L’impegno del Magistero pontificio a favore della
civiltà dell’amore
Prof. Mons. Antonio Miralles
Pontificia Università
della Santa Croce
27 giugno 2006
L’espressione «civiltà dell’amore» è stata usata
dal Magistero pontificio per la prima volta nell’omelia di Paolo VI a chiusura
dell’Anno santo, nel Natale 1975. Quasi un anno dopo, nel messaggio per la
Giornata della pace del 1º gennaio 1977, egli stabiliva una equivalenza tra
civiltà dell’amore e civiltà della vita e della pace. La pace è doverosa, è possibile,
ma non senza il concorso di molte e non facili condizioni, e tra queste c’è un
aspetto primordiale: quello della concezione che si ha della vita umana.
«Vogliamo la pace? difendiamo la vita!», esortava il Pontefice. Innanzi tutto
dalla violenza bellica. E in questo compito la sua voce si metteva in
continuità con quella dei suoi predecessori: di san Pio X e di Pio XI, i quali
fecero sentire la loro parola per preservare la pace di fronte al incombente
pericolo delle due immani guerre del secolo XX; di Benedetto XV e di Pio XII,
per richiamare tutte le parti implicate in quelle guerre allora in atto
all’urgente compito di tramutarle in equa pace; del beato Giovanni XXIII, che
aveva pubblicato l’enciclica Pacem in terris.
Ma poi Paolo VI affrontava un altro aspetto
fondamentale della difesa della vita: «Non è solo la guerra che uccide la pace.
Ogni delitto contro la vita è un attentato contro la pace, specialmente se esso
intacca il costume del Popolo, come spesso diventa oggi con orrenda e talora
legale facilità la soppressione della vita nascente, con l’aborto». Non ce ne
sono giustificazioni di alcun genere, e aggiungeva: «La soppressione d’una vita
nascitura, o già venuta alla luce viola innanzitutto il principio morale
sacrosanto, a cui sempre la concezione dell’umana esistenza deve riferirsi: la
vita umana è sacra fin dal primo momento del suo concepimento e fino all’ultimo
istante della sua sopravvivenza naturale nel tempo. È sacra: che vuol dire?
vuol dire che essa è sottratta a qualsiasi. arbitrario potere soppressivo; è
intangibile, è degna d’ogni rispetto, d’ogni cura, d’ogni doveroso sacrificio».
Come conclusione il Pontefice esortava a compiere
l’equazione tra la vera pace e la dignità della vita, perché si eriga
nell’orizzonte della civiltà umana la civiltà dell’amore.
Altri aspetti di tale civiltà sono stati messi in
rilievo da Giovanni Paolo II, in primo luogo nel suo discorso all’Assemblea
generale delle Nazioni Unite il 5 ottobre 1995. «La risposta alla paura che
offusca l’esistenza umana al termine del secolo ventesimo è lo sforzo comune
per costruire la civiltà dell’amore, fondata sui valori universali della pace,
della solidarietà, della giustizia e della libertà» (n. 18). A quale paura si
riferiva?: «Uno dei maggiori paradossi del nostro tempo è che l’uomo, il quale
ha iniziato il periodo che chiamiamo della “modernità” con una fiduciosa
asserzione della propria “maturità” ed “autonomia”, si avvicina alla fine del
secolo ventesimo timoroso di se stesso, impaurito da ciò che egli stesso è in
grado di fare, impaurito dal futuro» (n. 16).
Per
costruire la civiltà dell’amore il Pontefice metteva la libertà al centro di
quei valori che la fondano: «L’“anima” della civiltà dell’amore è la cultura
della libertà: la libertà degli individui e delle nazioni, vissuta in una
solidarietà e responsabilità oblative» (n. 18). Soprattutto la libertà delle
nazioni è stata oggetto di particolare attenzione in gran parte del discorso.
Su di essa risultano particolarmente illuminanti alcuni principi ivi enunciati:
«Presupposto degli altri diritti di una nazione è certamente il suo diritto
all’esistenza: nessuno, dunque –né uno Stato, né un’altra nazione, né
un’organizzazione internazionale – è mai legittimato a ritenere che una singola
nazione non sia degna di esistere. Questo fondamentale diritto all’esistenza
non necessariamente esige una sovranità statuale, essendo possibili diverse
forme di aggregazione giuridica tra differenti nazioni […] Ogni nazione ha
conseguentemente anche diritto di modellare la propria vita secondo le proprie
tradizioni, escludendo, naturalmente, ogni violazione dei diritti umani
fondamentali e, in particolare, l’oppressione delle minoranze» (n. 8). Questo
principio che guarda al particolare richiede
insieme il contrappunto di un altro principio che mira all’universale: «Ma se i
“diritti della nazione” esprimono le vitali esigenze della “particolarità”, non
è meno importante sottolineare le esigenze dell’universalità, espresse
attraverso una forte coscienza dei doveri che le nazioni hanno nei confronti
delle altre e dell’intera umanità. Primo fra tutti è certamente il dovere di
vivere in atteggiamento di pace, di rispetto e di solidarietà con le altre
nazioni» (n. 8).
Dopo
queste considerazioni il Pontefice si innalza verso una prospettiva ancora più
fondamentale: «Occorre dunque che la nostra riflessione si porti sulla
questione della struttura morale della libertà, che è l’architettura interiore
della cultura della libertà» (n. 12). Tale struttura morale della libertà è
individuata dal Pontefice nel suo ordine alla verità: «La libertà possiede una
“logica” interna che la qualifica e la nobilita: essa è ordinata alla verità e
si realizza nella ricerca e nell’attuazione della verità» (n. 12). In senso
contrario si muove l’utilitarismo; donde la denuncia che ne fa il Pontefice:
«In questa luce si capisce come l’utilitarismo, dottrina che definisce la
moralità non in base a ciò che è buono ma in base a ciò che reca vantaggio, sia
una minaccia alla libertà degli individui e delle nazioni, ed impedisca la
costruzione di una vera cultura della libertà» (n. 13). E senza di questa non
si costruisce la civiltà dell’amore. Di qui l’accorato appello del Papa: «È
necessario che sulla scena economica internazionale si imponga un’etica della
solidarietà» (n. 13). E non soltanto
sul piano economico, ma in un modo ancora più radicale, sicché tutte le nazioni
del mondo sviluppino «la comune coscienza di essere, per così dire, una
“famiglia di nazioni”. Il concetto di “famiglia” evoca immediatamente qualcosa
che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di
interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia
reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero. In un’autentica
famiglia non c’è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono,
proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti» (n. 14).
Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Giornata
mondiale della pace, del 1º gennaio 2001, mise in rilievo un altro aspetto
importante della costruzione della civiltà dell’amore. Il titolo del Messaggio
è assai significativo al riguardo: «Dialogo tra le culture per una civiltà
dell’amore e della pace». «Il dialogo porta a riconoscere la ricchezza della
diversità e dispone gli animi alla reciproca accettazione, nella prospettiva di
un’autentica collaborazione, rispondente all’originaria vocazione all’unità
dell’intera famiglia umana. Come tale, il dialogo è strumento eminente per
realizzare la civiltà dell’amore e della pace» (n. 10). Non basta un dialogo
fondato su interessi economici o materiali; esso deve raggiungere quote più
alte di umanità, diventando dialogo culturale. Su di esso si soffermava il
Pontefice: «Il dialogo tra le culture, strumento privilegiato per costruire la
civiltà dell’amore, poggia sulla consapevolezza che vi sono valori comuni ad
ogni cultura, perché radicati nella natura della persona. In tali valori
l’umanità esprime i suoi tratti più veri e qualificanti. Lasciandosi alle
spalle riserve ideologiche ed egoismi di parte, occorre coltivare negli
animi la consapevolezza di questi valori, per alimentare quell’humus culturale
di natura universale che rende possibile lo sviluppo fecondo di un dialogo
costruttivo» (n. 16).
In
continuità con l’insegnamento di Paolo VI che proclamava la difesa della vita
come elemento irrinunciabile della civiltà dell’amore, Giovanni Paolo II
affronta questo tema considerando anche nuovi gravi problemi resi più acuti
negli ultimi anni: «Un autentico dialogo tra le culture, oltre al sentimento
del rispetto reciproco, non può non alimentare una viva sensibilità per il
valore della vita. […] Il nostro tempo conosce […] il triste
scenario di centinaia di milioni di uomini consegnati dalla crudeltà o
dall’indifferenza ad un destino doloroso e brutale. Si tratta di una tragica
spirale di morte che comprende omicidi, suicidi, aborti, eutanasia, come pure
le pratiche di mutilazione, le torture fisiche e psicologiche, le forme di
coercizione ingiusta, l’imprigionamento arbitrario, il ricorso tutt’altro che
necessario alla pena di morte, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione,
la compra-vendita di donne e bambini. A tale lista vanno aggiunte
irresponsabili pratiche di ingegneria genetica, quali la clonazione e
l’utilizzo di embrioni umani per la ricerca, a cui si vuole dare una
giustificazione con un illegittimo riferimento alla libertà, al progresso della
cultura, alla promozione dello sviluppo umano. Quando i soggetti più fragili e
indifesi della società subiscono tali atrocità, la stessa nozione di famiglia
umana, basata sui valori della persona, della fiducia e del reciproco rispetto
e aiuto, viene ad essere gravemente intaccata. Una civiltà basata sull’amore e
sulla pace deve opporsi a queste sperimentazioni indegne dell’uomo» (n. 19).
C’è anche
da menzionare un altro aspetto sottolineato dal Pontefice: «Per costruire la
civiltà dell’amore, il dialogo tra le culture deve tendere al superamento di
ogni egoismo etnocentrico per coniugare l’attenzione alla propria identità con
la comprensione degli altri ed il rispetto della diversità» (n. 20).
Tre anni dopo, Giovanni Paolo II ritornava sul tema
della civiltà dell’amore nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace, del
1º gennaio 2004, questa volta evidenziando la stretta connessione tra giustizia
e carità. «Per l’instaurazione della vera pace nel mondo, la giustizia deve
trovare il suo completamento nella carità. […] Da sola, la giustizia non basta.
Può anzi arrivare a negare se stessa, se non si apre a quella forza più
profonda che è l’amore. […] L’amore dovrà dunque animare ogni settore della
vita umana, estendendosi anche all’ordine internazionale. Solo un’umanità nella
quale regni la “civiltà dell’amore” potrà godere di una pace autentica e
duratura» (n. 10).
Proprio al rapporto tra giustizia e amore Benedetto
XVI ha dedicato una sezione dell’enciclica Deus caritas est. Vi enuncia
un principio di notevole rilevanza pratica: «L’amore — caritas — sarà
sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento
statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole
sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo […]
Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche
ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno
materiale» (n. 28). Di qui l’importanza attribuita dal Santo Padre alle
strutture di servizio caritativo dei cristiani, poiché «la Chiesa non può mai
essere dispensata dall’esercizio della carità come attività organizzata dei
credenti e, d’altra parte, non ci sarà mai una situazione nella quale non
occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l’uomo, al di là della
giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell’amore» (n. 29).