale.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Il dolore, un tesoro nascosto. L’uomo attuale ha paura del dolore. Vorrebbe eliminarlo, strapparlo dalla vita umana, e perfino dalla vita animale. Sembra come se il dolore fosse un male, un male abominevole, un buco nero nel grande universo umano, che divora tutto ciò che entra nel suo campo di azione. Sembra come se la grande battaglia della storia attuale fosse contro il dolore, invece di essere per l’uomo. Si deve riflettere su tutto ciò, perché a volte risulta che riusciamo, sì, a distruggere il dolore, ma in modo tale che distruggiamo anche qualcosa dell’uomo. I genitori, affinché i propri figli non soffrano, non negano loro nulla, lasciano fare loro tutti i capricci, ma... non stanno in questa maniera pregiudicandoli, a lungo andare? Agli anziani, ai malati terminali, vengono ammortizzati i dolori con medicine che fanno loro perdere in gran parte la coscienza. Non li si fa così perdere libertà e nobiltà di spirito di fronte al dolore? Non sono per la sofferenza in sé, è necessario alleviarla il più possibile, ma sono per l’assunzione umana della sofferenza. Non sono rari i casi di giovani ed adulti che, davanti all’insuccesso scolastico o professionale, davanti a una delusione amorosa, davanti a uno scandalo di corruzione, preferiscono farla finita con la vita, piuttosto che affrontare il volto doloroso della situazione. Perché? Non si conosce, non si è scoperto il tesoro nascosto nel dolore. Per l’uomo, è un tesoro nascosto di umanizzazione, per il cristiano è un tesoro nascosto di assimilazione allo stile di Cristo, di valore redentore. Giovanni Paolo II ha avuto l’audacia di parlare del Vangelo della sofferenza, certamente della sofferenza di Cristo, ma, insieme con Lui, della sofferenza del cristiano. Siamo chiamati a vivere questo Vangelo nelle piccole pene della vita, siamo chiamati a predicarlo con sincerità e con amore.

Conforto nel dolore. Ai nostri giorni, la medicina sta scoprendo che la presenza amica presso il letto del malato può alleviare il dolore più di una iniezione di morfina. C’è una relazione stretta tra l’anima e il corpo, e il conforto spirituale di una vicinanza addolcisce le più terribili sofferenze. Le opere di misericordia spirituale (istruire, consolare, confortare, soffrire con pazienza...) e corporali (dar da mangiare all’affamato, dare un tetto a chi non ne ha, vestire gli ignudi, visitare gli infermi e i carcerati, seppellire i morti...), sono modi tradizionali di aiutare l’uomo nel suo dolore. Sono forme che continuano ad essere valide ed indispensabili. Insieme ad esse, sorgono e sorgeranno nuove forme, secondo le necessità del nostro tempo. Ciò che importa è aver coscienza che, come cristiani, dobbiamo accompagnare gli uomini nel dolore, dobbiamo essere solidali con le loro pene, dobbiamo alleviare le loro sofferenze con la nostra vicinanza e il nostro conforto. Non è una buona forma di alleviamento insegnare a coloro che soffrono a dare senso e valore alle loro sofferenze?

 

 

 

Giovedì SANTO 12 aprile dell’anno 2001

Prima: Es 12, 1-8.11-14; seconda: 1Cor 11, 23-26 Vangelo: Gv 13, 1-15

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Il Giovedì santo è un canto alla liberazione. In esso celebriamo la Pasqua cristiana: il passaggio liberatore di Dio attraverso la storia mediante la passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, commemorata nella celebrazione dell’Eucarestia (seconda lettura). La Pasqua cristiana rivive e perfeziona un’altra pasqua, un’altra liberazione, portata a compimento da Dio mediante il suo servo Mosé: la liberazione degli israeliti dalla schiavitù egizia (prima lettura). Il testo evangelico ci situa di fronte a una liberazione interiore, la liberazione dal nostro egoismo per essere liberi e servire i nostri fratelli, seguendo l’esempio di Gesù Cristo.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Liberazione, parola evangelica. La parola liberazione ha la sua contropartita nel termine schiavitù. Quando un individuo, un gruppo umano, una nazione grida per la liberazione, vuol dire che sente nella sua propria carne il peso oppressore di qualcuno che la schiavizza. Nella Bibbia, che è rivelazione di Dio nella storia e attraverso la storia, non è assente questa realtà ed esperienza tanto umana. Fermando la nostra attenzione sulla prima lettura, ci rendiamo conto che il rito della Pasqua, come la celebravano gli antichi israeliti, commemora un momento storico drammatico e stupendo. Drammatico, perché porta alla memoria di tutti la dura esperienza della schiavitù in Egitto; stupendo, perché, in virtù del potere di Javeh, essi sono stati strappati alla schiavitù. Il modo di mangiare l’agnello: i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano e in fretta, indica l’irruzione liberatrice di Dio e la collaborazione umana con la straordinaria ed inaspettata azione di Dio. Israele, come popolo, riconosce che Dio si è ricordato del suo stato di oppresso, ed è intervenuto efficacemente come liberatore. Anche la seconda lettura è tratta della pasqua, ma adesso non è più la pasqua giudaica, ma la pasqua cristiana, come era celebrata nella Chiesa apostolica. Il battezzato è cosciente di essere passato dalla schiavitù alla libertà, grazie alla Pasqua di Cristo. Ogni domenica, quando i cristiani si riunivano per celebrare l’Eucarestia, commemoravano e rivivevano, come individui e come Chiesa, il vangelo della libertà, "la libertà con cui Cristo ci ha liberati". Una liberazione, non da un’oppressione fisica come nella prima Pasqua, ma dall’oppressione spirituale, che è il peccato e l’impero da quest’ultimo instaurato. Per mezzo della Pasqua di Cristo, il battezzato è passato dal regno delle tenebre che opprimono al regno della luce liberatrice. Nel vangelo, Gesù completa l’insegnamento sulla liberazione, indicandocene la finalità: liberati e liberi per poter servire l’uomo. La liberazione evangelica, per essere tale, sarà destinata al servizio, soprattutto dei più bisognosi. Un servizio dietro le orme di Cristo che, esercitando la funzione di padre di famiglia, si fa servo e si mette a lavare i piedi ai suoi discepoli, perché essi apprendano a fare lo stesso.

Battesimo ed Eucarestia, sacramenti di libertà. Per mezzo del battesimo, l’uomo è sommerso nella Pasqua di Cristo, cioè nel passaggio liberatore di Cristo attraverso la sua esistenza. Soltanto l’uomo liberato può celebrare e partecipare all’Eucarestia, sacramento degli uomini liberi. Forse nella lavanda di piedi degli apostoli (vangelo) ci può essere una certa nota battesimale. Non dice Gesù: "chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi, ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti?". Puliti, liberi da ogni peccato, possono partecipare alla Pasqua del Signore. San Paolo riprende nella seconda lettura le parole di Gesù: "Fate questo in memoria di me". La Pasqua di Cristo non è un fatto del passato, si rivive nel presente, tutte le volte che i cristiani si riuniscono per celebrare l’Eucarestia. Cioè per celebrare Cristo che ci dice: "Ti offro la mia vita per liberare la tua da tutto ciò che ti impedisce di essere libero. Ti offro il mio corpo e il mio sangue come alimento, perché tu non perda le forze nella tua lotta per la libertà". L’uomo ha cercato la liberazione e la libertà per molte vie, non poche delle quali sbagliate. Oggi come ieri il modello cristiano si presenta come cammino vero di libertà.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

L’Eucarestia, ossia la festa della libertà. Il catechismo della Chiesa cattolica insegna che l’Eucarestia è fonte e apice di tutta la vita cristiana, ed aggiunge che in essa è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua (CCC 1324). Mi domando che cosa sia essere cristiano. E, tra molte altre risposte, trovo questa: "Essere libero per amare Dio e il prossimo". Mi domando chi è Cristo, ossia tutto il bene spirituale della Chiesa. E mi viene subito in mente una risposta ben conosciuta: il Redentore dell’uomo, il liberatore dell’umanità. L’Eucarestia è pluridimensionale: è sacrificio, banchetto pasquale, memoriale, azione di grazie... Insieme a queste dimensioni irrinunciabili, si deve situare quest’altra: festa della libertà. Diciamolo con un ragionamento logico: essere cristiani è essere liberi, l’Eucarestia è la fonte e l’apice dell’essere cristiano, dunque l’Eucarestia è la fonte e l’apice della libertà. Celebrare l’Eucarestia è celebrare la libertà cristiana, che per sua stessa natura è libertà integrale. La libertà integrale si radica e si sviluppa nella libertà interiore. Cioè libero dal peccato, libero dall’ego, libero da qualsiasi condizionamento psichico o morale. Questa è la libertà che principalmente celebriamo nell’Eucarestia. Ma non esclusivamente, perché la libertà deve rendersi visibile, incarnarsi in fatti e realtà circostanziali della vita. Liberi per aiutare una persona bisognosa; liberi per dire la verità senza paure, anche se con prudenza; liberi per fare il bene, benché non ti siano riconoscenti; liberi per dare testimonianza pubblicamente della propria fede... Forse non è stata l’Eucarestia, per tanti santi e sante, la fonte di questa grande libertà di spirito? Quando la comunità cristiana si riunisce intorno a Cristo nell’Eucarestia, lo fa come comunità libera che vuole continuare a crescere in libertà.

L’Eucarestia, forza della libertà. Quando nella santa messa riceviamo l’Eucarestia, ci alimentiamo con Cristo stesso, fonte e modello della libertà cristiana. Per questo, un cristiano che voglia giungere ad essere veramente libero, sente la necessità di comunicarsi con frequenza. La tentazione della schiavitù spia continuamente l’uomo, e a volte lo seduce. L’Eucarestia ci aiuta a rompere l’incantesimo della tentazione, a rafforzare la nostra decisione di seguire Cristo, l’amante e il promotore della libertà. Assurdo il solo pensare che la comunione sia per delle bigotte! Quanto danno hanno fatto ai cristiani certe etichette! Qui trovano anche un motivo ulteriore le visite eucaristiche. Quando la libertà individuale, politica, sociale, religiosa... è in pericolo, a quale porta bussare, se non alla porta del tabernacolo, dove Cristo ci sta aspettando, per infonderci coraggio nel nostro compito di far vincere la libertà? Nell’educazione delle nuove generazioni cristiane, credo che si trarrebbe molto profitto dall’insistere maggiormente sull’eucarestia, e meno su mode pastorali, che oggi ci sono e domani non più.

 

 

Venerdì SANTO 13 aprile dell’anno 2001

Prima: Is 52, 13- 53, 12; seconda: Eb 4, 14-16 Vangelo: Gv 18, 1- 19, 42

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Solidarietà nel dolore. La figura del Servo di Javeh carica su di sé non i propri dolori, ma "si è addossato i nostri dolori, si è caricato delle nostre sofferenze" (prima lettura). Nella passione di Gesù Cristo secondo san Giovanni, l’evangelista sottolinea l’amore solidale di Gesù verso gli uomini: "Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine". Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, Gesù Cristo è visto come sommo sacerdote che può aver compassione delle nostre debolezze, perché le ha esperimentate tutte, eccetto il peccato.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

La sofferenza vicaria. È difficile per l’uomo comprendere questo concetto. Nella nostra esperienza, sappiamo che il dolore si vive in solitudine. Perfino quando qualcuno ci accompagna e ci consola nel dolore, la solitudine non ci abbandona, fa parte integrante del nostro dolore. Allo stesso tempo, l’esperienza umana ci insegna che c’è nel cuore umano, soprattutto nel cuore delle persone che si amano, un anelito, forse indefinibile, ma realissimo, a mettersi al posto dell’essere amato che soffre. Per esempio, una madre, un padre invece del figlio moribondo. Questa esperienza umana contrastante e complementare ci prepara in certo modo alla comprensione della sofferenza vicaria di Gesù Cristo nel corso della sua vita, ma in un modo esplosivo nella passione e nella morte di croce. Al Getsemani, nel cammino verso il Calvario e sulla vetta del Golgota, Gesù soffre facendo sue le nostre sofferenze, le nostre angosce, la nostra agonia e la nostra morte. Soffre assumendo i nostri peccati, tutti e di tutti senza eccezione, peccati che sono la causa originaria e radicale di tutto l’umano soffrire. È possibile affermare che la passione di Cristo è la nostra passione fatta sua. L’angoscia del Getsemani, più che di Gesù è nostra, ed egli se ne appropria. Gli spasmi sulla croce nelle ore dell’agonia sono nostri, ed egli li sopporta per noi. Ciò che nella figura del Servo di Javeh è un simbolo del popolo giudaico (prima lettura), si fa cruda realtà nella carne e nell’anima di Gesù Cristo. Il cristiano, pertanto, ha perduto il diritto di vivere in solitudine la propria sofferenza. Cristo, uomo dei dolori, l’ha vissuta prima per lui e adesso la rivive con lui.

Chi soffre in Gesù di Nazareth? Soffre, innanzitutto, l’uomo Gesù. È la sua carne quella che suda sangue al Getsemani, è il suo sangue quello che scorre per il suo corpo a causa delle frustate e dei chiodi, è la sua sensibilità quella che si vede scossa nell’essere coronato di spine, è il suo onore quello che soffre nell’esser schiaffeggiato, è il suo senso della dignità umana quello che si vede profondamente colpito quando, nell’agonia, è oggetto di burla e di scherno. Soffre anche il sommo sacerdote Gesù. Il sommo sacerdote dell’antica alleanza poneva i peccati del popolo su un capro maschio, il giorno dell’espiazione. Cristo, sacerdote sommo della nuova alleanza, li pone su di sé, li porta con sé alla croce, li lava con il suo sangue, li distrugge con il fuoco del suo amore misericordioso (seconda lettura). Allo stesso modo, soffre Gesù in quanto Servo di Javeh, che rappresenta il nuovo popolo di Israele, la Chiesa di Cristo. Tutti i peccati dei cristiani sono presenti nella passione di Cristo. E tutti restano originariamente perdonati dai meriti del Crocifisso. Soffre, infine, Gesù, il Figlio del Dio vivo. Da qui, e soltanto da qui, proviene la possibilità e l’efficacia della sua sofferenza vicaria, il valore universale e salvifico di tutta la sua sofferenza. Fratello nostro, nella natura umana, conosce le nostre debolezze e può aver compassione di noi. Figlio di Dio, nella sua persona e natura divine, ha la capacità perché la sua vita, e soprattutto il suo dolore, abbiano un potere sovrumano infinito e assolutamente efficace per la sua origine, universale per il suo destino.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Grazie, Uomo dei dolori. È giusto, e fa onore ad ogni cristiano, – e perfino ad ogni uomo – il ringraziare, questo Venerdì santo, il Crocifisso, il Figlio di Dio, che si è fatto schiavo, non-uomo, affinché l’uomo non si dimentichi di essere chiamato ad essere pienamente uomo. Grazie, Crocifisso, perché hai voluto soffrire per noi fino a non sembrare uomo e a non avere aspetto umano; grazie, perché hai scelto di essere schiacciato da dolori e avvezzo alla sofferenza, perché sentissimo la tua presenza nel nostro patire; grazie, oh Gesù, trono di misericordia e di perdono, perché hai voluto soffrire per il nostro bene e guarirci con le tue piaghe. Grazie, oh Redentore, perché ti sei donato alla morte e hai condiviso la sorte dei peccatori. Grazie, perché hai sofferto l’arresto da parte degli uomini, per accompagnare tutti gli arrestati della storia, del nostro tempo e, a volte, come te, senza alcuna colpa. Grazie, fratello dell’uomo, perché con il tuo sguardo hai lavato la negazione di Pietro e quella di tutti noi che oggi continuiamo senza alcuna ragione a rinnegarti. Grazie, oh Verità sublime, perché nei supremi momenti, come durante tutta la tua esistenza, hai posto la verità al di sopra perfino della vita, come hanno fatto, seguendo i tuoi passi, tanti martiri del passato e dei nostri giorni. Grazie! Grazie a te, il più degno tra gli uomini, perché hai accettato l’ignominia di essere posposto a un criminale, come lo era Barabba. Tu, l’Innocente. Grazie a te, uomo il più libero della storia, perché non hai sprezzato la morte dello schiavo e hai trasformato il segno dell’obbrobrio in segno vittorioso di gloria. Grazie, oh Crocifisso, perché con la tua croce hai redento il mondo.

L’arte di soffrire. Soffrire è connaturale alla condizione umana, ma l’arte di soffrire si apprende, richiede una lenta e costante educazione. Il Venerdì santo è per i cristiani, per ogni essere umano, una scuola eccelsa del dolore. Il Venerdì santo apprendiamo a soffrire in silenzio, con Gesù, come Gesù. Il Venerdì santo Gesù Cristo ci dà la grande lezione di accettare la sofferenza e la croce, anche se non si fosse colpevoli, in virtù di un motivo superiore, che è l’amore a Dio e ai fratelli. Il Venerdì santo ci viene insegnato – che grande lezione! – a perdonare colui chi ci ha fatto del male, a pregare per chi si burla di noi ed è causa del nostro dolore. Alla scuola del Venerdì santo impariamo a soffrire con pazienza e con amore, accettando gli avvenimenti e le circostanze, così come Dio ha voluto o ha permesso per il nostro bene. La via crucis del Venerdì santo ci si presenta come la via crucis della vita umana; in essa si vanno mescolando amore e odio, colpi e consolazioni, sbirri e veroniche, sommi sacerdoti e cirenei, oltraggi e lacrime, ladrone che bestemmia e ladrone che si pente, la madre che lo accompagna nel suo dolore e i discepoli che lo lasciano in solitudine, chi se ne divide le vesti e chi compra teli ed aromi per la sua sepoltura. Cristo accetta tutto ciò. Soffre poiché è molto il peso fisico e morale caricato sopra il suo povero corpo maltrattato. Soffre, perché fa soffrire i suoi esseri amati e tante persone che lo amano veramente. Soffre, affinché noi sappiamo soffrire come lui e con lui.

 

Vigilia PASQUALE 14 aprile dell’anno 2001

Prima: Gen 22, 1-18; seconda: Rom 6, 3-11 Vangelo: Lc 24, 1-12

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Le numerose letture della Vigilia pasquale parlano della sovranità di Dio su tutta la creazione e sulla storia. I diversi testi selezionati dall’Antico e dal Nuovo Testamento ci permettono di ripassare la storia della sovranità di Dio. Egli è il Signore degli astri del firmamento, delle acque del mare e degli animali che strisciano per terra. Egli è soprattutto il Signore degli uomini e della loro storia. Il testo evangelico ci mostra la sovranità di Dio sulla morte, mediante la resurrezione di Gesù Cristo. Il cristiano è uno specchio della sovranità divina perché, per mezzo del battesimo, è risorto insieme con Cristo.

MESSAGGIO DOTTRINALE

La sovranità di Dio non ha eguali. In un tempo come il nostro, che esalta l’uguaglianza, il concetto di sovranità forse può non essere familiare né risultare gradevole. Fa pensare, non so, a sistemi totalitari, ad atteggiamenti di imposizione degli uni sugli altri, a flagranti ingiustizie per abuso di potere, a qualcosa che non si addice all’uomo. È un fatto, tuttavia, che non può esistere un ordinamento giuridico (familiare, sociale, religioso, politico) dove non esista e dove non si riconosca una gerarchia, un’autorità, una sovranità. Nella mentalità comune, quando diciamo "sovrano" di solito ci riferiamo al re, che ha incarnato storicamente in modo rappresentativo la sovranità. Al giorno d’oggi si suole parlare di sovranità nazionale, per indicare, nelle relazioni internazionali, l’indipendenza di una nazione rispetto ad un’altra. Quando, nel linguaggio spirituale e religioso, ci riferiamo alla sovranità di Dio, che cos’è ciò che vogliamo sottolineare? Prima di tutto, prendendo spunto dalle letture, il dominio di Dio su tutta l’opera della creazione, uscita dalle sue mani, grazie alla sovrabbondanza del suo amore. In secondo luogo, l’affermazione del governo di Dio sulla storia, una storia in cui, parallelamente agli avvenimenti della storia profana, si svolgono gli eventi della storia della salvezza. In terzo ed ultimo luogo, la signoria di Dio sulla morte e sull’aldilà oltre la morte, ossia l’eternità. Il dominio di Dio non ha eguali, innanzitutto perché soltanto Dio può creare ed ha il potere sovrano sulla creazione. Poi, per la sua ampiezza, giacché Dio domina su tutte le epoche e tutti i popoli, non meno che per la sua finalità: il bene e la salvezza dell’uomo. Non ha eguali, soprattutto perché Dio esercita la sua sovranità in forma totalmente positiva. Non è un sovrano che soggioga, ma che libera. Non è un sovrano che usa il suo potere per imporsi con la forza, ma per manifestare il suo amore di padre. Non è un sovrano che si lascia subornare, ma piuttosto che fa giustizia al tempo opportuno. Nella vigilia pasquale, ripassando la storia della salvezza che culmina nella resurrezione di Gesù Cristo, ciò che facciamo è ripassare la storia della sovranità benevolente ed amorosa di Dio verso l’umanità.

Se Cristo non fosse risorto... È un assurdo, ma penso che possa fare bene alla nostra vita cristiana situarci per un momento in esso. San Paolo si situa in codesta posizione. Che cos’è ciò che dice? 1) Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede. Sì, perché il centro della nostra fede è la persona e la vita di Gesù di Nazaret. Se lui è un defunto qualsiasi della storia, non è né Dio né il Vivente, e allora la nostra fede manca di senso. 2) Se Cristo non è risorto, siamo falsi testimoni di Dio. In effetti, che cosa è ciò che predicavano Paolo e tutti gli Apostoli? Che Dio ha risuscitato Gesù Cristo e lo ha costituito Signore di vivi e di morti. 3) Se Cristo non è risorto, siete ancora nei vostri peccati. Cioè il battesimo è stato un rito vuoto, sterile. Non siete morti con Cristo, né risorti con Cristo. Se Cristo non è risorto, il peccato e il demonio hanno ancora l’ultima parola. 4) Se Cristo non è risorto, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Sì, perché ci è stata data una speranza, trasformata poi in tragica frustrazione. Alla fine, conviene concludere come San Paolo: "Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che dormono il sonno della morte" (1Cor 15,12-20).

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Una speranza che non viene meno. L’uomo, per quanto realista sia, per quanto sia attaccato al presente, non può cessare di guardare avanti, di aprire l’anima alla speranza, sia quest’ultima unicamente terrena o sia aperta anche all’eternità. La speranza, per quanto debole sia, definisce l’uomo nel suo essere più profondo. Il cristianesimo dà a questa speranza umana, da una parte, la forza di mantenersi in piedi fino alla fine e, dall’altra, l’apertura a una speranza superiore. Non viene meno la nostra speranza nella sovranità provvidente di Dio sulla creazione e sulla storia. Ci può sembrare misteriosa, sconcertante, imprevedibile, codesta sovranità provvidente, ma crediamo che esiste, confidiamo in essa, dà sicurezza al nostro operare e, con il passare del tempo, la intravediamo, fino forse a divenire un’evidenza. Non decade la nostra speranza in Cristo, luce del mondo. Questa luce che ha brillato con nuovo splendore nella prima parte della vigilia pasquale. Forse ci può venire la tentazione che siano molte le tenebre, e molto dense. Ma la speranza in Cristo Luce continua ad essere accesa. Una luce che dissipa le tenebre innanzitutto e soprattutto nell’intimo delle coscienze e, a partire dall’intimo, nelle azioni degli uomini. Non decade la nostra speranza nell’azione purificatrice e trasformante del battesimo cristiano. Come non battezzare i bambini, fin dai loro primi giorni o mesi di vita, se manteniamo ferma questa speranza? Questa speranza nell’efficacia del battesimo esige che noi cristiani viviamo con maturità e con coerenza, purificati dal peccato, in atteggiamento di trasformazione spirituale e morale sotto l’impulso dello Spirito.

Testimoni della resurrezione. Nel vangelo si racconta la testimonianza che le donne diedero della resurrezione e la testimonianza che diedero gli apostoli. La testimonianza pubblica e ufficiale spetta alla gerarchia della Chiesa; ma esiste una testimonianza privata, domestica, per così dire, che spetta a tutti i membri del popolo di Dio. I vescovi, i sacerdoti, i diaconi debbono essere testimoni della resurrezione. Certamente, mediante la proclamazione di questo grandissimo mistero, proclamazione che fanno in nome di Cristo e non a titolo personale. Perché tale proclamazione sia convincente, debbono renderla credibile con la loro propria vita, in quanto l’hanno esperimentata e la vivono, e la gente lo avverte. Testimoni privilegiati della resurrezione –come di tutta la fede cristiana– sono i padri di famiglia. Credendo essi nella resurrezione di Cristo, vivendo con volti e opere da risuscitati, renderanno credibile questo mistero ai loro figli. Testimoni importanti sono anche i catechisti e le catechiste. Se la catechesi non è soltanto nozionistica, ma soprattutto vitale, il catechista deve riunire in sé il maestro e il testimone. Sono i catechisti, tutti, maestri e testimoni della resurrezione? La diocesi deve prestare somma cura alla selezione e formazione dei catechisti. Ne trarrà beneficio tutta la Chiesa.

 

 

 

 

 

Domenica di RESURREZIONE 15 aprile dell’anno 2001

Prima: At 10, 34.37-43; seconda: 1Cor 5, 6-8 Vangelo: Gv 20, 1-9

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Cristo risorto: questo è il messaggio centrale della liturgia di Pasqua. Innanzitutto, Gesù Cristo risorto, oggetto di fede, di fronte all’evidenza del sepolcro vuoto: "vide e credette" (vangelo). Cristo risorto, oggetto di proclamazione e di testimonianza di fronte al popolo: "Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo giorno" (prima lettura). Cristo risorto, oggetto di trasformazione, lievito nuovo e azzimi di sincerità e di verità. "Siate massa nuova, come pani pasquali, poiché Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato" (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Cristo risorto, oggetto di fede. Il sepolcro, benché sia vuoto, non dimostra che Cristo sia risorto. Maria Maddalena andò al sepolcro e giunse alla seguente conclusione: "Hanno portato via il Signore, e non sappiamo dove lo hanno posto". Pietro entrò nel sepolcro e si accertò che "le bende di lino e il panno che avevano collocato sul suo capo erano lì". Né Maria né Pietro credettero, vedendo il sepolcro vuoto, che Gesù Cristo era risorto. Soltanto Giovanni "vide e credette", perché il sepolcro vuoto lo portò a comprendere la Scrittura, secondo la quale Gesù doveva risuscitare dai morti (vangelo). "Ciò suppone, – ci insegna il catechismo al n°640 –, che egli abbia constatato, dallo stato in cui si trovava il sepolcro vuoto, che l’assenza del corpo di Gesù non poteva essere opera umana". La conoscenza che, fino ad allora, Giovanni aveva della Scrittura era nozionistica, per questo colpiva solamente le sue idee; adesso, entrando nel sepolcro vuoto, vedendo le bende e il sudario, la conoscenza della Scrittura si trasforma in esperienza e vita. Cristo risorto non gli è ancora apparso, ma egli già lo ha "visto", perché la Parola di Dio è vera; le apparizioni di Cristo ai discepoli non faranno che confermare la fede nella resurrezione.

Cristo risorto, oggetto di proclamazione. Quando l’uomo vive un’esperienza profonda, non la può tacere, per quanto cosciente sia che le sue parole non riusciranno mai ad esprimere l’intensità, la vivezza e la pienezza dell’esperienza. L’esperienza di Cristo risorto fu tanto marcata nell’anima degli apostoli e dei discepoli, che dovevano necessariamente parlarne a coloro che non l’avevano avuta. Bene, non soltanto parlarne, ma anche testimoniarla, cioè, proclamare la sua verità, perfino, qualora fosse necessario, con la sofferenza e con la vita. Tacere codesta esperienza sarebbe stata una dimostrazione di egoismo imperdonabile. Per questo i cristiani, durante i primi anni, e come primo annuncio, erano monotematici. L’unica cosa che dicevano era che "Cristo venne ucciso dai giudei, ma Dio lo risuscitò dai morti". Tutto il resto ruota attorno a questo grande messaggio. Non proclamano idee, per quanto belle possano essere, ma avvenimenti vissuti in prima persona. Questa esperienza di Cristo risorto non fu passeggera, ma giunse ad incorporarsi, per così dire, alla loro stessa esistenza in questo mondo e, per questo motivo, essi non cessarono mai di proclamare con le loro labbra e con la loro vita la resurrezione di Gesù Cristo.

Cristo risorto, oggetto di trasformazione. C’è una relazione strettissima tra resurrezione di Gesù Cristo e trasformazione dell’uomo. Cristo, uomo perfetto, è il primo trasformato, essendo stato risuscitato da Dio, giungendo ad essere un uomo totalmente penetrato dallo Spirito. San Paolo ci parla della trasformazione etica che comporta l’esperienza di Cristo risorto, una trasformazione che tocca le radici stesse dell’uomo: la sincerità e la verità. A sua volta, l’uomo trasformato da Cristo risorto, è capace di trasformare altri, come il lievito è capace di far fermentare tutta la massa. Questa trasformazione etica e missionaria si fonda sulla trasformazione interiore operata dallo Spirito di Cristo, che fa di ciascun uomo che ha esperimentato Cristo risorto un uomo spirituale, impregnato dallo Spirito.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Sperimentare Cristo risorto. L’esperienza si fa o non si fa, si ha o non si ha. Non puoi mandare un rappresentante perché faccia l’esperienza per te. Il cristianesimo è una fede, ma penetrata da un’esperienza vitale, affinché la fede non venga meno. L’esperienza viva di Cristo risorto la può fare qualsiasi cristiano. Dato che è un dono che Dio concede, la prima cosa che dovrà fare è chiederla. Quale giorno migliore della domenica di Pasqua, per chiedere al Signore la grazia di questa esperienza! Il cristiano può disporsi a ricevere il dono di questa esperienza, mediante lo sviluppo di una sensibilità spirituale crescente. Al contatto con Dio, l’uomo gusta Dio e le cose di Dio, acquista una maggior capacità di ascolto e di docilità allo Spirito, si va sintonizzando di più con la fede della Chiesa. Tutto ciò costituisce il terreno coltivato affinché in esso possa nascere e fiorire l’esperienza di Cristo risorto. Tutti, senza eccezione, siamo chiamati a fare questa esperienza. Non pensiamo che sia soltanto per pochi mistici, che hanno una certa propensione a questi stati dell’anima. È importante, per ogni cristiano, il farla, perché, chi l’abbia fatta, non potrà continuare a vivere nello stesso modo, perfino se già conduceva una vita cristiana buona. Codesta esperienza viva ed intensa tocca e cambia la mentalità, le abitudini, lo stile di vita, il modo di porsi in relazione con gli altri, i criteri di azione, le stesse opere, perfino il medesimo carattere. Se hai già fatto questa esperienza di Cristo risorto, credo che sarai d’accordo con me che con essa vengono tutti i beni. Se ancora non l’hai fatta, chiedi al Signore che ti conceda di farla quanto prima. Magari fosse il dono che Dio ti concede questa Pasqua!

La resurrezione di Gesù Cristo e l’etica cristiana. Esiste un’etica cristiana? Diciamo, almeno, che esiste un modo cristiano di vivere l’etica. Esiste soprattutto un fondamento dell’etica cristiana, che è la persona di Gesù Cristo, principalmente il mistero della sua resurrezione. Un’etica che non sia fondata sulla persona e sul messaggio di Gesù Cristo, non potrà ricevere il nome di cristiana. E quando parlo di etica cristiana, non mi riferisco soltanto né principalmente ai professori di etica nelle università, negli istituti o nei seminari, ma al comportamento cristiano nel lavoro, di fronte ai mezzi di comunicazione, nell’ambito della famiglia, nei confronti delle tasse, verso il pluralismo religioso, eccetera. Cristo risorto ci ha reso partecipi della sua vita divina mediante il battesimo e la grazia santificante, e desidera continuare a ripetere in noi la sua presenza esemplare nella storia. Viviamo l’esperienza di Cristo risorto, e siamo sicuri di vivere sempre un comportamento etico degno dell’uomo. Allora realmente la resurrezione di Gesù Cristo sarà il centro della nostra vita e della nostra fede.

 

 

Seconda Domenica di PASQUA 22 aprile dell’anno 2001

Prima: At 5, 12-16; seconda: Ap 1, 9-11. 12-13.17-19 Vangelo: Gv 20, 19-31

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"Cristo, il Vivente". Così lo "vede" il visionario di Patmos, così si presenta ai discepoli rinchiusi in una casa per paura dei giudei, così lo sperimentano i primi cristiani di Gerusalemme. "Io sono colui che vive; ero morto, ma adesso vivo per sempre" dice la figura umana a san Giovanni in una visione (seconda lettura). Il Vivente appare ai discepoli intimoriti per infondere loro pace, affidare loro la missione, concedere loro lo Spirito (Vangelo). Il Vivente continua ad operare segni e prodigi in mezzo al popolo per mezzo degli apostoli (prima lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Il Vivente sorprende tutti. Se c’è qualcosa che i discepoli non speravano, è che Gesù Cristo, resuscitando, tornasse alla vita ed apparisse loro senza perdere la sua identità con il Crocifisso. I vangeli mettono in risalto questa impressionante sorpresa, che giunse fino alla temerarietà di chiedere delle prove, come fece Tommaso. Sorprende le donne che si recarono al sepolcro e lo trovarono vuoto, sorprende i discepoli in cammino verso Emmaus, sorprende i discepoli riuniti in una casa. Quante sorprese tutte insieme, in quel primo giorno dopo il sabato! Perché li sorprende, se credevano nella resurrezione dei morti? Perché li sorprende, se avevano visto Lazzaro, il fratello di Marta e di Maria, resuscitato da Gesù? Perché li sorprende, se Gesù glielo aveva predetto in varie occasioni durante il suo ministero pubblico? Li sorprende, perché ciò che contemplano i loro occhi è qualcosa di inaudito. Essi, da buoni giudei, educati dagli scribi e dai farisei, credevano nella resurrezione dei morti, però... non nel tempo, ma alla fine dei tempi. Li sorprende, perché la resurrezione storica di Gesù è caso unico, ed è assolutamente differente da quella di Lazzaro, da quella della figlia di Giairo o da quella del figlio della vedova di Nain. Gesù è vivo, ma la sua vita non è più totalmente uguale alla nostra, è una vita differente, nuova, superiore. Li sorprende, perché una cosa è ascoltare, comprendere, e un’altra cosa, diversa, è sperimentare: i discepoli non ascoltano che Gesù risusciterà il terzo giorno, ma lo vedono e lo odono risorto, lo sperimentano come il vincitore della morte, che vive per sempre. Beato l’uomo che Gesù Cristo vivo sorprenda in modo permanente!

I doni del Vivente. Che cosa è ciò che il Vivente regala ai suoi? 1) Regala loro la pace, la sua pace. Ne avevano bisogno, perché erano intimiditi dalla paura. Ne avevano bisogno, per acquietare la loro mente e il loro cuore nel presente e di fronte al futuro. Dà la pace a tutti i presenti, non soltanto a pochi privilegiati. Una pace che da adesso in poi nessuno toglierà loro, nemmeno le tribolazioni o la morte. 2) Dà loro la sua stessa missione: come il Padre ha mandato me, così io invio voi. Per tre anni hanno colto la missione di Gesù e il modo di realizzarla. Adesso Gesù li lancia a continuare la sua opera in Giudea, in Samaria e fino ai confini del mondo. 3) Perché realizzino con coraggio e libertà interiore la loro missione, dà loro lo Spirito Santo. Inseparabile dalla missione di Gesù Cristo, continuerà ad essere inseparabile dalla missione degli apostoli. Egli renderà fecondo il loro lavoro apostolico, e in un secolo avranno conquistato le piazze più grandi del mondo allora conosciuto. 4) Dà loro il suo potere di perdonare i peccati. Dato che soltanto Dio può perdonare i peccati, li perdoneranno unicamente in nome di Gesù Cristo e in virtù del potere di Dio. Questo perdono è qualcosa di cui ogni uomo sente necessità, perché, se è sincero, si riconoscerà colpevole. 5) Dà loro il suo amore condiscendente, come accade con Tommaso, al punto di rafforzare la sua fede: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente" (vangelo). Questa comprensione che il Vivente ha della nostre miserie è meravigliosa. 6) Dà loro il potere di edificare la Chiesa mediante la predicazione e la preghiera, mediante la realizzazione di numerosi segni e prodigi, soprattutto di guarigioni in nome di Gesù (prima lettura).

SUGGERIMENTI PASTORALI

Il clamore cristiano in favore della vita. Quanti muoiono ogni giorno nella tua nazione, nel mondo, di morte violenta: in guerre o guerriglie, nelle carceri, a casa, negli ospedali, nelle vie delle città, sulle autostrade? Gesù Cristo, il Vivente, è venuto affinché l’uomo abbia vita. E Dio è l’unico Signore della morte e della vita. Perché ci sono tanti uomini e donne che si credono signori della vita, e la danno e la tolgono secondo i loro propri interessi? Il clamore cristiano in favore della vita deve elevarsi innanzitutto verso il cielo, verso Gesù Cristo vivo, affinché apra le menti e i cuori degli uomini al valore di ogni vita dal concepimento fino alla morte, e affinché conceda all’umanità la coscienza chiara e ferma di essere amministratori, non signori, della vita. Il clamore cristiano a favore della vita si dirigerà anche alle istituzioni statali e pubbliche, affinché difendano con vigore e con costanza tutte le forme di vita umana, affinché proteggano la vita dei cittadini, soprattutto degli innocenti e degli indifesi, affinché promuovano in modo responsabile l’amore alla vita. Il clamore del cristiano in favore della vita risuonerà dentro il suo cuore, affinché, nonostante tanta violenza e tanti assassinii, mai decada davanti ai suoi occhi l’origine divina della vita, il valore primordiale dell’esistenza, la dignità di ogni vita umana. Il cristiano grida in favore della vita; sì, della vita terrena nella sua preziosità e nella sua contingenza; inoltre, e soprattutto, per la vita di grazia, cioè, la presenza di Cristo vivente nell’anima, e per la vita eterna, ossia, la vittoria sulla morte e l’esperienza ineffabile di una vita nuova, in eterna intimità con Dio e con tutti i beati.

Non passare per la vita, ma viverla. La vita è un compito per uomini responsabili. Dio non ce l’ha data per passare per essa, come si passa per una festa o un parco di divertimenti. Si arriva, si vede, se ne gode, e si va via... Dio ce l’ha data per viverla secondo la nostra dignità umana e cristiana. Dio non ci ha dato la vita per spassarcela, ma per passare, come Gesù Cristo, facendo il bene; non per passeggiare, come turisti, ma per costruire un mondo migliore e più cristiano; non per schiacciare tutti quelli che si pongono sulla nostra strada, ma per amare tutti, specialmente i più bisognosi. Questo modo di vivere la vita vale soprattutto per i giovani, che la guardano in faccia e l’hanno quasi completa davanti a sé. È una pena, che, essendo tanto bella, la perdano o la sprechino! Vale allo stesso modo per quelli già entrati nell’età matura, e nella stessa anzianità, perché ogni giorno di vita è una grazia, è un compito, è una meta da conquistare. Beato chi sa esaurire la vita fino alla fine, amando gioiosamente Dio e gli uomini! C’è maniera migliore di vivere questa vita? C’è modo migliore di prepararsi alla vita che ci aspetta? Cristo Vivente sia la torcia accesa che guidi i nostri passi attraverso la vita, per viverla realmente.

 

 

Terza Domenica di PASQUA 29 aprile dell’anno 2001

Prima: At 5, 27-32.40-41; seconda: Ap 5, 11-14 Vangelo: Gv 21, 1-19

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Dopo la resurrezione di Gesù Cristo, è giunta per gli apostoli l’ora della missione. Il numero centocinquantatré di pesci pescati miracolosamente simboleggia il carattere pieno ed universale della missione dei discepoli e della Chiesa. A Pietro, Cristo risorto dice per tre volte quale deve essere la sua missione: "Pasci le mie pecorelle" (vangelo). Dopo la Pentecoste, i discepoli cominciarono a porre in pratica la missione che avevano ricevuto, predicando la Buona Novella di Gesù Cristo (prima lettura). Fa parte della missione che gli uomini non soltanto conoscano Cristo, ma anche che lo adorino come Dio e Signore (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

La missione della Chiesa. Ogni evangelista a suo modo mostra, come parte fondamentale del messaggio di Gesù, la missione universale della Chiesa. San Giovanni nel vangelo di oggi ricorreai simboli, seguendo il suo proprio stile. Il mare, come immagine del mondo, dell’insieme degli uomini, era comune ai tempi di Gesù e dell’evangelista; era altrettanto comune, almeno tra greci e romani, l’immagine della nave, per esempio la nave dello stato. I primi cristiani, basandosi su alcuni testi del Nuovo Testamento (Lc 5,3; Mt 8,23; Mc 1,17; Gv 21, 1-14), parlarono della nave della Chiesa. C’è un altro simbolo che è esclusivo di Giovanni. Mi riferisco al numero dei pesci raccolti: 153. È risaputo che, nella cultura contemporanea di Gesù, il simbolo numerico aveva un grande valore ed era usato con frequenza. Centocinquantatré indica pienezza e totalità. Si suole spiegare in due modi: 1 + 3+ 5 è uguale a 9 che, essendo multiplo di 3, sottolinea la pienezza in sommo grado. Un altro modo di spiegare il valore pieno e totale di questo numero è il seguente: il multiplo di 12 è 144; se a 144 sommiamo 9, otteniamo 153. È una maniera di accentuare ancora di più la totalità. Riassumendo, la missione della Chiesa, nel mare del mondo, non è altra che quella di essere pescatori di tutti gli uomini senza eccezione, e di condurli al porto sicuro della fede e dell’eternità. A questa immagine della nave e della pesca, ne segue senza interruzione un’altra: quella del pastore e delle pecore. Gesù Cristo, Buon Pastore, affida a Pietro: "Pasci le mie pecorelle". Ezechiele aveva parlato di Dio come Pastore di Israele; adesso Gesù ricorre alla stessa immagine per parlare di se stesso come Pastore della Chiesa, e dà a Pietro la sua stessa missione. Buon Pastore è colui che cura, ama, protegge, pasce le proprie pecore, e le difende dai lupi fino a dare la vita per esse. La missione di Pietro e dei pastori nella Chiesa è far sì che tutte le pecore ottengano la salvezza di Dio.

Due forme di realizzare la missione. Negli Atti degli Apostoli (prima lettura), si realizza la missione mediante la predicazione. Gli apostoli hanno predicato Gesù Cristo, soprattutto il grande mistero della sua morte e resurrezione, e le reti cominciano a riempirsi di pesci. È tale l’efficacia della predicazione, che le autorità giudee si spaventano e mettono gli apostoli in carcere. "Ma Pietro e gli apostoli risposero: Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini". Chi ha ricevuto la stessa missione di Gesù Cristo potrà rinunciarvi? Potrà eguagliarla a qualsiasi altra missione nella vita? Agli apostoli sembra impossibile, e non hanno paura di pagare qualsiasi prezzo per realizzare la loro missione. La seconda maniera di portare a compimento la missione è il culto, particolarmente l’atteggiamento di adorazione verso Gesù Cristo, l’Agnello immolato. "L’agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione" (seconda lettura). Affinché la missione degli apostoli si realizzi pienamente, la predicazione deve sfociare nel culto. Sapere che Cristo è morto e risorto per noi, senza adorarlo come nostro Dio e Signore, è lasciare incompleta la missione. Separare queste due realtà oppure trascurare eccessivamente una di esse, equivarrebbe a una specie di monofisismo apostolico e pastorale.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

La missione nel villaggio globale. Ai nostri giorni, il mondo è diventato un villaggio globale. Per i mezzi dell’informazione, delle finanze, delle idee non esistono frontiere. Una cerimonia pontificia può essere vista simultaneamente in qualsiasi angolo della terra dove esista un televisore e, grazie ad internet, puoi intavolare un dibattito su qualsiasi tema con uomini e donne a migliaia di chilometri di distanza dalla tua abitazione. I cristiani, mediante tutti questi strumenti, entrano in contatto con persone che hanno un’altra visione della vita, che vivono secondo altri modelli di esistenza, che praticano un’altra religione ed accettano altre credenze. Questo fenomeno può suscitare un certo stato di crisi nei cristiani, può perfino farli cadere in un certo relativismo religioso, ma può essere allo stesso modo una stupenda occasione per mettere in pratica, in grandissima scala e con i mezzi più avanzati, la missione universale della Chiesa. Quando mai la Chiesa ha avuto più mezzi per predicare Cristo dai tetti, con le sue numerosissime antenne? Ci troviamo forse davanti alla sfida storica più importante nell’opera missionaria universale della Chiesa. Questa grande missione universale non la portano a compimento pochi missionari in terre non evangelizzate; la può compiere qualsiasi cristiano, tu stesso la puoi portare avanti, da casa tua o dal tuo ufficio. Si vede chiaramente che la missione universale della Chiesa richiede che ogni cristiano sia un uomo convinto della sua fede, e sia preparato per dare ragione di essa a chi glielo chieda: per strada, all’ufficio, o su internet.

Il culto di adorazione. Penso che in questi ultimi decenni tra i fedeli sia diminuito il culto di adorazione. Può essere che si sia insistito molto sull’assemblea liturgica, e meno sulla Persona intorno alla quale l’assemblea si riunisce. O si è sottolineato molto il carattere festivo dei sacramenti, e meno il carattere cultuale. Forse si è anche posto l’accento su Gesù Cristo amico, maestro, modello in quanto uomo uguale a noi, e si è lasciata un po’ in silenzio la figura di Gesù Cristo, come nostro Dio e Signore. Queste ed altre ragioni hanno fatto abbassare il senso cristiano dell’adorazione. L’inizio del terzo millennio, incentrato sul mistero dell’incarnazione del Verbo, è un’occasione magnifica per rinnovare e recuperare lo spirito di adorazione dovuta a Gesù Cristo. Ci dice il catechismo: "Approfondendo la fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucarestia, la Chiesa ha preso coscienza del significato dell’adorazione silenziosa del Signore presente sotto le specie eucaristiche" (CCC 1379). Non si dovrà forse avvivare e ravvivare la coscienza di questa presenza di Gesù Cristo Dio nell’Eucarestia? Lo stesso catechismo aggiunge al n. 2145: "La predicazione e la catechesi devono essere compenetrate di adorazione e di rispetto per il nome del Signore nostro Gesù Cristo". Un momento di riflessione e di esame per i catechisti e i predicatori! Il mondo, per rinnovarsi, ha bisogno di una Chiesa più adorante.

 

 

Quarta Domenica di PASQUA 6 maggio dell’anno 2001

Prima: At 13, 14.43-52; seconda: Ap 7, 9.14-17 Vangelo: Gv 10, 27-30

 

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

 

Il Buon Pastore! Questo è il simbolo che la liturgia di oggi mette in risalto. È il Buon Pastore, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro (vangelo). È il Buon Pastore, che tutti vuole salvare, sia le pecore giudee come quelle pagane, ad a tutti offre la sua vita (prima lettura). È il Buon Pastore, che pasce le sue pecore non solo su questa terra, ma anche nel cielo, conducendole alle fonti di acque vive (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

Le mirabilia del Buon Pastore. Nella storia di Israele, si parla molto delle mirabilia Dei, dei grandi portenti che Dio fece in favore del suo popolo. È legittimo parlare anche delle mirabilia Boni Pastoris. Vediamone alcune che ci segnalano i testi liturgici.

1) Io conosco le mie pecore. Il carattere comunitario e sociale della fede, non sminuisce affatto il carattere personale della relazione del Buon Pastore con ciascuna delle sue pecore. Perché il conoscere, nella lingua ebraica, implica altresì l’amare, il desiderare il bene della persona, il sentire affetto per lei. Cioè si può giungere a conoscere una persona soltanto nell’ambito della relazione intima e personale. Quando l’uomo è conosciuto in questo modo da Gesù Cristo, in virtù del carattere reciproco di ogni relazione personale, entra anche nel mondo dell’intimità di Gesù Cristo, lo ascolta con attenzione e lo segue con fedeltà, gioia e gratitudine. Nel vangelo di san Giovanni, d’altra parte, il conoscere si identifica quasi con il credere. Gesù Cristo ha fiducia, si fida delle sue pecore, perché le ama e si sente da esse amato. E, soprattutto, le pecore confidano in Gesù Cristo, e lo confessano come loro Salvatore e Signore.

2) Io do loro vita eterna. Il dono più grande che Dio ci ha concesso è quello della vita. Ma questa vita dura alcuni anni, e poi... regnerà la morte sull’uomo? Tornerà al nulla da cui Dio lo trasse creandolo? È una domanda che trova risposta in Cristo risorto. Egli è il Signore della vita, il Vivente. Essendo Signore della vita, può disporre di essa e darla a coloro che ama e che confidano in Lui. Cristo ci rende partecipi della sua stessa vita, quella che non è sottomessa al dominio della morte, la vita eterna. Nell’Apocalisse leggiamo: "L’Agnello (Cristo morto e risorto) che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita". La vita eterna è la stessa vita di Cristo, che è già presente in noi per mezzo del battesimo e della grazia, e che acquisterà forma piena nell’aldilà dell’esistenza terrena. Così come la vita terrena è un dono prezioso del Padre, la vita eterna è un dono stupendo di Cristo risorto.

3) Nessuno può strapparmele. Nessun potere, umano, angelico, diabolico, è al di sopra del potere di Cristo risorto. Un potere che Cristo ha ricevuto dal Padre onnipotente. Voler strappare a Cristo le sue pecore, equivarrebbe a strapparle a Dio, il Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Qualcosa di assurdo! Gli uomini possono tagliare il filo di questa vita, ma non possono strappare dalle mani del Padre il disporre della vita eterna. Gli angeli, come ci insegna il catechismo, sono al servizio di Dio: "In tutto il loro essere, gli angeli sono servitori e messaggeri di Dio" (CCC 329) e dell’uomo: "Dall’infanzia fino all’ora della morte, la vita umana è circondata dalla loro protezione e dalla loro intercessione" (CCC 336). Il demonio, infine, benché sia una creatura potente, non può strappare dalle mani di Cristo le sue pecore, perché "la potenza di Satana non è infinita" (CCC 395). Soltanto ed unicamente l’uomo, nella sua libertà, può sfuggire al gregge di Cristo e sottrarsi alle mani buone del Padre. Il testo degli Atti degli Apostoli dà fede di ciò: "I giudei contraddicevano le affermazioni di Paolo, bestemmiando". Che potere tremendo quello della libertà, che può rendere inutili le mirabilia del Buon Pastore!

SUGGERIMENTI PASTORALI

Non abbiate paura del Buon Pastore! Il mistero di Cristo oltrepassa la mente umana. Per questo motivo, il Nuovo Testamento ricorre a tante figure e simboli per esprimere qualcosa della sua infinita ricchezza. Si parla a noi di Cristo maestro e profeta, Dio e Signore, luce e vita, alfa e omega, Salvatore ed Emanuele, e così molti altri. Uno dei più dolci nomi di Cristo è quello di Buon Pastore. È un nome che piace molto ai bambini, e che non dispiace affatto agli adulti, perché l’allegoria del Buon Pastore nel vangelo di san Giovanni è l’equivalente della parabola del figliol prodigo nel vangelo di San Luca. Chi c’è che possa aver paura di Cristo, Buon Pastore, se l’unica cosa che cerca e alla quale si consacra è il nostro maggior bene? È vero che alcune verità della nostra fede possono sembrarci difficili, ma non aver paura delle difficoltà, il Buon Pastore ti aiuterà a comprenderle un poco di più, ad accettarle con amore e gioia, come un regalo magnifico, e soprattutto a viverle con passione e dedizione. Può essere che alcuni insegnamenti morali del cristianesimo siano costosi, duri, contro corrente, ma lo stesso Buon Pastore, che ti alimenta con queste verità, ti darà la forza per assimilarle e per metterle in pratica nella tua vita quotidiana. Può essere che qualche volta tu ti smarrisca o ti indebolisca, nel cammino della vita, ma non avere paura di tornare a Cristo, che egli ti porrà sulle sue spalle e sarà felice di averti recuperato. Non avere paura! Il Buon Pastore è disposto a tutto, a tutto, per amor tuo, per il tuo bene.

Il martirio possibile: dono e libertà! La vocazione cristiana porta insita in sé, per forza propria, la vocazione al martirio. È, pertanto, una possibilità, a volte molto reale e perfino vicina, per ogni cristiano, laddove egli si trovi. E non pensiamo che i martìrii siano possibili soltanto in America latina, Asia, Africa ed Europa dell’est. Ogni anno non sono pochi coloro che hanno confessato la loro fede con il martirio in diversi continenti. Nel mondo ci sono molti che muoiono violentemente, ma non sono martiri; questo è un dono di Cristo crocifisso ed esaltato alla destra di Dio. Se il Crocifisso non ci attrae verso il martirio, se non ci concede questa somiglianza suprema con Lui, non avremo nemmeno la possibilità di essere martiri. Al dono divino si aggiunge la libertà umana, perché il martirio è un atto di sovrana libertà. Nessuno è costretto a morire martire. Si arriva ad essere martiri, soltanto se si è liberi e si ama veramente. Esiste il martirio cruento, possibile per tutti, effettivo soltanto in alcuni. Ed esiste il martirio incruento, possibile ed effettivo per tutti: il martirio del dovere compiuto, della coerenza tra la fede e la vita, della testimonianza costante, del vivere sempre nella verità, dell’amare i nemici (politici, ideologici, religiosi, parrocchiali...). Qualunque sia il tuo martirio, bevi il calice per Cristo e con Cristo.

 

 

Quinta Domenica di Pasqua 13 maggio dell’anno 2001

Prima: At 14, 21-27; seconda: Ap 21, 1-5 Vangelo: Gv 13,31-33.34-35

 

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

La Chiesa nasce dalla Pasqua. In questa domenica, i testi liturgici possono concentrarsi intorno al tema della Chiesa. Innanzitutto, nel vangelo ci si offre la carità come sostanza della Chiesa: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli". Questa Chiesa, amore e comunione, si realizza storicamente nelle piccole comunità delle origini cristiane, per esempio, nelle comunità fondate da Paolo e Barnaba durante il loro primo viaggio missionario (prima lettura). Questa Chiesa storica è riflesso, e allo stesso tempo impulso, verso la Chiesa eterna, dimora definitiva e senza termine di Dio tra gli uomini (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

La carità, sostanza della Chiesa. Il vangelo è molto chiaro: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni verso gli altri" (Gv 13,35). Dicendo discepoli non si riferisce a ciascuno individualmente, ma in quanto comunità di coloro che seguono Gesù e i suoi insegnamenti, cioè, in quanto Chiesa. Gesù, in quest’ora suprema in cui ci lascia il suo testamento prima di morire, non dice: "Sapranno che siete miei discepoli, se vivete poveri o se siete obbedienti, se avete appreso bene tutti i miei insegnamenti o se siete capaci di predicare il mio vangelo". Sono tutte cose necessarie, ma non coincidono con la sostanza, con la quintessenza della Chiesa. Quest’ultima è solamente la carità. Per questo, la Chiesa potrebbe definirsi come "la comunità di coloro che si amano, come Cristo li ha amati". Cristo ci ha amato fino a dare la sua vita perché noi avessimo vita. Cristo ci ha amato fino a renderci partecipi dello stesso amore che esiste tra il Padre e il Figlio. Cristo ci ha amato fino a farsi servo e a lavare i piedi ai suoi, affinché conoscessimo bene che l’amore, l’autorità tra i suoi discepoli, è fondamentalmente servizio. Se al di sopra della carità o, ancora peggio, al margine di essa, si pongono altri valori nella vita quotidiana della Chiesa, si dovrà concludere che non stiamo toccando il cuore della Chiesa.

Una Chiesa nella storia. Dopo la Pentecoste, i discepoli cominciarono a fondare le prima comunità cristiane a Gerusalemme, la Chiesa-Madre, a Samaria, nelle città della costa mediterranea della Palestina, a Damasco, Antiochia… e con Paolo e Barnaba nella zona meridionale della provincia romana di Asia (attuale Turchia). La Chiesa-Carità comincia a incarnarsi in piccole comunità di uomini e donne, giudei e gentili, di razze e costumi diversi, ma uniti tramite la fede e l’amore per Gesù Cristo. Questa incarnazione storica della Chiesa-Carità comporta certi requisiti, alcuni dei quali li troviamo nella seconda lettura: la necessità della tribolazione, per il fatto stesso di vivere tra altri che non sono cristiani; la necessità di essere consolati ed animati nel vivere la fede e la vita cristiana; la designazione di presbiteri per la buona marcia della comunità; la preghiera e il digiuno, come due appoggi importanti della carità. Implica inoltre la gioia di condividere con altre comunità, in questo caso, con la comunità di Antiochia, le meraviglie operate da Dio nel corso del viaggio missionario di Paolo e Barnaba attraverso il sud della provincia di Asia. Questi aspetti, tra gli altri, parlano di una Chiesa viva, presente ed incarnata nelle circostanze storiche.

La Chiesa nel suo eterno destino. Di questa Chiesa splendida e luminosa, in pienezza di perfezione divina ed umana, ci parla la seconda lettura, tratta dall’Apocalisse. L’autore immagina la Chiesa come una città, la nuova Gerusalemme, la dimora di Dio con gli uomini (21,3). Una Chiesa, per questo, visitata ed abitata dalla felicità più piena, una Chiesa sempre giovane e piena di vita. Una Chiesa franca, senza frontiere, con le braccia aperte ad accogliere tutti. Questa Chiesa, tanto bella e magnifica nel suo destino, ha un riflesso, sebbene pallido, nella Chiesa storica, nella chiese fondate dai primi apostoli, nelle chiese in cui oggi si incarna l’amore e la fede dei cristiani.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Il vero volto della Chiesa. Che cosa è che fa brillare davanti agli uomini il vero volto della Chiesa, un volto bello ed attraente? Indubbiamente, la carità. La Chiesa docente è necessaria, insostituibile, e inseparabile dalla Ecclesia amans, ma, agli occhi degli uomini, perfino degli stessi cristiani, non è il volto più attraente. La Chiesa che celebra i sacramenti è importantissima, e un modo adattissimo di esprimere l’amore della Chiesa verso i suoi figli in diverse situazioni e circostanze della vita, ma non è neppure questo il volto che più seduce i cristiani, meno ancora quelli che non lo sono (è purtroppo evidente la disaffezione che c’è stata, e continua ad esserci, verso i sacramenti). E il volto più genuino della Chiesa non lo offrono nemmeno le sue istituzioni, a volte tanto criticate – spesso in modo ingiusto e sleale – dai nostri contemporanei. Il vero volto della Chiesa ce lo dà la Chiesa-Carità, comunione, la Chiesa che realmente ama e si dedica a comunicare amore mediante tutti e ciascuno dei suoi figli. Tutti conosciamo il canto "Dov’è carità e amore, qui c’è Dio", frase che si potrebbe parafrasare in un altro modo: "Dove c’è carità e amore, lì sta la Chiesa". Codesta carità che in Dio ha la sua sorgente e in Dio termina il suo percorso di amore attraverso le vite degli uomini. Dio, alfa e omega della carità: tra questi due estremi del vocabolario greco, si trovano tutte le altre consonanti e vocali con le quali esprimere di tutto cuore il nostro amore al prossimo. Non sleghiamo mai la carità dalla fede, dal dogma, dalla liturgia, dalle istituzioni, ma il volto più bello, genuino e vero, che ciascuno di noi offra alla Chiesa, sia il volto della carità vera e dell’amore sincero. Ricordiamo ciò che dice san Paolo nell’inno alla carità: "Se non ho carità, non sono nulla".

Anche la mia parrocchia è la Chiesa. Il fenomeno della globalizzazione può aiutarci a cogliere meglio l’universalità della Chiesa, e, di conseguenza, della carità cristiana. Il campanilismo, cioè, codesto racchiudersi nella propria parrocchia, nella propria diocesi, tagliando allo sguardo qualsiasi orizzonte aperto verso altre parrocchie, altre diocesi, e verso tutta la Chiesa nei diversi continenti, deve essere rifiutato da un cuore autenticamente cristiano. Certamente, debbo amare ed esercitare la carità nei confronti dei membri della mia famiglia, del mio quartiere, della mia parrocchia, eccetera. Ma, non è forse vero che il mondo intero sta cominciando ad essere la nostra parrocchia e, pertanto, il luogo per l’espressione della nostra carità? Un esempio concreto dalla globalizzazione dell’amore lo hanno dato molte famiglie cristiane, e molte parrocchie di tutta Italia, ma specialmente di Roma, durante la Giornata Mondiale della Gioventù, accogliendo tanti giovani venuti da ogni parte del mondo. Che cosa posso fare per esprimere, a partire dalla mia parrocchia e nella mia parrocchia, l’amore a tutta la Chiesa?

 

Sesta domenica di PASQUA 20 maggio dell’anno 2001

Prima: At 15, 1-2.6.22-29; Ap 21, 10-14.22-23 Vangelo: Gv 14, 23-29

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Nella sinfonia dei testi liturgici un tema predominante è la relazione tra Pasqua e Trinità: nel testo evangelico, tratto dal discorso dell’Ultima Cena, ma con i verbi al futuro, il Padre e il Figlio: "prenderanno dimora nel credente" e lo Spirito Santo appare come "memoria" della vita e messaggio di Gesù. Nella grande assemblea di Gerusalemme, riunita in nome del Signore Gesù, lo Spirito Santo e gli apostoli e presbiteri decisero di non imporre ai cristiani gentili più obblighi di quelli indispensabili (prima lettura). La nuova Gerusalemme, venuta dal cielo, da Dio, – figura e immagine della Chiesa nel tempo, in marcia verso l’eternità –, non ha un tempio, perché il Signore, il Dio onnipotente, e l’Agnello, sono il suo tempio (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Pasqua: La Trinità in azione. La Pasqua di Cristo è il centro della vita di Gesù e della storia della salvezza; per tale motivo, è il momento in cui ognuna delle Persone divine esercita in sommo grado, tra gli uomini, la sua azione rivelatrice, santificante e salvifica. Il Padre porta alla pienezza, nella Pasqua, il suo amore di Padre verso Gesù, che esalterà dopo la morte ignominiosa su una croce; verso gli uomini, nei quali, grazie all’opera redentrice realizzata da Gesù, potrà prendere dimora per sempre (vangelo); e verso la Chiesa, la nuova città scesa dal cielo essendo, insieme con l’Agnello, la sua luce e il suo tempio (seconda lettura). Il Figlio agisce potentemente nella storia degli uomini mediante la sua offerta redentrice al Padre: "Vado", dice Gesù ai suoi discepoli, indicando la sua morte e la sua resurrezione (vangelo). Agisce allo stesso modo, attraendo alla fede e al battesimo sia i giudei che i gentili (prima lettura). Infine, la seconda lettura sottolinea la sua azione magisteriale e sacerdotale nella Chiesa, che è la sua luce e il suo santuario. Riguardo allo Spirito Santo, quest’ultimo è e sarà per i credenti "magistero e memoria" del mistero pasquale (vangelo); è il vero motore che dà impulso alla vita e alle decisioni della Chiesa, perché siano conformi al Vangelo (prima lettura); è anche colui che mostra agli uomini il volto vero e bello della Chiesa, al di sopra e al di là delle vicissitudini storiche, non esenti da colpe e miserie. Con la Pasqua, non solo si rivela più chiaramente il mistero trinitario, ma inoltre, l’uomo credente è più in grado di svelarne la misteriosa, piena ed efficace azione nella storia.

Pasqua: L’azione della Trinità. L’azione della Trinità, più evidente nell’attuale liturgia, è la pace. La pace, codesto magnifico dono di Javeh al suo popolo, è adesso il dono di Gesù ai suoi. Il Padre e il Figlio concordano nel dare ai credenti la pace, cioè il segno e simbolo di tutti i beni (vangelo). Lo Spirito Santo, ormai nella storia concreta dei credenti, muove gli uomini a cercare soluzione ai problemi dell’esistenza cristiana nella concordia, nella verità e nella pace (prima lettura). E non risplende forse come luogo di pace la nuova Gerusalemme, con una muraglia protettrice di fronte a tutti i nemici della pace, e con il Signore Onnipotente e l’Agnello presenti in mezzo ad essa? (seconda lettura). Una seconda azione trinitaria è la gioia. Dove più chiaramente appare, è nella prima lettura: i cristiani di Antiochia, dopo aver ascoltato la lettura della lettera inviata dall’assemblea di Gerusalemme, "si rallegrarono ricevendo quell’incoraggiamento". Ma anche Gesù nel vangelo dice ai suoi che "se mi amaste, vi rallegrereste che io vada al Padre"; e lo splendore e la luminosità della città santa di Gerusalemme, non è forse una icona della gioia spirituale di tutti coloro che in essa abitano? La gioia cristiana, che è opera della Trinità, e, in quanto opera della stessa, sopravvive, si depura e si approfondisce in mezzo alle tribolazioni e alle prove della quotidianità.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Il volto trinitario del cristiano. La festa della Pasqua è in intima connessione con il battesimo, giacché tramite il battesimo siamo immersi nel mistero pasquale di Gesù Cristo. Nel battesimo, il cristiano è suggellato dalla Trinità: "Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo", e per mezzo del battesimo si trasforma in appartenenza della Trinità a titolo di Figlio di Dio, fratello di Cristo e discepolo dello Spirito. Noi, come cristiani del secolo XXI, siamo chiamati a rendere patente nella nostra vita, tra i nostri contemporanei, il volto trinitario di Dio. Come cristiano, debbo crescere nella mia esperienza filiale di Dio, così da far vedere agli uomini, con il mio atteggiamento e la mia condotta, il volto paterno di Dio. Come cristiano, mi è irrinunciabile il vivere la mia fraternità con Cristo, mio fratello maggiore, mio modello di vita e di comportamento. Come lui, darò testimonianza, davanti agli altri, del mio amore autentico a tutti gli uomini, perché tutti sono miei fratelli e tutti amo in quanto tali. Come discepolo dello Spirito Santo, constato che non posso ascoltare altre voci, sebbene molto seducenti, né seguire altri maestri che sussurrano nel mio intimo altri criteri ed altri insegnamenti. Il mio maestro e la mia guida è lo Spirito del Padre e di Cristo, che fa risuonare in noi l’unico Vangelo di Dio. Come cristiano, sono consacrato ad essere un riflesso dello Spirito, maestro e memoria di Gesù. Sono cosciente che, per essere cristiano, debbo rendere visibile la presenza trinitaria in mezzo agli uomini, alle loro attività ed occupazioni quotidiane? Ho una relazione intima con ciascuna delle Persone della Trinità? Se noi cristiani non riflettiamo il volto della Trinità nella nostra esistenza di ogni giorno, l’essenza del cristianesimo sarà ridotta a un puro concetto, senza incidenza nella vita umana. Preghiamo perché il Dio uno e trino sia per tutti i cristiani una presenza vivificante e trasformante.

Lo Spirito, memoria del cristiano. Nel mondo tanto agitato ed iperattivo in cui viviamo, non è difficile dimenticare. Non solo, è un’operazione salutare che il nostro sistema immunologico realizza automaticamente. Se ricordassimo tutto ciò che vediamo in televisione, leggiamo sui giornali, sui libri, su internet, tutto ciò che ascoltiamo nelle conversazioni, che esperimentiamo ogni giorno, in poco tempo diventeremmo pazzi. Nel cristianesimo ci sono alcune cose essenziali, che non dovremmo dimenticare mai, ma che, con il passar del tempo, e nell’agitazione e nell’attivismo febbrile che ci circonda, facilmente trascuriamo. Ma lo Spirito di Dio risveglia la memoria, ci riporta alla mente e al cuore l’essenziale della vita in Cristo: il fatto che Dio non ha eguali ed è sempre e in assoluto il primo, che il Dio cristiano è uno e trino e ciascuna delle persone agisce nella vita del cristiano, che siamo peccatori bisognosi di redenzione, e che Cristo ci ha redento, che la Chiesa è la comunità di quelli che pregano, sperano ed amano, mossi dallo Spirito Santo, che nella quotidianità della vita dobbiamo dimostrare ciò che siamo, che con la morte non tutto termina, ma si apre una porta ad una vita nuova. Lascio che lo Spirito Santo mi ricordi, di tanto in tanto, queste cose tanto semplici ed essenziali?

 

 

Solennità dell’ ASCENSIONE 27 maggio dell’anno 2001

Prima: At 1, 1-11; seconda: Eb 9, 24-28 Vangelo: Lc 24, 46-53

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Nella solennità dell’Ascensione l’insieme della liturgia sembra dirci: "Missione compiuta, ma non terminata". Nel vangelo Luca mette in rilievo il compimento della missione: mistero pasquale ed evangelizzazione universale. La narrazione del libro degli Atti si fissa principalmente sul compito non terminato: sarete miei testimoni… fino ai confini della terra; questo Gesù…tornerà… Infine, la lettera agli Ebrei sintetizza nel Cristo glorioso, sommo sacerdote del santuario celeste, la missione compiuta (entrò nel santuario una volta per sempre), ma non terminata (intercede presso il Padre in favore nostro... verrà una seconda volta… a coloro che l’aspettano per la loro salvezza).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

Gesù Cristo può andarsene tranquillo. L’Ascensione non è per niente un momento drammatico, né per Gesù né per i discepoli. L’Ascensione è il congedo di un fondatore, che lascia ai suoi figli il compito di continuare la sua opera, non lasciandoli abbandonati alla propria sorte, ma seguendo passo dopo passo le vicissitudini della sua fondazione nel mondo mediante il suo Spirito. Cristo può andarsene tranquillo, perché si sono compiute le Scritture su di lui, e i discepoli cominciano a comprenderlo. Cristo può andarsene tranquillo, non perché i suoi uomini siano degli eroi, ma perché il suo Spirito li accompagnerà sempre e dovunque nel loro compito evangelizzatore. Può andarsene tranquillo Gesù Cristo, perché i suoi, posseduti del fuoco dello Spirito, proclameranno il Vangelo di Dio, che è Gesù Cristo, a tutti i popoli, generazione dopo generazione, fino al confine della terra e fino alla fine dei tempi. Cristo può andarsene tranquillo, perché ha compiuto la sua missione storica, e ha passato la staffetta al suo Spirito, che la interiorizzerà in ciascuno dei credenti. Cristo può andarsene tranquillo, perché i discepoli proclameranno lo stesso Vangelo che egli ha predicato, faranno gli stessi miracoli che egli ha realizzato, testimonieranno la verità del Vangelo, così come lui la testimoniò, fino alla morte in croce. Puoi andartene tranquillo, Gesù, perché la tua Chiesa, in mezzo alle contraddizioni di questo mondo, e nonostante le debolezze e le miserie dei suoi figli, ti sarà sempre fedele, fino a che tornerai.

Andarsene da questo mondo rimanendovi. Ogni uomo sente nel suo intimo, in vista della morte, il desiderio intenso di restare nel mondo, di lasciarvi qualcosa di se stesso, di andar via rimanendo. Lasciare dei figli che lo prolunghino e lo ricordino, lasciare una casa costruita da lui, un albero da lui piantato, lasciare un’opera – non importa se grande o piccola – di carattere scientifico, letterario, artistico…Gesù Cristo, nella sua condizione di uomo e Dio, è l’unico che può soddisfare pienamente questa ansia del cuore umano. Egli se ne va, come ogni essere storico, ma resta, anche, e non solo nel ricordo, non solo in un’opera, ma realmente. Egli vive glorioso nel cielo, e vive misterioso sulla terra. Vive per mezzo della grazia nell’intimo di ogni cristiano; vive nel sacrificio eucaristico, e nei tabernacoli del mondo prolunga la sua presenza reale e redentrice. Vive ed è rimasto con noi nella sua Parola, codesta Parola che risuona sulle labbra dei predicatori e nell’intimo delle coscienze. È rimasto e si fa presente nel papa, nei vescovi, nei sacerdoti che lo rappresentano davanti agli uomini, che lo prolungano con le loro labbra e con le loro mani. È rimasto, Gesù, con noi, costruendo con il suo Spirito, dentro di noi, l’uomo interiore, l’uomo nuovo, sua immagine vivente nella storia. La presenza e la permanenza di Gesù Cristo nel mondo è molto reale, ma anche molto misteriosa, nascosta, visibile soltanto per coloro che hanno lo sguardo brillante come uno smeraldo ed illuminato dalla fede.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Cristo è rimasto con noi. Nella vita umana, abbiamo bisogno di una presenza amica, perfino quando siamo soli. Una presenza reale: la moglie, i figli, un parente, un compagno d lavoro, un vicino di casa… O almeno una presenza sognata, immaginaria: il ricordo della madre, l’immagine dell’amico del cuore, il pensiero del figlio che vive in un’altra città o in un altro paese… Questa presenza reale o sognata ci conforta, ci consola, ci dà pace, ci motiva. Cristo è rimasto con ciascuno e con tutti noi. La sua è una presenza reale ed efficace, benché non visibile e palpabile. Una presenza di amico che sa ascoltare i nostri segreti e le nostre intimità con affetto, con pazienza, con bontà, con misericordia e con amore; che sa allo stesso modo ascoltare le nostre piccole cose di ogni giorno, benché siano le stesse, benché siano cose senza importanza; che sa perfino ascoltare le nostre ribellioni interiori, i nostri sfoghi d’ira, le nostre lacrime di orgoglio, i nostri spropositi in momenti di passione… Cristo è rimasto con te, al tuo fianco, per ascoltarti. La presenza di Cristo è anche una presenza di Redentore, che cerca con tutti i mezzi la nostra salvezza. Egli sta al nostro fianco nella tentazione, per darci forza ed aiutarci a vincerla. È il nostro compagno di cammino quando tutto va bene, quando il trionfo corona il nostro sforzo, quando la grazia va conquistando terreno nella nostra anima. Sta con noi nel momento della caduta, nella disgrazia del peccato, per aiutarci a riflettere, per darci una mano al momento di alzarci. Cristo è rimasto con te per salvarti. Pensi qualche volta a questa presenza stupenda di Cristo, amico e redentore?

La liturgia della vita quotidiana. Cristo, come sacerdote della Nuova Alleanza, ha offerto la sua vita giorno per giorno sull’altare della quotidianità, fino a consumare la sua offerta nella liturgia della croce. Con l’Ascensione, il nostro sommo sacerdote è partito da questo mondo. Noi cristiani, popolo sacerdotale, assumiamo il suo stesso compito di consacrare il mondo sull’altare della storia. Per il cristiano, ogni atto è un atto liturgico, ogni giorno è una liturgia di lode e di benedizione di Dio. Non c’è nessuna attività della vita quotidiana degli uomini che non possa trasformarsi in ostia santa e gradita a Dio. Pertanto, ci dice la costituzione dogmatica sulla Chiesa del Vaticano II, tutti i discepoli di Cristo, in preghiera continua e in lode a Dio, debbono offrire se stessi come sacrificio vivo, santo e gradito a Dio (cf Rom 12,1) (LG 10). Tramite il battesimo, che ci ha introdotto nel popolo sacerdotale, siamo chiamati a confessare davanti agli uomini la fede che abbiamo ricevuto da Dio per mezzo della Chiesa. In quanto membro del popolo sacerdotale confesso la mia fede in casa, davanti ai miei figli o davanti ai miei genitori. Con il mio atteggiamento e la mia parola confesso la mia fede in una riunione di amici o di lavoro. Come partecipe del sacerdozio battesimale, pongo la mia fede al di sopra di tutto e davanti a tutto, e ne faccio il metro unico delle mie decisioni e comportamenti. La mia vita, è già liturgia santa e gradita a Dio? È questo il mio desiderio più intimo ed il mio più fermo proposito?

 

Solennità di PENTECOSTE 3 giugno dell’anno 2001

Prima: At 2, 1-11; seconda: Rom 8, 8-17 Vangelo: Gv 14, 15-16.23-26

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

 

In questa solennità di Pentecoste, soffermeremo la nostra attenzione sui compiti dello Spirito nell’intimo delle coscienze e nell’insieme della comunità credente. Lo Spirito esercita, innanzitutto, il compito di consolatore e avvocato protettore del cristiano, combinando questo compito con quello di maestro interiore (vangelo). Nella prima lettura, lo Spirito, sotto l’immagine del vento e del fuoco, compie il suo compito di potenza trasformante dell’uomo e promotrice del Vangelo in tutte le nazioni. Infine, egli è forza vivificante, allo stesso tempo che testimone ed artefice della nostra filiazione divina (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

Lo Spirito ci consola e ci protegge. Gesù Cristo è stato, durante gli anni di vita pubblica, il consolatore dei discepoli. Adesso sta per ritornare al Padre. Resteranno, i discepoli, abbandonati allo sconforto, non protetti dagli attacchi e l’ostilità del mondo? Gesù assicura loro che invierà un altro Paraclito, cioè un altro consolatore e protettore. È lo Spirito Santo. Consolare vuol dire accompagnare, stare al fianco di qualcuno, soprattutto nei momenti di tribolazione, solitudine e sofferenza. Lo Spirito Santo fa con noi e in noi il cammino della vita, della nostra vita umana con tutta la sua realtà prosaica e con tutta la sua esaltazione sublime. Il cristiano, se è coerente, vive in una perenne Pentecoste e, per questo, nell’esperienza ineffabile del conforto spirituale e della sicurezza protettrice ed efficace dello Spirito.

Lo Spirito, maestro di cristologia. Qualcosa di molto chiaro nei testi del Nuovo Testamento è che soltanto lo Spirito sa parlare di Cristo, la cristologia è l’unica materia che egli sa insegnare agli uomini. È non soltanto un ripetitore di ciò che Cristo ha insegnato ai suoi, ma anche un attualizzatore degli insegnamenti di Cristo alle nuove circostanze e situazioni dei credenti. Nel Nuovo Testamento appare sotto figure molto diverse, ma sotto di esse coincide sempre nell’essere un espositore di Cristo. E non soltanto della sua dottrina, ma della sua vita e dei suoi atteggiamenti. Per questo, egli è colui che fa risuonare in noi la voce di Cristo che dice: Abba, Padre.

Lo Spirito, potenza trasformante. Con il vento impetuoso che agita il Cenacolo viene simboleggiata l’origine della potenza dello Spirito, che è Dio stesso, e ci si rimanda alla prima creazione, quando Dio infuse il suo alito sul primo uomo di argilla. Con il fuoco si fa riferimento all’esperienza di Mosè sul Sinai e alla trasformazione che tale fuoco, senza consumarsi, operò in lui. Lo Spirito trasforma l’intimo dell’uomo e il suo operare quotidiano perché gode della potenza divina. In questo modo, opera una nuova creazione, una nuova generazione: quella dei Figli di Dio in Cristo Gesù.

Lo Spirito, potenza promotrice del Vangelo. Secondo Filone di Alessandria: Sul Sinai il fuoco si trasformò in lingua… e nell’interpretazione rabbinica dell’Alleanza sinaitica, la voce di Dio sul Sinai si era divisa in 70 voci, in 70 lingue, quanti erano i popoli conosciuti, affinché tutte le nazioni del mondo potessero ascoltare e comprendere la legge. Alla Pentecoste, lo Spirito realizza questo miracolo: il Vangelo di Gesù Cristo giunge a tutti i popoli, incarnandosi nelle loro lingue e culture. Grazie allo Spirito, la voce del Vangelo risuona nella volta della terra, senza eccezione alcuna.

Lo Spirito, testimone ed artefice vivificatore della nostra filiazione divina. Nell’essere figli di Dio risiede l’essenza del cristianesimo, per questo lo Spirito testimonia nella nostra anima questa condizione fondamentale dell’esistenza cristiana. La testimonianza dello Spirito è nascosta, ma sempre vivificante, perché nell’essere figli di Dio sta la nostra vita. Allo stesso tempo che testimone, lo Spirito è artefice della filiazione divina in noi, perché non può sopportare che, chiamati ad essere figli, viviamo come schiavi.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Cristiano, cioé, guidato dallo Spirito. Il termine ‘cristiano’ è molto ricco, per questo nessuna definizione può comprenderlo completamente. Cristiano è colui che crede in Gesù Cristo. Cristiano è chi riproduce nella sua vita il modello che Cristo ci offre. Cristiano è ogni uomo battezzato. Cristiano è ognuno che ama Dio e il suo prossimo, eccetera. Oggi voglio sottolineare: Cristiano è ogni uomo guidato dallo Spirito. Essendo lo Spirito di Cristo, egli sempre ci porterà a Cristo, ci farà vivere secondo Cristo, ci farà amare come Cristo ama, ci farà vivere a fondo il nostro battesimo, che è eminentemente incentrato nella persona e nella vita di Cristo. Se ti lasci guidare dallo Spirito, egli ti farà comprendere e vivere il Vangelo di Gesù Cristo: il vangelo della verità e della giustizia, il vangelo della sofferenza e della croce, il vangelo di Dio e dell’uomo, il vangelo della vita e della morte, il vangelo della Chiesa e del mondo, il vangelo di oggi e di sempre. Se ti lasci guidare dallo Spirito, egli ti spingerà ad essere coerente tra il tuo essere e il tuo operare, tra il tuo pensare e il tuo vivere, tra la tua vocazione cristiana e la tua presenza nel mondo del lavoro, degli affari, della politica, della docenza, delle finanze. Se ti lasci guidare dallo Spirito, egli ti porterà a guardare al di là di te stesso, a vedere tante necessità degli uomini che ti stanno aspettando, a vivere con i piedi ben piantati per terra, ma con il cuore posto in cielo.

Lo Spirito nella Chiesa e con la Chiesa. La prima Pentecoste si realizzò nella comunità dei discepoli di Cristo, nella Chiesa apostolica. Questo fatto fondante costituisce una caratteristica dell’azione dello Spirito. Egli opera nella Chiesa, cioè, all’interno di essa, per santificarla, rinnovarla, accrescerla, purificarla, vivificarla. A volte si avrebbe l’impressione che certi cristiani si sorprendano e si meraviglino vedendo l’azione dello Spirito fuori della Chiesa, e che abbiano perso ogni capacità di ammirazione per scoprire l’immensa e magnifica azione dello Spirito nella Chiesa. Si deve sapere fare le due cose. Inoltre, lo Spirito Santo opera con la Chiesa. Cioè, ogni azione della Chiesa fuori del suo ambito proprio, è accompagnata dalla presenza e dall’azione dello Spirito. Quando la Chiesa si fa missionaria, lo Spirito è missionario con lei. Quando la Chiesa instaura un dialogo interreligioso, lo Spirito sta con la Chiesa in tale dialogo, per farlo fruttificare. Quando la Chiesa si fa solidale con i più bisognosi, lo Spirito condivide con lei questa stessa solidarietà. Quando la Chiesa dà orientamenti, a partire dalla fede, nel campo politico e sociale, lo Spirito illumina ed appoggia tali orientamenti. Tutto per la semplice ragione che lo Spirito è l’anima della Chiesa.

 

Solennità della SANTISSIMA TRINITà 10 giugno dell’anno 2001

Prima: Prov 8, 22-13; seconda: Rom 5, 1-5 Vangelo: Gv 16, 12-15

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

 

Se mi è permesso parlare così, direi che i testi liturgici ci indirizzano verso la Operazione Trinità. Una operazione top secret nel cuore di Dio è che si va rivelando poco a poco, per esempio, sotto la personificazione della Sapienza (prima lettura). Gesù Cristo nel vangelo ci fa addentrare nell’Operazione Trinità rivelandoci l’interazione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Infine, il testo della lettera ai Romani mostra le conseguenze dell’Operazione Trinità nella vita dei cristiani, per opera soprattutto dello Spirito.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Dio si rivela a noi. Nessuna intelligenza umana, perfino la più elevata e perfetta, può conoscere da sola il mistero della vita trinitaria. Nessuna filosofia può svelare per via speculativa che Dio è simultaneamente uno e trino. Nessuna religione può scorrere il velo del santuario in cui dimora la realtà stessa di Dio, Verità, Amore e Vita. Ciò che sappiamo del Dio vivo e vero ci viene per autorivelazione: "Piacque a Dio, con la sua bontà e sapienza, rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà" (Dei Verbum 2). Nella storia della salvezza, Dio si è rivelato innanzitutto come creatore e come provvidenza su tutte le sue creature (prima lettura). Il testo evangelico ci insegna che Gesù Cristo, in quanto Figlio di Dio, ci ha rivelato soprattutto la paternità divina. Lo Spirito Santo, da parte sua, ci porterà alla verità completa, cioè ci farà comprendere e sperimentare meglio e in maggior profondità la realtà della vita trinitaria e le conseguenze di questa realtà per la nostra vita in questo mondo: la pace con Dio Padre, lo stato di figli di Dio in cui ci troviamo per mezzo del battesimo, il possesso dell’amore di Dio, con il quale superare qualsiasi tribolazione e vivere nella speranza che non inganna. Dio non ci si rivela come un anziano solitario e giustiziere, ma come un Padre con una intensa vita familiare, suggellata tutta dalla Verità e dall’Amore.

Dio ci rivela e ci interpella. Rivelando se stesso nella sua vita più intima, Dio rivela all’uomo la sua più profonda identità e la sua occupazione più importante nell’esistenza storica. Per questo il mistero della Trinità non è, né può essere, indifferente al cristiano. Come ci dice il catechismo, il mistero trinitario è la luce che ci illumina (CCC 234). Illumina la nostra intelligenza della creazione, poiché il Padre ha creato l’universo e l’uomo con le sagge mani del Figlio e dello Spirito (prima lettura), e così ci rivela non soltanto la nostra condizione di creature, ma anche la nostra condizione contemplativa e quasi mistica. Illumina la nostra comprensione delle relazioni entro la famiglia divina (vangelo), e mediante esse ci rivela la nostra partecipazione in questa vita divina e la nostra vocazione di riflesso della stessa. Ci rivela soprattutto la nostra condizione di uditori dello Spirito, ai quali lo Spirito della Verità comunica tutto ciò che ha udito nel seno del Padre e tutto ciò che ha ricevuto dal Verbo, fattosi carne. Ci rivela, per azione dello Spirito, la nostra condizione di uomini della speranza, di fronte agli uomini senza speranza, che sono i non credenti; una speranza solida, che non inganna (seconda lettura). Questa rivelazione che il Dio vivo e trinitario ci fa della nostra identità, ci interpella allo stesso tempo affinché la vita divina acquisisca formulazione ed espressione storica in ciascuno dei cristiani: l’unità della fede, l’amore come essenza del cristianesimo, la docilità alla presenza e all’azione dello Spirito Santo nelle nostre anime, il ruolo magisteriale dello Spirito della Verità divina, la molteplicità di espressioni culturali della stessa ed unica fede.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Mistero di fede e di amore. Un mistero in cui non soltanto dobbiamo credere, ma che dobbiamo anche amare. Credo, crediamo in un unico Dio che ci dà la vita come Padre, che come Figlio ci chiama a vivere a fondo l’esperienza filiale di cui Egli ci rende partecipi, e che, in quanto Spirito, si definisce come scambio di amore tra il Padre e il Figlio, e ci insegna che nell’amore si trova l’essenza di Dio e di ogni creatura. Mi fido di questo Dio Vita, Comunione, Verità, Amore. Credo ed ho fiducia che nella appropriazione di questi grandi valori "divini" trovo la mia piena realizzazione umana e cristiana. Come cristiano, esprimo la mia fede amando la grandezza e la bellezza del Dio uno e trino. Con il mio amore a ciascuna delle persone divine, pretendo di sottolineare che il Dio trinitario non è un’astrazione, non è un mondo mentale bello e ben costruito, non è un gioco di concetti con i quali intrattenere la riflessione dei teologi, ma un Dio tripersonale, che amo come figlio, a cui obbedisco come creatura, che adoro perché è il mio Dio e Signore. Considero qualcosa di sommamente positivo e necessario che, fin dalla prima catechesi, si introducano i bambini in una relazione personale e adorante con il Padre, con il Figlio e con lo Spirito. Per questa catechesi trinitaria può aiutarci una spiegazione elementare della Santa Messa, che comincia e termina nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. In essa, Gesù Cristo, Figlio di Dio, parla a noi uomini (ai bambini, e agli adulti) a partire dal Vangelo. In essa, tutte le orazioni e le suppliche nostre si rivolgono a Dio Padre, fonte di ogni dono e grazia. In essa è presente ed attivo lo Spirito Santo, in modo molto speciale nel momento della consacrazione, per far sì che il pane e il vino si trasformino nel corpo e nel sangue di Cristo, e per trasformare la nostra povera esistenza mediante il corpo di Cristo, che nella messa riceviamo. Se Dio è un mistero di amore, non sarà l’amore la migliore maniera di entrare per la porta del mistero?

La gloria della Trinità. La gloria della Trinità è che l’uomo viva e, per mezzo di lui, tutta la creazione acquisisca senso e compia la sua finalità. Che vuol dire che l’uomo viva? Che sia ciò che deve essere. Che sia pienamente uomo e, se è stato chiamato alla vocazione cristiana, che sia pienamente cristiano. Qui è il dramma della Trinità, che è, allo stesso modo, il dramma dell’uomo: non poche volte la gloria della Trinità è resa opaca, ottenebrata dall’uomo. L’uomo non è ciò che è, quando si crede un demiurgo autonomo in luogo di una creatura dipendente, e manipola la vita e la creazione a suo piacimento. L’uomo non è ciò che è, quando dimentica di essere stato creato a immagine di Dio e pensa che la sua immagine più perfetta si trovi nel regno animale. L’uomo non è ciò che è, quando pensa che non è stato creato per amore e per amare, ma piuttosto che la sua realizzazione personale sia proporzionata alla misura del suo potere e del suo dominio sugli altri. L’uomo non è ciò che è, quando si crede padrone della vita, tanto da poterne fare ciò che vuole, invece di essere un recettore grato, che la amministra saggiamente per averla ricevuta da Dio stesso.

 

 

 

 

 

Solennità del CORPUS DOMINI 17 giugno dell’anno 2001

Prima: Gen 14, 18-20; seconda: 1Cor 11, 23-26 Vangelo: Lc 9, 11-17

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Pane" è il termine in cui coincidono i testi liturgici. Gesù, nel passaggio evangelico, "prese i cinque pani… e, levati gli occhi al cielo, li benedisse". Questo gesto di Gesù, visto retrospettivamente, è prefigurato in quello di Melchisedec, re-sacerdote di Salem, che offre ad Abramo "pane e vino" (prima lettura), come segno di ospitalità, di generosità e di amicizia. Questo stesso gesto di Gesù, visto proletticamente, anticipa l’Ultima Cena con i suoi e l’Eucarestia celebrata dai cristiani in memoria di Gesù: "Prese il pane, rese grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, offerto per voi"" (seconda lettura).

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

La liturgia di oggi ci fa rendere conto di qualcosa di importante: "L’uomo, ogni uomo, ha bisogno di una dieta integrale". Il fatto di essere uomini ci colloca in una situazione pluridimensionale, diversa da quella delle altre creature. Per questo, la nostra alimentazione non può essere unidimensionale, ma deve essere integrale e completa.

Il pane della Parola. Gesù, prima di moltiplicare i pani per alimentare la moltitudine, "parlava loro del Regno di Dio", cioè offrì loro il pane della sua Parola, perché "beati coloro che hanno fame della Parola, perché saranno saziati". Nella frazione del pane dei primi cristiani, aveva inizio l’azione liturgica, con una lettura e spiegazione della Scrittura, seguendo in questo la tradizione del culto sinagogale. Pertanto, i primi cristiani alimentavano innanzitutto la loro anima con il pane della Parola di Dio, spiegata alla luce del mistero di Cristo ed attualizzata da qualcuno degli apostoli alle circostanze concrete della vita quotidiana. Anche nella prima lettura, all’offerta del pane e del vino, fatta ad Abramo da parte di Melchisedec, segue una benedizione, che è come il pane spirituale che Dio concede ad Abramo per mezzo del re-sacerdote di Salem. L’uomo è spirito, e lo spirito ha bisogno di un alimento diverso dal pane di farina: ha bisogno della Parola del Dio vivo.

Il pane dei segni. I miracoli di Gesù, oltre ad essere dei fatti straordinari al di là delle leggi naturali, sono segni del Regno dei cieli, perché ci rimandano a codesto mondo muovo retto e guidato dal potere di Dio, con esclusione di qualsiasi altro potere umano o diabolico. Per questo, Gesù, dopo aver distribuito alla folla il pane della Parola, regala loro il pane dei segni. Ci dice san Luca, innanzitutto, che "guariva coloro che avevano bisogno di essere guariti", e poi ci narra il meraviglioso segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Gesù Cristo, come amico e fratello dell’uomo, come Signore della vita e della natura, è interessato a guarire le infermità, a saziare la fame naturale degli uomini. Potrebbe essere altrimenti? Ma il suo interesse maggiore sta nel fatto che gli uomini, mediante questi segni, siano capaci di elevarsi fino a Dio Padre, che amorosamente ha cura dei suoi figli, e fino al Regno di Dio, in cui ci sarà pane per tutti e per tutti ci sarà uno stesso ed unico pane.

Il pane dell’Eucarestia. La dieta cristiana resterebbe incompleta se mancasse il pane dell’Eucarestia, questo pane che è il corpo di Cristo. "Nel santissimo sacramento dell’Eucarestia – ci insegna il catechismo 1374 – sono contenuti veramente, realmente e sostanzialmente il Corpo e il Sangue, insieme con l’anima e la divinità di nostro Signore Gesù Cristo e, di conseguenza, Cristo intero". Quando san Luca scrisse il suo vangelo, ormai i cristiani da vari decenni meditavano i fatti e i detti di Gesù, predicandoli, e celebravano l’Eucarestia. Così si spiega che l’evangelista abbia narrato l’episodio della moltiplicazione dei pani come una anticipazione e prefigurazione dell’Ultima Cena: "Prese i pani, levò gli occhi, pronunciò su di essi la benedizione, li divise, li diede". Da quell’Ultima Cena, preannunciata nella moltiplicazione dei pani, celebrata dalle prime comunità cristiane, Cristo non ha cessato, nel corso dei secoli, di dare all’uomo, senza distinzione di nessun genere, il pane del suo Corpo, alimento di vita eterna.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Fame di pane, fame di Dio. È qualcosa di doloroso, che ci deve far pensare, il fatto che, dopo 2000 anni di cristianesimo, ci siano milioni di fratelli che hanno fame di pane, e questo, non a migliaia di chilometri da casa nostra, ma nel nostro quartiere, nella nostra città, nel nostro paese. Inoltre, in questi ultimi decenni, le istituzioni internazionali e i mezzi di comunicazione ci hanno reso più coscienti di questo triste e inumano fenomeno in tutto il mondo. Gesù non moltiplicò forse i pani per saziare la fame? Non disse ai suoi discepoli: "date loro da mangiare?" Non abbiamo spiritualizzato troppo la nostra fede? Non abbiamo ridotto la nostra fede all’ambito strettamente privato? Certamente, non si può identificare il cristianesimo con l’ONU della carità e della solidarietà, ma nelle viscere stesse del cristianesimo si trova l’amore per il prossimo, soprattutto per il più bisognoso. Ed oggi, nel secolo della globalizzazione, non basta l’aiuto individuale, passeggero. Noi cristiani dobbiamo organizzarci, a livello parrocchiale, diocesano, nazionale, internazionale, per scacciare la fame dalla terra. Perfino, dove ciò sia necessario, dobbiamo collaborare con le istituzioni di altre religioni per farla finita con questa piaga dell’umanità. Finché ci sarà un bambino che muoia di fame, la nostra coscienza cristiana non può stare tranquilla. La fame di pane è terribile, ma... e la fame di Dio? No ci commuove tanto, perché la fame di Dio non si vede. È tuttavia reale, universalmente presente, non poche volte più angosciosa della stessa fame di pane. E il peggio è che sono pochi coloro che di questa fame si preoccupano, pochi quelli che cercano di soddisfarla. Non dovremo aprire i nostri occhi, occhi di fede e di amore, per vedere tanti affamati di Dio che incrociamo per strada, con cui conviviamo nel lavoro, con cui ci divertiamo in uno stadio di calcio o in una discoteca?

Un pane gratis e per tutti. L’Eucarestia è questo. Dio, nostro Padre, ci dà gratuitamente l’alimento del Corpo di Cristo, sempre che lo vogliamo ricevere con le dovute disposizioni. Se questo alimento non costa, se è "il pane dei forti", com’è possibile che siano così pochi quelli che lo ricevono? Non sarà che non lo valutano? È altresì uno stesso ed unico pane per tutti: l’Eucarestia è il sacramento dell’assoluta uguaglianza cristiana. Non esiste una Eucarestia per ricchi e un’altra diversa per poveri. Per Cristo, pane della nostra anima, siamo tutti uguali. Davanti a Cristo Eucarestia, spariscono tutte le barriere economiche o sociali.

 

Domenica Dodicesima del TEMPO ORDINARIO 24 giugno dell’anno 2001

Prima: Zac 12, 10-11; 13,1; seconda: Gal 3, 26-29 Vangelo: Lc 9, 18-24

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Chi è Gesù Cristo? Questa è la grande domanda degli uomini da ventuno secoli, ed è la domanda che ci pone la liturgia di questa domenica. Le risposte sono varie: un profeta redivivo: Elia, Geremia, per esempio, o un altro Giovanni il Battista. Pietro, in nome dei Dodici, giunge ad affermare che è il Messia di Dio. Per Gesù, le risposte sono insufficienti, e dà a se stesso il nome del Figlio dell’uomo, che terminerà la sua vita su una croce (vangelo). Alla luce evangelica si coglie il senso ultimo della profezia di Zaccaria: "Guarderanno a me, a colui che hanno trafitto" (prima lettura). Per san Paolo, alla luce della Pasqua, Gesù Cristo è colui che fa passare l’uomo dall’infanzia sotto il pedagogo, fino all’età adulta dell’uomo libero e figlio di Dio (seconda lettura).

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

Un grande profeta, ma niente di più. L’opinione della gente non è qualcosa che ha cominciato a contare al nostro tempo. Da che cominciarono ad esistere le città, i regni e gli imperi, ha contato e se ne è tenuto conto. Nel vangelo, secondo quanto ci narra san Luca, Gesù non la disprezza, ma, considerandola insufficiente, la corregge e la completa. La gente pensa che Gesù sia un profeta, e in questo hanno ragione. Pensa che non sia un profeta qualsiasi, ma uno tra i grandi: Elia, forse Geremia, perfino Giovanni Battista risuscitato. Gesù non rifiuta il titolo di profeta, ma dimostra chiaramente di non dire totalmente chi egli sia. Inoltre, non soltanto il confronto con Elia, Geremia e Giovanni Battista gli sta molto stretto, ma queste sono figure con cui, in diverse cose, non si identifica. Gesù è in verità un grande profeta, che parla in nome di Dio e legge la storia degli uomini alla luce del disegno divino, ma è anche molto di più.

Il messia di Dio, ma… Pietro, e gli altri apostoli, hanno accompagnato Gesù per un buon tempo, hanno convissuto con lui, lo hanno visto pregare, predicare, guarire; hanno ascoltato i suoi insegnamenti, soprattutto le sue parole sul Regno di Dio. Hanno fatto un passo avanti nella conoscenza di Gesù: non soltanto Egli è profeta, è il messia di Dio. Sì, il messia, discendente di David, il condottiero guerriero, il re vittorioso che ha raggiunto la massima espansione del regno di Israele, sconfiggendo tutti i suoi nemici. Gesù ripeterà, come messia, la figura di Davide: sconfiggerà i romani, amplierà le frontiere del regno, i re delle nazioni verranno a lui per rendergli tributo ed omaggio. Il regno di Israele, regno di Javeh, ritornerà ad essere glorioso. Gesù non è d’accordo con questo messianismo sognato da Pietro e dagli altri apostoli. Gesù non nega, né mai negherà, di essere il Messia. Sarebbe negare la verità, e questo è impossibile per chi è la Verità. Ma Gesù non fa propria la figura di un messia, condottiero degli eserciti di David. Messia di Dio, sì, ma messia diverso da come lo immaginano i discepoli più vicini.

Un messia, avvezzo alla sofferenza. In questo momento cruciale della vita di Gesù, prima di cominciare il viaggio verso Gerusalemme, luogo della sua crocifissione, egli fa un altro passo nello svelamento della sua vita e della sua persona. Comincia a parlare di qualcosa di strano, e assente da ogni profezia dell’Antico Testamento, cioè, di un messia che terminerà la sua esistenza sul trono di una croce. Qualcosa di questo forse poté presentire il profeta Zaccaria, quando scrisse: "Guarderanno verso di me, a colui che hanno trafitto" (prima lettura), anche se questa frase, nella tradizione dei giudei, non si applicò mai al messia, dato che era Javeh che la pronunciava. Questo messia sofferente, qualcosa di inusitato ed inconcepibile per qualsiasi uomo, viene da san Paolo identificato con il Figlio di Dio, e per questo, nella seconda lettura, san Paolo può dire che noi cristiani "siamo figli di Dio in Cristo Gesù", il suo vero ed unico Figlio. Adesso già possiamo rispondere meglio alla domanda su chi è Gesù: "Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivo".

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

La migliore risposta si dà con la vita. La questione Gesù Cristo non è un problema che a forza di pensare riusciamo a risolvere in qualche modo. Ancor meno, una questione obsoleta, carente di importanza, che sia indifferente che si risolva o no. In realtà, è l’unica questione che valga assolutamente la pena, e che inoltre non può risolversi se non con la vita. Perché è chiaro che il fatto che Gesù Cristo abbia accettato di essere un messia di croce, il fatto che dire Gesù equivalga a dire Figlio di Dio, oltrepassa i nostri schemi mentali e la nostra stessa capacità di raziocinio, e l’uomo non conquisterà mai queste verità della nostra fede a colpi di sillogismi. Soltanto quando l’uomo comincia a percorrere la stretta via della croce e, fissi gli occhi su Gesù, segue le orme della sua storia, scopre che la questione Gesù Cristo cammina allo stesso passo della questione uomo, e che soltanto risolvendo la prima viene risolta anche la seconda. Chi sa per esperienza ciò che è la sofferenza, e percepisce il valore "redentore" della stessa, sia per il soggetto che soffre, sia per la persona o le persone per le quali si soffre, allora è in condizioni di cogliere un poco almeno la ragione di un messia di dolori. Chi vive la sua condizione di figlio di Dio, la grandezza della sua dignità filiale e l’atteggiamento di obbedienza proprio di un figlio, sarà in grado di rispondere a se stesso chi è Gesù Cristo, e di poterlo proclamare con convinzione davanti agli altri. In poche parole, se viviamo interamente come cristiani, non ci sarà nemmeno necessità di domandarci chi sia Gesù Cristo, perché la nostra vita sarà la nostra risposta.

Prega per comprendere, comprendi per pregare. I misteri della fede si conoscono meglio nella cappella che allo scrittoio, si conoscono meglio con la preghiera che con lo studio, sebbene entrambi siano necessari. Dio è l’unico ad avere la chiave dei misteri. Soltanto Lui può aprirci questo sacrario del suo cuore. L’intelligenza, quando è aperta alla fede, ci prepara e ci pone davanti al sacrario del mistero. L’intelligenza, una volta che Dio ci abbia permesso di entrare nel mistero, ci aiuta a riflettere su di esso, e a cogliere pochi atomi della sua realtà superiore ed infinita. Ma unicamente la preghiera, se è umile, costante, fiduciosa, muove Dio ad aprirci il sacrario del mistero. Entro questo sacrario, l’anima va in estasi e l’intendimento comincia a navigare per mari ignoti. La teologia più autentica è quella che si fa non soltanto a partire dalla fede, ma soprattutto a partire dalla preghiera, dall’intelligenza orante e adorante del mistero. Allo stesso modo, la predicazione più vera è quella che ha rinnovato le verità della fede tramite il passaggio attraverso il crogiuolo della meditazione. Nelle cose di Dio, colui che prega, comprende, e colui che non prega, non comprende nulla, o quasi nulla. Se noi cristiani pregassimo di più e meglio, i problemi di fede diminuirebbero in gran numero o scomparirebbero completamente. In un mondo che a volte sembra senza senso, la preghiera può trovargli un significato. Ne vale la pena!

 

 

Domenica Tredicesima del TEMPO ORDINARIO 1° luglio dell’anno 2001

Prima: 1Re 19, 16b.19-21; seconda: Gal 5,1.13-18 Vangelo: Lc 9, 51-62

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"Chiamata e risposta": due parole che riassumono il contenuto sostanziale delle letture della presente domenica. Gesù, nel suo camminare verso Gerusalemme, chiama alcuni a seguirlo e a dargli una risposta radicale (vangelo). In questo, Gesù supera le esigenze della chiamata e della sequela nell’Antico Testamento, particolarmente nella vocazione di Eliseo (prima lettura). I gàlati – e tutti i cristiani in generale – sono stati chiamati alla libertà dello spirito, di conseguenza debbono rispondere con il loro comportamento alla nuova condizione di uomini liberi, evitando di cadere un’altra volta nella schiavitù (seconda lettura).

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

I passaggi biblici di questa domenica ci presentano alcune caratteristiche fondamentali della risposta alla chiamata che Cristo fa agli uomini. Caratteristiche esigenti, per nulla convenzionali.

Con Gesù verso il Golgota. Con il passaggio evangelico, Luca comincia la grande marcia di Gesù dal luogo del trionfo e del successo (Galilea) verso il luogo della morte e della sconfitta incomprensibile (il Golgota a Gerusalemme). Gesù inizia questo cammino "con ferma decisione". Egli cammina innanzi, per primo, portabandiera dei disegni del Padre, "per compiere i giorni della sua assunzione", cioè i giorni del suo martirio fuori delle mura di Gerusalemme, e della sua esaltazione gloriosa mediante la resurrezione. I discepoli hanno detto sì alla chiamata e adesso seguono i suoi passi, senza comprendere molto bene dove vanno. Gesù, in questa lunga marcia verso Gerusalemme, li andrà istruendo, e a poco a poco essi coglieranno che il cammino termina su una croce. Gesù parla chiaro, ma la cecità dei discepoli non è facile da vincere. Avranno bisogno della luce della Pasqua.

Come Gesù, passare facendo il bene. I figli del tuono vogliono gettare fuoco e scintille sul popolo che rifiuta di dare loro ospitalità. Sicuramente avevano ascoltato nella sinagoga che Elia aveva fatto cadere fuoco dal cielo (1Re 18,38) ed essi non volevano essere da meno di quel grande profeta. Elia, però, fece scendere il fuoco di Dio non su una città e i suoi abitanti, ma sul sacrificio, sul monte Carmelo. Giacomo e Giovanni, come buoni discepoli di Giovanni il Battista, vanno oltre, perché essi hanno sentito dire il loro antico maestro che "il Messia brucerà la paglia con fuoco che non si spegne" (Lc 3,17). Luca ci dice che Gesù "li riprese con durezza". Ma, non si sono resi forse conto che Gesù non è venuto per fare il male, ma soltanto il bene? Non comprendono che Gesù cammina verso Gerusalemme per vincere il male col bene sul Calvario?

Tre atteggiamenti per seguire Gesù. Possiamo formularli così: dono completo di sé, decisione assoluta, disinteressata generosità. Si deve essere disposti a lasciare il passato, a non guardarsi indietro, ma a tendere gli occhi in avanti, verso la terra che si deve lavorare e che un giorno darà il suo frutto. Nella sequela di Gesù Cristo non si ammettono condizioni, se queste implicano il subordinare la chiamata al proprio volere. Si richiede radicalità, perché il Regno di Dio incalza, e non può attendere: Eliseo poté porre condizioni ad Elia (andare a prendere congedo dai suoi genitori), ma il cristiano, se così richiede il Regno, deve liberarsi da questa preoccupazione per un bene urgente e superiore. Infine, al discepolo Gesù chiede di porre esclusivamente in Lui la sua sicurezza, rinunciando a ogni tipo di sicurezze materiali e umane. Gesù non ha nulla, soltanto suo Padre. Il discepolo dovrà essere disposto a non aver nulla, soltanto una via e un viandante che lo sta portando verso la croce.

Seguire Cristo con libertà. Prima del battesimo, il cristiano era schiavo di se stesso e del Maligno. Cristo lo ha liberato, ma non per gettarlo un’altra volta in una nuova schiavitù, ma perché viva sempre in chiave di libertà, sotto la guida dello Spirito Santo. Per un cristiano non circonciso, ci insegna Paolo, il circoncidersi è perdere la libertà dello Spirito e cadere nella schiavitù della legge. D’altra parte, un cristiano, proveniente dal paganesimo, perde la libertà se torna a vivere come prima, seguendo i desideri della carne, cioè l’idolatria, la fornicazione, la discordia, l’ubriachezza e, in genere, qualsiasi forma di libertinaggio. Il cristiano, liberato da Cristo, deve accettare e vivere il rischio e la sfida della libertà.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Un solo cammino e molti sentieri. Cristo è l’unico cammino, un cammino sul quale si stende, potente, l’ombra della croce. Questo è l’unico cammino della sequela, della missione, della pienezza cristiana. Sono, tuttavia, molti i sentieri che conducono a questo cammino. Sono molti i modi e i tempi con cui Cristo chiama gli uomini a camminare con lui, vicino a lui. C’è il sentiero della fedeltà coniugale e quello della consacrazione radicale, c’è il sentiero della sofferenza e quello della donazione amorosa di se stessi nel servizio ai bisognosi, c’è il sentiero della vita pubblica e quello della vita nascosta nelle occupazioni quotidiane della famiglia, c’è il sentiero dello spettacolo per il riposo dell’uomo, e della suola per la sua istruzione. C’è il sentiero di… Tutti i sentieri possono, debbono incontrarsi nel medesimo ed unico cammino: Gesù Cristo, maestro degli uomini, redentore del mondo. Nel collegare il nostro sentiero con il cammino di Cristo, percepiremo che non giungiamo nudi al cammino, ma che portiamo con noi la nostra croce e il nostro calvario. E ci convinceremo forse che la croce di Cristo è fatta di milioni di croci, e il Calvario che sostiene la croce è un promontorio formato da molti calvari. È il momento di domandarci se il sentiero della nostra vita è collegato al cammino di Cristo. È il momento di supplicare il Signore che i nostri sentieri confluiscano sempre nel cammino di Cristo maestro e redentore.

Camminare senza comprendere del tutto. Nelle cose dello spirito non tutto è chiaro, né tutto evidente. Ma non si può restare paralizzati, si deve camminare, sebbene non si comprenda tutto né del tutto. Camminare guardando una stella che si è vista un giorno, e che adesso forse è coperta da una densa nube. Camminare, come Gesù, con passo fermo, senza paura, sebbene l’intelligenza voglia che il passo si arresti e perfino che retroceda davanti alla nebbia del cammino. Camminare nel chiaroscuro della fede, guardando sempre avanti, verso Gerusalemme, la meta della nostra esistenza. Camminare, camminare, camminare… Non ci succede a volte che la nostra intelligenza ci freni nel cammino della vita spirituale, del lavoro apostolico? Cammina illuminato dal cuore, perché il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende. E l’amore difficilmente si sbaglia.

 

Domenica Quattordicesima del TEMPO ORDINARIO 8 luglio dell’anno 2001

Prima: Is 66, 10-14, seconda: Gal 6, 14-18 Vangelo: Lc 10, 1-12.17-20

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Cercare in tutto il fine: questa frase può sintetizzare i testi liturgici. Il fine della missione dei settantadue non è il successo, ma che "i loro nomi siano scritti nel cielo" (vangelo). L’Isaia post-esilico vede anticipatamente il fine di tutti i suoi sogni: la città di Gerusalemme che riunisce tutti i suoi figli, come una madre (prima lettura). L’esistenza cristiana non ha altro fine se non appropriarsi della vita di Cristo in tutta la sua realtà storica, specialmente nel mistero della croce. È ciò che ci insegna san Paolo con la sua parola e con la sua vita (seconda lettura).

 

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Inscritti nel libro della vita. I 72 discepoli di Gesù, simbolo dei cristiani sparsi per il mondo, in quanto 72 sono tutti i popoli della terra (cf Gen 10), sono contenti della missione compiuta e si recano da Gesù per raccontargli le loro prodezze missionarie. Gesù li ascolta, ma allo stesso tempo li fa rendere conto di qualcosa di importante: le imprese missionarie non hanno valore in se stesse, ciò che realmente vale e che ci deve rallegrare profondamente è il nostro destino eterno con il Dio della vita. Questa ricerca gioiosa del vero fine dell’esistenza, spiega e dà senso alla gioia, in sé legittima e ragionevole, per i successi apostolici, così come dà senso alle difficoltà e alle avversità connaturali alla missione cristiana. Il discepolo di Gesù, in effetti, non predica la pace messianica, predica in mezzo a un mondo non poche volte ostile e restio ai valori del Regno, predica avvalendosi e ponendo la sua fiducia, più che nei mezzi umani, nella forza misteriosa di Dio. Indubbiamente, il successo non è un elemento essenziale nel bagaglio del missionario.

Madre di consolazione e di pace. Quando l’Isaia post-esilico scrive questo bellissimo testo, la diaspora giudaica è una grandezza estesa per tutto l’impero persiano e per il mediterraneo. Il profeta, sotto l’azione dello Spirito divino, sogna un popolo unito e unificato nella città mistica di Gerusalemme. Con occhio all’erta, guarda verso il futuro e prevede poeticamente il momento gioioso della riunificazione. Lo fa ricorrendo all’immagine di una madre di famiglia che riunisce attorno a sé tutti i suoi figli, tiene teneramente nelle sue braccia il più piccolo e lo alimenta con il proprio petto. Tutti, riunendosi di nuovo con la madre, si riempiono di consolazione e si sentono come inondati da una grande pace. Questa Gerusalemme, madre di consolazione e di pace, simboleggia il Dio della consolazione, simboleggia Cristo, che è la nostra pace, simboleggia la Chiesa, nel cui seno tutti siamo fratelli e dal cui amore sgorga la pace di Cristo, che dura per sempre. La Chiesa, quella di oggi come quella di sempre, è nella sua essenza, sebbene non sempre nei suoi uomini, madre di consolazione e di pace per tutti i popoli.

Porto nel mio corpo il tatuaggio di Gesù. Per un cristiano, ci dice san Paolo, non ha valore l’essere circonciso o no, ciò che vale è essere una nuova creatura. Tutto deve essere subordinato al conseguimento di questo fine. San Paolo è cosciente di averlo conseguito, dato che porta nel suo corpo il tatuaggio di Gesù. Cioè, porta in tutto il suo essere un segno dell’appartenere a Gesù, come lo schiavo portava un segno di appartenenza al suo padrone, o, come nelle religioni misteriche, l’iniziato portava in sé un segno di appartenenza ai suoi dèi. Come Paolo, così debbono essere tutti i cristiani, per questo può dire loro: "Siate imitatori miei, come io lo sono di Cristo". Questo è, inoltre, il fine della missione di Gesù Cristo: che l’uomo si appropri della redenzione operata da Gesù e giunga così ad essere e a manifestare agli altri che è appartenenza di Dio. Dopo venti secoli di cristianesimo, quanti portano inciso su se stessi il tatuaggio di Gesù Cristo?

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Cristiano, cioé missionario. L’immagine del cristiano che va a messa, che crede nei dogmi della fede e adempie ai comandamenti, è incompleta e un po’ antiquata. Ciò non basta, perché essere cristiani è avere una missione e realizzarla con zelo ed ardore nelle occupazioni della vita e nell’amplissima gamma di compiti ecclesiali oggi esistenti. Ancor di più, il senso di missione è lo stimolo più forte per credere e vivere la fede, per compiere i comandamenti di Dio e della Chiesa. Se qualcuno non è convinto del fatto che essere cristiani equivalga e vivere in chiave di missione, gli raccomando di leggere i documenti del Concilio Vaticano II e il catechismo della Chiesa cattolica. In quest’ultimo si legge: "Tutta la Chiesa è apostolica in quanto essa è ‘inviata’ in tutto il mondo; tutti i membri della Chiesa, sia pure in modi diversi, partecipano a questa missione. ‘La vocazione cristiana, infatti, è per sua natura anche vocazione all’apostolato’" (CCC 863). Se amiamo fedelmente la Chiesa, non dubitiamo che la migliore maniera di esprimerle il nostro amore è mediante il nostro spirito missionario. E ‘missionario’ significa coscienza viva di essere inviato; sebbene questo invio possa essere al vicino di casa, al cliente nel lavoro, all’emigrante che incontro alla fermata dell’autobus o al semaforo, alla giovane coppia che si prepara al matrimonio. Al giorno d’oggi essere missionario non è unicamente partire per un paese lontano a predicare la fede e lo stile di vita di Cristo, è anche un compito che si porta a compimento nel proprio quartiere, nelle piazze della città e perfino tra le pareti di casa propria.

La missione è più forte della paura. Parafrasando Giovanni Paolo II, potremmo dire: "Non abbiate paura di essere missionari". Perché, a dire il vero, alcune volte almeno ci attanaglia il timore, il rispetto umano, il ‘che penseranno’ e il ‘che diranno’. È umano provare paura, ma la missione deve superare e sorpassare i nostri timori. Il calciatore non ha paura di parlare di calcio, né il medico o il maestro di parlare della loro professione. Dobbiamo aver paura, noi cristiani, di parlare di Cristo: della sua persona, della sua vita, della sua verità, del suo amore, del suo mistero? La fede e la missione cominciano nel cuore, ciò è vero, ma debbono terminare nei fatti e sulle labbra. Tutti dobbiamo vincere qualsiasi dimostrazione di paura. Gli adulti, per non chiamare la paura prudenza. I giovani, per non credersi esseri di un altro pianeta tra i loro coetanei. Soprattutto, voi giovani (laici, religiosi e religiose, sacerdoti) che siete inviati da Cristo come apostoli dei giovani. È la vostra ora! La lascerete passare? Anche voi, maestri ed educatori cristiani, che avete nelle vostre mani l’infanzia e l’adolescenza, siate missionari nella scuola! Potremo permettere che la paura prevalga sulla nostra missione cristiana? La nostra missione deve essere la nostra corona e la nostra gloria.

 

 

 

 

 

 

 

 

Domenica Quindicesima del TEMPO ORDINARIO 15 luglio 2001

Prima: Deut 30, 10-14; seconda: Col 1, 15-20 Vangelo: Lc 10, 25-37

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

 

La questione Gesù potrebbe essere il centro di convergenza dei testi liturgici. Gesù è una grande domanda, e la Bibbia ci offre una grande risposta. Nel vangelo Gesù si autopresenta come il buon samaritano, disponibile per qualsiasi necessità, laddove esista e chiunque sia il bisognoso. La prima lettura ci parla della Parola vicina, sulle labbra e nel cuore, e tale Parola vicina si identifica con Gesù, il Dio-uomo, che ci parla con parole di uomo. Nella lettera ai colossesi, in un antico e bellissimo inno cristologico, Gesù è cantato come il primogenito di tutta la creazione, al quale tutto fa riferimento e nel quale tutto incontra pienezza.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Il buon samaritano, pseudonimo di Gesù. La parabola del buon samaritano non è soltanto un tesoro cristiano, appartiene alla ricchezza dell’umanità. Forse non sarebbe esagerato dire che non c’è uomo che non la conosca, che non abbia cercato di interpretarla qualche volta nella sua vita. Si può mettere in risalto, pertanto, che non è una parabola fatta vita, ma una vita fatta parabola, e per questo si può dire che il buon samaritano è uno pseudonimo di Gesù. Alla domanda dello scriba su chi è il suo prossimo, Gesù avrebbe potuto rispondere direttamente: "Io sono"; preferì, invece, scegliere il cammino parabolico e fare della narrazione uno specchio della sua esistenza, interamente donata all’uomo per amore. Veramente Gesù Cristo è il prossimo di ogni uomo, cioè vicino, accessibile, disponibile, accogliente, prossimo in qualsiasi situazione o circostanza umana. Una prospettiva interessante per leggere i vangeli potrebbe essere questa della prossimità, adottando come punto di partenza il grande mistero dell’incarnazione, per mezzo della quale Dio si fa prossimo dell’uomo in Gesù di Nazaret. Gesù è prossimo ai bambini, ai malati, ai discepoli, agli inquieti, ai potenti, ai poveri e bisognosi, a tutti. La prossimità di Gesù Cristo all’uomo fa parte del mistero dell’incarnazione e della nascita.

Gesù, Parola vicina. Per il Deuteronomista la Parola è la rivelazione di Dio innanzitutto sul Sinai, e adesso nella pianura di Moab. Una rivelazione divina che non è qualcosa di principalmente estrinseco, ma che realmente è una Parola interiore, della quale ogni seguace di Gesù Cristo si appropria fino a giungere a farla sua. Una Parola e una rivelazione che acquistano volto e nome propri in Gesù Cristo. Egli è la Parola fatta carne. Egli è la Parola che risuona in tutte le parole della Bibbia. Egli è la Parola che, per opera dello Spirito Santo, si addentra nell’anima del credente fino ad annidarsi in essa, trasformandola nella sua dimora. Si trova sulle nostre labbra la Parola, perché, quando leggiamo la Scrittura, leggiamo in essa Cristo. Si trova nel nostro cuore, perché la Parola non è un suono vuoto, e neppure un mero contenuto conoscitivo, ma una persona, che si conosce e si ama nell’intimità, per la via del cuore. Per un cristiano, codesta parola vicina e interiore, che si trova sulle sue labbra e nel suo cuore, è Gesù Cristo. Egli è la Parola che ci avvicina alla conoscenza e all’intimità di Dio, che ci avvicina alla vera conoscenza di noi stessi e del senso di tutta la creazione.

Gesù, primogenito della creazione. L’inno della seconda lettura ricorre a varie immagini per rispondere alla questione Gesù. Gesù è l’immagine visibile del Dio invisibile, è il primogenito, cioè l’archetipo di ogni creatura: punto di riferimento, pertanto, del cosmo e della storia. In definitiva, la creazione intera guarda verso Gesù Cristo come al suo modello, alla sua ragion d’essere, al suo ultimo destino. Per questo, l’inno della lettera ai colossesi ci dice che in Gesù risiede tutta la pienezza. Infine, applica a Gesù altri due nomi: capo del corpo, che è la Chiesa, ossia centro di coesione e di direzione dei cristiani, e primogenito di tra i morti: Colui in cui anticipatamente ci si mostra il destino finale di tutti gli uomini che cercano sinceramente Dio. Come primogenito della creazione, tutto ingloba, tutto configura, tutto sigilla con la sua immagine e con il suo amore.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Fa’ anche tu lo stesso. Gesù è il buon samaritano, è l’uomo più prossimo ad ogni uomo e a tutti gli uomini. La grandezza della vocazione cristiana risiede nel fatto che Gesù non ci dice: "va, e insegna anche tu lo stesso", ma "va, e anche tu fa’ lo stesso". Come ci dirà san Giacomo: "La fede senza le opere è una fede morta". Oggi ogni cristiano è chiamato a ripetere Gesù nella sua vita, a fare del buon samaritano un proprio pseudonimo. Gesù dice ad alcuni cristiani: "Fa’ tu lo stesso nella tua casa: con tua madre, che è malata; con il tuo vicino, che è anziano e non può contare su se stesso per molte cose; con tuo figlio, che ha avuto un incidente e dovrà vivere per il resto della vita su una sedia a rotelle". Ad altri cristiani Gesù dirà: "Va’ e anche tu fa lo stesso quando vai per strada, dando volentieri l’elemosina a chi te la chiederà, dando gentilmente informazioni a chi ti domanda un indirizzo o il nome di un negozio; va’ e anche tu fa’ lo stesso quando vai in autobus o in metropolitana, cedendo il posto a sedere agli anziani, alle donne con bambini piccoli, agli invalidi, essendo rispettoso e padrone di te quando l’autobus è stracolmo e ti spingono da tutte le parti, o tentano perfino di derubarti". Fa’ lo stesso: questa frase la dovremmo tener presente nella nostra mentre e nel nostro cuore tutti i giorni. Una frase che possiede un potenziale enorme di creatività e di impulsi nuovi all’azione in favore dei nostri fratelli uomini. Fa’ anche tu lo stesso: questa sola frase è capace di inventare il futuro, di forgiare un mondo nuovo e migliore. Quanti di noi cristiani ci faremo caso?

Una Parola rivolta a te. Tutta la Bibbia è parola, parola di Dio. Le parole umane in cui è scritta la Bibbia sono come suoni che giungono ai nostri orecchi, entrano dentro di noi, e attraverso di essi ascoltiamo la Parola di Dio, il suo messaggio di verità, di amore, di autentico umanesimo cristiano. È una Parola diretta a tutti, perché tutti la possiamo comprendere e a tutti può aprire le porte della salvezza. Ma, soprattutto, è una Parola rivolta personalmente a ciascuno, a te. Può accadere che, quando tu leggi un testo della Bibbia, ci siano altri uomini che stanno leggendo lo stesso testo in qualche altro lato del pianeta, ma è sicuro che il messaggio sarà assolutamente personale, rivolto a te, con il tuo nome e cognome. Quando, nella liturgia della Parola, nella messa, si fanno le tre letture, tutti i presenti ascoltano gli stessi testi, ma in ciascuno essi risuonano in modo differente, inviano messaggi particolari ad ognuno. Per la Parola di Dio non conta il numero, ma la persona, ogni persona, nel suo carattere unico, irripetibile e diverso da tutte le altre. Un Padre della Chiesa diceva che la Scrittura è come una lettera che Dio scrive ad ogni uomo. Non una lettera di protocollo o meramente amministrativa, ma una lettera di un Padre a suo figlio, una lettera dove il Padre parla di se stesso con grande semplicità, ma, allo stesso tempo manifestando i suoi pensieri e desideri più intimi. Ascolta codesta Parola di Dio per te, in essa ne va della tua vita e della tua felicità, in essa ti viene data la chiave per vivere dando significato alla tua esistenza. Non ti spaventi la lievità della Parola. Sembra fragile e lieve, ma possiede la solidità dell’acciaio. È Parola di Dio!

 

 

 

 

Domenica Sedicesima del TEMPO ORDINARIO 22 luglio 2001

Prima: Gen 18, 1-10a; seconda: Col 1, 24-28 Vangelo: Lc 10, 38-42

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

La prima lettura e il vangelo parlano chiaramente dell’ospitalità. Vi si parla di Abramo che, in piena canicola, offre una splendida accoglienza a tre misteriosi personaggi. Vi si parla di Marta di Betania, che accoglie Gesù e i suoi discepoli nella propria casa, e di Maria, sua sorella, che accoglie come discepola attenta la parola di Gesù nel suo cuore. Il testo della lettera ai colossesi presenta Paolo che ospita nel suo corpo e nella sua anima Cristo Crocifisso, per completare le tribolazioni di Cristo nel suo corpo, che è la Chiesa.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Ospitalità e benedizione. È risaputo che l’ospitalità era, tra i nomadi, la virtù per eccellenza. In un certo modo, essa godeva di un certo carattere sacro e inviolabile, degno del massimo rispetto. Il racconto della prima lettura narra l’ospitalità di Abramo nei confronti di tre personaggi un po’ misteriosi, ma si tratta si un’ospitalità che va accompagnata da una benedizione sorprendente e in contrapposizione alle leggi naturali. Richiama l’attenzione in questo testo il fatto che Abramo si rivolga ai tre personaggi al singolare: "Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo". Per Abramo, codesti personaggi sono messaggeri (angeli) di Dio, che vengono ad annunciargli qualcosa da parte di Jahvé. La narrazione ha, pertanto, sembianza di essere una teofania, in cui Abramo accoglie ed ospita generosamente e gioiosamente Dio sotto il volto di tre suoi delegati. Il messaggio di Dio non si fa attendere ed è di benedizione: "Tornerò da te fra un anno a questa data, e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio". Quale altra benedizione migliore potrebbe aspettarsi Abramo, se non la discendenza, che fino ad ora gli era stata negata a causa della sterilità di sua moglie? Adesso si chiede ad Abramo di accogliere senza esitazioni, con assoluta fiducia, questa benedizione di Dio. Ed Abramo accolse di nuovo questa parola di benedizione, e Dio gli diede un figlio nella sua vecchiaia. Ospitare generosamente il mistero di Dio, ospitare fiduciosamente la sua parola e, di conseguenza, avere la sicurezza che Dio benedirà la nostra esistenza.

Due modi per ospitare l’amico. Questi due modi sono rappresentati da Marta e Maria. Sono due modi altrettanto buoni e necessari, benché secondo sia preferibile all primo. Marta ospita Gesù e i suoi discepoli in casa sua. In questo modo, mostra loro innanzitutto il suo apprezzamento e la sua amicizia, li protegge inoltre dal caldo ardente del deserto, che hanno appena attraversato per giungere fino a Betania, e dà loro da bere e da mangiare per recuperare le forze, spese durante la lunga e faticosa camminata. Maria ospita Gesù ascoltando la sua parola, seduta ai suoi piedi, come una discepola entusiasta che non vuole perdersi nemmeno una virgola degli insegnamenti del Maestro. Questo alloggio interiore, spiritualmente attivo, è stimato da Gesù di maggior valore dell’alloggio esterno, incentrato sulla preparazione della tavola per un pasto di ospitalità. Per questo Gesù dice a Marta: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno". Gesù non disprezza assolutamente l’ospitalità di Marta, la considera di grande valore. Ma, allo stesso tempo, le ricorda che c’è un’altra ospitalità più importante e, indirettamente, invita Marta a dargliela. È come se Gesù dicesse alla sua ospite: "Guarda, Marta, prepara una cosetta qualsiasi, e poi vai a sederti vicino a Maria, e ad ascoltare come lei la mia parola". Due modi di ospitare l’amico, di diverso valore, sebbene entrambi siano necessari.

Paolo, anfitrione del Crocifisso. Maria ha ospitato la parola di Gesù. Paolo ospita la croce di Gesù o, meglio, un crocifisso. "Completo ciò che manca ai patimenti di Cristo". Sebbene l’ospite sia un crocifisso, Paolo non si spaventa né si angoscia, lo accoglie con gioia, perché sa per esperienza che in Cristo crocifisso risiede la speranza della gloria per lui e per tutti i cristiani. Per Paolo non è un ospite obbligato, molesto, ma la ragione del suo esistere e della sua missione. Dirà: "Sono crocifisso con Cristo. Vivo io, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me". Marta accoglie in casa sua l’amico buono e sommamente apprezzato, Maria accoglie il Maestro che ha parole di vita, Paolo ospita il Redentore, che con la sua passione, morte e resurrezione, redime l’uomo dai suoi peccati, lo salva da se stesso. L’ospitalità di Paolo culmina, come nel caso di Abramo, in benedizione, nella benedizione suprema.

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Ospitalità verso gli emigranti. Oggi la parola ‘ospitalità’ si può tradurre con ‘solidarietà’. Il cristianesimo ci insegna che tutti siamo fratelli, e per questo tutti dobbiamo essere solidali gli uni verso gli altri. Poiché non dobbiamo dimenticare che la solidarietà è reciproca. L’anfitrione si mostra solidale accogliendo l’ospite, e quest’ultimo rendendo evidente la sua solidarietà accogliendo con gratitudine e rispetto l’ospitalità che gli viene offerta. In definitiva, l’anfitrione accoglie Cristo nell’ospite, e quest’ultimo accoglie Cristo nell’anfitrione. Tutto ciò risulta di grande attualità davanti al problema non piccolo né facile degli emigranti che, come ondate costanti, giungono soprattutto ai paesi d’Europa e d’America. Essi sono nostri fratelli in Cristo o, almeno, in umanità, e per questo dobbiamo rispettarli ed accoglierli. Essi, da parte loro, non devono dimenticare che noi siamo loro fratelli, a cui devono rispetto ed accoglienza nel proprio cuore. Come non pensare che, dietro lo schermo dell’emigrazione, si nasconde, in qualche occasione, la microcriminalità, la mafia di immigrati clandestini, l’importazione illecita di tabacco e di droga, la mafia disumana dei sequestri di bambini per venderne gli organi o l’inganno di giovinette che saranno portate in diversi paesi d’Europa e vendute alla prostituzione? Quando il reciproco rispetto umano viene meno, non si deve né esasperare né generalizzare, lasciandosi cadere nel razzismo o nell’odio verso tutti gli stranieri, ma l’autorità pubblica dovrà intervenire e, quando ciò sia necessario, espellere i delinquenti. L’ospitalità ha le sue regole umane e cristiane, e tutti dobbiamo rispettarle con fedeltà, affinché la convivenza sia proficua per tutti.

Ospitare Colui che ci ha ospitato. Penso che sia importante che prendiamo coscienza del fatto che anche noi siamo ospiti. Venendo alla vita siamo ospitati da Dio, autore della stessa, in questa grande casa che è la terra; sì, perché tutta la terra è la casa di Dio per ogni uomo che viene a questo mondo. Siamo stati ospitati con affetto in una famiglia: i nostri genitori e fratelli, i nostri nonni, i nostri zii… Siamo stati ospitati in una società, in una nazione, in una cultura, in una istituzione politica, educativa… E soprattutto siamo stati ospitati da Dio nella Chiesa, la casa che Dio ha regalato a noi, credenti in Cristo. La reciprocità ci obbliga. Dobbiamo ospitare chi ci ha ospitato, soprattutto l’Ospite per eccellenza, che è Dio Nostro Signore. Dobbiamo dare il dovuto rispetto all’Ospite nelle nostre parole. Il bestemmiare, il giurare invano, il negare Dio rompe le regole del rispetto dovuto. Dobbiamo dare il dovuto rispetto a Dio nella Chiesa, davanti al Santissimo Sacramento. Un rispetto che si traduce in coscienza della presenza di Dio nell’Eucarestia, in adorazione umile e grata, nel riconoscimento pratico del carattere sacro della Chiesa, eccetera.

 

 

 

 

 

Domenica Diciassettesima del TEMPO ORDINARIO 29 luglio 2001

Prima: Gen 18, 20-21.23-32; seconda: Col 2, 12-14 Vangelo: Lc 11, 1-13

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

I testi liturgici di questa domenica ci insegnano diversi modi di pregare. Abramo appare nella prima lettura come modello di preghiera e di intercessione per gli abitanti di Sodoma. Nel vangelo Gesù Cristo ci insegna con il Padrenostro due modi di pregare: la preghiera di desiderio, nella prima parte, e la preghiera di supplica nella seconda. Il testo della lettera ai colossesi non tratta direttamente della preghiera, ma potremmo dire che offre il fondamento di ogni orazione cristiana, soprattutto di quella liturgica, che è il mistero della morte e resurrezione di Gesù Cristo. O forse si potrebbe parlare della preghiera che si fa vita, dono di sé per amore.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

La preghiera di intercessione. Intercedere è unirsi a Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini, e partecipare in qualche modo alla sua mediazione salvifica. Nell’intercessione, in effetti, l’orante non cerca il proprio interesse, ma quello degli altri; intercede perfino per coloro che gli fanno del male. Normalmente si intercede per qualcuno che è in necessità, in pericolo o in difficoltà. Così fa Abramo di fronte alla situazione di Sodoma e Gomorra, sul punto di essere distrutte per la loro malvagità. Quella di Abramo è un’intercessione piena di coraggio e di audacia verso Dio, ma allo stesso tempo di grandissima umiltà. "Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere; Forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?". La preghiera di intercessione compiace Dio, perché è quella propria di un cuore conforme alla misericordia dello stesso Dio. Però l’efficacia divina, ottenuta dall’intercessore, può trovare accoglienza o rifiuto nella persona per cui si intercede. Davanti all’intercessione di Abramo, Dio intercede e salva Lot e le sue figlie, ma Sodoma e Gomorra sono rase al suolo dal fuoco.

L’orazione di desiderio. Ciò che è proprio dell’amore è pensare innanzitutto a Colui che amiamo. Per questo, nel Padrenostro che Gesù Cristo ci ha insegnato, il cuore del credente eleva fino a Dio il desiderio ardente, l’ansia del figlio per la gloria del Padre, seguendo le orme di Gesù. Che cosa è ciò che il cristiano può desiderare di più in questo mondo? Il vangelo ci risponde: che sia santificato il nome di Dio, che venga il suo Regno. Il cristiano desidera ardentemente che Dio sia riconosciuto come santo, come totalmente differente dal mondo, come il totalmente Altro, come il Trascendente che sostiene la nostra libertà e incoraggia la nostra fame di trascendenza. Il cristiano anela fortemente a che si stabilisca il regno e la sovranità di Dio sulla terra, il regno del Messia che apre le porte a tutti i popoli e a tutte le nazioni. Sono questi tutti i desideri dei cristiani? Ne sono un compendio; pertanto, tutti gli altri buoni desideri cristiani, perché siano tali, dovranno avere relazione con uno di questi due. Un’orazione di desiderio, al margine di Dio e del suo regno, non può essere cristiana.

L’orazione di supplica o petizione. Nella seconda parte del Padrenostro, supplichiamo Dio per le necessità fondamentali dell’esistenza umana. Supplichiamo non individualmente, ma comunitariamente. È la chiesa che è in me e con me quella che chiede a Dio il pane quotidiano, il perdono dei peccati, la forza davanti alla tentazione per tutti cristiani, per tutti gli uomini. Sono petizioni che si fanno a Dio come Padre, e per questo con totale fiducia e sicurezza di essere ascoltati; ma sono anche petizioni audaci, perché chiediamo cose niente affatto facili, soprattutto se teniamo conto del mistero della libertà di Dio e della libertà dell’uomo. Sono petizioni che "riguardano la nostra vita per nutrirla e guarirla dal peccato, e si ricollegano al nostro combattimento per la vittoria del Bene sul Male" (CCC 2857).

La preghiera della vita donata per amore. La nostra preghiera è paradossalmente anche una risposta, ci dice molto bene il catechismo. Una risposta al lamento del Dio vivo: "Essi hanno abbandonato me, sorgente d’acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate; risposta di fede alla promessa gratuita della salvezza, risposta d’amore alla sete del Figlio unigenito" (CCC 2561). È la preghiera della vita, delle opere della fede e dell’amore, opere quotidiane unite misteriosamente al grande orante con la vita, che è Gesù Cristo. In noi, data la nostra miseria, debolezza e limitazione umane, non poche volte la preghiera va da una parte e la vita dall’altra. In Gesù la preghiera è vita e la vita è preghiera. Ecco come poté cancellare il debito che gravava su di noi e inchiodarlo alla croce, perdonandoci tutti i nostri peccati. Gesù Cristo ha pregato ed è morto per i nostri peccati e, con la sua preghiera e morte, ci ha ottenuto la vita.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Dimmi come preghi e ti dirò chi sei. Ci sono quelli che pensano che il valore dell’uomo e la sua identità si misurino dal suo conto in banca, dal suo rango sociale, dal suo potere sugli altri, dal suo sapere, dalla sua fama, eccetera… Piuttosto si dovrà dire che l’uomo è ciò che prega, vale ciò che prega. Preghi? Preghi veramente, con tutta l’anima? Preghi molto, spesso? Preghi con orazione di desiderio, cercando sinceramente Dio nella tua preghiera? Preghi disinteressatamente, per coloro che hanno necessità di Dio, della sua misericordia e del suo amore? Preghi con fiducia, con abbandono al potere e alla sapienza di Dio, che conosce ciò che è meglio per gli uomini? Preghi con un cuore ecclesiale, aperto a tutti? Preghi, come Gesù Cristo, con la tua vita fatta oblazione per la salvezza degli uomini? Se preghi, e preghi così, sei cristiano autentico. Se non preghi, o se la tua preghiera è priva di queste qualità, il tuo documento di identità cristiana è molto malconcio e sfigurato. Per tutto ciò, conviene ricordare che la famiglia, la scuola, la parrocchia debbono essere anche e – perché no? – principalmente, scuole di preghiera. Non ci succede, forse, che insegniamo molte cose ai bambini, e ci dimentichiamo di insegnare loro a pregare?

Il "piacere" di pregare. La preghiera indubbiamente non deve essere un capriccio, qualcosa che dipende dall’averne voglia o no. Ma evidentemente non deve neppure essere un tormento, qualcosa che faccio malvolentieri, perché c’è una legge della Chiesa o un’abitudine di famiglia. Pregare deve essere qualcosa che mi piaccia, come ci piacciono le cose buone. Ci piace parlare con gli amici, c’è un amico migliore di Dio? Ci piace imparare delle cose, c’è migliore maestro che non lo stesso Dio? Ci piace sentirci amati e benvoluti, c’è qualcuno che ci ami e ci voglia bene più di Dio Nostro Signore? Questo piacere, siccome molte volte non è sensibile, ci risulta un poco più difficile. Siccome è un piacere spirituale, è un piacere che solo lo Spirito Santo ci può regalare. Pertanto, più che sforzarsi di gustare la preghiera, dovremo sforzarci di chiedere allo Spirito il gusto di pregare. Egli, che conosce l’intimo di ogni uomo, è colui che infonde nell’interiorità di ciascuno questo gusto per la preghiera. Ti "piace" la preghiera nel recinto segreto del tuo cuore, da solo con Dio? Ti "piace" la preghiera comunitaria, per esempio, il rosario in famiglia o in Chiesa e, soprattutto, la santa messa, preghiera suprema della Chiesa al Padre per mezzo di Gesù Cristo? Se ancora non ce l’hai, scopri il piacere della preghiera, e chiedi al Signore che lo conceda a tutti noi cristiani. Il piacere di pregare è una ricchezza per ogni cristiano e per tutta la Chiesa.

 

 

 

 

 

Domenica Diciottesima del TEMPO ORDINARIO 5 agosto 2001

Prima: Qo 1, 2; 2, 21-23; seconda: Col 3, 1-5.9-11 Vangelo: Lc 12, 13-21

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

I testi liturgici di questa domenica ci propongono due modi di vivere e di stare al mondo. C’è il modo di vivere dell’uomo vecchio, e c’è il modo di vivere dell’uomo nuovo (seconda lettura), esiste l’uomo che cerca le cose della terra, e quello che cerca le cose del cielo (seconda lettura), quello per cui tutte le cose sono vanità, e quello per cui tutto è provvidenza di Dio (prima lettura). Il vangelo, da parte sua, oppone la vita di chi calcola tutto nell’avere, ed accumula delle ricchezze per sé, e la vita di chi fonda la sua esistenza sull’essere, ed accumula ricchezze davanti a Dio.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Vivere per sé. È un modo di stare al mondo, di realizzare l’esistenza nell’arco degli anni tra la nascita e la morte. È un modo di pensare, di agire, di mettersi in relazione con gli uomini e con le cose. Il punto di riferimento di tutto è l’io. Il sapere, il lavoro, lo sforzo con i loro buoni risultati appaiono, davanti all’io, caduchi e vani. Se l’uomo è un essere sul punto di morire, a che cosa gli serve il suo sapere, il suo lavoro, se non può vincere il suo destino mortale, la sua immersione nel nulla? Tutto è vanità, fumo che il vento porta via. Quando l’io è il centro della vita, abbiamo l’uomo vecchio, incapace di uscire da solo dalla tenebra del suo ermetismo, sempre più sommerso nel fondo del vizio e del peccato, con lo sguardo sempre più posto nelle cose della terra, senza la possibilità di alzarlo verso il cielo. Uomo vecchio, perché in certo modo ripete nella sua vita la storia antichissima del primo Adamo, del gusto del peccato e della caduta originale. D’altra parte, l’io, è estremamente povero lasciato nelle sue proprie mani, perché privilegia l’avere e l’apparire. C’è qualcosa di più effimero e labile di queste due realtà? Come si può fondare un’esistenza su qualcosa che oggi è, e domani scompare? Come si può guardare in faccia la morte, quando i grandi valori che hanno retto la vita sono stati i beni materiali e le apparenze, ai quali è proibito varcare la soglia dell’aldilà? A ragione si possono applicare a chi vive per sé le parole di Gesù nella parabola del testo evangelico: "Stolto! Questa stessa notte ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai accumulato, di chi sarà?". Così è chi accumula ricchezze per sé, chi incentra in sé il suo proprio vivere ed agire tra gli uomini.

Vivere davanti a Dio. Dio non è, a dire la verità, l’antagonista dell’io, della realizzazione personale. In nessun modo! Ma la sapienza eterna ci insegna che la propria realizzazione si compie per mezzo del cammino del vivere per Dio, del vivere agli occhi di Dio. Il lavoro e il sapere, agli occhi di Dio, hanno un senso e un destino provvidenziali, al di là dei limiti della sfera mondana. Tutto ciò che si fa per Dio in questo mondo, lo trascende, ed abita, purificato ed elevato, nell’eterna dimora di Dio. Vive davanti a Dio e per Dio l’uomo nuovo, che è stato ricreato da Cristo mediante il battesimo a sua immagine e somiglianza, che è stato circonciso non nella carne ma nel cuore e, vivendo davanti a Dio, vive senza paura della morte, che considera, più che una fine assurda e senza senso, una porta verso un’esistenza nuova della quale già si partecipa, sebbene in modo molto povero ed elementare. Per questo, l’uomo nuovo ha i piedi ben posti sulla terra e nelle occupazioni di questo mondo, ma il suo sguardo e il suo cuore sono volti in alto, nel cielo, verso il quale cammina con fiducia e speranza. Chi vive per Dio non si estrania dal mondo, non lo disprezza né lo odia, perché è la casa che il Padre gli ha dato affinché vi abiti. Lavora come tutti gli altri, spende le sue forze per produrre ricchezza, ma ha un cuore puro e distaccato, e sa molto bene che i beni di questo mondo hanno un destino universale, e non possono essere ingiustamente accaparrati in poche mani. Invece di dire a se stesso: "Riposa, mangia, bevi, banchetta", pensa piuttosto a come aiutare, affinché gli uomini tutti, soprattutto quelli che sono più vicini alla sua vita, abbiano il proprio opportuno riposo, dispongano di alimenti e possano sanamente godere del necessario per un banchetto di festa.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

L’homo oeconomicus non ha futuro. Siamo soliti classificare spesso l’uomo secondo qualche aspetto che lo caratterizza. Così, per esempio, si parla di "homo faber" per sottolineare la sua capacità manuale, o "homo cogitans" per mettere in risalto la sua vocazione di pensatore. Con l’espressione "homo oeconomicus" si mette in rilievo il tipo di uomo incentrato sul denaro e sul benessere. Ebbene, dobbiamo affermare che questo uomo manca di futuro. C’è gente che dice: "Con il denaro puoi fare tutto ciò che vuoi; apre tutte le porte". Non è vero. Con il denaro non puoi comprare la felicità, sebbene a volte possa fare felici. Con il denaro non puoi comprare l’amore, al massimo una notte di passione o un’avventura effimera e frustrante. Il denaro non ti rende virtuoso, piuttosto, apre con non poca frequenza la porta all’antro del vizio. Che lo riconosciamo o no, tutti cerchiamo un futuro più felice, ma tale futuro non lo troverai in un conto bancario in costante crescita. Lo troverai dentro di te, nel sacrario della tua coscienza, nella pace interiore di fronte a te stesso e di fronte a Dio. Soprattutto, non ha futuro, perché l"homo oeconomicus" non è cittadino del cielo, gli manca il passaporto e, davanti alla morte e al giudizio di Dio, il conto in banca non conta per nulla. Perché non cambiare l’homo oeconomicus in homo pneumaticus, in uomo illuminato, guidato e configurato dall’azione dello Spirito Santo? Non è facile, ma è possibile, auspicabile. Sono molti coloro che lo hanno fatto. Tentalo, se non lo hai fatto ancora. Invita altri a provarci.

Ha senso cambiare senso? I due modi di vivere di cui abbiamo parlato sono come un’autostrada, con le due vie separate, senza possibilità di manovra per cambiare direzione quando uno voglia. Alcune carreggiate vanno soltanto in una direzione ed altre nella direzione contraria. Ciò dà molta maggior sicurezza ai conducenti, rende più facile e meno stancante il guidare, si può andare a maggiore velocità; si viaggia con piacere, in generale, anche se si dovrà stare attenti nelle curve, non eccedere nella velocità, non lasciarsi vincere dalla fatica. Avanzo, progredisco verso Babilonia, vedo che non vado da solo, ma che molti vanno per la mia stessa direzione. Penso di aver scelto bene la città dei miei sogni e che sarà un godimento viverci, con gente per bene. Di quando in quando osservo che c’è un cartello in cui è scritto "cambio di senso". Ho visto che alcuni hanno lasciato la strada e hanno cercato di cambiare direzione. La mia prima reazione è stata: "Ma che stupido! Ha senso cambiare senso?", e ho proseguito. Poi, davanti ad altri cartelli uguali, o in momenti inaspettati, mi è venuta l’immagine di quelli che uscivano dall’autostrada. Perché lo avranno fatto? Sarà gente strana? Penseranno di aver sbagliato direzione? Avranno compreso che Babilonia non è un’isola di felicità? La verità è che la spina del dubbio mi si è conficcata dentro. Che cosa fare? Ti incoraggio a cambiare direzione, a prendere la strada che si dirige a Gerusalemme; a farlo nel prossimo cambio di senso, senza aspettare l’ultimo…Non credere che siano pochi quelli che vanno in questa direzione. Cambiando senso, ti renderai conto del fatto che il traffico è anche intenso. Gerusalemme, la città del gran Dio! Gerusalemme, la città in cui Gesù Cristo diede la sua vita per noi! Gerusalemme, la città dei figli di Dio! Gerusalemme, simbolo di verità e di giustizia, simbolo di amore e di solidarietà! Gerusalemme, la città fondata da Dio perché tu vi abiti!

 

 

 

 

 

 

Domenica Diciannovesima del TEMPO ORDINARIO 12 agosto 2001

Prima: Sap 18, 3.6-9, seconda: Eb 11, 1-2.8-19 Vangelo: Lc 12, 32-48

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"In fiduciosa e vigilante speranza", così riassumo il contenuto principale del messaggio liturgico di oggi. Questo è l’atteggiamento di Abramo e di Sara, e di tutti coloro che sono morti nella speranza della promessa fatta da Dio (seconda lettura). Questo è l’atteggiamento dei discendenti dei patriarchi, che aspettavano con fiducia, in mezzo a duri lavori, la notte della liberazione (prima lettura). Questo è l’atteggiamento del cristiano in questo mondo, dedito alle sue occupazioni quotidiane, aspettando con cuore vigile la venuta del suo Signore (vangelo).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

L’attesa storica. Dio è un Dio fedele e le sue promesse si compiono, ma, in quanto promesse, non si vedono nell’immediato presente, ma si aspettano per il futuro. Possiamo, dunque, dire che la storia della salvezza è la storia delle speranze e dell’attesa degli ebrei e dei cristiani. Prototipo della speranza è Abramo, come mette in rilevo le lettera agli Ebrei (seconda lettura). Prima, vive nella speranza e nella attesa di un figlio, e Dio lo soddisfa dandogli Isacco, nonostante l’età avanzata e la sterilità di Sara, sua moglie. Poi, nell’attesa e nella speranza di una terra e di una discendenza numerosa. Dio manterrà la promessa, ma non durante l’esistenza terrena di Abramo. In questo modo, in Abramo si inaugura la catena delle speranze e della attesa dei patriarchi e del popolo di Israele. Dopo vari secoli, nel XIII a.C., Dio compirà la promessa della terra con Giosuè. Molti secoli dopo, con Gesù Cristo, Dio compirà la promessa della discendenza, dato che soltanto in Gesù "saranno benedetti tutti i popoli della terra". Nel libro della Sapienza (prima lettura) si menziona un’altra promessa di Dio: la liberazione dalla schiavitù: "Quella notte fu preannunciata ai nostri padri" (cf Gen 15, 13-14; 46, 3-4). Anche questa promessa Dio la compì in modo glorioso e potente, in quella famosa notte in cui gli egiziani restarono nelle tenebre, mentre gli israeliti erano preceduti da una colonna di fuoco che illuminava il loro cammino, quella notte che per gli egizi fu tragica per la morte di tutti i primogeniti, mentre per gli israeliti fu notte di liberazione e di gioia. Dio non soltanto compie la sua promessa, ma vince il male, e con amore attrae e chiama verso di sé gli eletti. Non è soltanto un Dio fedele, ma altresì un Padre che ama.

L’attesa metastorica. Nella lettera agli Ebrei, si presentano i patriarchi e le grandi figure del popolo di Israele, mentre stanno cercando una patria. L’autore della lettera interpreta tale ricerca non in senso storico, ma metastorico: "Aspirano a un patria migliore, cioè alla patria celeste". Lo stesso Dio che fu fedele compiendo le sue promesse nella storia, sarà fedele nell’aldilà della storia. Di questa attesa e speranza metastoriche ci parla soprattutto il vangelo, mediante l’immagine del padrone che i servi debbono aspettare finché giunga per aprirgli la porta non appena busserà. Fin dalla nascita, ogni uomo, in qualche modo, è in attesa del suo Signore. Noi cristiani dobbiamo sperare senza paura, ma con gioia, "perché il Padre si è compiaciuto nel darci il Regno", e Dio, nostro Padre, non smetterà di compiere le sue promesse. Dobbiamo aspettare in atteggiamento di disponibilità per qualsiasi momento: "con la cintura ai fianchi e le lampade accese". Allo stesso modo, l’attesa deve esser vigile, perché il Signore giungerà "come un ladro", quando meno lo si pensa. La migliore maniera di aspettare è sicuramente facendo il bene a tutti ed avendo una condotta degna. L’abusare del proprio potere, colpendo i servi e le serve, mangiando e bevendo fino ad ubriacarsi, è un modo inappropriato di aspettare il Signore, e per questo ci dice il vangelo: "Lo punirà con rigore, assegnandogli il posto tra gli infedeli". L’aldilà, e il giudizio di Dio che implica questa realtà, ci può risultare misterioso, inaccessibile alla nostra intelligenza, ma non è qualcosa di marginale alla fede cristiana, bensì qualcosa di costitutivo del suo credo: "Aspetto la resurrezione dei morti e la gloria del mondo che verrà". Viviamo di speranza, ma tutta la storia della salvezza ci ha mostrato, secolo dopo secolo, che la speranza posta in Dio non delude.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Guardare il presente con occhi lontani. Il cristiano non è un utopista, un sognatore distaccato dal presente con la sua realtà contante e sonante. Il cristianesimo vive il realismo del presente, con i piccoli doveri di ogni giorno, con le lotte per la vita e la sopravvivenza di tanti uomini, con la cronaca nera dei quotidiani o della televisione, con le piccole sorprese che di quando in quando bussano alla porta. In realtà la vita si vive nel presente o non si vive, il presente è l’unico a nostra disposizione perché il passato è già sfumato, e il futuro manca ancora di consistenza propria. Il presente è la terra che calpesto, la famiglia in cui vivo, la fidanzata che amo, la madre malata, il figlio irrequieto, l’ufficio in cui lavoro, la parrocchia per la quale passo ogni giorno, l’analisi del sangue, o la macchina nuova che ho appena comprato. Il nostro sguardo deve essere posto nel presente, non evadere da esso, assumerlo con tutta la sua realtà, sia essa triste o gradevole. Non dobbiamo avere paura del presente, dobbiamo guardarlo in faccia, con coraggio. Ma il presente non esiste racchiuso nel proprio guscio, per sua stessa natura è aperto al futuro che, passo dopo passo, inesorabilmente, si trasforma in presente. Tale futuro non può dimenticarsi nel vivere quotidiano del momento. Ne consegue che dobbiamo guardare al futuro con occhio lontano. Il futuro è l’orizzonte del presente, è la speranza. Il presente ermetico finisce col suo proprio istante. Il presente aperto vede già la spiga dorata nel seme appena gettato a terra. Il presente ermetico pretende di rendere eterno il pizzico della felicità effimera, che marcisce nelle sue mani e, non riuscendoci, crolla in catastrofe. Il presente aperto e cristiano getta il proprio sguardo sempre più in avanti, fino a farlo entrare nella dimora stessa di Dio. Che i tuoi occhi illuminino la realtà presente con il fulgore che hanno colto guardando al futuro.

La vigilanza non è un optional. Il futuro di ogni uomo, con tutto il suo spessore, è imprevedibile. Il meteorologo può prevedere il tempo per domani, sebbene con il rischio di sbagliare. L’economista può prevedere l’inflazione nel paese durante il mese di maggio, o nell’anno 2001, con maggiore o minore approssimazione. Ma la storia dell’uomo è impossibile da prevedere, perché è una storia di libertà. Libertà dell’uomo, e soprattutto libertà di Dio. Chi può sapere ciò che saranno gli uomini il giorno di domani? Chi può prevedere i disegni di Dio per il futuro immediato o remoto? L’imprevedibilità del futuro reclama vigilanza. L’uomo prudente, sensato, non considera l’atteggiamento vigilante qualcosa di empiricamente possibile, una tra le molte opzioni. La vigilanza è la migliore opzione. Vigilare perché il futuro non ci colga alla sprovvista. Vigilare per essere capaci di dominare gli avvenimenti, invece di esserne dominati. Vigilare per non perdere mai la pace, nemmeno davanti allo scatenarsi più tremendo di prove e di esperienze avverse. In realtà, chi vigila ha guardato negli occhi il futuro, ed è preparato ad affrontarlo con garbo e decisione. Vigilare per scoprire la scrittura di Dio nelle pagine della storia. Vigilare per saper scoprire l’azione dello Spirito nel tuo intimo, nell’intimo degli uomini. Vigilare per terminare con un lieto fine l’ultima pagina del libro della tua vita. Vigilare per mantenere integra la fede, la speranza e la carità, "quando Egli verrà". La vigilanza non è un "optional," è una necessità vitale.

 

 

 

 

 

Solennità dell’ ASSUNZIONE 15 agosto 2001

Prima: Ap 11, 19; 12, 1-6a.10ab; seconda: 1Cor 15, 20-26. Vangelo: Lc 1, 39-56.

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il concetto di "relazione" può servirci per stabilire un legame di unione tra i testi della festa dell’Assunzione. La relazione di Maria con Dio Padre la troviamo nel testo evangelico: "Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente". Nella prima lettera ai corinzi (prima lettura), possiamo intravedere la relazione di Maria con suo figlio, Gesù Cristo risorto, "primizia di coloro che sono morti". La prima lettura ci permette di stabilire una relazione di Maria con la Chiesa, "donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e una corona di dodici stelle sul suo capo".

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Maria e il Padre. Maria nel Magnificat riconosce che l’Onnipotente ha fatto opere grandi in lei. Quali sono tali grandi opere? Innanzitutto, la pienezza di grazia con cui è stata concepita e che l’ha accompagnata nel corso della sua esistenza terrena. Poi, il mistero della maternità divina, meraviglioso gesto di amore del Padre verso Maria e verso tutta l’umanità. Infine, Dio ha fatto di Maria l’arca della nuova alleanza che, con Dio nel suo seno, è causa di benedizione per Giovanni Battista e i suoi padri (cf. parallelismo con 2Sam c.6). Le cose grandi di Dio in Maria non terminano con la nascita di Gesù; Dio continua ad agire con la sua grandezza nell’anima e nella vita di Maria, e l’ultima di codeste opere grandi di Dio in lei sarà proprio l’assunzione in corpo ed anima alla gloria celeste. Maria è la posseduta dalla grazia nel corpo e nell’anima, l’immacolata, in cui non c’è nulla di corruttibile, perché tutto nella sua persona è grazia, puro dono di Dio. Potrebbe Dio Padre lasciare incompleta l’opera meravigliosa di grazia, attuata in Maria, durante la sua vita terrena?

Maria e suo Figlio, Gesù Cristo. Il mistero della resurrezione di Gesù Cristo e della sua conseguente glorificazione è impensabile senza la realtà di un corpo, come il nostro, che è stato amorosamente formato nel seno di Maria. Il Verbo si fece carne di Maria e in Maria. La santissima Vergine può dire di Gesù: "È la carne della mia carne". Se tale carne santissima è stata glorificata per mezzo della resurrezione di Gesù Cristo, dubiterà il Figlio di glorificare anche la carne di sua Madre, codesta carne benedetta che fu allo stesso tempo arca ed alimento? Cristo risorto è la primizia di tra i morti; nel tempio di Gerusalemme, la festa delle primizie preannunciava l’abbondante raccolto; adesso, Cristo glorioso preannuncia la glorificazione di tutti i credenti. Una glorificazione che avrà luogo "nella sua seconda venuta" alla fine dei tempi. La Pasqua definitiva del cristiano non è possesso, ma speranza certa e sicura. Maria è l’unica donna che già vive nella Pasqua definitiva, perché, nella sua carne benedetta, suo Figlio Gesù Cristo ha realizzato in pienezza l’opera della redenzione. In certo modo, possiamo affermare che Maria è anche, insieme con Gesù e per opera sua, primizia di tra i morti. Per questo, possiamo elevare il nostro sguardo alla Vergine Assunta con amore e speranza.

Maria e la Chiesa. La donna dell’Apocalisse (prima lettura) simboleggia Eva, Israele e la Chiesa. Il dragone è il "serpente antico", che tentò Eva e fece sì che fosse cacciata dal paradiso (Gen 3). Ma già nel v. 15 si apre una finestra alla speranza, con la donna che vince il serpente calpestandone la testa. Questa donna è la nuova Eva, Maria, quella sulla quale il serpente non ha avuto alcun potere, e che per questo può con totale libertà ottenere la vittoria su di lui. La donna rappresenta il popolo di Israele, questa donna-sposa con cui Jahvé contrasse un’alleanza sponsale, codesta donna bella come il sole, potente come una grande regina, gravida in attesa di un figlio. In Maria si realizza in modo perfetto la vocazione e la speranza di Israele. Ella è bella con lo splendore di Dio, potente per la sua umiltà, gravida per il fatto di portare nel suo seno lo stesso Figlio dell’Altissimo. La donna simboleggia allo stesso modo la Chiesa. La Chiesa nello splendore della sua santità, nella maternità feconda, nella situazione di persecuzione per opera del demonio, nella fuga nel deserto per recuperare forze e preparare la battaglia della vittoria. Maria, come figlia della Chiesa, ha portato fino allo stesso Dio la sua santità, la sua fecondità, la sua vittoria; come Madre della Chiesa, dal cielo l’assiste nelle sue prove e la consola nel dolore.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Una donna della nostra razza. Maria, con tutta la sua grandezza, non è una donna diversa dalle altre donne della terra. Ella è interamente donna, non un essere superiore venuto da un altro pianeta, né una creatura soprannaturale scesa dal cielo. Essa si presenta nel vangelo con tutte le caratteristiche della sua femminilità e della sua maternità, in alcune circostanze storiche concrete, a volte tinte dal dolore, a volte coronate dalla gioia. Sente come donna, reagisce come donna, soffre come donna, ama come donna. La sua grandezza non procede da lei, ma dall’opera meravigliosa di Dio, questo sì, accolta ed assecondata fedelmente da Maria. La sua assunzione in corpo ed anima al cielo, non la allontana da noi, e la rende più potente per guardare gli uomini, suoi fratelli, con occhi di amore e di pietà. La sua presenza gloriosa nel cielo ci parla non solo di un privilegio di Maria, ma di una chiamata che Dio fa a tutti per partecipare di questa stessa vita nella pienezza del nostro corpo e della nostra anima. Come donna della nostra razza, ella è la figura più eccelsa di umana creatura e, allo tempo, la più tenera e materna. Gesù Cristo, e Maria, sua Madre, hanno già passato la porta del cielo con la pienezza del loro essere. Noi siamo ancora sulla soglia, vivendo in attesa e speranza, ma con la sicurezza che giungerà il momento in cui la porta si aprirà per tutti e cominceremo a vivere in un mondo nuovo. Non è sogno, non è semplice promessa. È realtà che speriamo con assoluta fiducia nel potere di Dio. L’assunzione di Maria è garanzia della nostra speranza. Non è qualcosa di magnifico che il destino glorioso di Maria sia anche il nostro ultimo e definitivo destino?

Salmo all’assunzione di Maria.

Benedici, anima mia, il Dio altissimo,

perché si è degnato di innalzare in corpo

ed anima al cielo

l’umile fanciulla di Nazaret.

Benedicano tutte le creature il Padre

perché ha scelto una donna

della nostra razza,

per manifestare in lei la vittoria sulla morte e sulla corruzione,

come primizia, insieme con Cristo,

del nostro destino.

Benedicano tutti i redenti nostro Signore Gesù Cristo,

perché in Maria, sua Madre, assunta al cielo,

fa brillare nel suo splendore tutti gli effetti della redenzione.

Benediciamo lo Spirito Santo,

che ha fatto fiammeggiare nell’essere

di Maria di Nazaret

il fuoco che non si consuma

e la luce che non si spegne.

Tutte le creature,

insieme con Maria,

lodino Dio.

 

 

 

Domenica Ventesima del TEMPO ORDINARIO 19 agosto 2001

Prima: Ger 38, 4-6.8-10; seconda: Eb 12, 1-4 Vangelo: Lc 12, 49-57

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

"Lo scandalo della verità" potrebbe servire da titolo alla nostra riflessione sulla liturgia di oggi. La verità che proclama il profeta Geremia scandalizza i suoi contemporanei (prima lettura). Anche le parole di Gesù sul fuoco del giudizio, sul battesimo nel sangue della croce e sulla spada che divide, scandalizzarono i suoi uditori, perché non rispondevano alle loro aspettative. E non è vero che la pedagogia divina, che ricorre, sebbene non unicamente, alla correzione e al castigo, non poche volte scandalizza gli uomini?

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Lo scandalo di Geremia. Geremia era un uomo per natura sensibile e tranquillo. Amava la bellezza e dovette predicare, per vocazione divina, distruzione ed orrendi massacri. Amava la tranquillità e la quiete, e venne immerso fino al midollo negli avvenimenti tanto disgraziati e tremendi di Gerusalemme e del regno di Giuda. Il Dio che lo aveva sedotto lo spingeva a parlare di cose sgradevoli e inaspettate, a realizzare azioni simboliche che suscitavano indignazione e avversità. Le sue parole e le sue azioni scandalizzarono gli abitanti di Gerusalemme e di Giuda. E "scandalizzare" vuol dire, per quelli che lo odono, che egli non cerca il bene, ma il male del suo popolo, che è un pessimista e un guastafeste che scoraggia i soldati e il popolo. Geremia, ciononostante, sa di dire la verità, una verità che non si è inventata lui, ma che ha ascoltato nell’intimità della sua coscienza come Parola venuta da Dio. Lo scandalo della verità farà soffrire Geremia (sarà gettato in un pozzo pieno di fango perché vi muoia dimenticato e abbandonato), ma non importa, egli sa che Dio non lo abbandonerà (lo salverà per mezzo di un etiope, di un pagano), e che la verità di Dio, da lui trasmessa, prevarra e vincerà. E così fu. Gerusalemme venne presa e distrutta dall’esercito babilonese, e gran parte della popolazione deportata, come schiava, alla terra dei vincitori.

Lo scandalo di Gesù Cristo. Gesù si rivolge ai suoi contemporanei con parole taglienti, scandalose. Parla del fuoco del giudizio, capace di bruciare e distruggere la situazione presente per generarne una nuova, ma gli ascoltatori non sono disposti alla radicalità del cambiamento né all’irruzione della novità. Gesù parla del battesimo in riferimento al sangue della croce, nella quale egli dovrà essere battezzato per lavare i peccati del mondo caricati su di sé. Ma, che necessità c’è di quel battesimo? Non è sufficiente il battesimo di Giovanni, il battesimo degli esseni? La croce, scandalo per i giudei! Ci ricorderà Paolo nella prima lettera ai corinzi. Gesù dice chiaramente che non è venuto a portare pace sulla terra, ma la spada che divide gli uomini: con Cristo o contro Cristo, senza possibilità di stato neutrale. Questa spada divisoria scandalizzò enormemente i giudei. Di fronte a questi tre segni che Gesù Cristo offre ai suoi contemporanei, questi ultimi non sanno leggerli correttamente, giudicarli come si deve, e si scandalizzano! La verità che Gesù Cristo predica loro è uno scandalo insopportabile. Uno scandalo che costò a Gesù Cristo la condanna alla morte ignominiosa su una croce.

Lo scandalo di Dio. Non soltanto Geremia, non soltanto Gesù, lo stesso Dio può provocare scandalo. Alla comunità cui va diretta la lettera agli Ebrei poteva risultare "scandaloso" il fatto che Dio permettesse loro di passare attraverso sofferenze senza fine; più ancora, si poteva presentare loro con forza lo "scandalo" del martirio, mediante lo spargimento del proprio sangue. Come era possibile che Dio lasciasse intervenire le forze del male in modo tanto manifesto? Per questo, l’autore della lettera li invita a porre lo sguardo in Gesù, l’autore e il perfezionatore della fede, che si sottomise alla croce sopportando l’ignominia, e adesso sta seduto alla destra del trono di Dio. In linguaggio più colloquiale, si potrebbe formulare così: Vi scandalizzate? Guardate Gesù sulla croce! Vi scoraggiate davanti a questa prospettiva? Guardate Gesù seduto alla destra del trono di Dio! Alla luce di Cristo il vostro scandalo si trasformerà in testimonianza di fede e in gloria.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Scandalizza, che qualcosa resta! Non sto raccomandando lo scandalo immorale, come per esempio lo scandalizzare i bambini con azioni cattive o sproporzionate alla loro capacità di giudizio. Propongo lo scandalo della verità, e la verità può non piacere, può essere più o meno opportuna, ma non potrà mai catalogarsi come immorale. Propongo di ripetere molte volte questo scandalo della verità, affinché, a forza di ripetizione, generi almeno un interrogativo, uno stimolo, un passo in avanti nella sua conoscenza. Perché, non c’è forse una serie di verità che scandalizzano molti uomini di oggi? Per esempio, la verità di un unico Salvatore dell’Umanità, nostro Signore Gesù Cristo, centro ed asse della storia e del cosmo; la verità di un’unica Chiesa, fondata da Cristo, che sussiste nella Chiesa cattolica; la verità di un unico Creatore dell’universo e dell’uomo; la verità di un popolo sacerdotale, senza distinzione di sessi, ma di un ministero sacerdotale al quale Dio chiama solo gli uomini; la verità del matrimonio, costituito unicamente dall’unione stabile di un uomo e di una donna; la verità del destino universale di tutti i beni della terra, ecc. Queste verità scandalizzano molti orecchi nella nostra società. Invece di tacerle, parliamone, diciamole molte volte, in forme diverse, con la semplicità e la convinzione che la stessa verità racchiude in sé. Diciamole in pubblico e in privato. Diciamole tutti: sacerdoti, educatori, professori di religione, catechisti, teologi, vescovi. Scandalizziamo la nostra società con verità fondamentali della fede e della morale cristiana!

La verità vi farà liberi. In un ambiente sociale, in cui la verità sembra essere causa di schiavitù e di servitù, perché si ignora o si disprezza sia la natura della verità, sia la capacità dell’uomo per la stessa, noi cristiani siamo convinti che la verità in sé, e particolarmente la verità della nostra fede, ci renda liberi. In realtà, ogni verità contribuisce a costruire l’uomo e il cristiano nella sua identità e carattere più specifici. Ed è chiaro che, quanto più ci identifichiamo con il nostro essere uomo e il nostro essere cristiano, vivremo meglio e più pienamente la vera libertà di essere ciò che dobbiamo essere, secondo come è scritto nella nostra natura o nel grande libro della rivelazione di Dio. Perché l’uomo non è libero di essere "ciò che vuole", ma è libero di essere la verità del suo essere. La libertà non è un assoluto, fa riferimento alla verità, che di per se stessa ci attrae e ci soggioga. Laddove c’è verità c’è libertà, e dove non c’è verità, c’è necessariamente qualche forma di schiavitù. Cerchiamo la verità? Viviamo nella verità? Amiamo la verità? Rimaniamo nella verità? Difendiamo la verità? Allora possiamo dire che siamo autenticamente liberi, perfino se siamo rinchiusi tra le quattro pareti di una prigione o se siamo considerati "materiale inutile" dalla società circostante. O forse abbiamo paura della verità, della sua forza soggiogante? Sì, in un mondo relativo, le verità assolute fanno forse paura. Però, se tutto è relativo, non stiamo facendo del relativo l’unico assoluto? Aver paura della verità, in definitiva, è aver paura di essere se stessi, è aver paura di essere coerenti, è lasciarsi dominare dalla legge assoluta della maggioranza, è perdere dignità umana. La verità ti farà libero. Non dubitarne. È l’esperienza degli uomini grandi.

Domenica Ventunesima del TEMPO ORDINARIO 26 agosto 2001

Prima: Is 66, 18-21; seconda: Eb 12, 5-7.11-13 Vangelo: Lc 13, 22-30

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

I testi liturgici si muovono tra due poli: uno, la chiamata universale alla salvezza, l’altro, il coraggioso impegno a partire dalla libertà. Il libro di Isaia (prima lettura) termina parlando della volontà salvatrice di Jahvé a tutti i popoli e a tutte le lingue. Il vangelo, da parte sua, ci indica che la porta per entrare nel Regno è stretta, e che soltanto i coraggiosi passeranno attraverso di essa. In questo sforzo della nostra libertà ci accompagna il Signore, con la sua pedagogia paterna che non è esente da correzione, sebbene non sia quest’ultima l’unica forma di pedagogia divina.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Chiamata universale alla salvezza. Il destino universale della salvezza non è stato scoperto dal Concilio Vaticano II, ma si trova nell’intimo stesso della Parola e della Rivelazione di Dio: "Dio vuole che tutti si salvino". Nel testo della prima lettura Isaia, in una visione magnifica, vede venire a Gerusalemme, la città della salvezza, quasi in forma di processione liturgica, gli uomini di tutti i popoli, servendosi dei più svariati mezzi, e portando le loro offerte a Dio. Dio ha chiamato e continua a chiamare tutti, senza eccezione, perché Dio è Signore e Padre di tutti. Può Dio Padre chiamare alcuni dei suoi figli alla salvezza e ad altri no? Sarebbe assurdo ed indegno della sua divina paternità! Dove senza dubbio c’è differenza, è nei mezzi che Dio offre ai suoi figli per la salvezza. Il testo di Isaia dice che verranno a Gerusalemme su cavalli, carri, portantine, muli e dromedari. In altre parole, le vie per giungere alla salvezza di Dio, simboleggiata in Gerusalemme, sono molte e diverse. Al giorno d’oggi, la via più sicura è la fede cristiana, ma esiste anche la via delle religioni non cristiane. Esiste la via dell’etica e della coscienza. Esiste la via dell’ascesi e della mistica, ecc. D’altra parte, l’universalità della salvezza non ammette eccezioni né di popoli né di epoche, né di categorie sociali o professionali, né di caratteri (socievole, introverso, euforico…), di fisionomia (bello o brutto, proporzionato o sproporzionato…), fisiologia (forte o debole, grasso o magro…). Tutti ricevono la chiamata allo stesso modo, ma ciascun essere umano trova le sue proprie difficoltà e i suoi aiuti nel cammino verso la salvezza, che almeno in parte sono in rapporto con la razza, la fisionomia, il carattere, ecc. Per Dio non ci sono limiti: ha fatto tutto il possibile! Che faremo noi uomini di fronte a questa offerta universale?

La libertà dall’impegno. In una occasione qualcuno domandò a Gesù: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?". Sappiamo che tutti sono chiamati a salvarsi, ma si salveranno realmente tutti? Nella sua risposta, attraverso un linguaggio immaginativo e simbolico, Gesù cerca di inculcarci tre verità fondamentali: 1) La porta per entrare nel Regno di Dio, il regno della salvezza, è una porta stretta. La porta della chiamata la apre Dio e la apre a tutti, ma la porta della risposta dipende dalla libertà umana, e non tutti sono disposti ad entrarvi, soprattutto sapendo che è una porta stretta. Gesù ci dice perfino che ci saranno molti che cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Perché? Perché pretendono di entrare carichi di molte cose che impediscono loro il passaggio. Voler entrare implica il voler distaccarsi, e il farlo realmente. Senza questa volontà di distacco e senza questa libertà di sforzo, non si può oltrepassare la porta della salvezza. 2) L’ottenimento della salvezza non dipende dalla religione, e nemmeno dall’esperienza religiosa, perfino mistica, ma dalla condotta, dalle opere di salvezza. Non basta essere cristiano per assicurarsi la salvezza, perché se non facciamo le opere da cristiani, ascolteremo la voce di Dio che ci dice: "Non vi conosco, non so da dove venite". Non è l’esperienza religiosa (l’aver mangiato e bevuto alla sua presenza) quella che causa la salvezza; se non va unita a opere che nascano da tale esperienza, Dio si vedrà obbligato a rispondere: "Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me, operatori di iniquità". 3) Quelli che si salveranno, proverranno non soltanto da un luogo, ma da tutti i popoli e da tutti i confini della terra. "Verranno da oriente e da occidente, dal nord e dal sud, e si metteranno a tavola nel regno di Dio". In tutti gli angoli della terra ci sarà gente coraggiosa e generosa che vorrà entrare per la porta stretta e che adotterà tutti i mezzi per riuscirci.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Ammirare la pedagogia di Dio. La Bibbia, è, tra l’altro, il libro della pedagogia di Dio per la salvezza dell’uomo. Dio come pedagogo è simboleggiato dalla figura del padre. Cioè, la pedagogia divina è guidata dall’amore peculiare di un padre verso i suoi figli. Il testo della seconda lettura sottolinea un aspetto di questa pedagogia: la correzione. Quale padre c’è che non si sia visto in qualche occasione obbligato a correggere i suoi figli? A volte la correzione può terminare in castigo, un castigo educativo, istruttivo. Il figlio sa che, sebbene pianga e batta i piedi, la correzione o il castigo sono per il suo bene, e provengono da un padre che lo ama di cuore. Dio, per condurre l’uomo verso la porta stretta della salvezza, si vede obbligato a volte ad usare la "correzione" e il "castigo". Anche in questa maniera ci manifesta il suo amore di Padre. L’uomo, più che lamentarsi, inquietarsi con Dio, considerarsi vittima, dovrà ammirare la meravigliosa pedagogia di Dio, che con la sua premurosa provvidenza è costantemente sospeso alla nostra vita, segue da vicino tutti i nostri passi e, quando è necessario, ricorre alla correzione per il nostro bene. Ma è evidente che un padre non può ridursi a un semplice correttore. Sarebbe una caricatura della pedagogia paterna! Il padre, soprattutto, guida, incoraggia, entusiasma i suoi figli per le vie della verità e del bene. Così è anche la pedagogia divina, che mette alla nostra portata numerosi mezzi per risvegliare in noi il desiderio profondo della salvezza e per guidarci per la via sicura verso di essa. E lo fa in un modo assolutamente personale, perché Dio non è un educatore di massa, ma di figli.

La salvezza: iniziativa di Dio e compito dell’uomo. All’uomo è impossibile salvarsi da solo: è Dio che salva. Ma Dio non impone la salvezza, la offre. Dio non risparmia all’uomo il compito di accettarla e, così, di essere salvato. Non è l’uomo che prende l’iniziativa della salvezza, ma Dio. Però non è Dio che ha il compito della salvezza, ma l’uomo. Iniziativa e compito! Bellissima coniugazione di sinergia tra un Padre che ama alla follia i suoi figli, e dei figli che si preoccupano di comportarsi come tali! Se Dio rinunciasse, per assurdo, all’iniziativa della salvezza, rinuncerebbe al suo amore di Padre e al suo progetto eterno sul destino dell’uomo. Se l’uomo rinunciasse al suo compiuto di salvezza, da una parte, rinuncerebbe alla sua condizione di uomo caduto e, dall’altra, al suo fine e destino eterni. L’iniziativa di Dio infonde all’uomo sicurezza e certezza della salvezza. Il compito della salvezza gli fa mettere in gioco la sua libertà, e dare tutto se stesso ad usarla in sinergia con l’iniziativa divina. Tutto ciò è stupendo, ma ci accade sovente di vivere la vita senza pensare molto a queste cose, travolti forse dagli stessi avvenimenti quotidiani. La domenica è un buon giorno per pensare a tutto ciò, per fare una sosta nel cammino della quotidianità e pensare a qualcosa che vale la vita, e l’eternità. Se la "salvezza" fosse più presente nei nostri piccoli doveri di ogni giorno, non cambierebbe forse qualcosa nel nostro modo di vivere e di agire? Non è tempo di lamenti! È tempo di azione e di speranza!

 

 

 

 

 

Domenica Ventiduesima del TEMPO ORDINARIO 2 settembre 2001

Prima: Sir 3, 17-18.20.28-29; seconda: Eb 12, 18-19.22-24 Vangelo: Lc 14, 1.7-14

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

Il punto di riferimento dei testi liturgici sembra essere chiaramente l’umiltà. È l’atteggiamento dell’uomo di fronte alle ricchezze del mondo materiale o del mondo dello spirito (prima lettura). È e deve essere l’atteggiamento migliore dell’uomo, e particolarmente del cristiano, nelle relazioni con gli altri, nelle diverse situazioni che la vita offre (vangelo). E, soprattutto, deve essere il comportamento proprio dell’uomo di Dio, un comportamento che scopre la propria piccolezza nella magnanimità di Dio (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Le giuste relazioni nascono dall’umiltà. È un luogo comune dire che l’uomo è un essere relazionale, e che queste relazioni sono con i suoi simili, con il mondo che lo circonda e con Dio. Ciò che forse non si vede chiaramente è quali sarebbero le relazioni più autentiche e proprie. La storia dell’umanità offre esempi numerosi di diverse forme di vivere la propria relazionalità. Ci sono coloro che sono stati guidati nel loro comportamento da una relazione di odio e di distruzione. Gli altri sono nemici, e bisogna farla finita con loro. Dio è nemico e si deve "ucciderlo", come proclamava Nietzsche; la natura, la foresta si deve distruggere per costruire città, spazi umani. Una relazione interamente sbagliata! Esiste anche la relazione di possesso. Possedere le cose per costruire un regno di benessere; possedere gli altri per servirmene a favore della mia grandezza e del mio potere; possedere Dio, per "maneggiarlo" secondo la mia volontà. Nemmeno questa sembra essere del tutto una relazione giusta! Il timore sarà una buona relazione? Paura di un Dio di imponente grandezza e terribile nei suoi giudizi; paura degli uomini e delle cose, per complesso di inferiorità o per mancanza di senso pratico. No, nemmeno il timore è una relazione adeguata! La vera relazione nasce dall’umiltà e si manifesta come relazione di amore. Poiché sono umile, cioè poiché riconosco la mia condizione di creatura con la sua immensa piccolezza, vivo in atteggiamento di amore la mia relazione personale con Dio. Tale amore mi induce a percepire la sua grandezza e la sua generosità nei miei confronti, ad aver fiducia in Lui nonostante la mia piccolezza, a ringraziarlo per i suoi doni, prefigurata da questa città di Sion in cui si enumerano tutti i beni che Dio può concedere all’essere umano (seconda lettura). Poiché sono umile, amo gli altri e non mi considero superiore ad essi, né cerco di dare loro qualcosa per riceverne a mia volta la ricompensa (vangelo). Poiché sono umile, non mi insuperbisco con il potere delle ricchezze che potrò avere, né con la grandezza della scienza che posseggo (prima lettura). L’uomo, nel suo essere e nelle sue relazioni, è puro dono di Dio, di che cosa potrà inorgoglirsi? La giusta relazione dell’uomo con Dio, con i suoi simili e con le cose, è l’amore, un amore che si fa servizio, rispetto, gratitudine, solidarietà.

L’umiltà, virtù gradita a Dio. A Dio creatore non può non esser gradito che l’uomo accetti la sua condizione di creatura e stabilisca le giuste relazioni con Lui e con tutta la creazione, poiché questo è l’umiltà. La mancanza di umiltà, al contrario, rompe l’armonia nell’interiorità dell’uomo e nello stesso universo, e questa rottura non piace al Creatore. Per questo, leggiamo nel Siracide che "sono gli umili quelli che glorificano Dio", e nel vangelo che "chi si umilia sarà esaltato". Perché a Dio piace l’umiltà? Proprio perché l’umile non ha nessuna pretesa di soppiantare Dio, di "essere come Dio" o, almeno, di ritenersi un superuomo o un supersaggio. Molto bene ci raccomanda il Siracide: "non pretendere ciò che ti sorpassa, non cercare ciò che supera le tue forze". L’umile è gradito a Dio, perché non lo considera come un rivale, ma come un padre e un amico. L’umile è gradito a Dio, non solo perché si riconosce creatura, ma altresì peccatore, ed indegno della sua condizione di figlio. Proprio per questo, l’umile mantiene verso Dio un atteggiamento di figlio, sì, ma che mendica la sua benevolenza e il suo amoroso perdono. Tutto questo ci fa comprendere meglio ciò che la stessa Scrittura ci assicura: "Dio resiste ai superbi, ma concede il suo favore agli umili". La differenza tra il superbo e l’umile la potremmo formulare così: "Il superbo cerca di piacere a se stesso, perfino a costo di Dio, mentre l’umile cerca di piacere a Dio, perfino a costo di se stesso".

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Umiltà, ossia, la verità. Ciò che Gesù Cristo, nel vangelo, cerca di darci, non è una lezione di cortesia e di buona educazione. Gesù va più a fondo, all’essenziale, al substrato intimo della persona. E là, che cosa trova? Trova un cartello che dice: "tutto è dono, tutto è grazia". L’uomo che non sarà capace di ammetterlo, si trova nella menzogna, si autoinganna e cercherà in molti modi di ingannare anche gli altri. Per esempio, compiacendosi dei suoi successi, parlando dei suoi trionfi, esaltando le sue molte qualità, credendosi e rendendosi importante. Chi sarà capace di ammetterlo, starà nella verità, e sarà profondamente umile. Perché l’umiltà è la verità con cui noi vediamo noi stessi davanti a Dio. Da solo, davanti a Dio l’uomo è polvere, vento, nulla. Per la grazia di Dio è la sua immagine ed è suo figlio. Magari potessimo dire come san Paolo: "Per la grazia di Dio sono ciò che sono, e la grazia di Dio non è stata vana in me". Quale maniera diversa di vivere quando si vive nella verità! L’uomo umile sempre la verità nell’amore: la verità su se stesso, la verità sugli altri e la verità su Dio. Ti consiglio di guardarti nello specchio dell’umiltà per vedere se ti riconosci, o se è tale l’impatto contrastante con la realtà che lo specchio non la sopporta e si rompe in mille pezzi. Non posso non affermare che una Chiesa di umili sarà una Chiesa più autentica, più fedele al disegno originale del suo Fondatore. Ciascuno di noi, con la sua umiltà, può contribuire in qualcosa.

Attenzione alla falsa umiltà! Abbiamo detto che l’umiltà è la verità, come insegna santa Teresa di Gesù. Esistono, tuttavia, forme apparenti di umiltà. Mancando loro la verità, tali forme non possono essere umiltà autentica. Ricordiamo alcune forme di falsa umiltà. Un chiaro caso è il complesso di inferiorità: "Io non valgo per questo incarico", "Io non posso fare questo lavoro", "Io non ho questa qualità". A volte dietro tali frasi si nasconde una ingente pigrizia. Il più delle volte si nasconde un’astuta superbia che vuole evitare ad ogni costo di svolgere un cattivo ruolo e restare male di fronte agli altri. Umile è chi riconosce le sue qualità, il suo valore, i suoi buoni risultati, ma attribuisce tutto a Dio, come alla sua fonte. Altro esempio di falsa umiltà è non accettare la lode degli altri, rifiutare qualsiasi riconoscimento pubblico, dimostrare indifferenza davanti all’opinione altrui. Nel fondo molte volte è solo una posa per riassaporare di nuovo la lode ascoltata, o perché si torni ad insistere sui buoni risultati ottenuti, o per adulare i tuoi orecchi con la buona opinione di cui godi davanti agli altri. Umile, al contrario, è chi accetta la lode, ma la eleva a Dio; accetta il riconoscimento pubblico per la buona opera o la buona opinione degli altri su di lui, ma scopre in ciò un gesto di carità fraterna ed un’azione misteriosa di Dio. Un ultimo caso è quello di chi crede che tutto gli riesca male, che è nato sotto una cattiva stella, e che non c’è nulla da fare. In un tale individuo la superbia è così grande da renderlo cieco per vedere qualsiasi cosa buona che faccia; ha occhi solo per le cose cattive, o per i limiti e le imperfezioni delle cose buone. L’umile, piuttosto, sa vedere la bontà nelle cose, perfino in quelle che gli riescono male. E dice con san Paolo: "Per quelli che amano Dio tutte le cose contribuiscono al loro bene".

 

 

 

Domenica Ventitreesima del TEMPO ORDINARIO 9 settembre 2001

Prima: Sap 9, 13-19; seconda: Fi 9-1012-17 Vangelo: Lc 14, 25-33

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

 

La sapienza è la parolachiave nelle tre letture. Alla capacità umana di ragionare, così debole e incerta, si oppone la sapienza con cui Dio ammaestra gli uomini affinché ottengano la salvezza (prima lettura). La prudenza umana fa dei calcoli per sapere se si può contare sui mezzi sufficienti per costruire una torre, o sul numero sufficiente di soldati per attaccare il nemico. Questa prudenza è necessaria, ma per essere discepolo di Gesù Cristo, si richiede altresì la sapienza che proviene da Dio (vangelo). La lettera di san Paolo a Filemone, non è forse una vetta di tatto umano e di sapienza, appresa alla scuola della fede? (seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

Scienza dell’uomo e sapienza della fede. Con la prima espressione voglio indicare lo sforzo dell’uomo per conoscere la verità in tutte le sue dimensioni e vivere secondo essa; con la seconda, l’azione di Dio nella nostra intelligenza per renderci partecipi della sua rivelazione, e nella nostra volontà per indurci a vivere secondo la stessa. Quante differenze tra di loro, ma anche quanti aiuti e quanta complementarietà! La scienza è caratterizzata dal limite; un limite che si supera continuamente, aprendo il passo ad un altro nuovo, e così una volta dietro l’altra; per questo, per principio, l’uomo del presente ha più scienza di quello del passato, e quello del futuro avrà più scienza di quello del presente. Nel libro della Sapienza leggiamo: "A stento ci raffiguriamo le cose terrestri, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo?". La sapienza non ha limiti, ma unicamente quello che le pone la nostra povera intelligenza. Ciò spiega che esista la possibilità di uomini con maggiore sapienza nel passato che nel presente, o di uomini con minore sapienza nel futuro. Essendo dono di Dio, la sapienza non è sottoposta al tempo. "Chi può conoscere la tua volontà, se tu non gli dai la sapienza e non gli invii il tuo spirito dal cielo?" (prima lettura). Si vede con chiarezza che la scienza è sforzo umano, e la sapienza dono divino: ciò che la scienza ignora è molto di più di ciò che conosce, invece per mezzo della fede si sa tutto, anche se non si arriverà a conoscere tutto. La scienza spesso insuperbisce ed esalta chi la possiede, la sapienza rende umile e riconoscente chi la riceve. La scienza finirà con l’uomo, la sapienza è eterna, come lo è Dio, sua fonte perenne. Nel vangelo troviamo splendidamente formulata la sapienza della croce, e nella seconda lettura la sapienza della carità con uno schiavo che è divenuto – qualcosa di inaudito! – fratello.

La sapienza della fede in azione. La sequela di Cristo non è una scelta originale dell’uomo, ma una scelta a partire da una chiamata che viene da Dio. Proprio per questo, la sequela di Cristo non è possibile in base a puri ragionamenti umani, ma esige la sapienza della fede. Il testo evangelico ci pone di fronte ad alcune opzioni che dovranno essere illuminate dalla sapienza divina. C’è il caso dell’opzione per la sequela di Cristo, anche a costo dei più stretti vincoli familiari, quando questi ultimi entrino in conflitto con la chiamata. C’è l’opzione della croce, seguendo le orme di Cristo nel suo cammino verso Gerusalemme. C’è la rinuncia a tutti gli averi, a tutte le ricchezze, ad ogni potere, pur di vivere radicalmente la sequela Christi. Non richiedono forse tutte queste scelte una profonda sapienza di fede? Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera a Filemone ci offre un magnifico esempio di questa sapienza divina. Innanzitutto, la sapienza di Paolo, che si manifesta nella delicatezza, nella discrezione e nel tatto ammirevoli con cui tratta la situazione di Onesimo (uno schiavo di Filemone, che era fuggito dal suo padrone a causa probabilmente di un furto, e che Paolo aveva convertito e battezzato, e adesso invia di nuovo a Filemone perché lo riceva non più come schiavo, ma come fratello). E, in secondo luogo, l’esortazione di Paolo alla sapienza propria del credente, in questo caso, Filemone, perché veda in Onesimo un "figlio" di Paolo, suo cuore; perché veda in Onesimo non uno schiavo (sebbene continui ad esserlo), ma un fratello carissimo nel Signore. In base a questa sapienza, come Filemone non gli darà una buona accoglienza nella sua propria casa? Senza che Onesimo cessi di essere nella condizione di schiavo, quest’ultima è superata di gran lunga dalla fraternità nata dalla fede.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

La sapienza alla portata di tutti. Una cosa è certa: non tutti sono dotati per essere "scienziati", uomini di scienza, ma tutti sono capaci di essere saggi, recettori della sapienza della fede. Un’altra cosa è certa, ed apparentemente paradossale: che ci siano "scienziati" che mancano di sapienza, come ci sono ignoranti di scienza che sono, tuttavia, grandi per sapienza. Non è che la scienza e la sapienza debbano trovarsi necessariamente l’una contro l’altra; piuttosto, la cosa giusta è che collaborino e si prestino mutuo servizio. Magari tutti noi uomini volassimo con queste due ali per gli spazi della nostra esistenza! Ma non sempre è così, e non sono pochi i casi in cui l’uomo tenta di volare con una sola ala, con il pericolo di schiantarsi al suolo. In tutti i modi, ciò che deve riempire di ammirazione e di gratitudine è che Dio abbia voluto porre la sapienza alla portata di tutti. Anche dei bambini? Anche degli ignoranti e di quelli con un quoziente intellettive minimo? Anche degli handicappati? La realtà storica plurisecolare, e particolarmente del XX secolo, mostra con grande chiarezza che tali fratelli nostri godono molte volte di una sapienza divina invidiabile. Mentre si afferma la portata universale della sapienza, non si può tralasciare di dire che non tutti la accettano né tutti la amano, né tutti vivono conformemente ad essa. Perché non tutti la accettano? Le vie dei pensieri umani sono imperscrutabili! Entrano in gioco l’educazione, l’ambiente in cui si è cresciuti e vissuti, i principi regolatori della propria esistenza… Perché non tutti la amano? Il cuore dell’uomo è un abisso insondabile! Forse si deve a egoismo, forse all’indurimento del cuore, forse a freddezza spirituale o alla forza di una passione.. Perché non tutti vivono secondo essa? C’è di mezzo la libertà umana, e sono in gioco i condizionamenti del mondo in cui viviamo e delle proprie passioni, estremamente potenti e, non poche volte, senza alcun freno. È evidente, pertanto, che urge apprendere fin da piccoli questa sapienza divina, nel seno della famiglia e della parrocchia, perché si vada radicando a poco a poco nella vita.

Scienza versus sapienza? In una cultura che opera per contrasti e per opposti, la risposta positiva a questa domanda sarebbe la più logica. Alla scienza dell’uomo si oppone la sapienza di Dio, e alla sapienza di Dio si oppone la scienza dell’uomo. Per cui, tra scienza e sapienza non ci sarebbe riconciliazione possibile. Così continuano a pensare molti nostri contemporanei, così sostengono con calore sulla stampa e nei mezzi di comunicazione sociale. Non è questa la posizione cristiana, né può esserlo. La dottrina cristiana ci insegna a dire: "scienza e sapienza"; pertanto, non opposizione, ma collaborazione, non esclusione, ma complementarietà. La ragione per noi credenti è semplice: chi dà all’uomo la capacità della scienza è lo stesso Dio, che gli concede il dono della sapienza. Per il non credente si dovrà dire che in entrambi i casi si tratta della ricerca della verità, sebbene sia per vie differenti. In codesta ricerca tutti noi ci troviamo insieme: alcuni volando con un solo motore, altri con due. Perché, nella ricerca della verità da parte di entrambi, i risultati sono qualche volta differenti? A mio avviso, si tratta di un invito a continuare a cercare, perché non si è ancora raggiunta la "verità completa", questa verità che soddisfi le esigenze della scienza umana e della sapienza divina. Ed aggiungerò che è requisito indispensabile per entrambe le parti il non avere pregiudizi di nessun genere, e il non arroccarsi sulle proprie posizioni anche a costo della verità stessa.

 

 

 

Domenica Ventiquattresima del TEMPO ORDINARIO 16 settembre 2001

Prima lettura: Es 32, 7-11.13-14; seconda lettura: 1Tim 1,12-17 Vangelo: Lc 15,1-32

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Nell’insieme della liturgia risuona la misericordia di Dio Padre. Ha la sua nota più elevata nel vangelo, che raccoglie tre magnifiche parabole della misericordia divina verso i peccatori. Nella prima lettura, ascoltiamo la musica della misericordia di Dio verso il suo popolo, grazie all’intervento di intercessione di Mosè. In ultimo, nella prima lettera di san Paolo a Timoteo, sentiamo una certa commozione udendo la confessione che Paolo fa della misericordia di Gesù Cristo verso di lui: "Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità" (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Amore e perdono: le due facce della misericordia. Il Dio che Gesù Cristo ci "dipinge" nelle tre parabole evangeliche, è il Dio dell’amore. Dio ama i peccatori, e per questo li cerca come il buon pastore va alla ricerca delle pecore smarrite: o come una padrona di casa cerca un assegno, che non ricorda dove ha messo, finché lo trova. Dio ama il peccatore, come un padre ama i suoi figli: quello "sfrontato", che va via di casa chiedendogli in anticipo la sua eredità, e quello che resta in casa, ma si comporta con lui in modo distante e qualche volta scontroso. E poiché ama, non può fare altro che mostrare il suo amore: perdonando, comunicando l’amore, celebrando la festa, invitando tutti a condividere la sua gioia. Questo ritratto di Dio, dipinto da Gesù Cristo, ci commuove e ci infonde coraggio per vivere degnamente come figli. Questo ritratto risalta ancor di più se lo poniamo a fianco del ritratto che ci offre la prima lettura, tratta dalla storia dell’Esodo. L’autore ci narra ciò che si potrebbe denominare "il peccato originale" del popolo di Israele: Appena finito di "firmare" il patto di alleanza con Javeh, rompendo questa alleanza, si costruiscono un toro di metallo fuso e lo trasformano nel loro "dio" invece di Javeh. Dio si riempie di ira, e vuole sterminarli. Soltanto l’intercessione di Mosè fa sì che Dio "si plachi" ed apra la porta del suo cuore alla misericordia. Indubbiamente, c’è un progresso nella rivelazione del cuore di Dio! Con Paolo ci rendiamo conto che adesso la misericordia di Dio porta per nome "Gesù Cristo". In effetti, Cristo non solo gli si è mostrato misericordioso, traendolo fuori dal suo accecamento sulla via di Damasco, ma ha avuto altresì tanta fiducia in lui, da chiamarlo a predicare il vangelo della misericordia nel mondo intero. Come non sentire una profonda gratitudine davanti a tanta magnanimità di Gesù Cristo!

Caratteristiche della misericordia divina. 1) Innanzitutto si dovrà sottolineare che la misericordia di Dio non è sottomessa alle leggi del tempo. E questo, in un duplice senso: primo, qualsiasi momento è buono perché il Buon Pastore cerchi la pecora perduta, come qualsiasi è buono perché il figlio si metta in cammino verso la casa del padre; in secondo luogo, la porta del cuore del Padre è aperta ventiquattro ore al giorno, non ha orari. Nessuno potrà dire a Dio: "Quando ti ho cercato, tu non c’eri".

2) La misericordia divina non si esaurisce mai, è segnata dall’eternità che Egli è, e nella quale Egli vive. Finché esisterà la vita, ci sarà sempre la possibilità di ricorrere a Lui e di essere accolti nelle sua braccia di Padre. Dio non guarda il comportamento indegno che si è avuto, né il numero delle volte che lo si è abbandonato e disprezzato: guarda unicamente i movimenti interiori dell’anima che anela al perdono e all’abbraccio paterno, guarda gli occhi umidi come uno smeraldo in cui brilla il pentimento, guarda i passi indecisi di chi si avvicina a Lui per dirgli: "Ho peccato. Perdonami. Che cosa vuoi che faccia?". Dio non guarda alla categoria del peccato, ma alla categoria dell’anima.

3) La misericordia di Dio è trasformante, rivoluziona, in una certa maniera, la vita dell’uomo. Il popolo di Israele, in mezzo a tante difficoltà e nonostante le sue cadute ed infedeltà, portò sempre alta la bandiera del Dio fedele e redentore del suo popolo. Il caso di Paolo è luminoso: mise tutte le sue qualità al servizio del vangelo di Gesù Cristo, e per lui si spese e si consumò, fino a dare la sua vita. Dei due figli, non sappiamo come sarebbe continuata la storia, ma non dobbiamo forse pensare che si sarebbero comportati in futuro come figli fedeli e affettuosi?

 

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

 

La difficile scienza del perdono cristiano. La Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, è la cattedra dalla quale Dio insegna ai cristiani, e a tutti gli uomini, la scienza della misericordia, dell’amore e del perdono. È una scienza il cui apprendistato dura l’intera esistenza, perché in qualsiasi momento della vita ci può insidiare l’artiglio dell’odio o della disperazione nel dolore. Come amare chi ti ha diffamato o calunniato, privatamente o pubblicamente? Come perdonare chi, in tua assenza, è entrato in casa tua e ti ha derubato? Come amare un pedofilo, che ha voluto abusare dei tuoi figli o di quelli dei tuoi vicini ed amici? Come perdonare chi ha messo tua figlia nel nero tunnel della tossicodipendenza, distruggendo così tua figlia e la tua famiglia? Queste domande, ed altre similari, mostrano quanto sia difficile la scienza del perdono cristiano. Ma l’ideale è chiaro. Se siamo stati promossi in questa dura e strana scienza, siamo grati al Signore, e continuiamo a cercare di superare la nostra votazione. Tuttavia, non ci scoraggiamo, se ancora siamo lontani da lui. Innanzitutto, manteniamo la decisione e la volontà di imparare questa misteriosa scienza, nonostante tutti gli ostacoli che incontreremo. Poi, cerchiamo di esercitarci nel perdonare ad altri le piccole mancanze di rispetto o di attenzione, gli scherzi pesanti che qualcuno ci potrebbe fare, ecc. per crescere e estendere a poco a poco la nostra capacità mediante l’esercizio. Leggiamo, anche, spesso, la Bibbia, soprattutto queste parabole della misericordia, i salmi in cui riluce in modo ammirevole la misericordia divina, e tanti altri testi in cui appare la misericordia di Dio in azione. In ultima istanza, alziamo il nostro sguardo e il nostro cuore verso Gesù Cristo, verso tutta la sua vita, dall’incarnazione alla croce e alla resurrezione, affinché nel contatto assiduo e orante con la vita e il mistero di Gesù Cristo, andiamo assimilando gradualmente, passo dopo passo, la meravigliosa scienza del perdono cristiano. Difficile scienza! Tutto il nostro essere si ribella di fronte a certi casi e situazioni. Meravigliosa scienza! Con il perdono dell’offesa, tutta l’umanità in certo modo è migliorata e resa degna, e Dio potrà dire: "Soltanto per questo vale la pena di aver creato l’uomo".

Il potere dell’intercessione. L’intercessione è un altro dei nomi dell’amore. Chi intercede si situa come un ponte di amore tra l’offensore e la persona offesa. Ama l’offeso, e per questo condivide la sua pena, ma ha anche la confidenza sufficiente per supplicarlo in favore dell’offensore. Ama l’offensore, cerca di muoverlo al pentimento di ciò che ha fatto, e lo induce perfino a chiedere perdono alla persona offesa. E così, mediante l’intercessione, si ottiene la riconciliazione e si stabilisce finanche l’amicizia. L’intercessione cristiana non esclude nessun ambito della vita: intercedere per un familiare presso un altro che è stato offeso; intercedere per un condannato a morte perché la condanna non sia eseguita; intercedere per i prigionieri politici, perché siano liberati, ecc. Però l’intercessione cristiana è eminentemente religiosa: intercedere presso Dio per i peccatori. È ciò che fa Mosè davanti al peccato degli israeliti, come ci narra la prima lettura. È soprattutto ciò che fa Gesù Cristo, poiché tutta la sua vita si può riassumere come una costante intercessione presso il Padre per ottenere la redenzione dell’umanità peccatrice. Nel catechismo ci viene insegnato che "l’intercessione è una preghiera di domanda che ci conforma molto da vicino alla preghiera di Gesù, l’unico intercessore presso il Padre" (CCC 2634).

 

Domenica Venticinquesima del TEMPO ORDINARIO 23 settembre 2001

Prima lettura: Am 8, 4-7; seconda: 1Tim 2,1-8 Vangelo: Lc 16, 1-13

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Nel fondo dei testi liturgici si pone la domanda su dove si trovi la vera ricchezza. Non può coincidere con l’ambizione e l’avidità, a discapito dei più poveri e bisognosi, ci risponde la prima lettura. E non risiede neppure nell’abilità di farsi "amici" con le ricchezze di altri. La vera ricchezza è la ricchezza della fede, che possiedono i figli della luce (Vangelo). Questa maniera di vedere le cose non è naturale, ma la raggiungiamo solo nell’ambito della preghiera (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Che cosa succede ai figli della luce? L’espressione "figli della luce" sembra riferirsi ai primi cristiani, che erano stati illuminati da Cristo risorto e glorioso mediante il battesimo. A questa espressione si contrappone quella di "figli di questo mondo", con cui si vogliono indicare tutti coloro la cui vita è retta da una mentalità mondana, "economica" più che religiosa. La sentenza evangelica impressiona fortemente e ci fa venire perfino la pelle d’oca: "I figli di questo mondo sono più sagaci, più abili con la propria gente che non i figli della luce". Perché questo fenomeno che non è unicamente di uno ieri lontano, ma che ha sembianze di essere di una tremenda attualità? Che cosa è ciò che accade ai figli della luce? I figli di questo mondo sanno fare un uso straordinario delle proprie abilità e della loro ambizione per manipolare ingiustamente le bilance e per ingannare manifestamente i poveri, perfino per ridurre altri uomini alla schiavitù per mancanza di solvenza economica (Prima lettura). I figli di questo mondo, in circostanze avverse, mettono immediatamente in gioco tutte le loro capacità per uscire dalla situazione in forma vantaggiosa (Vangelo). Ai figli della luce Gesù rimprovera di non avere la sana ambizione di ricorrere a tutti i mezzi leciti per diffondere la luce della fede; di non mettere tutte le loro capacità per inventare dei modi di vincere le avversità, di superare gli ostacoli, e soprattutto di portare la luce a molti altri uomini. Il Dio di Gesù Cristo e il "dio denaro" non possono dividersi il dominio. Il Dio di Gesù Cristo ha tutto il diritto di prevalere sul "dio denaro", che alla fine non è altro che un idolo. La missione di far prevalere il vero Dio, il Supremo Bene e Ricchezza dell’uomo, sull’idolo della ricchezza, è propria dei figli della luce. Se nella società l’idolo del denaro e del consumismo ha sempre più adoratori, non dobbiamo forse domandarci che cosa sta succedendo ai figli della luce?

La preghiera, luogo della vera autocomprensione. La luce e la forza per lavorare per la vera Ricchezza dell’uomo viene al cristiano dalla preghiera. Il cristiano prega per tutti, per i re e per coloro che detengono il potere. Il fatto stesso di pregare per tutti è subordinarli al potere del Dio vivo, alla Ricchezza che non si distrugge né si esaurisce. Nella preghiera, comprendiamo che Dio giudicherà la prepotenza del ricco, i cui abusi gridano giustizia al Dio del cielo (Prima lettura). Nella preghiera è più facile intendere che la ricchezza dell’uomo consiste nella ricchezza della sua fede. È effettivamente nel forno della preghiera dove si cuoce quotidianamente il pane della fede e della solidarietà fraterna. L’orante che alza al cielo mani pure, senza ira e senza rivalità, scopre la ricchezza della salvezza e della grazia, che Gesù Cristo Mediatore ci regala, e relativizza con maggior facilità qualsiasi altra ricchezza di questo mondo. È illuminato per comprendere che tutti i beni terreni vengono da Dio, che l’uomo ne è unicamente l’amministratore, e che deve amministrarli bene. Potrà forse l’uomo orante truffare Dio, datore di ogni ricchezza, mostrarsi prepotente con coloro che mancano di beni e di ricchezze? Alla scuola della preghiera giungiamo a renderci conto che le ricchezze e i beni mondani sono solo un mezzo per poter servire meglio gli altri; un mezzo perché, quando lasceremo l’amministrazione di questo mondo e ci presenteremo davanti al giudizio di Dio, siamo bene accolti nelle dimore eterne.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

La seduzione del dio denaro. In una società, in gran parte consumista e materialista, com’è la nostra, il dio denaro tenta di abbagliare perfino i cristiani migliori. Se andiamo al fondo delle cose, non è forse il culto verso il dio denaro la causa principale della persistenza della produzione della droga? Non è il culto verso il dollaro il movente più determinante della produzione e vendita di armamenti a paesi che dovrebbero utilizzare codesti fondi per la creazione di infrastrutture, e per lo sviluppo sociale e culturale della popolazione? Non è forse il dio denaro l’incentivo più potente di alcune delle guerre etniche in vari paesi dell’Africa? E come spiegare la corruzione, in non pochi governanti, se non perché hanno innalzato un altare a questo dio insaziabile? Il denaro seduce, acceca, provoca divisioni fratricide, risveglia istinti di ambizione, fa soccombere finanche i princìpi più sacrosanti e nobili, indurisce il cuore, disumanizza e perfino ci fa dimenticare di Dio. Come credenti, dobbiamo avere davanti ai nostri occhi questa realtà e questa tentazione, non facile da vincere. Con spirito vigilante e con l’assiduità nella preghiera, dobbiamo esercitarci nel relativizzare il denaro, nel porlo nel luogo che gli spetta nei piani di Dio, nel servircene come mezzo per vivere degnamente, per fare il bene ai bisognosi, per metterlo al servizio della fede e del Regno di Cristo. Non abbiamo paura di questa seduzione! Affrontiamola a viso aperto. Viviamo la nostra vita quotidiana cercando di valutare sempre più la ricchezza della fede, la Ricchezza di Dio. Perché non contrastiamo la seduzione del denaro con la seduzione di Dio? O forse Dio è soltanto un oggetto di fede, che non ci seduce più? Il Dio vivo e personale è il migliore antidoto contro tutti gli idoli che possono bussare alla porta del nostro cuore.

Preghiera per i ricchi. La fede è una ricchezza che Dio concede a tutti. La Chiesa è una comunità credente, in cui c’è spazio per tutti. È vero che nella Chiesa c’è una opzione preferenziale per i poveri, ed è più che giustificata. Ma la Chiesa è di tutti e per tutti. Per questo vi invito a fare una preghiera per i ricchi.

Dio onnipotente ed eterno, guarda ai tuoi figli ricchi con cuore di Padre,

infondi in loro uno spirito filiale verso di te

e un cuore fraterno verso tutti gli uomini,

specialmente verso i più bisognosi di aiuto.

Dio e Signore dell’universo,

che hai destinato i beni del mondo

per beneficio di tutti,

concedi a coloro che abbondano

in ricchezze

la grazia di servirsene

con un cuore libero e generoso.

Signore Gesù Cristo, che essendo ricco

ti sei fatto povero,

per arricchirci con la tua povertà,

sii per tutti i ricchi di questo mondo

un modello di libertà e di preferenza

per i beni che non periscono.

Spirito santificatore, illumina i magnati della finanza

con la luce della fede indefettibile,

della infaticabile carità

e della speranza che non delude,

affinché le loro decisioni in favore

degli individui e dei popoli

siano guidate sempre dalla giustizia

e dalla solidarietà. Amen.

 

 

 

Domenica Ventiseiesima del TEMPO ORDINARIO 30 settembre 2001

Prima: Am 6, 1.4-7; seconda: 1Tim 6, 11-16 Vangelo: Lc 16, 19-31

 

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Tempo ed eternità sono come i due poli che ci possono servire per organizzare i testi di questa domenica. Ciò è evidente nel testo evangelico, che situa il ricco Epulone e Lazzaro prima in questo mondo, e poi nell’eternità. Implicitamente, si trova anche nella prima lettura, secondo la quale i ricchi samaritani vivono in orge e lusso, dimentichi del futuro giudizio di Dio. Per vivere degnamente nel tempo, e raggiungere l’eternità con Dio, la fede viva in Cristo offre una garanzia sicura (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Giocarsi l’eternità nel tempo. Per noi che abbiamo fede nell’eternità, il tempo è un tesoro, una vera ricchezza, perché in esso si mette in gioco la nostra situazione nell’aldilà del tempo. La parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro non sottolinea il problema della differenza tra ricchi e poveri. Accentua, piuttosto, il giudizio di Dio, nell’eternità, sull’atteggiamento verso la ricchezza e la povertà. Il ricco che in questo mondo si dedica a banchettare e a spassarsela, disinteressandosi dei poveri, vedrà tristemente cambiata la sua sorte nell’aldilà. Così accadde al ricco Epulone. Il povero, che in questa vita accetta serenamente la sua condizione, senza lamentele e senza odi, sarà ricompensato nell’eternità con la grande Ricchezza che è Dio stesso. Ciò è quello che accadde al povero Lazzaro. Il primo, per sua disgrazia, vive come se l’eternità non esistesse. Il secondo, per il suo bene, è un povero di Javeh, che ha posto la sua fiducia nella ricompensa che Dio gli darà nella vita avvenire. Al ricco Epulone non si imputa il fatto di essere ricco, ma quello di essere privo di misericordia, il fatto di non avere cuore per chi giace piagato alla sua porta. Lazzaro non lo si ricompensa per la sua condizione di povertà, ma per la sua pazienza e rassegnazione, allo stile di Giobbe. Epulone pone la sua ricchezza al servizio della sua sensualità ed intemperanza, Lazzaro pone la sua povertà al servizio della sua speranza. Gesù Cristo nella parabola ci insegna che nell’eternità – se non già nello stesso tempo della vita – Dio farà giustizia e retribuirà ciascuno secondo le sue opere. Questo insegnamento deve illuminare anche la nostra vita presente, in modo che possiamo parlare anche di giocarci il tempo nell’eternità. Cioè, il pensiero del mondo futuro ci condurrà ad essere giusti e solidali nel mondo presente. Il contrario succede ai ricconi della Samaria, che, disinteressandosi del futuro e dimentichi della sorte della loro patria, vivono "sdraiati sui loro letti d’avorio, mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli della stalla, bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati" (Prima lettura).

Fede – tempo – eternità. Paolo esorta Timoteo, uomo di Dio, credente e cristiano autentico, a fuggire da queste cose. Quali sono codeste cose? L’avidità, l’affanno delle ricchezze, l’appetito di denaro. Deve fuggire perché "noi non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via " (cf 1Tim 6,7 e ss). Lo esorta poi a "combattere la buona battaglia delle fede" in questa vita per poter raggiungere la vita eterna, in cui regna Gesù Cristo, il Re dei re e il Signore dei signori. La fede è come la dimora in cui il cristiano vive già l’eternità nel tempo, e il tempo nell’eternità. Poiché vive l’eternità nel tempo, "tende alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza nella sofferenza, alla mitezza" (Seconda lettura). Poiché vive il tempo nell’eternità, cerca con sincerità di cuore di onorare Dio e di dargli gloria. Amos, da parte sua, ci insegna che c’è una fede erronea, una falsa fiducia nel culto e nella religione, simboleggiate nel monte Garizin e nel monte Sion, come se il culto, da se stesso, fosse sufficiente per ottenere la salvezza. La sola fede religiosa non produrrà mai automaticamente la salvezza, quando con essa si copre indegnamente ogni sorta di ingiustizie e di disordini della vita. In definitiva, l’eternità è assicurata unicamente per coloro che vivono una vita di fede, che agisce per mezzo della carità.

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

La ricchezza, oggetto di servizio. Nel catechismo leggiamo: "I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano". Questa affermazione è "assoluta" e non è sottomessa al cambiamento di epoche o di mentalità, al progresso tecnico o alla globalizzazione economica. D’altra parte, ci sono sempre state nella storia umana delle differenze nel possesso dei beni e delle risorse, sono sempre esistiti e continueranno ad esistere "ricchi e poveri". E, infine, in non poche occasioni queste differenze provengono da grandi ingiustizie che hanno attraversato tutta la geografia del nostro pianeta. Davanti a questi fattori, noi cristiani abbiamo una grande opera e missione da realizzare tra i nostri fratelli, gli uomini. Il primo compito, senza dubbio, è quello di relativizzare la ricchezza. Non è un dio, al quale dobbiamo rendere un culto a spese del povero e del bisognoso. È un bene, ma non è l’unico né il supremo. Un bene che sta nelle nostre mani, che è stato dato da Dio a ciascuno di noi, ma che non è interamente nostro, cioè, non possiamo farne ciò che vogliamo, perché il suo destino è universale. E con questo già appare il secondo compito: "La ricchezza ci è stata data per servire, non per dominare" e in questo modo fare più liberi coloro che ne mancano. L’inclinazione dell’uomo a dominare sugli altri è ancestrale e potentissima. Per questo, la ricchezza – tra molte altre cose – può essere pericolosa, perché è come una sirena, che possiede l’incanto del dominio e del potere. Come cristiani, saremo i primi a vivere il vangelo della povertà. Saremo per tutti un esempio e un richiamo al fatto che il denaro o serve l’uomo o non serve a nulla, almeno agli occhi della fede, agli occhi di Dio.

L’avidità, peccato contro l’eternità. L’avido ha soltanto occhi per il tempo presente, che immagina lungo come i secoli. Vorrebbe mettere l’eternità nel tempo, ma si rende conto che è impossibile. Reagisce, allora, prescindendo da essa, afferrandosi sempre più saldamente alla roccia sabbiosa del presente. L’avidità, si può affermare senza ombra di dubbio, è una passione che si annida in ogni cuore umano. L’accumulare, il possedere di più, l’aver fame di beni e di mezzi, il vivere con maggiori comodità, non è estraneo a nessun mortale: cristiani o non cristiani, credenti o atei, sacerdoti, religiosi o laici. Non che tutto ciò in se stesso sia peccato, ma quando la tendenza si trasforma in passione e la vita intera si calcola solo nell’accumulare, nell’avere, nel vivere comodamente, allora il peccato dell’avidità ti ha già schiavizzato. In effetti, per l’avidità l’uomo pecca contro la povertà, perché il suo cuore, invece di essere posto in Dio, suo Bene supremo, si è prostrato davanti al dio insaziabile ed effimero del denaro. Pecca contro la povertà, perché le sue ricchezze non gli servono per servire, ma per soddisfare una passione. Pecca contro il disegno di Dio, che ha dato a tutti i beni di questo mondo un destino universale. E ha lasciato agli uomini di ogni epoca e generazione il compito di portarlo a compimento. Non dovranno, molti di noi cristiani, realizzare una vera "conversione" alla povertà evangelica? Non dovremo liberarci da molti attaccamenti e catene pecuniarie, che ci tolgono libertà per vivere l’autenticità del Vangelo? Riuscirò a convincermi che la povertà di cuore è il cuore della povertà, ed è sorgente cristallina di pace e di fraternità? Povero di cuore, e di vita, come Madre Teresa di Calcutta, al fine di essere una benedizione di Dio per gli uomini!

 

Domenica Ventisettesima del TEMPO ORDINARIO 7 ottobre 2001

Prima: Ab 1, 2-3; 2, 2-4; seconda: 2Tim 1, 6-8. 13-14 Vangelo: Lc 17, 5-10

 

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Sembra evidente che il tema dominante, in questa domenica, è la fede, dato che si menziona nelle tre letture. Alla fine della prima leggiamo: "Il giusto vive della fede", frase che sarà ripresa da Paolo ed avrà poi una enorme risonanza nella dogmatica cristiana. Gesù nel vangelo si fissa sull’efficacia della fede, perfino della fede piccola come un granello di senapa. Infine Paolo esorta Timoteo a dare testimonianza della sua fede in Cristo Gesù, e ad accettare con fede e con amore il messaggio trasmesso da Paolo (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Vivere la fede in situazione. Il credente, di qualsiasi epoca e luogo, non può non praticare la sua fede incarnandola nella vita. Fede e vita o si sostengono insieme, o insieme crollano. Abacuc è un uomo di fede, che vede intorno a sé violenza, oppressione, rapina, discordia (assedio di Gerusalemme da parte dei caldei nell’anno 597 a.C.). Di fronte a questa situazione odiosa e piena di dolore, come reagisce questo uomo di fede? Lo fa con due grandi interrogativi, che portano il duplice e contrastante carico della fiducia in Dio e della indignazione davanti all’assedio e al male. "Fino a quando, Jahvé? Perché?". Non è forse Dio il re dei re e il signore dei signori? Perché tanta disgrazia, tanta ingiustizia, tanta distruzione? Perché non interviene Dio ora, adesso? Domande che nascono da una situazione, ma che valgono per ogni persona e per tutti i tempi. Nel corso della storia, questi interrogativi si sono inchiodati nell’anima degli uomini di tutte le latitudini, e, in certo modo, nell’anima di ogni uomo. Dio non lascia senza risposta i lamenti fiduciosi di Abacuc. Innanzitutto lo invita alla piena fiducia nel fatto che Egli risponderà alle sue domande, sebbene non lo faccia con l’immediatezza in cui il profeta lo desiderebbe: "Dio ha scritta questa data nei suoi disegni". Poi, lo invita a mantenere una pazienza piena di speranza, perché la risposta "verrà certamente, senza indugio". Infine, Dio assicura il profeta che l’empio soccomberà, mentre il giusto vivrà grazie alla sua fede-fedeltà.

Diversa è la situazione dei discepoli che chiedono a Gesù: "Aumenta la nostra fede", come anche quella di Timoteo, responsabile della comunità di Efeso, che deve essere il primo ad accettare la fede che Paolo gli ha insegnato, e a darne testimonianza, perfino, se necessario, con il martirio. I discepoli, che convivono con Gesù, hanno visto l’enorme "fede" di Gesù che rende efficace la sua parola e le sue opere (guarigioni, miracoli). Di fronte a questa fede gigantesca, la loro risulta insignificante e minima. Per questo, chiedono che Gesù gliela accresca. La situazione di persecuzione in cui vivono Timoteo e la sua comunità mette alla prova la sua fede e la sua fedeltà al Vangelo. Da qui le parole con cui Paolo lo esorta. Nel momento presente, si deve tener conto della dimensione storica della fede, come accadde già nel passato. Come vivere, oggi, nel nostro ambiente, nel mondo attuale, la fede di sempre?

Qualità della fede. Nei testi liturgici è possibile scoprire alcune delle qualità che deve possedere la fede vissuta concretamente. 1) Una fede basata su una profonda umiltà. Gesù Cristo, nel vangelo, dopo aver messo in risalto la potenza della fede, mette in evidenza che questa efficacia proviene dalla convinzione credente della propria piccolezza: "Non siamo altro che dei poveri servi; abbiamo fatto soltanto ciò che dovevamo fare". Che cos’è ciò che dobbiamo fare? Servire Dio e fare la sua volontà. 2) Una fede piena di speranza. Le tribolazioni, le sofferenze, le disgrazie non potranno diminuire minimamente la nostra attesa e la nostra speranza nell’intervento di Dio. Non si deve dubitare, perché l’azione di Dio giungerà. Quando? Come? Dobbiamo lasciare che Dio risponda con piena libertà, con la sicurezza che Egli fa tutto con giustizia e per il bene di quelli che ama. 3) Una fede testimoniata. La fede è un dono che Dio ci dà, ed è un compito che Dio ci affida. Come compito, dobbiamo realizzarla giorno per giorno, nelle circostanze concrete che a volte possono essere ardue e difficili. Di una fede umile, speranzosa e martiriale, abbiamo bisogno anche noi, cristiani di oggi, in un ambiente molte volte carente di fede, perfino ostile ad essa.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Fino a quando? Perché? Queste domande insidiano l’uomo in momenti di pericolo o di disgrazia, sia personale che collettiva. Soprattutto, quando il pericolo incombe su persone innocenti. Ancor di più, se queste persone innocenti sono da noi conosciute o amate. Perché questo incidente d’auto in cui, senza colpa propria, sono morti due amici? Perché questo orribile cancro, che va consumando inesorabilmente la vitalità dello sposo o della sposa? Che cosa ho fatto, perché questa figlia mia viva sommersa nell’abisso della droga? Fino a quando dovrò sopportare tutte le sofferenze fisiche e morali che mi procura questo figlio handicappato? Fino a dove devo essere paziente davanti al brutto carattere e ai cattivi comportamenti di mio marito? Perché questi dolori, che mi risultano insopportabili? Interrogativi che, per molti, restano in sospeso. E allora si prendono delle decisioni sbagliate e tristi. "È meglio morire che stare a soffrire tanto" e da qui deriva il suicidio o l’eutanasia, che è un modo eufemistico di dire la stessa cosa. "Preferisco il divorzio piuttosto che continuare ad essere trattata ingiustamente", e ti separi, invece di cercare delle soluzioni alternative migliori, sebbene più esigenti, e soprattutto più cristiane. "Non vale la pena di continuare a credere. A che scopo?", e ti ribelli contro Dio, ed abbandoni la tua fede e la tua pratica cristiana, perché Dio non si adatta ai tuoi gusti, né si lascia manipolare dalla tua volontà.

Ma ci sono anche molti, cristiani e non cristiani, che ascoltano nella loro coscienza una risposta. La risposta dell’umanesimo, che vede nell’accettazione rassegnata della sofferenza e della disgrazia un cammino aspro, a volte eroico, sempre nobile, di umanizzazione e di elevazione morale.

C’è la riposta cristiana, che eleva il dolore, la prova, l’angoscia a un rango superiore di redenzione, perché tutto ciò costituisce la propria croce, che si fonde misteriosamente con la croce salvatrice di Gesù Cristo. Qual è la tua risposta personale e non trasferibile a tali interrogativi, che prima o poi tutti ci poniamo?

La fede continua a fare miracoli. Ci sono "piccoli miracoli", ignorati, conosciuti soltanto da Dio, che si danno nella vita quotidiana di molti cristiani, dei tuoi vicini, dei fedeli della tua parrocchia. Il miracolo del "perdono sincero" e franco. Il miracolo del "servizio" costante, abnegato, disinteressato, motivato unicamente dall’amore cristiano. Il miracolo della "consacrazione" a Dio della bellezza tanto ammirata da molti, del conto milionario in banca, della libertà di fare unicamente ciò che Dio vuole. Il miracolo della "fedeltà" alla parola data al momento di ricevere il sacramento del matrimonio o dell’ordine sacerdotale. Il miracolo della "conversione" davanti alla testimonianza di una persona amica o di fronte a un’esperienza forte in una chiesa o in un santuario. Esistono anche oggi i "grandi miracoli". Codesti miracoli che Dio continua a realizzare per intercessione dei suoi santi, oggi come nel passato, e che sono richiesti perché un cristiano possa essere beatificato o canonizzato. Si danno ugualmente "grandi miracoli", che Dio fa per mediazione di persone vive, sante, e che non sono pubblici, perché la santità è sempre discreta, e a Dio è più gradito che queste grazie speciali restino entro la cerchia degli intimi. I piccoli e grandi miracoli sono ancora dei segni con cui Dio scuote la nostra coscienza, ci interpella, e desidera continuare ad offrirci la salvezza.

 

 

 

Domenica Ventottesima del TEMPO ORDINARIO 14 ottobre 2001

Prima: 2Re 5, 14-17; seconda: 2Tim 2, 8-13 Vangelo: Lc 17, 11-19

 

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"L’obbedienza della fede" ci aiuta a leggere unitariamente i testi di questa domenica. I dieci lebbrosi si fidano della parola di Gesù e si mettono in cammino per presentarsi ai sacerdoti, affinché questi ultimi riconoscano che essi sono stati guariti dalla lebbra (Vangelo). Naaman il siro obbedisce alle parole di Eliseo, alle istanze dei suoi servi, immergendosi sette volte nel Giordano, per cui viene guarito (Prima lettura). L’obbedienza della fede fa sì che Paolo finisca in catene e debba soffrire non pochi patimenti (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Il potere dell’obbedienza. I due miracoli di cui ci parlano i testi mettono in risalto il potere dell’obbedienza. Non ci sono gesti di guarigione né di Eliseo né di Gesù. Non si pronunciano formule terapeutiche, dirette all’infermo, come accade in altri racconti di miracoli. C’è solamente un comando. Quello di Eliseo a Naaman suona così: "Va’ e bagnati sette volte nel Giordano". Al lebbrosi Gesù dice: "Andate e presentatevi ai sacerdoti". Sia Naaman che i dieci lebbrosi ancora non sono stati guariti, e neppure sanno se lo saranno. Ma si fidano, ed obbediscono. E la forza della loro fiducia e della loro obbedienza fece il miracolo. L’obbedienza implica già, almeno, un grado minimo di fede nella persona a cui si obbedisce. Una fede che non è esente da inciampi e difficoltà.

Ciò è evidente nella storia di Naaman. Aveva un’altro concetto ed altre aspettative sul miracolo e sul modo di realizzarsi: "Mi verrà sicuramente incontro, si fermerà, invocherà il nome di Dio, passerà la sua mano sulla mia parte malata, ed io guarirò dalla lebbra!". Nulla di ciò accadde. Egli non vide nemmeno Eliseo, poiché il messaggio del profeta gli giunse tramite un intermediario. Naaman era furioso, e se ne stava tornando a casa, perduta ogni speranza di guarire. Sul cammino, persuaso dai suoi servi, obbedì, si bagnò nel Giordano e "la sua carne tornò ad essere come quella di un bambino piccolo, e fu guarito". Naaman infine, si rese conto che non sono le acque quelle che guariscono la lebbra, ma lo Spirito di Dio, che si serve del Giordano, come di molti altri mezzi, per fare il bene e salvare l’uomo.

I dieci lebbrosi, al comando di Gesù, si misero in cammino verso il tempio di Gerusalemme. Dovevano camminare per alcuni chilometri. Continuavano ad essere lebbrosi e... come salire così fino a Gerusalemme, e presentarsi ai sacerdoti? Non sarebbe stato meglio aspettare fino a constatare che erano realmente guariti? Vinsero queste difficoltà, e nel cammino sentirono che la loro carne si rinnovava e si sanava. L’obbedienza della fede possiede la potenza del miracolo. Non è forse l’obbedienza della fede a far sì che Paolo sia incarcerato per il Vangelo? A permettere a Paolo di sopportare qualsiasi sofferenza perché la salvezza giunga a tutti?

La "guarigione" integrale. Naaman fu guarito dalla lebbra, ma continuava ad essere malato di cecità spirituale. Come uomo bene educato, ritorna a casa di Eliseo e gli offre, in segno di ringraziamento, ricchi regali. Eliseo li rifiuta. Adesso, davanti all’uomo di Dio, cominciano ad aprirglisi gli occhi sul vero Dio, fino al punto di arrivare a dire: "Il tuo servo non offrirà più olocausto né sacrificio ad altri dei che a Javeh". Qualcosa di simile accade a uno dei lebbrosi al momento di essere guarito. Nove di essi proseguono la loro marcia verso Gerusalemme, si presentano al sacerdote e ritornano felici a casa, dimenticandosi di Gesù e rendendo così impossibile il fatto che Gesù gli conceda la salvezza che egli è venuto a portare agli uomini. L’ultimo, un samaritano, vedendosi guarito, sente interiormente l’impulso di tornare da Gesù per ringraziarlo. Si prostra ai suoi piedi in riconoscente adorazione. E Gesù gli concede non solo di vedersi libero dalla lebbra, ma anche dal peccato, da tutto ciò che gli impediva di ottenere la salvezza. "Va’, la tua fede ti ha salvato". A Paolo l’incontro con Gesù sulla via di Damasco ha aperto gli occhi alla fede in Cristo, liberandolo dalla sua mentalità strettamente farisaica, dal suo odio verso i cristiani, perfino dalle stesse debolezze umane, fino al punto di sopportare serenamente le catene della prigione e di mantenersi fermo nella sequela e nell’annuncio del messaggio evangelico. Veramente Gesù Cristo è il grande medico di corpi ed anime.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Ragioni per obbedire. Ogni uomo, dalla nascita alla tomba, passa gran parte della vita obbedendo. Come uomini e come cristiani risulta proficuo che abbiamo delle buone ragioni per obbedire.

- L’obbedienza piace a Dio. Dio non è un estraneo, è nostro Padre. Come non cercare di piacergli?

- Gesù, nostro modello, è un testimone supremo di obbedienza. Obbedì a Dio nei lunghi anni passati a Nazareth, sottomettendosi ai suoi genitori. Obbedì a Dio durante la sua vita pubblica, avendo come suo alimento quotidiano la volontà di suo Padre. Gli obbedì fino alla morte, e alla morte di croce.

- Lo Spirito Santo ci accompagna e ci rafforza interiormente, in modo che obbedendo non ci sentiamo soli e deboli.

- Il "fiat" di Maria ci interpella nella nostra obbedienza sollecita, semplice e costante alla vocazione e alla missione che Dio ci ha affidato. Il "fiat" generoso di Maria, che ricordiamo tre volte ogni giorno, è un pungiglione nella coscienza cristiana.

- Il carattere sociale dell’uomo e il carattere comunitario della fede parlano da soli della necessità di una organizzazione, di una autorità, e, di conseguenza, della necessità dell’obbedienza.

- L’obbedienza, quando si fa con fede e con amore, infonde una gran pace in colui che obbedisce. Il lemma episcopale di Papa Giovanni XXIII lo pone in evidenza: "Oboedientia et pax".

- L’obbedienza credente e amorosa contribuisce potentemente alla maturazione della personalità cristiana, che ha come programma, al di sopra di tutto, la volontà di Dio. "Prima di tutte le cose, la tua Volontà, Signore".

- L’esperienza e la prudenza che possiedono i genitori e gli educatori, così come la grazia propria che hanno ricevuto coloro che detengono qualche autorità nella Chiesa.

- L’efficacia che l’obbedienza dà a una istituzione civile o ecclesiastica nel conseguimento dei suoi fini propri. Dalla unione e dalla obbedienza viene la forza.

Dissenso e obbedienza. L’individualismo, così accentuato al giorno d’oggi, è una via ampia che conduce facilmente al dissenso nel seno della famiglia, della società e della comunità ecclesiale. Il dissentire su cose opinabili, senza molta importanza, passi. Ma il dissentire abituale su aspetti fondamentali della vita e della fede, - e il farlo come un diritto inalienabile dell’uomo – costituisce un’audacia al limite di una certa intemperanza intellettuale o di una chiara ignoranza supina. È vero che, in certe occasioni, ci può essere un dissenso legittimo, se sorge dopo una matura riflessione, con un sincero affanno di ricerca della verità, e si manifesta con discrezione per i canali stabiliti. A volte, invece, si ha l’impressione che ci sia gente che è a caccia di una dichiarazione del vescovo o del papa per dissentire da essa quasi automaticamente. La Chiesa non è un agglomerato di individui, né è la ragione l’unico metro della vita ecclesiale. Perché non elevarsi al di sopra di tutto ciò, e mettere a tacere la tentazione del dissenso per mezzo di una fede robusta e di una obbedienza semplice ed ecclesiale? Il Regno di Cristo ne guadagnerebbe in credibilità nel concerto degli uomini! E, soprattutto, noi saremmo dei cristiani migliori!

 

Domenica Ventinovesima del TEMPO ORDINARIO 21 ottobre 2001

Prima: Es 17, 8-13a; seconda. 2Tim 3, 14- 4,2 Vangelo: Lc 18, 1-8

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"Tutto è dono" nel mondo della fede. Come dono, non abbiamo diritto a ciò, ma dobbiamo chiederlo umilmente nella preghiera. Così, la vedova della parabola non si stanca di supplicare giustizia al giudice, finché non riceve risposta (Vangelo). Da parte sua, Mosè, accompagnato da Aronne e da Jur, non cessa durante tutto il giorno di innalzare le mani e il cuore a Javeh, affinché gli israeliti escano vincitori sugli amaleciti (Prima lettura). Mediante lo studio e la meditazione della Scrittura "l’uomo di Dio si trova completo e preparato per ogni opera buona" (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Pregare per ricevere. Siccome nella vita spirituale tutto è dono, nulla si può ricevere senza la preghiera umile e costante a Dio. Con essa si apre la porta del cuore di Dio in un modo invisibile, ma reale ed efficace. "Senza di me non potete far nulla". "Tutto è possibile per colui che crede", per colui che prega con fede. Dio è così buono che, perfino senza pregare, riceviamo molte cose da lui. Ciò che certamente risulta infallibile è che, se chiediamo a Dio ciò che Gesù ci insegna a chiedere e nel modo in cui egli ce lo insegna, Dio ce lo concederà. La vedova della parabola soffre per l’ingiustizia degli uomini; soltanto il giudice può farle giustizia, e per questo lo persegue giorno dopo giorno, fino a conseguirla. Traducendo la parabola in termini reali, Dio giudicherà, con ogni sicurezza, le ingiustizie umane. Se eleviamo a Dio la nostra supplica, egli ci ascolterà e risponderà alla nostra preghiera. Se Mosè, Aronne e Jur non avessero pregato Javeh per la vittoria di Israele sugli amaleciti, l’avrebbero ottenuta? La preghiera, più della spada, ottenne la vittoria. Il cristiano orante è stato "dotato" da Dio, come Timoteo, per realizzare bene i suoi compiti: la conoscenza delle Scritture, la fedeltà alla tradizione ricevuta, l’annuncio del Vangelo. In questo modo, i testi liturgici di questa domenica danno un valore straordinario alla preghiera, come elemento costitutivo della ortoprassi e come fondamento del progresso spirituale e di ogni vittoria nelle lotte quotidiane della fede.

Si deve pregare per ricevere, ma anche per dare secondo il dono ricevuto. Il dono di Dio sarà accompagnato dall’azione dell’uomo, basata sul dono medesimo. La vittoria è di Dio, ma non senza che l’uomo ponga i mezzi per l’azione divina efficace. Senza la spada di Giosuè, non ci sarebbe stata vittoria, ma la sola spada, senza l’intervento di Dio, avrebbe finito col soccombere. Senza lo sforzo di Timoteo per essere innanzitutto buon giudeo e poi buon discepolo di Paolo, Dio non avrebbe potuto "dotarlo" per portare a compimento la missione di dirigente della comunità di Efeso. Come nella persona di Gesù l’umano e il divino si uniscono inseparabilmente, ma senza confondersi, allo stesso modo, nella vita spirituale del cristiano, il divino e l’umano convergono, mantenendo la propria identità, in un unico risultato. Eliminare uno dei termini conduce ad una mutilazione mortale, a meno che non si interponga un’azione straordinaria di Dio.

Tratti dell’orante. 1) Il tratto più eccellente nei testi è la costanza nel pregare. Senza questa costanza, nemmeno la vedova avrebbe ottenuto che le si facesse giustizia, né il popolo di Israele che gli amaleciti fossero sconfitti. Una costanza che, nella nostra mentalità, ci può sembrare perfino inopportuna, ma che a Dio piace e che lo commuove. Una costanza che può essere esigente, perfino dura, e richiedere non poco sforzo, come nel caso di Mosè, ma che Dio benedice. 2) L’orante supplica perché ha coscienza molto chiara della sua necessità e della sua propria impotenza per rispondere da solo ad essa. La distanza tra la pochezza dell’orante e la necessità che lo incalza, soltanto Dio può colmarla. Il popolo di Israele sentiva urgente necessità di sconfiggere gli amaleciti, altrimenti non sarebbero potuti arrivare fino alla terra promessa, ma allo stesso tempo sapeva di essere poca cosa per una impresa così grande. Essi dovranno far ricorso a Dio per strappare da lui la vittoria anelata. 3) L’orante deve essere un uomo profondamente credente. Se non si ha fede in ciò che si chiede, a che serve allora la preghiera? Non è forse fare dell’orazione una pantomima? O si prega con fede, o è meglio lasciare la preghiera, una volta per tutte. La diminuzione o l’aumento della preghiera è correlato all’aumento o alla diminuzione della vita di fede.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Orazione e azione, riflessione e lotta. Già san Benedetto insegnava ai suoi monaci: "Ora et labora".

"Non pregare senza lavorare, né lavorare senza pregare". Da allora è chiaro che non stiamo parlando di due strade, ma di un'unica e sola via in cui si incrociano la preghiera e l’azione, la riflessione e la lotta quotidiana. Nella Chiesa si prega, ma attivamente, mettendo nella preghiera i lavori e le preoccupazioni del giorno. All’ufficio, in campagna, in fabbrica, in casa, si lavora, ma mettendo nel lavoro Dio, perché "Dio sta tra i fornelli", come diceva giustamente santa Teresa d’Avila. L’uomo, pertanto, non suddivide la sua vita quotidiana, o la domenica, in ore di lavoro da una parte, e in momenti di orazione dall’altra. Diciamo meglio, che, quando prega, sta lavorando, ma in un altro modo, e, quando lavora, sta pregando, ma in un modo differente. Così il cristiano sperimenta e mantiene una grande armonia interiore, lasciando al margine ogni divisione innaturale, rifiutando decisamente qualsiasi forma di rottura e di disarmonia. Perché oggigiorno, effettivamente, c’è il pericolo di cadere nella eresia dell’azione, perché sono molti i compiti e pochi gli uomini, e il tempo per realizzarli. Non ci sono forse dei parroci tentati da questa sottile eresia, da questa sirena che lusinga i loro orecchi con la musica di un’azione febbrile, che non lascia spazio né tempo per Dio? Oggi con minore frequenza, sì, ma i cristiani possono essere anche tentati dalla eresia del quietismo, codesto lasciare che Dio faccia tutto, immergendosi in una pietà misticoide, passiva e infeconda. Né l’una né l’altra sono posizioni proprie di un vero cristiano. Facciamo uno sforzo per mantenere l’ago della bilancia tra la riflessione e la lotta, tra l’azione e la preghiera.

Diversi modi di pregare. La Chiesa ci insegna che ci sono diversi modi di pregare.

1) La preghiera vocale. L’orazione, perché sia autentica, nasce dal cuore, ma si esprime con le labbra. Per questo la più bella preghiera cristiana è una orazione vocale, insegnata dallo stesso Gesù: il padrenostro. I vangeli in diverse occasioni narrano che Gesù pregava e, in alcune di esse, ci si offrono le preghiere vocali di Gesù, per esempio, nell’agonia al Getsemani. La preghiera vocale è come una esigenza della nostra natura umana. Siamo corpo e spirito, e sperimentiamo la necessità di tradurre in parole i nostri sentimenti più intimi. La preghiera vocale è la preghiera per eccellenza della folla, per il fatto di essere esteriore e allo stesso tempo pienamente umana. Ci sono nella Chiesa delle bellissime orazioni vocali, che i bambini apprendono nella catechesi, e che alimentano la nostra vita di fede durante tutta l’esistenza: oltre al padrenostro, l’avemaria, il "gloria al Padre", il credo, la "salve regina".

2) La preghiera mentale o meditazione. Colui che medita cerca di comprendere il perché e il come la vita cristiana possa aderire a ciò che Dio vuole. Per questo, si medita sulle Sacre Scritture, sulle immagini sacre, sui testi liturgici, sugli scritti dei Padri spirituali, ecc. La preghiera cristiana si applica principalmente a meditare "i misteri di Cristo", per conoscerli meglio e, soprattutto, per unirsi a Lui. Quando si ottiene questa unione con Gesù Cristo, la preghiera si fa già contemplativa, e l’essere intero dell’orante si sente trasformato dall’esperienza spirituale e profonda del Dio vivo. Contemplazione, che non è esente da prove, né dalla notte oscura della fede.

 

 

Domenica Trentesima del TEMPO ORDINARIO 28 ottobre 2001

Prima: Sir 35, 12-14.16-18; seconda: 2Tim 4, 6-8.16-18 Vangelo: Lc 18, 9-14

 

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

I termini "giustizia e preghiera" riassumono bene le letture di oggi. Nella parabola evangelica sia il fariseo che il pubblicano pregano nel tempio, ma Dio fa giustizia, e soltanto l’ultimo è giustificato. Il Siracide, nella prima lettura, applica la giustizia divina alla preghiera e insegna che Dio, giusto giudice, non ha preferenze di persone, e per questo ascolta la preghiera dell’oppresso. Infine, san Paolo si confida con Timoteo, manifestandogli i suoi sentimenti e desideri più intimi: "Mi resta solo la corona della giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel Giorno" (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Atteggiamenti dell’orante davanti a Dio. Nella preghiera, che è una relazione tra persone che si amano, interessa sia l’orante quanto la persona cui si dirige il tremito della preghiera. Fissiamo l’attenzione sull’orante davanti a Dio. Quali sono gli atteggiamenti dell’orante che troviamo come dipinti nella liturgia di oggi?

1) Si ringrazia Dio di non essere come gli altri. Chi prega così non può essere se non un settario, qualcuno per cui gli altri sono tutti meno quelli del suo gruppo. Qualcuno per cui quelli che non sono come lui sono cattivi, degni di riprovazione e di condanna. Chi prega così, mostra di non essere dominato dallo Spirito di Dio, ma dallo spirito di partito. Quanto disprezzo in questa individuazione de "gli altri": "questo pubblicano"! Come è possibile ringraziare Dio di qualcosa che va contro lo stesso disegno di Dio? L’uomo che prega così, chiunque egli sia, non può essere ascoltato da Dio. Dio non prende partito per pochi, per Lui tutti sono suoi figli.

2) Si ringrazia Dio dei propri meriti. Innanzitutto, ciò che egli non è, e che gli altri sono. Come se dicesse: "Gli altri sono dei ladri, io no; gli altri sono ingiusti, io no; gli altri sono adulteri, io no". Sotto questi tre nomi, che hanno a che vedere con il quinto, sesto e settimo comandamento, si riassumono tutti i precetti negativi che un giudeo considerato pio doveva compiere. Gli altri potrebbero peccare, potrebbero non compiere qualcuno di questi precetti, ma un fariseo, mai. Questa è la gloria del fariseo: compiere la Legge fino all’ultimo dettaglio! Ringraziare Dio per la propria gloria, non è come una specie di contraddizione? Ma il fariseo compie altresì anche tutti i precetti cosiddetti "positivi", sia che siano presi dalla Torah, sia che provengano dalla tradizione della setta dei farisei. Così, il digiunare fa parte dei precetti della Torah, ma il farlo due volte a settimana (lunedì e giovedì) è proprio dei farisei. Allo stesso modo, pagare il decimo è una esigenza della Legge, ma pagarlo su tutto ciò che si compra al mercato è una norma addizionale della propria setta farisaica. Nella sua coscienza, il fariseo orante non ha peccati, solo "meriti". Non ringrazia per i benefici ricevuti, ma per i meriti acquisiti. Ma allora, che tipo di orazione è questa?

3) Si riconosce peccatore. Chi può, per quanto fariseo sia, riconoscersi giusto davanti a Dio? Questo è l’atteggiamento del pubblicano, e dovrebbe essere quello del fariseo, e deve esser quello di tutti. C’è un particolare, nel testo greco, che passa inosservato nelle traduzioni, e che mi ha commosso: "Abbi pietà di me, il peccatore". Da una parte, egli accetta l’equiparazione che i giudei del tempo di Gesù facevano tra pubblicani e peccatori. E dall’altra sembra riconoscere che lui, come pubblicano, è il peccatore par excelence. Con codesto grado di umiltà e di pentimento, si assicura che Dio ascolti la sua orazione.

Dio, giudice dell’orante. C’è qualcosa che impressiona nei testi liturgici del giorno di oggi. Dicendoci l’atteggiamento di Dio verso l’orante, sottolineano quello di giudice. Non si esclude che Dio sia Padre, ma è un padre che fa giustizia. Fa giustizia a chi prega con atteggiamento adatto, come il pubblicano, e lo giustifica; e fa giustizia a chi prega con atteggiamento improprio, come il fariseo, che esce dal tempio senza il perdono di Dio, perché, per quanto visto, non ne aveva bisogno. Dio è un giudice che non fa preferenze di persone, e per questo ascolta con speciale attenzione l’orante che lo supplica nella sua oppressione. La sua preghiera "penetra fino alle nubi" (Prima lettura), cioè fino a dove Dio stesso ha la sua dimora. Dio giudica l’orante secondo i suoi parametri di redentore, e non secondo i parametri dell’orante o di altri uomini. Nella risposta all’orante, Dio non agisce per capriccio, ma per ristabilire l’ "equità", la giustizia. Per questo, la corona che Paolo aspetta non è frutto del merito personale, quanto giustizia di Dio nei suoi confronti e nei confronti di tutti quelli che sono imitatori suoi nel servizio al Vangelo (Seconda lettura).

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Soltanto a Dio la gloria. Questa domenica è una buona occasione per esaminare il nostro atteggiamento quando preghiamo. Poiché può succedere che, senza saperlo e senza volerlo, stiamo pregando "allo stile del fariseo". Prego perché mi porta in chiesa mia moglie o la mia fidanzata, ma sto davanti al Santissimo o davanti a una immagine della Vergine più che pregando, rimuginando nel mio intimo le mie preoccupazioni o i miei progetti. O parlo con Dio, non tanto perché senta necessità di Lui, ma perché ho bisogno, di quando in quando, di sfogarmi. O vado in una casa di esercizi spirituali o di ritiri, o faccio turismo religioso, che, a quanto pare, sta diventando di moda, non tanto per pregare, ma per raggiungere una certa armonia interiore, per strappare dall’anima lo stress. O molte volte vado in chiesa, più che per incontrarmi con Dio, per incontrarmi con gli amici; più che per lodare e dare gloria a Dio, per mantenere la mia reputazione di buon cattolico, di persona che compie i suoi doveri verso Dio. Ricordiamo: pregare è mettersi in contatto con Dio, e ci si mette in contatto con Dio soltanto se si è umili. Se nella mia umiltà, benedico Dio, lo ringrazio per il suo perdono e la sua misericordia, lo supplico per le necessità spirituali e materiali mie proprie e degli uomini, allora Dio presterà ascolto alla mia preghiera. La nostra orazione sarà gradita a Dio, se cerchiamo la sua gloria, e soltanto la sua gloria. "A Lui l’onore a la gloria nei secoli dei secoli".

La preghiera del cuore. Nella preghiera interviene tutto l’essere umano: il suo corpo e il suo spirito, la sua intelligenza e la sua volontà, i suoi gesti e le sue posizioni come i suoi atteggiamenti profondi. Ciononostante, si prega soprattutto con il cuore. Dalle labbra dell’orante debbono sgorgare le parole che sono nate prima nel cuore. La posizione del corpo deve essere un riflesso della posizione con cui egli sta davanti a Dio nell’intimità della sua anima. I pensieri, gli affetti, i moti interiori, le decisioni, affinché veramente siano di un uomo o di una donna orante, debbono avere la propria sorgente più pura nello spirito umano, abitato dallo Spirito Santo, maestro dell’autentica orazione. Con il cuore non si indica l’affettività umana, ma tutto il mondo interiore, quel tabernacolo intoccabile in cui l’uomo si trova con se stesso, si espone alla verità di Dio, e gli dichiara con umiltà la sua indigenza, il suo peccato, il suo pentimento, il suo amore. Dobbiamo aver cura dell’orazione del cuore nelle orazioni vocali, per fare in modo che queste non si trasformino in qualcosa di abitudinario, in un ritornello tante volte udito, che ci lascia indifferenti. Dobbiamo aver cura della preghiera del cuore quando meditiamo, per far sì che la nostra meditazione non sia una mera speculazione, per quanto elevata; o una riflessione interessante e bella sulla vita e sul mondo, senza che giunga alla "mia vita" e al "mio mondo"; o un monologo, in cui io mi parlo e mi rispondo, senza dare spazio all’ascolto silenzioso e attento della voce di Dio. Preghiamo a cuore aperto, perché Dio ci ascolti allo stesso modo con il suo cuore di misericordia e di amore.

 

 

 

Festa di TUTTI I SANTI 1° novembre 2001

Prima. Ap 7, 2-4.9-14; seconda 1Gv 3,1-3 Vangelo: Mt 5, 1-12a

 

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Su che altra cosa può essere incentrata la liturgia di questa festa, se non sulla santità? Il vangelo sintetizza ammirevolmente le vie della santità cristiana mediante le beatitudini. Nella prima lettura, tratta dall’Apocalisse, si pone davanti ai nostri occhi l’infinito numero dei chiamati ad essere santi e a partecipare qui e nell’eternità del dono della santità. Infine, con la prima lettera di san Giovanni, l’assemblea cristiana è introdotta nella misteriosa relazione esistente tra l’amore che Dio ha per noi, amore di Padre, e la santità che ci concede, in quanto figli in suo Figlio.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Beatitudini e santità. Gli otto tipi di persone che sono chiamate "beati" sono, con la massima proprietà, i santi. Per questo, invece di dire "beati i poveri di spirito, i mansueti, quelli che piangono, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace e i perseguitati a causa della giustizia", basterebbe aver detto "beati i santi". Perché ciascuna di queste categorie di persone sono espressione, e, per così dire, via di santità. I poveri di spirito sono i santi, perché la loro vera ricchezza è Dio. Santi sono i mansueti, perché la mansuetudine o umiltà è l’atteggiamento proprio degli uomini davanti al Creatore e Signore. Santi sono, allo stesso modo, coloro che piangono, perché le loro sono lacrime di pentimento per i propri peccati e per quelli degli uomini, loro fratelli. Chi più dei santi ha fame e sete di giustizia, cioè, che Dio giustifichi e salvi l’umanità intera? I santi sono i più misericordiosi del mondo, perché esercitano la misericordia con i più derelitti della terra, che sono i peccatori. I puri di cuore sono i santi, perché il loro cuore e le loro pupille sono state lavate con il sangue dell’Agnello, affinché vedano con chiarezza divina le cose del cielo e quelle della terra. I santi sono coloro che più lavorano per la pace, ossia, perché si diano nella società umana quelle condizioni che favoriscano la concordia tra i popoli, e soprattutto lo sviluppo e il progresso umano e spirituale. I perseguitati a causa della giustizia, quale altro nome dovranno ricevere, se non quello di santi, martiri la cui vita è stata santificata nella solitudine del carcere o sul patibolo di una camera a gas? Molte sono le strade che Dio ha aperto agli uomini con il suo Vangelo, ma la méta è sempre la stessa: la santità. Una sola santità, o, per meglio, dire, UN SOLO SANTO, GESÙ CRISTO, e molte maniere di pronunciare e confessare il suo nome con la vita. "Beati i santi, perché di essi è il Regno dei cieli, di essi la fecondità spirituale sulla terra". Il santo è colui del quale si può dire con maggior proprietà che, stando sulla terra, vive già nel cielo e, giungendo al cielo, non cesserà di essere molto presente sulla terra.

"Amore" e santità. La santità è il precipitato di un incontro di amore tra Dio e la creatura. "Dio è amore", abbiamo letto nella seconda lettura. Essendo Dio il principio di tutto il creato, il suo amore non può essere se non fecondo, amore di Padre. Dato che Dio è Padre, la maggior meraviglia che è potuta accadere all’uomo è di essere figlio di Dio. E la sua maggior ricchezza non sarà altro che il vivere come tale, seguendo le orme del Figlio incarnato. L’amore di Dio concede all’uomo la capacità e la forza spirituale per esser santo. L’amore dell’uomo a Dio pone in azione la capacità ricevuta e la forza per la santificazione. In questa azione – reazione di amore, Gesù Cristo è il caso unico e il portabandiera. Caso unico, perché solo lui è il Figlio di Dio in senso stretto, tutti noi siamo figli nel Figlio, in quanto il Padre vede nell’uomo il riflesso di suo Figlio. Portabandiera, perché tutti gli uomini santi non fanno altro che guardare a Cristo, Via, Verità e Vita, e proseguire dietro alle sue orme. Quando Gesù Cristo è venuto in questo mondo, gli abbiamo dato i nostri occhi perché con essi veda il Padre, sebbene in modo opaco e imperfetto. Quando noi passeremo la porta dell’eternità, Gesù Cristo ci darà i suoi, affinché non vediamo più il Padre come nell’ombra, ma come realmente è. "Vedremo Dio così come è" (Seconda lettura). Nella relazione amore-santità si deve menzionare l’infinito numero dei chiamati, a cui fa riferimento la prima lettura, tratta dall’Apocalisse. Non dodici, come le tribù di Israele, ma dodici per dodici, riunendo così le tribù di Israele e i Dodici apostoli di Gesù Cristo: i giudei e i cristiani. E inoltre, non solo 144, ma questi moltiplicati per mille, cioè, l’intera umanità. Sì, Dio vuole che l’umanità nella sua totalità sia santificata dall’amore e dalla grazia, e così abbia accesso all’eterno destino di felicità nel cielo. Il numero di 144.000 non è un numero riduttivo, ma simbolo dell’universo umano.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

La dossologia di una vita santa. "Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potere e forza, al nostro Dio nei secoli dei secoli": questa è la dossologia che risuona incessantemente sulle labbra dei santi nel cielo. Questa dossologia la dobbiamo pronunciare qui sulla terra, in modo particolare, noi cristiani, mediante una vita santa. Una dossologia con cui manifestiamo la nostra felicità e la nostra gratitudine a Dio. Siamo felici in mezzo alla sofferenza, e lodiamo Dio. Siamo felici, sebbene agli occhi degli uomini le cose non ci vadano bene, perché intuiamo in ciò la sapienza divina. Siamo felici, pur vivendo nella povertà e nella mancanza di potere, e ringraziamo Dio per le manifestazioni della sua provvidenza su di noi. Siamo felici, per quanto la malattia ci abbia prostrato e reso perfino inutili, perché Dio sia glorificato nella nostra carne inferma e renda più patente il potere della sua resurrezione. Siamo felici, perché siamo in pace con Dio e con la nostra coscienza, perché crediamo nella vittoria della grazia sul peccato, perché cerchiamo unicamente la volontà e la gloria di Dio. L’occasione di felicità che il mondo vende al maggior offerente, ma che dura quanto il fiore di un giorno, e che riceve nomi effimeri come divertimento, passatempo, piacere, spasso, baldoria, allegria, ed altri simili, sono soltanto particelle, atomi di felicità. Noi riserviamo il nome di felicità per qualcosa di più grande: il possesso dell’amore di Dio, iniziato qui sulla terra, e che avrà il suo culmine nel cielo. Questa dossologia di una vita santa si può cantare, qui sulla terra, da qualsiasi parte: nella Chiesa e in casa, in ufficio e a scuola, in montagna o al mare, eccetera. Dobbiamo solo tener conto del consiglio di sant’Agostino "Cantate ore, cantate corde, cantate semper, cantate bene": "cantate con le labbra, cantate con il cuore, cantate sempre, cantate bene".

Comunione con i santi del cielo. La Chiesa, con la festa di tutti i santi, celebra tutti i defunti che già godono definitivamente e per sempre dell’amore verso Dio, dell’amore verso gli uomini e tra di loro. Abbiamo la certezza, d’altra parte, che, se viviamo nella grazia e nell’amicizia con Dio, siamo santi già qui sulla terra. Esiste, pertanto, una comunione dei santi. Cioè, i santi del cielo sono uniti a noi, si interessano di noi, illuminano la nostra vita con la loro, intercedono per noi presso Dio. Tutti potrebbero dire, come santa Teresa di Lisieux: "Vivrò nel cielo facendo il bene sulla terra". Io voglio, tuttavia, riferirmi specialmente alla comunione dei santi della terra con i santi del cielo. Sono i nostri fratelli maggiori, che ci hanno preceduto nell’arrivo alla méta e che anelano a che tutta la famiglia torni a riunirsi nell’eternità. Sono le stelle del nostro firmamento, che ci illuminano nella notte, non con luce propria, ma con quella che hanno ricevuto dal Sole Invitto, che è Cristo. Sono modelli, per così dire, di casa, che ci avvicinano in qualche modo una virtù o un aspetto della pienezza di perfezione e santità che è Gesù Cristo. Non si dovrà, allora, rinnovare e vitalizzare la nostra comunione con i santi del cielo? Oggi è un buon giorno per farlo.

 

 

Giorno di tutti i FEDELI DEFUNTI 2 novembre 2001

Prima: Is 25, 6-9; seconda: Rom 5, 5-11 Vangelo: Gv 6, 37-40

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"Morte e vita" sono le due parole in cui è possibile sintetizzare la liturgia in onore di tutti i fedeli defunti. Nel vangelo, Gesù si offre come pane di vita e dice che il Padre vuole che tutti abbiano vita eterna. Isaia pone davanti ai nostri occhi il festino della vita, in cui Dio distruggerà per sempre la morte e asciugherà le lacrime da tutti i volti (Prima lettura). E san Paolo, nella lettera ai Romani, afferma che "Dio ci ha mostrato il suo amore facendo morire Cristo per noi quando ancora eravamo peccatori" (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

 

Fame di Dio, sete di vita eterna. La fame e la sete accompagnano l’uomo nel suo pellegrinaggio terreno dalla culla alla tomba. Non pensiamo soltanto alla fame di pane o alla sete di acqua. Si deve riconoscere che l’uomo, dal momento in cui nasce, è un affamato di Dio e un assetato di vita eterna. La sua natura spirituale e la sua vocazione di immagine di Dio agitano il suo intero essere in un anelito costante della sua Origine e del suo Destino. In Gesù Cristo l’uomo soddisfa la sua fame di Dio, perché Egli è il Pane disceso da cielo, con cui Dio Padre alimenta i suoi figli: Pane della Parola fatta Sacra Scrittura, Pane dell’Eucarestia trasformato in corpo e sangue dello stesso Dio. E lo Spirito Santo è colui che sazia la sua sete di vita eterna, perché Egli è l’acqua viva che Cristo ci dà perché noi abbiamo di nuovo sete. Già in questa vita, Dio sazia la nostra fame di Dio e la nostra sete di vita eterna, ma solo in modo limitato e sotto la tentazione di cercare di soddisfare la nostra fame e sete non in Dio, ma nelle creature. Soltanto dopo la morte Dio sarà il nostro unico Pane e la nostra unica Acqua, il nostro vero alimento e bevanda per sempre. Proprio la prima lettura esalta il banchetto della vita che Dio ha preparato in Sion per tutti i popoli, banchetto che prefigura il banchetto nella Gerusalemme celeste, quando Gesù Cristo avrà vinto tutti i suoi nemici, la stessa morte, e avrà donato il Regno a suo Padre. La morte ci si presenta, in questo modo, come invito al banchetto della vita, il cui anfitrione è lo stesso Dio. A dire il vero, non è la vita quella che sbocca nella morte, ma è piuttosto quest’ ultima quella che sbocca nella vita. Siamo soliti parlare di "vita e morte", ma la liturgia di oggi ci conduce a cambiare l’ordine e a preferire "morte e vita", perché è la vita che esce vittoriosa dal duello con la morte; perché il banchetto cui Dio ci invita non è un banchetto funebre, ma un banchetto per celebrare la vita.

La morte, prologo al libro della vita. Durante il pugno di anni dell’esistenza, l’uomo si affanna nella ricerca. È un eterno ricercatore. Cerca di essere amato e di amare; cerca il sapere, la scienza, il potere; cerca la fama; cerca la verità e la vita; cerca Dio. Se cerca con sincerità e costanza, troverà Quello e Colui che cerca in tutto ciò che cerca. Troverà Dio, troverà la vita. Non c’è dubbio che la vita dell’uomo sia una eterna ricerca. Ma, che cosa è la morte, se non il momento in cui la ricerca termina, e comincia l’incontro definitivo con Dio, con noi stessi, con la verità e la vita? Avere vita eterna, non è questa la suprema ed ultima aspirazione di tutte le ricerche dell’uomo, perfino per vie tortuose, insensate, in direzione opposta di Colui che cerca? Non è anche l’ultimo e massimo regalo che Dio vuole dare personalmente a ciascuno degli uomini? "Mio Padre vuole – leggiamo nel vangelo – che tutti coloro che vedranno il Figlio e crederanno in Lui abbiano la vita eterna, ed io li resusciterò nell’ultimo giorno". Per questo, la morte, che condensa in sé la nostra esperienza effimera, può ben considerarsi soltanto come un breve prologo al libro della vita.

Dalla Pasqua di Cristo ci viene la luce. Le riflessioni precedenti trovano la loro cornice più propria nel mistero della morte di Cristo, che il Padre risuscitò di tra i morti, e che ci fa partecipare della sua vita. Immaginiamo la morte di Cristo come il grande oceano in cui si raccolgono tutti i morti della storia, e la resurrezione come il nuovo Paradiso preparato da Cristo risorto per tutti coloro che sono stati illuminati dalla sua Luce. La vita di cui ci parla la liturgia non è solamente l’immortalità dell’anima (esigenza della sua natura spirituale), ma è piuttosto e molto di più la partecipazione nell’anima e nel corpo della vita di Cristo risorto. La luce del mistero del Figlio di Dio, Gesù Cristo, morto e risorto per noi, per strapparci dalla morte e renderci partecipi della vita, illumina in modo completamente unico la vita terrena, il termine della vita stessa con la morte, e l’inizio gaudioso di una vita senza fine in compagnia di Dio e di tutti i santi.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

Una visione più cristiana della morte e della vita. Un certo materialismo ed orizzontalismo si sono messi nell’anima di tutti, soprattutto negli ultimi secoli. Diciamo che la morte è la fine della vita, ma forse dimentichiamo che è l’aurora di una nuova vita. Quando parliamo della vita ci riferiamo all’esistenza terrena, forse perché l’altra vita non fa parte della nostre categorie mentali, o perché siamo tanto bene installati in questa, che tendiamo a non pensare alla sua fugacità e al suo momento finale. Vita non è solamente un termine temporale, ma appartiene anche al linguaggio dell’eterno. È possibile che sentiamo necessità di apprendere a poco a poco, codesto linguaggio dell’eterno e di esercitarlo, altrimenti, passando all’altra sponda della vita, nessun altro ci intenderà, con l’inconveniente che lì non ci sono interpreti. Un giorno come oggi è un momento prezioso per rinnovare i nostri concetti e la nostra mentalità, in modo da aprire di più il nostro cuore alla realtà che ci aspettano dopo la morte. "La vita, per noi che crediamo in te, Signore, non termina, si trasforma; e al disfarsi della nostra dimora terrena, acquisteremo una dimora eterna nel cielo", preghiamo nel prefazio dei defunti. E santa Teresa di Gesù Bambino esclamava: "Io non muoio, entro nella vita", Un tempo propizio per la catechesi sulla resurrezione della carne e sulla vita eterna, a partire dalle pagine che il catechismo della Chiesa dedica a questi temi (CCC 988-1060).

Pregare per i fedeli defunti. Nell’affidare l’anima a Dio, la Chiesa parla al moribondo con una dolce sicurezza: "Anima cristiana, uscendo da questo mondo, va’, nel nome di Dio Padre Onnipotente, che ti creò, nel nome di Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che morì per te, nel nome dello Spirito Santo, che su di te discese. Entra nel luogo della pace, che la tua dimora sia presso Dio in Sion, la città santa, con Santa Maria Vergine, Madre di Dio, con san Giuseppe e tutti gli angeli e i santi". Questo è ciò che desideriamo di tutto cuore per i moribondi, e questo è ciò che chiediamo a Dio quando per essi preghiamo, un volta che siano morti. Ai nostri defunti ci uniscono i legami del sangue e della fede, per questo continuiamo ad amarli e a desiderare il loro bene mediante le nostre orazioni. La Chiesa, come Madre di tutti i cristiani, intercede quotidianamente in ogni santa messa per i defunti: "Ricordati anche dei nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della resurrezione e di tutti i defunti; ammettili a contemplare la luce del tuo volto" (Preghiera eucaristica, II). Preghiamo per loro con sincerità ed umiltà di cuore, affinché la nostra intercessione per essi presso Dio sia ascoltata e possano definitivamente "stare sempre con il Signore".

 

 

Domenica Trentunesima del TEMPO ORDINARIO 4 novembre 2001

Prima: Sap 11, 22-12, 2; seconda: 2Ts 1, 11- 2, 2 Vangelo: Lc 19, 1-10

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

L’amore di Dio investe di sé ogni pagina della Bibbia e della liturgia cristiana. Nei testi della presente domenica ciò risalta in modo speciale. L’amore di Dio verso tutte le creature, perché tutte hanno nell’amore di Dio la loro ragione d’essere (Prima lettura). L’amore di Dio per tutti gli uomini, senza alcuna distinzione, perché tutti sono suoi figli (Vangelo). L’amore di Dio verso i cristiani, "perché il nome del Signore nostro Gesù sia glorificato in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo" (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

L’avventura dell’amore divino. Dal momento stesso in cui Dio iniziò la sua opera creatrice, ebbe inizio per lui l’avventura dell’amore. L’avventura meravigliosa di essere ricambiato nell’amore. Ma anche l’avventura del rischio dell’amore, del rifiuto dell’amore, dell’incomprensione dell’amore, del volto doloroso dell’amore. "Tu ami tutte le cose esistenti, e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata", dice la Sapienza. Ma, non si ha l’impressione che i cataclismi e le catastrofi naturali del nostro pianeta si ribellino contro il governo sovrano dell’amore? "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anch’egli è figlio di Abramo", dice Gesù nel vangelo. Ma le altre "case" di pubblicani, accetteranno l’amore? E le altre case dei ricchi, si convertiranno, come Zaccheo e la sua casa, all’amore di Dio? Dio ci ha chiamato alla vocazione cristiana, per essere glorificato nelle nostre vite; ma, le nostre vite sono veramente la gloria dell’amore? L’amore di Dio, nella sua avventura storica, in certo modo è sottomesso alla grande legge creata da Dio stesso, e che egli rispetta, del libero arbitrio. E così sarà fino alla fine dei tempi. Questi tempi ultimi, il cui termine ci risulta del tutto sconosciuto, e che faremmo bene a lasciare fiduciosamente nel sacrario del cuore di Dio, che vuole sempre il meglio per i suoi figli. Non vogliamo scrutare ansiosamente il mistero che ci sfugge e che oltrepassa le nostre capacità di conoscenza. Vigili, sì, ma sereni! Allora, sì, dietro il sipario finale della storia, l’avventura dell’amore di Dio sarà terminata. L’amore di Dio sarà intronizzato nei cieli e gli uomini adoreranno eternamente la triplice faccia dell’Amore.

Un amore senza frontiere. Così è l’amore di Dio. Non ha la frontiera del tempo, perché Egli ama nel tempo e prima del tempo e al di là del tempo. Non ha la frontiera dello spazio, perché Egli ha creato lo spazio e lo ha riempito con opere sorte unicamente dal suo amore: il cielo, la terra e tutto ciò che in essi abita (Prima lettura). Non è limitato dalla frontiera dell’età, della condizione sociale o economica, dallo stato di vita degli uomini, perché ciò che più conta per Dio è che tutti sono immagine sua e tutti Egli ama come figli. Dio non ama il cieco di Gerico perché è povero (Lc 18, 35-43), né Zaccheo perché è ricco, ma perché entrambi sono suoi figli. Per Dio non contano queste barriere che tanto contano non poche volte per gli uomini. Dio non ama per "meriti", ma in totale libertà. E non è nemmeno limitato, Dio, nel suo amore, dalla barriera del peccato. Noi uomini siamo peccatori, Zaccheo è un peccatore pubblico. Ciò non importa. Il peccato non è, per così dire, una sconfitta dell’amore, ma occasione perché l’amore di Dio si manifesti con nuovo splendore. E potranno forse essere le nostre preoccupazioni, i nostri timori, i nostri pensieri sulla "imminenza" del "termine della storia" una muraglia inaccessibile all’amore di Dio? Deus sempre maior. Dio è al di sopra di tutti i limiti che noi uomini possiamo porre al suo amore. Dio è anche più grande e sta al di là della morte, codesto mostro nel cui territorio sembra che neppure l’amore di Dio abbia accesso. Dio è "amico della vita" (Prima lettura) o, in una traduzione forse più fedele, "autore della vita". A Lui la morte non infonde timore come a noi, poveri mortali, Egli varca la sua barriera e la distrugge, affinché gli uomini, suoi figli, vivano per sempre. Realmente, per Dio la frontiera dell’amore è l’amore senza frontiera.

SUGGERIMENTI PASTORALI

Occhi per amare. La realtà si guarda in modo molto diverso quando si hanno occhi per l’amore o quando non si hanno. Occhi per amare Dio nella grandezza e nello splendore del firmamento! Posso contemplare una stella in una notte di primavera con l’occhio scrutatore dello scienziato, che indaga sulla sua distanza della terra, gli anni che ha o il materiale di cui è composta. E posso contemplarla con l’occhio semplice di chi scopre in essa un riflesso della bellezza di Dio, un regalo di Dio in questa incantevole notte di primavera! Occhi per vedere l’amore di Dio nel potere e nella bellezza della natura! Questa natura che rivive dopo l’inverno come se risorgesse. Questa natura mediante la quale Dio ricorda all’uomo la legge del rinnovamento permanente e lo richiama alla sua vocazione alla resurrezione con Cristo glorioso. Occhi per ammirare l’amore di Dio come si mostra nell’uomo e nelle opere magnifiche del suo pensiero! È diverso considerare l’intelligenza dell’uomo come frutto della casualità evolutiva, dal vedere in essa l’opera più preziosa e sublime dell’amore creatore di Dio. È molto diverso l’atteggiamento che avrò con un uomo, se mi fermo solamente al fatto che è un quadrupede intelligente o se, oltrepassando con lo sguardo l’ambito corporale, lo vedo come un figlio di Dio nato per una eternità felice nell’amore. Noi uomini di solito abbiamo occhi per il male, per la critica, per l’immondizia del mondo. Va bene, ma dobbiamo guardare tutto ciò con occhi d’amore, con gli stessi occhi con cui Dio lo vede. E, soprattutto, dobbiamo spalancare il nostro sguardo al bene, al parlare bene degli altri, alla verità, alla bellezza e alla santità che ci sono nel mondo. In definitiva, avere occhi per l’amore è avere occhi per Dio, è avere gli occhi di Dio.

La creatività dell’amore. Che l’amore sia creativo, penso che nessuno lo metta in dubbio. Già conosciamo la creatività dell’amore di Dio: la Sacra Scrittura, la Chiesa come istituzione dell’amore redentore, la presenza di Gesù Cristo nell’Eucarestia, o la perfezione del cervello umano, e la immensità del cosmo e delle sue galassie, per fare alcuni esempi. Voglio soffermarmi, tuttavia, sulla creatività dell’amore umano e cristiano, questa creatività che è la nostra propria, e che dobbiamo attuare giorno per giorno, per mostrare che siamo veramente cristiani. Chi ignora la potenza "creativa" di una carezza allo sposo, al figlio, alla madre o alla fidanzata? Chi non ha potuto constatare qualche volta la creatività di una parola, di uno sguardo, di un abbraccio? Cercare ogni giorno creatività nell’amore entro la famiglia. Piccole cose dell’amore, non importa, ma nuove, inaspettate, sorprendenti! Cercare la creatività nell’amore per servire meglio gli altri, come impiegato in un ufficio, come parroco, come infermiera in un ospedale, come assistente sociale in una residenza di anziani, come maestro in una scuola o professore in una università, ecc. E soprattutto cercare la creatività nel nostro amore per Dio. Creativi quando parliamo con Dio per dirgli la stessa cosa, ma con linguaggio e musica diversi. Creativi nel moltiplicare il più possibile le opere dell’amore, le maniere di esprimere l’amore. Creativi per pensare e formulare l’amore di Dio e comunicarlo creativamente agli uomini. Creativi per parlare a Dio e per parlare di Dio. Creatività! Creatività nell’amore! Forse non è l’amore, per sua stessa natura, creativo? Se per una casualità l’amore cessasse di essere creativo, sarebbe noia, routine, fastidio. Cesserebbe di essere amore. Che fare per esercitare quotidianamente la creatività dell’amore?

 

 

Domenica Trentaduesima del TEMPO ORDINARIO 11 novembre 2001

Prima: 2Mac7, 1-2.9-14; seconda: 2Tes 2, 16-3,5 Vangelo: Lc 20, 27-38

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Qual è e come è il destino ultimo dell’uomo? A questa inquietante domanda cerca di rispondere la liturgia di questa domenica. Gesù ci insegna che il destino è la vita, ma che questa vita nell’aldilà non si eguaglia alla vita terrena (Vangelo). Il martirio della madre e dei suoi sette figli al tempo della guerra maccabea, offre all’autore sacro l’occasione per proclamare vigorosamente la fede nella resurrezione per la vita (Prima lettura). Paolo chiede preghiere ai tessalonicesi perché "la parola del Signore continui a propagarsi e ad acquisire gloria" (Seconda lettura), una parola che include la sorte finale degli uomini davanti al Giudice supremo, che è Dio.

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Mistero e realtà. Conviene affermare sempre che il destino finale dell’uomo non è chiaro come un teorema matematico, né conoscibile come la composizione chimica dell’acqua. Gesù, nel suo ragionamento con i sadducei, sostiene che è un mistero, e per questo non ricorre al raziocinio, ma alla rivelazione. "Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è un Dio di vivi, non di morti". La storia della salvezza ci aiuta a comprendere che, essendo mistero, la salvezza stessa non è stata oggetto di una conoscenza naturale o di una rivelazione immediata. C’è stato, piuttosto, un processo lungo e pedagogico di rivelazione a partire dall’Antico Testamento fino al Nuovo. I sadducei esagerano tanto il carattere misterioso della resurrezione, che semplicemente la negano. È forse una soluzione facile, ma impropria dell’uomo, che è un eterno ricercatore della verità. Cercare di entrare nel mistero, senza distruggerlo, qui si trova la grandezza dell’essere umano sulla terra. Ma la resurrezione non è soltanto un mistero, è anche realtà. Una realtà che non è percettibile con gli occhi della carne, ma unicamente con gli occhi della fede. Già Orazio era giunto a formulare, con la sua sola ragione, la credenza nell’immortalità. "Non omnis moriar" (non dovrò morire del tutto). Noi cristiani possiamo formulare la nostra fede nella resurrezione: "Omnis vivam" (vivrò tutto intero), in corpo ed anima, in tutta la mia realtà psicofisica. Evidentemente, non si deve mettere tanto in risalto la resurrezione corporale da giungere ad immaginarla come la vita terrena nel suo grado massimo di perfezione. "Non possono più morire, perché sono angeli" (Vangelo). L’uomo sarà trasformato e, senza cessare di essere uomo, sperimenterà e vivrà la sua umanità in un modo adeguato a un mondo infinito ed eterno. Il destino dell’uomo non è che una realtà misteriosa e un mistero imbevuto di realtà. Separare il mistero dalla realtà o la realtà dal mistero conduce a distorcere la verità della fede nella resurrezione dei morti.

Martirio e vita. Il martirio, perfino per i non credenti, ha un potere di seduzione assai notevole. Un martire per la propria fede non è soltanto gloria della sua religione, ma dell’intera umanità. È un eroe e, se è cristiano, è anche un santo, un eroe della grazia e un evangelizzatore, perché trasmette la fede cristiana con l’offerta della sua vita. La madre e i sette figli di cui ci parla la prima lettura sono stati per i giudei e per i cristiani un esempio permanente di fortezza spirituale e di fede nella resurrezione. "Il Re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a una vita nuova ed eterna", così formula la sua fede il secondo dei fratelli. Il martirio di tante centinaia di migliaia di cristiani, nel corso di 21 secoli, è il segno di credibilità più probante della resurrezione dei morti. Un martirio che si radica nel grande Martirio di Gesù Cristo sulla croce per redimerci dal peccato ed ottenerci la vita eterna. La "breve pena" della sofferenza si scambia con la "vita perenne" e infinita (Prima lettura). Poiché in verità martire è chi preferisce il Dio della vita all’amore della vita, chi è disposto a chiudere la porta della vita per fedeltà a Dio, e ad aprire il cancello del Paradiso per stare sempre con il Signore. Questa è la Parola del Signore, che dobbiamo annunciare, e che dobbiamo propagare in ogni luogo. In un mondo non poco secolarizzato, ed abbastanza miope per le cose della fede, è assai necessario che noi cristiani sigilliamo la nostra fedeltà alla vita, su questa terra in cui stiamo e nell’eternità, con una vita di fedeltà.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

Continuità, non uguaglianza. La nostra fede ci dice che l’essere umano resusciterà nella sua integrità. C’è, pertanto, una continuità innegabile tra l’uomo storico, che muore e torna alla polvere, e l’uomo risorto. Non risusciterà una "entelechia" umana, ma l’uomo e la donna che hanno calpestato questa terra, che hanno amato, che hanno fatto il bene, che hanno procreato ed educato i loro figli, che hanno lavorato per poter vivere, che sono morti baciando un crocifisso o recitando il rosario. Se qualcuno ponesse in dubbio o negasse questa continuità, in che cosa consisterebbe allora la resurrezione dai morti? Non sarebbe, tale espressione, un semplice flatus vocis, un suono senza senso? Allo stesso tempo la nostra fede ci dice che la continuità non equivale ad uguaglianza. La nostra polvere rivivrà, ma trascesa. Saremo integralmente uomini, ma la nostra vita non sarà sottomessa alla condizione storica. Nell’eternità non si lavora, né si mangia, non si procrea, né si muore. "Sarete come angeli" (Vangelo). Resusciteremo identici, ma diversi in ragione della stessa diversità del mondo in cui si entra e in cui si vivrà per sempre. L’uomo intero vivrà nella condizione degli angeli, perché la sua stessa dimensione corporea resterà penetrata e come trasformata dalla dimensione spirituale, e principalmente dallo Spirito di Dio. Tutto ciò è importante per la catechesi, la predicazione, e l’accompagnamento spirituale. Non è male che ai bambini si parli del cielo in un linguaggio immaginativo e sensoriale. Ciononostante, credo che si debba elevarli a poco a poco, gradualmente, da una concezione sensoriale a una concezione sempre più spirituale della vita eterna. Effettivamente, voler piantare la terra nel cielo è sempre stata una grande tentazione dell’uomo. Non succede a volte che ci siano persone di 50 e 60 anni, la cui concezione del cielo continua ad essere la medesima dell’infanzia? Non sarà, questa, una, tra le altre cause, per cui si trova in crisi la fede nella resurrezione dei morti e nella vita futura?

Un messaggio di speranza. Se ragioniamo con fede, non c’è dubbio che la resurrezione dei morti sia un messaggio di speranza. Per il credente, il tesoro più prezioso non è la vita che si ha, ma quella che si aspetta. Ciononostante, la vita attuale è preziosissima. Come non lo sarà, se in essa l’uomo si gioca tutta l’eternità? La speranza cristiana non fa vivere lontani dalla realtà del mondo e della storia, ma interamente dediti a fare storia: storia di salvezza. Costruire la storia non è soltanto compito dei non credenti, è ancora a maggior ragione compito di chi crede nel Signore della storia e nella marcia della storia verso il suo sbocco finale. Sì, come cristiano, spero che Dio aprirà le porte dell’eternità alla mia mente, al mio cuore, al mio corpo, alla mia vita. Perché la speranza cristiana nella resurrezione è messaggio di vita in pienezza, di presenza viva davanti allo stesso Dio vivo. È vivere senza orologio né cronologia, stando sempre con il Signore, come sommersi nell’oceano stesso della vita. Il messaggio cristiano è un messaggio di speranza, perché annuncia il trionfo della vita sul tempo e sul male, il trionfo di Dio su tutti i suoi nemici, l’ultimo dei quali è la morte. Questo messaggio non se lo è inventato la Chiesa, proviene dal Dio "che ci ha dato gratuitamente una consolazione eterna e una speranza beata" (Seconda lettura). Vale la pena di testimoniare con parole ed opere questo messaggio di speranza!

 

 

Domenica Trentatreesima del TEMPO ORDINARIO 18 novembre 2001

Prima: Mal 3, 19-20 (4,1-2); seconda: 2Tes 3, 7-12 Vangelo: Lc 21, 5-19

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

Il presente e il futuro sono due categorie che si ergono in qualche modo in questa penultima domenica del ciclo liturgico. Gli "arroganti e malvagi" del presente saranno strappati alla radice il Giorno di Javeh, mentre i "fedeli al mio Nome" saranno illuminati dal sole di giustizia (prima lettura). Le tribolazioni e le disgrazie del presente non debbono perturbare la pace dei cristiani, perché, mediante la loro perseveranza nella fede, riceveranno la salvezza futura (Vangelo). San Paolo invita i tessalonicesi ad imitarlo nella sua dedizione al lavoro, qui sulla terra, per ricevere poi nel mondo futuro la corona che non marcisce (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Cittadini di due mondi. Ogni uomo, che lo voglia o no, è iscritto nel registro di due mondi diversi. Uno è il mondo presente, la terra che calpestiamo e l’aria che respiriamo, un mondo passeggero, segnato dal limite e dalla caducità. L’altro mondo è il mondo in cui regna il sempre e l’infinitudine, il mondo futuro verso il quale l’uomo e la storia si incamminano. L’interessante è che questi due mondi si succedono cronologicamente, ma soprattutto si intrecciano e si incrociano nella vita degli uomini. Nessuno di essi ci è estraneo, in nessuno viviamo come se l’altro non esistesse. Nel mondo presente non possiamo non pensare al futuro, e nel mondo futuro non si potrà dimenticare il presente. Le vicissitudini della storia, i suoi conflitti e le sue pene ci rimandano quasi inesorabilmente verso il futuro. La gioia e la pienezza del mondo futuro solleciteranno il nostro interesse, perché tutti gli uomini di questo mondo possano raggiungerli. Come cittadini del presente, dobbiamo essere occupati e dediti al compito del progresso, della giustizia, dell’avanzare dell’umanesimo e della solidarietà, della crescita nei valori. Come cittadini del futuro, dobbiamo guardare verso l’instaurazione del Regno di Cristo e verso la santità dei cristiani. Il presente in cui viviamo è sfida di elezione e di rinuncia, il futuro sarà tempo di possesso e di gaudio. Il presente è tempo di ideali e di realizzazioni, il futuro lo sarà di incontro e di intimità. Il presente è tempo di costanza nella lotta, il futuro sarà tempo di riposo nella pace. Il presente è tempo di speranza nella fede e nell’amore, il futuro lo sarà di trionfo pieno dell’amore perfetto. Due mondi distinti, non distanti, ma uniti nel cuore dell’uomo. Due mondi in cui il cristiano deve vivere al meglio, facendo onore al suo nome.

La luce della giustizia. In questo mondo non sempre la luce della giustizia brilla con tutto il suo splendore. C’è anche molta tenebra di ingiustizia. E per questo l’uomo onesto e buono è insidiato dalla tentazione di dire: "È inutile servire Dio! Che cosa ci guadagniamo, osservarndo i suoi comandamenti?" (Prima lettura). Forse giungono alle nostre orecchie voci di falsi profeti che gridano: "Sono io!", o che predicono con presunzione: "Il tempo sta per giungere". (Vangelo). E giungono a preoccuparci queste voci, e creano nei cristiani una certa perplessità. All’oscuro circa il futuro, c’erano, anche tra i cristiani di Tessalonica, alcuni che "non lavoravano e si impicciavano di tutto" (Seconda lettura). Evidentemente, creavano confusione e perturbavano la vita e la pace della comunità. Questa tenebra di ingiustizia non è propria soltanto del tempo dell’Antico o del Nuovo Testamento, continua ad essere attualissima nel nostro tempo. Non c’è forse molta gente convinta del trionfo del male sul bene? Non ci sono di quelli che intimoriscono la gente, soprattutto semplice e senza molta cultura, parlando di rivelazioni ricevute sul fatto che la fine del mondo sta per arrivare? Non abbondano i falsi profeti e dottori, che gironzolano qua e là, insegnando dottrine erronee? La rivelazione di Dio, raccolta nei testi liturgici di questa domenica, ci ricorda: "Dio farà brillare la luce della giustizia". Può essere che questa luce già cominci a brillare in questo mondo, ma certamente il sole della giustizia irradierà i suoi raggi nel mondo futuro. Il cristiano, pertanto, in mezzo alle ingiustizie e alle persecuzioni, deve mantenersi tranquillo, paziente e in grande pace, perché Dio interverrà a suo tempo. "Con la vostra perseveranza, ci dice Gesù Cristo nel vangelo, salverete le vostre anime".

 

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

 

Il tempo della Chiesa. Tra la Pentecoste e la fine della storia si trova il tempo della Chiesa. Questa Chiesa che ha già 21 secoli, vive il presente cercando di essere fedele al suo Fondatore, e che guarda al futuro con speranza. Gesù Cristo non ha risparmiato tribolazioni a questa Chiesa. Ma non è stato nemmeno avaro con Lei in consolazioni. Nella sua storia passata e presente, vediamo una innumerevole fila di uomini e donne fedeli al loro Signore e, insieme, defezioni, falsi maestri, apostasia, tradimento. Durante i secoli, in molti luoghi dove non c’era pace, i cristiani santi hanno seminato pace e concordia tra gli uomini, ma ci sono stati anche cristiani, in questi stessi secoli, che hanno sparso discordia, guerra, rivoluzione, disaccordi nella famiglia, nei gruppi, umani, tra le nazioni. Ci sono stati, nella lunga storia del cristianesimo, re e governanti cristiani, estremamente santi, e che hanno fatto tanto bene. Al loro fianco, ci sono stati, allo stesso modo, e continuano ad esserci, re e governanti che hanno perseguitato i loro fratelli nella fede per motivi politici o per interessi ideologici. Nella storia ci sono anche i nemici di Dio e della sua Chiesa. Ricordiamo gli imperatori che, per tre secoli, con maggiore o minore intensità, perseguitarono il cristianesimo come religio illicita, e consideravano i cristiani come atei, perché non adoravano gli dei dell’Impero. Pensiamo ai tormenti che soffrirono i figli della Chiesa in Giappone e in Cina, per il fatto che il cristianesimo veniva considerato come straniero, e come estraneo completamente alle proprie tradizioni religiose. E che cosa dire della brutale persecuzione e dello sterminio del comunismo nei confronti dei cristiani, laddove il socialismo reale fu e continua ad essere un triste ed orrendo incubo dell’umanità nella sua storia? Il tempo della Chiesa è stato e continuerà ad essere così fino alla fine: tempo di tribolazione, e tempo di consolazione e di pace. Questa è la Chiesa in cui viviamo, quella che amiamo, e nella quale lavoriamo per il Regno di Dio!

Vivere il presente dal futuro. Molto spesso, si pensa che si debba vivere il presente con un occhio al passato, per apprendere dallo stesso, dato che "la storia è maestra della vita". Non nego che questo sia vero. Voglio segnalare, tuttavia, un aspetto proprio della nostra fede cristiana. Si deve vivere il presente come chi già avesse percorso il cammino della vita, e si trovasse nel mondo futuro. È chiaro che le prospettive e il modo di vivere il presente sarebbero molto diversi. Ciò vale nella vita dell’uomo: se fosse possibile vivere i venti anni dalla prospettiva dei sessanta, senza alcun dubbio si vivrebbero in un modo diverso. A maggior ragione vale quando ipoteticamente ci collochiamo nell’aldilà. Domandiamoci: dall’eternità, come avrei voluto vivere il giorno di oggi, questa situazione familiare, questo momento personale di crisi, questa relazione affettiva, questo ambiente di lavoro? Questo futuro crea una distanza tra noi e il nostro presente e, creando distanza, ci permette di vedere le cose con maggior pace ed obiettività. Questo futuro, ci mette nel mondo di Dio e, in questo modo, ci concede il potere di pensare alle diverse situazioni del presente e della vita con lo stesso modo di pensare di Dio. A partire dal futuro, conosciamo meglio e sappiamo applicare con maggior esattezza e coerenza al presente la regola della nostra fede e la misura della nostra condotta. Non si deve cadere nell’utopia, ma una scintilla di futuro nel nostro presente è sufficiente per accendere l’anima con nuovo ardore ed entusiasmo.

 

 

Solennità di CRISTO, RE DELL’UNIVERSO 25 novembre 2001

Prima: 2Sam 5, 1-3; seconda: Col 1, 12-20 Vangelo: Lc 23, 35-40

 

NESSO LOGICO TRA LE LETTURE

 

"Re di Israele, re dei giudei, regno del Figlio" sono le espressioni con cui la liturgia ci ricorda solennemente la gioiosa realtà di Gesù Cristo, re dell’universo. Il titolo della croce sulla quale Gesù morì per redimere gli uomini era il seguente: "Gesù nazareno, re dei giudei" (Vangelo). Storicamente, questo titolo risaliva fino a David, re di Israele, (Prima lettura) dal quale Gesù discendeva secondo la carne. Paolo, ricordando ai colossesi l’opera redentrice di Cristo, scrive loro: "Il Padre ci ha trasferito nel Regno del suo Figlio diletto, in cui abbiamo la redenzione: il perdono dei peccati" (Seconda lettura).

 

MESSAGGIO DOTTRINALE

 

Davide, re di Israele. Gli israeliti avevano cominciato la conquista della terra promessa alla fine del secolo XIII a.C., capeggiati da Giosuè. La conquista fu progressiva e si prolungò per molto tempo. Infine, si poté considerare conclusa, almeno in termini generali, e si procedette alla distribuzione della terra per tribù. Per lunghi decenni e lustri, ognuna delle tribù mantenne la sua indipendenza e la propria autonomia. Se qualche tribù si univa con un’altra, era fondamentalmente allo scopo di difesa o di attacco dei propri nemici. Durante questo periodo, si venne stabilendo quasi spontaneamente una differenziazione tra le tribù del Nord e quelle del Sud. Quando Samuele unse re Davide, lo fece soltanto sulle tribù del Sud (Giuda, Beniamino ed Efrain), e su di esse egli regnò sette anni ad Hebron. La personalità straordinaria di Davide, il suo genio militare, che riuscì a conquistare la fortezza di Gerusalemme, ritenuta inespugnabile, e la sua capacità innegabile di condottiero, indusse i capi delle tribù del Nord a proclamarlo anche loro re. "Il re Davide fece un patto con essi ad Hebron, in presenza di Javeh, ed unsero Davide come re di Israele" (Prima lettura). Fu un passo decisivo nella storia di Israele. Per la prima volta si ottenne l’unificazione delle dodici tribù, si instaurò un solo re e pertanto un solo comando politico-militare, e si scelse la città di Gerusalemme come capitale del nuovo regno di Israele e di Giuda. Il regno di Cristo, prolungamento del regno di Israele, è composto allo stesso modo da dodici "tribù", unite sotto il comando di un unico re, ed ha la sua capitale a Gerusalemme, capitale del regno messianico, inaugurato da Gesù Cristo sulla croce.

Gesù, re dei giudei. Questa è la causa per cui Gesù muore su una croce innalzata sul Golgota. Il testo è scritto in ebraico, in latino e in greco, affinché lo comprendessero tutti gli abitanti che erano venuti a Gerusalemme per celebrare la Pasqua nella primavera dell’anno 30 d.C. Un crocifisso, re dei giudei? Questa ignominia era insopportabile per le autorità di Gerusalemme. Perciò ricorsero a Pilato, a chiedergli di cambiare il titolo. Pilato non cedette. "Quanto ho scritto, ho scritto". Il titolo è occasione di burla e di sarcasmo da parte dei soldati romani: "Se tu sei re dei giudei, salva te stesso!" (Vangelo). Soltanto uno dei ladroni intuì che il regno di questo crocifisso doveva essere di altra natura che non il regno della terra, e così gli disse: "Ricordati di me, quando sarai nel tuo regno" (Vangelo). Il titolo è, quindi, veritiero, ma ci rimanda a un regno dalle altre caratteristiche: un Regno di verità e di vita, un Regno di santità e di grazia, un Regno di giustizia, di amore e di pace (Prefazio). Nella sottomissione "impotente" e dolorosa di un crocifisso al regno della forza dominante si trova la chiave e il fondamento del regno dell’amore, della misericordia e del perdono.

Il Regno del Figlio suo. Il Padre, chiamandoci alla fede cristiana, ci ha trasferito nel Regno di suo Figlio mediante il battesimo. Suo Figlio è Gesù di Nazareth, il crocifisso, adesso risorto e glorioso. Il regno del Figlio non è più soltanto un popolo o una razza. Non è soltanto il regno interiore nel cuore degli uomini. È per aggiunta il regno sul cosmo, su tutta la creazione. "In lui furono create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili, troni, dominazioni, principati, potestà: tutto venne creato per mezzo di lui e per lui" (seconda lettura). Per il figlio, "re" non è meramente un titolo, corrisponde alla sua essenza. Nulla è al di fuori della sua sovranità, né il tempo, né l’aldilà del tempo. Il Figlio è il re dell’universo in tutta la sua grandezza e splendore, con tutta la sua potenza ed energia. È il re della storia, colui che domina e dirige tutti gli avvenimenti umani verso il loro fine. È il re degli individui, nei quali regna per mezzo della fede, della speranza e della carità, della giustizia, della pace e della solidarietà.

 

SUGGERIMENTI PASTORALI

 

"Il condizionale del dubbio". "Se sei re": ecco l’eterna tentazione dell’uomo sprofondato nella sua miseria ed indigenza. "Se sei il Figlio di Dio", così è il tentatore, e così sono stati tanti uomini nel corso della storia. "Se sei buono" perché regna tanto male intorno a noi?, "Se mi ami", perché, invece del fatto che regni il tuo amore in me, regna, al contrario, il disordine delle passioni, l’egoismo sfrenato? "Se sei re", come è possibile che ci siano dei governi miscredenti ed atei, che perseguitano, incarcerano ed assassinano i loro sudditi? "Se sei re", che tipo di sovranità è la tua, che tanto si nasconde, fino al punto di svanire e giungere quasi a scomparire? "Se sei re". Il dubbio ci avvelena e ci scuote interiormente. Il condizionale ci morde l’anima, fino alla ferita mortale. "Questo di Cristo Re, non sarà un racconto di fate o una delle tante utopie che percorrono la storia?". "Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera" canta la Chiesa. "Questo è verità, o è piuttosto un esagerato trionfalismo?" Siamo coraggiosi, togliamo una volta per tutte il "se" condizionale dalle nostre relazioni con Gesù Cristo Re. Invece di dubitare, ringraziamo il Padre di non aver voluto instaurare un regno come avremmo voluto noi uomini, secondo la misura dei nostri desideri e delle nostre meschine concezioni delle cose. Cristo regna secondo il suo disegno e la sua misura, non secondo la nostra. Il Regno di Cristo si riceve come un regalo, come una rivelazione del cielo; non è frutto di una mente umana privilegiata, né dell’accordo decisionale degli uomini. Il Regno di Cristo si installa nella vita degli uomini, però non è un albero ormai fatto, ma una pianta che cresce. Dal momento in cui poniamo il regno di Cristo sotto le legge del condizionale, siamo pur sicuri di correre il rischio di non comprenderlo, e di rimanerne fuori.

Venga il tuo Regno! Tertulliano, nel suo commento al padrenostro, scrive: "Che il tuo Regno venga il più presto possibile, è il desiderio dei cristiani, è la confusione per le nazioni. Noi gioiamo per questo, ma ancor più preghiamo per la sua venuta". È un desiderio che noi cristiani andiamo ripetendo da 21 secoli. Venga alla nostra terra il tuo regno di pace nei Balcani, nella terra di Israele, in Malesia, nel corno d’Africa, o nella regione dei grandi laghi africani, in tutte le nazioni. Venga sulla nostra terra il tuo regno di giustizia di fronte alla corruzione invadente, di fronte a tante differenze sociali ed economiche, di fronte a tanta degradazione morale. Venga il tuo regno di amore tra gli sposi, tra padri e figli, tra membri di differenti razze o religioni; di amore verso i bambini e verso gli anziani, verso i poveri e i malati, verso tutti i più bisognosi di assistenza, di affetto, di tenerezza. Sappiamo che il Regno di Cristo vive in una situazione di tensione permanente, perché lo esige la sua stessa crescita, perché incontra delle resistenze alla sua azione di trasformazione. Ciononostante, affinché giunga questo regno di pace, di giustizia e di amore, lavoriamo, soffriamo, preghiamo, noi cristiani e tutti gli uomini di buona volontà. Venga il tuo Regno! Sia questo il grido con cui annunciamo un nuovo giorno, e con cui, alla sera, chiudiamo il duro lottare della giornata. "Affinché, diciamo con san Cipriano, noi che lo abbiamo servito in questa vita, regniamo nell’altra con Cristo Re, come egli stesso ci ha promesso".