MARIO MARINI

CELIBATO SACERDOTALE

APOSTOLICA VIVENDI FORMA

 

 

MARIO MARINI

CELIBATO SACERDOTALE
Apostolica Vivendi Forma

CANTAGALLI

 

 

INTRODUZIONE

Presentando questo volumetto, che non esito a definire “aureo” e da proporre alla lettura di tutti, non solo dei sacerdoti, ho fatto l’esperienza singolarissima che faccio tutte le volte che leggo gli scritti di mons. Marini.

Anche questa volta ci troviamo di fronte ad un linguaggio teologico, documentato, denso, ma straordinariamente elementare.

Si può dire che il linguaggio teologico di mons. Marini fonde due movimenti del discorso teologico: quello ontologico, cui ci ha abituato la tradizione teologica dell’occidente ed un movimento “spirituale” che caratterizza dall’interno il linguaggio teologico stesso.

Come ho già rilevato altre volte, per esempio nella introduzione al corso di esercizi spirituali intitolato Dalmanùta, ci troviamo di fronte ad un linguaggio in cui riferimenti biblici, dimensioni catechetiche ed esperienze spirituali si fondono magistralmente.

In questo caso specifico tutta la dimensione “antropologica” del “celibato” ecclesiastico non si aggiunge alle considerazioni bibliche o magisteriali, ma trova la sua esatta collocazione e valutazione all’interno di un orizzonte di pensiero e di linguaggio che è fortemente unitario.

1) Il primo contributo rilevante del testo è quello appunto di formulare le tesi fondamentali sul celibato non immediatamente in rapporto alla vita della comunità cristiana, ma in rapporto all’incontro ed alla sequela di Gesù Cristo. Il celibato si comprende in modo radicale ed integrale soltanto se ci si riporta alla straordinaria esperienza di amicizia fra Cristo e gli apostoli ed alla loro chiamata ad identificarsi esistenzialmente con Lui e con il suo Mistero.

«San Giovanni, “il Teologo”, “lo Spirituale” e “l’Amico”, è quello che ci aiuta maggiormente a fare questa lettura “spirituale”, che, forse, potrebbe essere annotata anche così: il Mistero nascosto da prima dei secoli in Dio è l’Amore del Padre e del Figlio, che chiamiamo lo Spirito Santo: questo Mistero, che è la Gloria di Dio, è di fatto il fine di ogni intenzione di Cristo ed il Fine di Dio stesso, se così ci si può esprimere; tutti gli altri fini, sono subordinati a questo, e, rispetto a questo, per quanto nobili, sono secondari e ad esso finalizzati; il Signore Gesù ha convocato una rete ristretta di discepoli, di amici suoi, di associati intimamente a lui; li ha educati e poi finalmente “costituiti”:

    perché nella radicale intimità [cfr. la “intima fraternitas sacramentalis”, P.O., 8] di Lui con loro e fra di loro fosse reso visibile “come in uno specchio” l’amore invisibile e totale del Padre e del Figlio,

    e perché questo amore fosse ripetuto all’infinito, sempre originalmente nuovo, affinché l’immagine del suo amore ripetuta, e ripetuta, e ripetuta…ovunque e in ogni tempo, possa così fare da fermento e da coagulo di quella più grande immagine della Trinità che è la Chiesa: “vuole infatti ogni amante che la immagine del proprio amore si ripeta e moltiplichi senza fine”  [S. AGOSTINO, De Trinitate]».

«Se nei primi secoli dell’era cristiana il vedere come si amavano i cristiani (cfr. At 2, 47) era già la “parola” più efficace per attirare nuove persone alla verità ed alla fede in Cristo, tanto più il “vedere” la reciprocità dell’amore nella comunione presbiterale “parlerà” della comunione trinitaria ed attirerà ad entrarvi, più di ogni parola. (...) Questa è la Buona Notizia, che, amandosi tra loro, comunichino agli altri la chiamata alla comunione nella Trinità. (...) Per aprire le anime all’inabitazione della SS. Trinità i presbiteri devono assumere e comprendere il senso pieno del loro sacerdozio, come compagnia, come fraternità, come amicizia, come speculum visibile invisibilis Dei».

«Appare evidente che i grandi temi trinitari… semplificano e chiariscono il tema stesso del sacerdozio, che si rivela cosi con un più chiaro riferimento al Vangelo, (come fa il Concilio Vaticano II, ove i vari temi sono stati primariamente polarizzati e successivamente messi in relazione). (…) Dal Vangelo traspare non solo l’intenzione primigenia di Cristo: rivelare Dio all’uomo, ma anche il mezzo per attuarla: la comunione apostolica. E il gruppo dei discepoli e lo stesso sacerdozio appare nella mente di Cristo come l’immagine visibile che egli è venuto a manifestarci, a donarci, a mostrarci, a rivelarci (“io in loro e tu in me”; perché vedendo credano…).

Si potrebbe aggiungere che il sacerdozio come ordo, come corpus e, come tale, riferito alla comunità apostolica di Gesù con i suoi, non è solamente uno “specchio visibile del Dio invisibile”, ma come una reinvenzione – se così ci si può esprimere – originale e continua, in forma per così dire “ossessiva” (come è proprio dell’amore), dello stesso debordante amore di Dio che è la SS. Trinità; Dio “come colui che” ricrea e tende continuamente a reinventare la intimità trinitaria››.

Questa fraternità degli apostoli con Cristo, che continua e si attua di generazione in generazione nella fraternità presbiterale con Lui è anche l’elemento dinamico che, come lievito, promuove la vita ed il movimento dell’intero popolo cristiano.

Il popolo cristiano è quindi guidato da questo carisma della imitazione di Cristo che costituisce alcuni come chiamati alla guida effettiva e storica, sacramentale e sociale dell’intero popolo cristiano.

Il celibato ecclesiastico ricorda a tutta la Chiesa ed a tutto il mondo l’assoluta totalità di Dio, richiama gli uomini alla profondità dell’amore fedele che si manifesta in Gesù Cristo, si associa in modo speciale al destino di Cristo, manifesta in anticipo la libertà dei figli di Dio, mostra più chiaramente la fecondità spirituale della nuova legge e riceve la forza per edificare la Chiesa.

Il celibato ecclesiastico è quindi nel suo cuore più profondo questa immedesimazione totale con il destino di Cristo che stabilisce nella Chiesa e per la Chiesa un ambito in cui si genera un movimento che dà fondamento e dinamismo all’intero popolo cri­stiano.

Nel celibato l’amore trinitario, accolto integralmente e corrisposto incondizionatamente, prepara alcuni che, nella mediazione e per la mediazione sacramentale, divengono secondo l’espressione di S. Carlo Borromeo forma graegis.

Così l’assoluta carità verso Cristo e Dio diviene carità verso la comunità e, al di là di essa, carità verso tutti gli uomini.

Il discorso è assolutamente profondo e suggestivo e finalmente ci troviamo di fronte a considerazioni che non si riducono a questioni di carattere intraecclesiale, giuridico o pastorale, né d’altra parte si fanno ricattare da questioni antropologiche mondanamente percepite e tematizzate.

Se il cuore del celibato è l’affezione totale a Cristo, l’esito del celibato, nell’esperienza del presbiterato, è la missione concreta e quotidiana del popolo cristiano nella società e nel  mondo.

2) A questo punto vorrei proporre una mia considerazione globale, ed in qualche modo ulteriore rispetto a quest’ottimo volume.

Non è chi non veda che il problema della Chiesa oggi è il problema del rinnovarsi della sua identità, per una nuova stagione della evangelizzazione e quindi della missione.

Il movimento laicistico moderno contemporaneo per due secoli ha tentato di eliminare l’identità della fede e di distruggere l’impeto missionario della comunità.

L’intero popolo cristiano ha resistito a questo processo di annichilimento, ponendo dentro il mondo nelle diverse, e talora tragiche situazioni culturali sociali e politiche, la limpida e quotidiana esperienza della comunione nella vita delle famiglie, delle parrocchie, delle confraternite e delle associazioni e, più recentemente, dei movimenti ecclesiali.

Questa testimonianza limpida molte volte ha avuto il volto del martirio. Non potremo mai dimenticare i 46 milioni di martiri cristiani nel XX secolo.

A questa resistenza capillare, lieta e sacrificata e laboriosa non sono mancate le grandi direttive ideali e pratiche del Magistero della Chiesa: innanzi tutto la grande lezione della Dottrina Sociale della Chiesa, di cui nei secoli XIX e XX sono state scritte le pagine più grandi.

Ma i preti, i preti che in forza dell’amore incondizionato a Cristo hanno saputo guidare anche le più piccole frazioni sono stati loro i grandi eroi di questa quotidiana resistenza al Male e questa semplice e radicale proprosta di una vita nuova.

Il terzo millennio si apre per la Chiesa con una grande sfida sulla evangelizzazione.

La resistenza dei secoli passati deve diventare impeto di comunicazione di vita nuova di cultura e di carità a un mondo che senza questo annunzio e questa comunicazione resterebbe privo di ragioni adeguate per vivere e per morire.

Il libretto di mons. Marini ci ricorda che il centro motore di questo rinnovarsi della Missione della Chiesa è quello fissato da Gesù Cristo: l’apostolica vivendi forma.

 

 

+ Luigi Negri
Vescovo di San Marino-Montefeltro
29 Giugno 2005 Festa dei Santi Pietro e Paolo

 

 

CELIBATO ECCLESIASTICO E FRATERNITÀ SACERDOTALE
Breve riflessione biblico-teologica-esistenziale sui dati proposti dal Magistero


Premessa

 

Non vorrei pormi di fronte a questo problema, né presumendo la competenza specifica del biblista, e neppure situandomi nel livello del teologo-dogmatico. Seguendo invece il cammino della vita cristiana e della sensibilità religiosa personale, preferirei situarmi in quel livello che si potrebbe chiamare modernamente dell’esistenzialismo cristiano o, con espressione più tradizionale, della “teologia spirituale”. È un livello interessante, perché mentre utilizza i dati biblici e teologici precedentemente acquisiti dalle rispettive scienze, li conduce ad una sintesi vitale mediante la visione ed il linguaggio più liberi del cuore («è con l’occhio del cuore che si vede», dice il Piccolo Principe, gli occhi della carne infatti sono ciechi, come una barca che naviga nella nebbia).

Il Padre Y. Congar, O.P. in un suo celebre saggio scritto in occasione del Centenario della morte di Taulero (1961) metteva bene in luce la differenza fra “Linguaggio degli Spirituali e Linguaggio dei Teologi” [Y. CONGAR, O.P, Situation et taches présentes de la Théologie, du Cerf, Paris 1967, “Langage des Spirituels et langage des Théologiens”, pp. 136-158; ed anche AA.VV. Teologia Contemporanea, Borla, Torino 1970, pp. 155-179]. La Teologia Spirituale, utilizzando i dati della Dogmatica e della Scrittura, come pure della Filosofia, tende finalmente a dare la lettura della relazione personale, esistenziale e reale con Dio: è la prospettiva del rapporto religioso e non della precedente ontologia. Senza una analisi teologica ed una ermeneutica biblica, come pure senza una base filosofica, le percezioni, gli enunciati e le prospettive della teologia spirituale perderebbero la misura e la possibilità stessa di conservare ciò che essi portano di vero e di valido.

Detto questo si può però aggiungere che gli enunciati esistenziali religiosi, propri del linguaggio degli spirituali, tendono a condurre la esperienza personale nella immediatezza del senso di Dio e delle Sue cose, e per questo usano normalmente espressioni e formulazioni, che non potrebbero essere trasferiti “indietro” come proposizioni di ontologia. C’è, nelle formule degli “spirituali” l’enunciato di un assoluto semplice, monolitico, e preso dal punto di vista particolare e personale, praticamente esclusivo di altri punti di vista, i quali, pertanto, sono possibili e possono essere validi: l’espressione spirituale è sintetica e globale.

Sono due linguaggi – quello dei teologi e quello degli spirituali – che rispondono a due punti di vista; per cui ci si può chiedere: a quali condizioni ed a che livello è vero il linguaggio degli spirituali? A condizione di esprimere, in fase ormai finale, un’attitudine ed una realtà spirituale, che riceve la verità dal fatto che realizza il vero rapporto dell’anima con Dio: infiniti enunciati spirituali sono espressione di un’attitudine e di una realtà spirituale mirata in modo totalitario ed esclusivo già alla relazione con Dio ed al reale assoluto della persona a Lui unita.

Ecco dunque il linguaggio degli spirituali usare di frequente le “contrapposizioni di concetti” e le “affermazioni generali ed assolute” e, poiché ci si riferisce all’Assoluto di Dio, ecco che l’uso dei “paradossi” e delle “antinomie” non è solo iperbolico, ma è in fondo più pienamente reale: rende “più visibile” la realtà, nella stessa misura in cui Michelangelo, ampliando le proporzioni, ne evidenziava e confermava la realtà. L’“ontologia” propria del rapporto spirituale ha la sua unità e la sua certezza, ma al di là della ontologia naturale: il linguaggio degli spirituali, dopo avere utilizzato i dati delle altre scienze umane e teologiche, finalmente esprime la “ineffabilità” del rapporto con Dio e di Dio stesso: l’espressione dell’ineffabilità (linguaggio degli spirituali) è pertanto al di là della “verità teologica” e della Sua ineffabilità (linguaggio dei teologi).

Certamente, se la Rivelazione viene data in parole umane, fino all’estrema Parola dell’Incarnazione, un linguaggio di ineffabilità in parole umane non può essere blasfemo, benché espressioni di grandi spirituali lo sembrino: anzi la teologia classica ammette e giustifica tale modo di linguaggio, giacché è una maniera appropriata di esprimere la trascendenza di cui dona una appropriata analogia.

 

Concludendo circa la premessa: Le scienze umane (Filosofia) e teologiche (Dogmatica e Scrittura) cer­cano di dare conto scientificamente della natura dei fatti religiosi ed umani; la teologia spirituale, mediante il suo linguaggio paradossale ed incisivo, assoluto e preciso, esprime: 1) la esperienza vitale della realtà trascendente e 2) la giusta attitudine spirituale ed esistenziale di fronte ad essa.

Il fine di questa lunga premessa è quello di giustificare il procedimento seguente, che sarà pertanto costituito da due punti:

A) una ricognizione del dato evangelico del celibato e della fraternità (al seguito del linguaggio teo­logico-biblico).

B) la sua lettura di fondo nella intenzione esi­stenziale del Signore Gesù (col linguaggio spirituale, cioè reale-esistenziale).

 

Parte A, in tre punti

1) I dati evangelici

Il primo alveo dell’esperienza celibataria e fraterna che oggi la Chiesa propone ai suoi sacerdoti è la comunità di vita con il Signore Gesù: nasce pertanto l’esigenza di ritornare ai testi del Nuovo Testamento ed all’esperienza della comunità primitiva.

Come il Nuovo Testamento parla di tale esperienza celibataria e comunitaria con Cristo? quali motivazioni se ne danno? in quale ambito viene vissuta? che significato e prospettiva riveste?

La risposta a tali domande non può essere che articolata e complessa, data l’ampiezza dei testi da valutare: ma si può dire subito che c’è convergenza oggi sul fatto che il Signore Gesù non si sia sposato. Ha poi anche Egli fatto una proposta in tal senso ai suoi discepoli? Nei Vangeli infatti non mancano i detti che parlano di una rottura con i rapporti familiari, detti che evidentemente, come è nella generale natura dei detti evangelici, hanno vari livelli di profondità e di destinatari, benché per Mt 19, 12 la destinazione sembri più concentrata e ristretta ad una esperienza specificamente celibataria.

Gli studiosi più recenti hanno cercato di risalire al di là dello stadio attuale dei Vangeli per raggiungere il significato dei vari detti sulla sequela di Cristo nel contesto della predicazione del Signore Gesù; e, successivamente, hanno cercato di seguire anche il processo di tradizione che ha permesso alle parole del Signore Gesù di giungere fino alla redazione evangelica.

A questo riguardo gli studiosi ritengono che il tenore dei detti debba essere inteso in senso molto più letterale di quanto qualcuno potrebbe immaginarsi.

E così ecco aprirsi la possibilità di disporre e di esaminare dei detti, che si riferiscono al distacco dalla famiglia, in senso più forte di quanto suggerirebbero vari “supposti” liberali. I detti di Gesù che si riferiscono al distacco dalla famiglia e che interessano la problematica celibataria della “sequela” di Cristo sono sostanzialmente i seguenti: Lc 14, 26 e paralleli; Lc 18, 29 e paralleli e Mt 19, 12. «Chi non odia suo padre e sua madre non può essere mio discepolo; chi non odia suo figlio e sua figlia non può essere mio discepolo»; «In verità vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli o campi per il regno di Dio che non riceverà il centuplo quaggiù e la vita eterna...».

Naturalmente, data la natura di questa mia comunicazione, per la critica letteraria si deve rimandare a testi specialistici [Cfr. B. PROIETTI, “La scelta celibataria alla luce della Sacra Scrittura”, in AA.VV., Il Celibato per il Regno, Claretianum, Milano 1977, 9-75], tuttavia proprio la critica letteraria attribuisce questi detti a Gesù stesso e nel senso che vanno riferiti al Suo gruppo di discepoli. L’appello del Signore Gesù aveva infatti il carattere di assolutezza come il suo annuncio del Regno aveva una portata escatologica, che non ammetteva rinvii o tentennamenti, tanto che in Luca vi appare, fra le persone da lasciare, la esclusione anche della moglie. «L’appello alla sequela, per cooperare alla missione di Gesù, ha esigito dai chiamati, e solo da essi, la rottura di tutti i legami familiari e quindi anche di quello matrimoniale» [Ibid., 41 s.].

Come la vita del Signore Gesù è tutta orientata all’annuncio del regno di Dio, così quella dei chiamati a seguirlo, cioè a vivere con lui in una comunione di vita, di missione e di destino, doveva essere interamente consacrata al servizio missionario del regno.

Molto speciale poi il celebre detto di Gesù riportato da Mt 19, 12: «Vi sono eunuchi che dal seno materno sono stati generati così, e vi sono eunuchi che sono stati resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che si sono resi tali essi stessi per il regno».

Il Signore Gesù parla dunque di una pluralità di uomini allora viventi che attraverso un atto del passato, liberamente, “a motivo del regno”, si sono resi incapaci di vivere matrimonialmente (una celebre espressione del “primo” Schillebeeckx diceva che il celibato sacerdotale consiste nel fatto che alcuni uomini avendo accettato di entrare sotto il potere del totale servizio del regno sono dunque ormai incapaci di assumere la valenza matrimoniale: «non potere – eunuchi – essere altrimenti»). Questo atto del passato potrebbe perciò coincidere con l’ingresso alla “sequela” immediata e perdurante di Gesù. A questo proposito si potrebbe fare riferimento alla chiamata dei primi discepoli fatta dal quarto Vangelo di Giovanni: il quarto Vangelo presenta il punto di vista storico dei fatti che descrivono i primi seguaci di Gesù, precedentemente discepoli di Giovanni il Battista, chiamati nella valle del Giordano, ove il Battista – suppostamente non sposato – aveva dei discepoli conformati alle severe regole ascetiche di quei gruppi laggiù installatisi. Gesù avrebbe perciò costituito, secondo il Vangelo di Giovanni, un primo nucleo di discepoli con alcuni di quegli uomini, votati al celibato assieme con il Battista.

A ciò si potrebbe aggiungere il grande tema evangelico della “sequela” di Cristo, con i suoi vari livelli, fra cui il livello più propriamente specifico dei discepoli del Signore Gesù, che abbandonando i legami familiari sempre andavano con Lui (Mc 3, 14) e per i quali Gesù diede specifiche norme di vita e comportamento (Mc 9, 35; Lc 22, 27; Mc 9, 50b; Mt 7, 3...).

 

Conclusione circa i dati evangelici: Attraverso l’esame di alcuni detti di Gesù e dell’esperienza storica della Sua “sequela” si osserva che un distacco dai legami familiari, anche dalla moglie e dai figli, si determinò nei chiamati – appunto – alla “sequela” immediata e perdurante di Lui.

Da una parte la persona di Gesù, la straordinarietà dei suoi segni, l’autorità della sua parola, l’esperienza comunitaria intensa, agivano come elementi di fascino e di attrazione; d’altra parte c’era l’intuizione che in questo nucleo, pure poco appariscente, operasse veramente l’azione escatologica di Dio.

Il motivo del “distacco” era dunque quello di mettersi insieme con Gesù al servizio del Regno «per stare con Lui e per mandarli a predicare» (Mc 3, 14).

Ma il motivo stesso del distacco ci conduce ad osservare che il legame con Gesù era concretamente vissuto nella realtà di una piccola comunità fraterna ed amicale unita intorno a Lui e partecipante della Sua vicenda e della Sua prospettiva.

La rinuncia ai legami familiari portava dunque alla convivenza ed amicizia con Gesù di Nazaret e ad incontrare altri discepoli con cui convivere ed intrattenere relazioni profonde e costanti. Anzi, il servizio stesso del regno si configura esso stesso storicamente come un servizio condotto “insieme”; addirittura c’è la consapevolezza che il “gruppo” in quanto tale, con la sua esistenzialità e la sua vita, costituisce la profezia, lo specchio, l’immagine, il segno del Regno, del Mistero invisibile, reso cosi visibile, cioè dell’Amore del Padre e del Figlio (cfr. Lc 10, 1 ss, Mc 6, 7, Lc 10, 17...).

Non appare perciò una rinuncia ai legami familiari dovuta a disistima o sfiducia nei confronti delle relazioni umane ed a favore invece di una relazione solo con Dio: la proposta di lasciare la relazione coniugale e le relazioni familiari in genere, mira infatti esplicitamente ad assumere un’altra relazione interpersonale: quella con lo stesso Signore Gesù, ed anche altre relazioni interpersonali, quelle coi compagni della piccola comunità apostolica innanzitutto, e poi più in generale con i destinatari del Vangelo. Colpisce proprio questo – dalla lettura dei testi evangelici – che la rinuncia alle relazioni familiari non volesse significare una condanna delle relazioni umane anche profonde e continuate in quanto tali. Anzi, il Signore Gesù ha puntato fin dall’inizio alla costituzione di una comunità di discepoli, vincolati intimamente da una relazione interpersonale profonda e specifica, denominandoli Egli stesso in base alla realtà di tale relazione: iam non dicam vos servos, sed amicos, vos amici mei estis, infatti “non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici”; questa dunque era la analogia, la categoria, la realtà, la relazione interpersonale, l’immagine speculare visibile dell’invisibile Amore di Dio.

 

2) La tradizione post-pasquale dei detti del Signore Gesù

I detti del Signore Gesù, nel periodo intercorso fra la sua Ascensione e la redazione dei Vangeli, furono trasmessi oralmente da quei testimoni che li avevano ascoltati, vissuti e conservati; e furono soprattutto trasmessi esistenzialmente nella loro vita reale giacché essi parlavano di ciò che vivevano e vivevano «i co­stumi del Signore» [Didachè, 11, 8].

C’è testimonianza esplicita [la cosiddetta Fonte Quelle] che nella prima comunità palestinese le regole del discorso sulla missione (Mt 10) vennero a costituire una specie di codice, in cui i detti della “sequela”, che si riferiscono ad un’esistenza sradicata, ad una rottura con la famiglia, ai pericoli per la propria vita, ricevettero un’interpretazione letterale. Di questa interpretazione radicale dei detti del Signore Gesù sulla “se­quela” sarebbe testimone, in certo modo, anche la comunità di Corinto, almeno circa le proposizioni celibatarie, come risulterebbe dal cap. 7 della 1 Corinti. Cioè la corrente rigorista presente a Corinto («è cosa buona per l’uomo non toccare donna»), sarebbe infatti lo sviluppo estremista e radicalizzato della vera tradizione palestinese che riportava i detti del Signore Gesù: e pertanto come corrente estremista e radicalizzata venne corretta da San Paolo con la 1 Corinti, 7. Il testo sul celibato di 1 Corinti 7 va valutato nel contesto rigorista cui San Paolo deve rispondere, a partire dal primato di Cristo nella nostra vita e della nostra appartenenza a Lui: evidenziare perciò la difficoltà pratica di conciliare il legame coniugale con il servizio del Signore, non autorizza la conclusione che chi non è sposato non deve vivere nessun’altra relazione pro­fonda, se non quella con il Signore.

Non solo non si può inserire un elemento in più nel ragionamento di San Paolo, ma occorre – come sempre in casi simili – riferirsi alla situazione di vita dello stesso San Paolo. Egli oltre all’affetto profondo (Fil 2, 1) che lo lega ai fedeli delle varie chiese, intrattiene relazioni personali di profonda amicizia con persone determinate e soprattutto con i suoi diretti collaboratori: Timoteo per primo e poi Tito, Silvano, Luca... [Cfr. H. RONDET, Les amitiés de S. Paul, N.R.T. 77, 1955, 1050-1066]. Anzi si può dire che San Paolo ha quasi sempre agito in “compagnia”, con solidarietà molto strette, con collaboratori molto legati, come lo mostrano anche le intestazioni delle sue lettere.

Distante perciò da San Paolo, uomo non sposato, la figura del “filosofo stoico” (figura gravemente am­bigua, questa del “filosofo stoico”, che una certa tradizione “stoicista-disincarnata-spiritualista” ha cercato nei secoli, qua e là, di accreditare equivocamente nella Chiesa, tentando di oscurare la reale immagine di Cristo, mediante la pericolosa sovrapposizione a Lui di questo ascetico paradigma irreale: gravi danni ne sono venuti non di rado, e non solo alla corretta lettura del Sacramento dell’Ordine Sacro, ma anche e di più alla lettura del parallelo Sacramento del Matrimonio), che fugge la vacuità di questo mondo e la fugacità degli affetti umani per concentrarsi nell’unica verità eterna; per San Paolo il «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20), non solo non impedisce, ma anzi promuove in lui i legami di amicizia più profondi sopra ricordati.

Anche dagli Atti degli Apostoli si può desumere che nel periodo post-pasquale la cerchia dei discepoli ha mantenuto e proseguito lo stile di vita proprio di Gesù ed in questo ambiente vitale si sono conservati i detti di Gesù fino alla loro redazione definitiva. Gli Atti documentano ampiamente questo fenomeno dandoci diverse tipologie: spostamenti itineranti di gruppi, di coppie di discepoli, di singoli, ed anche permanenze prolungate di gruppi (per esempio ad Antiochia i cinque – Barnaba, Simeone Niger, Lucio Cireneo, Menahem e Paolo – sarebbero il collegio delle autorità religiose, cfr. Atti 13, 1-2); per gli esempi molteplici si rimanda perciò ad una lettura anche solo spirituale di Atti.

 

Conclusione circa la tradizione post-pasquale dei detti di Gesù: Le parole di Gesù ed il suo esempio hanno determinato, dopo la Sua Pasqua, il fiorire ed il consolidarsi di scelte radicali di rinuncia alla famiglia per Lui e per il Vangelo: l’appello pre-pasquale di Gesù continua ad avere vigore; ora si ha ancora l’abbandono di un contesto familiare per intraprendere una forma di vita in cui il Maestro non è immediatamente visibile, ma a parte tale mutamento (del resto significativo), non sembrano darsi altri sostanziali mutamenti.

Così, come esperienza fondamentale, vediamo con­tinuare la vita di gruppo, di comunità missionaria, di diade evangelizzatrice («Li mandò a due a due» in ogni città o luogo ove egli doveva andare – Lc 10, 1 – come Paolo ad esempio...), che si muove all’interno di una fraternità più vasta, la quale anzi, a sua volta – come fraternità – è generata “come da fermento” dalla fraternità più ristretta e significativa dei discepoli.

Dopo la Pasqua rinunciare agli affetti familiari e ad una relazione coniugale per seguire l’appello del Signore Gesù non significa rinunciare a qualsiasi relazione umana per consacrarsi a Dio solo, o a Gesù solo, e a un ministero ecclesiastico (a una funzione); ma significa normalmente che l’impegno di fede col Signore Gesù, anziché spingere nel ghetto di un ascetismo spersonalizzato stoicista, conduce invece a quella che fu poi chiamata sempre nei secoli con grande onore e venerazione la apostolica vivendi forma.

 

3) La redazione dei Vangeli circa i detti sulla “sequela”

Già varie annotazioni sono state precedentemente fatte e – per brevità – non verranno ripetute. Tuttavia alcuni studiosi del Vangelo [ad es. D. MARZOTTO, Celibato Sacerdotale e Celibato di Gesù, Piemme 1987, pag. 93] sviluppano il tema di Mt 19, 12 nel contesto più vasto dei capitoli 19-20 di Matteo, per mostrare: da un lato, come sia parziale la lettura di certi esegeti, che vorrebbero riduttivamente applicare il versetto Mt 19, 20 ai “separati non sposati”, da un altro lato, come gli evangelisti non potessero non pensare a coloro che tra i “discepoli” sono diventati nel loro tempo gli associati o i continuatori della missione apostolica: «vi sono eunuchi che si sono resi tali essi stessi per il regno dei cieli» (Mt 19, 20).

Nel rimandare ai testi specialistici per l’esegesi corrispondente, parrebbe utile qui di riprendere le conclusioni di una buona esegesi del testo: cioè l’evangelista Matteo, redigendo il suo Vangelo, nel contesto di una illustrazione più vasta sul carattere impegnativo della vita cristiana, presenta la figura dei celibi “per il regno dei cieli”. Si tratta di persone, che, nel contesto del fatto storico del ministero del Signore Gesù, hanno rinunciato alla prospettiva matrimoniale sia a motivo dell’incontro con gli inizi del regno nella piccola comunità di cui il Signore Gesù è il centro, sia nella prospettiva futura del regno, alla sequela di Gesù, mettendosi al servizio del regno e del suo annuncio.

La rinuncia ad una relazione coniugale (“non potere essere altrimenti” = “eunuchi” cioè), non significa però rinuncia ad una relazione umana anche profonda: a parte la relazione centrale con il Signore Gesù, uomo Lui stesso descritto “in relazione” fra gli uomini, anche la relazione con gli altri “celibi per il regno” non solo non è un fatto accidentale, ma addirittura determina tale decisione (della rinuncia alla relazione coniugale), in quanto è la realtà nuova di questa fraternità che ha indotto la rinuncia alla prospettiva coniugale. Effettivamente si tratta della “nuova famiglia” del Signore Gesù nel suo complesso, e quindi anche nelle sue prospettive future ed apostoliche: emerge dunque una affinità fra celibato ed annuncio del regno.

D’altra parte i “Dodici”, la cui esperienza sembra da vedersi in analogia con quella degli “eunuchi per il regno”, furono invitati a lasciare tutto, per divenire “pescatori di uomini”, cioè per essere associati al ministero escatologico del Signore. Anche se queste scene hanno dei livelli paradigmatici per ogni vocazione, non si può nascondere il loro valore immediatamente oggettivo e pregnante, di livello pieno per coloro che avrebbero lasciato tutto realmente, per seguire Gesù nella prospettiva del regno.

 

Conclusione generale della parte A), circa i tre punti relativi alla ricognizione del dato evangelico: Nel Nuovo Testamento non sarebbe possibile di parlare di una condizione di celibato a sé stante, cioè determinabile indipendentemente da una situazione esistenziale più complessa (la “sequela”) e da una rete di relazioni, in cui le tali persone non sposate di fatto si trovano.

Inoltre si può osservare come l’accento non cada tanto sulla rinuncia, che si deve fare o meglio che si impone (dalla relazione coniugale), o su un certo distacco affettivo (dai legami familiari), ma piuttosto sui motivi positivi che hanno indotto a tale scelta.

Nel Nuovo Testamento non appare il procedimento (molto stoico) della riflessione su principi teorici generali, per dedurne l’impostazione di una vocazione particolare: viene piuttosto presentata una situazione vissuta concretamente, con le sue ineludibili esigenze esistenziali assunte spontaneamente, per il Regno, in Gesù Cristo. Quando nel Nuovo Testamento si parla di persone che hanno rinunciato al matrimonio per il regno, se ne parla in un contesto più ampio di relazioni, o comunque queste persone sono inserite in un contesto più ampio di relazioni, che costituiscono i punti di riferimento veramente significativi per la determinazione di questa condizione di vita.

Un dato emergente dall’esperienza storica di Gesù e dalla relazione che ne dà San Matteo, configura l’esperienza del celibato come una rinuncia che alcuni avrebbero fatto per mettersi col Signore Gesù al servizio del Vangelo, in vista del Regno.

Un secondo dato emerge dall’esame della tradizione dei detti e della loro trascrizione (per es. in S. Matteo), e configura l’esperienza del celibato come una rinuncia di alcuni al matrimonio, per continuare, sia pure sotto diverse forme, l’esperienza della cerchia del Signore Gesù, sempre al servizio del Vangelo, per amore del Signore ed in attesa del Suo ritorno. Cioè sostanzialmente si riscontra una continuità fra l’esperienza dei tempi di Gesù e quella successiva, in essa dominante è l’istanza escatologica del Regno, come realtà più grande di ogni altro valore e che assorbe a tempo pieno; inoltre questo appello del Regno, e quindi del Signore Gesù che ne è il centro, se da un lato relativizza la condizione matrimoniale, non solo non isola la persona, né la rinchiude nell’individualismo, ma la inserisce in una rete di nuove relazioni profonde (“apostoliche”), che “insieme” sono specchio visibile (perciò annuncio vitale) e fermento (cioè seme costitutivo del Regno) dell’amore invisibile di Dio [Potrebbe essere utile per una più precisa lettura: J. GALOT, Lo stato di vita degli Apostoli, Civiltà Cattolica, 1989, pp. 327-340].

 

Parte B, approccio ad una lettura di fondo, nella intenzione esistenziale del Signore – in chiave “spirituale” – dei dati biblico-teologici

San Giovanni, “il Teologo”, “lo Spirituale” e “l’A­mico”, è quello che ci aiuta maggiormente a fare questa lettura “spirituale”, che, forse, potrebbe essere annotata anche così: il Mistero nascosto da prima dei secoli in Dio è l’Amore del Padre e del Figlio, che chiamiamo lo Spirito Santo: questo Mistero, che è la Gloria di Dio, è di fatto il fine di ogni intenzione di Cristo ed il Fine di Dio stesso, se così ci si può esprimere; tutti gli altri fini, sono subordinati a questo, e, rispetto a questo, per quanto nobili, sono secondari e ad esso finalizzati; il Signore Gesù ha convocato una rete ristretta di discepoli, di amici suoi, di associati intimamente a Lui; li ha educati e poi finalmente “co­stituiti”:

    perché nella radicale intimità [Cfr. la intima fra­ternitas sacramentalis, P.O., 8] di Lui con loro e fra di loro fosse reso visibile “come in uno specchio” l’amore invisibile e totale del Padre e del Figlio,

    e perché questo amore fosse ripetuto all’infinito, sempre originalmente nuovo, affinché l’immagine del suo amore ripetuta, e ripetuta, e ripetuta... ovunque e in ogni tempo, possa così fare da fermento e da coagulo di quella più grande immagine della Trinità che è la Chiesa: «vuole infatti ogni amante che la immagine del proprio amore si ripeta e moltiplichi senza fine» [S. AGOSTINO, De Trinitate].

«Come tu stesso, o Padre, sei in me ed io in te, e così essi pure siano in noi; onde il mondo creda che tu mi hai mandato.

Quanto a me ho dato ad essi la gloria che mi hai dato, affinché siano uno, come noi siamo uno. Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità, onde il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li hai amati, come hai amato me...

Come tu hai mandato me nel mondo, così io ho mandato loro nel mondo... L’ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il tuo Figlio glorifichi te, poiché tu gli hai dato potere sopra tutti gli uomini, affinché dia la vita eterna a quanti gli hai affidati. Ora la vita eterna è che conoscano Te, solo vero Dio e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17).

Il 25 ottobre 1993 è stata difesa alla Pontificia Università Gregoriana una interessante Tesi (541 pagine) di Teologia Spirituale, dal titolo La Fraternità sacramentale dei presbiteri (ne è autore il sac. Carlo Bertola, mentre ne è stato moderatore il P. Francis A. Sullivan S.J. [Ne è stata edita una anticipazione dal titolo Fraternità Sacerdotale, Città Nuova, Roma, 1994, ed un breve estratto nello stesso 1994, con l’ampia ed utile Bibliografia]. Alle pagine 101-103, della Tesi del P. Bertola, viene presentato il tema “dalla comunione trinitaria alla comunione apostolica e presbiterale”, mentre alle pagine 103-105 si trova il capitolo “la fraternità sacerdotale ‘specchio’ della comunione trinitaria”; seguono poi alle pagine seguenti i capitoli “i presbiteri, icone di Dio-Comunione”; “ultima Cena, culmine di intimità e di fraternità”; “L’ordinamento apostolico della comunione presbiterale”; “dalla Trinità alla fraternità sacramentale dei presbiteri”; “Ecclesiae Primitivae forma”;... «Nell’amore vero, reale e fraterno dei presbiteri essi fanno conoscenza e prendono coscienza dell’amore trinitario del Padre, del Figlio e di quello Spirito che è l’amore stesso che si scambiano e si donano reciprocamente sia il Figlio che il Padre e che è stato donato pure a loro.

Così è possibile riconoscere e “vedere”, nella fraternità reciproca all’interno della comunione presbiterale, lo Spirito di quell’amore che è del Padre e del Figlio, che poi è donato anche per mezzo loro a tutti i credenti» (pag. 103).

«Se nei primi secoli dell’era cristiana il vedere come si amavano i cristiani (cfr. At 2, 47) era già la “parola” più efficace per attirare nuove persone alla verità ed alla fede in Cristo, tanto più il “vedere” la reciprocità dell’amore nella comunione presbiterale “parlerà” della co­munione trinitaria ed attirerà ad entrarvi, più di ogni parola. (...) Questa è la Buona Notizia, che, amandosi tra loro, comunichino agli altri la chiamata alla comunione nella Trinità.

(...) Per aprire le anime all’inabitazione della SS. Trinità i presbiteri devono assumere e comprendere il senso pieno del loro sacerdozio, come compagnia, come fraternità, come amicizia, come speculum visibile invisibilis Dei» (pagg. 103-104).

«Appare evidente che i grandi temi trinitari... semplificano e chiariscono il tema stesso del sacerdozio, che si rivela così con un più chiaro riferimento al Vangelo, (come fa il Concilio Vaticano II, ove i vari temi sono stati primariamente polarizzati e successivamente mes­si in relazione).

(...) Dal Vangelo traspare non solo l’intenzione primigenia di Cristo: rivelare Dio all’uomo, ma anche il mezzo per attuarla: la comunione apostolica. E il gruppo dei discepoli e lo stesso sacerdozio appare nella mente di Cristo come l’immagine visibile che egli è venuto a manifestarci, a donarci, a mostrarci, a rivelarci (“io in loro e tu in me”; perché vedendo cre­dano...)» (pag. 104).

«Si potrebbe aggiungere che il sacerdozio come ordo, come corpus, e, come tale, riferito alla comunità apostolica di Gesù con i suoi, non è solamente uno “specchio visibile del Dio invisibile”, ma come una reinvenzione – se così ci si può esprimere – originale e continua, in forma per così dire “ossessiva” (come è proprio dell’amore), dello stesso debordante amore di Dio, che è la SS. Trinità; Dio “come colui che” ricrea e tende continuamente a reinventare la intimità trinitaria» (pag. 105).

«Il senso della nostra vita sacerdotale è racchiuso in questo augustissimo mistero, primariamente per noi presbiteri la nostra progressiva conversione cristiana (metanoia) significa imparare, nello Spirito di Cristo, a diventare persone capaci di donarsi (kenosis), di servire gli altri (diakonia) per la pienezza di vita nella comunione trinitaria (koinonia), avendo sempre da­vanti agli occhi, ma soprattutto nel cuore, quel su­premo modello trascendente che è la beatissima Tri­nità» (pag. 105).

«...Il popolo di Dio risulta infatti convocato alla comunione trinitaria da un fermento primigenio che è proprio la comunione presbiterale, la comunione dei discepoli di Gesù. È difficile non osservare che nella mente di nostro Signore, nel “vedere” la comunione dei “suoi”, i dispersi ed isolati uomini sono potentemente ed efficacemente attratti a quel “corpo” che si chiama Chiesa. (...) Il precetto dell’amore, testamento di Cristo, è il segno definitivo dei suoi discepoli per i tempi nuovi, segno inequivocabile di fedeltà a lui e del modo come egli ama...; anzi la ragione del comandamento, il vedere l’amore vicendevole del Padre e del Figlio, che è lo Spirito Santo e di partecipare e ripresentare questa loro intimità di amore, è più importante del comandamento stesso».

«... è vero che tutti i credenti in Cristo sono poi chiamati ad essere suoi fedeli. Ma certamente in primo luogo il comandamento è per coloro che sono chiamati ad essere “suoi”, discepoli “con lui”, gli “intimi”, il primo “fermento” della massa (cfr. Mt 13, 33; Lc 13, 20-21). Di conseguenza poi l’invito è per tutti i cri­stiani... Se i discepoli rimangono nell’amore di Cristo, amando come egli ama – solo se c’è amore si compie ciò che è gradito all’amato – il Padre è glorificato nel Figlio ed i frutti diretti sulla comunità cristiana non mancheranno (Gv 15, 8-9)».

«Se il Padre ha scelto la sua perfetta immagine o icona, che è il Figlio suo Gesù Cristo... alla comunità cristiana è offerto di sperimentare la “gloria” di Dio, nella perfetta immagine trasformante di Gesù Cristo, attraverso icone viventi di Lui.

Queste icone viventi di amore apostolico e fraterno, sono il mezzo attraverso il quale Dio modella la comunità cristiana orientandola alla fede, alla speranza ed all’azione. (...) Questa è la vita esaltante, rischiosa e sublime alla quale i presbiteri – “le fragili colonne del cielo” – sono condotti: essere cioè la “gloriosa” trasparenza della essenza di Dio, della sua natura e modo di essere, delle sue prospettive di vita, essere “specchi” del gloriosissimo Dio uno e trino, essere la luce stessa nella quale si intravede il volto del Signore: sacerdos enim alter Christus» (pag. 107).

Come lo ricorda “il Teologo”, “lo Spirituale” e “l’Amico” Giovanni, con quelle straordinarie parole, pur vere per ogni cristiano, ma specifiche per i discepoli: «Io sono la vite e voi i tralci. Chi rimane in me ed io in lui fa molto frutto... In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore, come io osservo i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati... Voi siete miei amici... non vi chiamo più servi... ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga... questo vi comando: amatevi gli uni gli altri» (Gv 15) [Se si volesse avere un quadro della comunità presbiterale e della esperienza del celibato sacerdotale: cfr. C. COCHINI, Les Origines Apostoliques du célibat sacerdotal, Paris 1981: vale forse la pena di annotare che il Cochini, nella sua poderosa opera di ricerca storica, segnala che i Padri della Chiesa sono unanimi del dichiarare che coloro tra gli apostoli, che potessero essere stati sposati, hanno poi cessato la vita coniugale e praticato il celibato. Ed inoltre Egli indica che il sentimento comune dei Padri su questo punto costituisce un’ermeneutica autorizzata dei testi biblici in cui si fa allusione al distacco praticato dai discepoli di Cristo. Entrando sotto il potere totalizzante evocato dalle parole di San Giovanni essi, i discepoli, non potevano essere altrimenti che votati a quell’amore apostolico radicale].

 

Conclusione

Giovanni Paolo II in data 14 maggio 1995 ha ordinato 41 nuovi sacerdoti per la Diocesi di Roma. All’omelia Egli, citando San Giovanni, ha detto: «“Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri: come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35) (...). Il sacerdote è, infatti, un uomo che ha la profonda consapevolezza di essere amato da Dio. È un amore che egli stesso sperimenta in prima persona... Se compito del sacerdote è l’opus gloriae, questo può essere adempiuto soltanto mediante l’opus caritatis (...). Consapevole di quanto sia stato amato egli stesso da Dio, il presbitero deve a sua volta diventare ministro dell’amore divino fra gli uomini (...). È necessario diventare sempre più ministri di questo amore! Ministri, innanzitutto, dell’amore vicendevole tra gli stessi sacerdoti, in una singolare fratellanza tipica della vocazione e del ministero presbiterale...» [L’Osservatore Romano, 15-16 maggio 1995, pag. 5. Il Santo Padre Giovanni Paolo II, nel corso degli anni del Suo Pontificato, è ritornato più volte sul tema del Celibato e della Fraternità Sacerdotale; a modo di esempio si possono qui ricordare i due Discorsi da Lui fatti: 1) agli alunni del Pontificio Seminario Lombardo di Roma, in L’Osservatore Romano del 16.9.1990, edizione spa­gnola del 21 ottobre 1990; 2) ai seminaristi e novizi di Budapest, il 19 agosto 1991, in L’Osservatore Romano del 20.8.91, edizione spagnola del 6 settembre 1991].

 

Corollario primo

Circa il problema dell’esistenza di preti sposati presso certi riti orientali e circa l’accoglienza nel rito latino di pastori anglicani (o di altre denominazioni protestanti) sposati e la loro successiva ordinazione sacerdotale. Questa questione potrebbe essere affrontata in due differenti maniere: una maniera pratica, dal punto di vista dei vantaggi e degli svantaggi, ed una maniera teorica, o evangelica.

1) Vivendo da 19 anni in una casa “maronita” – i maroniti hanno preti sposati – direi che la maniera pratica di valutare la questione spesso non conduce da nessuna parte; mentre anzi a volte si spegne nel consueto pettegolezzo circa i preti sposati o circa i preti celibi. Ma comunque si può osservare praticamente che la ordinazione sacerdotale di uomini sposati non è in alcun modo una maniera di sopperire alla mancanza di vocazioni. Infatti, sia presso gli anglicani e protestanti, come presso gli ortodossi ed orientali, la immagine del pastore sposato o del prete sposato, anziché favorire, sembra rallentare e ridurre la fonte delle vocazioni ed in certo senso anche la loro utilizzabilità, come si può desumere dalla considerazione di quelle esperienze plurisecolari; mentre in­vece, anche presso gli orientali, l’immagine del prete celibe è spesso più facilmente attrattiva ed anche “utilizzabile”.

2) S.E. Mons. Alfred Ancel, fondatore e superiore del “Prado” e Vescovo Ausiliare di Lione, fu invitato il 30 settembre 1965 dai Vescovi Brasiliani, presso la “Domus Mariae”, per loro e per Vescovi di altri Paesi, nel contesto dei lavori del Concilio Vaticano II a presentare la conferenza “Le Célibat sacerdotal” [Pub­blicata poi in La Documentation Catholique, Avril 1967, col. 727-750]. Egli annota: «In Libano ed in Siria ho incontrato dei preti sposati» e si chiede «conviene (in occidente) stabilire un doppio clero come esiste in oriente: clero celibe e clero sposato?» ed aggiunge: «Ecco alcuni fatti che potranno aiutare la nostra riflessione:

1) Episcopato e celibato. Tutti i Vescovi, in Oriente, sono tenuti alla legge del celibato: non è forse questo un segno che c’è un legame fra il celibato e lo stato sacerdotale...?

2) D’altra parte, voi lo sapete, non si può parlare di matrimonio dei preti in Oriente. Quando si parla di matrimonio di preti in Oriente, non si parla di preti che si sposano, ma di uomini sposati che sono ordinati preti, in Oriente come in Occidente non è mai per­messo a un prete di sposarsi. Voi sapete anche che in Oriente un prete sposato, se diventa vedovo, non può risposarsi. Questa legislazione sembra ben pro­vare, essa stessa, che esiste un certo legame fra sacerdozio e celibato. Io conosco due seminari in Oriente, quello di Sant’Anna di Gerusalemme e quello dei Gesuiti di Beirut.

I seminaristi possono, seguendo il diritto orientale, sposarsi prima del diaconato e ricevere successivamente il sacerdozio.

Ma di fatto, da molti anni e senza esservi tenuti da alcuna legge, i seminaristi orientali hanno ricevuto il diaconato ed il sacerdozio senza essere sposati: per ciò stesso essi, si impegnano per sempre nel celibato. (...) Ecco dunque gli argomenti che ho inteso a favore o contro il clero sposato in Oriente (...) converrebbe dunque trasferire in Occidente la situazione che c’è in Oriente? (...) Personalmente io non sono favorevole all’estensione della situazione orientale al clero di rito latino, questa preferenza (...) ha il suo fondamento nel Vangelo ed essa si impone in qualche modo al mio giudizio perché mi pare che sia nel senso della storia».

In questa luce, la presenza di preti sposati presso gli orientali parrebbe avere un significato analogo a quello limitato che ha, presso la Chiesa Latina, la presenza di preti sposati provenienti dall’anglicanesimo o da altre confessioni protestanti.

 

Corollario secondo

Circa la necessità di chiarezza sulla intenzione della Chiesa, in materia di celibato sacerdotale, per i numerosi seminaristi e novizi sparsi nel mondo.

Nel 1993, c’erano nel mondo 120.050 seminaristi minori, 102.000 seminaristi maggiori, 9.602 novizi, mentre nel 1992 ci furono 6.401 nuove ordinazioni di preti diocesani e 2.568 di religiosi. Inoltre, prendendo in considerazione il periodo 1978-1993, si registra un aumento del numero complessivo di seminaristi mag­giori (comprendendo gli studenti di filosofia e teologia tanto degli istituti diocesani quanto religiosi) del 62,8%, con punte massime (oltre il raddoppio) in Africa ed Asia.

L’aumento del numero delle ordinazioni sacerdotali, del clero diocesano e religioso complessivamente, è stato poi del 33,8% (va tenuto conto tuttavia che, data la scarsità di ordinazioni sacerdotali negli anni precedenti il 1978, la mortalità annuale nel clero ha poi ridotto – durante qualche anno – il numero globale dei sacerdoti nonostante l’aumento crescente delle ordinazioni sacerdotali di anno in anno fin dal 1978).

È facile vedere, perciò, che, di fronte ad un numero così elevato di giovani, che impegnano tutta la loro vita nel sacerdozio, la Chiesa senta il dovere di essere assolutamente chiara in merito alla sua intenzione circa la connessione fra celibato e sacerdozio nei preti di rito latino: non si deve e non si può, infatti, giocare con la vita delle persone ed un giovane che entra nel sacerdozio ha diritto di conoscere, con assoluta precisione, ciò a cui egli si impegna per sempre.

Certa stampa secolarista moderna, soprattutto quella maneggiata dalle centrali dei poteri “laici” ed anche certi gruppi ecclesiali minoritari-radicali, poco inclini a visioni di insieme e poco rispettosi delle decisioni delle maggioranze e dell’autorità nella Chiesa, vorrebbero mantenere – negli anni – uno stato di perpetua incertezza e di continua ridiscussione su tale questione del celibato sacerdotale e ripropongono perciò a ripetizione, a getto continuo, le stesse obiezioni già note e già decadute, nella intenzione di aprire un varco, per poi giungere a ribaltare la situazione.

È troppo chiaro che, proprio per riguardo alle tante vocazioni sacerdotali, la Chiesa non può e non deve accettare la perpetua dialettica dell’incertezza e del dubbio, ma deve – per obbligo morale verso tutti coloro che vengono ordinati sacerdoti – parlare la parola della chiarezza precisa e definita. Per questa ragione il Sinodo dei Vescovi del 1990 e l’Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis (n. 29) del Papa Gio­vanni Paolo II dicono testualmente: «Il Sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino».

 

 

IL CELIBATO ECCLESIASTICO
E LA FRATERNITÀ SACERDOTALE
(“Apostolica Vivendi Forma”)
nel Magistero recente della Chiesa


 

Per una lettura del “celibato”, fatta dal Magistero della Chiesa ci si limita al “Magistero recente”, a partire dal Concilio Vaticano II, per sottolineare una delle novità che Esso ha introdotto nella sua riflessione sul celibato.

Con tale riflessione il Magistero – reagendo a certa cultura contemporanea secolarista e riduttiva – ha costruito un ponte diretto con le fonti evangeliche, riproponendo l’immagine suggestiva che la rinuncia al matrimonio viene attuata per seguire il Signore-Gesù in una comunità apostolica, che è perciò, per tutta la Chiesa, lo specchio visibile e fecondo dell’invisibile amore trinitario. Questa visione potrebbe essere sintetizzata con la celebre e nota antichissima espressione: apostolica vivendi forma.

Infatti, come lo affermò il Santo Padre Giovanni Paolo II nel 1981 (Discorso ai sacerdoti nell’Isola di Cebu, Filippine, 19 febbraio). «Il Celibato non è affatto marginale nella vita del sacerdote: dà testimonianza di un amore modellato sull’ amore di Cristo».

I preti, a loro volta, sono nel cuore delle comunità cristiane, e dallo splendore della loro vita e del loro ministero dipende largamente la vivacità della Chiesa. Non è quindi un problema di secondo piano il modo in cui essi hanno intrapreso e vivono la loro sequela di Cristo, cioè il modo in cui il fuoco portato da Cristo arde ed illumina dai loro cuori.

 

Sul celibato sacerdotale si può partire dalle precise affermazioni sintetiche del Concilio Vaticano II (Optatam Totius n. 10, Presbyterorum Ordinis n. 16, cfr. Lumen Gentium nn. 42 e 44, e cfr. Perfectae Caritatis n. 12), fino a giungere al Sinodo Mondiale del 1971, col quale, da parte dell’Autorità Ecclesiastica, è stata definitivamente risolta – in senso positivo – la questione sulla opportunità o meno di conservare il celibato sacerdotale come obbligatorio per il clero latino (passando attraverso la tappa intermedia dell’Enciclica Sacerdotalis Caelibatus del 24 giugno 1967 di Paolo VI).

Si potrebbe dire che proprio l’Enciclica Sacerdotalis Caelibatus presenta utilmente in modo sintetico le principali obiezioni al celibato sacerdotale, richiamandone sette:

    Gesù non lo avrebbe imposto, ma solo proposto (n. 5),

    le ragioni dei Padri sembrano ispirate da eccessivo pessimismo verso la “carne” (n. 6),

    non tutti gli aspiranti al sacerdozio ne avrebbero il carisma (n. 7),

    la sua obbligatorietà sarebbe causa di rarefazione delle vocazioni (n. 8),

    esso sarebbe causa di disordini ed infedeltà (n. 9),

    determinerebbe una situazione innaturale, che danneggerebbe la personalità umana, instaurando un disprezzo verso l’opera della creazione (n. 10),

    l’attuale preparazione sarebbe inadeguata (n. 11).

 

Il Concilio

Il 12 novembre 1964 il relatore Mons. Marty presentava al Concilio il Textus emendatus, dopo che il Concilio ne aveva discusso nelle Congregazioni Generali del 13, 14 e 15 ottobre precedenti, con la seguente espressione Legem itaque caelibatus, prout in usu est, sacrosanta haec Synodus iterum comprobat.

In data 10 ottobre 1965 Paolo VI fece pervenire al Concilio una lettera, letta ai Padri l’11 ottobre dal Segretario Generale; con essa il Santo Padre si riservava la trattazione della questione: «... essere ancora nostro proposito, per quanto è in noi, non solo di conservare questa legge antica, sacra e provvidenziale, ma anche di rafforzare l’osservanza, richiamando i sacerdoti della Chiesa latina alla coscienza delle cause e delle ragioni».

La lettura della Lettera del Papa fu accolta, come indicano le cronache ufficiali del Concilio con plausus magnus in Aula.

Nella Congregazione Generale del 12 ottobre suc­cessivo fu data lettura della lettera di risposta al Papa del Card. Tisserant, a nome del Concilio; il Cardinale scriveva che la lettera del Papa era stata accolta dai Padri repetito plausu.

L’11 ottobre 1965 fu distribuito nell’Aula del Con­cilio l’ultimo testo del decreto (Schema Decreti Presby­terorum ministerio et vita) e la discussione si protrasse in Aula nei giorni 14, 15, 16, 25, 26 ottobre 1965.

Il Segretario Generale del Concilio, Cardinale Pe­ricle Felici, in un suo opuscolo del 1969 (“Il Vaticano II ed il Celibato Sacerdotale”, Poliglotta Vaticana), su questo punto precisa testualmente alla pag. 18: «Nes­sun emendamento e nessun modo mirava a porre in questione la legge del celibato ecclesiastico. Anzi l’ultimo testo votato dal Concilio, e poi approvato, alla parola comprobat aggiungeva anche l’altra confirmat».

Per cui la proposizione approvata dal Concilio suona così: Quam legislationem, ad eos qui ad presbyteratum destinantur quod attinet, Sacrosanta haec Synodus iterum comprobat et confirmat (Presbyterorum Ordinis n. 16).

Vi sono inoltre, nei già citati documenti del Concilio, oltre al fatto saliente riferito, anche accenni a motivazioni, benché il tema generale – come si è accennato – non sia stato trattato ex professo in quanto alle motivazioni.

Tuttavia tali accenni a motivazioni, presenti ap­punto gia nei testi del Concilio, si trovano espressamente ripresi e sviluppati nella citata Enciclica Sacerdotalis Caelibatus di Paolo VI.

 

L’Enciclica Sacerdotalis Caelibatus

Si potrebbe forse dire che la Enciclica percorre un cammino, approfondendo sempre più il dato di partenza, cioè l’esperienza evangelica.

La rimeditazione dell’esperienza del Signore Gesù, ove del resto deve collocarsi la base più autentica per ogni riflessione sul celibato, ha condotto poco a poco ad una visione più complessa e più attenta della dimensione storica dell’uomo e del piano preciso che Cristo stesso manifesta di avere circa tale dimensione storica dei suoi discepoli.

La problematica dei valori umani ha innanzitutto permesso di recuperare una visione più completa del celibato, collocandolo, sul modello della situazione di vita del Signore Gesù, nel contesto di una comunità di fratelli ed amici, riuniti attorno a Lui, in atteggiamento di coagulo e fermento visibile e trasparente di una realtà più profonda (quella trinitaria).

La considerazione poi delle difficoltà pratiche, cui sopra si è accennato, ha permesso all’Enciclica di fare ulteriori precisazioni: il sacerdote, infatti, che voglia vivere una fedeltà al Signore Gesù nella dimensione celibataria, dovrebbe inserirsi in una comunione sacerdotale, ove vivere un’intima fraternità sacramentale.

(Cfr. P.O. n. 8: Presbyteri ... omnes inter se intima fraternitate sacramentali nectuntur. La mente della Commissione del Concilio su questo punto è la seguente: l’Unio Presbyterorum cum Episcopis et inter se, in ambitu ecclesiali utpote quae in Sacramento Ordinis fundetur est iuris divini; sed addictio alicui diocesi particulari et proinde Presbyterio diocesano est iuris ecclesiastici. Modus ergo admittitur (Schema Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus recognitus et relationes, Modus 98 – in num. 8 – pag. 62; sotto questa luce i Padri del Concilio votarono ed approvarono il n. 8 della Presbyterorum Ordinis).

A sua volta il P. Giuseppe Rambaldi S.J., esperto del Concilio Vaticano II e professore sul sacerdozio alla Università Gregoriana, commentando questo punto annota:

«Talis est ista Fraternitas – in sacramento Ordinis fundata quae reduci nequeat ad necessitudinem illam quantumvis alta ea sit – quae sacramentis initiationis christianae oritur. At qua mensura Character et gratia ordinationis, qua quis minister Christi constituitur, vitam Christianam iam Baptismate receptum tangit ac eam ad finem sacerdotii ministerialis ordinat et aptat, eadem mensura fraternitas sacerdotalis-presbyteros etiam in tota eorum vitae et conservando ratione ligat ac ad invicem sollicitos facit... Sollicitudo qua pre­sbyteri sese adiuvant non promanat ex solo officio caritatis quam ratione Baptismatis, ones inter se tenentur fideles exercere (Rambaldi, Fraternitas Sacramentalis et Presbyterium in Periodica de Re Morali Canonica, Liturgica, n. 57, 1968, pag. 355).

Tale fraternità sacramentale dei presbiteri dovrebbe essere resa più concreta da una qualche forma di vita comune, in amicizia sincera, anche nei confronti del Vescovo.

 

Il testo del Sinodo dei Vescovi del 1971: Il Sacerdozio Ministeriale

È bene qui ricordare la vasta consultazione, ad ogni livello ecclesiale, che precedette tale Sinodo con riu­nioni e dibattiti all’interno di ogni Diocesi e comunità.

Tali ampi dibattiti nel popolo di Dio erano accompagnati da una intensa discussione sui media e fra gli esperti, mentre la “cultura secolarista” tendeva ad esercitare influssi e pressioni.

Non vi è dubbio che il punto più ampiamente dibattuto ed approfondito fu quello del celibato sacerdotale ed anzi si giunse al dibattito sinodale in un clima di grande consapevolezza ecclesiale e di grande attesa.

Il Sinodo in effetti ripropose il valore del celibato sacerdotale nella chiave del contesto storico-missionario della Chiesa e perciò si ispirò all’esperienza della sequela apostolica.

Appare una dimensione storico-comunitaria molto marcata, che non era ancora molto presente nell’Enciclica Sacerdotalis Caelibatus di Paolo VI; il sacerdozio di Cristo è presentato come attività di riunificazione dell’umanità in Dio; in questa linea si colloca il ruolo dei presbiteri, i quali continuando l’opera degli apostoli rendono presente Cristo.

Il sacerdote, più precisamente è:

    sponsor primae Evangelii proclamationis ad Ecclesiam congregandam, quam indefessae renovationis Ecclesiae iam congregatae (n. 4)

    in servitium communionis (n. 6)

    sacerdotale ministerium essentialiter communitarium est in Presbyterio et cum Episcopo (n. 6)

    “Seguendo l’esempio di Cristo, i presbiteri coltivino la fraternità col Vescovo e tra di loro, fraternità fondata sull’ordinazione e sull’unità di missione, affinché la testimonianza sacerdotale diventi maggiormente credibile” (n. 6)

Nella seconda parte del documento (nel quarto punto della prima delle due sezioni di questa seconda parte) si trova la riflessione sul celibato, che si innesta sul punto terzo precedente:

Vocatus enim, sicut et caeteri baptizati, ut con­formis sit Christo (cfr. Rm 8,29), presbyter insuper, sicut Duodecim, participet modo speciali consuetudinem cum Christo et eius missionem ut Pastoris Supremi: “Et fecit Duodecim ut essent cum illo, et ut mitteret eos praedicare” (Mc 3,14).

La prospettiva scelta è quella biblica, ed i prototipi dei presbiteri sono ravvisati nei dodici apostoli. Questi avrebbero avuto una vocazione particolare, che i presbiteri analogamente condividono; la chiamata alla sequela apostolica diviene così il punto di riferimento fondamentale per risolvere i problemi del prete: per cui anche la trattazione del celibato si rifarà esplicitamente a questa vocazione alla sequela apostolica di Cristo.

(Mentre nell’Enciclica di Paolo VI il riferimento primo era Cristo, Mediatore e Sacerdote eterno (n. 21), la riflessione assume qui un taglio meno slegato dal complesso divenire storico concreto di come il Van­gelo si è diffuso per la mediazione degli Apostoli).

La propria riflessione sul celibato, proposta dal punto quarto si articola in quattro momenti: fondamento teologico, motivi concomitanti, legittimità della legge, condizioni da promuoversi, cui seguono due determinazioni legislative.

Quanto al fondamento del celibato (§ a) esso è duplice: da una parte il celibato dei sacerdoti è in armonia con la vocazione alla sequela apostolica di Cristo, dall’altro alla disponibilità ad assumere un servizio pastorale, cioè sono congiunti i due aspetti: la chiamata dei dodici (“stare con Cristo”) e la partecipazione alla sua missione di Pastore Supremo.

La sequela dei dodici resta dunque come lo sfondo generale, cui riferirsi per dare configurazione sempre più precisa al celibato stesso:

Si autem Caelibatus in spiritu Evangelii, in oratione et vigilantia, cum paupertate, laetitia, honorum despectu, amore fraterno vivitur, signum est quod diu latere non potest, sed efficaciter Christum hominibus etiam nostrae aetatis proclamat nam verba hodie vix aestimantur, sed vitae testimonium radicalismus evangelicum ostendens, virtutem habet trahendi.

Il celibato sacerdotale viene dunque presentato in una prospettiva storico-missionaria, in cui la salvezza è una realtà storica che trova nel celibato sacerdotale un signum che la rivela agli uomini come imminente.

Nel § b si adducono varie motivazioni, di per sé già note, che, convergendo, confermano l’opportunità del celibato sacerdotale:

    il sacerdote celibe fa capire la presenza di Dio assoluto,

    richiama gli uomini alla profondità dell’amore fedele e manifesta il significato supremo della vita,

    si associa in modo speciale a Cristo,

    manifesta in anticipo la libertà dei figli di Dio,

    mostra più chiaramente la fecondità spirituale della nuova legge,

    riceve una forza maggiore per edificare la Chiesa,

    più facilmente può servire Dio con cuore indiviso e spendersi per le pecorelle.

Il § d presentando le condizioni che favoriscono il celibato sacerdotale, cioè la vita interiore, annota:

«aequilibrium humanum per ordinatam insertionem in compaginem socialium relationum; fraterna cum aliis presbyteris et cum Episcopo consuetudo et conversatio, pastoralibus structuris ad hoc melius aptatis, adiuvante quoque comunitate christifidelium».

(Si potrebbe notare che questa prospettiva completa quella escatologica del § b: omnem contingentem valorem humanum superans, sacerdos caelebs Christo ut bono ultimo et absoluto speciali modo se consociat).

In tale schema sono dunque presenti, a ben vedere, tre tipi di relazioni:

1) dei dodici con Cristo (esperienza modello),

2) del sacerdote con Cristo (vocazione sacerdotale),

3) dei sacerdoti con gli altri sacerdoti e col Vescovo (condizione sacerdotale concreta).

I § c e § e, ma specialmente il § e illustrano la necessità di conservare il celibato sacerdotale nella Chiesa Latina:

Lex caelibatus sacerdotalis in Ecclesia Latina vigens integre servari debet.

La singolarità inusitata, di questo Documento Pontificio-Sinodale, sta nel fatto che il papa Paolo VI ordinò personalmente, a perpetua memoria dell’evento, che nel testo pubblicato apparissero esplicitamente gli esiti della votazione; la precedente dichiarazione del 1971 con la seguente votazione: Exitus suffragationis: placet 168, non placet 10, placet iuxta modum 21, abstentiones 3.

Inoltre furono messe in votazione le seguenti due espressioni fra loro contrapposte:

“Formula A: salvo semper Summi Pontificis iure, ordinario presbyteralis virorum matrimonio iunc­torum non admittitur ne in casibus quidem particularibus”.

“Formula B: Solius Summi Pontificis est, in casibus particularibus, ob necessitates pastorales, attento bono universalis Ecclesiae, concedere ordinationem presby­teralem virorum matrimonio iunctorum provectioris tamen aetatis et probatae vitae”.

L’esito della votazione sinodale su queste due formule fu la seguente: «Prima formula, seu A, obtinuit 107 suffragia, altera, seu B, 87. Abstentiones fuerunt 2, et 2 pariter vota nulla».

In conclusione circa il documento del Sinodo 1971 si potrebbe dire che l’istanza culturale generale più attenta alla dimensione storica dell’uomo, ha indotto il Sinodo ad un approfondimento del dato tradizionale, recuperando aspetti importanti della complessa esperienza evangelica.

Il Celibato dei sacerdoti è emerso pertanto come un rapporto speciale col Signore, caratterizzato dalla ri­nuncia al matrimonio e da incondizionato zelo per le anime (“il non poter essere altrimenti”), ma, con non minore vigore, dall’assunzione di rapporti fraterni in­tensi con gli altri preti e col Vescovo, giacché sono indicati come condizioni essenziali perché il Celibato sacerdotale possa essere segno.

“Orientamenti educativi per la formazione al Celibato Sacerdotale” è il titolo del documento che la Congregazione per l’Educazione, per volontà del Papa Paolo VI, pubblicò l’11 aprile del 1974.

Per brevità si rimanda direttamente alla sua lettura.

 

Sinodo del 1990 sulla formazione sacerdotale (“De sacerdotibus formandis in hodiernis adiunctis” ed Esortazione Apostolica “Pastores dabo vobis” del 1992 del Papa Giovanni Paolo II.

Il tema del celibato sacerdotale si poteva dire già definitivamente risolto con gli eventi relativi al Sinodo 1971 (ampia consultazione di base, dibattito e votazioni e decisione finale di Paolo VI), che dava forma conclusiva agli orientamenti del Concilio e della suc­cessiva Enciclica Sacerdotalis Caelibatus.

Ed infatti, di per sé, il Sinodo 1990 avrebbe dovuto trattare della formazione sacerdotale. Tuttavia durante la previa consultazione per questo Sinodo, alcuni grup­pi ecclesiali vollero risollevare la questione. (Ben­ché non sia segno di sana prassi interna il fatto di non accettare mai ciò che la maggioranza approva ed il Papa promulga e di volerla ricominciare sempre da capo ostinatamente).

Inoltre i media controllati dai gruppi “laicisti”, nel loro affanno di ridimensionamento e di secolarizzazione della Chiesa, avevano da tempo orchestrato campagne per l’abolizione del Celibato Sacerdotale, non risparmiando neppure argomenti scandalistici, ap­positamente esaltati e gonfiati a danno di tante splen­dide ed umili figure sacerdotali.

Il Sinodo perciò colse opportunamente la occasione per riprendere e riaffermare il concetto: come è noto solamente un Vescovo brasiliano si espresse nel Si­nodo in favore della ordinazione di uomini sposati, mentre un Cardinale brasiliano, cui un mensile aveva attribuito una espressione possibilista, volle smentire quella interpretazione di fronte a tutto il Sinodo.

La Pastores dabo vobis, al n. 29, dice testualmente:

«In questa luce si possono più facilmente comprendere ed apprezzare i motivi della scelta plurisecolare che la Chiesa di Occidente ha fatto e che ha mantenuto, nonostante tutte le difficoltà e le obiezioni sollevate lungo i secoli, di conferire l’ordine presbiterale solo a uomini che diano prova di essere chiamati da Dio al dono della castità nel celibato assoluto e perpetuo. I Padri sinodali hanno espresso con chiarezza e con forza il loro pensiero con un’importante Proposizione, che merita di essere integralmente e letteralmente riferita:

Ferma restante la disciplina delle Chiese orientali, il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale è un carisma, ricorda ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile di Dio per la Chiesa e rappresenta un valore profetico per il mondo attuale. Questo Sinodo nuovamente e con forza afferma quanto la Chiesa Latina e alcuni riti orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a quegli uomini che hanno ricevuto il dono della vocazione nella castità celibe (senza pregiudizio della tradizione di alcune Chiese orientali e dei casi particolari di clero uxorato proveniente da conversioni al cattolicesimo...). Il sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella sua piena ricchezza biblica, teologica e spirituale».

A questo ultimo proposito (“presentato e spiegato”) va aggiunto che la stessa Pastores dabo vobis sotto il titolo più generale “La natura e la missione del sacerdozio ministeriale”, al n. 14 presenta il Paragrafo dal ti­tolo “Gesù affida ai Dodici la sua missione”, che con­clude una esposizione evangelica della sequela e della missione, con la seguente espressione:

«Segno e presupposto dell’autenticità e della fecondità di questa missione è l’unità degli apostoli con Gesù e, in Lui, tra di loro e col Padre, come testimonia la preghiera sacerdotale del Signore, sintesi della sua missione (cf. Gv 17, 20-23)».

Per ultimo: Il “Direttorio per il Ministero e la vita dei presbiteri”, della Congregazione per il Clero (Giovedì Santo 1994).

Mentre per brevità si rimanda alla lettura diretta di tale documento, occorre annotare che al n. 57 sotto il titolo “Il celibato sacerdotale – Ferma volontà della Chiesa” si annota:

«Convinta delle profonde motivazioni teologiche e pastorali che sostengono il rapporto tra celibato e sacerdozio e illuminata dalla testimonianza che ne con­ferma anche oggi la validità spirituale ed evangelica... la Chiesa ha ribadito nel Concilio Vaticano II e ripetutamente nel successivo Magistero Pontificio la ferma volontà di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati al­l’ordinazione sacerdotale nel rito latino». «Il celibato, infatti è un dono che la Chiesa ha ricevuto e vuole custodire, convinta che esso è un bene per sé stessa e per il mondo».

Mentre al n. 59 si annota:

«L’esempio è il Signore stesso il quale, andando contro quella che si può considerare la cultura dominante del suo tempo, ha scelto liberamente di vivere celibe. Alla sua sequela i discepoli hanno lasciato tutto per compiere la missione loro affidata (cfr. Lc 18, 28-30).

Per tale motivo la Chiesa, fin dai tempi apostolici, ha voluto conservare il dono della continenza per­pe­tua dei chierici e si è orientata a scegliere i candidati all’Ordine sacro tra i celibi (cfr. Ts 2,15; 1 Cor 7,5; 9,5; 1 Tm 3,2.12; 5,9; Tt 1, 7, 8)».

Nel contesto del Capitolo dal titolo “Comunione Sacerdotale” (nn. 20-33), al n. 25 poi si precisa:

«In forza del sacramento dell’Ordine ciascun sacerdote è unito agli altri membri del presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità, (Pastores dabo vobis, 17). Egli, infatti, è inserito nell’Ordo Presbyterorum costituendo quell’unità che può definirsi una vera famiglia nella quale i legami non vengono dalla carne o dal sangue ma dalla grazia dell’Ordine».

 

Conclusione circa il Magistero

La riflessione del Magistero sul Celibato ha per­messo di precisarne uno statuto più storicamente de­terminato, sotto l’incalzare delle istanze antropologiche contemporanee, di una concezione della fede cri­stiana più attenta alla storia, ed infine delle difficoltà concrete emergenti.

Per “celibato sacerdotale” si intende ormai una si­tuazione complessa, determinata da un profondo amo­re al Signore Gesù, dalla rinuncia all’esperienza matrimoniale, dall’assunzione di legami di fraternità e di amicizia, che vorrebbero trovare la loro realizzazione in particolare nella vita comune, e infine dall’impegno generoso per la comunità dei fedeli.

Se si volesse fare un bilancio si potrebbe dire che si è sbloccata la riflessione sul celibato sacerdotale, mediante il passaggio da una visione tendenzialmente essenzialista e riduttiva ad una visione più storicamente connotata ed evangelica.

La riflessione del Magistero ha sottolineato nella condizione del prete celibe – nella prospettiva dell’esperienza evangelica – il tema della relazione umana, come ostensorio della comunione con Cristo e della Comunione Trinitaria.

È, del resto, abbastanza facile convenire che coloro che seguivano Gesù nel suo ministero terreno conducevano una certa vita comune con Lui.

Il Magistero, mettendo in luce come questo determinato contesto comunitario è stato il primo alveo dell’esperienza celibataria, che il Signore Gesù ha proposto ai ministri del suo vangelo, pone tuttavia alla riflessione cristiana un compito: quello di approfondire il senso di questa connessione.

Comunque gli ulteriori elementi nuovi che il Magistero ha introdotto nel quadro del celibato sacerdotale potrebbero essere rintracciati come segue: cfr. Da­miano Marzotto, Celibato Sacerdotale e Celibato di Gesù, Ed. Piemme 1987.

 

Due corollari:

Primo corollario

La rispondenza dei nuovi orientamenti con le i­stanze antropologiche contemporanee. La cultura mo­derna ha contestato in radice il celibato sacerdotale in quanto disumano, perché negatore di una dimensione fondamentale della persona come l’intersoggetività.

Il Magistero della Chiesa ha voluto invece ripensare il celibato sacerdotale, mettendone in luce anche gli elementi di intersoggettività: la relazione con il Ve­scovo, la fraternità sacerdotale e possibilmente la vita comune; il Magistero però non ha tralasciato di richiamare continuamente anche le altre dimensioni: di con­sacrazione sempre più intima al Signore Gesù e di donazione sempre più libera ai fedeli.

La sollecitazione ad un ripensamento più ampio del quadro concettuale relativo al celibato sacerdotale ed in particolare al suo significato apostolico.

L’istanza della vita comune per il clero non sarebbe l’assunzione surrettizia di un’istituzione tipicamente monacale, anche se storicamente questo può essersi verificato, ma sarebbe piuttosto il risvolto necessario della scelta del celibato evangelico, in prospettiva apo­stolica.

Se ciò non è stato chiaro del tutto in passato, può essere avvenuto perché la coscienza che si aveva del celibato sacerdotale non si era sufficientemente con­frontata con la forma iniziale della vocazione celibataria sacerdotale, ma dipendeva ancora troppo da mentalità esterne al dato cristiano.

Occorrerebbe però ricordare come nei primi secoli il ministero presbiterale era vissuto come realtà collegiale, il che non poteva che favorire il sorgere di una vita comune, attorno al vescovo, di presbiteri non spo­sati (S. Agostino ed altri).

Tale collegialità venne poi sempre più disgregandosi, dando luogo a forme di vita sacerdotale completamente isolate; si comprende allora perché il celibato fu approfondito soprattutto a partire da questa nuova situazione (sottolineatura della motivazione mistica; della motivazione di servizio dei fedeli).

Oggi dunque, a partire dal Concilio Vaticano II si va riscoprendo la dimensione collegiale del presbiterio.

Ciò dovrebbe portare anche ad una riconsiderazione dello stile di vita dei preti (vita in comune) e quindi del senso del celibato, in questa dimensione più comunitaria, che il Magistero ha indicato.

I sacerdoti che rinunciano ad una relazione coniugale, lo fanno per seguire il Signore Gesù all’interno di una comunità apostolica, ove «possono realizzare quel­le profonde e benefiche relazioni interpersonali» (o­rien­tamenti 14), che consentono loro innanzitutto di aprirsi veramente e profondamente al mistero dell’amore del Signore Gesù ed insieme di essere segno trinitario tipico di quella comunione fraterna, che Cristo vuole suscitare nel mondo e che nel rapporto appunto di Cristo col Padre ha il suo fondamento ed il suo modello.

Nello stesso tempo la partecipazione alla comunione apostolica alimenta in loro quel desiderio di donarsi sempre più al servizio dei fratelli e soprattutto educa in loro atteggiamenti giusti di rispetto e di comprensione, di attenzione e di condivisione, che de­ve caratterizzare la carità pastorale.

Emerge allora sempre più chiaramente il rapporto celibato sacerdozio, nel senso che il celibato sacerdotale è appunto al servizio della missione apostolica; la vita di comunione fraterna, cui esso deve dare luogo, è fondamentale fermento e segno trinitario per i fedeli ed insieme stimolo ed apprendistato alla donazione e ad una capacità di relazione profonda e personale anche nell’apostolato.

 

Secondo corollario

Emerge anche il limite di quella posizione che vorrebbe valorizzare il celibato del sacerdote, in quan­to lo collega al ruolo di sposo, che ogni sacerdote avrebbe nei confronti della Chiesa: la comunità ver­rebbe a prendere il ruolo della sposa in quella dinamica dialogale io-tu, che è necessaria all’equilibrio di ogni persona.

In effetti nel nostro tempo si vive il rilancio opportuno del tema sponsale e si ha perciò la tendenza na­turale e “di moda”, di predicarlo di ogni altra realtà, magari anche con fondamento.

Tuttavia le tendenze “del momento” possono avere anche una valenza alquanto “forzata”, giacché un’analogia ed un analogato sembrano tanto più opportuni quanto più realizzano in sé visibilmente il segno che intendono significare.

Sull’enfasi di tale analogia sponsale sarebbe perciò il caso forse di non premere molto, per coloro che, come i sacerdoti celibi, nella loro vita concreta non conoscono, non realizzano e perciò non visualizzano il segno matrimoniale.

 

LA FERMEZZA DELLA CHIESA*

 

Il Santo Padre Giovanni Paolo II nel suo recente volume autobiografico Alzatevi, andiamo! ha fatto ri­fe­rimento esplicito al celibato sacerdotale. Ci permettiamo di riportare qui di seguito le parole del Papa:

«(...) bisogna pensare, in modo particolare, (...) al tema del celibato sacerdotale ed episcopale. Il celibato, infatti, dà la piena possibilità di realizzare questo tipo di paternità: una paternità casta, consacrata totalmente a Cristo e alla sua vergine Madre. Il sacerdote, libero dalla sollecitudine personale per la famiglia, può dedicarsi con tutto il cuore alla missione pastorale. Si capisce pertanto la fermezza con cui la Chiesa di rito latino ha difeso la tradizione del celibato per i suoi sacerdoti, resistendo alle pressioni che nel corso della storia si sono, di tempo in tempo, manifestate. È una tradizione certo esigente, ma che si è rivelata singolarmente feconda di frutti spirituali. È tuttavia motivo di gioia constatare che anche il sacerdozio uxorato della Chiesa cattolica orientale ha dato ottime prove di zelo pastorale. In particolare, nella lotta con­tro il comunismo, i sacerdoti orientali sposati non sono stati meno eroici dei celibi. Come osservò una volta il cardinale Josyf Slipyj, nei confronti dei comunisti essi mostrarono lo stesso coraggio dei loro colleghi celibi.

Occorre poi sottolineare che, a favore del celibato, ci sono profonde ragioni teologiche. L’enciclica Sacerdotalis caelibatus, pubblicata nel 1967 dal mio venerato predecessore Paolo VI, le sintetizza nel modo seguente (cfr. nn. 19-34):

    Vi è innanzitutto una motivazione cristologica: costituito Mediatore fra il Padre e il genere umano, Cristo è rimasto celibe per dedicarsi totalmente al servizio di Dio e degli uomini. Chi ha la sorte di partecipare alla dignità e alla missione di Cristo è chiamato a condividerne anche questa donazione totale.

    Vi è poi una motivazione ecclesiologica: Cristo ha amato la Chiesa, offrendo tutto se stesso per lei al fine di farsene una Sposa gloriosa, santa e immacolata. Con la scelta celibataria il sacro ministro fa proprio questo amore verginale di Cristo per la Chiesa, traendone soprannaturale vigore di fe­condità spirituale.

    Vi è, infine, una motivazione escatologica: alla risurrezione dei morti, ha detto Gesù, «non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli di Dio in cielo» (Mt 22, 30). Il celibato del sacerdote annuncia l’avvento degli ultimi tempi della salvezza e anticipa in qualche modo la consumazione del Regno, affermandone i valori supremi che un giorno rifulgeranno in tutti i figli di Dio.

Nell’intento di contestare il celibato, a volte si trae argomento dalla solitudine del sacerdote, dalla solitudine del vescovo. Sulla base della mia esperienza, respingo decisamente tale argomento. Personalmente non mi sono mai sentito solo. Oltre alla consapevolezza della vicinanza del Signore, anche umanamente ho sempre avuto intorno a me numerose persone, ho coltivato molti contatti cordiali con i sacerdoti – prefetti, parroci, vicari parrocchiali – e con laici di ogni categoria».

 

AMMIRO LA FRATERNITÀ SACERDOTALE*

 

Proprio a Nowa Huta si svolse una dura lotta per la costruzione della chiesa. Quel quartiere di molte migliaia di residenti era abitato per la maggior parte da lavoratori di una grande industria metallurgica, giunti da tutta la Polonia. Secondo il progetto delle autorità, Nowa Huta doveva essere un quartiere esemplarmente “socialista”, cioè privo di qualunque legame con la Chiesa. Tuttavia non era possibile dimenticare che quella gente, arrivata lì in cerca di lavoro, non intendeva rinunciare alle sue radici cattoliche.

La lotta cominciò nel grande quartiere residenziale di Bieñczyce. Inizialmente, dopo le prime pressioni, le autorità comuniste concessero il permesso di costruire la chiesa e assegnarono anche il terreno. In esso la gente piantò subito una croce. Successivamente, però, il permesso, che era stato accordato ai tempi dell’Arcivescovo Baziak, fu ritirato e le autorità disposero che la croce venisse rimossa. Ma la gente si oppose con decisione. Ne seguì addirittura uno scontro con la polizia, con vittime, feriti. Il sindaco della città ci chiedeva di “calmare la gente”. Fu uno dei primi atti della lunga lotta per la libertà e la dignità di quella popolazione che la sorte aveva portato nella parte nuova di Cracovia.

Alla fine la battaglia fu vinta, ma a prezzo di una logorante “guerra dei nervi”. Condussi le trattative con le autorità, soprattutto con il capo dell’Ufficio provinciale per le questioni delle confessioni, un uomo garbato durante i colloqui, ma particolarmente duro e intransigente nelle decisioni, che lasciavano trasparire un animo malevolo e prevenuto.

Il parroco don Józef Gorzelany si assunse l’impegno della costruzione della chiesa e lo condusse a buon fine. Una saggia mossa pastorale fu l’invito da lui rivolto ai parrocchiani di portare ciascuno una pietra per la costruzione delle fondamenta e dei muri. Così tutti si sentirono coinvolti personalmente nell’edificazione del nuovo tempio.

Una situazione analoga si verificò nel centro pastorale di Mistrzejowice. Protagonista della vicenda fu l’eroico sacerdote don Józef Kurzeja, il quale venne da me e si offrì spontaneamente di andare a svolgere il suo ministero in quel quartiere. Là, in una piccola edicola, egli si propose di iniziare la catechesi nella speranza di potervi creare a poco a poco una nuova parrocchia. Così accadde, ma don Józef pagò con la vita le lotte per la chiesa di Mistrzejowice. Vessato dal­le autorità comuniste, morì d’infarto a trentanove anni.

Nella sua lotta, don Józef fu aiutato da don Miko»aj Kuczkowski, che era nato a Wadowice, come me. Lo ricordo quando era ancora un avvocato ed era fidanzato con Nastka, una bella ragazza presidente del­l’Associazione cattolici giovani. Quando questa morì, egli decise di diventare sacerdote. Nel 1939 entrò in seminario e intraprese gli studi filosofici e teologici, che completò nel 1945. I miei rapporti con lui erano molto stretti, e anche lui mi voleva bene. Il suo intento era di “fare di me qualcuno”, come si suol dire. Dopo la mia consacrazione episcopale provvide personalmente al mio trasloco nel palazzo vescovile di Cracovia, in via Franciszka½ska 3. Ebbi ripetutamente modo di constatare quanto bene egli volesse a don Józef Kurzeja, il primo parroco di Mistrzejowice, un uomo semplice e buono (una delle sue sorelle è suora presso le Ancelle del Sacro Cuore). Come ho detto, don Kuczkowski aiutò molto don Józef nella sua attività pastorale e, quando questo morì, si dimise dall’incarico di cancelliere della curia per prendere il suo posto nella parrocchia di Mistrzejowice. Adesso en­trambi sono sepolti nella cripta della chiesa che hanno costruito.

Di loro potrei raccontare molte cose. Essi restano per me un esempio eloquente di fratellanza sacerdotale che, come vescovo, ho osservato e incoraggiato con ammirazione: «Un amico fedele è una protezione potente, chi lo trova trova un tesoro» (Sir 6,14). L’amicizia autentica ha in Cristo la sua sorgente: «Vi ho chiamato amici...» (Gv 15,15).

 

 

ALTRI SCRITTI

 

DISCERNIMENTO DI UNA
VOCAZIONE SACERDOTALE
*

 

«Dopo ciò salì sulla barca con i suoi discepoli e andò dall’altra parte del mare in una regione chiamata Dal­manùta»  (Mc 8, 10)

 

 

Affrontiamo il problema della vocazione sacerdotale o, per meglio dire, del buon discernimento di una vocazione sacerdotale. Quali criteri si potrebbero avere e seguire per capire se si ha o non si ha la vocazione sacerdotale? Questo tema del discernimento è successivo a quello superato sul “come il Signore Gesù abbia chiamato e costituito i dodici”. Ricordate quella “tessera” breve, che era l’“atto di fede minimo” del grande sant’Atanasio?: «Nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo». Così pure ricordate la “tessera” minima – o sintesi brevissima – del sacerdozio, che sarebbe l’espressione evangelica: «Ne costituì Dodici, – che stessero con lui, – e per mandarli a predicare» (Mc 3, 14). Questa frase, importantissima, contiene tre elementi (1° «costituì i dodici»; 2° «perché stessero con lui»; 3° «per mandarli a predicare») che sono in effetti i tre fattori fondamentali minimi, comuni ed essenziali della vocazione sacerdotale.

 

1.I criteri di osservazione

Per capire se un giovane seminarista ha la vocazione sacerdotale, alcuni utilizzano criteri di osservazio­ne come i seguenti: osservare se egli è pio, se assolve volentieri ai suoi doveri religiosi e alla pre­ghiera; se è umile, non si vanta, non è orgoglioso e arrogante; se riesce a convivere bene con gli altri compagni; se egli cerca di essere santo e se ha fede; se è obbediente e se può vincere le tentazioni contro la castità; se è studioso e capace, se è preciso e puntuale nei suoi impegni e doveri, se ha zelo apostolico e missionario ...

Se uno possiede – più o meno – queste caratteristiche o altre simili a queste, secondo alcuni significa che ha un chiaro segno di vocazione sacerdotale. Si può, tuttavia, far presente che questi criteri sono al­quanto antichi o, come si dice oggi, “datati”; cosicché alcuni li hanno “aggiornati” con operazioni e procedimenti un po’ complessi e – in certi casi – anche singolari: cioè, vi hanno aggiunto e mescolato anche studi, indagini, test e terapie psicologiche (adesso da qualche parte si sta cercando, infatti, di suscitare que­sta moda della psicologia e del suo uso specifico in va­ri campi)...

 

2.L’uso della psicologia

Mi piace parlare di quest’uso della psicologia, per­ché quando studiavo teologia spirituale nell’Università Gregoriana di Roma ho avuto, tra gli altri maestri di psicologia, il noto padre gesuita Georges Cruchon (Psycologia Pastoralis I/II). I docenti che avevamo al­lora, alla Gregoriana, ci trasmettevano un sano “senso critico” nei riguardi dell’uso della psicologia, perché alcuni, fin da allora, tendono a convertire la psicologia in una specie di “mito”.

In effetti, la psicologia non è una scienza esatta, come a esempio sarebbe la matematica (la matematica sì è una “scienza esatta” e anche ho avuto modo di studiare molto quando mi preparavo al mio dottorato di ingegneria nell’università di Bologna), la psicologia è invece una scienza sperimentale. Cioè, per le scienze sperimentali, per fare delle valutazioni, si prendono in considerazione vari e distinti casi e parametri e, stu­diando poi generalmente una media di come essi risultino in base a certi criteri di selezione e di orientamento, si giunge a formulare delle ipotesi e anche si arriva a delle proposte pratiche od operative.

In effetti nella storia della psicologia sono esistite diverse scuole di pensiero, non di rado in contraddizione e anche in contrapposizione l’una con l’altra, anche su punti, prospettive e conclusioni importanti. Dunque bisogna essere cauti e non avere fretta e fiducia “assoluta” nelle conclusioni di una scuola, piuttosto che di un’altra: non di rado ciò che in psicologia era apparso sicuro e definitivo oggi, in breve tempo tramonta e viene rovesciato.

Vi farei un esempio. Se prendete in considerazione diversi elementi (parametri di valore) relativi a una persona: questa possiede un tanto di affettività, un tanto di memoria, un tanto di volontà, un tanto di intelligenza, un tanto di aggressività, eccetera, fino ad arrivare a 25 o 30 parametri, o ancora di più. La media che gli studiosi propongono sperimentalmente po­trebbe essere per esempio 5 per un elemento, 7 per un altro elemento, 19 per un altro e 12 per un altro ancora. Se poi tu vai a vedere una persona concreta può essere – che questa persona concreta risulti nella media per un elemento e per un altro, ma che non risulti proprio nella media per un altro elemento e un altro ancora.

Dio, in verità, è un musicista e certamente gli piace la armonia del concerto che si ottiene variando le note e così dunque sembra proprio che Egli proceda quando crea le persone: a uno Egli dona un po’ più di affettività, all’altro un po’ più di memoria, a un terzo un più o meno di volontà, a un altro ancora dà meno aggressività. Dunque, per quel che riguarda la media sperimentale, tutti ci troviamo – del tutto normalmente – un po’ più in alto o un po’ più in basso della media di ogni singolo elemento. Quindi si potrebbe quasi dire – per assurdo – che, per uno psicologo, una persona “normale” (cioè una persona che stia nella media esatta di tutti i parametri sperimentali fissati dalle varie scuole psicologiche), di fatto, non esiste.

 

3.Abusi gravi nell’uso della psicologia

Ci possono essere – e di fatto ci sono – degli abusi, anche gravissimi, nell’uso della psicologia.

Supponiamo che un seminarista venga a confessarsi e mi dica: «Guardi, padre, ho detto una piccola bugia e, per la tranquillità della mia coscienza, prima della Santa Messa, vorrei riconciliarmi». Una piccola bugia non è un grande peccato. Se dopo quella confessione, incontrassi casualmente il Rettore e gli rivelassi: «Pensi che il tal dei tali è venuto a confessarsi e mi ha detto...», incorrerei immediatamente in una serie di pe­ne che la Chiesa a buona ragione dovrebbe infliggermi: rimarrei, cioè, sospeso e impedito, per avere violato il segreto della persona, il “foro della co­scienza”, il segreto sacramentale... Così “ferocemente”, ma giustamente, la Chiesa tutela e difende, ha sempre tutelato e difeso, la coscienza delle persone. E si tenga presente il caso di san Giovanni Nepomuceno che preferì farsi gettare nella Moldava ed affogare nel tumultuoso e freddo fiume di Praga, piuttosto che rivelare un segreto di coscienza.

Pio XII, ricevendo un gruppo di penalisti, di medici e psicologi, il 3 ottobre 1953, tenne loro un celebre discorso sulla sacralità e inviolabilità assoluta della coscienza umana. Di seguito il passaggio più incisivo: «Sulla soglia della coscienza Dio stesso si arresta e non entra se non gli viene aperta la porta e se non viene invitato liberamente. La coscienza è dunque un san­tuario, sulla cui soglia tutti devono fermarsi; tutti, anche il padre e la madre, quando si tratti di un bambino». Anche la coscienza di un bambino va ri­spettata! La Chiesa, del resto, ha formulato un assioma chiarissimo: «De internis neque Ecclesia», neppure la Chiesa ha alcun diritto a violare o manipolare la coscienza.

Vorrei, perciò, infondere nel vostro animo un sano senso critico nei confronti di un uso affrettato della psicologia, affinché possiate respingerne fermamente la mitologizzazione e gli abusi, e possiate utilizzarne in modo conveniente e appropriato gli aspetti positivi. In proposito: la modestia autocritica della presentazione di questa materia e dello stesso psicologo potrebbe essere considerata da voi una buona raccomandazione; men­tre la volontà imperiale di imporsi e di imporre criteri, metodi e conclusioni è generalmente un segno prossimo e quasi sempre sicuro di inaffidabilità.

Concretamente mi sembrerebbe che si potrebbe considerare un criterio di uso sano dei servizi di uno psicologo, da parte di una istituzione, come un seminario o un noviziato, il ricorrervi con procedimento analogo a quello messo in atto nella necessità dei servizi offerti, per esempio, da un dentista. Supponiamo che il seminario contatti uno specialista, e poi avverta che chiunque fra gli alunni o superiori ne abbia necessità, potrà farsi curare dal dentista tale che si trova nel tal posto alla tale ora; e che, poi, ci pen­serà il seminario a saldare la spesa. Circa l’uso dei servizi di uno psicologo si dovrebbe procedere in una maniera ugualmente semplice, funzionale e responsabile. Cioè si potrebbe suggerire i nomi di due o tre psicologi bravi, di buon orientamento e cattolici; e offrire poi ai seminaristi la possibilità di conversare con uno di loro su qualche argomento delicato, consigliati a ciò, eventualmente, non già dal superiore ma piuttosto dal padre spirituale, nel caso lui lo considerasse opportuno. Ma questa consulenza dovrebbe es­sere in ogni caso una consulenza strettamente pri­vata, coperta dalla massima riservatezza, e in nessun modo – neanche indiretto – essere riferita ai superiori del seminario. Inoltre, non si potranno fare in alcun modo delle schede, e vieppiù trasmetterle (o trasmetterne il contenuto) ai superiori: il rispetto della coscienza dovrebbe essere assoluto.

Le uniche informazioni che i superiori di una istituzione potrebbero legittimamente ricevere da uno psicologo sarebbero quelle “attitudinarie”, “tecniche”, esterne, ottenibili in base ai test specifici “non-proiettivi”. Esempio pratico: se una industria automobilistica dovesse destinare degli operai a tre diversi settori tecnici potrebbe fare prove attitudinarie e tecniche, ma mai proporre dei test relativi alla persona o alla co­scienza...

 

4.Come capire una vocazione autentica?

Questa è la domanda giusta. Nel caso di un superiore di un seminario che ha sotto osservazione un alunno per cinque, sei, sette anni o più, e alla fine non sa dire – assieme agli altri responsabili –, in base alla osservazione quotidiana dei moltissimi parametri e punti di osservazione del “foro esterno alla coscienza”, se quell’alunno possa essere ammesso o meno alla ordinazione sacerdotale, credo che la cosa da fare sia di cambiare immediatamente quel superiore.

Com’è possibile, infatti, che un superiore abbia vissuto per anni, quotidianamente, con una persona, e non sia in grado di valutare? A volte, forse, alcuni superiori – nella illusione un po’ puerile di semplificarsi la vita e i doveri – sono tentati dal costruirsi una specie di “gabbia con dei docili porcellini d’India”, anziché un seminario con persone libere e dotate di una coscienza inviolabile.

La libertà, e precipuamente la libertà di coscienza, come già sottolineato (ma come non sarà mai sottolineato abbastanza) è il dono più prezioso di Dio al­l’uomo, è l’immagine stessa di lui stampata in noi, che ci conduce all’atto d’Amore; e il suo scopo è l’autocompimento della persona in un progetto di identità e di fedeltà a Dio: là, infatti, nella libertà, si scopre e si realizza la vocazione. In effetti, nel piano di Dio, che ci ha creati simili a lui, il regime di libertà rimarrà per sempre; lo vediamo paradossalmente bene anche nel caso estremo negativo, quello di Giuda, che era stato chiamato a una splendida vocazione e rimase libero, fino alla fine, di poter essere fedele o di tradire la fedeltà al suo grande Amico.

 

5. Vocazione sacerdotale o “determinismi psichici”?

A tutti i criteri antichi che prima abbiamo enumerati per riconoscere la vocazione sacerdotale, nei tempi moderni è stato aggiunto, in vari e differenti modi, l’uso di tecniche e terapie psicologiche. Alcuni rettori e responsabili, infatti, sembrano dire molto semplicisticamente: «Sottoponiamo il candidato a una serie di esami psicologici, e lo psicologo ci potrà dire se egli ha la vocazione sacerdotale oppure no». Così, con un’apparenza di modernità, essi tendono a liberarsi, in modo puerile, ma grave, del serio problema del “di­scernimento della vocazione sacerdotale”.

In realtà, questo “signor psicologo” non sa nulla a proposito della vocazione del “tal dei tali” ed egli non può né ricevere delegazioni, né fare rivelazioni relative al soggetto da lui esaminato: il ruolo stesso del buon psicologo è delicatissimo e va esso stesso protetto e tutelato dalla rozzezza di certi superiori, che cercano piuttosto di liberare facilmente la loro coscienza, delegando un ruolo che è solo a loro proprio.

La vocazione è qualcosa di molto profondo, serio e delicato, un “mistero” che riguarda la persona umana e il suo Dio, a cui la persona può essere riannodata solo da un atto libero, unico tipo di atto – per quanto fragile nelle circostanze – degno della persona e di Dio, allo stesso tempo. Come è possibile che ci immaginiamo una specie di determinismo o pre-determinismo universale, in cui tutto verrà saputo e regolato da alcuni test e terapie più o meno sofisticati?

Seguitemi in questo periodo che ho suddiviso in quattro punti: (1) il complesso sistema dei criteri an­tichi di cui abbiamo riferito in precedenza, (2) con l’aggiunta moderna dell’uso di metodi psicologici a volte male utilizzati, (3) si usa non di rado oggi più per la pura e semplice tranquillità dei superiori che per l’obiettività del risultato, (4) per dichiarare la realtà e la oggettività di una vocazione sacerdotale.

Questo per dire che molti criteri o complessi di criteri, oggi utilizzati, si rivelano inadeguati e insufficienti, per valutare e capire se esiste la vocazione sacerdotale. Non adeguati, soprattutto se li si adottano presi singolarmente, come criterio unico, in sé stesso sufficiente, quando servirebbe perlomeno una visione d’insieme, che tenesse da conto, magari del parere dello psicologo, ma anche della profondità spirituale di un candidato al sacerdozio...

Esistono parametri o valutazioni utili, ma non decisive, per capire se uno ha o non ha la vocazione sacerdotale. Cerchiamo di vedere perché non è un criterio adeguato e sufficiente. Secondo questo criterio o parametro di valutazione, se tu, per esempio, non sei mol­to pio, se non sei tanto umile, se non sei tanto santo, se non hai molta fede, se non sai ubbidire molto, invece di accedere al sacramento dell’ordine sacerdotale, accedi piuttosto a quello del matrimonio. Se così fosse, verrebbe da pensare che non è questa una bella considerazione per il sacramento del matrimonio. Sem­brerebbe indicare: i “buoni” per il sacerdozio e quelli un po’ “meno buoni” per il matrimonio. Paradossalmente finiremmo per avere un sacramento di prima classe per i “buoni” e un sacramento di “se­conda classe” per i “meno buoni”: e questo sembra inconveniente e anche inaccettabile.

Se noi consideriamo di pari dignità i due stati di vita e i due sacramenti corrispettivi, il sacerdozio e il matrimonio, non possiamo procedere con criteri orientativi che finiscono con il sottovalutare e deprimere l’uno rispetto all’altro.

Siamo così giunti, almeno mi pare, a una valutazione o conclusione, e cioè che quei criteri prima descritti sopra, possono essere utili, ma non sono sufficienti e adeguati per discernere una vocazione sacerdotale. La vocazione, infatti, viene da Dio e la Chiesa si limita generalmente a riconoscerla, ad accettarla, a favorirla, a promuoverla.

 

6. I segni dei tempi

In alcuni casi, ai criteri orientativi, ma non sufficienti, già menzionati, se ne possono aggiungere altri, come quello dei “segni dei tempi” relativi alla vita personale. Per esempio, se uno viene da una famiglia molto cattolica, numerosa, è entrato in seminario fin da bambino, ci è rimasto volentieri, anche per il bel rapporto coi compagni, ha sempre giocato a calcio, studiato e ha ottenuto buoni voti, perché ora dovrebbe cambiare strada? Il “segno dei tempi”, in questo caso, per questa persona concreta, sarebbe che “egli è già sulla buona strada”.

Ciò per dire che, se un tale è già ben indirizzato, questo sarebbe, secondo alcuni, un segno di vocazione. Se questo criterio fosse adeguato, giusto e sufficiente, io stesso dovrei essere andato da un’altra parte. In verità, le vicende e i trascorsi della mia vita e della mia famiglia, della mia giovinezza – di cui vi ho fatto allusione nella prima meditazione – non erano tali da poter far dire allora che io avevo la vocazione sacerdotale.

In realtà il criterio di analisi esteriore non può essere l’unico, il sufficiente e definitivo nel giudizio di una vocazione sacerdotale. Si potrebbero citare numerosi esempi di vocazioni eccellenti, nella storia della Chiesa, non provenienti da una situazione, da un ambiente o da una classe precostituita, ma provenienti dalla libertà di Dio, che chiama chi vuole liberamente chiamare. C’è la misteriosa ed efficace libertà stessa di Dio in gioco.

Realmente è il Signore che chiama: «Gesù fissò lo sguardo sul giovane ricco e gli disse...».

Certo, può essere opportuno tenere in considerazione le condizioni fisiche, psicologiche, geografiche, economiche, familiari... Ci sono situazioni in cui qualcuno di questi fattori può essere importante per valutare il caso nel suo insieme, ma non possono essere questi gli elementi definitivi e determinanti. È infatti del tutto inattendibile e insufficiente basarsi solamente su un esame psicologico o su una valutazione ambientale per decidere la propria vocazione sacerdotale. Si finisce con il cadere in un meccanismo piuttosto deterministico e anche pericoloso.

 

7. Anomalie nei “criteri deterministici”

Ci sono grandi santi della Chiesa, di cui oggi do­vremmo rifiutare la vocazione, perché non rientrerebbero nelle “categorie” che ora stiamo prendendo in considerazione.

Per esempio, sant’Alfonso de’ Liguori. Egli aveva un problema, che gli specialisti non accetterebbero: era afflitto da una “malattia psicologica”, che si aggravò ulteriormente prima della morte. La stessa “malattia psicologica” aveva colpito santa Luisa di Marillac, la fondatrice delle Madri della Carità, la Congregazione religiosa femminile più grande della Chiesa; e anche in santa Luisa di Marillac si aggravò prima della morte.

La “malattia psicologica”, che avevano questi due santi, era lo scrupolo. In qualche tappa della vita ci può essere la prova dello “scrupolo”, per chiunque: è normale. E per quanto riguarda santa Luisa di Marillac, sappiamo che san Vincenzo de Paoli, che era il suo padre spirituale, non volle assecondarne gli scrupoli benché ella fosse ormai alla fine della vita.

San Camillo era zoppo a causa di ferite di guerra, e al suo tempo coloro che zoppicavano non erano am­messi negli ordini e nelle Congregazioni religiose. Per­tanto non solo non avrebbe potuto diventare francescano, come avrebbe desiderato, ma neppure essere ordinato sacerdote. Camillo venne allora a conflitto con il suo padre spirituale, che era san Filippo Neri, figura molto nota nella Roma del suo tempo; san Filippo, infatti, seguendo i criteri in voga per discernere le vocazioni, cercò di convincere quel giovane che, essendo zoppo, non poteva certamente avere una vera vocazione. Fu così che san Camillo, seguendo invece la sua vera vocazione, si dedicò a fondare una congregazione nuova, quella per l’appunto degli ospedalieri di san Camillo, i cui membri vengono comunemente chiamati “camilliani”.

Pare che perfino Giovanni Paolo II abbia incontrato, in giovinezza, qualche incomprensione nel discernimento della sua vocazione, da parte dei carmelitani. Lo stesso Santo Padre ne parla nel volume autobiografico Dono e Mistero (cfr anche, del sacerdote e giornalista polacco Malinski, Il mio vecchio amico Karol): sembrerebbe che egli fosse attirato dalla vocazione carmelitana ma che per una diversità di criterio di di­scernimento alla fine egli optò per la vocazione sacerdotale diocesana (in omaggio alla spiritualità carmelitana, tuttavia, è specificamente al tema della “fede” in san Giovanni della Croce che egli dedicò poi la sua tesi dottorale a Roma).

La vocazione, occorre affermarlo con fermezza e coraggio, è realmente una chiamata di Dio. Per valutare il suo discernimento può essere interessante met­tere sul tavolo l’insieme delle circostanze, ma non possono essere sufficienti e decisive. Uno deve alla fine sempre riuscire a capire se egli ha realmente la vocazione, al di là delle circostanze.

 

8. Vocazione sacerdotale o vocazione canonica

Ci sono alcuni che pongono l’enfasi su un criterio diverso, che a loro sembra oggettivo e importante, e che lo è effettivamente pur restando insufficiente. Questi pensano che la “vocazione sacerdotale” coincida con la “vocazione canonica” fatta dalla Chiesa a un individuo concreto e particolare.

Ciò accade quando il vescovo o un superiore ti chiama e ti dice: «Tu hai vocazione, io ti chiamo, vie­ni». Se succede questo, c’è la vocazione “canonica”, fat­ta da un’autorità della Chiesa, che ha il potere di chia­mare al servizio sacerdotale o religioso.

Questo è ovviamente un intervento molto autorevole, ma da solo non basta a significare che tu abbia davvero la vocazione.

A questo punto potrebbe essere utile esaminare anche il rovescio della medaglia. Come per esempio accade prima dei matrimonio, per l’efficacia del quale entrambi i fidanzati devono essere d’accordo; non è sufficiente la “vocazione” di uno solo dei due. Analogamente, quando uno diventa sacerdote, si viene a costituire un rapporto e un vincolo speciale e particolare tra lui e la Chiesa; vincolo e rapporto che dovrà essere reciprocamente consensuale. Così che, nella realizzazione di una vocazione sacerdotale, occorre tenere presente anche il punto di vista dell’altra parte, cioè della Chiesa (del vescovo o del superiore religioso), punto di vista che si potrebbe chiamare la “vocazione canonica”.

Se tu hai il diritto di dire «io ho, oppure non ho, la vocazione», occorre ammettere che anche la Chiesa ha diritto di poter dire «ti accetto oppure non ti accetto come sacerdote». Rimane pertanto il fatto che l’autorità (vescovo o superiore religioso) della Chiesa può dire «si» oppure «no», riguardo all’accettazione della vocazione che uno manifesta: e quella sarebbe la cosiddetta “vocazione canonica”.

Ma questa “accettazione” o “non accettazione” non implica immediatamente che io “abbia” oppure “non abbia” la vocazione sacerdotale: è un requisito praticamente necessario, ma non sufficiente. C’è di più. Quando un’autorità mi chiama formalmente e “canonicamente”, dovrei aver già chiarito se ho la vocazione sacerdotale: c’è un discernimento che la persona deve esercitare liberamente e per proprio conto; un giudizio fondamentale sulla vocazione che nessun altro può dare al suo posto. Anzi, si tenga presente che se una determinata autorità della Chiesa mi rifiuta, questo, di per sé, non vuole assolutamente dire che io non abbia la vocazione sacerdotale. Posso, legittimamente, rivolgermi da un’altra parte, in un’altra occasione, per insistere e manifestare la mia eventuale vocazione sacerdotale. Ci sono stati molti casi simili di santi, e di altri buoni sacerdoti, che hanno avuto traversie e incomprensioni nel riconoscimento canonico e formale della loro vocazione sacerdotale, che era poi dimostrata assolutamente autentica.

 

9. Il criterio: la comunione apostolica

Finalmente ci poniamo la domanda fondamentale e decisiva: quale è il criterio per discernere la vocazione sacerdotale?

Visto che il sacerdozio comporta una testimonianza globale di vita (non ti obbliga solo a una funzione, ma ti impegna a essere, nella tua vita, il testimone e lo specchio del Signore Gesù; ti impegna a un’esistenza spe­ciale, con modalità precise), il primo elemento determinante ed essenziale della vocazione al sacerdozio con­siste in questo: la intuizione irrinunciabile che si ha, per grazia dello Spirito Santo, di un piano globale ed esclusivo della propria vita e del proprio amore umano e soprannaturale, da realizzarsi nella vita sacerdotale. Intuizione, secondo la quale «non posso concepire me stesso in un’altra forma, se non così!».

Intuizione che può squarciare il cuore e la vita nonostante lo stato di peccato. Pur avendo tutti i pec­cati della terra – san Paolo, la pensava così – uno può trovarsi sulla buona strada per diventare un sacerdote, avendo in effetti una buona base di vocazione sacerdotale. Grandi santi furono prima grandi peccatori ed, essendo essi ancora nel peccato, Dio già li ha chiamati perché fossero suoi apostoli.

Questa percezione non si ha – di solito – di colpo; ma spesso, come succede a molti seminaristi, si viene scoprendo tutto quanto è relativo alla vocazione sacerdotale attraverso un processo di maturazione personale. Far parte dei “discepoli” del Signore Gesù significa, in effetti, far parte di una comunione intorno a Lui, chiamata e conosciuta, fin dai tempi dei Padri della Chiesa, come apostolica vivendi forma, cioè “il modo di vivere degli apostoli”. Vale a dire, significa essere introdotti in una comunione di persone, cioè in un “organismo” di persone, o anche «ordine» di per­sone; in latino si parla appunto di ordo, e da qui deriva la parola “ordine”, cioè l’“ordine sacro del sa­cerdozio”. Si entra dunque in una comunione di persone intorno al Signore Gesù, in un “ordine” di per­sone intorno a Cristo, in un insieme coordinato di discepoli intorno al Signore.

Il carattere collegiale della comunità apostolica, come fu ben chiaro fin dagli inizi della Chiesa, è stato molto rivalutato dal Concilio Ecumenico Vaticano II, e prima ancora fu rilanciato a molte riprese in varie occasioni ed epoche della vita e della storia della Chiesa. Si vuole e si è sempre voluto realizzare, ripetere e fare presente l’immagine del “gruppo dei discepoli intorno al Signore”: la comunità degli apostoli, la apostolica vivendi forma. Nella realtà di un seminario, dove ci si prepara al sacerdozio, i giovani hanno una grande grazia, perché possono fare vita comunitaria.

La vita comunitaria, da un lato, porta con sé anche qualche penitenza e principalmente quella di dover sopportare qualche compagno e, a volte, anche qualche superiore fastidioso. Ma, da un altro lato e prin­cipalmente, la vita comunitaria è molto importante, interessante e stimolante, perché in essa si impara a essere e a vivere come fratelli, come amici, come succedeva nella comunità apostolica. La vita comunitaria è una possibilità molto positiva per una persona, soprattutto, se si cerca con pazienza, con delicatezza, in modo adatto, con coraggio, di creare buone amicizie. In tal modo la vita comunitaria diventa assai fruttuosa, lasciando vivente nel cuore, per tutto il resto della vita, l’immagine stessa di Dio, che è “in se stesso” un’unica e specialissima comunità e comunione, che noi chiamiamo la Santissima Trinità.

A partire dal momento in cui il seminarista, o novizio, viene accettato tra i candidati a futuri sacerdoti del Signore, egli entra nel cammino per essere aggregato a un corpo, a un “ordine”, a una comunità; entrerà infatti – quando sarà sacerdote – a far parte dello “specchio” (speculum visibile invisibilis Dei) cui ha voluto dare vita il Signore. Ricorderete infatti che abbiamo già trattato questo bellissimo tema dello «specchio visibile del Dio invisibile», e ricorderete perciò che abbiamo sottolineato come «la comunità degli apostoli» sia «lo specchio, montato e messo in opera dall’Amore trinitario». Perciò quando si entra a far parte di questa vita di comunione speciale – la “apostolica vivendi forma” – si diventa parte dello “specchio” vivente e visibile.

Se si scattasse una foto a un gruppo di sacerdoti del Signore Gesù, mentre passano, andando insieme, si potrebbe vedere in quella foto lo stesso Dio che passa. O piuttosto si può giustamente dire che: quando ci vedono passare insieme, è Dio stesso che vedono avvicinarsi e passare. Questo è molto evidente e la gente – la gente che ha fede – lo ha presente, lo “sa”.

Colui che entra nell’“ordine sacerdotale” si inserisce sempre più profondamente all’interno di questo “corpo”. E non potrebbe essere altrimenti: così anzi sarà sempre più e “per sempre”; e questa è la vera “gloria” del sacerdozio: “per sempre”! Si “ama” veramente e si “è” veramente solo “per sempre”! Così succede, esattamente come quando Nostro Signore ha chiamato intorno a sé i dodici, allontanandoli e separandoli dai loro legami precedenti, per costituire con loro e fra di loro una profonda e personale comunione di vita.

Qual è il segno visibile, che viene così costituito e mostrato per Israele? Il segno per eccellenza è questo: la comunione di vita degli apostoli con il Signore.

 

10. La vita degli apostoli

A questo proposito, se osservaste lo sviluppo della vita di ognuno degli apostoli, si potrebbero comprendere molte cose. Diamo qualche spunto mirato.

1) San Pietro. È molto impressionante vedere san Pietro che dice al Signore: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito» (Lc 18, 28; Mt 19, 27; Mc 10, 28); e vedere che il Signore stesso risponde a san Pietro – «risponde loro» –: «Ecco, voi, che avete lasciato tutto...»; per poi mettersi Lui stesso, il Signore, a far la lista di tutto quello che loro hanno lasciato per seguirlo.

2) San Paolo. Se osserviamo la vita di san Paolo, lo troviamo, per esempio a Listra, quando incontra il discepolo Timoteo, che finirà per diventare il suo più grande compagno e amico. Il libro degli Atti degli Apostoli – scritto da un altro suo compagno, che era san Luca – dice che quando san Paolo incontra Timoteo (cfr. 16, 3) «volle che egli partisse con lui». Gli Atti presentano in seguito Timoteo come compagno fisso di san Paolo nell’apostolato e come un fratello che partecipa in modo speciale ai suoi sentimenti (cfr. Fil 2, 20).

3) Proseguendo in questa osservazione delle vite degli apostoli, troviamo che sempre negli Atti ci sono pagine e pagine in cui l’evangelista san Luca usa il “noi” per indicare che lui e san Paolo andavano insieme in molti luoghi. In altre sequenze di pagine, invece, san Luca usa la parola “egli” per indicare che san Paolo (da solo) andava in altri luoghi senza essere accompagnato da lui (san Luca): da compagni nell’apostolato e amici quali erano, a volte stavano insieme e altre volte no, tuttavia il contesto chiarisce assai bene la radicalità definitiva dell’impegno “apostolico”.

In questo stesso modo si potrebbero trarre molte altre utili osservazioni circa l’apostolica vivendi forma.

 

11. Il celibato sacerdotale e l’apostolica vivendi forma

In questo contesto si comprende come il celibato non sia un accessorio o un aspetto funzionale e pragmatico del progetto di vita in cui si vuole entrare seguendo la vocazione sacerdotale. Se si pensasse che il sacerdozio è una funzione, che lo scopo è quello di “avere più tempo possibile e più facilità” per distribuire i sacramenti, sì potrebbe concepire il celibato co­me un accessorio, utile appunto per avere più tempo disponibile “per la funzione”.

Ma non sembra che sia e che sia stato cosi. Si tratta invece basicamente e prima di tutto di una comunione totale di vita con il Signore Gesù: «Li chiamò, perché stessero con lui e per inviarli a predicare» (cfr Mc 3, 14). Gli apostoli, in effetti, hanno abbandonato tutto (cfr Lc 18, 28 e testi paralleli), a cominciare dalla famiglia. Nel Vangelo si parla effettivamente di una suo­cera di san Pietro (cfr Mc 1, 30 e testi paralleli); ciò che sembra si voglia dire è che Pietro realmente aveva avuto una moglie, ma essa veramente non compare mai nei Vangeli o negli Atti degli apostoli. I biblisti hanno elaborato diverse ipotesi a questo proposito: secondo molti, la cosa più probabile è che forse lei era deceduta; qualcuno, basandosi su Lc 18, 28 ipotizza che egli possa essersi separato da lei per seguire il Si­gnore. A me personalmente, e per vari motivi, sembrerebbe più certa e fondata l’ipotesi che ella fosse già defunta al tempo (del resto proprio l’evangelista san Marco, compagno per tanti anni di san Pietro, significativamente non la ricorda mai, a differenza della suocera). Nella apostolica vivendi forma, e perciò nella vocazione sacerdotale, ci troviamo di fronte a un radicalismo totale, ti addentri in qualcosa che cambia la tua vita e ti conduce “per sempre”. Dio arriva e ti chiama al suo progetto massimo e più profondo e intimo, “per sempre”. Con Dio è “per sempre”! Il celibato è una conseguenza interna, una necessità inscritta naturalmente in questa condizione di vita, instaurata dal Signore Gesù con i suoi, in questa comunione fra­terna dei discepoli con lui e tra di loro (con lui e tra di noi). In effetti, Nostro Signore Gesù Cristo, modello esemplare di ogni sacerdote, visse celibe. Se uno sentisse di essere chiamato a essere sacerdote di Gesù Cristo, potrebbe e dovrebbe pertanto cercare di vivere come visse lui. Mi sembrerebbe questa una motivazione molto indicativa, molto esistenziale, per nulla funzionale e provvisoria, e abbastanza evidente. Cer­chiamo a volte differenti motivi per il celibato sacerdotale, ma questa sembra essere “la ragione delle ra­gioni”: la ragione evangelica.

Non stiamo dicendo che la ragione evangelica del celibato sia facile. Ma neppure la ragione evangelica del matrimonio è facile; il Vangelo riporta infatti le parole di san Pietro che, riferendosi alla condizione evangelica del matrimonio, disse che la sua difficoltà è tale che, anche per chi ne abbia la piena vocazione, forse varrebbe piuttosto la pena non sposarsi. In ef­fetti, a proposito di “vocazione”, non si dovrebbe cer­care quella che sembri “facile”, ma si dovrebbe cercare quella che sia “realmente per me” la vocazione di Dio, qualunque difficoltà comporti. In ogni vocazione ci sono infatti specifiche difficoltà: la condizione di per­sona vivente in questa vita comporta infatti un im­pegno e delle inevitabili difficoltà. Queste, tuttavia, vengono normalmente accompagnate da gioie, che esse pure non mancano e che sono assai spesso significative, autentiche anticipazioni nella loro allegria dell’imminenza già attuale della vita beata ed eterna.

Non diciamo, dunque, che sia facile la vocazione sacerdotale per persone fragili come siamo noi: potrei forse dire io di non avere peccati, potrei forse dire io che non mi confesso per i miei peccati, e potreste dire voi che non siete parimenti peccatori? San Pietro espresse questo sentimento di fragilità nelle ben conosciute parole da lui rivolte al Signore Gesù: «Allontanati da me Signore, perché io sono un uomo peccatore» (Lc 5, 8): quante espressioni simili e tutte vere troviamo nelle vite di tanti e tanti Santi di Dio! Ma il punto sostanziale e irrinunciabile per noi – qualunque sia la nostra fragilità – è invece piuttosto il seguente: che dobbiamo metterci in asse con quella che oggettivamente sia la vocazione fondamentale della nostra vita, per poter cercare di realizzare la nostra identità come persone.

 

12. Sequela Christi: mirare a lui per raggiungere la meta

Nonostante ogni possibile difficoltà, una volta sco­perta la vocazione sacerdotale dobbiamo e pos­siamo “almeno tentare” di “seguire” il Nostro Signore Gesù (la famosa sequela Christi); tentare cioè di vivere “così” come Egli visse, tentare di vivere con lui e con i “suoi”, come Egli ci ha indicato, anche con espressioni straordinarie, con tanta benevolenza e affetto.

Credo che la cosa che piace soprattutto al Signore sia il coraggio del tentativo, piuttosto che la gloria del­la riuscita; ciò è ben chiaro nella vita e nelle contraddizioni di san Pietro, come pure di tanti altri santi. Dio non abbandona e dona il suo perdono e il suo premio, soprattutto a chi cerca, a chi si sforza e a chi si impegna. Forse sentiamo che non riusciamo a raggiungere la meta, se cerchiamo di farlo con le sole nostre forze: ma questo – il poter raggiungere la meta – è in realtà un dono, un dono del Signore Gesù stesso e del suo Santo Spirito, e a Lui va chiesto con allegria e con umiltà.

Il celibato è anzi un dono prezioso, perché ci dà la possibilità di realizzare una forma di amore anche umano: quello di amare i fratelli nel sacerdozio come il Signore amava i “suoi” e come gli stessi apostoli si amavano gli uni gli altri e fra loro. In questa prospettiva l’“amicizia sacerdotale” ha un senso pieno e com­pleto: da un lato si possono e si devono amare, con tutto il cuore, i fedeli, che si incontrano nel corso della vita; da un altro lato, occorre dire che l’amore di cui è costituita l’amicizia sacerdotale è un amore spe­cialmente sostanziale e fondato in un modo del tutto specifico: è lo stesso identico amore che c’era tra il Signore Gesù e i “suoi”, l’“amore umano” che il Si­gnore Gesù aveva deciso di vivere Lui stesso.

Dell’amore fra il Signore Gesù e i “suoi”, della fraterna amicizia sacerdotale – a cui Egli ha dedicato espressioni così straordinarie e belle, soprattutto nel Vangelo di san Giovanni –, non parliamone, quindi, come di un amore esclusivamente soprannaturale, perché si tratta a pieno titolo di un amore anche umano. Nel suo ministero, Gesù separò alcuni uomini dai loro legami naturali per costruire una comunità umana di un genere nuovo, ma unita da legami non meno profondi di quelli che essi abbandonavano. E tutto questo per poter dare una testimonianza visibile – «specchio visibile dell’invisibile Dio» – della gloria di Dio, dell’Amore che è in Dio, dell’amore del Padre e del Figlio che noi chiamiamo Spirito Santo.

Egli, il Signore Gesù, fece questo. E perciò il celibato sacerdotale, vissuto in questo modo, in comunione fraterna, rende visibile e rende attuale la comunione di vita vissuta dal Signore Gesù con i “suoi”; e pertanto è il grande “fermento” e il “lievito” di quella comunione più ampia che è la comunione di tutta la Chiesa, della comunione vissuta da tutta la Chiesa. Di fatto la Chiesa vive della comunione dei sacerdoti. Se non ci fosse il “corpo sacerdotale”, non esisterebbe la Chiesa. La comunione sacerdotale è il punto su cui si appoggia tutta la Chiesa, il punto da cui sgorga e sorge, di cui si nutre tutta la Chiesa, ed è proprio così come Cristo Gesù ha concepito che essa ne vivesse.

 

13. Dalmanùta: la meta misteriosa

In America Latina hanno pubblicato un piccolo libro che ho scritto, assieme a un vecchio missionario italiano, che si intitola Missionari italiani in Messico. Questi missionari, quali missionari, quanti missionari! Quanto hanno fatto per portare la fede e la speranza del Signore Risorto da quest’altra parte dell’Oceano Atlantico. Che cosa non è costato loro! Che cosa straordinaria e ammirabile!

Anche all’inizio di quel libro ho riportato il brano del Vangelo di san Marco citato all’inizio dei nostri esercizi e che dà il titolo a questo lavoro. C’era, dunque, una regione, o territorio, o paese, o borgo – dall’altro lato del mare di Galilea – che non è segnato su nessuna carta geografica antica che si chiamava Dal­manùta. Questo nome di Dalmanùta compare solo una volta nel Vangelo, e solo nel Vangelo di san Mar­co. Che cos’era Dalmanùta? Non è detto e non si sa, e per questo motivo di incertezza resta per noi un luogo misterioso. Per questa ragione l’ho scelto come brano iniziale per un libro sui missionari.

«Dopo ciò sali sulla barca con i suoi discepoli e andò dall’altra parte del mare in una regione chiamata Dalmanùta» (cfr Mc 8, 10). Andarono, dunque, verso Dalmanùta, un “luogo misterioso” verso il quale ci si imbarca con il Signore Gesù. Che profonda analogia: c’è una “meta misteriosa” – e anche affascinante – per coloro che scelgono Gesù.

Il padre Luís (superiore della casa dei seminaristi Cruzados, in Messico, presso cui mi trovavo per dettare gli esercizi) mi chiese di mettere una dedica sulla copia del libro Missionari italiani in Messico, per farne dono ai suoi ragazzi. Io vi scrissi queste parole: «Ai cari Cruzados, assieme ai quali sono salito sulla barca, con il Signore Gesù, e tutti insieme ci stiamo dirigendo verso Dalmanùta». In effetti i missionari che sono venuti in Messico o altrove in epoche successive, si sono tutti sbagliati: essi pensavano di andare in Messico o altrove, ma non era così... Essi sono saliti in un giorno importante della loro vita su una grande barca che li avrebbe portati a Dalmanùta.

Colui che accetta l’invito del Signore per diventare sacerdote, accetta di salire sulla barca con lui e i con “suoi”. Io vi rivolgo perciò oggi l’invito del Signore Gesù: «Salite con me sulla barca, insieme al Signore Gesù, e andiamo dall’altra parte del mare, a Dalmanùta».

 

14. L’“ordine” sacerdotale: una comunione

Abbiamo visto in questi giorni che l’elemento fondamentale per la realizzazione dell’“io” è la relazione interpersonale, l’“intersoggettività”, la fusione delle persone, degli spiriti, che vince l’isolamento interiore, l’egoismo, il senso di frustrazione di colui che è molto solitario. E certamente – lo sappiamo dalle nostre famiglie – una buona via per realizzare questa fusione di spiriti, è quella che si compie nel matrimonio. Mentre un’altra via molto bella – lasciate che ve lo dica: un’avventura forse anche più bella – è quella che si realizza nella comunione fraterna e ami­chevole che regala il sacramento dell’ordine sacerdotale; quella che il sacramento del sacerdozio instaura, che costituisce, che impone e crea, e che lega le persone che ne entrano a far parte.

Lo dimostra la stessa vita di Nostro Signore Gesù nella sua radicale convivenza con i “suoi”, e così pure lo dimostra anche l’esempio assai celebre di san Paolo e dei suoi collaboratori nel ministero apostolico (Ti­moteo, Silvano, Tito, Luca, ecc.). In questo processo di comunione e di unione, che si realizza nel sacramento dell’ordine sacerdotale, la persona può ugualmente e completamente realizzarsi nella sua propria umanità. Pensate a tante figure bellissime di santi, pensate a che cosa li ha resi felici, come si sono realizzati, in chi hanno trovato aiuto e conforto in mezzo alle più terribili e inevitabili prove...

Si dice oggi che nella vita occorre essere felici; essere felici significa e vuol dire, in effetti, essere riusciti a realizzare la perfetta fotografia di Dio. Se un uomo è felice, vuol dire che la fotografia – l’immagine – è ben riuscita. Il giorno più felice della mia vita è stato – in realtà – quello in cui sono stato ordinato sacerdote. “Non stavo più nella pelle” a causa della allegria e della gioia. Ve lo ripeto come modesta testimonianza: da allora e finora non ho mai avuto nemmeno una volta la tentazione di abbandonare il ministero sacerdotale. Il ministero sacerdotale tanto ci ricolma, che non basta l’intera esistenza per realizzare il sacerdozio che Dio ci ha donato, e non bastano le parole per ringraziare di un dono così grande e squisito. Grazie a Dio, qualunque cosa succeda, saremo sacerdoti sempre, e, grazie a Dio, sacerdoti moriremo.

 

15. L’intuizione di un progetto globale

In definitiva, uno ha la vocazione se intuisce, con gioia e attrazione, un progetto globale della sua vita futura. Questa intuizione può essere un processo progressivo, nel tempo, di acquisizione della propria vocazione, per esempio durante la vita nel seminario, o durante il noviziato. Uno intuisce, a poco a poco, che lì c’è una vita completa, che questa vita gli po­trebbe piacere, da cui anzi non potrebbe prescindere. Si tratta di uno “stato di vita”, di un tipo di amore che tu senti di volere e anche di potere realizzare.

 

16. Fantasmi e realtà: sacerdos alter Christus

Allontaniamo da noi uno spauracchio, un fantasma. Lo “spirito tentatore” è molto abile nel giostrare i suoi “fantasmi”, ma essi vanno spaventati, soffiati via lon­tano.

Cercherei di allontanarli con un esempio. Supponiamo che un giovane voglia sposarsi. Per farlo ha bisogno di una ragazza disposta a divenire sua moglie. Ma questa non è una cosa tanto ovvia e semplice, perché succede che dopo averne trovata una, gliene può piacere poi un’altra. La chiave della sua soluzione non sta solo nella parola “ragazza”, ma anche nella parola “una”. Nel momento in cui uno decide di spo­sarsi con una ragazza, non significa che da quel mo­mento smetteranno di girargli intorno altre infinite e bellissime ragazze simpatiche e buone, ma piuttosto che lui deve creare un progetto di vita con la ragazza che ha scelto: un progetto che valga tutta la vita, esclusivamente con lei. Questo significa che dovrà rinunciare a tutte le altre ragazze e a tutti i restanti, possibili, progetti di vita.

A volte lo spirito tentatore pone davanti ai seminaristi e ai novizi proprio questo fantasma: se entrerai qui, in questo progetto di vita, dovrai rinunciare a moltissime altre cose. È vero che bisogna fare delle rinunce. Ma è vero anche che chiunque scelga di entrare in “qualunque” progetto di vita – anche nel matrimonio, ovviamente – deve contemporaneamente rinunciare a tutti gli altri progetti di vita alternativi pos­sibili. Chiunque voglia radicarsi in una identità com­pleta e definita e afferrarne la sostanza deve necessariamente rinunciare al resto: è puerile e patetica la illusione di poter stare contemporaneamente in più progetti globali di vita: la bilocazione vitale o la trilocazione o la quadrilocazione è impossibile e la sua illusione è fatale: non è possibile cavalcare contemporaneamente due cavalli o servire due padroni. Quando uno sta per fare il passo deve avere la percezione e la intenzione di volersi donare con esclusività e irreversibilmente alla prospettiva che ha scelto. Hai scelto questa ragazza? Non puoi giocare con la tua e la sua vita: devi perciò donarti a questa prospettiva in forma esclusiva e irreversibile. È giusto. Hai scelto il sacerdozio? È giusto; sarai in gioco con il Signore Gesù tutta la vita, insieme a dei compagni, che a loro volta hanno investito qui tutta la loro vita per coinvolgersi con lui e con te. Non puoi giocare con loro. Si va in battaglia insieme e non ci si volge indietro da solo e per pro­prio conto; non si può mettere mano all’aratro e vol­gersi indietro per proprio conto.

Non comprendere la connessione tra il sacerdozio e la irreversibilità – vale a dire fra il sacerdozio e il celibato sacerdotale – significa non avere capito il significato, la profondità e il radicalismo dell’impegno e del compromesso che si vuole assumere, e pertanto significa soprattutto non avere capito cosa sia la chiamata e la vocazione al sacerdozio. Si può a ragione affermare che chi non capisce la “chiamata” non ha la “chiamata”. Infatti significa non avere capito che questa è una “chiamata” verso un tipo specifico di vita, verso una modalità di esistenza, che a sua volta diviene testimonianza e segno nella vita di comunione degli altri discepoli.

Il sacramento dell’ordine sacerdotale, secondo il Concilio Vaticano II, prescrive ai presbiteri, non solo di edificare il popolo di Dio mediante il ministero della Parola e la celebrazione dell’Eucaristia, ma di manifestare in una maniera unica e sacramentale l’amore fraterno, servendo così ugualmente la causa della edificazione del Regno di Dio (Presbyterorum Ordinis, n. 8). Nel sacerdozio ministeriale c’è una partecipazione originale al sacerdozio di Cristo, come capo della sua Chiesa, una partecipazione alla sua stessa persona (sacerdos alter Christus), cosicché il sacerdote rappresenta realmente il Signore Gesù stesso nella comunità, e tutta la sua vita sarà come la stessa vita del Signore di fronte alla comunità. Sacerdos alter Christus, il sacerdote è un altro Cristo.

A questo punto si potrebbe forse già dire quando uno “non” ha la vocazione sacerdotale. Si potrebbe infatti concludere che non sembrano avere la vocazione sacerdotale quelli che pronunciano frasi di que­sto tipo: «Accetto volentieri il celibato, ma penso che, in generale, si dovrebbe permettere, a chi voglia farsi sacerdote, di scegliere tra l’accettarlo o il rifiutarlo». Se uno pensa questo, si potrebbe legittimamente ipotizzare e dire che non abbia un’autentica vocazione sacerdotale. Perché no? Perché evidentemente egli non sta pensando a un “progetto globale ed esemplare di vita”, a uno “stato completo e radicale di vita”, ma sta evidentemente pensando a una “funzione”, allo stretto esercizio di una “funzione”.

Se uno pensa che si possa essere – allo stesso tempo e indifferentemente – sacerdote e uomo spo­sato, verrebbe da credere che egli pensi che alla fine “essere sacerdote” sia come “essere medico”, “essere ingegnere”, “essere elettricista”; verrebbe da credere che per lui non ci sia distinzione fra il sacerdozio e una qualunque professione, per la quale si può essere allo stesso tempo sia “funzionario” sia uomo sposato.

Se invece uno pensa che il sacerdozio sia uno “stato di vita” (i sacramenti chiamati “stato di vita” di per sé sarebbero due: il matrimonio e l’ordine sacerdotale), c’è il rischio che l’esercizio della “funzione sacerdotale” (per esempio l’amministrare i sacramenti), per quanto importante, diventi secondario rispetto al “pun­to principale”, cioè quello che abbiamo tanto sottolineato: di costruire lo “specchio” della comunità e della comunione degli apostoli con il Signore Gesù. Solo nella comprensione di quest’ultimo aspetto fondamentale si può toccare, fare propria, vivere, la sostanza del­la vocazione sacerdotale.

Ma se uno non ha compreso quello che il sacerdozio è fondamentalmente, e continua a pensare erroneamente che esso sia basicamente una funzione, al­lora è meglio che lasci stare, che lasci perdere: già questo errore di valutazione sembrerebbe essere – ed è – un segno sufficiente per dire che non ha vera vocazione. Colui, dunque, che pronuncia una frase co­me quella che abbiamo riportato sopra, lo fa evidentemente perché non ha intuito che il sacerdozio è – prima di tutto – un progetto e una testimonianza di vita e di amore globale e irreversibile.

 

17. Una testimonianza: non poter essere altrimenti

Vorrei alleggerire la meditazione raccontando qualcosa di personale. Quando ho cominciato a sentire attrazione per il sacerdozio ero innamorato di una ragazza della mia città: avevo 15 o 16 anni. Lei era una biondina carina, io l’accompagnavo a scuola ogni giorno: mi sentivo attirato e contento. Pensavo di essere innamorato di lei. In realtà ero un po’ innamorato anche di altre ragazzine – come succede a volte agli adolescenti – ma non credo che fosse un’inclinazione per la poligamia. Credo che le mie compagne mi apprezzassero e mi stimassero; anzi le compagne di scuola mi avevano dimostrato la loro “preferenza” eleggendomi il più simpatico della scuola: sono giochi di adolescenti questi, ma che, non vi nascondo, mi rendevano fiero. E con le ragazze stavo davvero bene.

D’altra parte provavo una crescente e misteriosa, ma reale, attrazione verso il sacerdozio, mi incantava e mi affascinava molto. Un giorno decisi di parlarne con un prete, e quel colloquio è rimasto indimenticabile. Il sacerdote doveva andare a trovare un altro sacerdote e mi chiese di accompagnarlo, ma arrivati a destinazione, non trovammo nessuno. Ci sedemmo vicino a un pozzo – che per me è lo stesso della samaritana – e gli esposi la situazione, dicendogli: «Guardi, tutto è molto semplice; io voglio molto bene a questa ragazza e, allo stesso tempo, sento che vorrei diventare sacerdote. Mi sembrerebbe perciò ragionevole di fare en­trambe le cose, perché io sarei un buon marito se mi sposassi con questa ragazza, e allo stesso tempo sarei anche un buon sacerdote». Allora quel sacerdote mi diede una risposta molto saggia. Mi disse: «Senti, Mario, non uscire dal seminato: la Chiesa cattolica la­tina “ordina” sacerdoti solamente uomini che non sia­no sposati. Punto! Pertanto tu hai solamente due possibilità: o l’una o l’altra; o divieni sacerdote, o ti sposi. È inutile che tu vada giocando con le due possibilità contemporaneamente, come se le potessi combinare, perché questa combinazione non esiste».

In verità, a me questo discorso sembrò molto duro. E lo era veramente, ma aveva il profumo fragrante della rude verità, e anche della carità, giacché mi indirizzava sulla giusta via del realismo oggettivo. Dopo quell’incontro passai alcune settimane tragiche, dibattendomi tra le due possibilità. Alla fine, dopo avere molto riflettuto, molto pregato e molto sofferto arrivai a una prima conclusione: che cioè dovevo decidermi per un’unica scelta. Una cosa risultava perciò chiara per me, dopo questo primo sofferto discernimento: non si potevano avere entrambe le opzioni contemporaneamente; inoltre mi era ormai chiaro che qua­lunque fosse la mia decisione – qualunque delle due opzioni avessi scelto – avrei comunque sofferto molto.

Fu importante quando dissi a me stesso: «Per prima cosa, ti devi decidere; secondo, qualunque scelta ti farà soffrire, dunque devi accettare il fatto che dovrai affrontare una grossa sofferenza. Quindi, quale delle due?». Ci ho pensato molto, andavo in Chiesa a pre­gare, poi tornavo a casa, leggevo il Vangelo... cercavo di indagare a fondo in me stesso. Alla fine, sono arrivato a un punto che mi ha aiutato poi moltissimo. Mi sono detto infatti:

«So che qualunque delle due possibili opzioni mi farà soffrire, ma è meglio che cerchi di capire quale delle due è un “qualcosa” senza cui io non riesco a concepire e a immaginare me stesso. Se mi faccio sacerdote soffrirò molto perché dovrò smettere di vedere la ragazza da cui mi sento così attirato, e dovrò smettere di pensare a lei. Se invece mi metto con lei abbandono la idea stessa del sacerdozio». «Oh no, no», mi sono detto, «questo no!». In quel mo­mento, in cui facevo oggettivamente questa ipo­tesi, mi sono reso con­to che non potevo neppure pen­sarmi o immaginarmi così. Cioè mi è stato chiaro, anche se dolorosamente chiaro, che non potevo non essere sacerdote.

In quel momento, dunque, ho visto e scoperto, anche se assai dolorosamente, la mia vocazione. Senza la possibilità del sacerdozio, io non avrei po­tuto vi­vere, e neppure pensare al mio futuro: così, con un notevole travaglio spirituale, sono approdato a terra ferma. E così, amici, e perciò, eccomi qui.

 

18. Convenienza del celibato con la vita sacerdotale

L’intuizione della “convenienza” del celibato con la vita sacerdotale non è cosmetica o funzionale. Quando uno intuisce la convenienza del celibato con il sacerdozio, deve andare verso la vita sacerdotale, non già per una convenienza pratica, o di facciata, ma per quella che potremmo chiamare una “convenienza teo­logica ed evangelica”, e in modo del tutto specifico e particolare, perché il “radicalismo di comunione di vita” con il Signore Gesù è lo “specchio” della Santissima Trinità. Questa intuizione della convenienza radicale e irreversibile del celibato con il sacerdozio è l’intuizione più caratteristica e più indicativa per uno che viene chiamato al sacerdozio.

A questo proposito vi presenterò un’analogia, prendendola dal matrimonio. Un giovane può conoscere e frequentare molte ragazze. Ma quando egli si rende conto che deve sposarsi con una specifica ragazza e con nessuna delle altre? Si tratta della stessa situazione, in parallelo: quando cioè lui – e lei – intuiscono un progetto di vita irrevocabile e completo. Allora, in questo caso, si può dire che lui ha la vocazione per “quella ragazza” in particolare, e non per le altre. Quando cioè sente di non potere più rinunciare a una delle varie opzioni possibili, perché non riesce più a concepirsi in un modo diverso e senza di lei; allora il nostro giovane sarà pronto per la scelta, ma naturalmente – più o meno dolorosamente – dovrà rinunciare alle opzioni diverse, in questo caso alle altre ragazze.

Possono esistere matrimoni “giuridicamente validi” nei quali manchi la vocazione matrimoniale nei con­fronti della compagna o, viceversa, del compagno? Due persone si vedono, si incontrano, poi per semplice convenienza, per interesse, per motivi di eredità, per accordi tra le famiglie liberamente si sposano. Il matrimonio è giuridicamente valido. Ma non è un matrimonio di “prima categoria”, per il quale si possa dire che entrambi hanno la vocazione l’uno per l’altra; so­prattutto non sarà un matrimonio esemplare e paradigmatico, cioè “di riferimento” adeguato di cosa e di come debba essere un matrimonio.

La stessa cosa, analogicamente, può succedere con il sacerdozio. Ci sono infatti uomini che sono stati ordinati sacerdoti senza averne realmente la vocazione. Anche in questo caso il loro sacerdozio è “va­lido”, ma non è felice, non è pienamente ed evangelicamente “esemplare”, non è “paradigmatico” o “di riferimento” di ciò che dovrebbe essere un sacerdote: confeziona cioè validi sacramenti, ma non “compie” adeguatamente l’immagine sacerdotale, evangelica e apostolica, come sopra abbiamo indicato.

Vorrei riflettere su questa questione del celibato. La nostra argomentazione infatti non vuole indicare o significare che coloro – che sono sicuri in un progetto globale di vita e dicono che il celibato deve essere necessariamente unito al sacerdozio – non possano fare peccati contro la castità. Se uno ha la vocazione, capisce ciò che potrebbe e dovrebbe fare. Ma anche se sbaglia, anche più di una volta, ciò non significa che, per questo, perda la vocazione; deve pentirsi degli eventuali peccati e ritornare alla sua vocazione sacerdotale. La vocazione non cambia, per quanto uno possa sbagliare. Così come analogicamente succede nel matrimonio. Quando sarete sacerdoti, potrà succedere che vengano da voi in confessionale degli uomini o delle donne, che hanno tradito le rispettive mogli o i rispettivi mariti; e voi, cosa direte loro? Direte ciò che la Chiesa misericordiosa ci insegna di dire: «Cerchi di recuperare e rinnovare la sua vocazione matrimoniale».

Succede perciò lo stesso per il sacerdozio. Una cosa, dunque, è la vocazione: un’altra cosa, connessa ma differente, è la fedeltà alla vocazione. Se hai la vocazione – dopo averla scoperta – può darsi che tu sia sempre a essa fedele, o può darsi che tu non sia sempre a essa fedele; può darsi che un giorno tu stia bene con la tua vocazione e un altro no, ma ciò non cambia il fatto sostanziale che tu “hai la vocazione”. (La questione della fedeltà alla vocazione è un argomento collegato, parallelo, ma differente e che perciò analizzeremo a parte). Per ora stiamo cercando di ca­pire come si può intuire se uno ha la vocazione sa­cerdotale.

 

19. Clero coniugato o clero celibe?

Aprirei una parentesi delicata. Ci sono infatti casi di ordinazioni sacerdotali di uomini sposati secondo riti orientali. Io vivo da oltre vent’anni in una casa di suo­re religiose maronite; tra i maroniti orientali ci sono an­cora dei sacerdoti sposati.

Ci sono riti orientali che stanno cercando di limitare il fatto dei “sacerdoti sposati”. Questa dei sacerdoti sposati praticamente appare come una situazione spesso assai difficile a livello pratico; ma la cosa più delicata non riguarda l’aspetto pratico, anche se le difficoltà ci fanno pensare acutamente a quello.

Per esempio, ho ascoltato alcune religiose della casa in cui vivo, figlie di sacerdoti sposati. Esse confermano quello che diceva e scriveva, al tempo del Concilio, S. E. mons. Ancel, il fondatore del Prado; che cioè si sono creati, a poco a poco in seno a certe diocesi due tipi di clero: il clero sposato e il clero non sposato o celibatario (cfr Alfre Ancel, Le Célibat Sacerdotal, in «La Documentation Catholique», Avril 1967, col. 727 750 ss).

Il clero sposato è un clero non troppo manovrabile e perciò non troppo utilizzabile dalle diocesi. E questo per vari motivi pratici. La gente non ama andare o non va a confessarsi dai sacerdoti sposati. Forse perché teme che il sacerdote possa parlarne con la moglie. Questo inconveniente – e altri simili – si sono di re­cente ripetuti e verificati in Inghilterra, dopo l’ammissione alla Chiesa cattolica di un notevole numero di pastori anglicani sposati.

Vi è poi un problema di natura economica non indifferente che può finire per dare fastidio agli stessi interessati: un sacerdote sposato con figli va incontro a un carico di spese non indifferente che grava sulla parrocchia. Non è facile, poi, trasferire i sacerdoti spo­sati da una parrocchia a un’altra, o a un altro incarico, perché quando dovrebbero cambiare casa e cambiare paese..., subito nascono degli inconvenienti, perché, per esempio, i bambini lascerebbero la loro scuola, i com­pagni...: ci sono, come si vede, diversi problemi pratici, concreti, che rendono la situazione piuttosto complicata.

Il vescovo finisce con il poter contare più facilmente sulla disponibilità dei sacerdoti celibi; e questi ultimi, potendo svolgere con meno impedimenti il loro compito, adeguarsi agli eventuali spostamenti e ai trasferimenti, finiscono con il ricevere, in genere, incarichi e ruoli più importanti.

Ed è quindi possibile che si inneschi una sorta di conflitto, di confronto, tra gli sposati e i celibi, anche perché non sempre le mogli di quelli sposati restano discretamente sullo sfondo, e talvolta spingono i mariti a delle rivendicazioni.

D’altro canto, un aspetto assai triste presso noi latini si presenta allorché un sacerdote celibe subisce una “caduta”, per l’essersi invaghito di una donna, o per qualche altra ragione. Ma la stessa situazione triste diventa, però, forse ancora più problematica nel caso di sacerdoti sposati; non solo nella penosa eventualità che lui possa venir meno nella fedeltà alla sposa, ma, peggio ancora, se casualmente fosse invece la sposa a venir meno nella fedeltà verso di lui... Tristissimo poi il caso in cui i figli di un sacerdote sposato non vadano più in Chiesa e non credano più. La parrocchia – per esempio – dovrebbe sostenerne le spese degli studi, mentre potrebbe succedere che essi non cooperino neppure al bene della comunità, anche semplicemente non dando il buon esempio, creando malessere fra i fedeli.

In definitiva, da un punto di vista pratico, ci si trova di fronte a una serie di situazioni delicate. Quindi, anche volendo prendere in considerazione solamente questo aspetto, non è facile pensare di ampliare la prospettiva di sacerdoti sposati per noi della Chiesa latina. In effetti, però, l’aspetto principale non è quello pratico, ma quello del vero segno della “radicale comunione degli apostoli con il Signore Gesù”. I sacerdoti sposati impartiscono certamente sacramenti validi, ma compiono pienamente la immagine evangelica? La stessa tradizione orientale sembra fornire alcuni indizi sicuri e indicativi.

La consuetudine orientale di avere sacerdoti sposati sembra sia stata favorita – lo sostiene mons. Ancel – dalle antiche invasioni dei musulmani; essi infatti, volendo ridurre o annientare la Chiesa, pensavano che perseguitando, e anche a volte uccidendo, i sacerdoti celibi avrebbero più facilmente raggiunto il loro scopo. In pratica i musulmani consideravano il clero celibe il “piede forte” di appoggio della Chiesa. La Chiesa, allora, preoccupata di garantire almeno la distribuzio­ne dei sacramenti, accettò che alcuni sacerdoti si spo­sassero in quel tempo di persecuzione così penoso e delicato. Ma in seguito, essendo ormai mutate le con­dizioni, varie diocesi orientali avrebbero avuto il desiderio di ritornare pienamente all’immagine evangelica della “comunità radicale dei discepoli intorno al Signore”. Rimando sempre a quell’intervento di mons. Ancel per gli esempi concreti.

 

20. Un’analogia fra matrimonio e sacerdozio

Si legge in talune vite di santi antichi, che due coniugi si erano sposati facendo voto di completa castità e astinenza.

In effetti, in qualche caso si tratta forse solo di una figura letteraria, ma teniamo la prima affermazione per buona ai fini del nostro discorso. Mi chiederei ora: tra due sposi che fanno voto di castità e astinenza completa (cioè che non consumano il matrimonio), e due sposi che non lo fanno, quale dei due casi riempie e compie maggiormente il segno sacramentale del matrimonio? Mi sembrerebbe che la risposta sia: quelli che non fanno il voto di castità e di astinenza com­pleta, cioè quelli che consumano naturalmente il loro matrimonio.

Anche se ci fossero casi di tali voti, il segno sacramentale del matrimonio sembra più completo nel caso in cui il matrimonio si compie e si consuma naturalmente nella sua pienezza. Nel caso del sacerdozio, analogicamente, sembra succedere qualcosa di simile. Sia un sacerdote celibe sia uno sposato, infatti, impartiscono sacramenti validi. Ma, tra i due chi realizza più pienamente il segno sacramentale del sacerdozio, come “immagine radicale della comunione di Cristo con i suoi”? La risposta sembra implicita e facile dal punto di vista evangelico, che certamente non è punto di vista secondario.

 

21. Sacerdoti sposati? La lezione dell’Oriente

A questo proposito della importanza della immagine evangelica si potrebbero considerare degli indizi indicativi provenienti proprio dagli orientali. Essi infatti pur avendo ammesso nei secoli che uomini sposati siano ordinati sacerdoti, non hanno mai ammesso, in nessun caso, come vescovo un sacerdote sposato. Ci si potrebbe chiedere perciò perché gli orientali, che avevano anche sacerdoti sposati, non abbiano mai ammesso che uno di essi, per quanto degno e meritevole, fosse fatto vescovo... La risposta a questa do­manda sembra stare nel fatto che, in effetti, l’“ordine episcopale” rappresenta la pienezza del “sacerdozio”, cioè la vera pienezza del vero segno della “radicale comunione di Cristo con i suoi”. Oltre a questo primo importante indizio, altri due indizi significativamente convergenti su questo punto – presso gli orientali – sono i seguenti. Primo: l’ordinazione sacerdotale – per i casi accennati di preti sposati – viene ammessa solo per uomini già sposati; mentre non si ammette mai la possibilità di sposarsi a dei preti già ordinati. Quindi, l’ordinazione sacerdotale sembra essere considerata, di per sé, un obice al matrimonio. Secondo: se un prete sposato rimane vedovo, anche con vari figli minori di età, non può risposarsi. Dunque, chi è ordinato prete non può accedere al matrimonio, anche se è già stato prete sposato e con figli.

 

22. Il celibato sacerdotale e la volontà della Chiesa

Per sintetizzare su questa questione del celibato sacerdotale in relazione alla vocazione sacerdotale, si può annotare che la Chiesa cattolica, con il Sinodo mondiale dei vescovi del 1990, che riprende e riafferma ciò che era stato già dichiarato nel Sinodo mondiale dei vescovi del 1971, ha fatto la seguente dichiarazione formale ed esplicita: «Il Sinodo non vuo­le lasciare nessun dubbio nella mente di nessuno ri­guardo la ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato, liberamente scelto e per­petuo, per i candidati all’ordine sacerdotale nel rito la­tino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella sua ricchezza biblica, teologica e spirituale».

Ed è esattamente ciò che stiamo cercando di fare con queste brevi considerazioni.

 

23. Il celibato: legge o criterio di discernimento

Torniamo al discernimento della vocazione sacerdotale; nello specifico a quel candidato che, riflettendo dentro di sé, può giungere a dire: «Accetto personalmente il celibato, ma penso che, in generale, si do­vrebbe lasciare libertà di scegliere fra lo sposarsi e il non sposarsi, a chi desidera fare il sacerdote». Si può in un tal caso dire che egli abbia veramente la vocazione?

Se uno giungesse a pensare questo, sembrerebbe che egli in effetti stia pensando che l’obbligo del celibato sacerdotale, voluto dalla Chiesa, non sia altro che una “legge ecclesiastica”.

Naturalmente le indicazioni evangeliche vengono tematizzate giuridicamente e divengono anche leggi ecclesiastiche; ma occorre ben distinguere fra leggi che sono puramente ecclesiastiche e leggi che sono invece tematizzazioni giuridiche di indicazioni evangeliche. In effetti, quel candidato parrebbe pensare che il celibato sacerdotale sia solo una legge ecclesiastica, piuttosto che una tematizzazione giuridica della logica evangelica interna all’esperienza religiosa degli “apo­stoli” del Signore Gesù e della loro testimonianza glo­bale e radicale di vita e di comunione con lui. In altri termini: non sembra rendersi conto che l’obbligo del celibato sacerdotale, voluto dalla Chiesa, è la tematizzazione giuridica dell’esigenza evangelica di vivere con e come il Signore Gesù, modello esemplare di ogni sacerdote.

Stando così le cose, nel caso di una sua crisi affettiva nel sacerdozio, che cosa si interporrebbe tra il candidato che pensa che il celibato sacerdotale sia solo una legge ecclesiastica e il matrimonio? Supponiamo che quel candidato arrivi al sacerdozio e che durante la vita sacerdotale avvenga una crisi affettiva per una donna concreta: come potrebbe rifiutare l’attrazione di un affetto romantico? In base alla sua idea egli potrà infatti dire a sé stesso: «L’obbligo del celibato sacerdotale, che ora mi impedisce di realizzare il mio sogno romantico, è solo una stupida legge ecclesiastica. Perché non la cambiano?». Se egli pensa che l’obbligo del celibato sacerdotale sia solo una stupida legge ecclesiastica non potrà avere alcuna speranza di uscire vittorioso dalla sua crisi affettiva. Onestamente, nessuno può chiedere a un uomo che si sposi con un “canone del diritto ecclesiastico” e che faccia questo solo per esercitare una “funzione” o una “grande fun­zione”.

D’altra parte, ci sono stati casi di crisi sacerdotali, anche molto gravi, magari spinte fino all’abbandono di tutto, in seguito alle quali, tuttavia, nel fondo dell’animo del sacerdote colpito si poteva comunque riscontrare l’immagine corretta del sacerdozio e della radicalità evangelica e significativa della sua missione. In tali casi, la nostalgia del sacerdozio rimane invincibile nel cuore al punto di poter indurre il sacerdote ferito piano piano verso il recupero della autentica identità vocazionale. E che parole commoventi si possono ascoltare in questi casi: «Però, padre, mi creda, non ho mai perduto la mia vocazione. Vorrei ritornare, vorrei ritornare ma non so se posso».

 

24. Sacerdos enim alter Christus

Concludiamo. Per sapere se uno ha la vocazione sacerdotale, elemento e criterio fondamentale sembra essere il seguente: la intuizione “irrinunciabile” del ti­po di amore – la comunione apostolica nella sua ra­dicalità – che egli si troverà a vivere nel sacerdozio, come immagine visibile dell’invisibile Dio e come segno e fermento per la Chiesa e per il mondo: Sa­cerdos enim alter Christus. A questo proposito ne con­segue un dettaglio interessante e non irrilevante. Se uno infatti intuisce questo, si può già dire che è piuttosto avanti nel discernere pienamente la propria vo­cazione sacerdotale. Intuisce infatti correttamente che egli si giocherà tutto, tutta la vita, e questo gli piace. Anzi egli non può più concepire sé stesso in un altro modo; per lui sarà inconfondibile l’idea radicale di “comunione apostolica” che si è già formato. Tut­tavia, in considerazione del fatto che questo aspetto del radicalismo della “comunione apostolica” è ciò che egli dovrà concretamente vivere nel sacerdozio, per questo stesso motivo questo aspetto sarà per lui uno dei segni che egli dovrà mostrare, incominciando a vi­verlo mentre è seminarista o novizio, per dare credibilità e affidabilità alla propria vocazione.

Se uno, come sacerdote, dovrà vivere questa comunione totale con il Signore Gesù e con i “suoi” – che è il “segno” per Israele e per il mondo e l’immagine visibile della Santissima Trinità – evidentemente dovrà cominciare a viverla fin da quando si prepara a divenire sacerdote. Fin da seminarista, o da novizio, dovrà vivere questa profonda relazione di comunione con i confratelli, dovrà avere buone amicizie, dovrà essere benevolo convivendo con loro e essere felice per que­sta comunione, dovrà saperla costruire per il fu­turo; cioè dovrà sapere salire “con loro e con il Si­gnore Gesù” su quella barca che li porterà dall’altra parte del mare, sull’altra riva verso Dalmanùta.

 

25. Il sacerdote: uomo evangelico o clericale?

Per finire su questo tema della vocazione sacerdotale, aggiungerei due pensieri:

1) Il sacerdote è colui che – per sua propria natura e per suo dovere – promuove, custodisce e difende l’unica vera fede e l’adesione alla retta comunione del­la Chiesa e, in questo contesto, favorisce la carità fra­terna all’interno della comunità. Perciò dovrà essere l’“uomo della fede” e l’“uomo dell’obbedienza” all’interno della Chiesa, cioè ci si aspetta da lui che sia un promotore di vera fede e di unità nel tessuto della Chiesa. Questo aspetto è uno degli elementi che non potrà essere considerato come secondario nella valutazione di una vocazione sacerdotale. Infatti per la Chiesa sono sommamente importanti – e imprescindibili – la capacità e la volontà dei suoi sacerdoti di promuovere la vera fede, la comunione coi Pastori e con il Papa e la unità di tutta la Chiesa.

2) Se un candidato al sacerdozio si rivelasse un “clericale” non converrebbe ammetterlo alla ordinazione sacerdotale. (Personalmente sono contrario al “clericalismo”. Nella mia regione di origine c’è infatti una naturale allergia al “clericalismo”; si è così contrari fino a toccare forme estreme e ugualmente riprovevoli di “anti-clericalismo”).

Quando è che uno potrebbe essere considerato un “clericale”? Un sacerdote potrebbe essere definito “clericale” quando tende a immischiarsi in ciò che non riguarda il suo ruolo, il suo carisma e la sua vocazione sacerdotale: quando tende a usare il suo compito sa­cerdotale per influire o manipolare altre aree, differenti e autonome. Di per sé il “clericalismo” potrebbe ri­guardare sia le “alte sfere” del clero, sia i sacerdoti semplici. Per esempio, se un vescovo si mettesse a fare il politico, o il sindacalista o l’uomo di governo o il ri­voluzionario o il dittatore, o a promuovere lotte sociali potrebbe giustamente essere considerato un “clericale” (così, analogamente, se si mettesse a svolgere qua­lunque altro ruolo “laico”, cioè proprio dei “laici”, co­me il banchiere, il generale, il com­merciante).

Perché un sacerdote non dovrebbe mettersi a fare il politico o il “promotore sociale”, o il banchiere o il generale...? Perché all’interno della Chiesa, come in­dica molto bene l’apostolo san Paolo e come lo chiarisce espressamente il Concilio Vaticano II, esistono diversi carismi, diversi ruoli e diverse vocazioni: da un lato per i “laici” – propri del carisma dei “laici” – e da un altro lato per i sacerdoti – propri del carisma dei sacerdoti.

Per contrapposto parallelismo si dovrebbe segnalare che è inaccettabile il comportamento di quei laici, che tendono a interferire indebitamente sull’altare, quando un sacerdote celebra la Santa Messa. Mi sem­bra che non sia giusto che un laico cerchi di immischiarsi – per esempio cercando di pronunciare l’ome­lia – nel ruolo proprio dei sacerdoti: questo infatti non tocca a lui. Osservo – da questo punto di vista – che, in generale, i sacerdoti tendono a tutelare e a difendere, giustamente, la loro area di competenza.

Viceversa noi sacerdoti non dobbiamo immischiarci nelle aree proprie della autonomia e della competenza dei laici, dando fastidio con un “paternalismo” distruttivo e, appunto, “clericale”. Tocca infatti ai laici la promozione delle “realtà temporali”, cioè delle attività e aree politiche e sociali, naturalmente ai laici cristiani e formati. A noi sacerdoti tocca, forse, di aiutare i laici a essere cristiani preparati, a conoscere la dottrina sociale della Chiesa, a formarsi nella loro competenza propria, relativa alle “realtà temporali”, questo ci com­pete, ma non possiamo e non dobbiamo fare politica con loro, direttamente, e neppure in modo surrettizio.

Per una buona vocazione sacerdotale è perciò necessario che il candidato conosca e sappia valutare giustamente queste distinzioni: deve essergli assolutamente chiaro che non è chiamato ad andare a vivere una vita da “leader politico”. Dicendo questo non stiamo disprezzando il ruolo dei politici. Devono es­serci dei laici politicamente impegnati, deve esserci gen­te buona, e anche santa (san Tommaso Moro, per esempio) che riveste secondo carisma e talento il ruo­lo di laico impegnato, magari anche di leader, ma que­sto compito in nessun modo spetta a noi sacerdoti. D’altro canto, a me piace sempre riprendere l’esempio della vita vissuta nelle nostre famiglie e nelle nostre parrocchie. Ognuno di voi conosce il proprio padre e il proprio parroco e sa fare con semplicità questa elementare distinzione: che il padre non si deve intromettere nel ruolo e nell’area del suo parroco; e che il suo parroco non deve intromettersi nel ruolo e nell’area del padre.

A ognuno, dunque, è dato di perseguire il proprio ruolo e il proprio carisma nei limiti dell’area di competenza. Noi sacerdoti, seguendo le parole del Signore Gesù, diamo volentieri «a Cesare quello che è di Ce­sare e a Dio quello che è di Dio», mentre, serenamente, «saliti sulla barca con lui, andiamo dell’altra par­te del mare, verso una regione chiamata Dalmanùta».

 

CELIBATO E FRATERNITÀ SACERDOTALE*

 

Premessa

Alcuni autori oggi presentano il problema della relazione fra sacerdozio e celibato partendo dalla legge canonica ed osservano che, essendo il celibato vincolato al sacerdozio per legge canonica, è sufficiente togliere questo impedimento di diritto ecclesiastico per sollevare il peso grave di quanti si sentirebbero di vivere il sacerdozio, ma non il celibato.

Tale impostazione del problema è chiara, anche se alquanto semplicistica.

Ciò che stupisce di più è che tale impostazione del problema provenga anche da ambienti di cultura teo­logica generalmente contrari ad una impostazione giu­ridicistica dei problemi umani ed ecclesiali. Essa spes­so è manifestazione di una visione esclusivamente funzionale del sacerdozio ministeriale. Il prete, cioè, è visto come un funzionario, come un individuo che rende un servizio alla comunità, ma non v’è niente che tocchi veramente la profondità della sua persona, il suo essere, non vi è niente di ontologico insomma in quanto il prete non sarebbe una reale ripresentazione del Cristo. Purtroppo d’altra parte, per contrastare alla conclusione a cui questi giungono, si fa spesso ap­pello a motivazioni esclusivamente sovrannaturali e trascendenti: motivazioni che sono certamente valide e fondamentali, ma che, se restano isolate, creano difficoltà per la nostra mentalità contemporanea così sensibile ai valori dell’uomo e ai segni dell’incarnazione del divino.

Così questa seconda prospettiva, per il fatto di essere parziale crea più sfiducia che fiducia, più danno che aiuto per la comprensione del problema.

 

I Osservazioni di carattere teologico sulla connessione fra sacerdozio e celibato

A mio parere occorrerebbe invece, per una migliore impostazione del problema, partire dalla considerazione del popolo di Dio come comunione: comunione che Dio ha voluto suscitare nel mondo, con la Sua Incarnazione, per manifestare e propagare la stes­sa comunione di amore esistente nella Trinità.

I sacramenti di stato, Matrimonio e Ordine, hanno appunto principalmente questa funzione di manifestare ed edificare questa comunione.

 

 

Per quanto riguarda il matrimonio è noto il valore di segno della unione sponsale fra Cristo e la Chiesa (cfr. Lettera agli Efesini) che esso porta in sé.

Per quanto riguarda il sacramento dell’Ordine, occorrerà in particolare tener presente la novità di prospettiva messa in luce dal Vaticano II, che l’ha pre­sentata esplicitamente e coscientemente nei suoi documenti.

Con l’Ordine i presbiteri non soltanto sono deputati al compito di edificare in unità, mediante il ministero della parola e l’Eucaristia, il popolo di Dio, ma anche a manifestare in modo sacramentale ed unico l’amore fraterno, servendo anche in tal modo l’unica causa del­l’edificazione del regno di Dio.

Mediante l’Ordinazione, dice questo Concilio, i presbiteri vengono uniti fra loro da una fraternità e per la prima volta nella storia dei Concili si dice che questa fraternità è “sacramentale”, cioè vi è un legame ontologico che si costituisce mediante la Sacra Ordinazione non solo con Cristo, ma fra tutti i sacerdoti.

Il Concilio precisa inoltre che questa fraternità sacramentale è intima, cioè il vincolo che lega i sacerdoti fra loro tocca il fondo della loro personalità, strutturandone e trasformandone l’esistenza ed è più pro­fondo di quello derivante dal battesimo, che lega tutti i cristiani fra loro; i quali, appunto, nel sacramento dell’Ordine trovano la fonte e l’esemplare della loro stessa comunione.

Questo legame ontologico non deve essere confuso con il semplice legame che abbiamo tra noi sacerdoti nel presbiterio diocesano; infatti i teologi fanno già la distinzione, basandosi sulla mente del Concilio, cioè sugli interventi fatti dai Padri su questo punto, fra diritto divino per la “Fraternità Sacramentale”, che coinvolge tutti coloro che ricevono la Sacra Ordinazione, e diritto ecclesiastico per l’adesione al presbiterio diocesano, che della fraternità sacramentale o collegialità sacerdotale non è che una attuazione con­tingente.

La immagine prima di questa realtà, messa in luce per la prima volta da questo Concilio e su cui già si è cominciato a studiare con convegni e pubblicazioni si trova nella cerchia ristretta degli Apostoli del Signore e nella loro comunione di vita con Lui: «ne scelse dodici per averli con sé e per mandarli a predicare» (Mc 3, 14).

Questa comunione profonda ed inaudita che li legava al Signore e fra loro ha richiesto agli apostoli una triplice separazione («Reliquimus omnia et secuti sumus te», Mt 19, 27 ss.); il Signore, infatti (cfr Discorsi di Paolo VI ai Quaresimalisti Romani 1969 e 1970), ha costituito con i suoi apostoli una comunione così definitiva e profonda da sradicarli:

1) dal lavoro in cui essi erano impegnati (Mt 4, 18-22 e pp. Mt 9, 9 e pp.);

2) dal Maestro di cui essi erano i discepoli (Giovanni Battista), (cfr Gv 1, 35-51);

3) dalle loro famiglie stesse (Mt 4, 22 e pp.; Mt 19, 20 e pp.) «per averli con sè» (Mc 3, 14).

Diviene chiaro, a questo punto, il valore del legame del celibato con l’Ordine Sacro, riaffermato positivamente ed esplicitamente dal Concilio sia per quanto ri­guarda la legislazione esteriore, sia per quanto riguarda la intima connessione e convenienza: cioè la figura di Cristo, unico sacerdote eterno, viene ripresentata in pienezza dal segno sacerdotale a causa di una con-­vergenza, con-correnza, convenienza di elementi, fra cui certamente, come dice il Concilio, il celibato, che ripresenta la forma di amore anche umano vissuta dal Signore con i suoi, allorché, nel corso del suo ministero evangelico, staccando alcuni uomini dai loro legami naturali, ha costituito una comunità umana di tipo nuovo, unita da un legame di tipo diverso ma non meno profondo del precedente e ciò proprio in vista del ministero apostolico a cui chiamava questi uomini.

Il celibato dunque non va più visto solo nella prospettiva di una separazione dal mondo per una con­sacrazione al Dio trascendente o di una maggiore disponibilità verso i fedeli. Ma va visto anche come esigenza necessaria di questa condizione di vita, cioè di questa comunione fraterna che lega inter se, dice il Concilio, i sacerdoti e rende visibile la comunione vissuta dal Signore con i suoi Apostoli e così fa da fermento alla comunione della Chiesa.

 

II. Osservazioni di carattere psicologico-esistenziale

Vi è una tendenza nella filosofia contemporanea a considerare la intersoggettività non come accidentale, ma come sostanziale e costitutiva della persona e questo porta a considerare come primario l’orientamento dell’“io” verso il “tu” e non verso il “non io. La relazione interpersonale diviene allora talmente essenziale alla costituzione della persona da potersi sintetizzare questa essenzialità nell’assioma aut duo aut ne­mo. Si giunge cioè alla impossibilità di cogliere la persona come monade isolata, perché la sua situazione tipica è quella del “noi” dell’amore in cui un “io” e un “tu” si amano completamente e si promuovono mutuamente, per questo la persona non è tanto qualcosa in sé, quanto uno slancio verso il tu. «È sussistendo in alio che un essere personale ha la capacità di esistere in sé e per sé». Nédoncelle si è ispirato al dogma Trinitario per ricercare se la persona sia essenzialmente reciproca «il dogma cristiano pensa per esempio che l’essenza di Dio si esprima in una Trinità di Persone: la realtà suprema vi è dunque definita come un sistema di relazioni sussistenti, di cui tutto il significato, dicono gli scolastici, è un esse ad. Si vede che le speculazioni relative alla Trinità sono piene di interesse per chi vuole delucidare il problema del contatto degli spiriti».

Ora se noi intendiamo come sacramento di stato la qualificazione a livello sacramentale (cioè il fatto che venga radicalizzato e reso significativo al livello sacramentale) dello stato esistenziale dell’individuo, noi non possiamo distinguere questo sacramento dall’essere della persona in quanto “relazione ad”.

Ebbene se riconsideriamo la tipologia assai ricca di tutte le possibili relazioni umane, ci accorgiamo che esse possono essere facilmente raggruppate secondo tre categorie:

1. Relazioni di dipendenza filiali;

2. Relazioni di parità (non se ne riconoscono in genere che due, cioè la unione coniugale e la fraternità o amicizia);

3. Relazioni di paternità.

Si può notare facilmente che esse corrispondono essenzialmente alle tre relazioni Trinitarie e che sono assai tipiche, generalmente, dei tre stadi principali della vita umana, cioè giovinezza, maturità e senilità.

Ci si chiede ora quali di queste relazioni umane, essenziali a vivere integralmente la propria vita ed a scoprirne il valore, siano state elevate a sacramento di stato. Per il nostro scopo la domanda può essere formulata anche in altro modo, cioè chiedendosi se il Signore Gesù, che fu uguale in tutto all’uomo, fuorché nel peccato (Eb 4,15) e coloro che, a sua imitazione, hanno abbracciato un sacerdozio celibatario, abbiano vissuto e possano vivere un amore di maturità, cioè una relazione di parità, e se questa vita così configurata sia ciò che dalla loro missione è loro richiesto di manifestare.

La risposta può venirci dal dato biblico, che può farci rilevare come di tutti i tipi di relazioni umane il Signore ne abbia assunti due e li abbia elevati a sacramento di stato: essi sono appunto gli unici due tipi di relazioni di parità, cioè la unione coniugale e la fraternità o amicizia.

Per quanto riguarda la unione coniugale il fatto è già a tutti noto e da tempo messo in luce.

Quanto all’amicizia si può osservare come essa sia la struttura tipica usata da Cristo nell’incontro, la pre­parazione, la costituzione e la missione degli apo­stoli e resti la loro forma di relazione umana (Gv 13, 35, 15, 15 s.; Lc 12, 4….).

Ora come la dinamica tipica del matrimonio e la sua spiritualità è la evoluzione nel contesto sacramentale della relazione umana che sta alla base di quel sacramento, cioè la unione coniugale; così si può dire che la dinamica tipica dell’Ordine e la sua spiritualità è la evoluzione nel contesto sacramentale della relazione umana che sta alla sua base cioè la fraternità-­ami­cizia. «Dirò dunque dell’amicizia ciò che Gio­vanni, amico di Gesù, ricorda della carità: Dio è amicizia?… ciò che viene scritto della carità non dubito di applicarlo all’amicizia, perché chi vive nell’amicizia vive in Dio e Dio in lui». Basterebbe questo pensiero di Aelredo per mettere in evidenza il grande valore e la funzione fondamentale che l’amicizia ha sempre avuto nella vita cristiana. Ma più in particolare si vedano varie testimonianze su come questa relazione stia a fondamento dell’esistenza sacerdotale: «I sacerdoti sono fratelli, partecipi delle gioie e delle sofferenze, uniti in animo aperto senza segreti, compatti attraverso i medesimi intenti apostolici perché amici: non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quel che fa il padrone, vi ho chiamato amici, perché vi ho fatto conoscere quello che ho udito dal Padre mio». E ancora M. Rétif: «il sacerdote ha bisogno del sacerdote per essere sacerdote: in questo senso è la équipe sacerdotale che si impone come prima esigenza. Il sacerdozio è di natura collegiale.

Io non posso più essere sacerdote senza vivere, lavorare, con altri sacerdoti. Il sacerdote che io sono non riconosce più in sé l’idea, che gli si era presentata da principio, di un sacerdozio soprattutto funzionale e come indipendente dagli altri sacerdoti».

Questa visione del sacramento dell’Ordine lo configura quindi, in modo conforme a una concezione personalistica del fatto cristiano, ponendo alla sua base una relazione particolare, caratteristica ed esclusiva con Cristo e con gli altri sacerdoti; il che dà poi origine, conseguentemente, alla missione.

Ebbene questa concezione ritengo che possa essere avvalorata e illuminata ulteriormente, riflettendo sulla struttura fondamentale della economia della salvezza: l’alleanza.

Com’è noto, nella Bibbia l’alleanza è presentata in diverse forme: ad esempio quella di una relazione paterno-filiale, quella di una relazione matrimoniale e in particolare quella di una relazione amicale (fra Dio e singole persone: Abramo, Mosè; fra Dio e il popolo). Contemporaneamente si assiste all’introduzione nelle relazioni fra Dio e il suo popolo dei riti caratteristici dei patti di alleanza, di amicizia, in uso allora (Gn 15, 12-21; Is 24, 3-8) e ancor oggi in mezzo a diversi popoli.

Questo processo è culminato infine, colla venuta di Cristo, nel sacrificio detto della Nuova Alleanza, l’Eucarestia. Da quanto fin qui accennato, appare chiaro il grande valore di questa relazione d’amicizia nell’economia cristiana e la sua grande significatività e come sia particolarmente indicato che i ministri della nuova alleanza ne siano così interiormente segnati da assumerla come struttura portante della loro esistenza. Essi infatti sono coloro che devono presiedere alla Eucaristia, come devono presiedere alla carità.

 

Essi sono stati mandati a suscitare nel mondo quella comunione, quella fraternità cristiana che è il centro del messaggio di Cristo. È molto conveniente dunque che essi siano i primi a viverla. Pur essendo infatti il matrimonio un valore eminentemente cristiano, esso è destinato a finire, mentre il valore che resterà sempre è proprio la fraternità cristiana di cui i sacerdoti vogliono essere un’immagine vivente, tutta particolare. Questo stato di vita non li pone su un gradino più alto rispetto agli altri cristiani, ma costituisce la loro forma propria di relazione, complementare nell’economia cristiana, con l’esistenza matrimoniale. Come dice il Vat. II: «essi diventano segno vivente di quel mondo futuro… presente già attraverso la fede e la carità, nel quale i figli della risurrezione non si uniscono in matrimonio».

Questa straordinaria amicizia, o comunione, che si crea con la Sacra Ordinazione, come vero amore esistenziale, vitale e concreto, va costruita in modo da coinvolgere, come vero amore cristiano, tutte le valenze umane della persona. Chiarificatrice da questo punto di vista la seguente pagina di Schillebeeckx sullo sradicamento che opera questo tipo di vocazione: «…Quanto al contenuto tutt’e tre i sinottici parlano certamente dell’“abbandono della moglie” per amore del Regno di Dio… Il sottinteso, secondo cui chiunque sia sotto il potere esclusivo di Gesù in modo speciale, non può, esistenzialmente, comportarsi in altra maniera che lasciare tutto e rinunziare alla vita coniugale è un dato autenticamente biblico…».

A questa visione del sacramento dell’Ordine in prospettiva personalistica si oppongono due ostacoli che sostanzialmente prendono avvio dallo stesso equivoco e cioè una visione dell’unione coniugale come centrale, finale e necessaria relazione umana di parità nello sviluppo della maturità dell’individuo.

Alcuni, cioè i sostenitori della Verginità in chiave volontaristica e spiritualistica, evitano questo ostacolo appellandosi unicamente ad agganci soprannaturali (Grazia, Fede,…). Altri vedono la poca consistenza sul piano umano di questa posizione e la sua sostanziale contraddittorietà con la legge fondamentale della Incarnazione; quindi rifiutano questo tipo di soluzione, però, agganciati come sono al precedente equivoco di esagerare il valore dell’unione coniugale rispetto alle altre relazioni umane, cadono nella ri­chiesta del matrimonio come soluzione umana ne­cessaria o almeno desiderabile.

In verità, fondamentale elemento per la autentica realizzazione dell’“io”, è la intersoggettività, la fusione delle persone, degli spiriti, vincendo l’isolamento interiore provocato dalla propria maschera umana. La persona si realizza quando riesce a comunicare in parità con il profondo di un’altra persona e così a vincere la solitudine.

Un processo di questo tipo è indubbiamente quello che si realizza attraverso l’unione coniugale nel Matrimonio.

Analogo tuttavia è quello che si realizza con la comunione fraterna e amicale nel sacramento del­l’Ordine, che lega tanto profondamente le persone, come la vita stessa del Signore ha mostrato.

La persona, con questo processo di comunione è completamente capace di realizzarsi nella sua umanità, come il Signore ci ha pienamente rivelato con la sua Verginità vissuta, certamente non povera di amore.

In effetti S. Tommaso già fa notare, come molti poi fino a noi, che l’amicizia è fine di ogni altra relazione; essa quindi allorché è vissuta come relazione a sé stante, nella vita sacerdotale, non è certo inferiore ad altre relazioni umane come capacità di perfezionamento dell’individuo.

Quindi il problema si risolve col porre sullo stesso piano le relazioni umane che stanno alla base dei due sacramenti di stato. La scelta che è necessario ciascuno operi, fatta in base ai propri carismi e alla propria vocazione particolare, sarà comunque una rinuncia, proprio perché scelta operata da un essere limitato, nello stesso modo che, d’altra parte, analogicamente, è una rinuncia a una donna la scelta di un’altra occasione del matrimonio.

 

Conclusione

In questa prospettiva il sacerdozio uxorato (pur conservando tutta la pienezza di giurisdizione e la potenzialità del sacramento) assume solo una prospettiva limitata e particolare, cioè di transizione, per situazioni particolari verso la pienezza espressiva del segno.

Interessante, per concludere, la testimonianza di Pao­lo VI nella enciclica sul Celibato del 26-6-1967: «La risposta alla divina vocazione è una risposta d’amore che Cristo ci ha dimostrato in maniera sublime (Gv 15, 13; Gv 3, 16). Perciò la scelta del sacro celibato è sem­pre stata considerata dalla Chiesa ‘quale segno e sti­molo della carità’ (Const. dogm. Lumen Gentium, n. 42)... raro e oltremodo significativo esempio di una vita che ha come movente e forza l’amore, nel quale l’uomo esprime la sua esclusiva grandezza».

Occorrono ora, come dopo ogni Concilio, alla Chie­sa dei santi che vivano queste prospettive, messe in luce dai testi conciliari e così corrispondenti alla natura umana.

La legislazione infatti della Chiesa Latina si ap­poggia non su un capriccio o su un disprezzo del va­lore dell’umano, ma sopra un chiaro fondamento teo­logico; essa tende a che il segno sacerdotale anche per il maggior bene del popolo di Dio, sia manifestato in tutta la sua pienezza.

 

 

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ*
BENEDETTO XVI AI SEMINARISTI IN OCCASIONE DELLA XX GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ


Colonia, Chiesa di S. Pantaleon
Venerdì, 19 agosto 2005

 

 

 

Cari Confratelli nell’Episcopato e nel sacerdozio,
cari seminaristi!

 

Vi saluto tutti con grande affetto, ringraziandovi per la vostra festosa accoglienza e soprattutto per essere venuti a questo appuntamento da numerosi Paesi dei cinque continenti: noi formiamo qui veramente un’immagine speculare della Chiesa cattolica sparsa nel mondo. Ringrazio innanzitutto il Seminarista, il Sacerdote e il Vescovo, che ci hanno offerto la loro personale testimonianza, e debbo dire che mi ha colpito profondamente il vedere le strade sulle quali il Signore ha condotto queste persone in modo inaspettato e opposto ai loro progetti. Grazie di cuore. Sono lieto di questo incontro. Ho voluto – questo già è stato detto – che nel programma di queste giornate di Colonia fosse inserito uno speciale incontro con i giovani seminaristi, perché emergesse veramente in tutta la sua importanza la dimensione vocazionale, che gioca un ruolo sempre più grande nelle Giornate Mondiali della Gioventù. La pioggia che sta scendendo dal cielo ci si mostra – mi sembra – anche come una benedizione. Voi siete seminaristi, cioè giovani che, in vista di un’importante missione nella Chiesa, si trovano in un tempo forte di ricerca di un rapporto personale con Cristo, dell’incontro con Lui. Perché questo è il seminario: non tanto un luogo, ma, appunto, un significativo tempo della vita di un discepolo di Gesù. Immagino l’eco che suscitano nei vostri cuori le parole del tema di questa ventesima Giornata mondiale – “Siamo venuti per adorarlo” – e l’intero toccante racconto del cercare e trovare da parte di questi saggi. Ciascuno a suo modo – pensiamo alle tre testimonianze che abbiamo ascoltato – è come loro una persona che vede una stella, si mette in cammino, sperimenta anche il buio e sotto la guida di Dio può giungere alla meta. Questa pagina evangelica sul cercare e trovare dei Magi riveste un significato singolare proprio per voi, cari seminaristi, perché state compiendo un percorso di discernimento – è questo un vero cammino – e di verifica della chiamata al sacerdozio. Su questo vorrei soffermarmi a riflettere con voi.

Perché i Magi da paesi lontani andarono a Betlemme? La risposta è legata al mistero della “stella” che essi videro “sorgere” e che identificarono come la stella del “re dei Giudei”, cioè come il segno della nascita del Messia (cfr Mt 2, 2). Quindi il loro viaggio fu mosso dalla forza di una speranza, che nella stella ottenne poi la sua conferma e ricevette la sua guida verso il “re dei Giudei”, verso la regalità di Dio stesso. Perché questo è il senso del nostro cammino: servire la regalità di Dio nel mondo. I Magi partirono perché nutrivano un desiderio grande, che li spingeva a lasciare tutto e a mettersi in cammino. Era come se aspettassero da sempre quella stella. Come se quel viaggio fosse da sempre inscritto nel loro destino, che ora finalmente si realizzava. Cari amici, è questo il mistero della chiamata, della vocazione; mistero che coinvolge la vita di ogni cristiano, ma che si manifesta con maggiore evidenza in coloro che Cristo invita a lasciare tutto per seguirlo più da vicino. Il seminarista vive la bellezza della chiamata nel momento che po­tremmo definire di “innamoramento”. Il suo animo è colmo di stupore, che gli fa dire nella preghiera: Signore, perché proprio a me? Ma l’amore non ha “perché”, è dono gratuito, a cui si risponde con il dono di sé.

Il seminario è tempo destinato alla formazione e al discernimento. La formazione, come ben sapete, ha diverse dimensioni, che convergono nell’unità della persona: essa comprende l’ambito umano, spirituale e culturale. Il suo scopo più profondo è di far conoscere intimamente quel Dio che in Gesù Cristo ci ha mostrato il suo volto. Per questo è necessario uno studio approfondito della Sacra Scrittura come anche della fede e della vita della Chiesa, nella quale la Scrittura permane come parola vivente. Tutto ciò deve collegarsi con le domande della nostra ragione e quin­di con il contesto della vita umana di oggi. Questo studio, a volte, può sembrare faticoso, ma esso costituisce una parte insostituibile del nostro incontro con Cristo e della nostra chiamata ad annunciarlo. Tutto concorre a sviluppare una personalità coerente ed equilibrata, in grado di assumere validamente per poi compiere responsabilmente la missione presbiterale. Decisivo è il ruolo dei formatori: la qualità del presbiterio in una Chiesa particolare dipende in buona parte da quella del seminario, e perciò dalla qualità dei responsabili della formazione. Cari seminaristi, proprio per questo con viva riconoscenza oggi preghiamo per tutti i vostri superiori, professori ed educatori, che sentiamo spiritualmente presenti a questo incontro. Chiediamo al Signore che possano assolvere nel modo migliore il compito così importante a loro affidato. Il seminario è tempo di cammino, di ricerca, ma soprattutto di scoperta di Cristo. Infatti, solo nella misura in cui fa una personale esperienza di Cristo, il giovane può comprendere in verità la sua volontà e quindi la propria vocazione. Più conosci Gesù e più il suo mistero ti attrae; più lo incontri e più sei spinto a cercarlo. È un movimento dello spirito che dura per tutta la vita, e che trova nel seminario una stagione carica di promesse, la sua “primavera”.

Giunti a Betlemme, i Magi, «entrati nella casa – co­me dice la Scrittura –, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono» (Mt 2, 11). Ecco finalmente il momento tanto atteso: l’incontro con Gesù. “Entrati nella casa”: questa casa rappresenta in un certo modo la Chiesa. Per incontrare il Salvatore, bisogna entrare nella casa che è la Chiesa. Durante il tempo del seminario nella coscienza del giovane seminarista avviene una maturazione particolarmente significativa: egli non vede più la Chiesa “dall’esterno”, ma la sente per così dire “dall’interno” come la sua “casa”, perché casa di Cristo, dove abita “Maria sua madre”. Ed è proprio la Madre a mostrargli Gesù, suo Figlio, a presentarglielo, a farglielo in un certo modo vedere, toccare, prendere tra le braccia. Maria gli insegna a contemplarlo con gli occhi del cuore e a vivere di Lui. In ogni momento della vita di seminario si può sperimentare questa amorevole presenza della Madonna, che introduce ciascuno all’incontro con Cristo, nel si­lenzio della meditazione, nella preghiera e nella fraternità. Maria aiuta ad incontrare il Signore soprattutto nella Celebrazione eucaristica, quando nella Parola e nel Pane consacrato Egli si fa nostro quo­tidiano nu­trimento spirituale.

«E prostratisi lo adorarono... e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Mt 2, 11-12). È questo il culmine di tutto l’itinerario: l’incontro si fa adorazione, sboccia in un atto di fede e d’amore che riconosce in Gesù, nato da Maria, il Figlio di Dio fatto uomo. Come non vedere prefigurata nel gesto dei Magi la fede di Simon Pietro e degli altri Apostoli, la fede di Paolo e di tutti i santi, in particolare dei santi seminaristi e sacerdoti che hanno segnato i duemila anni di storia della Chie­sa? Il segreto della santità è l’amicizia con Cristo e l’a­de­sione fedele alla sua volontà. “Cristo è tutto per noi”, diceva Sant’Ambrogio; e San Benedetto esortava a nulla anteporre all’amore di Cristo. Cristo sia tutto per voi. A Lui, soprattutto voi, cari seminaristi, offrite ciò che avete di più prezioso, come suggeriva il venerato Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per questa Giornata Mondiale: l’oro della vostra libertà, l’incenso della vostra preghiera ardente, la mirra del vostro affetto più profondo (cfr n. 4).

Il seminario è tempo di preparazione alla missione. I Magi “fecero ritorno” al loro Paese e certamente resero testimonianza dell’incontro con il Re dei Giudei. Anche voi, dopo il lungo e necessario itinerario formativo del seminario, sarete inviati per essere i ministri del Cristo; ciascuno di voi tornerà tra la gente come alter Christus. Nel viaggio di ritorno, i Magi dovettero affrontare certamente pericoli, fatiche, smarrimenti, dubbi... Non c’era più la stella a guidarli! Ormai la luce era dentro di loro. Ad essi spettava ormai custodirla e alimentarla nella costante memoria di Cristo, del suo Volto santo, del suo Amore ineffabile. Cari seminaristi! Se Dio vorrà, un giorno anche voi, consacrati dallo Spirito Santo, inizierete la vostra missione. Ricordatevi sempre le parole di Gesù: «Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9). Se rimarrete vicino a Cristo, con Cristo e in Cristo, porterete molto frutto, come Egli ha promesso. Non voi avete scelto lui – l’abbiamo appena sentito nelle testimonianze – ma Lui ha scelto voi (cfr Gv 15, 16). Ecco il segreto della vostra vocazione e della vostra missione! Esso è conservato nel cuore immacolato di Maria, che veglia con amore materno su ognuno di voi. A Maria ricorrete sovente e con fiducia. A tutti voi assicuro il mio affetto e la mia preghiera quotidiana, mentre di cuore vi benedico.

 

INDICE

INTRODUZIONE

di S.E. Mons. Luigi Negri            5

 

CELIBATO ECCLESIASTICO
E FRATERNITÀ SACERDOTALE.
Breve riflessione biblico-teologica-esistenziale
sui dati proposti dal Magistero

 

Premessa            13

Parte A, in tre punti    16

1) I dati evangelici            16

2) La tradizione post-pasquale dei detti del
Signore Gesù    21

3) La redazione dei Vangeli circa i detti sulla
“sequela”            24

 

Parte B, approccio ad una lettura di fondo, nella intenzione esistenziale del Signore – in chiave “spirituale” – dei dati biblico-teologici            27

Conclusione            33

Corollario primo            34

Corollario secondo            36

 

IL CELIBATO ECCLESIASTICO
E LA FRATERNITÀ SACERDOTALE
(“Apostolica Vivendi Forma”) nel Magistero recente della Chiesa

 

Il Concilio            43

L’Enciclica Sacerdotalis Coelibatus            44

Il testo del Sinodo dei Vescovi del 1971:
Il Sacerdozio Ministeriale
            46

Conclusione circa il Magistero            54

Due corollari:            56

Primo corollario            56

Secondo corollario            58

 

LA FERMEZZA DELLA CHIESA
di Giovanni Paolo II            59

 

“Ammiro la fraternità sacerdotale
di Giovanni Paolo II            61

 

 

ALTRI SCRITTI

 

DISCERNIMENTO DI UNA VOCAZIONE SACERDOTALE        67

1.I criteri di osservazione            68

2.L’uso della psicologia            68

3.Abusi gravi nell’uso della psicologia            70

4.Come capire una vocazione autentica?            73

5. Vocazione sacerdotale o «determinismi
psichici»?            74

6. I segni dei tempi    76

7. Anomalie nei “criteri deterministici”            77

8. Vocazione sacerdotale o vocazione canonica            79

9. Il criterio: la comunione apostolica            81

10. La vita degli apostoli 84

11. Il celibato sacerdotale e l’apostolica vivendi
   forma            85

12. Sequela Christi: mirare a lui per
   raggiungere la meta 87

13. Dalmanùta: la meta misteriosa            89

14. L’“ordine” sacerdotale: una comunione            91

15. L’intuizione di un progetto globale  92

16. Fantasmi e realtà: sacerdos alter Christus            92

17. Una testimonianza: non poter essere
  altrimenti            96

18. Convenienza del celibato con la vita
   sacerdotale            99

19. Clero coniugato o clero celibe?            101

20. Un’analogia fra matrimonio e sacerdozio            104

21. Sacerdoti sposati? La lezione dell’Oriente            105

22. Il celibato sacerdotale e la volontà della
   Chiesa            106

23. Il celibato: legge o criterio di discernimento            106

24. Sacerdos enim alter Christus            108

25. Il sacerdote: uomo evangelico o clericale?            109

 

CELIBATO E FRATERNITÀ SACERDOTALE

Premessa            113

I Osservazioni di carattere teologico sulla
  connessione fra sacerdozio e celibato 115

II  Osservazioni di carattere
  psicologico-esistenziale            122

Conclusione            132

 

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AI SEMINARISTI IN OCCASIONE DELLA
XX GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ            135

 

 

 



J. Ratzinger, Il sacerdote di domani, in Studi Cattolici, n. 108, 1970, p. 184. «Altri affermano che il sacerdozio è una professione come tutte le altre, una professione che viene svolta come quella dell’insegnante, del commerciante, del politico, alla quale si può rinunciar quando la vita lo impone». N. Bussi, La problematica teologica attuale attorno al ministero sacerdotale, in Presenza Pastorale, n. 3, 1970, p. 131. «Alcuni affermano che il ministero sacerdotale, non può essere una partecipazione all’unico ministero sacerdotale di Cristo, perché verrebbe a sminuirlo (non si crederebbe più alla sua sufficienza) e anche ad opporvisi. Secondo tale mentalità si dovrebbe dire che lo splendore della luna, partecipazione di quello del sole, sarebbe una diminuzione, anzi una opposizione di quest’ultimo». In questo articolo alle pp. 126-143 N. Bussi presenta uno schema delle tre tendenze principali nella visione del sacerdozio: 1) protestante o presenza memoriale simbolica di Cristo nella Chiesa; 2) secolarista in cui il sacerdozio assume un aspetto funzionale; 3) cattolica: una presenza reale ontologica di Cristo nella Chiesa. A questo proposito si veda pure la osservazione di C. Journet nel libro Il primato di Pietro in cui afferma: vi sono «due concezioni inconciliabili del Cristianesimo: una che è propria dei Cattolici e anche degli Ortodossi, l’altra che fa da sfondo alle diverse dottrine protestanti, che agisce su di esse con una influenza ora diretta e rigorosa, ora più distante ed attenuata… Nel primo caso si pensa prima di tutto a una presenza ontologica di Cristo nel Cristianesimo… Nel secondo caso si pensa a una presenza memoriale di Cristo nel Cristianesimo» (Nota 15 art. cit. del Bussi). Cfr. il recente studio (1966) del teologo protestante svedese P. E. Persson sul concetto di ministero nella recente teologia cattolica che è intitolato Repraesentatio Christi, 1966.

 

 «Soprattutto da quando se ne è occupato Karl Rahner, si dice semplicemente che il “celibato per amore del Regno di Dio” porta chiaramente in segno questo carattere di trascendenza che la grazia possiede rispetto al mondo. Penso che ciò sia esatto, ma solo se inteso come un aspetto di quella struttura fenomenologica del celibato abbracciato per attuare un valore. Il celibato in quanto tale non è un “valore soprannaturale”,  bensì una forma di esistenza umanamente significativa. Fuori di questa prospettiva, la spiegazione di Rahner ha troppo l’aria di una costruzione, di una pura teoria, che corre il pericolo di porre un mal celato dilemma tra Dio e il matrimonio. Il celibato è certamente una scelta, ma tra due possibilità di esistenza cristiana; formalmente non è una scelta fra un valore naturale e uno soprannaturale». E. Schillebeeckx, Il celibato del ministero ecclesiastico, Roma, 1968, p. 128.

 

 J. Hamer, L’Église est une communion, Paris 1962.

 

 R. Spiazzi, Decreto sul Ministero e la vita sacerdotale, Esposizione e commento, Torino 1966, pp. 229-232.

 

 I. Von Allmen, Maris et femmes d’après Saint Paul, Neuchâtel 1951; H. Rondet, Unis comme le Christ et l’Église, nel volume Un seul corp, un seul esprit, Le Puy, 1952; P. Adnèss, Le Mariage, Tournay-Descléé 1963; Card. G. B. Montini, Famiglia Cristiana, Roma 1964; K. Rahner, Sur le Mariage, Paris 1966.

 

 Card. Fr. Marty, «Le Décret parle presque toujours des prêtres au pluriel: c’est en general voulu, on se trouve dès le départ dans une conception organique du sacerdoce, au centre de laquelle il faut placer le collège épiscopal. Le prêtre ne peut jamais donc être consideré isolément; on ne peut emême le rattacher exclusivement à un évêque particulier car il est fondamentalement membre du corps sacerdotal tout entier et il par­ti­cipe à toutes les prérogatives de ce corps…». Décret sur le ministère et la vie des prêtres «Presbyterorum Ordinis» Introduction, Paris 1966, p. 172. Un altro indizio della novità di prospettiva su questo punto è fornito sul­l’attenzione particolare data al problema della vita comune: «Il primo concilio che tratta ex professo della vita comune del clero diocesano è il Vat. II. Già il primo schema «De Clericis» trattava al N. 12 l’aspetto della vita comune dei sacerdoti. Così pure negli otto schemi preparati durante quasi cinque anni di lavoro, venne sempre inserito un capitolo sulla vita comune del clero, e benché illustrato con motivazioni diverse si giunse alla formulazione del N. 8 del testo attuale». D. Mazzoleni, Vita comune del presbiterio della comunità parrocchiale, in Presenza Pastorale 3, 1970, p. 157.

 

 «Il s’agit moins, en effet, aujourd’hui, pour le chrétien, d’être le témoin mystique d’un appel transcendant (au moins directement) que d’être le ‘révélateur’ de cet appel transcendant à partir de dedans de l’expérience humaine, en faisant apparaître au sein même de cette experience vécue par lui, une aspiration insoupçonnée… Si nous comprenons que tout pousse l’humanité à rechercher sa cohésion dans une option communautaire et personnelle pour l’amour universel, si nous croyons que l’Église est le lieu où se vit par anticipation cette fraternité déjà realisée et pas encore manifestée, il nous revient d’offrir au monde l’image vecue concrétement d’une vie fraternelle. Si les hommes doivent y parvenir, à plus forte raison les chrétiens et parmi eux les ministres de la cohésion sacramentelle ou eucharistique de l’humanité: pédagogues ou pasteurs nous le serons d’abord par le témoignage de notre vie ‘voyez comme ils s’aiment’». I. Sintas, Fraternité sacramentelle dans le sacerdoce, in Prêtres Diocesains, 1-2, 1970, p. 58. Cfr E. Dhanis, Le message évangélique de l’amour et l’unité de la communauté humaine, in Nouv. Rev. Théol., 82 (1970), pp. 180-193.

 

Presb. Ord., n. 8: «Presbyteri… omnes inter se intima fraternitate sacramentali nectuntur». Cfr. Lumen Gentium, n. 28; Presb. ord., n. 7.

 

B. Botte, Caractère collegial du presbytérat et de l’épiscopat, in Etudes sur le sacrement de l’Ordre, Paris 1957, pp. 97-124. S. Hajjar, Le Synode Permanent dans l’Église byzantine des origines au XI siècle, Roma 1962, pp. 21-79. I. Giblet, Il presbiterio, in AA.VV., La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, pp. 888-892. B. Antonini, La fraternità sacerdotale, in Via verità e vita, n. 13, 1967, pp. 92-101. I. Rambaldi, Fraternitas sacramentalis et presbyterium, in Periodica de Re Morali Canonica Liturgica, n. 57, 1968, pp. 331-350; T. I. Jiménez Urresti, Comunión sacerdotal y presbyteros, Hermanos mayores y menores, in «Surge» 25 (1967); pp. 245-253; Prete per sempre, Milano, 1969.

 

  I. Rambaldi, art. cit. p. 355: «Ex utroque loco conciliari (L.G. 28; P.O. 8) patet quod fraternitas ista sacramento Ordinis ponitur et communitate missionis quae eo confertur. Consequenter talis est fraternitas quae reduci nequeat ad necessitudinem illam quantumvis alta ea sit – quae sacramentis initiationis christianae, baptismi scil. et confirmationis, oritur… At qua mensura character et gratia ordinationis, qua quis minister Christi constituitur, vitam christianam iam Baptismate receptum tangit ac eam ad finem sacerdotii ministerialis ordinat et aptat, eadem mensura fraternitas ista sacerdotalis presbyteros etiam in tota eorum vitae et conservandi ratione ligat ac ad invicem sollicitos facit… Sollicitudo qua Presbyteri sese adiuvant non promanat ex solo officio caritatis quam, ratione Baptismatis, omnes inter se tenentur fideles exercere».

 

  La mente della Commissione Conciliare a questo proposito così si esprime: «Unio Presbyterorum cum Episcopis et inter se, in ambitu ecclesiali utpote quae in Sacramento Ordinis fundetur est iuris divini; sed addictio alicui diocesi particulari et proinde Presbyterio diocesano est iuris ecclesiastici. Modus ergo admittitur» Schema Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus recognitus et Relationes, Modus 98 (in num. 8) p. 62. Sotto questa luce i padri votarono e approvarono il n. 8 della P.O.

 

  «Il presbiterato cioè ha una struttura essenzialmente collegiale, fondata sulla fraternità sacramentale. Applicando il concetto di collegialità episcopale ai presbiteri (L.G. 28, Sacr. Conc. 41; P.O. 7; 8; Ad Gentes 18-20; Christus Dom., 11; 15; 28), il Concilio ha rinverdito un principio teologico che per lunghi secoli aveva trovato applicazione concreta nelle pievanie, splendida testimonianza di collegialità sacerdotale». A. Mazzoleni, art. cit., p. 159.

 

 Corsi europei di teologia dell’unione apostolica del clero, Munster, luglio 1969; B. Antonini, art. cit.; G. Rambaldi, art. cit.; A. Mazzoleni, art. cit.

 

  H. Schürmann. Der füngerkreis als Zeichen Israel und als Urbild der Kirchlichen Rätenstandes, in Geist und Leben (1963), pp. 21-35 (franc. Le groupe des disciples de Jésus, signe pour Israel et prototype che la vie selon les conseils, in Christus 50 (1966), pp. 184-209. Cfr. dello stesso autore: Das Gebet des Herrn, Freiburg 1958 (italiano: La preghiera del Padre Nostro, «Città Nuova» 1967. Inoltre cfr dello stesso autore: Die Verheissung an Simon Petrus, Auslegung von Lk 5, 1-11, in Bibel u. Leben, 5 (1964), pp. 18-24 (franc. La promesse à Simon Pierre, in Assemblées du Seigneur 58, avril 1964, pp. 27 ss.); Die vorösterlichen Anfänge der Logientradition, Berlin 1961 (ita.: La tradizione dei detti di Gesù, Brescia 1966); Die Warmung des Lukas vor der Falschlehre, in der Predigt am Berge, Lk. 6, 20-49, in BZ, (1966), pp. 57-71 (in particolare p. 58); Worte des Herrn, Freiburg 1968 (ita.: Le Parole del Signore, Torino Leumann 1969); G. Dejaifve, Les douze Apôtres et leur unité dans la tradition catholique, in Eph. Theol. Lov., 39, 1963, pp. 760-788; J. Weber, Les apôtres ont-ils formé un collège?, in Bulletin ecclesiastique du diocèse de Strasbourg, 1964, pp. 72-75; S. Freyne, The Twelve: Disciples and Apostles. A study in the theology of the first three Gospels, London, 1968; S. Lyonnet, I fondamenti scritturistici della collegialità episcopale, in La Chiesa del Vat. II, Firenze 1966, pp. 792-809); B. Botte, La collegialità nel Nuovo Testamento e nei padri apostolici, in Il Concilio e i Concili, Roma (1961), pp. 19-42. Si noti che il n. 7 della P.O. parlando dei sacerdoti mette in luce «omnimodam eorum unitatem cum Episcoporum Ordine cuius cooperatores facti sunt» (cfr. L.G. 28). La relazione della Commissione Conciliare su questo punto dice: «Haec formula generalis conservatur: non potest enim negari unitas omnium Presbyterorum cum toto Ordine Episcoporum neque potest dici Presbyterum per Ordinationum fieri cooperatorem tantum sui Episcopi» Schema Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus emendatus et Relationes. Relatio ad n. 6 (p. 54). (Cfr. I. Rambaldi, art. cit., p. 338). Inoltre P.O. n. 10: «quodlibet sacerdotale ministerium participat ipsam universalem amplitudinem missionis a Cristo Apostolis concreditae… Meminerint igitur Presbyteri omnium ecclesiarum sollicitudinem sibi corde debere». «D’ora in poi chi vorrà sapere che cosa è il prete non potrà non riferirsi al sacerdozio episcopale, a cui il prete partecipa e che condivide, all’esercizio del quale egli è destinato a portar la sua collaborazione». Card. Garrone, Le Concile, p. 78: citato dal Papa nel discorso ai Quaresimalisti Romani del 1970.

 

 Nel sacerdote la vita e la funzione non sono elementi distintivi e separati fra loro, ma formano insieme “la missione sacerdotale”: «Nella nozione di “missione sacerdotale” il Concilio comprende l’insieme della vocazione sacerdotale sia sotto l’aspetto della vita che dell’azione, cioè del ministero. E lo constata soprattutto quando dice che “Nullus ergo Presbyter seorsum ac veluti singillatim suam missionem satis adimplere valet, sed tantum viribus unitis cum aliis Presbyteris sub ductu eorum qui Ecclesiae Praesunt” (P.O. 7)». S. Barela, Vita communis: contatti, comunità e forme comunitarie dei preti secolari, in Concilium, (Ediz. Ital.), n. 3, 1969, p. 118.

 

  Cfr. Card. P. Felici, Il Vaticano II e il Celibato sacerdotale, Città del Vaticano 1969, – ove, dopo aver presentato la mente del Concilio su questo tema, si dice fra l’altro «Le ragioni (di convenienza profonda fra celibato e sacerdozio) sono principalmente quattro: a) il celibato è segno e stimolo della carità sacerdotale e fonte speciale di spirituale fecondità nel mondo (P.O. 16; L.G. 42; Perfectae Caritatis 12; Optatam Totius 10)…».

 

  M. Hengel, Nachfolge und Carisma, Berlin 1968.

 

  T. Matura, Celibato e comunità, Brescia 1968, p. 50. «Perché è fuori dubbio che questo è il pensiero di Cristo: l’‘unum sint’ è al vertice dei suoi voti (Gv 17); e prima di spaziare questo desiderio messianico (Gv 11, 52) e divino (1 Tm 2, 4) su tutta la umanità, esso si rivolge direttamente ai suoi discepoli (Gv 13, 34): prima della unità ecumenica della Chiesa il Signore domanda a noi l’unità fraterna, comunitaria nella Chiesa». Discorso di Paolo VI ai Quaresimalisti Romani 1970, (a proposito della unità fraterna fra i sacerdoti). Cfr. I. Sintas, art. cit.

 

 Nel volume in collaborazione, Les prêtres (Commentaire aux documents de Vat. II), Paris 1968 a p. 154, J. Frisque nota che al n. 7 della P.O. l’aggettivo “fratres” è stato qui introdotto (cfr. L.G. III, 28) a richiesta di 27 padri (si tratta dell’episcopato di lingua tedesca) «quia communio in sacerdotio Christi, quae habetur inter Episcopos et presbyteros est fundamentum fraternitatis Christianae manifestandae».

 

 Il tema del dato esistenziale nella riflessione sul celibato ecclesiastico è stato affrontato in modo efficace, anche se particolare, da E. Schillebeeckx, op. cit.: «È naturale che i Farisei abbiano ironizzato sulla “cerchia degli amici di Gesù”, che avevano lasciato tutto per seguirlo, e siano persino giunti a chiamarli “eunuchi”. Gesù coglie l’occasione per dire: voi chiamate eunuchi i miei discepoli! Certo, lo sono: essi sono incapaci di avere una famiglia (cfr. p. 22 un dato biblico: “non poter essere esistenzialmente in altro modo”), poiché sono sotto il potere esclusivo del Regno di Dio, che s’è manifestato con me… Gesù vuol dire, pertanto, che i suoi discepoli, avendo scoperto la ricchezza nascosta del Regno di Dio non possono esistenzialmente più vivere in un altro modo, se non “abbandonando tutto” e “seguendolo”. Il dono del Regno di Dio che viene, li possiede a tal punto, li entusiasma talmente, che essi ab­bandonano spontaneamente e generosamente ogni cosa: non possono più ritornare alla loro vita coniugale (Lc 24, 26; 18, 19); non possono tornare a perdere i loro cuori dietro agli averi (Mc 10, 21; Lc 18, 22); non possono più preoccuparsi per il loro sostentamento (Mc 8, 34; Mt 16, 24; Lc 9, 23). Si tratta di non poter più esistenzialmente. Esistono uomini di questa sorta, dice Gesù. Evidentemente queste parole si riferiscono ai suoi discepoli», pp. 23-24.

 

 Si assuma come testimone di questa tendenza M. Nédoncelle, La reéciprocité des consciences, essai sur la nature de la personne, Paris 1942; La persone humaine et la nature, Paris 1934; Les variations de Boéce sur la personne, in Revue de Sciences Religieuses, XXIX 1955, p. 238.

 

 M. Nèdoncelle, Vers une philosophie de l’amour et de la personne, Paris, 1957, pp. 341-344.

 

  M. Nédoncelle, La réciprocité des consciences, op. cit., p. 53.

 

  Ibid. Inoltre cfr. M. Nédoncelle, L’intersubjectivité humaine est-elle pour Saint Augustin une image de la Trinité?, in Augustinus Magister, Congrés international Augustinien, vol. I, Paris, 1954, pp. 595-602, in cui si commentano tre testi di S. Agostino (P.L. XXX, 1508; XXXV, 1684; XLII, 960).

 

  In genere per la nozione di sacramento di stato cfr.: S. Tommaso, Summa pars III, p. 65, art. 2 c. Contra Gentes IV, 58; Scheeben, I misteri del Cristianesimo, Brescia, 1949, pp. 438-453; A. Mersch, Morale et corps mystique, Louvain, 1954, pp. 215-219; La Théologie du Corps Mystique, vol. 2, pp 308-312; M. Zalba, Theologiae Moralis Compendium, Madrid, 1958, p. 700, p. 759; P. Adnés, Le mariage, Bruges, 1966, pp. 142-143.

 

 P. Adnés, Le mariage, Bruges, 1966; Scheeben, I misteri del Cristianesimo, Brescia, 1949; P. Evdokimov, Sacrement de l’amour, Paris, 1962, pp. 171-211, pp. 85-113.

 

  Per il parallelo fra ordine e matrimonio: R. Spiazzi, Decreto sul ministero e la vita sacerdotale, Esposizione e commento, Torino, 1966, pp. 229-232; M. Zalba, op. cit., pp. 700, 759: «Ordo est alterum e sacramentis cum matrimonio». Inoltre per quanto riguarda la teologia dei padri greci: S. Giovanni Crisostomo, P.G. 43, 372.

 

  Per l’approfondimento di questa fondamentale relazione umana si può trovare un abbondante materiale, cfr. ad es.: S. Ambrogio, De Officiis II, 2, 2 P.L. XVI, 180 ss.; S. Agostino, Le confessioni  II, 2, III, 1; S. Gregorio Nanzianzeno, Oratio 43, Funebris Oratio in laudem Basilii Magni Caesareae in Cappadocia Episcopi, Opera omnia, vol. II, paris, 1942, pp. 389-470; S. Giovanni Crisostomo, De Sacerdotio, P.G. 48, 623 ss.; S. Girolamo, Lettres, Paris, Ed. Les Belles Lettres; I. Cassianus, Collatio 16, De Amicitia P.L. 49, 1011-1044, Institutiones, LII, c. 15; ibid. 483; Petrus Blesensis, De Amicitia Spirituali, P.L. 207, 874 ss.; S. Bernardo, Sermo, 26 super Cantica, P.L. 182. Tractatus de caritate, ed. Dessert, I, a, 3; S. Anselmo, Epistolarum libri, P.L. 159-9, Paris, 1865; Aelredo de Rievaulx, L’amitié spirituelle, édition critique, Bruges-Paris 1948; Epitaphium in mortem amici, P.L. 195, pp. 539-546; S. Lorenzo, c. 10, in Opera Omnia, Venezia, 1751, vol. L. p. 96 ss.; Fr. Suarez, Tractatus de Charitate, disp. I, sect. 3 in Opera Omnia, Paris, 1958, vol. 13, pp. 638-641; S. Teresa del B. G., Histoire d’une âme, Paris, 1913, pp. 197-199, 363-371; A. D. Sertillanges, L’amour chrétien, Paris, 1920, pp. 137-151; P. Philippe, Le rôle de l’amitié dans la vie chrétienne selon Saint Thomas d’Aquin, Roma, 1938; J. De Guibert, Les amitiés dans la vie religieuse, in Gregorianum, n. 2, 1941, pp. 171-190; M. Savigny, L’amour et l’amitié chez les saints, Paris, 1947; B. Lavaud, La charité comme amitié d’après saint Thomas, in Revue Thomiste, II, 1949, pp. 445-475; P. Fabre, Saint Paulin de Nole et l’amitié chrétienne, Paris, 1949; H. Rondet, Les amitiés de St. Paul, in Nouv. Rev. Théol., 77, 1955, pp. 1050, 1066; C. Valenziano, Aelredo di Rievaulx e la sua teoria d’amicizia, in Giornale di metafisica, n. 2-3, 1969, pp. 255-278; J. Rausch, Agape and Amicitia: A comparison between St. Paul and St. Thomas, Roma, 1958; M. A. Mc. Namara, Friendship in Saint Augustin, Fribourg, 1958; R. Voillaume, L’amitiè entre fréres, in Lettres aux fraternités, Vol. I, pp. 101-126, Paris, 1960; R. Lulle, L’arbre de philosophie d’amour – Le livre de l’ami et de l’aimé, Paris, 1967. (Note di L. Sala Moulins).  

 

 S. Aelredo di Rievaulx, L’amicizia spirituale, Siena, 1960, p. 48.

 

  Non manca però una certa tradizione di diffidenza verso le relazioni umane della unione coniugale e dell’amicizia: Tertulliano, De exhortatione castitatis; Nigronius, Tractatus ascetici, Tract. 15, De familiaribus paucorum amicitiis a quolibet cenobio exterminandis, Colonia, 1624; Cfr. G. Vansteenbergen, Amitié, in Dictionnaire de Spiritualité, pp. 500-529; P.C. Landucci, Formazione seminaristica moderna, Torino, 1962. La Sacra Vocazione, Roma, 1955; E. Schillebeeckx, op. cit., p. 89 ss. Questa diffidenza sorge dal timore delle eventuali degenerazioni o da una certa acquiescenza alla visione stoica introdotta nella letteratura cristiana fin dal tempo dei Padri. Per una maggiore serenità ed equilibrio circa questi pericoli cfr.: C. Bernard, De principiis vitae spiritualis, Roma, 1965; G. Cruchon, Psychologia Pastoralis, Roma, 1966, pp. 365 ss; D.J. Blackwell, Sensibile affective love within the Context of consecrated chastity, Roma, 1968.

 

 G. Cenacchi, La fraternità sacerdotale, in AA.VV., I sacerdoti nello spirito del Vat. II, Torino, 1969, p. 662.

 

 Études sur le sacrament de l’ordre, Paris, 1957, p. 427.

 

  P. Dupont, Collége et collegialité presbitérale, in Le Courrier de Mondage, 1956, pp. 46-47; A. Rouget, La collégialité du sacerdoce, in Pastorale commune, Paris, 1956, pp. 128-143; T. Garcia Barbarena, Collegialità a livello diocesano : il presbiterio nella Chiesa Latina, Concilium 4 (ed. it.), 1965, pp. 139-153; Inchiesta sulla vita comune del clero secolare, Diakonia I, 1967; Benvenuti, Discorso storico cronologico sulla vita comune dei Chierici nella primitiva Chiesa di Roma, Roma, 1728; B. Antonini, La Fraternità sacerdotale, in Via Verità e Vita, n. 13, 1967, pp. 92-101; J. Colon, Les fonctions ecclésiales aux deux premiers siècles, Paris-Bruges, 1956; F. Petit, La vie commune de clercs, in Courrier Communautaire International, n. 13, pp. 20-32, primo anno; T. Matura, Celibato e comunità, Brescia, 1967; O. Bolzon, Per una spiritualità di vita comunitaria nel clero diocesano, in Orientamenti Pastorali, 4, 1968, pp. 225-235; N. La Salandra, Vita Comunitaria Sacerdotale, Padova, 1968.

 

 F. Lepargneur, L’amitié à la relève de l’apologétique, in Nouv. Rev. Théol., 1960, pp. 482-493; B. Longemeyer, Der Dialogische Personalismus in der evangelischen und katholischen Theologie der Gegenwart, Paderborn, 1963; M. Van Caster, La Rédemption située dans une perspective personaliste, in La pensée catholique, Bruxelles, 1964; O. Semmelroth, La perdita dell’elemento personale nella teologia e l’importanza della sua reintroduzione, in Orizzonti attuali di Teologia, Alba, 1967, vol. I, pp. 255-285.

 

  «Le sang produit la communauté psychique des deux parties», P. Van Imschoot, Théologie de l’A.T., vol. I, Tournai, 1964, p. 244. «Coniungere seu coadunare duas partes pactum ineuntes, sicut in pactis amicitiae fieri solebat, ubi sanguis unius cum sanguine alterius ita miscebatur ut quasi unica vita evaderet», S. Lyonnet, De peccato et redemptione, vol. II, Roma, 1960, p. 123.

 

  Come testimoniano missionari ed esploratori, cfr. ad es. Selingman, The Nilotic Tribes in the Sudan.

 

  Cfr. S.M. Tillard, Eucarestia e fraternità, Brescia, 1969.

 

  S. Lyonnet, Le culte de la foi: La nature du culte dans le N.T., in La Liturgie après Vatican II, Paris, 1967.

 

  Cfr. Matura, op. cit., p. 51.

 

  L. Cerfaux, La charité fraternelle et le retour du Christ, in Eph. Theol. Lov., 24, 1948, pp. 326-341; «Il motivo della progressiva unità nella carità sta nel fatto che l’autentica carità del Vangelo è un amore di comunione di amicizia». H. M. Feret, L’amore fraterno vissuto nella Chiesa ed il segno della venuta di Dio, Concilium (ed. it.), n. 9, 1967, p. 29.

 

  Cfr. Matura, op. cit., pp. 62-64, 107-109.

 

  Presb. ord., n. 16. Cfr. Matura, op. cit., pp. 112-116.

 

  La radicalità, la irreversibilità e l’esclusivismo, che si rivelano nella condizione sacerdotale, sono del resto caratteristiche tipiche dell’amore secondo la concezione cristiana: cfr. D. De Rougemont, L’amour et l’Occident, Paris, 1962. Una tale concezione dell’amicizia è particolarmente comprensibile ai giovani d’oggi: cfr. E. Bouet-Dufeil, L’amitié cette accusée, Paris, 1968.

 

  E. Schillebeeckx, op. cit., p. 26. Cfr. Lc. 5, 11.

 

 «Pietro voltatosi vide che gli veniva dietro il discepolo amato da Gesù, quello che nella cena si era posato sul petto di lui…» (Gv 21, 20). Non dobbiamo considerare questo amore del Signore come una debolezza o come una compensazione, ma come un segno rivelatore in modo eccellente della ricchezza e della completezza della sua umanità. Nell’amicizia infatti si danno anche le predilezioni. E forse che questo amore di predilezione da parte di Cristo per Giovanni, non resta l’ideale supremo della vita spirituale di ogni sacerdote? (cfr. J. Ollivier, Le amitiés de Jesus. Simple étude, Paris, 1900). E quale testimonianza chiedono gli uomini a Giovanni se non questa che egli in virtù di quella predilezione può dare : «E noi abbiamo conosciuto e creduto nell’amore che Dio ha per noi» (1Gv 4, 16).

 

 M. Flick – Z. Alszeghy, Il Vangelo della Grazia, Firenze, 1964, p. 150. Cfr. P. Philippe, op. cit.

 

  «Non tutti capiscono questa parola, ma soltanto quello ai quali è dato» (Mt 19, 11). Questo è appunto il segno della vocazione. Occorre che i seminaristi valutino il valore esistenziale e personale della loro vocazione. Cfr. la tesi in preparazione alla Università Gregoriana di D. Isabel, L’amicizia nella educazione dei seminaristi. Cfr. Ratio Fundamentalis institutionis sacerdotalis, n. 13. 22. 47 e nota 74.

 

  I. M. Pohier, Psychologie et Théologie, Paris, 1967, pp. 332-373, soprattutto p. 354 ss.

 

  S. Exc. Mgr. Ancel, Le célibat sacerdotal, in La Documentation Catholique (Avril 1967) col. 727-750. Testo di una conferenza tenuta durante la quarta sessione del Concilio ai vescovi Brasiliani ed altri vescovi il 30 settembre 1965. G. Ferrari, Matrimonio e celibato nel clero nel diritto Ecclesiastico Orientale, in Oriente Cristiano, n. 1, anno VII, pp. 49-58; e n. 3, anno VIII, pp. 77-81; V. Vadagnini, Celibato e Sacerdozio nelle Chiese Orientali, in Ekklesia, n. 2, anno III, pp. 101-126.

 

  A sua volta Papa Giovanni XXIII aveva mostrato la sua stima e amore per il celibato, giudicando «strabiliante, ingenua e imprudente» la proposta di attenuare la legge del celibato (Card. P. Felici, Pensieri sul sacerdozio, Milano, 1968, p. 76); di lui Monsignor Capovilla, che gli fu amico, ha scritto recentemente: «Papa Giovanni è stato assertore intrepido e cantore felice di questa legge del celibato, da lui celebrato durante tutta la vita e più significativamente in morte, con l’invito rivoltomi a trasmettere il suo estremo messaggio: ‘Avrai occasione di parlare a sacerdoti e seminaristi. Dirai che uno dei motivi della mia imperturbata serenità è, adesso, sul punto di presentarmi a Dio, in inalterata pace, la certezza di aver custodito la castità, di averla amata, di averle fatto onore e di non aver nulla da rimproverarmi in questa materia’». (La Stampa, quotidiano di Torino, del 6 febbraio 1970, p. 2).

 

  Del resto che la legge del celibato sia più che un semplice capriccio o una legge di sopravvivenza della casta sacerdotale, è quanto si può dedurre anche da ciò che dice E. Schillebeeckx nell’opera citata, a p. 27: «La Scrittura non conosce nessun legame giuridicamente obbligante tra ministero e celibato; ma essa ammette, e ciò è fondamentale, che l’esperienza religiosa del soggiogamento esercitato dalla grazia del Regno di Dio nella interiorità di molti è tale, che essi non possono esistenzialmente più sposarsi. La legge del celibato della Chiesa occidentale, pur con i vantaggi e svantaggi che ne derivano, non è una tematizzazione giuridica della logica interna di una precisa esperienza religiosa».