CONGREGATIO PRO CLERICIS

 

 

 

Universalis Presbyterorum Conventus

 

“Sacerdoti, forgiatori di Santi per il nuovo millennio

 

Sulle orme dell’Apostolo Paolo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La santità paolina verso l’evangelizzazione

 

Card. Camillo Ruini,

Vicario di Sua Santità per la Diocesi di Roma

Presidente della C.E.I.

 

Meditazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Malta

20 ottobre 2004

 

 

 

A partire dal Concilio Vaticano II, e in particolare con l’Esortazione Apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi (anno 1975) e con tutto il Pontificato di Giovanni Paolo II, le due grandi chiamate alla santità e all’evangelizzazione vengono continuamente proposte all’attenzione dell’intero corpo della Chiesa e specificamente di noi sacerdoti, mettendo contestualmente in risalto la loro intima connessione. E’ dunque molto felice la scelta del tema generale di questo Convegno Internazionale dei Sacerdoti, “Il sacerdote, forgiatore di santi per il terzo millennio”, ed è ben giusto che al suo interno sia dedicata a più riprese speciale attenzione alla testimonianza e alla teologia dell’Apostolo Paolo.

            In questa meditazione, dal titolo “La santità paolina verso l’evangelizzazione”, vorrei mettere in luce anzitutto ciò che costituisce il nucleo e il senso fondamentale della chiamata di Paolo e per conseguenza di tutta la sua vita e missione apostolica. Prima del giorno drammatico in cui Cristo gli si manifesta sulla via di Damasco, Paolo è tutt’altro che un uomo senza certezze o di cattiva condotta morale: al contrario, nella lettera ai Filippesi (3,4-6) come in quella ai Galati (1,14), egli definisce il Saulo di quel tempo come “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge”. Eppure, subito dopo aggiunge: “Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovati in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede”. Così Paolo scrive in Filippesi (3,7-9) e sarebbe bello continuare a leggere questo testo tanto forte e illuminante, che esprime il senso autentico e totalmente cristocentrico della santità, come Paolo l’ha vissuta e l’ha concepita.

            Ma cosa ha visto Paolo, in concreto, in questa “conoscenza” di Cristo, cosa lo ha sedotto e lo ha rapito? Non si tratta soltanto di conoscenza della verità di Cristo, della sua risurrezione, della sua gloria divina. Si tratta anche, e soprattutto, della conoscenza, della scoperta di un incommensurabile amore. Paolo già conosceva l’amore dimostrato dal Dio dei suoi padri verso il popolo di Israele, conosceva le parole con cui il Deuteronomio, Isaia, Osea, Geremia, Ezechiele hanno cantato e testimoniato questo amore. Eppure, in Gesù Cristo morto e risorto per noi, Paolo scoprì un amore che superava radicalmente tutto ciò che avrebbe mai immaginato. Si sentì allora “conquistato” da Cristo (Fil 3,12) o, come spiega più ampiamente nella lettera ai Romani (5,5-11), “La speranza… non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi, nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto… Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi…” Perciò, con timore e tremore, egli esclama: “Il Figlio di Dio… mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).

            Questo amore divenne il fattore trainante della vita di Paolo proprio perché egli, sotto l’impulso dello Spirito, riuscì a cogliere e a comprendere la sua radicalità e universalità: “L’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti” (2 Cor 5,14). Di qui nasce, cioè, la spinta irrefrenabile verso l’evangelizzazione e così la santità paolina, o meglio, autenticamente cristiana, è intimamente connessa con la missione e l’evangelizzazione.

            Infatti, come gli uomini potrebbero conoscere l’amore di Cristo se non ne sentissero parlare, se esso non fosse loro annunciato e testimoniato? Così dice espressamente Paolo stesso: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: ‘Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!’” (Rom 10,13-15).

            In realtà, come l’incontro di Paolo con Cristo cambia totalmente la sua vita, ricostruendola in modo radicalmente nuovo intorno a Cristo come principio e criterio unico e assoluto, per cui Paolo stesso è, in Cristo, “una creatura nuova” (2 Cor 5,17), così questa novità di vita si esprime, da subito, nella missione: “quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessuno uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano Apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco…” (Gal 1,15-17).

            Da quel momento, e per sempre, Paolo si sente debitore verso tutti di quel dono immenso, Gesù Cristo, l’amore di Dio in Gesù Cristo, che egli stesso ha gratuitamente ricevuto: “sono in debito verso i greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il Vangelo anche a voi di Roma” (Rom 1,14-15).

            Di più, questo “debito” del Vangelo è per Paolo nello stesso tempo un mandato ricevuto dal Signore e un bisogno interiore, una necessità esistenziale, che non può essere soddisfatta soltanto con l’annuncio della parola di salvezza ma richiede il dono e la dedizione di tutta la vita: “Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto a una ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il Vangelo… Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero: mi sono fatto giudeo con i giudei, per guadagnare i giudei… Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro” (2Cor 9,16-23).

            Le difficoltà incontrate da Paolo nel suo apostolato divennero così per lui ben di più che degli ostacoli esterni, da affrontare e superare per raggiungere il proprio scopo. Esse sono la via stessa attraverso la quale si compie la comunicazione della salvezza. Se infatti l’amore di Dio si era manifestato nell’offerta che Cristo aveva fatto di se stesso, in nessun altro modo si poteva mostrare a tutti questo medesimo amore. Perciò, fin dalla 1ª Tessalonicesi, la lettera che Paolo ha scritto per prima, egli afferma “avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita” (1Ts 2,8).

            Quanto seriamente e concretamente la croce sia stata presente nella vita e nella missione di Paolo ce lo dicono le sue lettere, in termini spesso drammatici. Indimenticabile, soprattutto, la testimonianza di sé che egli rende nella 2ª Corinzi 11, 23-29: “… spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?…”.

            Se collochiamo l’enorme attività di Paolo come missionario itinerante nel contesto concreto delle condizioni di vita del mondo antico e in particolare della resistenza e ostilità da lui incontrate, non fatichiamo a renderci conto che questa sua denuncia non è esagerata, ma crudamente realistica. Ma altrettanto realistiche, del realismo della fede, sono le parole con cui Paolo, nella stessa 2ª Corinzi 4,7-12, mette in luce come proprio dalla debolezza e dalla croce la potenza di Dio faccia sgorgare la salvezza e la vita: “Siamo… tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo… Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita”.

            Proprio perché entrambe ugualmente caratterizzate dall’esperienza della croce, la santificazione personale e la dedizione missionaria sono dunque, in Paolo, piene di fiducia e di speranza, sostenute dalla certezza della speranza, così come la croce di Cristo sfocia nella pienezza di vita della risurrezione. Ce lo dice con la più grande forza la magnifica conclusione del capitolo 8° della lettera ai Romani: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?… Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori, per virtù di Colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, … né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rom 8,35-39).

            Riguardo al significato e al valore di questa speranza e di questa fiducia, Paolo è comunque molto preciso: esse non possono in alcun modo essere confinate entro un orizzonte soltanto terreno, altrimenti perderebbero ogni sostanza e consistenza: “se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati… Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,12-19).

            Paolo, come abbiamo visto, è stato sedotto dall’amore di Dio manifestatosi in Gesù Cristo : la sua santità come il suo slancio missionario nascono dall’aver creduto e cercato di corrispondere a questo amore. Perciò Paolo è estremamente attento alle esigenze concrete del medesimo amore, che presenta ad esempio nel celebre inno all’agápe di 1 Cor 13,4-7: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.

            Si avverte, dietro queste parole, l’esperienza personale dell’Apostolo, forte, coraggioso e oserei dire “irriducibile” combattente per la causa di Gesù Cristo, eppure straordinariamente affettuoso e amorevole (1 Ts 2,7: “siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature”), capace di mostrare proprio a coloro che era costretto a rimproverare la più delicata tenerezza : “Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime, però non per rattristarvi ma per farvi conoscere l’affetto immenso che ho per voi” (2 Cor 2,4). Perciò Paolo ha potuto avanzare la richiesta “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11,1), con la stessa semplicità e umiltà con cui poco prima aveva scritto: “Forse Paolo (e non invece Cristo) è stato crocifisso per voi?” (1 Cor 1,13).

            Proprio perché crede nell’amore che Dio ha per noi in Gesù Cristo e si sente totalmente coinvolto a vivere, esprimere e diffondere questo amore, Paolo, in tutta la sua attività missionaria, è un grande costruttore di comunità e rimane sempre custode estremamente sollecito dell’unità e della pace delle comunità che ha impiantato. In particolare nella 1ª lettera ai Corinzi emerge il compito specifico che Paolo rivendica per il proprio apostolato: egli è colui che ha “piantato” la comunità che poi Apollo ha irrigato e che Dio stesso ha fatto crescere (cfr 1 Cor 3,6). Soprattutto, soltanto Paolo è il padre della comunità, colui che l’ha generata alla vita in Cristo: “Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo” (1 Cor 4,15). Perciò egli chiama i credenti di Corinto “figli miei carissimi” e li esorta “fatevi miei imitatori!” (ivi, vv.14 e 16).    

            L’attività missionaria di Paolo consiste senza dubbio in primo luogo nell’annuncio del “Vangelo di Cristo” (1 Tess 3,2 ecc.) e cerca la conversione di ogni singola persona, ma tutto ciò doveva condurre verso un obiettivo più ampio, formare comunità di credenti regione per regione, da un capo all’altro del mondo allora conosciuto. Perciò Paolo definisce il proprio ruolo come quello di “un sapiente architetto”, che certo pone anzitutto “il fondamento”, ma ha di mira l’intera costruzione (cfr 1 Cor 3,10).

            Di più, egli afferma ripetutamente di dover non solo fondare le comunità dei credenti ma anche nutrirle (cfr 1 Tess 2,7), non solo generarle ma anche allevarle, non solo piantarle ma anche coltivarle: è questo il suo “assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese” di cui parla in 2 Cor 11,28. Per questo Paolo continua a visitare regolarmente le Chiese che ha fondato e, nella lettera ai Romani, spiega che la sua lettera e la visita che intende fare a quella comunità hanno l’intenzione di fortificarla e farla crescere in Cristo, in virtù del mandato apostolico e missionario di Paolo stesso (cfr Rom 1,5-15; 15,14-24).

            Il medesimo intento di dare attuazione concreta a quell’amore di Dio in Gesù Cristo che ha cambiato la sua vita e che genera la “nuova creatura” rende Paolo estremamente sollecito dell’unità e della comunione all’interno di ciascuna comunità e fra tutte le comunità dei credenti. E’ un’unità che scaturisce dall’unità stessa di Cristo (cfr 1 Cor 1,13: “Cristo è stato forse diviso?”) e appartiene costitutivamente alla Chiesa, “corpo di Cristo” (cfr 1 Cor 12,27: “ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte”; Col 1,18: “Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa”).

            E’ dunque molto chiaro che in Paolo sia la santità sia la dedizione missionaria hanno, in maniera assai marcata, una caratterizzazione non soltanto cristologica ma anche ed inseparabilmente ecclesiale: dopo l’esperienza dell’incontro con Cristo sulla strada di Damasco, in quest’unica direzione e a quest’unico scopo Paolo ha messo in gioco e speso tutta la sua vita.

            Finora abbiamo soprattutto ascoltato dai testi stessi di Paolo come egli concepisce e vive la chiamata alla santità e alla missione. A questo punto cercheremo di formulare alcune considerazioni che attualizzino l’esperienza e il pensiero di Paolo a noi e al nostro presente ecclesiale.

            Prima però è bene ricordare ancora due cose. Anzitutto, come è noto, Paolo è solito rivolgersi ai membri delle comunità cristiane con l’appellativo di “santi”. Che non si tratti semplicemente di una formula risulta già dal fatto che questo termine è unito varie volte a quello di “chiamati”: così in Rom 1,7, “A quanti sono in Roma, diletti da Dio e santi per vocazione (ossia per chiamata)”, e in 1 Cor 1,2, “alla Chiesa di Dio che è in Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo”. In entrambi i casi, subito prima Paolo applica il concetto di chiamata a se stesso e alla sua missione: Rom 1,1 “Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione”; 1 Cor 1,1 “Paolo, chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio”. Per Paolo, chi accoglie nella fede la testimonianza apostolica della risurrezione di Cristo entra dunque in un processo, caratterizzato dalla dinamica dell’amore, in cui il credente - a somiglianza di quanto accadde a Paolo stesso sulla via di Damasco - è coinvolto dall’azione di Dio, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo (cfr rispettivamente 1 Tess 5,23; 1 Cor 1,2; Rom 15,16) e così è “santificato”, reso santo, liberato dalla servitù del peccato e configurato a Cristo, fatto “nuova creatura”.

            In secondo luogo, Paolo ha certamente una convinzione ben precisa della singolarità della propria chiamata di Apostolo delle genti, ma al tempo stesso è un grande suscitatore di energie apostoliche e missionarie tra coloro che abbracciano la fede. Nelle sue lettere e negli Atti degli Apostoli sono menzionati ben un centinaio di suoi “collaboratori” nella missione, alcuni dei quali a tutti noi ben conosciuti: Barnaba e Marco, Timoteo e Tito, Luca e Sila, Aquila e Priscilla, “collaboratori” di Paolo, ma anche di Dio, in Gesù Cristo (cfr Rom 16,9; 1 Cor 3,9 ecc). Tra questi collaboratori emergono, specialmente nelle Lettere Pastorali, coloro che hanno ricevuto il dono dello Spirito mediante l’imposizione delle mani (cfr 1 Tim 4,14; 5,22; 2 Tim 1,6; Tit 1,5-9; 2,15).

            Cari sacerdoti, ciascuno di noi è, personalmente, tra questi collaboratori di Dio in Gesù Cristo e tutti noi lo siamo insieme, nell’unità dei presbiteri con i propri Vescovi e di tutti i Vescovi tra loro, successori del Collegio apostolico.

            Affinché il nostro cammino di santificazione e il nostro impegno pastorale e missionario portino quei frutti per i quali il Signore ci ha scelti e ci ha chiamati, deve compiersi anche in noi, in forme corrispondenti alla situazione attuale della Chiesa e della cultura e secondo la chiamata e la personalità proprie di ciascuno, la sostanza di ciò che Dio ha compiuto in Paolo, facendo di lui la “nuova creatura” e l’Apostolo delle genti.

            Non possiamo, cioè, adempiere coerentemente ed efficacemente alla nostra missione di sacerdoti se non fidandoci totalmente dell’amore di Dio in Gesù Cristo. Anche noi siamo chiamati a fare esperienza di quest’amore, attraverso la fede in Cristo risorto e la contemplazione del suo volto, rivelatore del volto del Padre. La nostra fede, a differenza da quella di Paolo, si basa sulla testimonianza apostolica e non sull’esperienza dell’incontro diretto con Gesù risorto. Non si riduce però all’ascolto di questa testimonianza e a una scelta della nostra volontà: anche dentro di noi, infatti, opera il Signore tramite il suo Spirito e questa presenza e azione interiore dello Spirito è il fondamento e l’inizio di un’esperienza di Dio, dell’amore di Dio in Gesù Cristo, che è destinata a crescere, ad approfondirsi e a rafforzarsi nella misura in cui le lasciamo spazio, la accogliamo nella nostra libertà, anzi, le consegniamo la nostra libertà.

            Così la preghiera, liturgica e personale, la meditazione della parola di Dio, il silenzio interiore sono lo spazio in cui anche noi ci lasciamo “conquistare” da Dio (cfr Fil 3,12) e diventiamo strumenti di salvezza nelle sue mani.

            Si accende allora in noi e si alimenta sempre di nuovo quel fuoco che ardeva nell’Apostolo Paolo e da cui nascevano il suo zelo missionario e la sua sollecitudine per tutte le Chiese. Questo fuoco, che in realtà è la partecipazione in noi, per il dono dello Spirito Santo, dell’amore salvifico di Dio in Gesù Cristo per tutto il genere umano, costituisce la vera sorgente ed energia della nostra passione e creatività missionaria. Da qui nasce anzitutto la disponibilità personale a spendere noi stessi per la salvezza dei fratelli, portando la nostra croce, unitamente a quella ricerca instancabile, mai rassegnata e sempre fiduciosa, delle vie e dei modi per offrire a tutti, nel concreto della situazione di ciascuno, la possibilità dell’incontro con Cristo, che è la caratteristica dell’apostolo autentico.

            Da qui nasce anche l’amore sincero per il corpo di Cristo che è la Chiesa, con la prontezza e la gioia di identificarsi con essa e di donarsi per essa. Il sacerdote è per la Chiesa e oggi, in particolare, è spesso chiamato a dare nuova vita o anche a “reimpiantare” la Chiesa. Infatti, senza confondere il contesto in cui operava l’Apostolo Paolo con quello attuale e, in specie, senza dimenticare che egli annunciava un Salvatore di cui nessuno aveva ancora udito il nome, resta comunque vero che oggi il nome di Gesù Cristo, sebbene in qualche modo conosciuto, è molto spesso, anche nelle terre di antica e grande tradizione cristiana, rifiutato o almeno non preso sul serio proprio nella sua qualifica decisiva di unico e universale Salvatore. Perciò il dare nuova vita alla Chiesa significa oggi in concreto anzitutto reimpiantare nell’intelligenza e nel cuore degli uomini l’autentica fede.

            In questa sua dedizione quotidiana per portare gli uomini a Cristo e tenerli uniti, come un’unica grande famiglia, nella comunione della Chiesa, il sacerdote, essendo mosso dall’amore, cerca sempre di comportarsi secondo la legge dell’amore e di essere testimone dell’amore, per far sì, come disse il Papa 19 anni fa alla Chiesa italiana riunita in convegno a Loreto, che “l’amore di Dio per gli uomini possa essere in qualche modo sperimentato e quasi toccato con mano”. L’unità profonda che emerge nelle lettere e nella vita di Paolo tra fede, speranza e carità, per cui “la fede… opera per mezzo della carità” (Gal 5,6), chiede di essere costantemente inverata nella nostra vita e nel nostro apostolato, così che il nostro amore del prossimo e tutto il nostro servizio alle sue necessità, anche materiali, nascano chiaramente dal nostro radicamento in Cristo e siano quindi una testimonianza che conduce a lui.

            Cari fratelli nel sacerdozio, per intercessione di Maria nostra madre, del suo sposo Giuseppe, degli Apostoli Pietro e Paolo, il nostro personale e sempre rinnovato e approfondito incontro con Cristo morto e risorto, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cfr Gal 2,20), faccia davvero diventare ciascuno di noi debitore e annunciatore della sua grazia e del suo Vangelo di salvezza, per dire e testimoniare a tutti quelli che ci sono affidati: “tutto è vostro… il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor 3,21-23).