CONGREGATIO PRO CLERICIS
“Sacerdoti, forgiatori di Santi per il nuovo millennio”
La santità paolina verso
l’evangelizzazione
Card. Camillo Ruini,
Vicario di Sua Santità per la
Diocesi di Roma
Presidente della C.E.I.
A partire dal
Concilio Vaticano II, e in particolare con l’Esortazione Apostolica di Paolo VI
Evangelii nuntiandi (anno 1975) e con tutto il Pontificato di
Giovanni Paolo II, le due grandi chiamate alla santità e all’evangelizzazione
vengono continuamente proposte all’attenzione dell’intero corpo della Chiesa e
specificamente di noi sacerdoti, mettendo contestualmente in risalto la loro
intima connessione. E’ dunque molto felice la scelta del tema generale di
questo Convegno Internazionale dei Sacerdoti, “Il sacerdote, forgiatore di
santi per il terzo millennio”, ed è ben giusto che al suo interno sia dedicata
a più riprese speciale attenzione alla testimonianza e alla teologia
dell’Apostolo Paolo.
In
questa meditazione, dal titolo “La santità paolina verso l’evangelizzazione”,
vorrei mettere in luce anzitutto ciò che costituisce il nucleo e il senso
fondamentale della chiamata di Paolo e per conseguenza di tutta la sua vita e
missione apostolica. Prima del giorno drammatico in cui Cristo gli si manifesta
sulla via di Damasco, Paolo è tutt’altro che un uomo senza certezze o di
cattiva condotta morale: al contrario, nella lettera ai Filippesi (3,4-6)
come in quella ai Galati (1,14), egli definisce il Saulo di quel tempo
come “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della
legge”. Eppure, subito dopo aggiunge: “Ma quello che poteva essere per me un
guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io
reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù,
mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero
come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovati in lui, non
con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla
fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede”.
Così Paolo scrive in Filippesi (3,7-9) e sarebbe bello continuare a leggere
questo testo tanto forte e illuminante, che esprime il senso autentico e
totalmente cristocentrico della santità, come Paolo l’ha vissuta e l’ha
concepita.
Ma
cosa ha visto Paolo, in concreto, in questa “conoscenza” di Cristo, cosa lo ha
sedotto e lo ha rapito? Non si tratta soltanto di conoscenza della verità di
Cristo, della sua risurrezione, della sua gloria divina. Si tratta anche, e
soprattutto, della conoscenza, della scoperta di un incommensurabile amore.
Paolo già conosceva l’amore dimostrato dal Dio dei suoi padri verso il popolo
di Israele, conosceva le parole con cui il Deuteronomio, Isaia, Osea, Geremia,
Ezechiele hanno cantato e testimoniato questo amore. Eppure, in Gesù Cristo
morto e risorto per noi, Paolo scoprì un amore che superava radicalmente tutto
ciò che avrebbe mai immaginato. Si sentì allora “conquistato” da Cristo (Fil
3,12) o, come spiega più ampiamente nella lettera ai Romani (5,5-11),
“La speranza… non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri
cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi
eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi, nel tempo stabilito. Ora, a
stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto… Ma Dio dimostra il suo
amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per
noi…” Perciò, con timore e tremore, egli esclama: “Il Figlio di Dio… mi ha
amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
Questo
amore divenne il fattore trainante della vita di Paolo proprio perché egli,
sotto l’impulso dello Spirito, riuscì a cogliere e a comprendere la sua
radicalità e universalità: “L’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è
morto per tutti” (2 Cor 5,14). Di qui nasce, cioè, la spinta
irrefrenabile verso l’evangelizzazione e così la santità paolina, o meglio,
autenticamente cristiana, è intimamente connessa con la missione e
l’evangelizzazione.
Infatti,
come gli uomini potrebbero conoscere l’amore di Cristo se non ne sentissero
parlare, se esso non fosse loro annunciato e testimoniato? Così dice
espressamente Paolo stesso: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà
salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come
potranno credere senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare
senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati?
Come sta scritto: ‘Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto
annuncio di bene!’” (Rom 10,13-15).
In
realtà, come l’incontro di Paolo con Cristo cambia totalmente la sua vita, ricostruendola
in modo radicalmente nuovo intorno a Cristo come principio e criterio unico e
assoluto, per cui Paolo stesso è, in Cristo, “una creatura nuova” (2 Cor
5,17), così questa novità di vita si esprime, da subito, nella missione:
“quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua
grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo
ai pagani, subito, senza consultare nessuno uomo, senza andare a Gerusalemme da
coloro che erano Apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a
Damasco…” (Gal 1,15-17).
Da
quel momento, e per sempre, Paolo si sente debitore verso tutti di quel dono
immenso, Gesù Cristo, l’amore di Dio in Gesù Cristo, che egli stesso ha
gratuitamente ricevuto: “sono in debito verso i greci come verso i barbari,
verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in
me, a predicare il Vangelo anche a voi di Roma” (Rom 1,14-15).
Di
più, questo “debito” del Vangelo è per Paolo nello stesso tempo un mandato ricevuto
dal Signore e un bisogno interiore, una necessità esistenziale, che non può
essere soddisfatta soltanto con l’annuncio della parola di salvezza ma richiede
il dono e la dedizione di tutta la vita: “Non è infatti per me un vanto
predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il
Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto a una ricompensa; ma se non
lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Quale è
dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il Vangelo…
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per
guadagnare il maggior numero: mi sono fatto giudeo con i giudei, per guadagnare
i giudei… Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto
tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il
Vangelo, per diventarne partecipe con loro” (2Cor 9,16-23).
Le
difficoltà incontrate da Paolo nel suo apostolato divennero così per lui ben di
più che degli ostacoli esterni, da affrontare e superare per raggiungere il
proprio scopo. Esse sono la via stessa attraverso la quale si compie la
comunicazione della salvezza. Se infatti l’amore di Dio si era manifestato
nell’offerta che Cristo aveva fatto di se stesso, in nessun altro modo si
poteva mostrare a tutti questo medesimo amore. Perciò, fin dalla 1ª
Tessalonicesi, la lettera che Paolo ha scritto per prima, egli afferma “avremmo
desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita” (1Ts
2,8).
Quanto
seriamente e concretamente la croce sia stata presente nella vita e nella
missione di Paolo ce lo dicono le sue lettere, in termini spesso drammatici.
Indimenticabile, soprattutto, la testimonianza di sé che egli rende nella 2ª
Corinzi 11, 23-29: “… spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai
giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le
verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho
trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli
di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai
pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli
da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e
sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio
assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che
anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?…”.
Se
collochiamo l’enorme attività di Paolo come missionario itinerante nel contesto
concreto delle condizioni di vita del mondo antico e in particolare della
resistenza e ostilità da lui incontrate, non fatichiamo a renderci conto che
questa sua denuncia non è esagerata, ma crudamente realistica. Ma altrettanto realistiche,
del realismo della fede, sono le parole con cui Paolo, nella stessa 2ª
Corinzi 4,7-12, mette in luce come proprio dalla debolezza e dalla croce la
potenza di Dio faccia sgorgare la salvezza e la vita: “Siamo… tribolati da ogni
parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati; perseguitati, ma
non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro
corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro
corpo… Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita”.
Proprio
perché entrambe ugualmente caratterizzate dall’esperienza della croce, la
santificazione personale e la dedizione missionaria sono dunque, in Paolo,
piene di fiducia e di speranza, sostenute dalla certezza della speranza, così
come la croce di Cristo sfocia nella pienezza di vita della risurrezione. Ce lo
dice con la più grande forza la magnifica conclusione del capitolo 8° della
lettera ai Romani: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la
tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la
spada?… Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori, per virtù di Colui
che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, … né
alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù,
nostro Signore” (Rom 8,35-39).
Riguardo
al significato e al valore di questa speranza e di questa fiducia, Paolo è
comunque molto preciso: esse non possono in alcun modo essere confinate entro
un orizzonte soltanto terreno, altrimenti perderebbero ogni sostanza e
consistenza: “se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione
ed è vana anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati… Se poi
noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da
compiangere più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,12-19).
Paolo,
come abbiamo visto, è stato sedotto dall’amore di Dio manifestatosi in Gesù
Cristo : la sua santità come il suo slancio missionario nascono dall’aver
creduto e cercato di corrispondere a questo amore. Perciò Paolo è estremamente
attento alle esigenze concrete del medesimo amore, che presenta ad esempio nel
celebre inno all’agápe di 1 Cor 13,4-7: “La carità è paziente, è benigna
la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di
rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male
ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre,
tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.
Si
avverte, dietro queste parole, l’esperienza personale dell’Apostolo, forte,
coraggioso e oserei dire “irriducibile” combattente per la causa di Gesù
Cristo, eppure straordinariamente affettuoso e amorevole (1 Ts 2,7:
“siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle
proprie creature”), capace di mostrare proprio a coloro che era costretto a
rimproverare la più delicata tenerezza : “Vi ho scritto in un momento di grande
afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime, però non per rattristarvi
ma per farvi conoscere l’affetto immenso che ho per voi” (2 Cor 2,4).
Perciò Paolo ha potuto avanzare la richiesta “Fatevi miei imitatori, come io lo
sono di Cristo” (1 Cor 11,1), con la stessa semplicità e umiltà
con cui poco prima aveva scritto: “Forse Paolo (e non invece Cristo) è stato
crocifisso per voi?” (1 Cor 1,13).
Proprio
perché crede nell’amore che Dio ha per noi in Gesù Cristo e si sente totalmente
coinvolto a vivere, esprimere e diffondere questo amore, Paolo, in tutta la sua
attività missionaria, è un grande costruttore di comunità e rimane sempre
custode estremamente sollecito dell’unità e della pace delle comunità che ha
impiantato. In particolare nella 1ª lettera ai Corinzi emerge il compito
specifico che Paolo rivendica per il proprio apostolato: egli è colui che ha
“piantato” la comunità che poi Apollo ha irrigato e che Dio stesso ha fatto
crescere (cfr 1 Cor 3,6). Soprattutto, soltanto Paolo è il padre della
comunità, colui che l’ha generata alla vita in Cristo: “Potreste infatti avere
anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io
che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo” (1 Cor 4,15).
Perciò egli chiama i credenti di Corinto “figli miei carissimi” e li esorta
“fatevi miei imitatori!” (ivi, vv.14 e 16).
L’attività
missionaria di Paolo consiste senza dubbio in primo luogo nell’annuncio del
“Vangelo di Cristo” (1 Tess 3,2 ecc.) e cerca la conversione di ogni
singola persona, ma tutto ciò doveva condurre verso un obiettivo più ampio,
formare comunità di credenti regione per regione, da un capo all’altro del
mondo allora conosciuto. Perciò Paolo definisce il proprio ruolo come quello di
“un sapiente architetto”, che certo pone anzitutto “il fondamento”, ma ha di
mira l’intera costruzione (cfr 1 Cor 3,10).
Di
più, egli afferma ripetutamente di dover non solo fondare le comunità dei
credenti ma anche nutrirle (cfr 1 Tess 2,7), non solo generarle ma anche
allevarle, non solo piantarle ma anche coltivarle: è questo il suo “assillo
quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese” di cui parla in 2 Cor
11,28. Per questo Paolo continua a visitare regolarmente le Chiese che ha
fondato e, nella lettera ai Romani, spiega che la sua lettera e la visita che
intende fare a quella comunità hanno l’intenzione di fortificarla e farla
crescere in Cristo, in virtù del mandato apostolico e missionario di Paolo
stesso (cfr Rom 1,5-15; 15,14-24).
Il
medesimo intento di dare attuazione concreta a quell’amore di Dio in Gesù
Cristo che ha cambiato la sua vita e che genera la “nuova creatura” rende Paolo
estremamente sollecito dell’unità e della comunione all’interno di ciascuna
comunità e fra tutte le comunità dei credenti. E’ un’unità che scaturisce
dall’unità stessa di Cristo (cfr 1 Cor 1,13: “Cristo è stato forse
diviso?”) e appartiene costitutivamente alla Chiesa, “corpo di Cristo” (cfr 1
Cor 12,27: “ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua
parte”; Col 1,18: “Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa”).
E’
dunque molto chiaro che in Paolo sia la santità sia la dedizione missionaria
hanno, in maniera assai marcata, una caratterizzazione non soltanto
cristologica ma anche ed inseparabilmente ecclesiale: dopo l’esperienza
dell’incontro con Cristo sulla strada di Damasco, in quest’unica direzione e a
quest’unico scopo Paolo ha messo in gioco e speso tutta la sua vita.
Finora
abbiamo soprattutto ascoltato dai testi stessi di Paolo come egli concepisce e
vive la chiamata alla santità e alla missione. A questo punto cercheremo di
formulare alcune considerazioni che attualizzino l’esperienza e il pensiero di
Paolo a noi e al nostro presente ecclesiale.
Prima
però è bene ricordare ancora due cose. Anzitutto, come è noto, Paolo è solito
rivolgersi ai membri delle comunità cristiane con l’appellativo di “santi”. Che
non si tratti semplicemente di una formula risulta già dal fatto che questo
termine è unito varie volte a quello di “chiamati”: così in Rom 1,7, “A
quanti sono in Roma, diletti da Dio e santi per vocazione (ossia per
chiamata)”, e in 1 Cor 1,2, “alla Chiesa di Dio che è in Corinto, a
coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi
insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro
Gesù Cristo”. In entrambi i casi, subito prima Paolo applica il concetto di
chiamata a se stesso e alla sua missione: Rom 1,1 “Paolo, servo di Gesù
Cristo, apostolo per vocazione”; 1 Cor 1,1 “Paolo, chiamato ad essere
apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio”. Per Paolo, chi accoglie nella fede
la testimonianza apostolica della risurrezione di Cristo entra dunque in un
processo, caratterizzato dalla dinamica dell’amore, in cui il credente - a
somiglianza di quanto accadde a Paolo stesso sulla via di Damasco - è coinvolto
dall’azione di Dio, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo (cfr rispettivamente 1
Tess 5,23; 1 Cor 1,2; Rom 15,16) e così è “santificato”, reso santo,
liberato dalla servitù del peccato e configurato a Cristo, fatto “nuova
creatura”.
In
secondo luogo, Paolo ha certamente una convinzione ben precisa della singolarità
della propria chiamata di Apostolo delle genti, ma al tempo stesso è un grande
suscitatore di energie apostoliche e missionarie tra coloro che abbracciano
Cari
sacerdoti, ciascuno di noi è, personalmente, tra questi collaboratori di Dio in
Gesù Cristo e tutti noi lo siamo insieme, nell’unità dei presbiteri con i
propri Vescovi e di tutti i Vescovi tra loro, successori del Collegio
apostolico.
Affinché
il nostro cammino di santificazione e il nostro impegno pastorale e missionario
portino quei frutti per i quali il Signore ci ha scelti e ci ha chiamati, deve
compiersi anche in noi, in forme corrispondenti alla situazione attuale della
Chiesa e della cultura e secondo la chiamata e la personalità proprie di
ciascuno, la sostanza di ciò che Dio ha compiuto in Paolo, facendo di lui la
“nuova creatura” e l’Apostolo delle genti.
Non
possiamo, cioè, adempiere coerentemente ed efficacemente alla nostra missione
di sacerdoti se non fidandoci totalmente dell’amore di Dio in Gesù Cristo.
Anche noi siamo chiamati a fare esperienza di quest’amore, attraverso la fede
in Cristo risorto e la contemplazione del suo volto, rivelatore del volto del
Padre. La nostra fede, a differenza da quella di Paolo, si basa sulla
testimonianza apostolica e non sull’esperienza dell’incontro diretto con Gesù
risorto. Non si riduce però all’ascolto di questa testimonianza e a una scelta
della nostra volontà: anche dentro di noi, infatti, opera il Signore tramite il
suo Spirito e questa presenza e azione interiore dello Spirito è il fondamento
e l’inizio di un’esperienza di Dio, dell’amore di Dio in Gesù Cristo, che è
destinata a crescere, ad approfondirsi e a rafforzarsi nella misura in cui le
lasciamo spazio, la accogliamo nella nostra libertà, anzi, le consegniamo la
nostra libertà.
Così
la preghiera, liturgica e personale, la meditazione della parola di Dio, il
silenzio interiore sono lo spazio in cui anche noi ci lasciamo “conquistare” da
Dio (cfr Fil 3,12) e diventiamo strumenti di salvezza nelle sue mani.
Si
accende allora in noi e si alimenta sempre di nuovo quel fuoco che ardeva
nell’Apostolo Paolo e da cui nascevano il suo zelo missionario e la sua
sollecitudine per tutte le Chiese. Questo fuoco, che in realtà è la
partecipazione in noi, per il dono dello Spirito Santo, dell’amore salvifico di
Dio in Gesù Cristo per tutto il genere umano, costituisce la vera sorgente ed
energia della nostra passione e creatività missionaria. Da qui nasce anzitutto
la disponibilità personale a spendere noi stessi per la salvezza dei fratelli,
portando la nostra croce, unitamente a quella ricerca instancabile, mai
rassegnata e sempre fiduciosa, delle vie e dei modi per offrire a tutti, nel
concreto della situazione di ciascuno, la possibilità dell’incontro con Cristo,
che è la caratteristica dell’apostolo autentico.
Da
qui nasce anche l’amore sincero per il corpo di Cristo che è la Chiesa, con la
prontezza e la gioia di identificarsi con essa e di donarsi per essa. Il
sacerdote è per la Chiesa e oggi, in particolare, è spesso chiamato a dare
nuova vita o anche a “reimpiantare”
In
questa sua dedizione quotidiana per portare gli uomini a Cristo e tenerli uniti,
come un’unica grande famiglia, nella comunione della Chiesa, il sacerdote,
essendo mosso dall’amore, cerca sempre di comportarsi secondo la legge
dell’amore e di essere testimone dell’amore, per far sì, come disse il Papa 19
anni fa alla Chiesa italiana riunita in convegno a Loreto, che “l’amore di Dio
per gli uomini possa essere in qualche modo sperimentato e quasi toccato con
mano”. L’unità profonda che emerge nelle lettere e nella vita di Paolo tra
fede, speranza e carità, per cui “la fede… opera per mezzo della carità” (Gal
5,6), chiede di essere costantemente inverata nella nostra vita e nel
nostro apostolato, così che il nostro amore del prossimo e tutto il nostro
servizio alle sue necessità, anche materiali, nascano chiaramente dal nostro
radicamento in Cristo e siano quindi una testimonianza che conduce a lui.
Cari
fratelli nel sacerdozio, per intercessione di Maria nostra madre, del suo sposo
Giuseppe, degli Apostoli Pietro e Paolo, il nostro personale e sempre rinnovato
e approfondito incontro con Cristo morto e risorto, che ci ha amati e ha dato
se stesso per noi (cfr Gal 2,20), faccia davvero diventare ciascuno di
noi debitore e annunciatore della sua grazia e del suo Vangelo di salvezza, per
dire e testimoniare a tutti quelli che ci sono affidati: “tutto è vostro… il
mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete
di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor 3,21-23).