MARIO MARINI
CELIBATO SACERDOTALE
APOSTOLICA VIVENDI FORMA
MARIO MARINI
CELIBATO
SACERDOTALE
Apostolica Vivendi Forma
CANTAGALLI
INTRODUZIONE
Presentando questo volumetto, che non
esito a definire “aureo” e da proporre alla lettura di tutti, non solo dei
sacerdoti, ho fatto l’esperienza singolarissima che faccio tutte le volte che
leggo gli scritti di mons. Marini.
Anche questa volta ci troviamo di fronte
ad un linguaggio teologico, documentato, denso, ma straordinariamente
elementare.
Si può dire che il linguaggio teologico
di mons. Marini fonde due movimenti del discorso teologico: quello ontologico,
cui ci ha abituato la tradizione teologica dell’occidente ed un movimento
“spirituale” che caratterizza dall’interno il linguaggio teologico stesso.
Come ho già rilevato altre volte, per
esempio nella introduzione al corso di esercizi spirituali intitolato
Dalmanùta, ci troviamo di fronte ad un linguaggio in cui riferimenti biblici,
dimensioni catechetiche ed esperienze spirituali si fondono magistralmente.
In questo caso specifico tutta la
dimensione “antropologica” del “celibato” ecclesiastico non si aggiunge alle
considerazioni bibliche o magisteriali, ma trova la sua esatta collocazione e
valutazione all’interno di un orizzonte di pensiero e di linguaggio che è
fortemente unitario.
1) Il primo contributo rilevante del
testo è quello appunto di formulare le tesi fondamentali sul celibato non
immediatamente in rapporto alla vita della comunità cristiana, ma in rapporto
all’incontro ed alla sequela di Gesù Cristo. Il celibato si comprende in modo
radicale ed integrale soltanto se ci si riporta alla straordinaria esperienza
di amicizia fra Cristo e gli apostoli ed alla loro chiamata ad identificarsi
esistenzialmente con Lui e con il suo Mistero.
«San Giovanni, “il Teologo”, “lo
Spirituale” e “l’Amico”, è quello che ci aiuta maggiormente a fare questa
lettura “spirituale”, che, forse, potrebbe essere annotata anche così: il
Mistero nascosto da prima dei secoli in Dio è l’Amore del Padre e del Figlio,
che chiamiamo lo Spirito Santo: questo Mistero, che è la Gloria di Dio, è di
fatto il fine di ogni intenzione di Cristo ed il Fine di Dio stesso, se così ci
si può esprimere; tutti gli altri fini, sono subordinati a questo, e, rispetto
a questo, per quanto nobili, sono secondari e ad esso finalizzati; il Signore
Gesù ha convocato una rete ristretta di discepoli, di amici suoi, di associati
intimamente a lui; li ha educati e poi finalmente “costituiti”:
–
perché
nella radicale intimità [cfr. la “intima
fraternitas sacramentalis”, P.O., 8] di Lui con loro e fra di loro fosse
reso visibile “come in uno specchio” l’amore invisibile e totale del Padre e
del Figlio,
–
e perché
questo amore fosse ripetuto all’infinito, sempre originalmente nuovo, affinché
l’immagine del suo amore ripetuta, e ripetuta, e ripetuta…ovunque e in ogni
tempo, possa così fare da fermento e da coagulo di quella più grande immagine
della Trinità che è la Chiesa: “vuole infatti ogni amante che la immagine del
proprio amore si ripeta e moltiplichi senza fine” [S. AGOSTINO,
De Trinitate]».
«Se nei primi secoli dell’era cristiana
il vedere come si amavano i cristiani (cfr.
At 2, 47) era già la “parola” più efficace per attirare nuove persone
alla verità ed alla fede in Cristo, tanto più il “vedere” la reciprocità
dell’amore nella comunione presbiterale “parlerà” della comunione trinitaria ed
attirerà ad entrarvi, più di ogni parola. (...) Questa è la Buona Notizia, che,
amandosi tra loro, comunichino agli altri la chiamata alla comunione nella
Trinità. (...) Per aprire le anime all’inabitazione della SS. Trinità i
presbiteri devono assumere e comprendere il senso pieno del loro sacerdozio,
come compagnia, come fraternità, come amicizia, come speculum visibile
invisibilis Dei».
«Appare evidente che i grandi temi
trinitari… semplificano e chiariscono il tema stesso del sacerdozio, che si
rivela cosi con un più chiaro riferimento al Vangelo, (come fa il Concilio
Vaticano II, ove i vari temi sono stati primariamente polarizzati e
successivamente messi in relazione). (…) Dal Vangelo traspare non solo
l’intenzione primigenia di Cristo: rivelare Dio all’uomo, ma anche il mezzo per
attuarla: la comunione apostolica. E il gruppo dei discepoli e lo stesso
sacerdozio appare nella mente di Cristo come l’immagine visibile che egli è
venuto a manifestarci, a donarci, a mostrarci, a rivelarci (“io in loro e tu in
me”; perché vedendo credano…).
Si potrebbe aggiungere che il sacerdozio
come ordo, come corpus
e, come tale, riferito alla comunità apostolica di Gesù con i suoi, non è
solamente uno “specchio visibile del Dio invisibile”, ma come una reinvenzione
– se così ci si può esprimere – originale e continua, in forma per così dire
“ossessiva” (come è proprio dell’amore), dello stesso debordante amore di Dio
che è la SS. Trinità; Dio “come colui che” ricrea e tende continuamente a
reinventare la intimità trinitaria››.
Questa fraternità degli apostoli con
Cristo, che continua e si attua di generazione in generazione nella fraternità
presbiterale con Lui è anche l’elemento dinamico che, come lievito, promuove la
vita ed il movimento dell’intero popolo cristiano.
Il popolo cristiano è quindi guidato da
questo carisma della imitazione di Cristo che costituisce alcuni come chiamati
alla guida effettiva e storica, sacramentale e sociale dell’intero popolo
cristiano.
Il celibato ecclesiastico ricorda a tutta
la Chiesa ed a tutto il mondo l’assoluta totalità di Dio, richiama gli uomini
alla profondità dell’amore fedele che si manifesta in Gesù Cristo, si associa
in modo speciale al destino di Cristo, manifesta in anticipo la libertà dei
figli di Dio, mostra più chiaramente la fecondità spirituale della nuova legge
e riceve la forza per edificare la Chiesa.
Il celibato ecclesiastico è quindi nel
suo cuore più profondo questa immedesimazione totale con il destino di Cristo
che stabilisce nella Chiesa e per la Chiesa un ambito in cui si genera un
movimento che dà fondamento e dinamismo all’intero popolo cristiano.
Nel celibato l’amore trinitario, accolto
integralmente e corrisposto incondizionatamente, prepara alcuni che, nella
mediazione e per la mediazione sacramentale, divengono secondo l’espressione di
S. Carlo Borromeo forma graegis.
Così l’assoluta carità verso Cristo e Dio
diviene carità verso la comunità e, al di là di essa, carità verso tutti gli
uomini.
Il discorso è assolutamente profondo e
suggestivo e finalmente ci troviamo di fronte a considerazioni che non si riducono
a questioni di carattere intraecclesiale, giuridico o pastorale, né d’altra
parte si fanno ricattare da questioni antropologiche mondanamente percepite e
tematizzate.
Se il cuore del celibato è l’affezione
totale a Cristo, l’esito del celibato, nell’esperienza del presbiterato, è la
missione concreta e quotidiana del popolo cristiano nella società e nel
mondo.
2) A questo punto vorrei proporre una mia
considerazione globale, ed in qualche modo ulteriore rispetto a quest’ottimo
volume.
Non è chi non veda che il problema della
Chiesa oggi è il problema del rinnovarsi della sua identità, per una nuova
stagione della evangelizzazione e quindi della missione.
Il movimento laicistico moderno
contemporaneo per due secoli ha tentato di eliminare l’identità della fede e di
distruggere l’impeto missionario della comunità.
L’intero popolo cristiano ha resistito a
questo processo di annichilimento, ponendo dentro il mondo nelle diverse, e
talora tragiche situazioni culturali sociali e politiche, la limpida e quotidiana
esperienza della comunione nella vita delle famiglie, delle parrocchie, delle
confraternite e delle associazioni e, più recentemente, dei movimenti
ecclesiali.
Questa testimonianza limpida molte volte
ha avuto il volto del martirio. Non potremo mai dimenticare i 46 milioni di
martiri cristiani nel XX secolo.
A questa resistenza capillare, lieta e
sacrificata e laboriosa non sono mancate le grandi direttive ideali e pratiche
del Magistero della Chiesa: innanzi tutto la grande lezione della Dottrina Sociale
della Chiesa, di cui nei secoli XIX e XX sono state scritte le pagine più
grandi.
Ma i preti, i preti che in forza
dell’amore incondizionato a Cristo hanno saputo guidare anche le più piccole
frazioni sono stati loro i grandi eroi di questa quotidiana resistenza al Male
e questa semplice e radicale proprosta di una vita nuova.
Il terzo millennio si apre per la Chiesa
con una grande sfida sulla evangelizzazione.
La resistenza dei secoli passati deve
diventare impeto di comunicazione di vita nuova di cultura e di carità a un
mondo che senza questo annunzio e questa comunicazione resterebbe privo di
ragioni adeguate per vivere e per morire.
Il libretto di mons. Marini ci ricorda
che il centro motore di questo rinnovarsi della Missione della Chiesa è quello
fissato da Gesù Cristo: l’apostolica vivendi forma.
+ Luigi Negri
Vescovo di San Marino-Montefeltro
29 Giugno 2005 Festa dei Santi Pietro e Paolo
CELIBATO
ECCLESIASTICO E FRATERNITÀ SACERDOTALE
Breve riflessione biblico-teologica-esistenziale sui dati proposti dal
Magistero
Premessa
Non vorrei pormi di fronte a questo
problema, né presumendo la competenza specifica del biblista, e neppure
situandomi nel livello del teologo-dogmatico. Seguendo invece il cammino della
vita cristiana e della sensibilità religiosa personale, preferirei situarmi in
quel livello che si potrebbe chiamare modernamente dell’esistenzialismo
cristiano o, con espressione più tradizionale, della “teologia spirituale”. È
un livello interessante, perché mentre utilizza i dati biblici e teologici
precedentemente acquisiti dalle rispettive scienze, li conduce ad una sintesi
vitale mediante la visione ed il linguaggio più liberi del cuore («è con
l’occhio del cuore che si vede», dice il Piccolo Principe, gli occhi della
carne infatti sono ciechi, come una barca che naviga nella nebbia).
Il Padre Y. Congar, O.P. in un suo
celebre saggio scritto in occasione del Centenario della morte di Taulero
(1961) metteva bene in luce la differenza fra “Linguaggio degli Spirituali e
Linguaggio dei Teologi” [Y. CONGAR,
O.P, Situation et taches présentes de la Théologie, du Cerf,
Paris 1967, “Langage des Spirituels et langage des Théologiens”, pp. 136-158;
ed anche AA.VV. Teologia Contemporanea, Borla,
Torino 1970, pp. 155-179]. La Teologia Spirituale, utilizzando i dati della
Dogmatica e della Scrittura, come pure della Filosofia, tende finalmente a dare
la lettura della relazione personale, esistenziale e reale con Dio: è la
prospettiva del rapporto religioso e non della precedente ontologia. Senza una
analisi teologica ed una ermeneutica biblica, come pure senza una base
filosofica, le percezioni, gli enunciati e le prospettive della teologia
spirituale perderebbero la misura e la possibilità stessa di conservare ciò che
essi portano di vero e di valido.
Detto questo si può però aggiungere che
gli enunciati esistenziali religiosi, propri del linguaggio degli spirituali,
tendono a condurre la esperienza personale nella immediatezza del senso di Dio
e delle Sue cose, e per questo usano normalmente espressioni e formulazioni,
che non potrebbero essere trasferiti “indietro” come proposizioni di ontologia.
C’è, nelle formule degli “spirituali” l’enunciato di un assoluto semplice,
monolitico, e preso dal punto di vista particolare e personale, praticamente
esclusivo di altri punti di vista, i quali, pertanto, sono possibili e possono
essere validi: l’espressione spirituale è sintetica e globale.
Sono due linguaggi – quello dei teologi e
quello degli spirituali – che rispondono a due punti di vista; per cui ci si
può chiedere: a quali condizioni ed a che livello è vero il linguaggio degli
spirituali? A condizione di esprimere, in fase ormai finale, un’attitudine ed
una realtà spirituale, che riceve la verità dal fatto che realizza il vero
rapporto dell’anima con Dio: infiniti enunciati spirituali sono espressione di
un’attitudine e di una realtà spirituale mirata in modo totalitario ed
esclusivo già alla relazione con Dio ed al reale assoluto della persona a Lui
unita.
Ecco dunque il linguaggio degli spirituali
usare di frequente le “contrapposizioni di concetti” e le “affermazioni
generali ed assolute” e, poiché ci si riferisce all’Assoluto di Dio, ecco che
l’uso dei “paradossi” e delle “antinomie” non è solo iperbolico, ma è in fondo
più pienamente reale: rende “più visibile” la realtà, nella stessa misura in
cui Michelangelo, ampliando le proporzioni, ne evidenziava e confermava la
realtà. L’“ontologia” propria del rapporto spirituale ha la sua unità e la sua
certezza, ma al di là della ontologia naturale: il linguaggio degli spirituali,
dopo avere utilizzato i dati delle altre scienze umane e teologiche, finalmente
esprime la “ineffabilità” del rapporto con Dio e di Dio stesso: l’espressione
dell’ineffabilità (linguaggio degli spirituali) è pertanto al di là della
“verità teologica” e della Sua ineffabilità (linguaggio dei teologi).
Certamente, se la Rivelazione viene data
in parole umane, fino all’estrema Parola dell’Incarnazione, un linguaggio di
ineffabilità in parole umane non può essere blasfemo, benché espressioni di
grandi spirituali lo sembrino: anzi la teologia classica ammette e giustifica
tale modo di linguaggio, giacché è una maniera appropriata di esprimere la
trascendenza di cui dona una appropriata analogia.
Concludendo circa la premessa: Le scienze umane (Filosofia) e
teologiche (Dogmatica e Scrittura) cercano di dare conto scientificamente
della natura dei fatti religiosi ed umani; la teologia spirituale, mediante il
suo linguaggio paradossale ed incisivo, assoluto e preciso, esprime: 1) la
esperienza vitale della realtà trascendente e 2) la giusta attitudine
spirituale ed esistenziale di fronte ad essa.
Il fine di questa lunga premessa è quello
di giustificare il procedimento seguente, che sarà pertanto costituito da due
punti:
A) una ricognizione del dato evangelico del celibato e della fraternità (al
seguito del linguaggio teologico-biblico).
B) la sua lettura di fondo nella
intenzione esistenziale
del Signore Gesù (col linguaggio spirituale, cioè reale-esistenziale).
Parte A, in tre punti
1) I dati evangelici
Il primo alveo dell’esperienza
celibataria e fraterna che oggi la Chiesa propone ai suoi sacerdoti è la
comunità di vita con il Signore Gesù: nasce pertanto l’esigenza di ritornare ai
testi del Nuovo Testamento ed all’esperienza della comunità primitiva.
Come il Nuovo Testamento parla di tale
esperienza celibataria e comunitaria con Cristo? quali motivazioni se ne danno?
in quale ambito viene vissuta? che significato e prospettiva riveste?
La risposta a tali domande non può essere
che articolata e complessa, data l’ampiezza dei testi da valutare: ma si può
dire subito che c’è convergenza oggi sul fatto che il Signore Gesù non si sia
sposato. Ha poi anche Egli fatto una proposta in tal senso ai suoi discepoli?
Nei Vangeli infatti non mancano i detti che parlano di una rottura con i
rapporti familiari, detti che evidentemente, come è nella generale natura dei
detti evangelici, hanno vari livelli di profondità e di destinatari, benché per
Mt 19, 12 la destinazione sembri più concentrata e ristretta ad una
esperienza specificamente celibataria.
Gli studiosi più recenti hanno cercato di
risalire al di là dello stadio attuale dei Vangeli per raggiungere il
significato dei vari detti sulla sequela di Cristo nel contesto della predicazione
del Signore Gesù; e, successivamente, hanno cercato di seguire anche il
processo di tradizione che ha permesso alle parole del Signore Gesù di giungere
fino alla redazione evangelica.
A questo riguardo gli studiosi ritengono
che il tenore dei detti debba essere inteso in senso molto più letterale di
quanto qualcuno potrebbe immaginarsi.
E così ecco aprirsi la possibilità di
disporre e di esaminare dei detti, che si riferiscono al distacco dalla
famiglia, in senso più forte di quanto suggerirebbero vari “supposti” liberali.
I detti di Gesù che si riferiscono al distacco dalla famiglia e che interessano
la problematica celibataria della “sequela” di Cristo sono sostanzialmente i
seguenti: Lc 14, 26 e paralleli; Lc 18, 29 e paralleli e Mt 19,
12. «Chi non odia suo padre e sua madre non può essere mio discepolo; chi non
odia suo figlio e sua figlia non può essere mio discepolo»; «In verità vi dico,
non c’è nessuno che abbia lasciato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli
o campi per il regno di Dio che non riceverà il centuplo quaggiù e la vita
eterna...».
Naturalmente, data la natura di questa
mia comunicazione, per la critica letteraria si deve rimandare a testi
specialistici [Cfr. B. PROIETTI,
“La scelta celibataria alla luce della Sacra Scrittura”, in AA.VV.,
Il Celibato per il Regno, Claretianum, Milano 1977, 9-75],
tuttavia proprio la critica letteraria attribuisce questi detti a Gesù stesso e
nel senso che vanno riferiti al Suo gruppo di discepoli. L’appello del Signore
Gesù aveva infatti il carattere di assolutezza come il suo annuncio del Regno
aveva una portata escatologica, che non ammetteva rinvii o tentennamenti, tanto
che in Luca vi appare, fra le persone da lasciare, la esclusione anche della
moglie. «L’appello alla sequela, per cooperare alla missione di Gesù, ha
esigito dai chiamati, e solo da essi, la rottura di tutti i legami familiari e
quindi anche di quello matrimoniale» [Ibid., 41 s.].
Come la vita del Signore Gesù è tutta
orientata all’annuncio del regno di Dio, così quella dei chiamati a seguirlo,
cioè a vivere con lui in una comunione di vita, di missione e di destino,
doveva essere interamente consacrata al servizio missionario del regno.
Molto speciale poi il celebre detto di
Gesù riportato da Mt 19, 12: «Vi sono eunuchi che dal seno materno sono
stati generati così, e vi sono eunuchi che sono stati resi tali dagli uomini, e
vi sono eunuchi che si sono resi tali essi stessi per il regno».
Il Signore Gesù parla dunque di una
pluralità di uomini allora viventi che attraverso un atto del passato,
liberamente, “a motivo del regno”, si sono resi incapaci di vivere
matrimonialmente (una celebre espressione del “primo” Schillebeeckx diceva che
il celibato sacerdotale consiste nel fatto che alcuni uomini avendo accettato
di entrare sotto il potere del totale servizio del regno sono dunque ormai
incapaci di assumere la valenza matrimoniale: «non potere – eunuchi – essere
altrimenti»). Questo atto del passato potrebbe perciò coincidere con l’ingresso
alla “sequela” immediata e perdurante di Gesù. A questo proposito si potrebbe
fare riferimento alla chiamata dei primi discepoli fatta dal quarto Vangelo di
Giovanni: il quarto Vangelo presenta il punto di vista storico dei fatti che
descrivono i primi seguaci di Gesù, precedentemente discepoli di Giovanni il
Battista, chiamati nella valle del Giordano, ove il Battista – suppostamente
non sposato – aveva dei discepoli conformati alle severe regole ascetiche di
quei gruppi laggiù installatisi. Gesù avrebbe perciò costituito, secondo il
Vangelo di Giovanni, un primo nucleo di discepoli con alcuni di quegli uomini,
votati al celibato assieme con il Battista.
A ciò si potrebbe aggiungere il grande
tema evangelico della “sequela” di Cristo, con i suoi vari livelli, fra cui il
livello più propriamente specifico dei discepoli del Signore Gesù, che
abbandonando i legami familiari sempre andavano con Lui (Mc 3, 14) e per
i quali Gesù diede specifiche norme di vita e comportamento (Mc 9, 35; Lc
22, 27; Mc 9, 50b; Mt 7, 3...).
Conclusione circa i dati evangelici: Attraverso l’esame di alcuni detti di
Gesù e dell’esperienza storica della Sua “sequela” si osserva che un distacco
dai legami familiari, anche dalla moglie e dai figli, si determinò nei chiamati
– appunto – alla “sequela” immediata e perdurante di Lui.
Da una parte la persona di Gesù, la
straordinarietà dei suoi segni, l’autorità della sua parola, l’esperienza
comunitaria intensa, agivano come elementi di fascino e di attrazione; d’altra
parte c’era l’intuizione che in questo nucleo, pure poco appariscente, operasse
veramente l’azione escatologica di Dio.
Il motivo del “distacco” era dunque
quello di mettersi insieme con Gesù al servizio del Regno «per stare con Lui e
per mandarli a predicare» (Mc 3, 14).
Ma il motivo stesso del distacco ci
conduce ad osservare che il legame con Gesù era concretamente vissuto nella
realtà di una piccola comunità fraterna ed amicale unita intorno a Lui e
partecipante della Sua vicenda e della Sua prospettiva.
La rinuncia ai legami familiari portava
dunque alla convivenza ed amicizia con Gesù di Nazaret e ad incontrare altri
discepoli con cui convivere ed intrattenere relazioni profonde e costanti.
Anzi, il servizio stesso del regno si configura esso stesso storicamente come
un servizio condotto “insieme”; addirittura c’è la consapevolezza che il
“gruppo” in quanto tale, con la sua esistenzialità e la sua vita, costituisce
la profezia, lo specchio, l’immagine, il segno del Regno, del Mistero
invisibile, reso cosi visibile, cioè dell’Amore del Padre e del Figlio (cfr. Lc
10, 1 ss, Mc 6, 7, Lc 10, 17...).
Non appare perciò una rinuncia ai legami
familiari dovuta a disistima o sfiducia nei confronti delle relazioni umane ed
a favore invece di una relazione solo con Dio: la proposta di lasciare la
relazione coniugale e le relazioni familiari in genere, mira infatti
esplicitamente ad assumere un’altra relazione interpersonale: quella con lo
stesso Signore Gesù, ed anche altre relazioni interpersonali, quelle coi
compagni della piccola comunità apostolica innanzitutto, e poi più in generale
con i destinatari del Vangelo. Colpisce proprio questo – dalla lettura dei
testi evangelici – che la rinuncia alle relazioni familiari non volesse
significare una condanna delle relazioni umane anche profonde e continuate in
quanto tali. Anzi, il Signore Gesù ha puntato fin dall’inizio alla costituzione
di una comunità di discepoli, vincolati intimamente da una relazione
interpersonale profonda e specifica, denominandoli Egli stesso in base alla
realtà di tale relazione: iam non dicam vos servos, sed amicos, vos amici
mei estis, infatti “non c’è amore più grande che dare la vita per i propri
amici”; questa dunque era la analogia, la categoria, la realtà, la relazione
interpersonale, l’immagine speculare visibile dell’invisibile Amore di Dio.
2) La tradizione post-pasquale dei
detti del Signore Gesù
I detti del Signore Gesù, nel periodo
intercorso fra la sua Ascensione e la redazione dei Vangeli, furono trasmessi
oralmente da quei testimoni che li avevano ascoltati, vissuti e conservati; e
furono soprattutto trasmessi esistenzialmente nella loro vita reale giacché
essi parlavano di ciò che vivevano e vivevano «i costumi del Signore» [Didachè,
11, 8].
C’è testimonianza esplicita [la
cosiddetta Fonte Quelle] che nella prima comunità palestinese le regole
del discorso sulla missione (Mt 10) vennero a costituire una specie di
codice, in cui i detti della “sequela”, che si riferiscono ad un’esistenza
sradicata, ad una rottura con la famiglia, ai pericoli per la propria vita,
ricevettero un’interpretazione letterale. Di questa interpretazione radicale
dei detti del Signore Gesù sulla “sequela” sarebbe testimone, in certo modo,
anche la comunità di Corinto, almeno circa le proposizioni celibatarie, come
risulterebbe dal cap. 7 della 1 Corinti. Cioè la corrente rigorista presente a
Corinto («è cosa buona per l’uomo non toccare donna»), sarebbe infatti lo
sviluppo estremista e radicalizzato della vera tradizione palestinese che
riportava i detti del Signore Gesù: e pertanto come corrente estremista e radicalizzata
venne corretta da San Paolo con la 1 Corinti, 7. Il testo sul celibato di 1
Corinti 7 va valutato nel contesto rigorista cui San Paolo deve rispondere, a
partire dal primato di Cristo nella nostra vita e della nostra appartenenza a
Lui: evidenziare perciò la difficoltà pratica di conciliare il legame coniugale
con il servizio del Signore, non autorizza la conclusione che chi non è sposato
non deve vivere nessun’altra relazione profonda, se non quella con il Signore.
Non solo non si può inserire un elemento
in più nel ragionamento di San Paolo, ma occorre – come sempre in casi
simili – riferirsi alla situazione di vita dello stesso San Paolo. Egli oltre
all’affetto profondo (Fil 2, 1) che lo lega ai fedeli delle varie
chiese, intrattiene relazioni personali di profonda amicizia con persone
determinate e soprattutto con i suoi diretti collaboratori: Timoteo per primo e
poi Tito, Silvano, Luca... [Cfr. H. RONDET,
Les amitiés de S. Paul, N.R.T. 77, 1955, 1050-1066]. Anzi si può dire che San Paolo ha quasi
sempre agito in “compagnia”, con solidarietà molto strette, con collaboratori
molto legati, come lo mostrano anche le intestazioni delle sue lettere.
Distante perciò da San Paolo, uomo non
sposato, la figura del “filosofo stoico” (figura gravemente ambigua, questa
del “filosofo stoico”, che una certa tradizione
“stoicista-disincarnata-spiritualista” ha cercato nei secoli, qua e là, di
accreditare equivocamente nella Chiesa, tentando di oscurare la reale immagine
di Cristo, mediante la pericolosa sovrapposizione a Lui di questo ascetico
paradigma irreale: gravi danni ne sono venuti non di rado, e non solo alla
corretta lettura del Sacramento dell’Ordine Sacro, ma anche e di più alla
lettura del parallelo Sacramento del Matrimonio), che fugge la vacuità di
questo mondo e la fugacità degli affetti umani per concentrarsi nell’unica
verità eterna; per San Paolo il «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me» (Gal 2, 20), non solo non impedisce, ma anzi promuove in lui i
legami di amicizia più profondi sopra ricordati.
Anche dagli Atti degli Apostoli si può
desumere che nel periodo post-pasquale la cerchia dei discepoli ha mantenuto e
proseguito lo stile di vita proprio di Gesù ed in questo ambiente vitale si
sono conservati i detti di Gesù fino alla loro redazione definitiva. Gli Atti
documentano ampiamente questo fenomeno dandoci diverse tipologie: spostamenti
itineranti di gruppi, di coppie di discepoli, di singoli, ed anche permanenze
prolungate di gruppi (per esempio ad Antiochia i cinque – Barnaba, Simeone
Niger, Lucio Cireneo, Menahem e Paolo – sarebbero il collegio delle autorità
religiose, cfr. Atti 13, 1-2); per gli esempi molteplici si rimanda
perciò ad una lettura anche solo spirituale di Atti.
Conclusione circa la tradizione
post-pasquale dei
detti di Gesù: Le parole di Gesù ed il suo esempio hanno determinato, dopo
la Sua Pasqua, il fiorire ed il consolidarsi di scelte radicali di rinuncia
alla famiglia per Lui e per il Vangelo: l’appello pre-pasquale di Gesù continua
ad avere vigore; ora si ha ancora l’abbandono di un contesto familiare per
intraprendere una forma di vita in cui il Maestro non è immediatamente
visibile, ma a parte tale mutamento (del resto significativo), non sembrano
darsi altri sostanziali mutamenti.
Così, come esperienza fondamentale,
vediamo continuare la vita di gruppo, di comunità missionaria, di diade
evangelizzatrice («Li mandò a due a due» in ogni città o luogo ove egli doveva
andare – Lc 10, 1 – come Paolo ad esempio...), che si muove all’interno
di una fraternità più vasta, la quale anzi, a sua volta – come fraternità – è
generata “come da fermento” dalla fraternità più ristretta e significativa dei
discepoli.
Dopo la Pasqua rinunciare agli affetti
familiari e ad una relazione coniugale per seguire l’appello del Signore Gesù
non significa rinunciare a qualsiasi relazione umana per consacrarsi a Dio
solo, o a Gesù solo, e a un ministero ecclesiastico (a una funzione); ma
significa normalmente che l’impegno di fede col Signore Gesù, anziché spingere
nel ghetto di un ascetismo spersonalizzato stoicista, conduce invece a quella
che fu poi chiamata sempre nei secoli con grande onore e venerazione la apostolica
vivendi forma.
3) La redazione dei Vangeli circa i
detti sulla “sequela”
Già varie annotazioni sono state
precedentemente fatte e – per brevità – non verranno ripetute. Tuttavia alcuni
studiosi del Vangelo [ad es. D. MARZOTTO,
Celibato Sacerdotale e Celibato di Gesù, Piemme 1987, pag. 93]
sviluppano il tema di Mt 19, 12 nel contesto più vasto dei capitoli
19-20 di Matteo, per mostrare: da un lato, come sia parziale la lettura di
certi esegeti, che vorrebbero riduttivamente applicare il versetto Mt 19,
20 ai “separati non sposati”, da un altro lato, come gli evangelisti non
potessero non pensare a coloro che tra i “discepoli” sono diventati nel loro
tempo gli associati o i continuatori della missione apostolica: «vi sono
eunuchi che si sono resi tali essi stessi per il regno dei cieli» (Mt 19,
20).
Nel rimandare ai testi specialistici per
l’esegesi corrispondente, parrebbe utile qui di riprendere le conclusioni di
una buona esegesi del testo: cioè l’evangelista Matteo, redigendo il suo
Vangelo, nel contesto di una illustrazione più vasta sul carattere impegnativo
della vita cristiana, presenta la figura dei celibi “per il regno dei cieli”.
Si tratta di persone, che, nel contesto del fatto storico del ministero del
Signore Gesù, hanno rinunciato alla prospettiva matrimoniale sia a motivo
dell’incontro con gli inizi del regno nella piccola comunità di cui il Signore
Gesù è il centro, sia nella prospettiva futura del regno, alla sequela di Gesù,
mettendosi al servizio del regno e del suo annuncio.
La rinuncia ad una relazione coniugale
(“non potere essere altrimenti” = “eunuchi” cioè), non significa però rinuncia
ad una relazione umana anche profonda: a parte la relazione centrale con il
Signore Gesù, uomo Lui stesso descritto “in relazione” fra gli uomini, anche la
relazione con gli altri “celibi per il regno” non solo non è un fatto
accidentale, ma addirittura determina tale decisione (della rinuncia alla
relazione coniugale), in quanto è la realtà nuova di questa fraternità che ha
indotto la rinuncia alla prospettiva coniugale. Effettivamente si tratta della
“nuova famiglia” del Signore Gesù nel suo complesso, e quindi anche nelle sue
prospettive future ed apostoliche: emerge dunque una affinità fra celibato ed
annuncio del regno.
D’altra parte i “Dodici”, la cui
esperienza sembra da vedersi in analogia con quella degli “eunuchi per il
regno”, furono invitati a lasciare tutto, per divenire “pescatori di uomini”,
cioè per essere associati al ministero escatologico del Signore. Anche se
queste scene hanno dei livelli paradigmatici per ogni vocazione, non si può
nascondere il loro valore immediatamente oggettivo e pregnante, di livello
pieno per coloro che avrebbero lasciato tutto realmente, per seguire Gesù nella
prospettiva del regno.
Conclusione generale della parte A),
circa i tre punti
relativi alla ricognizione del dato evangelico: Nel Nuovo Testamento
non sarebbe possibile di parlare di una condizione di celibato a sé stante,
cioè determinabile indipendentemente da una situazione esistenziale più
complessa (la “sequela”) e da una rete di relazioni, in cui le tali persone non
sposate di fatto si trovano.
Inoltre si può osservare come l’accento
non cada tanto sulla rinuncia, che si deve fare o meglio che si impone (dalla
relazione coniugale), o su un certo distacco affettivo (dai legami familiari),
ma piuttosto sui motivi positivi che hanno indotto a tale scelta.
Nel Nuovo Testamento non appare il
procedimento (molto stoico) della riflessione su principi teorici generali, per
dedurne l’impostazione di una vocazione particolare: viene piuttosto presentata
una situazione vissuta concretamente, con le sue ineludibili esigenze
esistenziali assunte spontaneamente, per il Regno, in Gesù Cristo. Quando nel
Nuovo Testamento si parla di persone che hanno rinunciato al matrimonio per il
regno, se ne parla in un contesto più ampio di relazioni, o comunque queste
persone sono inserite in un contesto più ampio di relazioni, che costituiscono
i punti di riferimento veramente significativi per la determinazione di questa
condizione di vita.
Un dato emergente dall’esperienza storica
di Gesù e dalla relazione che ne dà San Matteo, configura l’esperienza del
celibato come una rinuncia che alcuni avrebbero fatto per mettersi col Signore
Gesù al servizio del Vangelo, in vista del Regno.
Un secondo dato emerge dall’esame della
tradizione dei detti e della loro trascrizione (per es. in S. Matteo), e
configura l’esperienza del celibato come una rinuncia di alcuni al matrimonio,
per continuare, sia pure sotto diverse forme, l’esperienza della cerchia del
Signore Gesù, sempre al servizio del Vangelo, per amore del Signore ed in
attesa del Suo ritorno. Cioè sostanzialmente si riscontra una continuità fra
l’esperienza dei tempi di Gesù e quella successiva, in essa dominante è
l’istanza escatologica del Regno, come realtà più grande di ogni altro valore e
che assorbe a tempo pieno; inoltre questo appello del Regno, e quindi del
Signore Gesù che ne è il centro, se da un lato relativizza la condizione
matrimoniale, non solo non isola la persona, né la rinchiude
nell’individualismo, ma la inserisce in una rete di nuove relazioni profonde
(“apostoliche”), che “insieme” sono specchio visibile (perciò annuncio vitale)
e fermento (cioè seme costitutivo del Regno) dell’amore invisibile di Dio
[Potrebbe essere utile per una più precisa lettura: J. GALOT, Lo stato di vita degli Apostoli, Civiltà
Cattolica, 1989, pp. 327-340].
Parte B, approccio ad una lettura di
fondo, nella intenzione esistenziale del Signore – in chiave “spirituale” – dei
dati biblico-teologici
San Giovanni, “il Teologo”, “lo
Spirituale” e “l’Amico”, è quello che ci aiuta maggiormente a fare questa
lettura “spirituale”, che, forse, potrebbe essere annotata anche così: il
Mistero nascosto da prima dei secoli in Dio è l’Amore del Padre e del Figlio,
che chiamiamo lo Spirito Santo: questo Mistero, che è la Gloria di Dio, è di
fatto il fine di ogni intenzione di Cristo ed il Fine di Dio stesso, se così ci
si può esprimere; tutti gli altri fini, sono subordinati a questo, e, rispetto
a questo, per quanto nobili, sono secondari e ad esso finalizzati; il Signore
Gesù ha convocato una rete ristretta di discepoli, di amici suoi, di associati
intimamente a Lui; li ha educati e poi finalmente “costituiti”:
–
perché
nella radicale intimità [Cfr. la intima fraternitas sacramentalis,
P.O., 8] di Lui con loro e fra di loro fosse reso visibile “come in uno
specchio” l’amore invisibile e totale del Padre e del Figlio,
–
e perché
questo amore fosse ripetuto all’infinito, sempre originalmente nuovo, affinché
l’immagine del suo amore ripetuta, e ripetuta, e ripetuta... ovunque e in ogni
tempo, possa così fare da fermento e da coagulo di quella più grande immagine
della Trinità che è la Chiesa: «vuole infatti ogni amante che la immagine del
proprio amore si ripeta e moltiplichi senza fine» [S. AGOSTINO, De Trinitate].
«Come tu stesso, o Padre, sei in me ed io
in te, e così essi pure siano in noi; onde il mondo creda che tu mi hai
mandato.
Quanto a me ho dato ad essi la gloria che
mi hai dato, affinché siano uno, come noi siamo uno. Io in essi e tu in me,
affinché siano consumati nell’unità, onde il mondo sappia che tu mi hai mandato
e che li hai amati, come hai amato me...
Come tu hai mandato me nel mondo, così io
ho mandato loro nel mondo... L’ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché
il tuo Figlio glorifichi te, poiché tu gli hai dato potere sopra tutti gli
uomini, affinché dia la vita eterna a quanti gli hai affidati. Ora la vita
eterna è che conoscano Te, solo vero Dio e colui che tu hai mandato, Gesù
Cristo» (Gv 17).
Il 25 ottobre 1993 è stata difesa alla
Pontificia Università Gregoriana una interessante Tesi (541 pagine) di Teologia
Spirituale, dal titolo La Fraternità sacramentale dei presbiteri (ne
è autore il sac. Carlo Bertola, mentre ne è stato moderatore il P. Francis A.
Sullivan S.J. [Ne è stata edita una anticipazione dal titolo Fraternità
Sacerdotale, Città Nuova, Roma, 1994, ed un breve estratto nello stesso
1994, con l’ampia ed utile Bibliografia]. Alle pagine 101-103, della Tesi del
P. Bertola, viene presentato il tema “dalla comunione trinitaria alla comunione
apostolica e presbiterale”, mentre alle pagine 103-105 si trova il capitolo “la
fraternità sacerdotale ‘specchio’ della comunione trinitaria”; seguono poi alle
pagine seguenti i capitoli “i presbiteri, icone di Dio-Comunione”; “ultima
Cena, culmine di intimità e di fraternità”; “L’ordinamento apostolico della
comunione presbiterale”; “dalla Trinità alla fraternità sacramentale dei
presbiteri”; “Ecclesiae Primitivae forma”;... «Nell’amore vero, reale e
fraterno dei presbiteri essi fanno conoscenza e prendono coscienza dell’amore
trinitario del Padre, del Figlio e di quello Spirito che è l’amore stesso che
si scambiano e si donano reciprocamente sia il Figlio che il Padre e che è
stato donato pure a loro.
Così è possibile riconoscere e “vedere”,
nella fraternità reciproca all’interno della comunione presbiterale, lo Spirito
di quell’amore che è del Padre e del Figlio, che poi è donato anche per mezzo
loro a tutti i credenti» (pag. 103).
«Se nei primi secoli dell’era cristiana
il vedere come si amavano i cristiani (cfr. At 2, 47) era già la
“parola” più efficace per attirare nuove persone alla verità ed alla fede in
Cristo, tanto più il “vedere” la reciprocità dell’amore nella comunione
presbiterale “parlerà” della comunione trinitaria ed attirerà ad entrarvi, più
di ogni parola. (...) Questa è la Buona Notizia, che, amandosi tra loro,
comunichino agli altri la chiamata alla comunione nella Trinità.
(...) Per aprire le anime
all’inabitazione della SS. Trinità i presbiteri devono assumere e comprendere
il senso pieno del loro sacerdozio, come compagnia, come fraternità, come
amicizia, come speculum visibile invisibilis Dei» (pagg. 103-104).
«Appare evidente che i grandi temi
trinitari... semplificano e chiariscono il tema stesso del sacerdozio, che si
rivela così con un più chiaro riferimento al Vangelo, (come fa il Concilio
Vaticano II, ove i vari temi sono stati primariamente polarizzati e
successivamente messi in relazione).
(...) Dal Vangelo traspare non solo
l’intenzione primigenia di Cristo: rivelare Dio all’uomo, ma anche il mezzo per
attuarla: la comunione apostolica. E il gruppo dei discepoli e lo stesso
sacerdozio appare nella mente di Cristo come l’immagine visibile che egli è
venuto a manifestarci, a donarci, a mostrarci, a rivelarci (“io in loro e tu in
me”; perché vedendo credano...)» (pag. 104).
«Si potrebbe aggiungere che il sacerdozio
come ordo, come corpus, e, come tale, riferito alla comunità
apostolica di Gesù con i suoi, non è solamente uno “specchio visibile del Dio
invisibile”, ma come una reinvenzione – se così ci si può esprimere – originale
e continua, in forma per così dire “ossessiva” (come è proprio dell’amore),
dello stesso debordante amore di Dio, che è la SS. Trinità; Dio “come colui
che” ricrea e tende continuamente a reinventare la intimità trinitaria» (pag.
105).
«Il senso della nostra vita sacerdotale è
racchiuso in questo augustissimo mistero, primariamente per noi presbiteri la
nostra progressiva conversione cristiana (metanoia) significa imparare, nello
Spirito di Cristo, a diventare persone capaci di donarsi (kenosis), di servire
gli altri (diakonia) per la pienezza di vita nella comunione trinitaria
(koinonia), avendo sempre davanti agli occhi, ma soprattutto nel cuore, quel
supremo modello trascendente che è la beatissima Trinità» (pag. 105).
«...Il popolo di Dio risulta infatti
convocato alla comunione trinitaria da un fermento primigenio che è proprio la
comunione presbiterale, la comunione dei discepoli di Gesù. È difficile non
osservare che nella mente di nostro Signore, nel “vedere” la comunione dei
“suoi”, i dispersi ed isolati uomini sono potentemente ed efficacemente
attratti a quel “corpo” che si chiama Chiesa. (...) Il precetto dell’amore,
testamento di Cristo, è il segno definitivo dei suoi discepoli per i tempi
nuovi, segno inequivocabile di fedeltà a lui e del modo come egli ama...; anzi
la ragione del comandamento, il vedere l’amore vicendevole del Padre e del
Figlio, che è lo Spirito Santo e di partecipare e ripresentare questa loro
intimità di amore, è più importante del comandamento stesso».
«... è vero che tutti i credenti in
Cristo sono poi chiamati ad essere suoi fedeli. Ma certamente in primo luogo il
comandamento è per coloro che sono chiamati ad essere “suoi”, discepoli “con
lui”, gli “intimi”, il primo “fermento” della massa (cfr. Mt 13, 33; Lc
13, 20-21). Di conseguenza poi l’invito è per tutti i cristiani... Se i
discepoli rimangono nell’amore di Cristo, amando come egli ama – solo se c’è
amore si compie ciò che è gradito all’amato – il Padre è glorificato nel Figlio
ed i frutti diretti sulla comunità cristiana non mancheranno (Gv 15,
8-9)».
«Se il Padre ha scelto la sua perfetta
immagine o icona, che è il Figlio suo Gesù Cristo... alla comunità cristiana è
offerto di sperimentare la “gloria” di Dio, nella perfetta immagine
trasformante di Gesù Cristo, attraverso icone viventi di Lui.
Queste icone viventi di amore apostolico
e fraterno, sono il mezzo attraverso il quale Dio modella la comunità cristiana
orientandola alla fede, alla speranza ed all’azione. (...) Questa è la vita
esaltante, rischiosa e sublime alla quale i presbiteri – “le fragili colonne
del cielo” – sono condotti: essere cioè la “gloriosa” trasparenza della essenza
di Dio, della sua natura e modo di essere, delle sue prospettive di vita,
essere “specchi” del gloriosissimo Dio uno e trino, essere la luce stessa nella
quale si intravede il volto del Signore: sacerdos enim alter Christus»
(pag. 107).
Come lo ricorda “il Teologo”, “lo Spirituale”
e “l’Amico” Giovanni, con quelle straordinarie parole, pur vere per ogni
cristiano, ma specifiche per i discepoli: «Io sono la vite e voi i tralci. Chi
rimane in me ed io in lui fa molto frutto... In questo è glorificato il Padre
mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha
amato me, così anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore, come io osservo i
comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché
la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati... Voi siete
miei amici... non vi chiamo più servi... ma vi ho chiamati amici, perché tutto
ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me,
ma io ho scelto voi e vi ho costituiti, perché andiate e portiate frutto e il
vostro frutto rimanga... questo vi comando: amatevi gli uni gli altri» (Gv 15)
[Se si volesse avere un quadro della comunità presbiterale e della esperienza
del celibato sacerdotale: cfr. C. COCHINI,
Les Origines Apostoliques du célibat sacerdotal, Paris 1981: vale
forse la pena di annotare che il Cochini, nella sua poderosa opera di ricerca
storica, segnala che i Padri della Chiesa sono unanimi del dichiarare che
coloro tra gli apostoli, che potessero essere stati sposati, hanno poi cessato
la vita coniugale e praticato il celibato. Ed inoltre Egli indica che il
sentimento comune dei Padri su questo punto costituisce un’ermeneutica
autorizzata dei testi biblici in cui si fa allusione al distacco praticato dai
discepoli di Cristo. Entrando sotto il potere totalizzante evocato dalle parole
di San Giovanni essi, i discepoli, non potevano essere altrimenti che votati a
quell’amore apostolico radicale].
Conclusione
Giovanni Paolo II in data 14 maggio 1995
ha ordinato 41 nuovi sacerdoti per la Diocesi di Roma. All’omelia Egli, citando
San Giovanni, ha detto: «“Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni
gli altri: come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da
questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli
altri” (Gv 13, 34-35) (...). Il sacerdote è, infatti, un uomo che ha la
profonda consapevolezza di essere amato da Dio. È un amore che egli stesso
sperimenta in prima persona... Se compito del sacerdote è l’opus gloriae,
questo può essere adempiuto soltanto mediante l’opus caritatis (...).
Consapevole di quanto sia stato amato egli stesso da Dio, il presbitero deve a
sua volta diventare ministro dell’amore divino fra gli uomini (...). È
necessario diventare sempre più ministri di questo amore! Ministri,
innanzitutto, dell’amore vicendevole tra gli stessi sacerdoti, in una singolare
fratellanza tipica della vocazione e del ministero presbiterale...» [L’Osservatore
Romano, 15-16 maggio 1995, pag. 5. Il Santo Padre Giovanni Paolo II, nel
corso degli anni del Suo Pontificato, è ritornato più volte sul tema del
Celibato e della Fraternità Sacerdotale; a modo di esempio si possono qui
ricordare i due Discorsi da Lui fatti: 1) agli alunni del Pontificio Seminario
Lombardo di Roma, in L’Osservatore Romano del 16.9.1990, edizione spagnola
del 21 ottobre 1990; 2) ai seminaristi e novizi di Budapest, il 19 agosto 1991,
in L’Osservatore Romano del 20.8.91, edizione spagnola del 6 settembre
1991].
Corollario primo
Circa il problema dell’esistenza di preti
sposati presso certi riti orientali e circa l’accoglienza nel rito latino di
pastori anglicani (o di altre denominazioni protestanti) sposati e la loro
successiva ordinazione sacerdotale. Questa questione potrebbe essere affrontata
in due differenti maniere: una maniera pratica, dal punto di vista dei vantaggi
e degli svantaggi, ed una maniera teorica, o evangelica.
1) Vivendo da 19 anni in una casa
“maronita” – i maroniti hanno preti sposati – direi che la maniera pratica di
valutare la questione spesso non conduce da nessuna parte; mentre anzi a volte
si spegne nel consueto pettegolezzo circa i preti sposati o circa i preti
celibi. Ma comunque si può osservare praticamente che la ordinazione
sacerdotale di uomini sposati non è in alcun modo una maniera di sopperire alla
mancanza di vocazioni. Infatti, sia presso gli anglicani e protestanti, come
presso gli ortodossi ed orientali, la immagine del pastore sposato o del prete
sposato, anziché favorire, sembra rallentare e ridurre la fonte delle vocazioni
ed in certo senso anche la loro utilizzabilità, come si può desumere dalla
considerazione di quelle esperienze plurisecolari; mentre invece, anche presso
gli orientali, l’immagine del prete celibe è spesso più facilmente attrattiva
ed anche “utilizzabile”.
2) S.E. Mons. Alfred Ancel, fondatore e
superiore del “Prado” e Vescovo Ausiliare di Lione, fu invitato il 30 settembre
1965 dai Vescovi Brasiliani, presso la “Domus Mariae”, per loro e per Vescovi
di altri Paesi, nel contesto dei lavori del Concilio Vaticano II a presentare
la conferenza “Le Célibat sacerdotal” [Pubblicata poi in La Documentation
Catholique, Avril 1967, col. 727-750]. Egli annota: «In Libano ed in Siria
ho incontrato dei preti sposati» e si chiede «conviene (in occidente) stabilire
un doppio clero come esiste in oriente: clero celibe e clero sposato?» ed
aggiunge: «Ecco alcuni fatti che potranno aiutare la nostra riflessione:
1) Episcopato e celibato. Tutti i
Vescovi, in Oriente, sono tenuti alla legge del celibato: non è forse questo un
segno che c’è un legame fra il celibato e lo stato sacerdotale...?
2) D’altra parte, voi lo sapete, non si
può parlare di matrimonio dei preti in Oriente. Quando si parla di matrimonio
di preti in Oriente, non si parla di preti che si sposano, ma di uomini sposati
che sono ordinati preti, in Oriente come in Occidente non è mai permesso a un
prete di sposarsi. Voi sapete anche che in Oriente un prete sposato, se diventa
vedovo, non può risposarsi. Questa legislazione sembra ben provare, essa
stessa, che esiste un certo legame fra sacerdozio e celibato. Io conosco due
seminari in Oriente, quello di Sant’Anna di Gerusalemme e quello dei Gesuiti di
Beirut.
I seminaristi possono, seguendo il
diritto orientale, sposarsi prima del diaconato e ricevere successivamente il
sacerdozio.
Ma di fatto, da molti anni e senza
esservi tenuti da alcuna legge, i seminaristi orientali hanno ricevuto il
diaconato ed il sacerdozio senza essere sposati: per ciò stesso essi, si
impegnano per sempre nel celibato. (...) Ecco dunque gli argomenti che ho
inteso a favore o contro il clero sposato in Oriente (...) converrebbe dunque
trasferire in Occidente la situazione che c’è in Oriente? (...) Personalmente
io non sono favorevole all’estensione della situazione orientale al clero di
rito latino, questa preferenza (...) ha il suo fondamento nel Vangelo ed essa
si impone in qualche modo al mio giudizio perché mi pare che sia nel senso
della storia».
In questa luce, la presenza di preti
sposati presso gli orientali parrebbe avere un significato analogo a quello
limitato che ha, presso la Chiesa Latina, la presenza di preti sposati
provenienti dall’anglicanesimo o da altre confessioni protestanti.
Corollario secondo
Circa la necessità di chiarezza sulla
intenzione della Chiesa, in materia di celibato sacerdotale, per i numerosi
seminaristi e novizi sparsi nel mondo.
Nel 1993, c’erano nel mondo 120.050
seminaristi minori, 102.000 seminaristi maggiori, 9.602 novizi, mentre nel 1992
ci furono 6.401 nuove ordinazioni di preti diocesani e 2.568 di religiosi.
Inoltre, prendendo in considerazione il periodo 1978-1993, si registra un
aumento del numero complessivo di seminaristi maggiori (comprendendo gli
studenti di filosofia e teologia tanto degli istituti diocesani quanto
religiosi) del 62,8%, con punte massime (oltre il raddoppio) in Africa ed Asia.
L’aumento del numero delle ordinazioni
sacerdotali, del clero diocesano e religioso complessivamente, è stato poi del
33,8% (va tenuto conto tuttavia che, data la scarsità di ordinazioni
sacerdotali negli anni precedenti il 1978, la mortalità annuale nel clero ha
poi ridotto – durante qualche anno – il numero globale dei sacerdoti nonostante
l’aumento crescente delle ordinazioni sacerdotali di anno in anno fin dal
1978).
È facile vedere, perciò, che, di fronte
ad un numero così elevato di giovani, che impegnano tutta la loro vita nel
sacerdozio, la Chiesa senta il dovere di essere assolutamente chiara in merito
alla sua intenzione circa la connessione fra celibato e sacerdozio nei preti di
rito latino: non si deve e non si può, infatti, giocare con la vita delle
persone ed un giovane che entra nel sacerdozio ha diritto di conoscere, con
assoluta precisione, ciò a cui egli si impegna per sempre.
Certa stampa secolarista moderna,
soprattutto quella maneggiata dalle centrali dei poteri “laici” ed anche certi
gruppi ecclesiali minoritari-radicali, poco inclini a visioni di insieme e poco
rispettosi delle decisioni delle maggioranze e dell’autorità nella Chiesa,
vorrebbero mantenere – negli anni – uno stato di perpetua incertezza e di continua
ridiscussione su tale questione del celibato sacerdotale e ripropongono perciò
a ripetizione, a getto continuo, le stesse obiezioni già note e già decadute,
nella intenzione di aprire un varco, per poi giungere a ribaltare la
situazione.
È troppo chiaro che, proprio per riguardo
alle tante vocazioni sacerdotali, la Chiesa non può e non deve accettare la
perpetua dialettica dell’incertezza e del dubbio, ma deve – per obbligo morale
verso tutti coloro che vengono ordinati sacerdoti – parlare la parola della
chiarezza precisa e definita. Per questa ragione il Sinodo dei Vescovi del 1990
e l’Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis (n. 29) del Papa
Giovanni Paolo II dicono testualmente: «Il Sinodo non vuole lasciare nessun
dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la
legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati
all’ordinazione sacerdotale nel rito latino».
IL
CELIBATO ECCLESIASTICO
E LA FRATERNITÀ SACERDOTALE
(“Apostolica Vivendi Forma”)
nel Magistero recente della Chiesa
Per una lettura del “celibato”, fatta dal
Magistero della Chiesa ci si limita al “Magistero recente”, a partire dal
Concilio Vaticano II, per sottolineare una delle novità che Esso ha introdotto
nella sua riflessione sul celibato.
Con tale riflessione il Magistero –
reagendo a certa cultura contemporanea secolarista e riduttiva – ha costruito
un ponte diretto con le fonti evangeliche, riproponendo l’immagine suggestiva
che la rinuncia al matrimonio viene attuata per seguire il Signore-Gesù in una
comunità apostolica, che è perciò, per tutta la Chiesa, lo specchio visibile e
fecondo dell’invisibile amore trinitario. Questa visione potrebbe essere
sintetizzata con la celebre e nota antichissima espressione: apostolica
vivendi forma.
Infatti, come lo affermò il Santo Padre
Giovanni Paolo II nel 1981 (Discorso ai sacerdoti nell’Isola di Cebu,
Filippine, 19 febbraio). «Il Celibato non è affatto marginale nella vita del
sacerdote: dà testimonianza di un amore modellato sull’ amore di Cristo».
I preti, a loro volta, sono nel cuore
delle comunità cristiane, e dallo splendore della loro vita e del loro
ministero dipende largamente la vivacità della Chiesa. Non è quindi un problema
di secondo piano il modo in cui essi hanno intrapreso e vivono la loro sequela
di Cristo, cioè il modo in cui il fuoco portato da Cristo arde ed illumina dai
loro cuori.
Sul celibato sacerdotale si può partire
dalle precise affermazioni sintetiche del Concilio Vaticano II (Optatam
Totius n. 10, Presbyterorum Ordinis n. 16, cfr. Lumen Gentium
nn. 42 e 44, e cfr. Perfectae Caritatis n. 12), fino a giungere al
Sinodo Mondiale del 1971, col quale, da parte dell’Autorità Ecclesiastica, è
stata definitivamente risolta – in senso positivo – la questione sulla opportunità
o meno di conservare il celibato sacerdotale come obbligatorio per il clero
latino (passando attraverso la tappa intermedia dell’Enciclica Sacerdotalis
Caelibatus del 24 giugno 1967 di Paolo VI).
Si potrebbe dire che proprio l’Enciclica Sacerdotalis
Caelibatus presenta utilmente in modo sintetico le principali obiezioni al
celibato sacerdotale, richiamandone sette:
–
Gesù non lo
avrebbe imposto, ma solo proposto (n. 5),
–
le ragioni
dei Padri sembrano ispirate da eccessivo pessimismo verso la “carne” (n. 6),
–
non tutti
gli aspiranti al sacerdozio ne avrebbero il carisma (n. 7),
–
la sua
obbligatorietà sarebbe causa di rarefazione delle vocazioni (n. 8),
–
esso
sarebbe causa di disordini ed infedeltà (n. 9),
–
determinerebbe
una situazione innaturale, che danneggerebbe la personalità umana, instaurando
un disprezzo verso l’opera della creazione (n. 10),
–
l’attuale
preparazione sarebbe inadeguata (n. 11).
Il Concilio
Il 12 novembre 1964 il relatore Mons.
Marty presentava al Concilio il Textus emendatus, dopo che il Concilio
ne aveva discusso nelle Congregazioni Generali del 13, 14 e 15 ottobre
precedenti, con la seguente espressione Legem itaque caelibatus, prout in
usu est, sacrosanta haec Synodus iterum comprobat.
In data 10 ottobre 1965 Paolo VI fece
pervenire al Concilio una lettera, letta ai Padri l’11 ottobre dal Segretario
Generale; con essa il Santo Padre si riservava la trattazione della questione:
«... essere ancora nostro proposito, per quanto è in noi, non solo di
conservare questa legge antica, sacra e provvidenziale, ma anche di rafforzare
l’osservanza, richiamando i sacerdoti della Chiesa latina alla coscienza delle
cause e delle ragioni».
La lettura della Lettera del Papa fu
accolta, come indicano le cronache ufficiali del Concilio con plausus magnus
in Aula.
Nella Congregazione Generale del 12
ottobre successivo fu data lettura della lettera di risposta al Papa del Card.
Tisserant, a nome del Concilio; il Cardinale scriveva che la lettera del Papa
era stata accolta dai Padri repetito plausu.
L’11 ottobre 1965 fu distribuito
nell’Aula del Concilio l’ultimo testo del decreto (Schema Decreti Presbyterorum
ministerio et vita) e la discussione si protrasse in Aula nei giorni 14,
15, 16, 25, 26 ottobre 1965.
Il Segretario Generale del Concilio,
Cardinale Pericle Felici, in un suo opuscolo del 1969 (“Il Vaticano II ed il
Celibato Sacerdotale”, Poliglotta Vaticana), su questo punto precisa
testualmente alla pag. 18: «Nessun emendamento e nessun modo mirava a porre in
questione la legge del celibato ecclesiastico. Anzi l’ultimo testo votato dal
Concilio, e poi approvato, alla parola comprobat aggiungeva anche
l’altra confirmat».
Per cui la proposizione approvata dal
Concilio suona così: Quam legislationem, ad eos qui ad presbyteratum destinantur
quod attinet, Sacrosanta haec Synodus iterum comprobat et confirmat (Presbyterorum
Ordinis n. 16).
Vi sono inoltre, nei già citati documenti
del Concilio, oltre al fatto saliente riferito, anche accenni a motivazioni,
benché il tema generale – come si è accennato – non sia stato trattato ex
professo in quanto alle motivazioni.
Tuttavia tali accenni a motivazioni,
presenti appunto gia nei testi del Concilio, si trovano espressamente ripresi
e sviluppati nella citata Enciclica Sacerdotalis Caelibatus di Paolo VI.
L’Enciclica Sacerdotalis Caelibatus
Si potrebbe forse dire che la Enciclica
percorre un cammino, approfondendo sempre più il dato di partenza, cioè
l’esperienza evangelica.
La rimeditazione dell’esperienza del
Signore Gesù, ove del resto deve collocarsi la base più autentica per ogni
riflessione sul celibato, ha condotto poco a poco ad una visione più complessa
e più attenta della dimensione storica dell’uomo e del piano preciso che Cristo
stesso manifesta di avere circa tale dimensione storica dei suoi discepoli.
La problematica dei valori umani ha
innanzitutto permesso di recuperare una visione più completa del celibato,
collocandolo, sul modello della situazione di vita del Signore Gesù, nel
contesto di una comunità di fratelli ed amici, riuniti attorno a Lui, in
atteggiamento di coagulo e fermento visibile e trasparente di una realtà più
profonda (quella trinitaria).
La considerazione poi delle difficoltà
pratiche, cui sopra si è accennato, ha permesso all’Enciclica di fare ulteriori
precisazioni: il sacerdote, infatti, che voglia vivere una fedeltà al Signore
Gesù nella dimensione celibataria, dovrebbe inserirsi in una comunione
sacerdotale, ove vivere un’intima fraternità sacramentale.
(Cfr. P.O. n. 8: Presbyteri ... omnes
inter se intima fraternitate sacramentali nectuntur. La mente della
Commissione del Concilio su questo punto è la seguente: l’Unio Presbyterorum
cum Episcopis et inter se, in ambitu ecclesiali utpote quae in Sacramento
Ordinis fundetur est iuris divini; sed addictio alicui diocesi particulari et
proinde Presbyterio diocesano est iuris ecclesiastici. Modus ergo admittitur (Schema
Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus recognitus et relationes,
Modus 98 – in num. 8 – pag. 62; sotto questa luce i Padri del Concilio
votarono ed approvarono il n. 8 della Presbyterorum Ordinis).
A sua volta il P. Giuseppe Rambaldi S.J.,
esperto del Concilio Vaticano II e professore sul sacerdozio alla Università
Gregoriana, commentando questo punto annota:
«Talis est ista Fraternitas – in
sacramento Ordinis fundata quae reduci nequeat ad necessitudinem illam
quantumvis alta ea sit – quae sacramentis initiationis christianae oritur. At
qua mensura Character et gratia ordinationis, qua quis minister Christi
constituitur, vitam Christianam iam Baptismate receptum tangit ac eam ad finem
sacerdotii ministerialis ordinat et aptat, eadem mensura fraternitas
sacerdotalis-presbyteros etiam in tota eorum vitae et conservando ratione ligat
ac ad invicem sollicitos facit... Sollicitudo qua presbyteri sese adiuvant non
promanat ex solo officio caritatis quam ratione Baptismatis, ones inter se
tenentur fideles exercere (Rambaldi, Fraternitas Sacramentalis et
Presbyterium in Periodica de Re Morali Canonica, Liturgica, n. 57,
1968, pag. 355).
Tale fraternità sacramentale dei
presbiteri dovrebbe essere resa più concreta da una qualche forma di vita
comune, in amicizia sincera, anche nei confronti del Vescovo.
Il testo del Sinodo dei Vescovi del 1971:
Il Sacerdozio Ministeriale
È bene qui ricordare la vasta
consultazione, ad ogni livello ecclesiale, che precedette tale Sinodo con riunioni
e dibattiti all’interno di ogni Diocesi e comunità.
Tali ampi dibattiti nel popolo di Dio
erano accompagnati da una intensa discussione sui media e fra gli esperti,
mentre la “cultura secolarista” tendeva ad esercitare influssi e pressioni.
Non vi è dubbio che il punto più
ampiamente dibattuto ed approfondito fu quello del celibato sacerdotale ed anzi
si giunse al dibattito sinodale in un clima di grande consapevolezza ecclesiale
e di grande attesa.
Il Sinodo in effetti ripropose il valore
del celibato sacerdotale nella chiave del contesto storico-missionario della
Chiesa e perciò si ispirò all’esperienza della sequela apostolica.
Appare una dimensione storico-comunitaria
molto marcata, che non era ancora molto presente nell’Enciclica Sacerdotalis
Caelibatus di Paolo VI; il sacerdozio di Cristo è presentato come attività
di riunificazione dell’umanità in Dio; in questa linea si colloca il ruolo dei
presbiteri, i quali continuando l’opera degli apostoli rendono presente Cristo.
Il sacerdote, più precisamente è:
–
sponsor
primae Evangelii proclamationis ad Ecclesiam congregandam, quam indefessae
renovationis Ecclesiae iam congregatae
(n. 4)
–
in
servitium communionis
(n. 6)
–
sacerdotale
ministerium essentialiter communitarium est in Presbyterio et cum Episcopo (n. 6)
–
“Seguendo
l’esempio di Cristo, i presbiteri coltivino la fraternità col Vescovo e tra di
loro, fraternità fondata sull’ordinazione e sull’unità di missione, affinché la
testimonianza sacerdotale diventi maggiormente credibile” (n. 6)
Nella seconda parte del documento (nel
quarto punto della prima delle due sezioni di questa seconda parte) si trova la
riflessione sul celibato, che si innesta sul punto terzo precedente:
Vocatus enim, sicut et caeteri baptizati,
ut conformis sit Christo (cfr. Rm
8,29), presbyter insuper, sicut Duodecim, participet modo speciali
consuetudinem cum Christo et eius missionem ut Pastoris Supremi: “Et fecit
Duodecim ut essent cum illo, et ut mitteret eos praedicare” (Mc
3,14).
La prospettiva scelta è quella biblica,
ed i prototipi dei presbiteri sono ravvisati nei dodici apostoli. Questi
avrebbero avuto una vocazione particolare, che i presbiteri analogamente
condividono; la chiamata alla sequela apostolica diviene così il punto di
riferimento fondamentale per risolvere i problemi del prete: per cui anche la
trattazione del celibato si rifarà esplicitamente a questa vocazione alla
sequela apostolica di Cristo.
(Mentre nell’Enciclica di Paolo VI il
riferimento primo era Cristo, Mediatore e Sacerdote eterno (n. 21), la
riflessione assume qui un taglio meno slegato dal complesso divenire storico
concreto di come il Vangelo si è diffuso per la mediazione degli Apostoli).
La propria riflessione sul celibato,
proposta dal punto quarto si articola in quattro momenti: fondamento
teologico, motivi concomitanti, legittimità della legge, condizioni da
promuoversi, cui seguono due determinazioni legislative.
Quanto al fondamento del celibato (§ a)
esso è duplice: da una parte il celibato dei sacerdoti è in armonia con la
vocazione alla sequela apostolica di Cristo, dall’altro alla disponibilità ad
assumere un servizio pastorale,
cioè sono congiunti i due aspetti: la chiamata dei dodici (“stare con Cristo”)
e la partecipazione alla sua missione di Pastore Supremo.
La sequela dei dodici resta dunque come
lo sfondo generale, cui riferirsi per dare configurazione sempre più precisa al
celibato stesso:
Si autem Caelibatus in spiritu Evangelii,
in oratione et vigilantia, cum paupertate, laetitia, honorum despectu, amore fraterno vivitur, signum est quod diu
latere non potest, sed efficaciter Christum hominibus etiam nostrae aetatis
proclamat nam verba hodie vix aestimantur, sed vitae testimonium
radicalismus evangelicum ostendens, virtutem habet trahendi.
Il celibato sacerdotale viene dunque
presentato in una prospettiva storico-missionaria, in cui la salvezza è una
realtà storica che trova nel celibato sacerdotale un signum che la
rivela agli uomini come imminente.
Nel § b si adducono varie motivazioni, di
per sé già note, che, convergendo, confermano l’opportunità del celibato
sacerdotale:
–
il
sacerdote celibe fa capire la presenza di Dio assoluto,
–
richiama
gli uomini alla profondità dell’amore fedele e manifesta il significato supremo
della vita,
–
si associa
in modo speciale a Cristo,
–
manifesta
in anticipo la libertà dei figli di Dio,
–
mostra più
chiaramente la fecondità spirituale della nuova legge,
–
riceve una
forza maggiore per edificare la Chiesa,
–
più
facilmente può servire Dio con cuore indiviso e spendersi per le pecorelle.
Il § d presentando le condizioni che
favoriscono il celibato sacerdotale, cioè la vita interiore, annota:
«aequilibrium humanum per ordinatam
insertionem in compaginem socialium relationum; fraterna cum aliis
presbyteris et cum Episcopo consuetudo et conversatio, pastoralibus structuris
ad hoc melius aptatis, adiuvante quoque comunitate christifidelium».
(Si potrebbe notare che questa
prospettiva completa quella escatologica del § b: omnem contingentem valorem
humanum superans, sacerdos caelebs Christo ut bono ultimo et absoluto speciali
modo se consociat).
In tale schema sono dunque presenti, a
ben vedere, tre tipi di relazioni:
1) dei dodici con Cristo (esperienza
modello),
2) del sacerdote con Cristo (vocazione
sacerdotale),
3) dei sacerdoti con gli altri sacerdoti
e col Vescovo (condizione sacerdotale concreta).
I § c e § e, ma specialmente il § e illustrano
la necessità di conservare il celibato sacerdotale nella Chiesa Latina:
Lex caelibatus sacerdotalis in Ecclesia
Latina vigens integre servari debet.
La singolarità inusitata, di questo
Documento Pontificio-Sinodale, sta nel fatto che il papa Paolo VI ordinò
personalmente, a perpetua memoria dell’evento, che nel testo pubblicato
apparissero esplicitamente gli esiti della votazione; la precedente
dichiarazione del 1971 con la seguente votazione: Exitus suffragationis:
placet 168, non placet 10, placet iuxta modum 21, abstentiones 3.
Inoltre furono messe in votazione le
seguenti due espressioni fra loro contrapposte:
“Formula A: salvo semper Summi
Pontificis iure, ordinario presbyteralis virorum matrimonio iunctorum non
admittitur ne in casibus quidem particularibus”.
“Formula B: Solius Summi Pontificis
est, in casibus particularibus, ob necessitates pastorales, attento bono
universalis Ecclesiae, concedere ordinationem presbyteralem virorum matrimonio
iunctorum provectioris tamen aetatis et probatae vitae”.
L’esito della votazione sinodale su
queste due formule fu la seguente: «Prima formula, seu A, obtinuit 107
suffragia, altera, seu B, 87. Abstentiones fuerunt 2, et 2 pariter vota nulla».
In conclusione circa il documento del
Sinodo 1971 si potrebbe dire che l’istanza culturale generale più attenta alla
dimensione storica dell’uomo, ha indotto il Sinodo ad un approfondimento del
dato tradizionale, recuperando aspetti importanti della complessa esperienza
evangelica.
Il Celibato dei sacerdoti è emerso pertanto
come un rapporto speciale col Signore, caratterizzato dalla rinuncia al
matrimonio e da incondizionato zelo per le anime (“il non poter essere
altrimenti”), ma, con non minore vigore, dall’assunzione di rapporti fraterni
intensi con gli altri preti e col Vescovo, giacché sono indicati come
condizioni essenziali perché il Celibato sacerdotale possa essere segno.
“Orientamenti educativi per la formazione
al Celibato Sacerdotale” è il titolo del documento che la Congregazione per
l’Educazione, per volontà del Papa Paolo VI, pubblicò l’11 aprile del 1974.
Per brevità si rimanda direttamente alla
sua lettura.
Sinodo del 1990 sulla formazione
sacerdotale (“De sacerdotibus formandis in hodiernis adiunctis” ed
Esortazione Apostolica “Pastores dabo vobis” del 1992 del Papa Giovanni
Paolo II.
Il tema del celibato sacerdotale si
poteva dire già definitivamente risolto con gli eventi relativi al Sinodo 1971
(ampia consultazione di base, dibattito e votazioni e decisione finale di Paolo
VI), che dava forma conclusiva agli orientamenti del Concilio e della successiva
Enciclica Sacerdotalis Caelibatus.
Ed infatti, di per sé, il Sinodo 1990
avrebbe dovuto trattare della formazione sacerdotale. Tuttavia durante la
previa consultazione per questo Sinodo, alcuni gruppi ecclesiali vollero
risollevare la questione. (Benché non sia segno di sana prassi interna il
fatto di non accettare mai ciò che la maggioranza approva ed il Papa promulga e
di volerla ricominciare sempre da capo ostinatamente).
Inoltre i media controllati dai
gruppi “laicisti”, nel loro affanno di ridimensionamento e di secolarizzazione
della Chiesa, avevano da tempo orchestrato campagne per l’abolizione del
Celibato Sacerdotale, non risparmiando neppure argomenti scandalistici, appositamente
esaltati e gonfiati a danno di tante splendide ed umili figure sacerdotali.
Il Sinodo perciò colse opportunamente la
occasione per riprendere e riaffermare il concetto: come è noto solamente un
Vescovo brasiliano si espresse nel Sinodo in favore della ordinazione di
uomini sposati, mentre un Cardinale brasiliano, cui un mensile aveva attribuito
una espressione possibilista, volle smentire quella interpretazione di fronte a
tutto il Sinodo.
La Pastores
dabo vobis, al n. 29, dice testualmente:
«In questa luce si possono più facilmente
comprendere ed apprezzare i motivi della scelta plurisecolare che la Chiesa di
Occidente ha fatto e che ha mantenuto, nonostante tutte le difficoltà e le
obiezioni sollevate lungo i secoli, di conferire l’ordine presbiterale solo a
uomini che diano prova di essere chiamati da Dio al dono della castità nel
celibato assoluto e perpetuo. I Padri sinodali hanno espresso con chiarezza e
con forza il loro pensiero con un’importante Proposizione, che merita di
essere integralmente e letteralmente riferita:
Ferma restante la disciplina delle Chiese
orientali, il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale
è un carisma, ricorda ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile
di Dio per la Chiesa e rappresenta un valore profetico per il mondo attuale.
Questo Sinodo nuovamente e con forza afferma quanto la Chiesa Latina e
alcuni riti orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a
quegli uomini che hanno ricevuto il dono della vocazione nella castità celibe
(senza pregiudizio della tradizione di alcune Chiese orientali e dei casi
particolari di clero uxorato proveniente da conversioni al cattolicesimo...). Il
sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà
della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e
perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il
Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella sua piena
ricchezza biblica, teologica e spirituale».
A questo ultimo proposito (“presentato e
spiegato”) va aggiunto che la stessa Pastores dabo vobis sotto il titolo
più generale “La natura e la missione del sacerdozio ministeriale”, al n. 14
presenta il Paragrafo dal titolo “Gesù affida ai Dodici la sua missione”, che
conclude una esposizione evangelica della sequela e della missione, con la
seguente espressione:
«Segno e presupposto dell’autenticità e
della fecondità di questa missione è l’unità degli apostoli con Gesù e, in Lui,
tra di loro e col Padre, come testimonia la preghiera sacerdotale del Signore,
sintesi della sua missione (cf. Gv 17, 20-23)».
Per ultimo: Il “Direttorio per il
Ministero e la vita dei presbiteri”, della Congregazione per il Clero (Giovedì
Santo 1994).
Mentre per brevità si rimanda alla
lettura diretta di tale documento, occorre annotare che al n. 57 sotto il
titolo “Il celibato sacerdotale – Ferma volontà della Chiesa” si annota:
«Convinta delle profonde motivazioni
teologiche e pastorali che sostengono il rapporto tra celibato e sacerdozio e
illuminata dalla testimonianza che ne conferma anche oggi la validità
spirituale ed evangelica... la Chiesa ha ribadito nel Concilio Vaticano II e
ripetutamente nel successivo Magistero Pontificio la ferma volontà di mantenere
la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione
sacerdotale nel rito latino». «Il celibato, infatti è un dono che la Chiesa ha
ricevuto e vuole custodire, convinta che esso è un bene per sé stessa e
per il mondo».
Mentre al n. 59 si annota:
«L’esempio è il Signore stesso il quale,
andando contro quella che si può considerare la cultura dominante del suo
tempo, ha scelto liberamente di vivere celibe. Alla sua sequela i discepoli
hanno lasciato tutto per compiere la missione loro affidata (cfr. Lc 18,
28-30).
Per tale motivo la Chiesa, fin dai tempi
apostolici, ha voluto conservare il dono della continenza perpetua dei
chierici e si è orientata a scegliere i candidati all’Ordine sacro tra i celibi
(cfr. Ts 2,15; 1 Cor 7,5; 9,5; 1 Tm 3,2.12; 5,9; Tt
1, 7, 8)».
Nel contesto del Capitolo dal titolo
“Comunione Sacerdotale” (nn. 20-33), al n. 25 poi si precisa:
«In forza del sacramento dell’Ordine
ciascun sacerdote è unito agli altri membri del presbiterio da particolari
vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità, (Pastores dabo
vobis, 17). Egli, infatti, è inserito nell’Ordo Presbyterorum
costituendo quell’unità che può definirsi una vera famiglia nella quale i
legami non vengono dalla carne o dal sangue ma dalla grazia dell’Ordine».
Conclusione circa il Magistero
La riflessione del Magistero sul Celibato
ha permesso di precisarne uno statuto più storicamente determinato, sotto
l’incalzare delle istanze antropologiche contemporanee, di una concezione della
fede cristiana più attenta alla storia, ed infine delle difficoltà concrete
emergenti.
Per “celibato sacerdotale” si intende
ormai una situazione complessa, determinata da un profondo amore al Signore
Gesù, dalla rinuncia all’esperienza matrimoniale, dall’assunzione di legami di
fraternità e di amicizia, che vorrebbero trovare la loro realizzazione in
particolare nella vita comune, e infine dall’impegno generoso per la comunità
dei fedeli.
Se si volesse fare un bilancio si potrebbe
dire che si è sbloccata la riflessione sul celibato sacerdotale, mediante il
passaggio da una visione tendenzialmente essenzialista e riduttiva ad una
visione più storicamente connotata ed evangelica.
La riflessione del Magistero ha
sottolineato nella condizione del prete celibe – nella prospettiva
dell’esperienza evangelica – il tema della relazione umana, come ostensorio
della comunione con Cristo e della Comunione Trinitaria.
È, del resto, abbastanza facile convenire
che coloro che seguivano Gesù nel suo ministero terreno conducevano una certa
vita comune con Lui.
Il Magistero, mettendo in luce come
questo determinato contesto comunitario è stato il primo alveo dell’esperienza
celibataria, che il Signore Gesù ha proposto ai ministri del suo vangelo, pone
tuttavia alla riflessione cristiana un compito: quello di approfondire il senso
di questa connessione.
Comunque gli ulteriori elementi nuovi che
il Magistero ha introdotto nel quadro del celibato sacerdotale potrebbero
essere rintracciati come segue: cfr. Damiano
Marzotto, Celibato Sacerdotale
e Celibato di Gesù, Ed. Piemme 1987.
Due corollari:
Primo corollario
La rispondenza dei nuovi orientamenti con
le istanze antropologiche contemporanee. La cultura moderna ha contestato in
radice il celibato sacerdotale in quanto disumano, perché negatore di una
dimensione fondamentale della persona come l’intersoggetività.
Il Magistero della Chiesa ha voluto
invece ripensare il celibato sacerdotale, mettendone in luce anche gli elementi
di intersoggettività: la relazione con il Vescovo, la fraternità sacerdotale e
possibilmente la vita comune; il Magistero però non ha tralasciato di
richiamare continuamente anche le altre dimensioni: di consacrazione sempre
più intima al Signore Gesù e di donazione sempre più libera ai fedeli.
La sollecitazione ad un ripensamento più
ampio del quadro concettuale relativo al celibato sacerdotale ed in particolare
al suo significato apostolico.
L’istanza della vita comune per il clero
non sarebbe l’assunzione surrettizia di un’istituzione tipicamente monacale,
anche se storicamente questo può essersi verificato, ma sarebbe piuttosto il
risvolto necessario della scelta del celibato evangelico, in prospettiva apostolica.
Se ciò non è stato chiaro del tutto in
passato, può essere avvenuto perché la coscienza che si aveva del celibato
sacerdotale non si era sufficientemente confrontata con la forma iniziale
della vocazione celibataria sacerdotale, ma dipendeva ancora troppo da
mentalità esterne al dato cristiano.
Occorrerebbe però ricordare come nei
primi secoli il ministero presbiterale era vissuto come realtà collegiale, il
che non poteva che favorire il sorgere di una vita comune, attorno al vescovo,
di presbiteri non sposati (S. Agostino ed altri).
Tale collegialità venne poi sempre più
disgregandosi, dando luogo a forme di vita sacerdotale completamente isolate;
si comprende allora perché il celibato fu approfondito soprattutto a partire da
questa nuova situazione (sottolineatura della motivazione mistica; della
motivazione di servizio dei fedeli).
Oggi dunque, a partire dal Concilio
Vaticano II si va riscoprendo la dimensione collegiale del presbiterio.
Ciò dovrebbe portare anche ad una
riconsiderazione dello stile di vita dei preti (vita in comune) e quindi del
senso del celibato, in questa dimensione più comunitaria, che il Magistero ha
indicato.
I sacerdoti che rinunciano ad una
relazione coniugale, lo fanno per seguire il Signore Gesù all’interno di una
comunità apostolica, ove «possono realizzare quelle profonde e benefiche
relazioni interpersonali» (orientamenti 14), che consentono loro innanzitutto
di aprirsi veramente e profondamente al mistero dell’amore del Signore Gesù ed
insieme di essere segno trinitario tipico di quella comunione fraterna, che
Cristo vuole suscitare nel mondo e che nel rapporto appunto di Cristo col Padre
ha il suo fondamento ed il suo modello.
Nello stesso tempo la partecipazione alla
comunione apostolica alimenta in loro quel desiderio di donarsi sempre più al
servizio dei fratelli e soprattutto educa in loro atteggiamenti giusti di
rispetto e di comprensione, di attenzione e di condivisione, che deve
caratterizzare la carità pastorale.
Emerge allora sempre più chiaramente il
rapporto celibato sacerdozio, nel senso che il celibato sacerdotale è appunto
al servizio della missione apostolica; la vita di comunione fraterna, cui esso
deve dare luogo, è fondamentale fermento e segno trinitario per i fedeli ed
insieme stimolo ed apprendistato alla donazione e ad una capacità di relazione
profonda e personale anche nell’apostolato.
Secondo corollario
Emerge anche il limite di quella
posizione che vorrebbe valorizzare il celibato del sacerdote, in quanto lo
collega al ruolo di sposo, che ogni sacerdote avrebbe nei confronti della
Chiesa: la comunità verrebbe a prendere il ruolo della sposa in quella
dinamica dialogale io-tu, che è necessaria all’equilibrio di ogni persona.
In effetti nel nostro tempo si vive il
rilancio opportuno del tema sponsale e si ha perciò la tendenza naturale e “di
moda”, di predicarlo di ogni altra realtà, magari anche con fondamento.
Tuttavia le tendenze “del momento”
possono avere anche una valenza alquanto “forzata”, giacché un’analogia ed un
analogato sembrano tanto più opportuni quanto più realizzano in sé visibilmente
il segno che intendono significare.
Sull’enfasi di tale analogia sponsale
sarebbe perciò il caso forse di non premere molto, per coloro che, come i
sacerdoti celibi, nella loro vita concreta non conoscono, non realizzano e
perciò non visualizzano il segno matrimoniale.
LA FERMEZZA DELLA CHIESA*
Il Santo Padre Giovanni Paolo II nel suo
recente volume autobiografico Alzatevi, andiamo! ha fatto riferimento
esplicito al celibato sacerdotale. Ci permettiamo di riportare qui di seguito
le parole del Papa:
«(...) bisogna pensare, in modo
particolare, (...) al tema del celibato sacerdotale ed episcopale. Il celibato,
infatti, dà la piena possibilità di realizzare questo tipo di paternità: una
paternità casta, consacrata totalmente a Cristo e alla sua vergine Madre. Il
sacerdote, libero dalla sollecitudine personale per la famiglia, può dedicarsi
con tutto il cuore alla missione pastorale. Si capisce pertanto la fermezza con
cui la Chiesa di rito latino ha difeso la tradizione del celibato per i suoi
sacerdoti, resistendo alle pressioni che nel corso della storia si sono, di
tempo in tempo, manifestate. È una tradizione certo esigente, ma che si è
rivelata singolarmente feconda di frutti spirituali. È tuttavia motivo di gioia
constatare che anche il sacerdozio uxorato della Chiesa cattolica orientale ha
dato ottime prove di zelo pastorale. In particolare, nella lotta contro il
comunismo, i sacerdoti orientali sposati non sono stati meno eroici dei celibi.
Come osservò una volta il cardinale Josyf Slipyj, nei confronti dei comunisti
essi mostrarono lo stesso coraggio dei loro colleghi celibi.
Occorre poi sottolineare che, a favore
del celibato, ci sono profonde ragioni teologiche. L’enciclica Sacerdotalis
caelibatus, pubblicata nel 1967 dal mio venerato predecessore Paolo VI, le
sintetizza nel modo seguente (cfr. nn. 19-34):
–
Vi è
innanzitutto una motivazione cristologica: costituito Mediatore fra il Padre e il
genere umano, Cristo è rimasto celibe per dedicarsi totalmente al servizio di
Dio e degli uomini. Chi ha la sorte di partecipare alla dignità e alla missione
di Cristo è chiamato a condividerne anche questa donazione totale.
–
Vi è poi
una motivazione ecclesiologica: Cristo ha amato la Chiesa, offrendo tutto se
stesso per lei al fine di farsene una Sposa gloriosa, santa e immacolata. Con
la scelta celibataria il sacro ministro fa proprio questo amore verginale di
Cristo per la Chiesa, traendone soprannaturale vigore di fecondità spirituale.
–
Vi è,
infine, una motivazione escatologica: alla risurrezione dei morti, ha detto
Gesù, «non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli di Dio in cielo»
(Mt 22, 30). Il celibato del sacerdote annuncia l’avvento degli ultimi
tempi della salvezza e anticipa in qualche modo la consumazione del Regno,
affermandone i valori supremi che un giorno rifulgeranno in tutti i figli di
Dio.
Nell’intento di contestare il celibato, a
volte si trae argomento dalla solitudine del sacerdote, dalla solitudine del
vescovo. Sulla base della mia esperienza, respingo decisamente tale argomento.
Personalmente non mi sono mai sentito solo. Oltre alla consapevolezza della
vicinanza del Signore, anche umanamente ho sempre avuto intorno a me numerose
persone, ho coltivato molti contatti cordiali con i sacerdoti – prefetti,
parroci, vicari parrocchiali – e con laici di ogni categoria».
“AMMIRO LA FRATERNITÀ SACERDOTALE”*
Proprio a Nowa Huta si svolse una dura
lotta per la costruzione della chiesa. Quel quartiere di molte migliaia di
residenti era abitato per la maggior parte da lavoratori di una grande
industria metallurgica, giunti da tutta la Polonia. Secondo il progetto delle
autorità, Nowa Huta doveva essere un quartiere esemplarmente “socialista”, cioè
privo di qualunque legame con la Chiesa. Tuttavia non era possibile dimenticare
che quella gente, arrivata lì in cerca di lavoro, non intendeva rinunciare alle
sue radici cattoliche.
La lotta cominciò nel grande quartiere
residenziale di Bieñczyce. Inizialmente, dopo le prime pressioni, le autorità
comuniste concessero il permesso di costruire la chiesa e assegnarono anche il
terreno. In esso la gente piantò subito una croce. Successivamente, però, il
permesso, che era stato accordato ai tempi dell’Arcivescovo Baziak, fu ritirato
e le autorità disposero che la croce venisse rimossa. Ma la gente si oppose con
decisione. Ne seguì addirittura uno scontro con la polizia, con vittime,
feriti. Il sindaco della città ci chiedeva di “calmare la gente”. Fu uno dei
primi atti della lunga lotta per la libertà e la dignità di quella popolazione
che la sorte aveva portato nella parte nuova di Cracovia.
Alla fine la battaglia fu vinta, ma a
prezzo di una logorante “guerra dei nervi”. Condussi le trattative con le
autorità, soprattutto con il capo dell’Ufficio provinciale per le questioni
delle confessioni, un uomo garbato durante i colloqui, ma particolarmente duro
e intransigente nelle decisioni, che lasciavano trasparire un animo malevolo e
prevenuto.
Il parroco don Józef Gorzelany si assunse
l’impegno della costruzione della chiesa e lo condusse a buon fine. Una saggia
mossa pastorale fu l’invito da lui rivolto ai parrocchiani di portare ciascuno
una pietra per la costruzione delle fondamenta e dei muri. Così tutti si
sentirono coinvolti personalmente nell’edificazione del nuovo tempio.
Una situazione analoga si verificò nel
centro pastorale di Mistrzejowice. Protagonista della vicenda fu l’eroico
sacerdote don Józef Kurzeja, il quale venne da me e si offrì spontaneamente di
andare a svolgere il suo ministero in quel quartiere. Là, in una piccola
edicola, egli si propose di iniziare la catechesi nella speranza di potervi
creare a poco a poco una nuova parrocchia. Così accadde, ma don Józef pagò con
la vita le lotte per la chiesa di Mistrzejowice. Vessato dalle autorità
comuniste, morì d’infarto a trentanove anni.
Nella sua lotta, don Józef fu aiutato da
don Miko»aj Kuczkowski, che era nato a Wadowice, come me. Lo ricordo quando era
ancora un avvocato ed era fidanzato con Nastka, una bella ragazza presidente
dell’Associazione cattolici giovani. Quando questa morì, egli decise di
diventare sacerdote. Nel 1939 entrò in seminario e intraprese gli studi
filosofici e teologici, che completò nel 1945. I miei rapporti con lui erano
molto stretti, e anche lui mi voleva bene. Il suo intento era di “fare di me
qualcuno”, come si suol dire. Dopo la mia consacrazione episcopale provvide
personalmente al mio trasloco nel palazzo vescovile di Cracovia, in via
Franciszka½ska 3. Ebbi ripetutamente modo di constatare quanto bene egli
volesse a don Józef Kurzeja, il primo parroco di Mistrzejowice, un uomo
semplice e buono (una delle sue sorelle è suora presso le Ancelle del Sacro
Cuore). Come ho detto, don Kuczkowski aiutò molto don Józef nella sua attività
pastorale e, quando questo morì, si dimise dall’incarico di cancelliere della
curia per prendere il suo posto nella parrocchia di Mistrzejowice. Adesso entrambi
sono sepolti nella cripta della chiesa che hanno costruito.
Di loro potrei raccontare molte cose.
Essi restano per me un esempio eloquente di fratellanza sacerdotale che, come
vescovo, ho osservato e incoraggiato con ammirazione: «Un amico fedele è una
protezione potente, chi lo trova trova un tesoro» (Sir 6,14). L’amicizia
autentica ha in Cristo la sua sorgente: «Vi ho chiamato amici...» (Gv 15,15).
ALTRI
SCRITTI
DISCERNIMENTO DI UNA
VOCAZIONE SACERDOTALE*
«Dopo ciò salì sulla barca con i suoi
discepoli e andò dall’altra parte del mare in una regione chiamata Dalmanùta» (Mc 8, 10)
Affrontiamo il problema della vocazione
sacerdotale o, per meglio dire, del buon discernimento di una vocazione
sacerdotale. Quali criteri si potrebbero avere e seguire per capire se si ha o
non si ha la vocazione sacerdotale? Questo tema del discernimento è successivo
a quello superato sul “come il Signore Gesù abbia chiamato e costituito i
dodici”. Ricordate quella “tessera” breve, che era l’“atto di fede minimo” del
grande sant’Atanasio?: «Nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito
Santo». Così pure ricordate la “tessera” minima – o sintesi brevissima – del
sacerdozio, che sarebbe l’espressione evangelica: «Ne costituì Dodici, – che stessero
con lui, – e per mandarli a predicare» (Mc 3, 14). Questa frase,
importantissima, contiene tre elementi (1° «costituì i dodici»; 2° «perché
stessero con lui»; 3° «per mandarli a predicare») che sono in effetti i tre
fattori fondamentali minimi, comuni ed essenziali della vocazione sacerdotale.
1. I criteri di osservazione
Per capire se un giovane seminarista ha
la vocazione sacerdotale, alcuni utilizzano criteri di osservazione come i
seguenti: osservare se egli è pio, se assolve volentieri ai suoi doveri
religiosi e alla preghiera; se è umile, non si vanta, non è orgoglioso e
arrogante; se riesce a convivere bene con gli altri compagni; se egli cerca di
essere santo e se ha fede; se è obbediente e se può vincere le tentazioni
contro la castità; se è studioso e capace, se è preciso e puntuale nei suoi
impegni e doveri, se ha zelo apostolico e missionario ...
Se uno possiede – più o meno – queste
caratteristiche o altre simili a queste, secondo alcuni significa che ha un
chiaro segno di vocazione sacerdotale. Si può, tuttavia, far presente che
questi criteri sono alquanto antichi o, come si dice oggi, “datati”; cosicché
alcuni li hanno “aggiornati” con operazioni e procedimenti un po’ complessi e –
in certi casi – anche singolari: cioè, vi hanno aggiunto e mescolato anche
studi, indagini, test e terapie psicologiche (adesso da qualche parte si sta
cercando, infatti, di suscitare questa moda della psicologia e del suo uso
specifico in vari campi)...
2. L’uso della psicologia
Mi piace parlare di quest’uso della
psicologia, perché quando studiavo teologia spirituale nell’Università
Gregoriana di Roma ho avuto, tra gli altri maestri di psicologia, il noto padre
gesuita Georges Cruchon (Psycologia Pastoralis I/II). I docenti che
avevamo allora, alla Gregoriana, ci trasmettevano un sano “senso critico” nei
riguardi dell’uso della psicologia, perché alcuni, fin da allora, tendono a
convertire la psicologia in una specie di “mito”.
In effetti, la psicologia non è una
scienza esatta, come a esempio sarebbe la matematica (la matematica sì è una
“scienza esatta” e anche ho avuto modo di studiare molto quando mi preparavo al
mio dottorato di ingegneria nell’università di Bologna), la psicologia è invece
una scienza sperimentale. Cioè, per le scienze sperimentali, per fare delle
valutazioni, si prendono in considerazione vari e distinti casi e parametri e,
studiando poi generalmente una media di come essi risultino in base a certi
criteri di selezione e di orientamento, si giunge a formulare delle ipotesi e
anche si arriva a delle proposte pratiche od operative.
In effetti nella storia della psicologia
sono esistite diverse scuole di pensiero, non di rado in contraddizione e anche
in contrapposizione l’una con l’altra, anche su punti, prospettive e
conclusioni importanti. Dunque bisogna essere cauti e non avere fretta e
fiducia “assoluta” nelle conclusioni di una scuola, piuttosto che di un’altra:
non di rado ciò che in psicologia era apparso sicuro e definitivo oggi, in
breve tempo tramonta e viene rovesciato.
Vi farei un esempio. Se prendete in
considerazione diversi elementi (parametri di valore) relativi a una persona:
questa possiede un tanto di affettività, un tanto di memoria, un tanto di
volontà, un tanto di intelligenza, un tanto di aggressività, eccetera, fino ad
arrivare a 25 o 30 parametri, o ancora di più. La media che gli studiosi
propongono sperimentalmente potrebbe essere per esempio 5 per un elemento, 7
per un altro elemento, 19 per un altro e 12 per un altro ancora. Se poi tu vai
a vedere una persona concreta può essere – che questa persona concreta risulti
nella media per un elemento e per un altro, ma che non risulti proprio nella
media per un altro elemento e un altro ancora.
Dio, in verità, è un musicista e
certamente gli piace la armonia del concerto che si ottiene variando le note e
così dunque sembra proprio che Egli proceda quando crea le persone: a uno Egli
dona un po’ più di affettività, all’altro un po’ più di memoria, a un terzo un
più o meno di volontà, a un altro ancora dà meno aggressività. Dunque, per quel
che riguarda la media sperimentale, tutti ci troviamo – del tutto normalmente –
un po’ più in alto o un po’ più in basso della media di ogni singolo elemento.
Quindi si potrebbe quasi dire – per assurdo – che, per uno psicologo, una
persona “normale” (cioè una persona che stia nella media esatta di tutti i
parametri sperimentali fissati dalle varie scuole psicologiche), di fatto, non
esiste.
3. Abusi gravi nell’uso della psicologia
Ci possono essere – e di fatto ci sono –
degli abusi, anche gravissimi, nell’uso della psicologia.
Supponiamo che un seminarista venga a
confessarsi e mi dica: «Guardi, padre, ho detto una piccola bugia e, per la
tranquillità della mia coscienza, prima della Santa Messa, vorrei
riconciliarmi». Una piccola bugia non è un grande peccato. Se dopo quella
confessione, incontrassi casualmente il Rettore e gli rivelassi: «Pensi che il
tal dei tali è venuto a confessarsi e mi ha detto...», incorrerei immediatamente
in una serie di pene che la Chiesa a buona ragione dovrebbe infliggermi:
rimarrei, cioè, sospeso e impedito, per avere violato il segreto della persona,
il “foro della coscienza”, il segreto sacramentale... Così “ferocemente”, ma
giustamente, la Chiesa tutela e difende, ha sempre tutelato e difeso, la
coscienza delle persone. E si tenga presente il caso di san Giovanni Nepomuceno
che preferì farsi gettare nella Moldava ed affogare nel tumultuoso e freddo
fiume di Praga, piuttosto che rivelare un segreto di coscienza.
Pio XII, ricevendo un gruppo di
penalisti, di medici e psicologi, il 3 ottobre 1953, tenne loro un celebre
discorso sulla sacralità e inviolabilità assoluta della coscienza umana. Di
seguito il passaggio più incisivo: «Sulla soglia della coscienza Dio stesso si
arresta e non entra se non gli viene aperta la porta e se non viene invitato
liberamente. La coscienza è dunque un santuario, sulla cui soglia tutti devono
fermarsi; tutti, anche il padre e la madre, quando si tratti di un bambino». Anche
la coscienza di un bambino va rispettata! La Chiesa, del resto, ha formulato
un assioma chiarissimo: «De internis neque Ecclesia», neppure la Chiesa
ha alcun diritto a violare o manipolare la coscienza.
Vorrei, perciò, infondere nel vostro
animo un sano senso critico nei confronti di un uso affrettato della
psicologia, affinché possiate respingerne fermamente la mitologizzazione e gli
abusi, e possiate utilizzarne in modo conveniente e appropriato gli aspetti
positivi. In proposito: la modestia autocritica della presentazione di questa
materia e dello stesso psicologo potrebbe essere considerata da voi una buona
raccomandazione; mentre la volontà imperiale di imporsi e di imporre criteri,
metodi e conclusioni è generalmente un segno prossimo e quasi sempre sicuro di
inaffidabilità.
Concretamente mi sembrerebbe che si
potrebbe considerare un criterio di uso sano dei servizi di uno psicologo, da
parte di una istituzione, come un seminario o un noviziato, il ricorrervi con
procedimento analogo a quello messo in atto nella necessità dei servizi
offerti, per esempio, da un dentista. Supponiamo che il seminario contatti uno
specialista, e poi avverta che chiunque fra gli alunni o superiori ne abbia
necessità, potrà farsi curare dal dentista tale che si trova nel tal posto alla
tale ora; e che, poi, ci penserà il seminario a saldare la spesa. Circa l’uso
dei servizi di uno psicologo si dovrebbe procedere in una maniera ugualmente
semplice, funzionale e responsabile. Cioè si potrebbe suggerire i nomi di due o
tre psicologi bravi, di buon orientamento e cattolici; e offrire poi ai
seminaristi la possibilità di conversare con uno di loro su qualche argomento
delicato, consigliati a ciò, eventualmente, non già dal superiore ma piuttosto
dal padre spirituale, nel caso lui lo considerasse opportuno. Ma questa
consulenza dovrebbe essere in ogni caso una consulenza strettamente privata,
coperta dalla massima riservatezza, e in nessun modo – neanche indiretto –
essere riferita ai superiori del seminario. Inoltre, non si potranno fare in
alcun modo delle schede, e vieppiù trasmetterle (o trasmetterne il contenuto)
ai superiori: il rispetto della coscienza dovrebbe essere assoluto.
Le uniche informazioni che i superiori di
una istituzione potrebbero legittimamente ricevere da uno psicologo sarebbero
quelle “attitudinarie”, “tecniche”, esterne, ottenibili in base ai test
specifici “non-proiettivi”. Esempio pratico: se una industria automobilistica
dovesse destinare degli operai a tre diversi settori tecnici potrebbe fare prove
attitudinarie e tecniche, ma mai proporre dei test relativi alla persona o alla
coscienza...
4. Come capire una vocazione autentica?
Questa è la domanda giusta. Nel caso di
un superiore di un seminario che ha sotto osservazione un alunno per cinque,
sei, sette anni o più, e alla fine non sa dire – assieme agli altri
responsabili –, in base alla osservazione quotidiana dei moltissimi parametri e
punti di osservazione del “foro esterno alla coscienza”, se quell’alunno possa
essere ammesso o meno alla ordinazione sacerdotale, credo che la cosa da fare
sia di cambiare immediatamente quel superiore.
Com’è possibile, infatti, che un
superiore abbia vissuto per anni, quotidianamente, con una persona, e non sia
in grado di valutare? A volte, forse, alcuni superiori – nella illusione un po’
puerile di semplificarsi la vita e i doveri – sono tentati dal costruirsi una
specie di “gabbia con dei docili porcellini d’India”, anziché un seminario con
persone libere e dotate di una coscienza inviolabile.
La libertà, e precipuamente la libertà di
coscienza, come già sottolineato (ma come non sarà mai sottolineato abbastanza)
è il dono più prezioso di Dio all’uomo, è l’immagine stessa di lui stampata in
noi, che ci conduce all’atto d’Amore; e il suo scopo è l’autocompimento della
persona in un progetto di identità e di fedeltà a Dio: là, infatti, nella
libertà, si scopre e si realizza la vocazione. In effetti, nel piano di Dio,
che ci ha creati simili a lui, il regime di libertà rimarrà per sempre; lo
vediamo paradossalmente bene anche nel caso estremo negativo, quello di Giuda,
che era stato chiamato a una splendida vocazione e rimase libero, fino alla
fine, di poter essere fedele o di tradire la fedeltà al suo grande Amico.
5. Vocazione sacerdotale o “determinismi
psichici”?
A tutti i criteri antichi che prima
abbiamo enumerati per riconoscere la vocazione sacerdotale, nei tempi moderni è
stato aggiunto, in vari e differenti modi, l’uso di tecniche e terapie
psicologiche. Alcuni rettori e responsabili, infatti, sembrano dire molto
semplicisticamente: «Sottoponiamo il candidato a una serie di esami
psicologici, e lo psicologo ci potrà dire se egli ha la vocazione sacerdotale
oppure no». Così, con un’apparenza di modernità, essi tendono a liberarsi, in
modo puerile, ma grave, del serio problema del “discernimento della vocazione
sacerdotale”.
In realtà, questo “signor psicologo” non
sa nulla a proposito della vocazione del “tal dei tali” ed egli non può né
ricevere delegazioni, né fare rivelazioni relative al soggetto da lui
esaminato: il ruolo stesso del buon psicologo è delicatissimo e va esso stesso
protetto e tutelato dalla rozzezza di certi superiori, che cercano piuttosto di
liberare facilmente la loro coscienza, delegando un ruolo che è solo a loro
proprio.
La vocazione è qualcosa di molto
profondo, serio e delicato, un “mistero” che riguarda la persona umana e il suo
Dio, a cui la persona può essere riannodata solo da un atto libero, unico tipo
di atto – per quanto fragile nelle circostanze – degno della persona e di Dio,
allo stesso tempo. Come è possibile che ci immaginiamo una specie di
determinismo o pre-determinismo universale, in cui tutto verrà saputo e
regolato da alcuni test e terapie più o meno sofisticati?
Seguitemi in questo periodo che ho
suddiviso in quattro punti: (1) il complesso sistema dei criteri antichi di
cui abbiamo riferito in precedenza, (2) con l’aggiunta moderna dell’uso di
metodi psicologici a volte male utilizzati, (3) si usa non di rado oggi più per
la pura e semplice tranquillità dei superiori che per l’obiettività del
risultato, (4) per dichiarare la realtà e la oggettività di una vocazione
sacerdotale.
Questo per dire che molti criteri o
complessi di criteri, oggi utilizzati, si rivelano inadeguati e insufficienti,
per valutare e capire se esiste la vocazione sacerdotale. Non adeguati,
soprattutto se li si adottano presi singolarmente, come criterio unico, in sé
stesso sufficiente, quando servirebbe perlomeno una visione d’insieme, che
tenesse da conto, magari del parere dello psicologo, ma anche della profondità
spirituale di un candidato al sacerdozio...
Esistono parametri o valutazioni utili,
ma non decisive, per capire se uno ha o non ha la vocazione sacerdotale.
Cerchiamo di vedere perché non è un criterio adeguato e sufficiente. Secondo
questo criterio o parametro di valutazione, se tu, per esempio, non sei molto
pio, se non sei tanto umile, se non sei tanto santo, se non hai molta fede, se
non sai ubbidire molto, invece di accedere al sacramento dell’ordine
sacerdotale, accedi piuttosto a quello del matrimonio. Se così fosse, verrebbe
da pensare che non è questa una bella considerazione per il sacramento del
matrimonio. Sembrerebbe indicare: i “buoni” per il sacerdozio e quelli un po’
“meno buoni” per il matrimonio. Paradossalmente finiremmo per avere un
sacramento di prima classe per i “buoni” e un sacramento di “seconda classe”
per i “meno buoni”: e questo sembra inconveniente e anche inaccettabile.
Se noi consideriamo di pari dignità i due
stati di vita e i due sacramenti corrispettivi, il sacerdozio e il matrimonio,
non possiamo procedere con criteri orientativi che finiscono con il
sottovalutare e deprimere l’uno rispetto all’altro.
Siamo così giunti, almeno mi pare, a una
valutazione o conclusione, e cioè che quei criteri prima descritti sopra,
possono essere utili, ma non sono sufficienti e adeguati per discernere una
vocazione sacerdotale. La vocazione, infatti, viene da Dio e la Chiesa si
limita generalmente a riconoscerla, ad accettarla, a favorirla, a promuoverla.
6. I segni dei tempi
In alcuni casi, ai criteri orientativi,
ma non sufficienti, già menzionati, se ne possono aggiungere altri, come quello
dei “segni dei tempi” relativi alla vita personale. Per esempio, se uno viene
da una famiglia molto cattolica, numerosa, è entrato in seminario fin da
bambino, ci è rimasto volentieri, anche per il bel rapporto coi compagni, ha
sempre giocato a calcio, studiato e ha ottenuto buoni voti, perché ora dovrebbe
cambiare strada? Il “segno dei tempi”, in questo caso, per questa persona
concreta, sarebbe che “egli è già sulla buona strada”.
Ciò per dire che, se un tale è già ben
indirizzato, questo sarebbe, secondo alcuni, un segno di vocazione. Se questo
criterio fosse adeguato, giusto e sufficiente, io stesso dovrei essere andato
da un’altra parte. In verità, le vicende e i trascorsi della mia vita e della
mia famiglia, della mia giovinezza – di cui vi ho fatto allusione nella prima
meditazione – non erano tali da poter far dire allora che io avevo la vocazione
sacerdotale.
In realtà il criterio di analisi
esteriore non può essere l’unico, il sufficiente e definitivo nel giudizio di
una vocazione sacerdotale. Si potrebbero citare numerosi esempi di vocazioni
eccellenti, nella storia della Chiesa, non provenienti da una situazione, da un
ambiente o da una classe precostituita, ma provenienti dalla libertà di Dio,
che chiama chi vuole liberamente chiamare. C’è la misteriosa ed efficace
libertà stessa di Dio in gioco.
Realmente è il Signore che chiama: «Gesù
fissò lo sguardo sul giovane ricco e gli disse...».
Certo, può essere opportuno tenere in
considerazione le condizioni fisiche, psicologiche, geografiche, economiche,
familiari... Ci sono situazioni in cui qualcuno di questi fattori può essere
importante per valutare il caso nel suo insieme, ma non possono essere questi
gli elementi definitivi e determinanti. È infatti del tutto inattendibile e
insufficiente basarsi solamente su un esame psicologico o su una valutazione
ambientale per decidere la propria vocazione sacerdotale. Si finisce con il
cadere in un meccanismo piuttosto deterministico e anche pericoloso.
7. Anomalie nei “criteri deterministici”
Ci sono grandi santi della Chiesa, di cui
oggi dovremmo rifiutare la vocazione, perché non rientrerebbero nelle
“categorie” che ora stiamo prendendo in considerazione.
Per esempio, sant’Alfonso de’ Liguori.
Egli aveva un problema, che gli specialisti non accetterebbero: era afflitto da
una “malattia psicologica”, che si aggravò ulteriormente prima della morte. La
stessa “malattia psicologica” aveva colpito santa Luisa di Marillac, la
fondatrice delle Madri della Carità, la Congregazione religiosa femminile più
grande della Chiesa; e anche in santa Luisa di Marillac si aggravò prima della
morte.
La “malattia psicologica”, che avevano
questi due santi, era lo scrupolo. In qualche tappa della vita ci può essere la
prova dello “scrupolo”, per chiunque: è normale. E per quanto riguarda santa
Luisa di Marillac, sappiamo che san Vincenzo de Paoli, che era il suo padre
spirituale, non volle assecondarne gli scrupoli benché ella fosse ormai alla
fine della vita.
San Camillo era zoppo a causa di ferite
di guerra, e al suo tempo coloro che zoppicavano non erano ammessi negli
ordini e nelle Congregazioni religiose. Pertanto non solo non avrebbe potuto
diventare francescano, come avrebbe desiderato, ma neppure essere ordinato
sacerdote. Camillo venne allora a conflitto con il suo padre spirituale, che
era san Filippo Neri, figura molto nota nella Roma del suo tempo; san Filippo,
infatti, seguendo i criteri in voga per discernere le vocazioni, cercò di
convincere quel giovane che, essendo zoppo, non poteva certamente avere una
vera vocazione. Fu così che san Camillo, seguendo invece la sua vera vocazione,
si dedicò a fondare una congregazione nuova, quella per l’appunto degli
ospedalieri di san Camillo, i cui membri vengono comunemente chiamati
“camilliani”.
Pare che perfino Giovanni Paolo II abbia
incontrato, in giovinezza, qualche incomprensione nel discernimento della sua vocazione,
da parte dei carmelitani. Lo stesso Santo Padre ne parla nel volume
autobiografico Dono e Mistero (cfr anche, del sacerdote e giornalista
polacco Malinski, Il mio vecchio amico Karol): sembrerebbe che
egli fosse attirato dalla vocazione carmelitana ma che per una diversità di
criterio di discernimento alla fine egli optò per la vocazione sacerdotale
diocesana (in omaggio alla spiritualità carmelitana, tuttavia, è specificamente
al tema della “fede” in san Giovanni della Croce che egli dedicò poi la sua
tesi dottorale a Roma).
La vocazione, occorre affermarlo con
fermezza e coraggio, è realmente una chiamata di Dio. Per valutare il suo
discernimento può essere interessante mettere sul tavolo l’insieme delle
circostanze, ma non possono essere sufficienti e decisive. Uno deve alla fine
sempre riuscire a capire se egli ha realmente la vocazione, al di là delle
circostanze.
8. Vocazione sacerdotale o vocazione
canonica
Ci sono alcuni che pongono l’enfasi su un
criterio diverso, che a loro sembra oggettivo e importante, e che lo è
effettivamente pur restando insufficiente. Questi pensano che la “vocazione
sacerdotale” coincida con la “vocazione canonica” fatta dalla Chiesa a un
individuo concreto e particolare.
Ciò accade quando il vescovo o un
superiore ti chiama e ti dice: «Tu hai vocazione, io ti chiamo, vieni». Se
succede questo, c’è la vocazione “canonica”, fatta da un’autorità della
Chiesa, che ha il potere di chiamare al servizio sacerdotale o religioso.
Questo è ovviamente un intervento molto
autorevole, ma da solo non basta a significare che tu abbia davvero la
vocazione.
A questo punto potrebbe essere utile
esaminare anche il rovescio della medaglia. Come per esempio accade prima dei
matrimonio, per l’efficacia del quale entrambi i fidanzati devono essere
d’accordo; non è sufficiente la “vocazione” di uno solo dei due. Analogamente,
quando uno diventa sacerdote, si viene a costituire un rapporto e un vincolo
speciale e particolare tra lui e la Chiesa; vincolo e rapporto che dovrà essere
reciprocamente consensuale. Così che, nella realizzazione di una vocazione
sacerdotale, occorre tenere presente anche il punto di vista dell’altra parte,
cioè della Chiesa (del vescovo o del superiore religioso), punto di vista che
si potrebbe chiamare la “vocazione canonica”.
Se tu hai il diritto di dire «io ho,
oppure non ho, la vocazione», occorre ammettere che anche la Chiesa ha diritto
di poter dire «ti accetto oppure non ti accetto come sacerdote». Rimane
pertanto il fatto che l’autorità (vescovo o superiore religioso) della Chiesa
può dire «si» oppure «no», riguardo all’accettazione della vocazione che uno
manifesta: e quella sarebbe la cosiddetta “vocazione canonica”.
Ma questa “accettazione” o “non accettazione”
non implica immediatamente che io “abbia” oppure “non abbia” la vocazione
sacerdotale: è un requisito praticamente necessario, ma non sufficiente. C’è di
più. Quando un’autorità mi chiama formalmente e “canonicamente”, dovrei aver
già chiarito se ho la vocazione sacerdotale: c’è un discernimento che la
persona deve esercitare liberamente e per proprio conto; un giudizio
fondamentale sulla vocazione che nessun altro può dare al suo posto. Anzi, si
tenga presente che se una determinata autorità della Chiesa mi rifiuta, questo,
di per sé, non vuole assolutamente dire che io non abbia la vocazione
sacerdotale. Posso, legittimamente, rivolgermi da un’altra parte, in un’altra
occasione, per insistere e manifestare la mia eventuale vocazione sacerdotale.
Ci sono stati molti casi simili di santi, e di altri buoni sacerdoti, che hanno
avuto traversie e incomprensioni nel riconoscimento canonico e formale della
loro vocazione sacerdotale, che era poi dimostrata assolutamente autentica.
9. Il criterio: la comunione apostolica
Finalmente ci poniamo la domanda
fondamentale e decisiva: quale è il criterio per discernere la vocazione
sacerdotale?
Visto che il sacerdozio comporta una
testimonianza globale di vita (non ti obbliga solo a una funzione, ma ti
impegna a essere, nella tua vita, il testimone e lo specchio del Signore Gesù;
ti impegna a un’esistenza speciale, con modalità precise), il primo elemento
determinante ed essenziale della vocazione al sacerdozio consiste in questo:
la intuizione irrinunciabile che si ha, per grazia dello Spirito Santo, di un
piano globale ed esclusivo della propria vita e del proprio amore umano e
soprannaturale, da realizzarsi nella vita sacerdotale. Intuizione, secondo la
quale «non posso concepire me stesso in un’altra forma, se non così!».
Intuizione che può squarciare il cuore e
la vita nonostante lo stato di peccato. Pur avendo tutti i peccati della terra
– san Paolo, la pensava così – uno può trovarsi sulla buona strada per
diventare un sacerdote, avendo in effetti una buona base di vocazione
sacerdotale. Grandi santi furono prima grandi peccatori ed, essendo essi ancora
nel peccato, Dio già li ha chiamati perché fossero suoi apostoli.
Questa percezione non si ha – di solito –
di colpo; ma spesso, come succede a molti seminaristi, si viene scoprendo tutto
quanto è relativo alla vocazione sacerdotale attraverso un processo di
maturazione personale. Far parte dei “discepoli” del Signore Gesù significa, in
effetti, far parte di una comunione intorno a Lui, chiamata e conosciuta, fin
dai tempi dei Padri della Chiesa, come apostolica vivendi forma, cioè
“il modo di vivere degli apostoli”. Vale a dire, significa essere introdotti in
una comunione di persone, cioè in un “organismo” di persone, o anche «ordine»
di persone; in latino si parla appunto di ordo, e da qui deriva la
parola “ordine”, cioè l’“ordine sacro del sacerdozio”. Si entra dunque in una
comunione di persone intorno al Signore Gesù, in un “ordine” di persone
intorno a Cristo, in un insieme coordinato di discepoli intorno al Signore.
Il carattere collegiale della comunità
apostolica, come fu ben chiaro fin dagli inizi della Chiesa, è stato molto
rivalutato dal Concilio Ecumenico Vaticano II, e prima ancora fu rilanciato a
molte riprese in varie occasioni ed epoche della vita e della storia della
Chiesa. Si vuole e si è sempre voluto realizzare, ripetere e fare presente
l’immagine del “gruppo dei discepoli intorno al Signore”: la comunità degli
apostoli, la apostolica vivendi forma. Nella realtà di un seminario,
dove ci si prepara al sacerdozio, i giovani hanno una grande grazia, perché
possono fare vita comunitaria.
La vita comunitaria, da un lato, porta
con sé anche qualche penitenza e principalmente quella di dover sopportare
qualche compagno e, a volte, anche qualche superiore fastidioso. Ma, da un
altro lato e principalmente, la vita comunitaria è molto importante,
interessante e stimolante, perché in essa si impara a essere e a vivere come
fratelli, come amici, come succedeva nella comunità apostolica. La vita comunitaria
è una possibilità molto positiva per una persona, soprattutto, se si cerca con
pazienza, con delicatezza, in modo adatto, con coraggio, di creare buone
amicizie. In tal modo la vita comunitaria diventa assai fruttuosa, lasciando
vivente nel cuore, per tutto il resto della vita, l’immagine stessa di Dio, che
è “in se stesso” un’unica e specialissima comunità e comunione, che noi
chiamiamo la Santissima Trinità.
A partire dal momento in cui il
seminarista, o novizio, viene accettato tra i candidati a futuri sacerdoti del
Signore, egli entra nel cammino per essere aggregato a un corpo, a un “ordine”,
a una comunità; entrerà infatti – quando sarà sacerdote – a far parte dello
“specchio” (speculum visibile invisibilis Dei) cui ha voluto dare
vita il Signore. Ricorderete infatti che abbiamo già trattato questo bellissimo
tema dello «specchio visibile del Dio invisibile», e ricorderete perciò che
abbiamo sottolineato come «la comunità degli apostoli» sia «lo specchio,
montato e messo in opera dall’Amore trinitario». Perciò quando si entra a far
parte di questa vita di comunione speciale – la “apostolica vivendi
forma” – si diventa parte dello “specchio” vivente e visibile.
Se si scattasse una foto a un gruppo di
sacerdoti del Signore Gesù, mentre passano, andando insieme, si potrebbe vedere
in quella foto lo stesso Dio che passa. O piuttosto si può giustamente dire
che: quando ci vedono passare insieme, è Dio stesso che vedono avvicinarsi e
passare. Questo è molto evidente e la gente – la gente che ha fede – lo ha
presente, lo “sa”.
Colui che entra nell’“ordine sacerdotale”
si inserisce sempre più profondamente all’interno di questo “corpo”. E non
potrebbe essere altrimenti: così anzi sarà sempre più e “per sempre”; e questa
è la vera “gloria” del sacerdozio: “per sempre”! Si “ama” veramente e si “è”
veramente solo “per sempre”! Così succede, esattamente come quando Nostro
Signore ha chiamato intorno a sé i dodici, allontanandoli e separandoli dai
loro legami precedenti, per costituire con loro e fra di loro una profonda e
personale comunione di vita.
Qual è il segno visibile, che viene così
costituito e mostrato per Israele? Il segno per eccellenza è questo: la
comunione di vita degli apostoli con il Signore.
10. La vita degli apostoli
A questo proposito, se osservaste lo
sviluppo della vita di ognuno degli apostoli, si potrebbero comprendere molte
cose. Diamo qualche spunto mirato.
1) San Pietro. È molto impressionante
vedere san Pietro che dice al Signore: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti
abbiamo seguito» (Lc 18, 28; Mt 19, 27; Mc 10, 28); e
vedere che il Signore stesso risponde a san Pietro – «risponde loro» –: «Ecco,
voi, che avete lasciato tutto...»; per poi mettersi Lui stesso, il Signore, a
far la lista di tutto quello che loro hanno lasciato per seguirlo.
2) San Paolo. Se osserviamo la vita di
san Paolo, lo troviamo, per esempio a Listra, quando incontra il discepolo
Timoteo, che finirà per diventare il suo più grande compagno e amico. Il libro
degli Atti degli Apostoli – scritto da un altro suo compagno, che era
san Luca – dice che quando san Paolo incontra Timoteo (cfr. 16, 3) «volle che
egli partisse con lui». Gli Atti presentano in seguito Timoteo come
compagno fisso di san Paolo nell’apostolato e come un fratello che partecipa in
modo speciale ai suoi sentimenti (cfr. Fil 2, 20).
3) Proseguendo in questa osservazione
delle vite degli apostoli, troviamo che sempre negli Atti ci sono pagine
e pagine in cui l’evangelista san Luca usa il “noi” per indicare che lui e san
Paolo andavano insieme in molti luoghi. In altre sequenze di pagine, invece,
san Luca usa la parola “egli” per indicare che san Paolo (da solo) andava in
altri luoghi senza essere accompagnato da lui (san Luca): da compagni
nell’apostolato e amici quali erano, a volte stavano insieme e altre volte no,
tuttavia il contesto chiarisce assai bene la radicalità definitiva dell’impegno
“apostolico”.
In questo stesso modo si potrebbero
trarre molte altre utili osservazioni circa l’apostolica vivendi forma.
11. Il celibato sacerdotale e l’apostolica
vivendi forma
In questo contesto si comprende come il
celibato non sia un accessorio o un aspetto funzionale e pragmatico del
progetto di vita in cui si vuole entrare seguendo la vocazione sacerdotale. Se
si pensasse che il sacerdozio è una funzione, che lo scopo è quello di “avere
più tempo possibile e più facilità” per distribuire i sacramenti, sì potrebbe
concepire il celibato come un accessorio, utile appunto per avere più tempo
disponibile “per la funzione”.
Ma non sembra che sia e che sia stato
cosi. Si tratta invece basicamente e prima di tutto di una comunione totale di
vita con il Signore Gesù: «Li chiamò, perché stessero con lui e per inviarli a
predicare» (cfr Mc 3, 14). Gli apostoli, in effetti, hanno abbandonato
tutto (cfr Lc 18, 28 e testi paralleli), a cominciare dalla famiglia.
Nel Vangelo si parla effettivamente di una suocera di san Pietro (cfr Mc
1, 30 e testi paralleli); ciò che sembra si voglia dire è che Pietro realmente
aveva avuto una moglie, ma essa veramente non compare mai nei Vangeli o negli Atti
degli apostoli. I biblisti hanno elaborato diverse ipotesi a questo
proposito: secondo molti, la cosa più probabile è che forse lei era deceduta;
qualcuno, basandosi su Lc 18, 28 ipotizza che egli possa essersi
separato da lei per seguire il Signore. A me personalmente, e per vari motivi,
sembrerebbe più certa e fondata l’ipotesi che ella fosse già defunta al tempo
(del resto proprio l’evangelista san Marco, compagno per tanti anni di san
Pietro, significativamente non la ricorda mai, a differenza della suocera).
Nella apostolica vivendi forma, e perciò nella vocazione sacerdotale, ci
troviamo di fronte a un radicalismo totale, ti addentri in qualcosa che cambia
la tua vita e ti conduce “per sempre”. Dio arriva e ti chiama al suo progetto
massimo e più profondo e intimo, “per sempre”. Con Dio è “per sempre”! Il
celibato è una conseguenza interna, una necessità inscritta naturalmente in
questa condizione di vita, instaurata dal Signore Gesù con i suoi, in questa
comunione fraterna dei discepoli con lui e tra di loro (con lui e tra di noi).
In effetti, Nostro Signore Gesù Cristo, modello esemplare di ogni sacerdote,
visse celibe. Se uno sentisse di essere chiamato a essere sacerdote di Gesù
Cristo, potrebbe e dovrebbe pertanto cercare di vivere come visse lui. Mi
sembrerebbe questa una motivazione molto indicativa, molto esistenziale, per
nulla funzionale e provvisoria, e abbastanza evidente. Cerchiamo a volte
differenti motivi per il celibato sacerdotale, ma questa sembra essere “la ragione
delle ragioni”: la ragione evangelica.
Non stiamo dicendo che la ragione
evangelica del celibato sia facile. Ma neppure la ragione evangelica del
matrimonio è facile; il Vangelo riporta infatti le parole di san Pietro che,
riferendosi alla condizione evangelica del matrimonio, disse che la sua
difficoltà è tale che, anche per chi ne abbia la piena vocazione, forse
varrebbe piuttosto la pena non sposarsi. In effetti, a proposito di
“vocazione”, non si dovrebbe cercare quella che sembri “facile”, ma si
dovrebbe cercare quella che sia “realmente per me” la vocazione di Dio,
qualunque difficoltà comporti. In ogni vocazione ci sono infatti specifiche
difficoltà: la condizione di persona vivente in questa vita comporta infatti
un impegno e delle inevitabili difficoltà. Queste, tuttavia, vengono
normalmente accompagnate da gioie, che esse pure non mancano e che sono assai
spesso significative, autentiche anticipazioni nella loro allegria
dell’imminenza già attuale della vita beata ed eterna.
Non diciamo, dunque, che sia facile la
vocazione sacerdotale per persone fragili come siamo noi: potrei forse dire io
di non avere peccati, potrei forse dire io che non mi confesso per i miei
peccati, e potreste dire voi che non siete parimenti peccatori? San Pietro espresse
questo sentimento di fragilità nelle ben conosciute parole da lui rivolte al
Signore Gesù: «Allontanati da me Signore, perché io sono un uomo peccatore» (Lc
5, 8): quante espressioni simili e tutte vere troviamo nelle vite di tanti e
tanti Santi di Dio! Ma il punto sostanziale e irrinunciabile per noi –
qualunque sia la nostra fragilità – è invece piuttosto il seguente: che
dobbiamo metterci in asse con quella che oggettivamente sia la vocazione
fondamentale della nostra vita, per poter cercare di realizzare la nostra
identità come persone.
12. Sequela Christi: mirare a lui
per raggiungere la meta
Nonostante ogni possibile difficoltà, una
volta scoperta la vocazione sacerdotale dobbiamo e possiamo “almeno tentare”
di “seguire” il Nostro Signore Gesù (la famosa sequela Christi); tentare
cioè di vivere “così” come Egli visse, tentare di vivere con lui e con i
“suoi”, come Egli ci ha indicato, anche con espressioni straordinarie, con
tanta benevolenza e affetto.
Credo che la cosa che piace soprattutto
al Signore sia il coraggio del tentativo, piuttosto che la gloria della
riuscita; ciò è ben chiaro nella vita e nelle contraddizioni di san Pietro,
come pure di tanti altri santi. Dio non abbandona e dona il suo perdono e il
suo premio, soprattutto a chi cerca, a chi si sforza e a chi si impegna. Forse
sentiamo che non riusciamo a raggiungere la meta, se cerchiamo di farlo
con le sole nostre forze: ma questo – il poter raggiungere la meta – è in
realtà un dono, un dono del Signore Gesù stesso e del suo Santo Spirito, e a
Lui va chiesto con allegria e con umiltà.
Il celibato è anzi un dono prezioso,
perché ci dà la possibilità di realizzare una forma di amore anche umano:
quello di amare i fratelli nel sacerdozio come il Signore amava i “suoi” e come
gli stessi apostoli si amavano gli uni gli altri e fra loro. In questa
prospettiva l’“amicizia sacerdotale” ha un senso pieno e completo: da un lato
si possono e si devono amare, con tutto il cuore, i fedeli, che si incontrano
nel corso della vita; da un altro lato, occorre dire che l’amore di cui è
costituita l’amicizia sacerdotale è un amore specialmente sostanziale e
fondato in un modo del tutto specifico: è lo stesso identico amore che c’era
tra il Signore Gesù e i “suoi”, l’“amore umano” che il Signore Gesù aveva
deciso di vivere Lui stesso.
Dell’amore fra il Signore Gesù e i
“suoi”, della fraterna amicizia sacerdotale – a cui Egli ha dedicato
espressioni così straordinarie e belle, soprattutto nel Vangelo di san Giovanni
–, non parliamone, quindi, come di un amore esclusivamente soprannaturale,
perché si tratta a pieno titolo di un amore anche umano. Nel suo ministero,
Gesù separò alcuni uomini dai loro legami naturali per costruire una comunità
umana di un genere nuovo, ma unita da legami non meno profondi di quelli che
essi abbandonavano. E tutto questo per poter dare una testimonianza visibile –
«specchio visibile dell’invisibile Dio» – della gloria di Dio, dell’Amore che è
in Dio, dell’amore del Padre e del Figlio che noi chiamiamo Spirito Santo.
Egli, il Signore Gesù, fece questo. E
perciò il celibato sacerdotale, vissuto in questo modo, in comunione fraterna,
rende visibile e rende attuale la comunione di vita vissuta dal Signore Gesù
con i “suoi”; e pertanto è il grande “fermento” e il “lievito” di quella
comunione più ampia che è la comunione di tutta la Chiesa, della comunione
vissuta da tutta la Chiesa. Di fatto la Chiesa vive della comunione dei
sacerdoti. Se non ci fosse il “corpo sacerdotale”, non esisterebbe la Chiesa.
La comunione sacerdotale è il punto su cui si appoggia tutta la Chiesa, il
punto da cui sgorga e sorge, di cui si nutre tutta la Chiesa, ed è proprio così
come Cristo Gesù ha concepito che essa ne vivesse.
13. Dalmanùta: la meta misteriosa
In America Latina hanno pubblicato un
piccolo libro che ho scritto, assieme a un vecchio missionario italiano, che si
intitola Missionari italiani in Messico. Questi missionari, quali
missionari, quanti missionari! Quanto hanno fatto per portare la fede e la
speranza del Signore Risorto da quest’altra parte dell’Oceano Atlantico. Che
cosa non è costato loro! Che cosa straordinaria e ammirabile!
Anche all’inizio di quel libro ho
riportato il brano del Vangelo di san Marco citato all’inizio dei nostri
esercizi e che dà il titolo a questo lavoro. C’era, dunque, una regione, o
territorio, o paese, o borgo – dall’altro lato del mare di Galilea – che non è
segnato su nessuna carta geografica antica che si chiamava Dalmanùta. Questo
nome di Dalmanùta compare solo una volta nel Vangelo, e solo nel Vangelo di san
Marco. Che cos’era Dalmanùta? Non è detto e non si sa, e per questo motivo di
incertezza resta per noi un luogo misterioso. Per questa ragione l’ho scelto
come brano iniziale per un libro sui missionari.
«Dopo ciò sali sulla barca con i suoi
discepoli e andò dall’altra parte del mare in una regione chiamata Dalmanùta»
(cfr Mc 8, 10). Andarono, dunque, verso Dalmanùta, un “luogo misterioso”
verso il quale ci si imbarca con il Signore Gesù. Che profonda analogia: c’è
una “meta misteriosa” – e anche affascinante – per coloro che scelgono Gesù.
Il padre Luís (superiore della casa dei
seminaristi Cruzados, in Messico, presso cui mi trovavo per dettare gli
esercizi) mi chiese di mettere una dedica sulla copia del libro Missionari
italiani in Messico, per farne dono ai suoi ragazzi. Io vi scrissi queste
parole: «Ai cari Cruzados, assieme ai quali sono salito sulla barca, con il
Signore Gesù, e tutti insieme ci stiamo dirigendo verso Dalmanùta». In effetti
i missionari che sono venuti in Messico o altrove in epoche successive, si sono
tutti sbagliati: essi pensavano di andare in Messico o altrove, ma non era
così... Essi sono saliti in un giorno importante della loro vita su una grande
barca che li avrebbe portati a Dalmanùta.
Colui che accetta l’invito del Signore
per diventare sacerdote, accetta di salire sulla barca con lui e i con “suoi”.
Io vi rivolgo perciò oggi l’invito del Signore Gesù: «Salite con me sulla
barca, insieme al Signore Gesù, e andiamo dall’altra parte del mare, a
Dalmanùta».
14. L’“ordine” sacerdotale: una comunione
Abbiamo visto in questi giorni che
l’elemento fondamentale per la realizzazione dell’“io” è la relazione
interpersonale, l’“intersoggettività”, la fusione delle persone, degli spiriti,
che vince l’isolamento interiore, l’egoismo, il senso di frustrazione di colui
che è molto solitario. E certamente – lo sappiamo dalle nostre famiglie – una
buona via per realizzare questa fusione di spiriti, è quella che si compie nel
matrimonio. Mentre un’altra via molto bella – lasciate che ve lo dica:
un’avventura forse anche più bella – è quella che si realizza nella comunione
fraterna e amichevole che regala il sacramento dell’ordine sacerdotale; quella
che il sacramento del sacerdozio instaura, che costituisce, che impone e crea,
e che lega le persone che ne entrano a far parte.
Lo dimostra la stessa vita di Nostro
Signore Gesù nella sua radicale convivenza con i “suoi”, e così pure lo
dimostra anche l’esempio assai celebre di san Paolo e dei suoi collaboratori
nel ministero apostolico (Timoteo, Silvano, Tito, Luca, ecc.). In questo
processo di comunione e di unione, che si realizza nel sacramento dell’ordine
sacerdotale, la persona può ugualmente e completamente realizzarsi nella sua
propria umanità. Pensate a tante figure bellissime di santi, pensate a che cosa
li ha resi felici, come si sono realizzati, in chi hanno trovato aiuto e
conforto in mezzo alle più terribili e inevitabili prove...
Si dice oggi che nella vita occorre
essere felici; essere felici significa e vuol dire, in effetti, essere riusciti
a realizzare la perfetta fotografia di Dio. Se un uomo è felice, vuol dire che
la fotografia – l’immagine – è ben riuscita. Il giorno più felice della mia
vita è stato – in realtà – quello in cui sono stato ordinato sacerdote. “Non
stavo più nella pelle” a causa della allegria e della gioia. Ve lo ripeto come
modesta testimonianza: da allora e finora non ho mai avuto nemmeno una volta la
tentazione di abbandonare il ministero sacerdotale. Il ministero sacerdotale
tanto ci ricolma, che non basta l’intera esistenza per realizzare il sacerdozio
che Dio ci ha donato, e non bastano le parole per ringraziare di un dono così
grande e squisito. Grazie a Dio, qualunque cosa succeda, saremo sacerdoti
sempre, e, grazie a Dio, sacerdoti moriremo.
15. L’intuizione di un progetto globale
In definitiva, uno ha la vocazione se
intuisce, con gioia e attrazione, un progetto globale della sua vita futura.
Questa intuizione può essere un processo progressivo, nel tempo, di
acquisizione della propria vocazione, per esempio durante la vita nel
seminario, o durante il noviziato. Uno intuisce, a poco a poco, che lì c’è una
vita completa, che questa vita gli potrebbe piacere, da cui anzi non potrebbe
prescindere. Si tratta di uno “stato di vita”, di un tipo di amore che tu senti
di volere e anche di potere realizzare.
16. Fantasmi e realtà: sacerdos alter
Christus
Allontaniamo da noi uno spauracchio, un
fantasma. Lo “spirito tentatore” è molto abile nel giostrare i suoi “fantasmi”,
ma essi vanno spaventati, soffiati via lontano.
Cercherei di allontanarli con un esempio.
Supponiamo che un giovane voglia sposarsi. Per farlo ha bisogno di una ragazza
disposta a divenire sua moglie. Ma questa non è una cosa tanto ovvia e semplice,
perché succede che dopo averne trovata una, gliene può piacere poi un’altra. La
chiave della sua soluzione non sta solo nella parola “ragazza”, ma anche nella
parola “una”. Nel momento in cui uno decide di sposarsi con una ragazza, non
significa che da quel momento smetteranno di girargli intorno altre infinite e
bellissime ragazze simpatiche e buone, ma piuttosto che lui deve creare un
progetto di vita con la ragazza che ha scelto: un progetto che valga tutta la
vita, esclusivamente con lei. Questo significa che dovrà rinunciare a tutte le
altre ragazze e a tutti i restanti, possibili, progetti di vita.
A volte lo spirito tentatore pone davanti
ai seminaristi e ai novizi proprio questo fantasma: se entrerai qui, in questo
progetto di vita, dovrai rinunciare a moltissime altre cose. È vero che bisogna
fare delle rinunce. Ma è vero anche che chiunque scelga di entrare in
“qualunque” progetto di vita – anche nel matrimonio, ovviamente – deve
contemporaneamente rinunciare a tutti gli altri progetti di vita alternativi
possibili. Chiunque voglia radicarsi in una identità completa e definita e
afferrarne la sostanza deve necessariamente rinunciare al resto: è puerile e
patetica la illusione di poter stare contemporaneamente in più progetti globali
di vita: la bilocazione vitale o la trilocazione o la quadrilocazione è
impossibile e la sua illusione è fatale: non è possibile cavalcare
contemporaneamente due cavalli o servire due padroni. Quando uno sta per fare
il passo deve avere la percezione e la intenzione di volersi donare con
esclusività e irreversibilmente alla prospettiva che ha scelto. Hai scelto
questa ragazza? Non puoi giocare con la tua e la sua vita: devi perciò donarti
a questa prospettiva in forma esclusiva e irreversibile. È giusto. Hai scelto il
sacerdozio? È giusto; sarai in gioco con il Signore Gesù tutta la vita, insieme
a dei compagni, che a loro volta hanno investito qui tutta la loro vita per
coinvolgersi con lui e con te. Non puoi giocare con loro. Si va in battaglia
insieme e non ci si volge indietro da solo e per proprio conto; non si può
mettere mano all’aratro e volgersi indietro per proprio conto.
Non comprendere la connessione tra il
sacerdozio e la irreversibilità – vale a dire fra il sacerdozio e il celibato
sacerdotale – significa non avere capito il significato, la profondità e il
radicalismo dell’impegno e del compromesso che si vuole assumere, e pertanto
significa soprattutto non avere capito cosa sia la chiamata e la vocazione al
sacerdozio. Si può a ragione affermare che chi non capisce la “chiamata” non ha
la “chiamata”. Infatti significa non avere capito che questa è una “chiamata”
verso un tipo specifico di vita, verso una modalità di esistenza, che a sua
volta diviene testimonianza e segno nella vita di comunione degli altri
discepoli.
Il sacramento dell’ordine sacerdotale,
secondo il Concilio Vaticano II, prescrive ai presbiteri, non solo di edificare
il popolo di Dio mediante il ministero della Parola e la celebrazione dell’Eucaristia,
ma di manifestare in una maniera unica e sacramentale l’amore fraterno,
servendo così ugualmente la causa della edificazione del Regno di Dio (Presbyterorum
Ordinis, n. 8). Nel sacerdozio ministeriale c’è una partecipazione
originale al sacerdozio di Cristo, come capo della sua Chiesa, una
partecipazione alla sua stessa persona (sacerdos alter Christus), cosicché
il sacerdote rappresenta realmente il Signore Gesù stesso nella comunità, e
tutta la sua vita sarà come la stessa vita del Signore di fronte alla comunità.
Sacerdos alter Christus, il sacerdote è un altro Cristo.
A questo punto si potrebbe forse già dire
quando uno “non” ha la vocazione sacerdotale. Si potrebbe infatti concludere
che non sembrano avere la vocazione sacerdotale quelli che pronunciano frasi di
questo tipo: «Accetto volentieri il celibato, ma penso che, in generale, si
dovrebbe permettere, a chi voglia farsi sacerdote, di scegliere tra
l’accettarlo o il rifiutarlo». Se uno pensa questo, si potrebbe legittimamente
ipotizzare e dire che non abbia un’autentica vocazione sacerdotale. Perché no?
Perché evidentemente egli non sta pensando a un “progetto globale ed esemplare
di vita”, a uno “stato completo e radicale di vita”, ma sta evidentemente pensando
a una “funzione”, allo stretto esercizio di una “funzione”.
Se uno pensa che si possa essere – allo
stesso tempo e indifferentemente – sacerdote e uomo sposato, verrebbe da
credere che egli pensi che alla fine “essere sacerdote” sia come “essere medico”,
“essere ingegnere”, “essere elettricista”; verrebbe da credere che per lui non
ci sia distinzione fra il sacerdozio e una qualunque professione, per la quale
si può essere allo stesso tempo sia “funzionario” sia uomo sposato.
Se invece uno pensa che il sacerdozio sia
uno “stato di vita” (i sacramenti chiamati “stato di vita” di per sé sarebbero
due: il matrimonio e l’ordine sacerdotale), c’è il rischio che l’esercizio
della “funzione sacerdotale” (per esempio l’amministrare i sacramenti), per
quanto importante, diventi secondario rispetto al “punto principale”, cioè
quello che abbiamo tanto sottolineato: di costruire lo “specchio” della
comunità e della comunione degli apostoli con il Signore Gesù. Solo nella
comprensione di quest’ultimo aspetto fondamentale si può toccare, fare propria,
vivere, la sostanza della vocazione sacerdotale.
Ma se uno non ha compreso quello che il
sacerdozio è fondamentalmente, e continua a pensare erroneamente che esso sia
basicamente una funzione, allora è meglio che lasci stare, che lasci perdere:
già questo errore di valutazione sembrerebbe essere – ed è – un segno
sufficiente per dire che non ha vera vocazione. Colui, dunque, che pronuncia
una frase come quella che abbiamo riportato sopra, lo fa evidentemente perché
non ha intuito che il sacerdozio è – prima di tutto – un progetto e una
testimonianza di vita e di amore globale e irreversibile.
17. Una testimonianza: non poter essere
altrimenti
Vorrei alleggerire la meditazione
raccontando qualcosa di personale. Quando ho cominciato a sentire attrazione
per il sacerdozio ero innamorato di una ragazza della mia città: avevo 15 o 16
anni. Lei era una biondina carina, io l’accompagnavo a scuola ogni giorno: mi
sentivo attirato e contento. Pensavo di essere innamorato di lei. In realtà ero
un po’ innamorato anche di altre ragazzine – come succede a volte agli
adolescenti – ma non credo che fosse un’inclinazione per la poligamia. Credo
che le mie compagne mi apprezzassero e mi stimassero; anzi le compagne di
scuola mi avevano dimostrato la loro “preferenza” eleggendomi il più simpatico
della scuola: sono giochi di adolescenti questi, ma che, non vi nascondo, mi
rendevano fiero. E con le ragazze stavo davvero bene.
D’altra parte provavo una crescente e
misteriosa, ma reale, attrazione verso il sacerdozio, mi incantava e mi
affascinava molto. Un giorno decisi di parlarne con un prete, e quel colloquio
è rimasto indimenticabile. Il sacerdote doveva andare a trovare un altro
sacerdote e mi chiese di accompagnarlo, ma arrivati a destinazione, non
trovammo nessuno. Ci sedemmo vicino a un pozzo – che per me è lo stesso della
samaritana – e gli esposi la situazione, dicendogli: «Guardi, tutto è molto
semplice; io voglio molto bene a questa ragazza e, allo stesso tempo, sento che
vorrei diventare sacerdote. Mi sembrerebbe perciò ragionevole di fare entrambe
le cose, perché io sarei un buon marito se mi sposassi con questa ragazza, e
allo stesso tempo sarei anche un buon sacerdote». Allora quel sacerdote mi
diede una risposta molto saggia. Mi disse: «Senti, Mario, non uscire dal
seminato: la Chiesa cattolica latina “ordina” sacerdoti solamente uomini che
non siano sposati. Punto! Pertanto tu hai solamente due possibilità: o l’una o
l’altra; o divieni sacerdote, o ti sposi. È inutile che tu vada giocando con le
due possibilità contemporaneamente, come se le potessi combinare, perché questa
combinazione non esiste».
In verità, a me questo discorso sembrò
molto duro. E lo era veramente, ma aveva il profumo fragrante della rude
verità, e anche della carità, giacché mi indirizzava sulla giusta via del
realismo oggettivo. Dopo quell’incontro passai alcune settimane tragiche,
dibattendomi tra le due possibilità. Alla fine, dopo avere molto riflettuto,
molto pregato e molto sofferto arrivai a una prima conclusione: che cioè dovevo
decidermi per un’unica scelta. Una cosa risultava perciò chiara per me, dopo
questo primo sofferto discernimento: non si potevano avere entrambe le opzioni
contemporaneamente; inoltre mi era ormai chiaro che qualunque fosse la mia
decisione – qualunque delle due opzioni avessi scelto – avrei comunque sofferto
molto.
Fu importante quando dissi a me stesso:
«Per prima cosa, ti devi decidere; secondo, qualunque scelta ti farà soffrire,
dunque devi accettare il fatto che dovrai affrontare una grossa sofferenza.
Quindi, quale delle due?». Ci ho pensato molto, andavo in Chiesa a pregare,
poi tornavo a casa, leggevo il Vangelo... cercavo di indagare a fondo in me
stesso. Alla fine, sono arrivato a un punto che mi ha aiutato poi moltissimo.
Mi sono detto infatti:
«So che qualunque delle due possibili
opzioni mi farà soffrire, ma è meglio che cerchi di capire quale delle due è un
“qualcosa” senza cui io non riesco a concepire e a immaginare me stesso. Se mi
faccio sacerdote soffrirò molto perché dovrò smettere di vedere la ragazza da
cui mi sento così attirato, e dovrò smettere di pensare a lei. Se invece mi
metto con lei abbandono la idea stessa del sacerdozio». «Oh no, no», mi sono
detto, «questo no!». In quel momento, in cui facevo oggettivamente questa ipotesi,
mi sono reso conto che non potevo neppure pensarmi o immaginarmi così. Cioè
mi è stato chiaro, anche se dolorosamente chiaro, che non potevo non essere
sacerdote.
In quel momento, dunque, ho visto e
scoperto, anche se assai dolorosamente, la mia vocazione. Senza la possibilità
del sacerdozio, io non avrei potuto vivere, e neppure pensare al mio futuro:
così, con un notevole travaglio spirituale, sono approdato a terra ferma. E
così, amici, e perciò, eccomi qui.
18. Convenienza del celibato con la vita
sacerdotale
L’intuizione della “convenienza” del
celibato con la vita sacerdotale non è cosmetica o funzionale. Quando uno
intuisce la convenienza del celibato con il sacerdozio, deve andare verso la
vita sacerdotale, non già per una convenienza pratica, o di facciata, ma per
quella che potremmo chiamare una “convenienza teologica ed evangelica”, e in
modo del tutto specifico e particolare, perché il “radicalismo di comunione di
vita” con il Signore Gesù è lo “specchio” della Santissima Trinità. Questa
intuizione della convenienza radicale e irreversibile del celibato con il
sacerdozio è l’intuizione più caratteristica e più indicativa per uno che viene
chiamato al sacerdozio.
A questo proposito vi presenterò un’analogia,
prendendola dal matrimonio. Un giovane può conoscere e frequentare molte
ragazze. Ma quando egli si rende conto che deve sposarsi con una specifica
ragazza e con nessuna delle altre? Si tratta della stessa situazione, in
parallelo: quando cioè lui – e lei – intuiscono un progetto di vita
irrevocabile e completo. Allora, in questo caso, si può dire che lui ha la
vocazione per “quella ragazza” in particolare, e non per le altre. Quando cioè
sente di non potere più rinunciare a una delle varie opzioni possibili, perché
non riesce più a concepirsi in un modo diverso e senza di lei; allora il nostro
giovane sarà pronto per la scelta, ma naturalmente – più o meno dolorosamente –
dovrà rinunciare alle opzioni diverse, in questo caso alle altre ragazze.
Possono esistere matrimoni
“giuridicamente validi” nei quali manchi la vocazione matrimoniale nei confronti
della compagna o, viceversa, del compagno? Due persone si vedono, si
incontrano, poi per semplice convenienza, per interesse, per motivi di eredità,
per accordi tra le famiglie liberamente si sposano. Il matrimonio è
giuridicamente valido. Ma non è un matrimonio di “prima categoria”, per il
quale si possa dire che entrambi hanno la vocazione l’uno per l’altra; soprattutto
non sarà un matrimonio esemplare e paradigmatico, cioè “di riferimento”
adeguato di cosa e di come debba essere un matrimonio.
La stessa cosa, analogicamente, può
succedere con il sacerdozio. Ci sono infatti uomini che sono stati ordinati
sacerdoti senza averne realmente la vocazione. Anche in questo caso il loro
sacerdozio è “valido”, ma non è felice, non è pienamente ed evangelicamente
“esemplare”, non è “paradigmatico” o “di riferimento” di ciò che dovrebbe
essere un sacerdote: confeziona cioè validi sacramenti, ma non “compie” adeguatamente
l’immagine sacerdotale, evangelica e apostolica, come sopra abbiamo indicato.
Vorrei riflettere su questa questione del
celibato. La nostra argomentazione infatti non vuole indicare o significare che
coloro – che sono sicuri in un progetto globale di vita e dicono che il
celibato deve essere necessariamente unito al sacerdozio – non possano fare
peccati contro la castità. Se uno ha la vocazione, capisce ciò che potrebbe e
dovrebbe fare. Ma anche se sbaglia, anche più di una volta, ciò non significa
che, per questo, perda la vocazione; deve pentirsi degli eventuali peccati e
ritornare alla sua vocazione sacerdotale. La vocazione non cambia, per quanto
uno possa sbagliare. Così come analogicamente succede nel matrimonio. Quando
sarete sacerdoti, potrà succedere che vengano da voi in confessionale degli
uomini o delle donne, che hanno tradito le rispettive mogli o i rispettivi
mariti; e voi, cosa direte loro? Direte ciò che la Chiesa misericordiosa ci
insegna di dire: «Cerchi di recuperare e rinnovare la sua vocazione
matrimoniale».
Succede perciò lo stesso per il
sacerdozio. Una cosa, dunque, è la vocazione: un’altra cosa, connessa ma
differente, è la fedeltà alla vocazione. Se hai la vocazione – dopo averla
scoperta – può darsi che tu sia sempre a essa fedele, o può darsi che tu non
sia sempre a essa fedele; può darsi che un giorno tu stia bene con la tua
vocazione e un altro no, ma ciò non cambia il fatto sostanziale che tu “hai la
vocazione”. (La questione della fedeltà alla vocazione è un argomento
collegato, parallelo, ma differente e che perciò analizzeremo a parte). Per ora
stiamo cercando di capire come si può intuire se uno ha la vocazione sacerdotale.
19. Clero coniugato o clero celibe?
Aprirei una parentesi delicata. Ci sono
infatti casi di ordinazioni sacerdotali di uomini sposati secondo riti
orientali. Io vivo da oltre vent’anni in una casa di suore religiose maronite;
tra i maroniti orientali ci sono ancora dei sacerdoti sposati.
Ci sono riti orientali che stanno
cercando di limitare il fatto dei “sacerdoti sposati”. Questa dei sacerdoti
sposati praticamente appare come una situazione spesso assai difficile a
livello pratico; ma la cosa più delicata non riguarda l’aspetto pratico, anche
se le difficoltà ci fanno pensare acutamente a quello.
Per esempio, ho ascoltato alcune
religiose della casa in cui vivo, figlie di sacerdoti sposati. Esse confermano
quello che diceva e scriveva, al tempo del Concilio, S. E. mons. Ancel, il
fondatore del Prado; che cioè si sono creati, a poco a poco in seno a certe
diocesi due tipi di clero: il clero sposato e il clero non sposato o
celibatario (cfr Alfre Ancel, Le Célibat Sacerdotal, in «La
Documentation Catholique», Avril 1967, col. 727 750 ss).
Il clero sposato è un clero non troppo
manovrabile e perciò non troppo utilizzabile dalle diocesi. E questo per vari
motivi pratici. La gente non ama andare o non va a confessarsi dai sacerdoti
sposati. Forse perché teme che il sacerdote possa parlarne con la moglie.
Questo inconveniente – e altri simili – si sono di recente ripetuti e
verificati in Inghilterra, dopo l’ammissione alla Chiesa cattolica di un
notevole numero di pastori anglicani sposati.
Vi è poi un problema di natura economica
non indifferente che può finire per dare fastidio agli stessi interessati: un
sacerdote sposato con figli va incontro a un carico di spese non indifferente
che grava sulla parrocchia. Non è facile, poi, trasferire i sacerdoti sposati
da una parrocchia a un’altra, o a un altro incarico, perché quando dovrebbero
cambiare casa e cambiare paese..., subito nascono degli inconvenienti, perché,
per esempio, i bambini lascerebbero la loro scuola, i compagni...: ci sono,
come si vede, diversi problemi pratici, concreti, che rendono la situazione
piuttosto complicata.
Il vescovo finisce con il poter contare
più facilmente sulla disponibilità dei sacerdoti celibi; e questi ultimi,
potendo svolgere con meno impedimenti il loro compito, adeguarsi agli eventuali
spostamenti e ai trasferimenti, finiscono con il ricevere, in genere, incarichi
e ruoli più importanti.
Ed è quindi possibile che si inneschi una
sorta di conflitto, di confronto, tra gli sposati e i celibi, anche perché non
sempre le mogli di quelli sposati restano discretamente sullo sfondo, e
talvolta spingono i mariti a delle rivendicazioni.
D’altro canto, un aspetto assai triste
presso noi latini si presenta allorché un sacerdote celibe subisce una
“caduta”, per l’essersi invaghito di una donna, o per qualche altra ragione. Ma
la stessa situazione triste diventa, però, forse ancora più problematica nel
caso di sacerdoti sposati; non solo nella penosa eventualità che lui possa
venir meno nella fedeltà alla sposa, ma, peggio ancora, se casualmente fosse
invece la sposa a venir meno nella fedeltà verso di lui... Tristissimo poi il caso
in cui i figli di un sacerdote sposato non vadano più in Chiesa e non credano
più. La parrocchia – per esempio – dovrebbe sostenerne le spese degli studi,
mentre potrebbe succedere che essi non cooperino neppure al bene della
comunità, anche semplicemente non dando il buon esempio, creando malessere fra
i fedeli.
In definitiva, da un punto di vista
pratico, ci si trova di fronte a una serie di situazioni delicate. Quindi,
anche volendo prendere in considerazione solamente questo aspetto, non è facile
pensare di ampliare la prospettiva di sacerdoti sposati per noi della Chiesa
latina. In effetti, però, l’aspetto principale non è quello pratico, ma quello
del vero segno della “radicale comunione degli apostoli con il Signore Gesù”. I
sacerdoti sposati impartiscono certamente sacramenti validi, ma compiono
pienamente la immagine evangelica? La stessa tradizione orientale sembra
fornire alcuni indizi sicuri e indicativi.
La consuetudine orientale di avere
sacerdoti sposati sembra sia stata favorita – lo sostiene mons. Ancel – dalle
antiche invasioni dei musulmani; essi infatti, volendo ridurre o annientare la
Chiesa, pensavano che perseguitando, e anche a volte uccidendo, i sacerdoti
celibi avrebbero più facilmente raggiunto il loro scopo. In pratica i musulmani
consideravano il clero celibe il “piede forte” di appoggio della Chiesa. La
Chiesa, allora, preoccupata di garantire almeno la distribuzione dei
sacramenti, accettò che alcuni sacerdoti si sposassero in quel tempo di
persecuzione così penoso e delicato. Ma in seguito, essendo ormai mutate le condizioni,
varie diocesi orientali avrebbero avuto il desiderio di ritornare pienamente
all’immagine evangelica della “comunità radicale dei discepoli intorno al
Signore”. Rimando sempre a quell’intervento di mons. Ancel per gli esempi
concreti.
20. Un’analogia fra matrimonio e
sacerdozio
Si legge in talune vite di santi antichi,
che due coniugi si erano sposati facendo voto di completa castità e astinenza.
In effetti, in qualche caso si tratta
forse solo di una figura letteraria, ma teniamo la prima affermazione per buona
ai fini del nostro discorso. Mi chiederei ora: tra due sposi che fanno voto di
castità e astinenza completa (cioè che non consumano il matrimonio), e due
sposi che non lo fanno, quale dei due casi riempie e compie maggiormente il
segno sacramentale del matrimonio? Mi sembrerebbe che la risposta sia: quelli
che non fanno il voto di castità e di astinenza completa, cioè quelli che
consumano naturalmente il loro matrimonio.
Anche se ci fossero casi di tali voti, il
segno sacramentale del matrimonio sembra più completo nel caso in cui il
matrimonio si compie e si consuma naturalmente nella sua pienezza. Nel caso del
sacerdozio, analogicamente, sembra succedere qualcosa di simile. Sia un
sacerdote celibe sia uno sposato, infatti, impartiscono sacramenti validi. Ma,
tra i due chi realizza più pienamente il segno sacramentale del sacerdozio,
come “immagine radicale della comunione di Cristo con i suoi”? La risposta
sembra implicita e facile dal punto di vista evangelico, che certamente non è
punto di vista secondario.
21. Sacerdoti sposati? La lezione
dell’Oriente
A questo proposito della importanza della
immagine evangelica si potrebbero considerare degli indizi indicativi
provenienti proprio dagli orientali. Essi infatti pur avendo ammesso nei secoli
che uomini sposati siano ordinati sacerdoti, non hanno mai ammesso, in nessun
caso, come vescovo un sacerdote sposato. Ci si potrebbe chiedere perciò perché
gli orientali, che avevano anche sacerdoti sposati, non abbiano mai ammesso che
uno di essi, per quanto degno e meritevole, fosse fatto vescovo... La risposta
a questa domanda sembra stare nel fatto che, in effetti, l’“ordine episcopale”
rappresenta la pienezza del “sacerdozio”, cioè la vera pienezza del vero segno
della “radicale comunione di Cristo con i suoi”. Oltre a questo primo
importante indizio, altri due indizi significativamente convergenti su questo
punto – presso gli orientali – sono i seguenti. Primo: l’ordinazione
sacerdotale – per i casi accennati di preti sposati – viene ammessa solo per
uomini già sposati; mentre non si ammette mai la possibilità di sposarsi a dei
preti già ordinati. Quindi, l’ordinazione sacerdotale sembra essere considerata,
di per sé, un obice al matrimonio. Secondo: se un prete sposato rimane vedovo,
anche con vari figli minori di età, non può risposarsi. Dunque, chi è ordinato
prete non può accedere al matrimonio, anche se è già stato prete sposato e con
figli.
22. Il celibato sacerdotale e la volontà
della Chiesa
Per sintetizzare su questa questione del
celibato sacerdotale in relazione alla vocazione sacerdotale, si può annotare
che la Chiesa cattolica, con il Sinodo mondiale dei vescovi del 1990, che
riprende e riafferma ciò che era stato già dichiarato nel Sinodo mondiale dei
vescovi del 1971, ha fatto la seguente dichiarazione formale ed esplicita: «Il
Sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di nessuno riguardo la
ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato,
liberamente scelto e perpetuo, per i candidati all’ordine sacerdotale nel rito
latino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella
sua ricchezza biblica, teologica e spirituale».
Ed è esattamente ciò che stiamo cercando
di fare con queste brevi considerazioni.
23. Il celibato: legge o criterio di
discernimento
Torniamo al discernimento della vocazione
sacerdotale; nello specifico a quel candidato che, riflettendo dentro di sé,
può giungere a dire: «Accetto personalmente il celibato, ma penso che, in
generale, si dovrebbe lasciare libertà di scegliere fra lo sposarsi e il non
sposarsi, a chi desidera fare il sacerdote». Si può in un tal caso dire che
egli abbia veramente la vocazione?
Se uno giungesse a pensare questo,
sembrerebbe che egli in effetti stia pensando che l’obbligo del celibato
sacerdotale, voluto dalla Chiesa, non sia altro che una “legge ecclesiastica”.
Naturalmente le indicazioni evangeliche
vengono tematizzate giuridicamente e divengono anche leggi ecclesiastiche; ma
occorre ben distinguere fra leggi che sono puramente ecclesiastiche e leggi che
sono invece tematizzazioni giuridiche di indicazioni evangeliche. In effetti,
quel candidato parrebbe pensare che il celibato sacerdotale sia solo una legge
ecclesiastica, piuttosto che una tematizzazione giuridica della logica
evangelica interna all’esperienza religiosa degli “apostoli” del Signore Gesù
e della loro testimonianza globale e radicale di vita e di comunione con lui.
In altri termini: non sembra rendersi conto che l’obbligo del celibato
sacerdotale, voluto dalla Chiesa, è la tematizzazione giuridica dell’esigenza
evangelica di vivere con e come il Signore Gesù, modello esemplare di ogni
sacerdote.
Stando così le cose, nel caso di una sua
crisi affettiva nel sacerdozio, che cosa si interporrebbe tra il candidato che
pensa che il celibato sacerdotale sia solo una legge ecclesiastica e il
matrimonio? Supponiamo che quel candidato arrivi al sacerdozio e che durante la
vita sacerdotale avvenga una crisi affettiva per una donna concreta: come
potrebbe rifiutare l’attrazione di un affetto romantico? In base alla sua idea
egli potrà infatti dire a sé stesso: «L’obbligo del celibato sacerdotale, che
ora mi impedisce di realizzare il mio sogno romantico, è solo una stupida legge
ecclesiastica. Perché non la cambiano?». Se egli pensa che l’obbligo del
celibato sacerdotale sia solo una stupida legge ecclesiastica non potrà avere
alcuna speranza di uscire vittorioso dalla sua crisi affettiva. Onestamente,
nessuno può chiedere a un uomo che si sposi con un “canone del diritto
ecclesiastico” e che faccia questo solo per esercitare una “funzione” o una
“grande funzione”.
D’altra parte, ci sono stati casi di
crisi sacerdotali, anche molto gravi, magari spinte fino all’abbandono di
tutto, in seguito alle quali, tuttavia, nel fondo dell’animo del sacerdote
colpito si poteva comunque riscontrare l’immagine corretta del sacerdozio e
della radicalità evangelica e significativa della sua missione. In tali casi,
la nostalgia del sacerdozio rimane invincibile nel cuore al punto di poter
indurre il sacerdote ferito piano piano verso il recupero della autentica
identità vocazionale. E che parole commoventi si possono ascoltare in questi
casi: «Però, padre, mi creda, non ho mai perduto la mia vocazione. Vorrei
ritornare, vorrei ritornare ma non so se posso».
24. Sacerdos enim alter Christus
Concludiamo. Per sapere se uno ha la
vocazione sacerdotale, elemento e criterio fondamentale sembra essere il seguente:
la intuizione “irrinunciabile” del tipo di amore – la comunione apostolica
nella sua radicalità – che egli si troverà a vivere nel sacerdozio, come
immagine visibile dell’invisibile Dio e come segno e fermento per la Chiesa e
per il mondo: Sacerdos enim alter Christus. A questo proposito ne consegue
un dettaglio interessante e non irrilevante. Se uno infatti intuisce questo, si
può già dire che è piuttosto avanti nel discernere pienamente la propria vocazione
sacerdotale. Intuisce infatti correttamente che egli si giocherà tutto, tutta
la vita, e questo gli piace. Anzi egli non può più concepire sé stesso in un
altro modo; per lui sarà inconfondibile l’idea radicale di “comunione
apostolica” che si è già formato. Tuttavia, in considerazione del fatto che
questo aspetto del radicalismo della “comunione apostolica” è ciò che egli
dovrà concretamente vivere nel sacerdozio, per questo stesso motivo questo
aspetto sarà per lui uno dei segni che egli dovrà mostrare, incominciando a viverlo
mentre è seminarista o novizio, per dare credibilità e affidabilità alla
propria vocazione.
Se uno, come sacerdote, dovrà vivere
questa comunione totale con il Signore Gesù e con i “suoi” – che è il “segno”
per Israele e per il mondo e l’immagine visibile della Santissima Trinità –
evidentemente dovrà cominciare a viverla fin da quando si prepara a divenire
sacerdote. Fin da seminarista, o da novizio, dovrà vivere questa profonda
relazione di comunione con i confratelli, dovrà avere buone amicizie, dovrà
essere benevolo convivendo con loro e essere felice per questa comunione,
dovrà saperla costruire per il futuro; cioè dovrà sapere salire “con loro e
con il Signore Gesù” su quella barca che li porterà dall’altra parte del mare,
sull’altra riva verso Dalmanùta.
25. Il sacerdote: uomo evangelico o
clericale?
Per finire su questo tema della vocazione
sacerdotale, aggiungerei due pensieri:
1) Il sacerdote è colui che – per sua
propria natura e per suo dovere – promuove, custodisce e difende l’unica vera
fede e l’adesione alla retta comunione della Chiesa e, in questo contesto,
favorisce la carità fraterna all’interno della comunità. Perciò dovrà essere
l’“uomo della fede” e l’“uomo dell’obbedienza” all’interno della Chiesa, cioè
ci si aspetta da lui che sia un promotore di vera fede e di unità nel tessuto
della Chiesa. Questo aspetto è uno degli elementi che non potrà essere
considerato come secondario nella valutazione di una vocazione sacerdotale.
Infatti per la Chiesa sono sommamente importanti – e imprescindibili – la
capacità e la volontà dei suoi sacerdoti di promuovere la vera fede, la
comunione coi Pastori e con il Papa e la unità di tutta la Chiesa.
2) Se un candidato al sacerdozio si
rivelasse un “clericale” non converrebbe ammetterlo alla ordinazione sacerdotale.
(Personalmente sono contrario al “clericalismo”. Nella mia regione di origine
c’è infatti una naturale allergia al “clericalismo”; si è così contrari fino a
toccare forme estreme e ugualmente riprovevoli di “anti-clericalismo”).
Quando è che uno potrebbe essere
considerato un “clericale”? Un sacerdote potrebbe essere definito “clericale”
quando tende a immischiarsi in ciò che non riguarda il suo ruolo, il suo
carisma e la sua vocazione sacerdotale: quando tende a usare il suo compito sacerdotale
per influire o manipolare altre aree, differenti e autonome. Di per sé il
“clericalismo” potrebbe riguardare sia le “alte sfere” del clero, sia i
sacerdoti semplici. Per esempio, se un vescovo si mettesse a fare il politico,
o il sindacalista o l’uomo di governo o il rivoluzionario o il dittatore, o a
promuovere lotte sociali potrebbe giustamente essere considerato un “clericale”
(così, analogamente, se si mettesse a svolgere qualunque altro ruolo “laico”,
cioè proprio dei “laici”, come il banchiere, il generale, il commerciante).
Perché un sacerdote non dovrebbe mettersi
a fare il politico o il “promotore sociale”, o il banchiere o il generale...?
Perché all’interno della Chiesa, come indica molto bene l’apostolo san Paolo e
come lo chiarisce espressamente il Concilio Vaticano II, esistono diversi
carismi, diversi ruoli e diverse vocazioni: da un lato per i “laici” – propri
del carisma dei “laici” – e da un altro lato per i sacerdoti – propri del
carisma dei sacerdoti.
Per contrapposto parallelismo si dovrebbe
segnalare che è inaccettabile il comportamento di quei laici, che tendono a
interferire indebitamente sull’altare, quando un sacerdote celebra la Santa
Messa. Mi sembra che non sia giusto che un laico cerchi di immischiarsi – per
esempio cercando di pronunciare l’omelia – nel ruolo proprio dei sacerdoti:
questo infatti non tocca a lui. Osservo – da questo punto di vista – che, in
generale, i sacerdoti tendono a tutelare e a difendere, giustamente, la loro
area di competenza.
Viceversa noi sacerdoti non dobbiamo
immischiarci nelle aree proprie della autonomia e della competenza dei laici,
dando fastidio con un “paternalismo” distruttivo e, appunto, “clericale”. Tocca
infatti ai laici la promozione delle “realtà temporali”, cioè delle attività e aree
politiche e sociali, naturalmente ai laici cristiani e formati. A noi sacerdoti
tocca, forse, di aiutare i laici a essere cristiani preparati, a conoscere la
dottrina sociale della Chiesa, a formarsi nella loro competenza propria,
relativa alle “realtà temporali”, questo ci compete, ma non possiamo e non
dobbiamo fare politica con loro, direttamente, e neppure in modo surrettizio.
Per una buona vocazione sacerdotale è
perciò necessario che il candidato conosca e sappia valutare giustamente queste
distinzioni: deve essergli assolutamente chiaro che non è chiamato ad andare a
vivere una vita da “leader politico”. Dicendo questo non stiamo
disprezzando il ruolo dei politici. Devono esserci dei laici politicamente
impegnati, deve esserci gente buona, e anche santa (san Tommaso Moro, per
esempio) che riveste secondo carisma e talento il ruolo di laico impegnato,
magari anche di leader, ma questo compito in nessun modo spetta a noi
sacerdoti. D’altro canto, a me piace sempre riprendere l’esempio della vita vissuta
nelle nostre famiglie e nelle nostre parrocchie. Ognuno di voi conosce il
proprio padre e il proprio parroco e sa fare con semplicità questa elementare
distinzione: che il padre non si deve intromettere nel ruolo e nell’area del
suo parroco; e che il suo parroco non deve intromettersi nel ruolo e nell’area
del padre.
A ognuno, dunque, è dato di perseguire il
proprio ruolo e il proprio carisma nei limiti dell’area di competenza. Noi
sacerdoti, seguendo le parole del Signore Gesù, diamo volentieri «a Cesare
quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», mentre, serenamente,
«saliti sulla barca con lui, andiamo dell’altra parte del mare, verso una
regione chiamata Dalmanùta».
CELIBATO E FRATERNITÀ SACERDOTALE*
Premessa
Alcuni autori oggi presentano il problema
della relazione fra sacerdozio e celibato partendo dalla legge canonica ed
osservano che, essendo il celibato vincolato al sacerdozio per legge canonica,
è sufficiente togliere questo impedimento di diritto ecclesiastico per
sollevare il peso grave di quanti si sentirebbero di vivere il sacerdozio, ma
non il celibato.
Tale impostazione del problema è chiara,
anche se alquanto semplicistica.
Ciò che stupisce di più è che tale
impostazione del problema provenga anche da ambienti di cultura teologica
generalmente contrari ad una impostazione giuridicistica dei problemi umani ed
ecclesiali. Essa spesso è manifestazione di una visione esclusivamente
funzionale del sacerdozio ministeriale. Il prete, cioè, è visto come un
funzionario, come un individuo che rende un servizio alla comunità, ma non v’è
niente che tocchi veramente la profondità della sua persona, il suo essere, non
vi è niente di ontologico insomma in quanto il prete non sarebbe una reale
ripresentazione del Cristo. Purtroppo d’altra parte, per contrastare alla
conclusione a cui questi giungono, si fa spesso appello a motivazioni
esclusivamente sovrannaturali e trascendenti: motivazioni che sono certamente
valide e fondamentali, ma che, se restano isolate, creano difficoltà per la
nostra mentalità contemporanea così sensibile ai valori dell’uomo e ai segni
dell’incarnazione del divino.
Così questa seconda prospettiva, per il
fatto di essere parziale crea più sfiducia che fiducia, più danno che aiuto per
la comprensione del problema.
I Osservazioni di carattere teologico sulla connessione fra
sacerdozio e celibato
A mio parere occorrerebbe invece, per una
migliore impostazione del problema, partire dalla considerazione del popolo di
Dio come comunione: comunione che Dio ha voluto suscitare nel mondo, con la Sua
Incarnazione, per manifestare e propagare la stessa comunione di amore
esistente nella Trinità.
I sacramenti di stato, Matrimonio e
Ordine, hanno appunto principalmente questa funzione di manifestare ed
edificare questa comunione.
Per quanto riguarda il matrimonio è noto
il valore di segno della unione sponsale fra Cristo e la Chiesa (cfr. Lettera
agli Efesini) che esso porta in sé.
Per quanto riguarda il sacramento
dell’Ordine, occorrerà in particolare tener presente la novità di prospettiva
messa in luce dal Vaticano II, che l’ha presentata esplicitamente e
coscientemente nei suoi documenti.
Con l’Ordine i presbiteri non soltanto
sono deputati al compito di edificare in unità, mediante il ministero della parola
e l’Eucaristia, il popolo di Dio, ma anche a manifestare in modo sacramentale
ed unico l’amore fraterno, servendo anche in tal modo l’unica causa dell’edificazione
del regno di Dio.
Mediante l’Ordinazione, dice questo
Concilio,
i presbiteri vengono uniti fra loro da una fraternità e per la prima volta
nella storia dei Concili si dice che questa fraternità è “sacramentale”, cioè
vi è un legame ontologico che si costituisce mediante la Sacra Ordinazione non
solo con Cristo, ma fra tutti i sacerdoti.
Il Concilio precisa inoltre che questa
fraternità sacramentale è intima, cioè il vincolo che lega i sacerdoti fra loro
tocca il fondo della loro personalità, strutturandone e trasformandone
l’esistenza ed è più profondo di quello derivante dal battesimo, che lega
tutti i cristiani fra loro; i quali, appunto, nel sacramento dell’Ordine
trovano la fonte e l’esemplare della loro stessa comunione.
Questo legame ontologico non deve essere
confuso con il semplice legame che abbiamo tra noi sacerdoti nel presbiterio
diocesano; infatti i teologi fanno già la distinzione, basandosi sulla mente
del Concilio, cioè sugli interventi fatti dai Padri su questo punto, fra
diritto divino per la “Fraternità Sacramentale”, che coinvolge tutti coloro che
ricevono la Sacra Ordinazione, e diritto ecclesiastico per l’adesione al
presbiterio diocesano, che della fraternità sacramentale o collegialità
sacerdotale non è che una attuazione contingente.
La immagine prima di questa realtà, messa
in luce per la prima volta da questo Concilio e su cui già si è cominciato a
studiare con convegni e pubblicazioni si trova nella cerchia ristretta
degli Apostoli del Signore e nella loro comunione di vita con Lui:
«ne scelse dodici per averli con sé e per mandarli a predicare» (Mc 3,
14).
Questa comunione profonda ed inaudita che
li legava al Signore e fra loro ha richiesto agli apostoli una triplice
separazione («Reliquimus omnia et secuti sumus te», Mt 19, 27
ss.); il Signore, infatti (cfr Discorsi di Paolo VI ai Quaresimalisti Romani
1969 e 1970), ha costituito con i suoi apostoli una comunione così definitiva e
profonda da sradicarli:
1) dal lavoro in cui essi erano impegnati
(Mt 4, 18-22 e pp. Mt 9, 9 e pp.);
2) dal Maestro di cui essi erano i
discepoli (Giovanni Battista), (cfr Gv 1, 35-51);
3) dalle loro famiglie stesse (Mt
4, 22 e pp.; Mt 19, 20 e pp.) «per averli con sè» (Mc 3, 14).
Diviene chiaro, a questo punto, il valore
del legame del celibato con l’Ordine Sacro, riaffermato positivamente ed
esplicitamente dal Concilio sia per quanto riguarda la legislazione esteriore,
sia per quanto riguarda la intima connessione e convenienza: cioè la figura di Cristo,
unico sacerdote eterno, viene ripresentata in pienezza dal segno sacerdotale a
causa di una con-vergenza, con-correnza, convenienza di elementi, fra cui
certamente, come dice il Concilio, il celibato, che ripresenta la forma di
amore anche umano vissuta dal Signore con i suoi, allorché, nel corso del suo
ministero evangelico, staccando alcuni uomini dai loro legami naturali, ha
costituito una comunità umana di tipo nuovo, unita da un legame di tipo diverso
ma non meno profondo del precedente e ciò proprio in vista del ministero
apostolico a cui chiamava questi uomini.
Il celibato dunque non va più visto solo
nella prospettiva di una separazione dal mondo per una consacrazione al Dio
trascendente o di una maggiore disponibilità verso i fedeli. Ma va visto anche
come esigenza necessaria di questa condizione di vita, cioè di questa comunione
fraterna che lega inter se, dice il Concilio, i sacerdoti e rende
visibile la comunione vissuta dal Signore con i suoi Apostoli e così fa da
fermento alla comunione della Chiesa.
II. Osservazioni di carattere
psicologico-esistenziale
Vi è una tendenza nella filosofia
contemporanea a considerare la intersoggettività non come accidentale, ma come
sostanziale e costitutiva della persona e questo porta a considerare come
primario l’orientamento dell’“io” verso il “tu” e non verso il “non io”. La
relazione interpersonale diviene allora talmente essenziale alla costituzione
della persona da potersi sintetizzare questa essenzialità nell’assioma aut
duo aut nemo. Si giunge cioè alla impossibilità di cogliere la persona
come monade isolata, perché la sua situazione tipica è quella del “noi”
dell’amore in cui un “io” e un “tu” si amano completamente e si promuovono
mutuamente, per questo la persona non è tanto qualcosa in sé, quanto uno
slancio verso il tu. «È sussistendo in alio che un essere personale ha
la capacità di esistere in sé e per sé». Nédoncelle si è ispirato al
dogma Trinitario per ricercare se la persona sia essenzialmente reciproca «il
dogma cristiano pensa per esempio che l’essenza di Dio si esprima in una
Trinità di Persone: la realtà suprema vi è dunque definita come un sistema di
relazioni sussistenti, di cui tutto il significato, dicono gli scolastici, è un
esse ad. Si vede che le speculazioni relative alla Trinità sono piene di
interesse per chi vuole delucidare il problema del contatto degli spiriti».
Ora se noi intendiamo come sacramento di
stato
la qualificazione a livello sacramentale (cioè il fatto che venga radicalizzato
e reso significativo al livello sacramentale) dello stato esistenziale
dell’individuo, noi non possiamo distinguere questo sacramento dall’essere
della persona in quanto “relazione ad”.
Ebbene se riconsideriamo la tipologia
assai ricca di tutte le possibili relazioni umane, ci accorgiamo che esse
possono essere facilmente raggruppate secondo tre categorie:
1. Relazioni di dipendenza filiali;
2. Relazioni di parità (non se ne
riconoscono in genere che due, cioè la unione coniugale e la fraternità o
amicizia);
3. Relazioni di paternità.
Si può notare facilmente che esse
corrispondono essenzialmente alle tre relazioni Trinitarie e che sono assai
tipiche, generalmente, dei tre stadi principali della vita umana, cioè
giovinezza, maturità e senilità.
Ci si chiede ora quali di queste
relazioni umane, essenziali a vivere integralmente la propria vita ed a
scoprirne il valore, siano state elevate a sacramento di stato. Per il nostro
scopo la domanda può essere formulata anche in altro modo, cioè chiedendosi se
il Signore Gesù, che fu uguale in tutto all’uomo, fuorché nel peccato (Eb
4,15) e coloro che, a sua imitazione, hanno abbracciato un sacerdozio
celibatario, abbiano vissuto e possano vivere un amore di maturità, cioè una
relazione di parità, e se questa vita così configurata sia ciò che dalla loro
missione è loro richiesto di manifestare.
La risposta può venirci dal dato biblico,
che può farci rilevare come di tutti i tipi di relazioni umane il Signore ne
abbia assunti due e li abbia elevati a sacramento di stato: essi sono appunto
gli unici due tipi di relazioni di parità, cioè la unione coniugale e la
fraternità o amicizia.
Per quanto riguarda la unione coniugale
il fatto è già a tutti noto e da tempo messo in luce.
Quanto all’amicizia si può osservare come
essa sia la struttura tipica usata da Cristo nell’incontro, la preparazione,
la costituzione e la missione degli apostoli e resti la loro forma di
relazione umana (Gv 13, 35, 15, 15 s.; Lc 12, 4….).
Ora come la dinamica tipica del
matrimonio e la sua spiritualità è la evoluzione nel contesto sacramentale
della relazione umana che sta alla base di quel sacramento, cioè la unione
coniugale; così si può dire che la dinamica tipica dell’Ordine e la sua
spiritualità è la evoluzione nel contesto sacramentale della relazione umana
che sta alla sua base cioè la fraternità-amicizia. «Dirò dunque
dell’amicizia ciò che Giovanni, amico di Gesù, ricorda della carità: Dio è
amicizia?… ciò che viene scritto della carità non dubito di applicarlo
all’amicizia, perché chi vive nell’amicizia vive in Dio e Dio in lui».
Basterebbe questo pensiero di Aelredo per mettere in evidenza il grande valore
e la funzione fondamentale che l’amicizia ha sempre avuto nella vita cristiana. Ma
più in particolare si vedano varie testimonianze su come questa relazione stia
a fondamento dell’esistenza sacerdotale: «I sacerdoti sono fratelli, partecipi
delle gioie e delle sofferenze, uniti in animo aperto senza segreti, compatti
attraverso i medesimi intenti apostolici perché amici: non vi chiamo più servi,
perché il servo non sa quel che fa il padrone, vi ho chiamato amici, perché vi
ho fatto conoscere quello che ho udito dal Padre mio». E ancora M. Rétif:
«il sacerdote ha bisogno del sacerdote per essere sacerdote: in questo senso è
la équipe sacerdotale che si impone come prima esigenza. Il sacerdozio è
di natura collegiale.
Io non posso più essere sacerdote senza
vivere, lavorare, con altri sacerdoti. Il sacerdote che io sono non riconosce
più in sé l’idea, che gli si era presentata da principio, di un sacerdozio soprattutto
funzionale e come indipendente dagli altri sacerdoti».
Questa visione del sacramento dell’Ordine
lo configura quindi, in modo conforme a una concezione personalistica del fatto
cristiano,
ponendo alla sua base una relazione particolare, caratteristica ed esclusiva con
Cristo e con gli altri sacerdoti; il che dà poi origine, conseguentemente, alla
missione.
Ebbene questa concezione ritengo che
possa essere avvalorata e illuminata ulteriormente, riflettendo sulla struttura
fondamentale della economia della salvezza: l’alleanza.
Com’è noto, nella Bibbia l’alleanza è
presentata in diverse forme: ad esempio quella di una relazione
paterno-filiale, quella di una relazione matrimoniale e in particolare quella
di una relazione amicale (fra Dio e singole persone: Abramo, Mosè; fra Dio e il
popolo). Contemporaneamente si assiste all’introduzione nelle relazioni fra Dio
e il suo popolo dei riti caratteristici dei patti di alleanza, di amicizia, in
uso allora (Gn 15, 12-21; Is 24, 3-8) e ancor oggi in mezzo a
diversi popoli.
Questo processo è culminato infine, colla
venuta di Cristo, nel sacrificio detto della Nuova Alleanza, l’Eucarestia. Da
quanto fin qui accennato, appare chiaro il grande valore di questa relazione
d’amicizia nell’economia cristiana e la sua grande significatività e come sia
particolarmente indicato che i ministri della nuova alleanza ne siano così
interiormente segnati da assumerla come struttura portante della loro
esistenza. Essi infatti sono coloro che devono presiedere alla Eucaristia, come
devono presiedere alla carità.
Essi sono stati mandati a suscitare nel
mondo quella comunione, quella fraternità cristiana che è il centro del
messaggio di Cristo. È molto conveniente dunque che essi siano i
primi a viverla. Pur essendo infatti il matrimonio un valore eminentemente
cristiano, esso è destinato a finire, mentre il valore che resterà sempre è
proprio la fraternità cristiana di cui i sacerdoti vogliono essere un’immagine
vivente, tutta particolare. Questo stato di vita non li pone su un gradino più
alto rispetto agli altri cristiani, ma costituisce la loro forma propria di
relazione, complementare nell’economia cristiana, con l’esistenza matrimoniale.
Come dice il Vat. II: «essi diventano segno vivente di quel mondo futuro…
presente già attraverso la fede e la carità, nel quale i figli della
risurrezione non si uniscono in matrimonio».
Questa straordinaria amicizia, o
comunione, che si crea con la Sacra Ordinazione, come vero amore esistenziale,
vitale e concreto, va costruita in modo da coinvolgere, come vero amore
cristiano, tutte le valenze umane della persona. Chiarificatrice da questo punto
di vista la seguente pagina di Schillebeeckx sullo sradicamento che opera
questo tipo di vocazione: «…Quanto al contenuto tutt’e tre i sinottici parlano
certamente dell’“abbandono della moglie” per amore del Regno di Dio… Il
sottinteso, secondo cui chiunque sia sotto il potere esclusivo di Gesù in modo
speciale, non può, esistenzialmente, comportarsi in altra maniera che lasciare
tutto e rinunziare alla vita coniugale è un dato autenticamente biblico…».
A questa visione del sacramento
dell’Ordine in prospettiva personalistica si oppongono due ostacoli che
sostanzialmente prendono avvio dallo stesso equivoco e cioè una visione
dell’unione coniugale come centrale, finale e necessaria relazione umana di
parità nello sviluppo della maturità dell’individuo.
Alcuni, cioè i sostenitori della
Verginità in chiave volontaristica e spiritualistica, evitano questo ostacolo
appellandosi unicamente ad agganci soprannaturali (Grazia, Fede,…). Altri
vedono la poca consistenza sul piano umano di questa posizione e la sua
sostanziale contraddittorietà con la legge fondamentale della Incarnazione;
quindi rifiutano questo tipo di soluzione, però, agganciati come sono al
precedente equivoco di esagerare il valore dell’unione coniugale rispetto alle
altre relazioni umane, cadono nella richiesta del matrimonio come soluzione
umana necessaria o almeno desiderabile.
In verità, fondamentale elemento per la
autentica realizzazione dell’“io”, è la intersoggettività, la fusione delle
persone, degli spiriti, vincendo l’isolamento interiore provocato dalla propria
maschera umana. La persona si realizza quando riesce a comunicare in parità con
il profondo di un’altra persona e così a vincere la solitudine.
Un processo di questo tipo è
indubbiamente quello che si realizza attraverso l’unione coniugale nel
Matrimonio.
Analogo tuttavia è quello che si realizza
con la comunione fraterna e amicale nel sacramento dell’Ordine, che lega tanto
profondamente le persone, come la vita stessa del Signore ha mostrato.
La persona, con questo processo di
comunione è completamente capace di realizzarsi nella sua umanità, come il
Signore ci ha pienamente rivelato con la sua Verginità vissuta, certamente non
povera di amore.
In effetti S. Tommaso già fa notare, come
molti poi fino a noi, che l’amicizia è fine di ogni altra relazione;
essa quindi allorché è vissuta come relazione a sé stante, nella vita
sacerdotale, non è certo inferiore ad altre relazioni umane come capacità di
perfezionamento dell’individuo.
Quindi il problema si risolve col porre
sullo stesso piano le relazioni umane che stanno alla base dei due sacramenti
di stato. La scelta che è necessario ciascuno operi, fatta in base ai propri
carismi e alla propria vocazione particolare, sarà comunque una rinuncia,
proprio perché scelta operata da un essere limitato, nello stesso modo che,
d’altra parte, analogicamente, è una rinuncia a una donna la scelta di un’altra
occasione del matrimonio.
Conclusione
In questa prospettiva il sacerdozio
uxorato (pur conservando tutta la pienezza di giurisdizione e la potenzialità
del sacramento) assume solo una prospettiva limitata e particolare, cioè di
transizione, per situazioni particolari verso la pienezza espressiva del segno.
Interessante, per concludere, la
testimonianza di Paolo VI nella enciclica sul Celibato del 26-6-1967: «La
risposta alla divina vocazione è una risposta d’amore che Cristo ci ha dimostrato
in maniera sublime (Gv 15, 13; Gv 3, 16). Perciò la scelta del
sacro celibato è sempre stata considerata dalla Chiesa ‘quale segno e stimolo
della carità’ (Const. dogm. Lumen Gentium, n. 42)... raro e oltremodo
significativo esempio di una vita che ha come movente e forza l’amore, nel
quale l’uomo esprime la sua esclusiva grandezza».
Occorrono ora, come dopo ogni Concilio,
alla Chiesa dei santi che vivano queste prospettive, messe in luce dai testi
conciliari e così corrispondenti alla natura umana.
La legislazione infatti della Chiesa
Latina si appoggia non su un capriccio o su un disprezzo del valore
dell’umano, ma sopra un chiaro fondamento teologico; essa tende a che il
segno sacerdotale anche per il maggior bene del popolo di Dio, sia manifestato
in tutta la sua pienezza.
MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ*
BENEDETTO XVI AI
SEMINARISTI IN OCCASIONE DELLA XX GIORNATA
MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
Colonia, Chiesa di S. Pantaleon
Venerdì, 19 agosto 2005
Cari
Confratelli nell’Episcopato e nel sacerdozio,
cari seminaristi!
Vi saluto tutti con grande affetto,
ringraziandovi per la vostra festosa accoglienza e soprattutto per essere
venuti a questo appuntamento da numerosi Paesi dei cinque continenti: noi
formiamo qui veramente un’immagine speculare della Chiesa cattolica sparsa nel
mondo. Ringrazio innanzitutto il Seminarista, il Sacerdote e il Vescovo, che ci
hanno offerto la loro personale testimonianza, e debbo dire che mi ha colpito
profondamente il vedere le strade sulle quali il Signore ha condotto queste
persone in modo inaspettato e opposto ai loro progetti. Grazie di cuore. Sono
lieto di questo incontro. Ho voluto – questo già è stato detto – che nel
programma di queste giornate di Colonia fosse inserito uno speciale incontro
con i giovani seminaristi, perché emergesse veramente in tutta la sua
importanza la dimensione vocazionale, che gioca un ruolo sempre più grande
nelle Giornate Mondiali della Gioventù. La pioggia che sta scendendo dal cielo
ci si mostra – mi sembra – anche come una benedizione. Voi siete seminaristi,
cioè giovani che, in vista di un’importante missione nella Chiesa, si trovano
in un tempo forte di ricerca di un rapporto personale con Cristo, dell’incontro
con Lui. Perché questo è il seminario: non tanto un luogo, ma, appunto, un
significativo tempo della vita di un discepolo di Gesù. Immagino l’eco che
suscitano nei vostri cuori le parole del tema di questa ventesima Giornata
mondiale – “Siamo venuti per adorarlo” – e l’intero toccante racconto
del cercare e trovare da parte di questi saggi. Ciascuno a suo modo – pensiamo
alle tre testimonianze che abbiamo ascoltato – è come loro una persona che vede
una stella, si mette in cammino, sperimenta anche il buio e sotto la guida di
Dio può giungere alla meta. Questa pagina evangelica sul cercare e trovare dei
Magi riveste un significato singolare proprio per voi, cari seminaristi, perché
state compiendo un percorso di discernimento – è questo un vero cammino – e di
verifica della chiamata al sacerdozio. Su questo vorrei soffermarmi a
riflettere con voi.
Perché i Magi da paesi lontani andarono a
Betlemme? La risposta è legata al mistero della “stella” che essi videro
“sorgere” e che identificarono come la stella del “re dei Giudei”, cioè come il
segno della nascita del Messia (cfr Mt 2, 2). Quindi il loro viaggio fu
mosso dalla forza di una speranza, che nella stella ottenne poi la sua conferma
e ricevette la sua guida verso il “re dei Giudei”, verso la regalità di Dio
stesso. Perché questo è il senso del nostro cammino: servire la regalità di Dio
nel mondo. I Magi partirono perché nutrivano un desiderio grande, che li
spingeva a lasciare tutto e a mettersi in cammino. Era come se aspettassero da
sempre quella stella. Come se quel viaggio fosse da sempre inscritto nel loro
destino, che ora finalmente si realizzava. Cari amici, è questo il mistero
della chiamata, della vocazione; mistero che coinvolge la vita di ogni
cristiano, ma che si manifesta con maggiore evidenza in coloro che Cristo
invita a lasciare tutto per seguirlo più da vicino. Il seminarista vive la
bellezza della chiamata nel momento che potremmo definire di “innamoramento”.
Il suo animo è colmo di stupore, che gli fa dire nella preghiera: Signore,
perché proprio a me? Ma l’amore non ha “perché”, è dono gratuito, a cui si
risponde con il dono di sé.
Il seminario è tempo destinato alla
formazione e al discernimento. La formazione, come ben sapete, ha diverse
dimensioni, che convergono nell’unità della persona: essa comprende l’ambito
umano, spirituale e culturale. Il suo scopo più profondo è di far conoscere
intimamente quel Dio che in Gesù Cristo ci ha mostrato il suo volto. Per questo
è necessario uno studio approfondito della Sacra Scrittura come anche della
fede e della vita della Chiesa, nella quale la Scrittura permane come parola
vivente. Tutto ciò deve collegarsi con le domande della nostra ragione e quindi
con il contesto della vita umana di oggi. Questo studio, a volte, può sembrare
faticoso, ma esso costituisce una parte insostituibile del nostro incontro con
Cristo e della nostra chiamata ad annunciarlo. Tutto concorre a sviluppare una
personalità coerente ed equilibrata, in grado di assumere validamente per poi
compiere responsabilmente la missione presbiterale. Decisivo è il ruolo dei
formatori: la qualità del presbiterio in una Chiesa particolare dipende in
buona parte da quella del seminario, e perciò dalla qualità dei responsabili
della formazione. Cari seminaristi, proprio per questo con viva riconoscenza
oggi preghiamo per tutti i vostri superiori, professori ed educatori, che
sentiamo spiritualmente presenti a questo incontro. Chiediamo al Signore che
possano assolvere nel modo migliore il compito così importante a loro affidato.
Il seminario è tempo di cammino, di ricerca, ma soprattutto di scoperta di
Cristo. Infatti, solo nella misura in cui fa una personale esperienza di
Cristo, il giovane può comprendere in verità la sua volontà e quindi la propria
vocazione. Più conosci Gesù e più il suo mistero ti attrae; più lo incontri e
più sei spinto a cercarlo. È un movimento dello spirito che dura per tutta la
vita, e che trova nel seminario una stagione carica di promesse, la sua
“primavera”.
Giunti a Betlemme, i Magi, «entrati nella
casa – come dice la Scrittura –, videro il bambino con Maria sua madre, e
prostratisi lo adorarono» (Mt 2, 11). Ecco finalmente il momento tanto
atteso: l’incontro con Gesù. “Entrati nella casa”: questa casa rappresenta in
un certo modo la Chiesa. Per incontrare il Salvatore, bisogna entrare nella
casa che è la Chiesa. Durante il tempo del seminario nella coscienza del
giovane seminarista avviene una maturazione particolarmente significativa: egli
non vede più la Chiesa “dall’esterno”, ma la sente per così dire “dall’interno”
come la sua “casa”, perché casa di Cristo, dove abita “Maria sua madre”. Ed è
proprio la Madre a mostrargli Gesù, suo Figlio, a presentarglielo, a farglielo
in un certo modo vedere, toccare, prendere tra le braccia. Maria gli insegna a
contemplarlo con gli occhi del cuore e a vivere di Lui. In ogni momento della
vita di seminario si può sperimentare questa amorevole presenza della Madonna,
che introduce ciascuno all’incontro con Cristo, nel silenzio della meditazione,
nella preghiera e nella fraternità. Maria aiuta ad incontrare il Signore
soprattutto nella Celebrazione eucaristica, quando nella Parola e nel Pane
consacrato Egli si fa nostro quotidiano nutrimento spirituale.
«E prostratisi lo adorarono... e gli
offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Mt 2, 11-12). È questo il
culmine di tutto l’itinerario: l’incontro si fa adorazione, sboccia in un atto
di fede e d’amore che riconosce in Gesù, nato da Maria, il Figlio di Dio fatto
uomo. Come non vedere prefigurata nel gesto dei Magi la fede di Simon Pietro e
degli altri Apostoli, la fede di Paolo e di tutti i santi, in particolare dei
santi seminaristi e sacerdoti che hanno segnato i duemila anni di storia della
Chiesa? Il segreto della santità è l’amicizia con Cristo e l’adesione fedele
alla sua volontà. “Cristo è tutto per noi”, diceva Sant’Ambrogio; e San
Benedetto esortava a nulla anteporre all’amore di Cristo. Cristo sia tutto per
voi. A Lui, soprattutto voi, cari seminaristi, offrite ciò che avete di più
prezioso, come suggeriva il venerato Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per
questa Giornata Mondiale: l’oro della vostra libertà, l’incenso della
vostra preghiera ardente, la mirra del vostro affetto più profondo (cfr n. 4).
Il seminario è tempo di preparazione alla
missione. I Magi “fecero ritorno” al loro Paese e certamente resero
testimonianza dell’incontro con il Re dei Giudei. Anche voi, dopo il lungo e
necessario itinerario formativo del seminario, sarete inviati per essere i
ministri del Cristo; ciascuno di voi tornerà tra la gente come alter
Christus. Nel viaggio di ritorno, i Magi dovettero affrontare certamente
pericoli, fatiche, smarrimenti, dubbi... Non c’era più la stella a guidarli!
Ormai la luce era dentro di loro. Ad essi spettava ormai custodirla e
alimentarla nella costante memoria di Cristo, del suo Volto santo, del suo
Amore ineffabile. Cari seminaristi! Se Dio vorrà, un giorno anche voi,
consacrati dallo Spirito Santo, inizierete la vostra missione. Ricordatevi
sempre le parole di Gesù: «Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9). Se
rimarrete vicino a Cristo, con Cristo e in Cristo, porterete molto frutto, come
Egli ha promesso. Non voi avete scelto lui – l’abbiamo appena sentito nelle
testimonianze – ma Lui ha scelto voi (cfr Gv 15, 16). Ecco il segreto
della vostra vocazione e della vostra missione! Esso è conservato nel cuore
immacolato di Maria, che veglia con amore materno su ognuno di voi. A Maria
ricorrete sovente e con fiducia. A tutti voi assicuro il mio affetto e la mia
preghiera quotidiana, mentre di cuore vi benedico.
INDICE
INTRODUZIONE
di S.E. Mons. Luigi Negri 5
CELIBATO ECCLESIASTICO
E FRATERNITÀ SACERDOTALE.
Breve riflessione biblico-teologica-esistenziale
sui dati proposti dal Magistero
Premessa 13
Parte A, in tre punti 16
1) I dati evangelici 16
2) La tradizione post-pasquale dei
detti del
Signore Gesù 21
3) La redazione dei Vangeli circa i
detti sulla
“sequela” 24
Parte B, approccio ad una lettura di
fondo, nella
intenzione esistenziale del Signore – in chiave “spirituale” – dei dati biblico-teologici 27
Conclusione 33
Corollario primo 34
Corollario secondo 36
IL CELIBATO ECCLESIASTICO
E LA FRATERNITÀ SACERDOTALE
(“Apostolica Vivendi Forma”) nel Magistero recente della Chiesa
Il Concilio 43
L’Enciclica Sacerdotalis Coelibatus 44
Il testo del Sinodo dei Vescovi del 1971:
Il Sacerdozio Ministeriale 46
Conclusione circa il Magistero 54
Due corollari: 56
Primo corollario 56
Secondo corollario 58
LA
FERMEZZA DELLA CHIESA
di Giovanni Paolo II 59
“Ammiro
la fraternità sacerdotale”
di Giovanni Paolo II 61
ALTRI SCRITTI
DISCERNIMENTO
DI UNA VOCAZIONE SACERDOTALE 67
1. I criteri di osservazione 68
2. L’uso della psicologia 68
3. Abusi gravi nell’uso della psicologia 70
4. Come capire una vocazione autentica? 73
5. Vocazione sacerdotale o «determinismi
psichici»? 74
6. I segni dei tempi 76
7. Anomalie nei “criteri deterministici” 77
8. Vocazione sacerdotale o vocazione
canonica 79
9. Il criterio: la comunione apostolica 81
10. La vita degli apostoli 84
11. Il celibato sacerdotale e l’apostolica
vivendi
forma 85
12. Sequela Christi: mirare a lui
per
raggiungere
la meta 87
13. Dalmanùta: la meta misteriosa 89
14. L’“ordine” sacerdotale: una comunione 91
15. L’intuizione di un progetto globale 92
16. Fantasmi e realtà: sacerdos alter
Christus 92
17. Una testimonianza: non poter essere
altrimenti 96
18. Convenienza del celibato con la vita
sacerdotale 99
19. Clero coniugato o clero celibe? 101
20. Un’analogia fra matrimonio e
sacerdozio 104
21. Sacerdoti sposati? La lezione
dell’Oriente 105
22. Il celibato sacerdotale e la volontà
della
Chiesa 106
23. Il celibato: legge o criterio di
discernimento 106
24. Sacerdos enim alter Christus 108
25. Il sacerdote: uomo evangelico o
clericale? 109
CELIBATO
E FRATERNITÀ SACERDOTALE
Premessa 113
I Osservazioni di carattere teologico sulla
connessione fra sacerdozio e celibato 115
II
Osservazioni di carattere
psicologico-esistenziale 122
Conclusione 132
MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AI SEMINARISTI IN OCCASIONE DELLA XX GIORNATA
MONDIALE DELLA GIOVENTÙ 135
J. Ratzinger, Il sacerdote di domani, in Studi
Cattolici, n. 108, 1970, p. 184. «Altri affermano che il sacerdozio è una
professione come tutte le altre, una professione che viene svolta come quella
dell’insegnante, del commerciante, del politico, alla quale si può rinunciar
quando la vita lo impone». N. Bussi,
La problematica teologica attuale attorno al ministero sacerdotale, in Presenza
Pastorale, n. 3, 1970, p. 131. «Alcuni affermano che il ministero
sacerdotale, non può essere una partecipazione all’unico ministero sacerdotale
di Cristo, perché verrebbe a sminuirlo (non si crederebbe più alla sua
sufficienza) e anche ad opporvisi. Secondo tale mentalità si dovrebbe dire che
lo splendore della luna, partecipazione di quello del sole, sarebbe una
diminuzione, anzi una opposizione di quest’ultimo». In questo articolo alle pp.
126-143 N. Bussi presenta uno schema delle tre tendenze principali nella
visione del sacerdozio: 1) protestante o presenza memoriale simbolica di Cristo
nella Chiesa; 2) secolarista in cui il sacerdozio assume un aspetto funzionale;
3) cattolica: una presenza reale ontologica di Cristo nella Chiesa. A questo
proposito si veda pure la osservazione di C. Journet
nel libro Il primato di Pietro in cui afferma: vi sono «due concezioni
inconciliabili del Cristianesimo: una che è propria dei Cattolici e anche degli
Ortodossi, l’altra che fa da sfondo alle diverse dottrine protestanti, che
agisce su di esse con una influenza ora diretta e rigorosa, ora più distante ed
attenuata… Nel primo caso si pensa prima di tutto a una presenza ontologica di
Cristo nel Cristianesimo… Nel secondo caso si pensa a una presenza memoriale di
Cristo nel Cristianesimo» (Nota 15 art. cit. del Bussi). Cfr. il recente studio
(1966) del teologo protestante svedese P. E.
Persson sul concetto di
ministero nella recente teologia cattolica che è intitolato Repraesentatio
Christi, 1966.
«Soprattutto da quando se ne è occupato Karl Rahner, si dice
semplicemente che il “celibato per amore del Regno di Dio” porta chiaramente in
segno questo carattere di trascendenza che la grazia possiede rispetto al
mondo. Penso che ciò sia esatto,
ma solo se inteso come un aspetto di quella struttura fenomenologica del
celibato abbracciato per attuare un valore. Il celibato in quanto tale non è un
“valore soprannaturale”, bensì una forma di esistenza umanamente
significativa. Fuori di questa prospettiva, la spiegazione di Rahner ha troppo
l’aria di una costruzione, di una pura teoria, che corre il pericolo di porre
un mal celato dilemma tra Dio e il matrimonio. Il celibato è certamente una
scelta, ma tra due possibilità di esistenza cristiana; formalmente non è una
scelta fra un valore naturale e uno soprannaturale». E. Schillebeeckx, Il celibato del
ministero ecclesiastico, Roma, 1968, p. 128.
J. Hamer, L’Église est une communion,
Paris 1962.
R. Spiazzi,
Decreto sul Ministero e la vita sacerdotale, Esposizione e commento,
Torino 1966, pp. 229-232.
I. Von Allmen, Maris et femmes d’après Saint
Paul, Neuchâtel 1951; H. Rondet,
Unis comme le Christ et l’Église, nel volume Un seul corp, un seul
esprit, Le Puy, 1952; P. Adnèss,
Le Mariage, Tournay-Descléé 1963; Card. G. B. Montini, Famiglia Cristiana, Roma 1964; K. Rahner, Sur le Mariage, Paris
1966.
Card. Fr. Marty, «Le Décret parle presque toujours
des prêtres au pluriel: c’est en general voulu, on se trouve dès le départ dans
une conception organique du sacerdoce, au centre de laquelle il faut placer le
collège épiscopal. Le prêtre ne peut jamais donc être consideré isolément; on
ne peut emême le rattacher exclusivement à un évêque particulier car il est
fondamentalement membre du corps sacerdotal tout entier et il participe à
toutes les prérogatives de ce corps…». Décret sur le ministère et la vie des
prêtres «Presbyterorum Ordinis» Introduction, Paris 1966, p. 172. Un
altro indizio della novità di prospettiva su questo punto è fornito sull’attenzione
particolare data al problema della vita comune: «Il primo concilio che tratta ex
professo della vita comune del clero diocesano è il Vat. II. Già il primo
schema «De Clericis» trattava al N. 12 l’aspetto della vita comune dei
sacerdoti. Così pure negli otto schemi preparati durante quasi cinque anni di
lavoro, venne sempre inserito un capitolo sulla vita comune del clero, e benché
illustrato con motivazioni diverse si giunse alla formulazione del N. 8 del
testo attuale». D. Mazzoleni, Vita
comune del presbiterio della comunità parrocchiale, in Presenza
Pastorale 3, 1970, p. 157.
«Il s’agit moins, en effet, aujourd’hui, pour le chrétien, d’être
le témoin mystique d’un
appel transcendant (au moins directement) que d’être le ‘révélateur’ de cet
appel transcendant à partir de dedans de l’expérience humaine, en faisant
apparaître au sein même de cette experience vécue par lui, une aspiration
insoupçonnée… Si nous comprenons que tout pousse l’humanité à rechercher sa
cohésion dans une option communautaire et personnelle pour l’amour universel,
si nous croyons que l’Église est le lieu où se vit par anticipation cette
fraternité déjà realisée et pas encore manifestée, il nous revient d’offrir au
monde l’image vecue concrétement d’une vie fraternelle. Si les hommes doivent y
parvenir, à plus forte raison les chrétiens et parmi eux les ministres de la
cohésion sacramentelle ou eucharistique de l’humanité: pédagogues ou pasteurs
nous le serons d’abord par le témoignage de notre vie ‘voyez comme ils
s’aiment’». I. Sintas, Fraternité
sacramentelle dans le sacerdoce, in Prêtres Diocesains, 1-2, 1970,
p. 58. Cfr E. Dhanis, Le
message évangélique de l’amour et l’unité de la communauté humaine, in Nouv.
Rev. Théol., 82 (1970), pp. 180-193.
Presb. Ord., n. 8: «Presbyteri… omnes inter se
intima fraternitate sacramentali nectuntur». Cfr. Lumen Gentium, n. 28; Presb.
ord., n. 7.
B. Botte, Caractère collegial du presbytérat et de l’épiscopat,
in Etudes sur le sacrement de l’Ordre, Paris 1957, pp. 97-124. S. Hajjar, Le Synode Permanent dans
l’Église byzantine des origines au XI siècle, Roma 1962, pp. 21-79. I. Giblet, Il presbiterio, in AA.VV.,
La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965, pp. 888-892. B. Antonini, La fraternità sacerdotale,
in Via verità e vita, n. 13, 1967, pp. 92-101. I. Rambaldi, Fraternitas sacramentalis
et presbyterium, in Periodica de Re Morali Canonica Liturgica, n.
57, 1968, pp. 331-350; T. I. Jiménez Urresti, Comunión sacerdotal y
presbyteros, Hermanos mayores y menores, in «Surge» 25 (1967); pp. 245-253;
Prete per sempre, Milano, 1969.
I. Rambaldi,
art. cit. p. 355: «Ex utroque loco conciliari (L.G. 28; P.O. 8) patet
quod fraternitas ista sacramento Ordinis ponitur et communitate missionis quae
eo confertur. Consequenter talis est fraternitas quae reduci nequeat ad
necessitudinem illam quantumvis alta ea sit – quae sacramentis initiationis
christianae, baptismi scil. et confirmationis, oritur… At qua mensura character
et gratia ordinationis, qua quis minister Christi constituitur, vitam
christianam iam Baptismate receptum tangit ac eam ad finem sacerdotii
ministerialis ordinat et aptat, eadem mensura fraternitas ista sacerdotalis
presbyteros etiam in tota eorum vitae et conservandi ratione ligat ac ad
invicem sollicitos facit… Sollicitudo qua Presbyteri sese adiuvant non promanat
ex solo officio caritatis quam, ratione Baptismatis, omnes inter se tenentur
fideles exercere».
La mente della Commissione Conciliare a questo proposito così si esprime: «Unio
Presbyterorum cum Episcopis et inter se, in ambitu ecclesiali utpote quae in
Sacramento Ordinis fundetur est iuris divini; sed addictio alicui diocesi
particulari et proinde Presbyterio diocesano est iuris ecclesiastici. Modus
ergo admittitur» Schema Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus
recognitus et Relationes, Modus 98 (in num. 8) p. 62. Sotto questa luce i
padri votarono e approvarono il n. 8 della P.O.
«Il presbiterato cioè ha una struttura essenzialmente
collegiale, fondata sulla fraternità sacramentale. Applicando il concetto di
collegialità episcopale ai presbiteri (L.G. 28,
Sacr. Conc. 41; P.O. 7; 8; Ad Gentes 18-20; Christus
Dom., 11; 15; 28), il Concilio ha rinverdito un principio teologico che per
lunghi secoli aveva trovato applicazione concreta nelle pievanie, splendida
testimonianza di collegialità sacerdotale». A. Mazzoleni, art. cit., p. 159.
Corsi europei di teologia dell’unione
apostolica del clero,
Munster, luglio 1969; B. Antonini,
art. cit.; G. Rambaldi, art.
cit.; A. Mazzoleni, art.
cit.
H. Schürmann.
Der füngerkreis als Zeichen Israel und als Urbild der Kirchlichen
Rätenstandes, in Geist und Leben (1963), pp. 21-35 (franc. Le groupe
des disciples de Jésus, signe pour Israel et prototype che la vie selon les
conseils, in Christus 50 (1966), pp. 184-209. Cfr. dello stesso autore: Das Gebet
des Herrn, Freiburg 1958 (italiano: La preghiera del Padre Nostro,
«Città Nuova» 1967. Inoltre cfr dello stesso autore: Die Verheissung an
Simon Petrus, Auslegung von Lk 5, 1-11, in Bibel u. Leben, 5 (1964),
pp. 18-24 (franc. La promesse à Simon Pierre, in Assemblées du
Seigneur 58, avril 1964, pp. 27 ss.); Die vorösterlichen Anfänge der
Logientradition, Berlin 1961 (ita.: La tradizione dei detti di Gesù,
Brescia 1966); Die Warmung des Lukas vor der Falschlehre, in der
Predigt am Berge, Lk. 6, 20-49, in BZ, (1966), pp. 57-71 (in particolare p.
58); Worte des Herrn, Freiburg 1968 (ita.: Le Parole del Signore,
Torino Leumann 1969); G. Dejaifve,
Les douze Apôtres et leur unité dans la tradition catholique, in Eph.
Theol. Lov., 39, 1963, pp. 760-788; J. Weber,
Les apôtres ont-ils formé un collège?, in Bulletin ecclesiastique du
diocèse de Strasbourg, 1964, pp. 72-75; S. Freyne, The Twelve: Disciples and Apostles. A study in the
theology of the first three Gospels, London, 1968; S. Lyonnet, I fondamenti scritturistici
della collegialità episcopale, in La Chiesa del Vat. II, Firenze
1966, pp. 792-809); B. Botte, La
collegialità nel Nuovo Testamento e nei padri apostolici, in Il Concilio
e i Concili, Roma (1961), pp. 19-42. Si noti che il n. 7 della P.O.
parlando dei sacerdoti mette in luce «omnimodam eorum unitatem cum Episcoporum
Ordine cuius cooperatores facti sunt» (cfr. L.G. 28). La relazione della
Commissione Conciliare su questo punto dice: «Haec formula generalis
conservatur: non potest enim negari unitas omnium Presbyterorum cum toto Ordine
Episcoporum neque potest dici Presbyterum per Ordinationum fieri cooperatorem
tantum sui Episcopi» Schema Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus
emendatus et Relationes. Relatio ad n. 6 (p. 54). (Cfr. I.
Rambaldi, art. cit., p.
338). Inoltre P.O. n. 10:
«quodlibet sacerdotale ministerium participat ipsam universalem amplitudinem
missionis a Cristo Apostolis concreditae… Meminerint igitur Presbyteri omnium
ecclesiarum sollicitudinem sibi corde debere». «D’ora in poi chi vorrà sapere
che cosa è il prete non potrà non riferirsi al sacerdozio episcopale, a cui il
prete partecipa e che condivide, all’esercizio del quale egli è destinato a
portar la sua collaborazione». Card. Garrone,
Le Concile, p. 78: citato dal Papa nel discorso ai Quaresimalisti Romani
del 1970.
Nel sacerdote la vita e la funzione non sono elementi distintivi e
separati fra loro, ma formano insieme “la missione sacerdotale”: «Nella nozione
di “missione sacerdotale” il Concilio comprende l’insieme della vocazione
sacerdotale sia sotto l’aspetto
della vita che dell’azione, cioè del ministero. E lo constata soprattutto
quando dice che “Nullus ergo Presbyter seorsum ac veluti singillatim suam
missionem satis adimplere valet, sed tantum viribus unitis cum aliis
Presbyteris sub ductu eorum qui Ecclesiae Praesunt” (P.O. 7)». S. Barela, Vita communis: contatti,
comunità e forme comunitarie dei preti secolari, in Concilium,
(Ediz. Ital.), n. 3, 1969, p. 118.
Cfr. Card. P. Felici,
Il Vaticano II e il Celibato sacerdotale, Città del Vaticano 1969, –
ove, dopo aver presentato la mente del Concilio su questo tema, si dice fra
l’altro «Le ragioni (di convenienza profonda fra celibato e sacerdozio) sono
principalmente quattro: a) il celibato è segno e stimolo della carità
sacerdotale e fonte speciale di spirituale fecondità nel mondo (P.O. 16; L.G.
42; Perfectae Caritatis 12; Optatam Totius 10)…».
M. Hengel,
Nachfolge und Carisma, Berlin 1968.
T. Matura,
Celibato e comunità, Brescia 1968, p. 50. «Perché è fuori dubbio che
questo è il pensiero di Cristo: l’‘unum sint’ è al vertice dei suoi voti (Gv
17); e prima di spaziare questo desiderio messianico (Gv 11, 52) e
divino (1 Tm 2, 4) su tutta la umanità, esso si rivolge direttamente ai
suoi discepoli (Gv 13, 34): prima della unità ecumenica della Chiesa il
Signore domanda a noi l’unità fraterna, comunitaria nella Chiesa». Discorso di
Paolo VI ai Quaresimalisti Romani 1970, (a proposito della unità fraterna fra i
sacerdoti). Cfr. I. Sintas, art.
cit.
Nel volume in collaborazione, Les prêtres (Commentaire aux documents de
Vat. II), Paris 1968 a
p. 154, J. Frisque nota che al n. 7 della P.O.
l’aggettivo “fratres” è stato qui introdotto (cfr. L.G. III, 28) a richiesta di
27 padri (si tratta dell’episcopato di lingua tedesca) «quia communio in
sacerdotio Christi, quae habetur inter Episcopos et presbyteros est fundamentum
fraternitatis Christianae manifestandae».
Il tema del dato esistenziale nella riflessione sul celibato
ecclesiastico è stato affrontato in modo efficace, anche se particolare, da E. Schillebeeckx, op. cit.: «È
naturale che i Farisei abbiano ironizzato sulla “cerchia degli amici di Gesù”,
che avevano lasciato tutto per seguirlo, e siano persino giunti a chiamarli
“eunuchi”. Gesù coglie l’occasione per dire: voi chiamate eunuchi i miei
discepoli! Certo, lo sono: essi sono incapaci di avere una famiglia (cfr. p. 22
un dato biblico: “non poter essere esistenzialmente in altro modo”), poiché
sono sotto il potere esclusivo del Regno di Dio, che s’è manifestato con me…
Gesù vuol dire, pertanto, che i suoi discepoli, avendo scoperto la ricchezza
nascosta del Regno di Dio non possono esistenzialmente più vivere in un altro
modo, se non “abbandonando tutto” e “seguendolo”. Il dono del Regno di Dio che
viene, li possiede a tal punto, li entusiasma talmente, che essi abbandonano
spontaneamente e generosamente ogni cosa: non possono più ritornare alla loro
vita coniugale (Lc 24, 26; 18, 19); non possono tornare a perdere i loro
cuori dietro agli averi (Mc 10, 21; Lc 18, 22); non possono più
preoccuparsi per il loro sostentamento (Mc 8, 34; Mt 16, 24; Lc
9, 23). Si tratta di non poter più esistenzialmente. Esistono uomini di questa
sorta, dice Gesù. Evidentemente queste parole si riferiscono ai suoi
discepoli», pp. 23-24.
Si assuma
come testimone di questa tendenza M. Nédoncelle,
La reéciprocité des consciences, essai sur la nature de la personne,
Paris 1942; La persone humaine et la nature, Paris 1934; Les
variations de Boéce sur la personne, in Revue de Sciences Religieuses,
XXIX 1955, p. 238.
M. Nèdoncelle,
Vers une philosophie de l’amour et de la personne, Paris, 1957, pp.
341-344.
M. Nédoncelle,
La réciprocité des consciences, op. cit., p. 53.
Ibid.
Inoltre cfr. M. Nédoncelle, L’intersubjectivité
humaine est-elle pour Saint Augustin une image de la Trinité?, in Augustinus
Magister, Congrés international Augustinien, vol. I, Paris, 1954, pp.
595-602, in cui si commentano tre testi di S. Agostino (P.L. XXX, 1508; XXXV,
1684; XLII, 960).
In genere per la nozione di sacramento di stato cfr.: S. Tommaso, Summa pars III, p. 65, art. 2 c.
Contra Gentes IV, 58; Scheeben,
I misteri del Cristianesimo, Brescia, 1949, pp. 438-453; A. Mersch, Morale et corps mystique,
Louvain, 1954, pp. 215-219; La Théologie du Corps Mystique, vol. 2,
pp 308-312; M. Zalba, Theologiae
Moralis Compendium, Madrid, 1958, p. 700, p. 759; P. Adnés, Le mariage, Bruges, 1966, pp. 142-143.
P. Adnés,
Le mariage, Bruges, 1966; Scheeben,
I misteri del Cristianesimo, Brescia, 1949; P. Evdokimov, Sacrement de l’amour, Paris, 1962, pp.
171-211, pp. 85-113.
Per il parallelo fra ordine e matrimonio: R. Spiazzi,
Decreto sul ministero e la vita sacerdotale, Esposizione e commento,
Torino, 1966, pp. 229-232; M. Zalba,
op. cit., pp. 700, 759: «Ordo est alterum e sacramentis cum
matrimonio». Inoltre per quanto riguarda la teologia dei padri
greci: S. Giovanni Crisostomo, P.G. 43, 372.
Per l’approfondimento di questa fondamentale relazione umana
si può trovare un abbondante materiale,
cfr. ad es.: S. Ambrogio, De
Officiis II, 2, 2 P.L. XVI, 180 ss.; S. Agostino,
Le confessioni II, 2, III, 1; S.
Gregorio Nanzianzeno, Oratio 43, Funebris Oratio in laudem Basilii
Magni Caesareae in Cappadocia Episcopi, Opera omnia, vol. II, paris, 1942,
pp. 389-470; S. Giovanni Crisostomo, De Sacerdotio, P.G.
48, 623 ss.; S. Girolamo, Lettres,
Paris, Ed. Les Belles Lettres; I. Cassianus,
Collatio 16, De Amicitia P.L. 49, 1011-1044, Institutiones,
LII, c. 15; ibid. 483; Petrus Blesensis, De Amicitia Spirituali,
P.L. 207, 874 ss.; S. Bernardo, Sermo,
26 super Cantica, P.L. 182. Tractatus de caritate, ed. Dessert,
I, a, 3; S. Anselmo, Epistolarum
libri, P.L. 159-9, Paris, 1865; Aelredo
de Rievaulx, L’amitié
spirituelle, édition critique, Bruges-Paris 1948; Epitaphium in mortem
amici, P.L. 195, pp. 539-546; S. Lorenzo,
c. 10, in Opera Omnia, Venezia, 1751, vol. L. p. 96 ss.; Fr. Suarez,
Tractatus de Charitate, disp. I, sect. 3 in Opera Omnia, Paris,
1958, vol. 13, pp. 638-641; S. Teresa
del B. G., Histoire d’une âme, Paris, 1913, pp. 197-199, 363-371;
A. D. Sertillanges, L’amour
chrétien, Paris, 1920, pp. 137-151; P.
Philippe, Le rôle de
l’amitié dans la vie chrétienne selon Saint Thomas d’Aquin, Roma, 1938; J.
De Guibert, Les amitiés dans la vie religieuse, in Gregorianum,
n. 2, 1941, pp. 171-190; M. Savigny,
L’amour et l’amitié chez les saints, Paris, 1947; B. Lavaud, La charité comme amitié
d’après saint Thomas, in Revue Thomiste, II, 1949, pp. 445-475; P. Fabre, Saint Paulin de Nole et l’amitié
chrétienne, Paris, 1949; H. Rondet,
Les amitiés de St. Paul, in Nouv. Rev. Théol., 77, 1955, pp.
1050, 1066; C. Valenziano, Aelredo
di Rievaulx e la sua teoria d’amicizia, in Giornale di metafisica,
n. 2-3, 1969, pp. 255-278; J. Rausch,
Agape and Amicitia: A comparison between St. Paul and St. Thomas, Roma,
1958; M. A. Mc. Namara, Friendship in Saint Augustin,
Fribourg, 1958; R. Voillaume, L’amitiè
entre fréres, in Lettres aux fraternités, Vol. I, pp. 101-126,
Paris, 1960; R. Lulle, L’arbre
de philosophie d’amour – Le livre de l’ami et de l’aimé, Paris, 1967. (Note di L. Sala Moulins).
S. Aelredo di Rievaulx, L’amicizia spirituale,
Siena, 1960, p. 48.
Non manca però una certa tradizione di diffidenza verso le
relazioni umane della unione coniugale e dell’amicizia: Tertulliano, De exhortatione castitatis; Nigronius, Tractatus ascetici, Tract.
15, De familiaribus paucorum amicitiis a quolibet cenobio exterminandis,
Colonia, 1624; Cfr. G. Vansteenbergen,
Amitié, in Dictionnaire de Spiritualité, pp. 500-529; P.C. Landucci, Formazione seminaristica
moderna, Torino, 1962. La Sacra Vocazione, Roma, 1955; E. Schillebeeckx, op. cit., p. 89
ss. Questa diffidenza sorge dal timore delle eventuali degenerazioni o da una
certa acquiescenza alla visione stoica introdotta nella letteratura cristiana
fin dal tempo dei Padri. Per una maggiore serenità ed equilibrio circa questi
pericoli cfr.: C. Bernard, De
principiis vitae spiritualis, Roma, 1965; G. Cruchon, Psychologia Pastoralis, Roma, 1966, pp. 365
ss; D.J. Blackwell, Sensibile
affective love within the Context of consecrated chastity, Roma, 1968.
G. Cenacchi,
La fraternità sacerdotale, in AA.VV., I sacerdoti nello spirito del
Vat. II, Torino, 1969, p. 662.
P. Dupont, Collége
et collegialité presbitérale, in Le Courrier de Mondage, 1956, pp.
46-47; A. Rouget, La
collégialité du sacerdoce, in Pastorale commune, Paris, 1956, pp.
128-143; T. Garcia Barbarena, Collegialità a livello
diocesano : il presbiterio nella Chiesa Latina, Concilium 4 (ed. it.),
1965, pp. 139-153; Inchiesta sulla vita comune del clero secolare, Diakonia
I, 1967; Benvenuti, Discorso
storico cronologico sulla vita comune dei Chierici nella primitiva Chiesa di
Roma, Roma, 1728; B. Antonini,
La Fraternità sacerdotale, in Via Verità e Vita, n. 13, 1967, pp.
92-101; J. Colon, Les
fonctions ecclésiales aux deux premiers siècles, Paris-Bruges, 1956; F. Petit, La vie commune de
clercs, in Courrier Communautaire International, n. 13, pp. 20-32,
primo anno; T. Matura, Celibato
e comunità, Brescia, 1967; O. Bolzon,
Per una spiritualità di vita comunitaria nel clero diocesano, in Orientamenti
Pastorali, 4, 1968, pp. 225-235; N. La Salandra,
Vita Comunitaria Sacerdotale, Padova, 1968.
F. Lepargneur,
L’amitié à la relève de l’apologétique, in Nouv. Rev. Théol.,
1960, pp. 482-493; B. Longemeyer,
Der Dialogische Personalismus in der evangelischen und katholischen
Theologie der Gegenwart, Paderborn, 1963; M. Van Caster, La
Rédemption située dans une perspective personaliste, in La pensée
catholique, Bruxelles, 1964; O. Semmelroth,
La perdita dell’elemento personale nella teologia e l’importanza della sua
reintroduzione, in Orizzonti attuali di Teologia, Alba, 1967, vol.
I, pp. 255-285.
«Le sang produit la communauté psychique des deux parties», P. Van Imschoot,
Théologie de l’A.T., vol. I, Tournai, 1964, p. 244. «Coniungere seu
coadunare duas partes pactum ineuntes, sicut in pactis amicitiae fieri solebat,
ubi sanguis unius cum sanguine alterius ita miscebatur ut quasi unica vita
evaderet», S. Lyonnet, De
peccato et redemptione, vol. II, Roma, 1960, p. 123.
Come testimoniano missionari ed esploratori, cfr. ad es. Selingman, The Nilotic Tribes in the
Sudan.
S. Lyonnet,
Le culte de la foi: La nature du culte dans le N.T., in La Liturgie
après Vatican II, Paris, 1967.
Cfr. Matura,
op. cit., p. 51.
L. Cerfaux,
La charité fraternelle et le retour du Christ, in Eph. Theol. Lov.,
24, 1948, pp. 326-341; «Il motivo della progressiva unità nella carità sta nel
fatto che l’autentica carità del Vangelo è un amore di comunione di amicizia».
H. M. Feret, L’amore fraterno
vissuto nella Chiesa ed il segno della venuta di Dio, Concilium (ed. it.),
n. 9, 1967, p. 29.
Cfr. Matura,
op. cit., pp. 62-64, 107-109.
La radicalità, la irreversibilità e l’esclusivismo, che si
rivelano nella condizione sacerdotale, sono del resto caratteristiche tipiche
dell’amore secondo la concezione cristiana: cfr. D. De Rougemont,
L’amour et l’Occident, Paris, 1962. Una tale concezione dell’amicizia è
particolarmente comprensibile ai giovani d’oggi: cfr. E. Bouet-Dufeil,
L’amitié cette accusée, Paris, 1968.
«Pietro voltatosi vide che gli veniva dietro il discepolo amato da
Gesù, quello che nella cena si era posato sul petto di lui…» (Gv 21, 20). Non dobbiamo
considerare questo amore del Signore come una debolezza o come una
compensazione, ma come un segno rivelatore in modo eccellente della ricchezza e
della completezza della sua umanità. Nell’amicizia infatti si danno anche le
predilezioni. E forse che questo amore di predilezione da parte di Cristo per
Giovanni, non resta l’ideale supremo della vita spirituale di ogni sacerdote? (cfr. J. Ollivier, Le amitiés de Jesus. Simple
étude, Paris, 1900). E
quale testimonianza chiedono gli uomini a Giovanni se non questa che egli in
virtù di quella predilezione può dare : «E noi abbiamo conosciuto e creduto
nell’amore che Dio ha per noi» (1Gv 4, 16).
M. Flick
– Z. Alszeghy, Il Vangelo
della Grazia, Firenze, 1964, p. 150. Cfr. P. Philippe, op. cit.
«Non tutti capiscono questa parola, ma soltanto quello ai
quali è dato» (Mt 19, 11). Questo è appunto il segno della
vocazione. Occorre che i seminaristi valutino il valore esistenziale e
personale della loro vocazione. Cfr. la tesi in preparazione alla Università
Gregoriana di D. Isabel, L’amicizia
nella educazione dei seminaristi. Cfr. Ratio Fundamentalis institutionis
sacerdotalis, n. 13. 22. 47 e nota 74.
I. M. Pohier,
Psychologie et Théologie, Paris, 1967, pp. 332-373, soprattutto p. 354
ss.
S. Exc. Mgr. Ancel, Le célibat sacerdotal, in La
Documentation Catholique (Avril 1967) col. 727-750. Testo di una conferenza
tenuta durante la quarta sessione del Concilio ai vescovi Brasiliani ed altri
vescovi il 30 settembre 1965. G. Ferrari,
Matrimonio e celibato nel clero nel diritto Ecclesiastico Orientale, in Oriente
Cristiano, n. 1, anno VII, pp. 49-58; e n. 3, anno VIII, pp. 77-81; V. Vadagnini, Celibato e Sacerdozio
nelle Chiese Orientali, in Ekklesia, n. 2, anno III, pp. 101-126.
A sua volta Papa Giovanni XXIII aveva mostrato la sua stima
e amore per il celibato, giudicando «strabiliante, ingenua e imprudente» la
proposta di attenuare la legge del
celibato (Card. P. Felici, Pensieri
sul sacerdozio, Milano, 1968, p. 76); di lui Monsignor Capovilla, che gli
fu amico, ha scritto recentemente: «Papa Giovanni è stato assertore intrepido e
cantore felice di questa legge del celibato, da lui celebrato durante tutta la
vita e più significativamente in morte, con l’invito rivoltomi a trasmettere il
suo estremo messaggio: ‘Avrai occasione di parlare a sacerdoti e seminaristi.
Dirai che uno dei motivi della mia imperturbata serenità è, adesso, sul punto
di presentarmi a Dio, in inalterata pace, la certezza di aver custodito la
castità, di averla amata, di averle fatto onore e di non aver nulla da
rimproverarmi in questa materia’». (La Stampa, quotidiano di Torino, del
6 febbraio 1970, p. 2).
Del resto che la legge del celibato sia più che un semplice
capriccio o una legge di sopravvivenza della casta sacerdotale, è quanto si può
dedurre anche da ciò che dice E. Schillebeeckx nell’opera citata, a p. 27: «La Scrittura non
conosce nessun legame giuridicamente obbligante tra ministero e celibato; ma
essa ammette, e ciò è fondamentale, che l’esperienza religiosa del
soggiogamento esercitato dalla grazia del Regno di Dio nella interiorità di molti
è tale, che essi non possono esistenzialmente più sposarsi. La legge del
celibato della Chiesa occidentale, pur con i vantaggi e svantaggi che ne
derivano, non è una tematizzazione giuridica della logica interna di una
precisa esperienza religiosa».