La musica e
il canto al servizio del mistero eucaristico - Parte I
Cameron
Upchurch, Johannesburg
Il
Concilio Vaticano II non si è limitato a riconoscere l’importanza fondamentale
della musica nella liturgia, ma l’ha anche definita come l’arte di maggior rilevanza
per la celebrazione[1]. Riprendendo molti
concetti e parole da san Pio X[2], in
particolare la sua descrizione della musica liturgica come «melodia sacra
legata alle parole»[3], il Concilio ha affermato
che la musica liturgica è finalizzata alla «gloria di Dio e alla santificazione
dei fedeli»[4].
In princìpi e le norme del Concilio
Vaticano II riguardanti la musica sono stati spesso interpretati in maniera
sregolata e irresponsabile e sono stati sbandierati dalle opposte tendenze
estreme dello spettro liturgico per giustificare forme celebrative che
incarnano un concetto distorto dei princìpi della participatio actuosa. La
partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia è «un loro diritto-dovere in
virtù del loro battesimo»[5]. Essa
si manifesta in molte maniere: «le acclamazioni, le risposte, il canto dei
salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del
corpo»[6]. A
questa enumerazione si può aggiungere, per quanto riguarda in maniera specifica
la musica, l’atto di ascoltare; «ciò che si afferma di colui che ascolta
Questa idea basilare per cui la musica è al
servizio della liturgia è la chiave della sua corretta applicazione durante la
celebrazione. Questo concetto si contrappone frontalmente alle tendenze
popolari illuministiche, romantiche e postromantiche che teorizzano il ruolo
«dell’arte per l’arte» nella società.
La musica è al servizio della liturgia in
diversi modi: la rende più attrattiva e le conferisce una maggiore distinzione
quando l’accompagna[8]. Tuttavia, questo fattore
estetico non è affatto la sua funzione primaria, ma deve armonizzarsi con altri
aspetti che tratteremo a continuazione.
La musica sottolinea la natura gerarchica
della liturgia, con i suoi vari ruoli[9]. Il
clero, il cantore, il coro, gli strumentisti e il popolo sono attori diversi.
La musica contribuisce alla sintesi di questi ruoli e li indirizza verso la
finalità comune dell’Opus Dei.
La musica esprime l’unità della comunità
celebrante: «L’unità dei cuori si raggiunge in maniera più profonda con
l’unione delle voci»[10].
Essa crea una corrente di vibrazione unanime attraverso i corpi, i cuori e le
menti dell’assemblea e sottolinea il carattere comunitario della sua
esperienza.
La musica «eleva le menti» dei partecipanti
verso le «realtà dall’alto»[11]. È
impossibile esagerare questa funzione trascendentale della musica, poiché «lo
scopo della liturgia cristiana è di innalzare ogni forma espressiva sonora
realizzabile quaggiù alla presenza del kyrios»[12].
La musica prefigura la liturgia celeste,
nella quale ogni natura celeste celebra davanti al Trono[13].
Forse è questa la ragione più forte per mantenere viva la tradizione nella
musica sacra, una tradizione che si ricollega al passato, poiché allora i
fedeli «si sentono uniti sia a coloro che li hanno preceduti nella fede, sia
alla presenza invisibile dei beati nella loro celebrazione»[14].
Nell’Eucaristia la musica ha un ruolo di
vitale importanza per condurre l’assemblea a una esperienza più profonda dei
sacri misteri, in quanto sottolinea i momenti più importanti della celebrazione
e promuove una comprensione ed esperienza approfondite del Corpo Mistico[15].
Tuttavia, può farlo soltanto se le norme liturgiche stabilite vengono
rispettate in maniera adeguata. Tre sono gli aspetti che acquistano particolare
importanza al riguardo.
Anzitutto, è di fondamentale importanza
decidere quali parti della celebrazione devono essere cantate o meno. Quando si
cantavano esclusivamente i quattro inni della antica «Messa bassa» i momenti di
maggiore importanza nella liturgia venivano completamente obliterati. Se si
rispettano le norme che prescrivono che l’Alleluia, il Sanctus, il Mysterium
fidei e l’Amen vengano cantati sempre, l’assemblea si focalizza
sull’essenza del mistero eucaristico. Se si cantano quelle parti della Messa
che, per loro natura, richiedono di essere cantate (ad es., il Gloria e il
Salmo responsoriale), rimaniamo fedeli allo spirito della celebrazione. Se si
esercita la legittima opzione di ricorrere alla musica strumentale in alcuni
momenti (come l’Offertorio o il Congedo), i fedeli hanno il tempo di pregare,
di meditare e di gioire. Tutto ciò richiede un’organizzazione e un’esecuzione accurate
e deve essere affidato a persone che hanno una chiara idea delle norme
liturgiche in vigore.
In secondo luogo, la scelta dei testi
variabili deve armonizzarsi con la celebrazione concreta. Il Vaticano II
sottolinea al riguardo: «I testi destinati al canto sacro siano conformi alla
dottrina cattolica, anzi siano presi di preferenza dalla sacra Scrittura e
dalle fonti liturgiche»[16]. I
testi da cantare dovrebbero rispecchiare sempre il tempo liturgico o la
celebrazione del giorno, concentrando le menti dei fedeli sul rito e non
distraendoli da esso. Il dettato conciliare implica anche che i testi devono
avere uno stile piuttosto elevato, consono all’Eucaristia come «fonte e culmine
della vita della Chiesa». Disgraziatamente, ciò che attualmente trionfa in
molte delle nostre chiese è la banalità. La musica contiene testi stantii,
scarsamente fedeli alla dottrina e contaminati da un umanesimo rigoglioso. Ciò
dissolve l’impatto della liturgia e mette a repentaglio il suo punto centrale,
che è l’esperienza di qualcosa di divino da parte degli esseri umani.
In terzo luogo, spesso viene sollevato il
problema degli stili e dei generi musicali, che è fonte di controversie. È pur
vero che il Concilio ha affermato che nella sacra liturgia si possono
accettare, senza particolari difficoltà, molti tipi di musica [17].
Tuttavia, la situazione, fin troppo nota, in cui la musica di chiesa viene
confusa con «qualsiasi musica» indica che le direttive sulla celebrazione non
hanno avuto alcun ruolo nella scelta delle melodie usate nella liturgia.
Eppure, le regole stabilite sono chiare: il canto gregoriano è adatto alla
liturgia; la polifonia, antica e moderna, viene ammessa, al pari della «musica
sacra popolare, sia essa liturgica oppure semplicemente religiosa»[18].
Quest’ultima categoria ha provocato molte discussioni, nell’ambito di un
dibattito il cui punto centrale sembra essere la mancata distinzione fra la
liturgia e la pietà e la devozione popolari, le quali spesso promuovono melodie
e testi imperniati su un certo sentimentalismo. Più pericolosa è
l’identificazione della musica popolare, in particolare in occidente, con una
cultura mutevole e consumistica che scardina i valori del messaggio cristiano.
Questa musica è la pietra angolare della pubblicità e un mezzo mediatico
imponente privo di integrità. Se la si trasferisce a un contesto liturgico,
allora ci si trova in una situazione pericolosa. Il sacrificio eucaristico è
immutabile; non è la celebrazione di un momento passeggero, ma è radicato in
una dimensione cosmica che trascende ogni età e ogni popolo. Tutto ciò che
sottolinea la transitorietà, il «momento», attenta contro questa dimensione.
È stato affermato che molta della musica in volgare usata in chiesa agisce
proprio in questo senso. Questa constatazione è ciò che ha spinto Benedetto
XVI, quando era ancora il card. Ratzinger, ad affermare che: «Per sua natura la
musica [di chiesa] deve essere diversa da quella musica il cui scopo sarebbe,
ad esempio, di portare a un’estasi ritmica, a un’anestetizzazione dei sensi,
all’eccitamento sensuale o alla dissoluzione dell’ego nel nirvana»[19].
Stabilendo linee guida chiare sulla musica
liturgica,
* * *
La musica e
il canto al servizio del mistero eucaristico - Parte II
Cameron
Upchurch, Johannesburg
«
Probabilmente, il motivo principale per cui
il canto deve essere mantenuto e promosso nella liturgia è il fatto che si
tratta di un esempio eccezionale dei cinque modi in cui la musica può essere al
servizio del mistero eucaristico.
Il canto è un’arte. È stato modellato lungo
i secoli. È stato elaborato, codificato e rappresentato in tutta Europa ed è
stato portato in ogni angolo della terra. Rappresenta gli sforzi artistici di
migliaia di persone al servizio della liturgia; è stato interpretato e studiato
per secoli. Quando viene eseguito bene, possiede una bellezza che si confà alla
sacra celebrazione. Il suo fondamento è la teologia cristiana della bellezza,
le cui radici si trovano nella filosofia platonica, che ci è stata trasmessa da
sant’Agostino, una teologia nella quale «ciò che è bello è un prolegomeno
chiave a ciò che possiamo definire divino»[22].
Il canto introduce differenze, poiché
definisce, più di ogni altra forma di musica sacra, i ruoli diversi, ma
complementari, di coloro che partecipano alla liturgia. Le preghiere di colui
che presiede e le risposte dell’assemblea, che devono essere chiare, udibili e
facili da cantare, assumono l’aspetto di formule semplici. I cantici di
meditazione, come il Graduale, richiedono cantori esperti, che diano al coro un’opportunità
di mettere la propria abilità al servizio della comunità liturgica che siede e
ascolta in silenzio reverente. Non si dimentichi che il coro fa parte della
comunità e ne è un legittimo rappresentante. Questa circostanza ha avuto
un’importanza fondamentale per la liturgia cristiana lungo i secoli. I vari
tipi di cantici creano un insieme organico, al quale i membri dell’assemblea
partecipano esteriormente e interiormente.
Il canto unifica. Il Concilio aveva
espresso il desiderio esplicito che «si conservi e si incrementi con grande
cura il patrimonio della musica sacra»[23]. Il
canto gregoriano è nella Chiesa ciò che più rassomiglia a una forma di musica
«universale», che è stata vista ed è tuttora considerata come un elemento
unificante. Paolo VI sottolineò con forza che il rinnovamento liturgico «deve
salvaguardare quegli elementi che possono essere utili per rafforzare e per
manifestare meglio a tutti il legame che unisce i fedeli» e che quindi che «il
tentativo di incrementare il canto nelle grandi assemblee non deve escludere la
preoccupazione per il canto gregoriano»[24].
Il canto è trascendentale. La liturgia
cristiana è logocentrica; «la fede che si fa musica fa parte del processo
dell’incarnazione del Verbo»[25]. Il
canto gregoriano è uno dei più antichi esempi di questo processo nel
cristianesimo occidentale. La sue esecuzione rimane radicata in una liturgia il
cui centro è il logos, Dio stesso. Queste parole dell’allora card. Ratzinger
possono aiutarci a capire meglio il ruolo del canto: «Per il fatto di
contemplare il mysterium di una liturgia cosmica, diventa necessario
descrivere in maniera visibile e concreta l’aspetto comunitario del culto, il
fatto che si tratta di un’azione da compiere, la sua formulazione mediante
parole (...) In tal modo risulterà chiaro che la musica liturgica deve guidare
i fedeli alla glorificazione di Dio, a una sobria ebbrezza della fede.
L’insistenza sul canto gregoriano (...) è quindi ordinata immediatamente
all’aspetto “misterioso” della liturgia, al suo carattere razionale e al suo legame con
la parola nella storia. Questa insistenza doveva (...) sottolineare in maniera
rinnovata il carattere autorevole delle regole patristiche per la musica
liturgica, che talvolta sono state concepite in maniera troppo unilateralmente
storicizzata. Queste regole autorevoli, correttamente intese, non implicano
l’esclusione di qualsiasi novità, bensì sono piuttosto direttrici che guidano
verso uno spazio aperto. In questo caso, l’avanzata verso territori inesplorati
è resa possibile proprio dal fatto di aver imboccato il sentiero giusto»[26].
Il canto offre un riflesso della liturgia
celeste, poiché trascende le nostre culture umane e le nostre espressioni
locali. Non si tratta del linguaggio musicale specifico di un contesto etnico
determinato. Westermeyer afferma che «da questo punto di vista suggerisce una
realtà escatologica incipiente. Questa realtà deve essere mantenuta in una
tensione incarnazionale con la pluralità delle nostre risposte. Quando la
nostra prassi assembleare è sana, allora esprime proprio questa tensione»[27].
Ma possiamo arrivarci concretamente nella
prassi dell’assemblea? Certamente sì. Ci sono molti cantici, in particolare per
l’Eucaristia, che in origine erano destinati all’assemblea. Westermeyer afferma
che «il canto monofonico senza l’accompagnamento strumentale è precisamente ciò
che, praticamente in qualsiasi contesto etnico, la gente normale può cantare
con maggiore facilità; può essere il loro ufficio musicale; e non frappone
ostacoli né alla parola né all’azione che si compie»[28]. Se
è stata messa in condizioni di apprendere la loro musica, una assemblea può
dominare parecchi canti per l’ordinario della messa. Ciò richiede tempo,
impegno, sforzo e la volontà e il lavoro di un numero sufficiente di esperti.
Ovviamente, l’uso del canto implica quello
del latino, la cui utilizzazione nella chiesa è stata riaffermata dal Concilio,
dai documenti successivi e da tutti i Papi fino al giorno di oggi[29].
Huels sottolinea che «l’uso più adeguato del latino nella liturgia eucaristica
il canto»[30]. Tuttavia, in realtà, in
molte parti del mondo, il latino è praticamente scomparso dall’uso liturgico.
Esistono luoghi in cui addirittura è stato proibito. Benedetto XVI commenta che
«dopo il Concilio, in molti luoghi si osserva un entusiasmo per il volgare che,
in realtà, è molto difficile da capire in una società multiculturale, così come
in una società in movimento non è molto logico ipostatizzare l’assemblea»[31]. Una
promozione equilibrata del volgare e del latino nella liturgia può soltanto
contribuire a esprimere ad un tempo la natura universale e particolare della
Chiesa nel mondo.
Privilegiando il canto gregoriano nel suo motu proprio del
1903, il papa san Pio X combatteva contro quelli che considerava degli eccessi
modernisti in un’Europa dominata dall’opera lirica, il cui influsso si faceva
sentire anche nelle chiese. Secondo Pio X, la musica sacra deve avere come
caratteri distintivi la «santità, la bellezza e l’universalità»[32].
Abbiamo parlato della bellezza e dell’universalità. Cosa possiamo dire della
santità? La musica non può essere né sacra né santa in sé, ma soltanto in virtù
della sua associazione con la liturgia. «Se la musica sacra facilita l’azione
liturgica, allora partecipa della santità della liturgia; quando la musica
sacra oscura oppure ostacola l’azione liturgica, allora è meno “santa”»[33].
Perciò la sacralità della musica viene determinata dal suo legame con la
liturgia. Il canto gregoriano è stato creato esclusivamente per l’uso
liturgico, senza ricorrere a elementi musicali o artistici del suo tempo. Il
suo unico scopo è di accompagnare la parola e l’azione del rito. Per questo
motivo occupa un luogo privilegiato tra tutte le forme di musica liturgica.
Circondati da un consumismo individualista esaltato, costretti a muoverci ad un
ritmo che sembra accelerarsi continuamente, ci troviamo forse veramente in una
situazione tanto diversa da quella a cui aveva reagito Pio X nel 1903? L’uso
del canto nella nostra liturgia, in particolare nel mistero eucaristico, ci
allontana istantaneamente dalla apparente follia della vita di ogni giorno,
portandoci verso la profonda pace interiore che si trova nel logos.
[7] M. Gomez (1969), «Function of Sacred Music and Actuosa Participatio», in Sacred Music and Liturgy Reform after Vatican II, edited by J. Overath: 115.
[12] K. G. Fellerer (1969), «Liturgy and Music», in Sacred Music and Liturgy Reform after Vatican II, edited by J. Overath: 72.