Aldo Vendemiati

 

 

IN PRIMA PERSONA

Lineamenti di etica generale

seconda edizione ampliata


Prologo

 

Il presente volume costituisce la seconda edizione ampliata di un libro comparso in questa stessa collana nell’autunno 1999 e coronato da un successo editoriale di cui desidero ringraziare i lettori.

Il testo è nato dall’attività della cattedra di Filosofia Morale della P. Università Urbaniana in Roma. Chiamato alcuni anni orsono a tenere il corso di Etica Generale, avevo avvertito la necessità di indicare agli studenti un “manuale” che rispettasse due condizioni: doveva essere adatto alle loro esigenze e coerente con il «patrimonio filosofico perennemente valido» che costituisce il punto di riferimento costante della nostra attività.

Se non mancavano testi che rispecchiassero la seconda condizione (il lettore ne troverà un elenco “di minima” al termine del volume), non trovai tuttavia altrettanta consonanza con la prima.

I nostri studenti, infatti, sono portatori di culture e formazioni diversissime tra loro: alcuni hanno alle spalle studi di stampo “occidentale”, altri invece provengono da orizzonti toto caelo diversi. Giovane professore di filosofia, avevo pensato che il mio primo dovere fosse quello di studiare queste diverse culture per “incarnare” il mio insegnamento nella vita degli studenti… Ma essi provengono da tutti e cinque i continenti, da oltre cento Paesi diversi e - come è noto - in un Paese possono essere presenti culture e trazioni molteplici: da dove cominciare, dunque?

Evidentemente la strada doveva essere un’altra: l’opzione fenomenologica. Non partire dalle teorie (fossero pure le importantissime teorie etiche elaborate nel lungo cammino della storia del pensiero filosofico), non fermarsi alle culture (pur riconoscendo con ammirazione le loro ricchezze), ma andare indietro, alle cose stesse e concentrarsi sull’esperienza morale propria di ogni essere umano, per far emergere da essa i principî morali che possono guidarla. La sfida è quella di descrivere l’humanum in termini comprensibili ad ogni persona.

Così facendo, ho inteso di poter rendere un servizio anche ad altri Istituti filosofici e teologici in cui comincia a manifestarsi la dimensione multietnica e multiculturale della nostra società “globalizzata” (o “mondializzata”, come preferirei dire).

D’altra parte, tali Istituti, se fino a qualche decennio fa’ erano frequentati da studenti che avevano alle spalle una formazione “classica”, di tipo liceale, oggi accolgono numerosi alunni provenienti dalle scuole più diverse, privi di un minimo di istruzione storico-filosofica, e tuttavia ben motivati ad apprendere: questo testo è stato pensato per essere utile sia agli uni che agli altri.

Queste considerazioni mi hanno portato a dare alla esposizione un carattere maieutico. Il tono del libro è fortemente discorsivo, dialogante: ritengo che questa sia la strada migliore non solo per un testo di base, ma per l’approccio filosofico tout-court. Ho inteso coinvolgere il lettore in una sorta di dialogo socratico, per far emergere quel “minimo-di-filosofia” che ciascuno porta in sé, riflettendo sulla propria esperienza, per giungere a dare consapevolezza critica ai propri pensieri senza sradicarli dal mondo della vita. Questo testo aspira così ad inserirsi, con tutta umiltà, nella plurimillenaria tradizione che, da Socrate a Kierkegaard, da S. Agostino a G. Marcel, si è posta al servizio dell’uomo concreto per metterlo in contatto con la verità che abita nell’intimo del suo stesso cuore.

Per questo ho cercato di mettere in rilievo, pressoché ad ogni pagina, i coinvolgimenti esistenziali della ricerca filosofico-morale: sono infatti intimamente persuaso che la filosofia sia sapientia vitae, e che proprio per questo possa e debba essere coltivata con amore.

Tutto ciò è intrinsecamente connesso all’impostazione della filosofia morale come “etica della prima persona”,  evidenziata fin dal titolo del presente volume.

A questo riguardo un contributo decisivo è stato offerto dalle ricerche di G. Abbà[1]. Esse hanno mostrato come l’etica classica e l’etica moderna sono separate da un tratto discriminante: lo spostamento del punto di vista principale da cui viene elaborata la disciplina. Nell’etica classica - di cui potremmo indicare come paradigma la posizione di Aristotele e di S. Tommaso d’Aquino - il punto di vista principale è quello del soggetto agente, del quale si ricerca la “vita buona” ossia “virtuosa”, in cui consiste la felicità vera. Nell’etica moderna - di cui possiamo indicare come paradigma la morale di Hobbes - il punto di vista si sposta in un osservatore esterno, legislatore o giudice, che ricerca i criterî, i principî e le norme per l’azione giusta. L’etica moderna è pertanto un’etica della terza persona, mentre l’etica classica è un’etica della prima persona.

«L’etica della terza persona mira a creare un assetto sociale dove l’uomo come soggetto di desideri o l’uomo come soggetto autonomo possa fare ciò che vuole senza danneggiare gli altri, o danneggiandoli solo per un miglior risultato. Di ciò che poi ciascuno fa per soddisfare i propri desideri o dell’uso che ciascuno fa dei propri spazi di libertà l’etica moderna si rifiuta di parlare; sarebbe una questione puramente privata e soggettiva. Ognuno la vita se la gestisce come vuole. In questo modo però il sistema dei principî e delle norme è tacitamente a servizio degl’interessi dei singoli soggetti liberi, per i quali si vuol garantire la possibilità di soddisfazione e la miglior soddisfazione. Il che equivale a riconoscere che l’importanza dei soggetti, della loro libertà e dei loro desideri, è principale. Ma proprio sul senso della vita dei soggetti liberi si tace. Eppure, se non si tematizza tale senso, resta senza risposta la domanda: perché essere morali? perché cioè osservare le regole utilitarie di giustizia? (…)

Il principio d’intelligibilità di un’etica normativa di terza persona ha da essere rintracciato nell’etica di prima persona. La condotta umana infatti, in quanto costruita e prodotta dal soggetto agente, contiene un sapere pratico originale, non riducibile al sapere del legislatore, del giudice o del critico; un sapere operativo che ha la sua propria logica. Fu proprio questo sapere pratico che Aristotele nelle sue Etiche e l’Aquinate nella II Pars [della Summa Theologiae] intesero esplicitare. Tale sapere pratico è centrato sul problema del senso da dare alla propria vita»[2].

L’opzione per un’etica in prima persona è dunque giustificata, in prima istanza, non tanto dalla fedeltà ad una tradizione (l’argomento ex auctoritate, primo in teologia, è ultimo in filosofia), quanto dall’esigenza stessa del discorso morale, dalla sua essenza. E questo ha conseguenze non solo teoretiche (nel senso della scienza morale che è teorico-pratica), ma esistenziali, pedagogiche, didattiche e sociali.

L’articolazione della materia è funzionale all’approccio appena esposto. Il capitolo 1 costituisce una “presentazione” della disciplina, dei suoi fini e del suo metodo. Nel capitolo 2 si procede ad una disamina fenomenologica dell’esperienza morale tesa a coglierne gli elementi costitutivi. Il capitolo 3 prosegue con uno studio del comportamento volontario, mettendo in luce la struttura dell’agire umano. Nel capitolo 4 viene presentato il tema centrale della vita buona: la virtù; all’esposizione dei suoi tratti generali seguirà un approfondimento delle singole virtù cardinali, che costituisce la novità strutturale più appariscente di questa seconda edizione: i capitoli 5, 6, 7 e 8 sono dedicati rispettivamente alla saggezza, alla giustizia, alla fortezza e alla temperanza . Solo a questo punto, nel capitolo 9, la discussione prenderà un taglio più “teorico”, senza però abbandonare il radicamento nell’esperienza, dedicandosi alla determinazione del “fondamento” della moralità, in dialogo con il pensiero contemporaneo. Il capitolo 10 presenterà l’essenza e la funzione della legge morale, con particolare riferimento alla legge naturale. Infine, nel capitolo 11, si esaminerà la dinamica e il ruolo della coscienza nella moralità.

Anche lo “stile” espositivo, il fatto che l’“io” dell’autore si esponga così evidentemente e chiami in causa reiteratamente il “tu” del lettore, lo incalzi con domande, lo provochi a reagire, sono la diretta conseguenza di questa opzione per la “prima persona”, che risulterà giustificata, si spera, dall’insieme del testo.

L’obiettivo che ho inteso perseguire è quello della chiarezza e dell’essenzialità, coniugando allo stesso tempo le esigenze di completezza a cui un corso istituzionale deve attenersi.

Forse sarebbe stato più facile adoperare un linguaggio sofisticato, per “addetti ai lavori”, ma mi sarei trovato a parlare ai colleghi anziché agli studenti. Certamente, usando un tono criptico, iniziatico, avrei potuto evitare meglio le obiezioni… ma avrei tradito la mia coscienza professionale (ed umana, in ultima analisi). Ho preferito mettere in gioco il mio pensiero, senza infingimenti.

Forse con un numero doppio di pagine il libro si sarebbe presentato “più importante” e - paradossalmente - avrei impiegato meno tempo a scriverlo. Ho preferito sottopormi alla fatica della sintesi, al lavoro ingrato dei “tagli” e delle “limature”, per dare in mano agli studenti uno strumento agile e realmente utilizzabile, senza mai rinunciare al rigore dell’argomentazione, della scientificità e della completezza. Ovviamente, spetta al lettore giudicare se e in qual misura io sia riuscito nell’intento.

Rimane immutata la mia gratitudine per tutti coloro che hanno contribuito alla pubblicazione di questi Lineamenti, nella prima e nella seconda edizione: i colleghi, per i loro preziosi suggerimenti (un ringraziamento speciale ai professori G. Mazzotta e L. Congiunti), l’Urbaniana University Press, le autorità accademiche dell’Università Urbaniana e gli studenti, grazie ai quali ho potuto “mettere a fuoco” i temi qui esposti, comprendendo sempre più profondamente la necessità di ancorare la riflessione morale al “mondo della vita”.


 

 

AVVERTENZE

 

 

Nelle note a piè di pagina, le citazioni ed i riferimenti ai classici della storia del pensiero sono espressi in forma essenziale: per reperirne l’edizione si potrà far riferimento alla bibliografia stampata a conclusione di questo volume.

I testi contemporanei che menziono sono, di volta in volta, gli strumenti che maggiormente mi hanno aiutato nella comprensione e nell’esposizione dei diversi temi trattati: citarli significa riconoscere il mio debito verso di essi e, parimenti, invitare il lettore desideroso di approfondimenti a prenderne contatto.

Nel corso del volume sono presenti numerosi rimandi incrociati: spero che la lettura non ne risulti appesantita e che possano servire per comprendere l’unità dell’intero discorso etico.

Il testo presenta anche due excursus. Il primo (nel capitolo 8) costituisce una breve digressione di carattere antropologico, motivata dalla costatazione che, talvolta, gli studenti dei corsi di Etica non hanno ancora affrontato gli studi di Filosofia dell’Uomo; il secondo (nel capitolo 9) rappresenta una sintesi di carattere storico dedicata all’etica dall’Illuminismo ai giorni nostri. Qualora ci fosse l’esigenza di abbreviare il percorso di lettura, questi excursus possono essere saltati senza pregiudizio per la comprensione del resto.

Una lectio brevissima potrebbe anche sorvolare sui capitoli 5-8, giacché i tratti essenziali delle virtù cardinali sono espressi – in sintesi estrema – nel capitolo 4.


1.               Che cos’è l’etica?

Caro lettore,

ti imbatti, forse per la prima volta, in un testo di etica. Ricordi lo splendido affresco di Raffaello intitolato La scuola di Atene? Al centro della pittura, attorniate da tutti i maggiori filosofi dell’antichità, vi sono due figure di uomini in cammino: a sinistra il vecchio Platone (428-347 a. C.), con il dito puntato verso il cielo; a destra il giovane Aristotele (384-322 a. C.), con la mano tesa, rivolta verso la terra. Ciascuno dei due ha un libro con sé: Platone porta sotto braccio il Timeo, l’opera che più di ogni altra rappresenta la sua visone del mondo e del cielo; Aristotele stringe in mano un volume con la scritta “Ethica”. È significativo che l’artista abbia scelto proprio queste due figure e questi due volumi per indicare il vertice della filosofia.

Non è che qui io voglia paragonare questo mio scritto all’Etica nicomachea di Aristotele (che, spero, avrai presto l’opportunità di studiare)! Io intendo soltanto introdurti in questa disciplina. E cercherò di farlo chiedendomi anzitutto quale sia l’interesse che guida la ricerca etica (1.1), in un secondo momento potremo definire i rapporti tra  questa ricerca e la fede (1.2), poi metteremo a punto il nostro metodo (1.3) e infine ci concentreremo sull’oggetto della ricerca (1.4).

1.1          Perché occuparsi di etica?

Mi sia permesso di partire da una “presunzione”: presumo di fare un discorso che ti interessi molto concretamente, da vicino. L’etica filosofica (detta anche “filosofia morale”), infatti, viene comunemente intesa come la «scienza che indica ciò che l’uomo deve fare per essere buono, cioè degno della propria umanità», e già questo apre una prospettiva interessante. Ma forse sarebbe più opportuno definire la nostra disciplina come «la scienza di ciò che l’uomo deve essere, poiché la vita morale non consiste soltanto nel fare in senso stretto, ma nell’orientare tutta la nostra attività (...) in un determinato modo, verso un determinato ideale umano»[3]; e questo è decisamente stimolante: cercare un senso dell’umano esistere!

Forse anche tu, quando sei uscito dalla fanciullezza, hai in un certo senso “intuito” di essere un soggetto irripetibile. Certo, gli uomini e le donne sono miliardi e miliardi, ma soltanto tu sei “tu”. Certo, l’esistenza di tante persone sembra improntata ad un rigido cliché: si nasce, si va a scuola, si lavora, ci si sposa, si hanno dei figli, si invecchia, si muore… Ma la “tua” esistenza è costretta a sottostare ad un cliché? Il tuo destino personale è riducibile a quello degli altri? Non senti forse il desiderio di prendere in mano la tua vita, di essere protagonista del tuo sviluppo personale, di realizzare i tuoi desideri? Ebbene, queste sono le domande e i desideri da cui parte la ricerca morale. Sono domande che possono essere sintetizzate in un’unica questione:

·     Come dobbiamo essere per realizzare pienamente la nostra personalità umana?

1.2          Non basta la fede?

A questo punto potrebbe presentarsi un interrogativo: che senso ha per un cristiano porsi queste domande? Gesù Cristo non ci ha forse dato ogni risposta necessaria? Dal punto di vista morale, non basta la legge dell’Antico e del Nuovo Testamento? che cosa può aggiungervi la filosofia?[4]

1.2.1    La filosofia “ancella” in casa della teologia

Certamente la filosofia non può “aggiungere” nulla alla Rivelazione. Può tuttavia aiutarci a capirla meglio, a penetrarne più profondamente il senso. La tradizione cristiana, a questo proposito, ha insegnato che la filosofia è “al servizio” della teologia (philosophia ancilla theologiae). E si tratta di un servizio reso su due fronti: da un lato la filosofia scopre alcune verità che facilitano l’accoglienza del Vangelo; dall’altro lato la filosofia smaschera alcuni errori che impediscono l’accoglienza del Vangelo.

Fare filosofia significa indagare con la ragione sull’uomo, sul mondo e su Dio, cercando di conoscere la verità. Ora, alcune verità, scoperte dagli uomini attraverso i loro ragionamenti, “preparano la strada” perché siano meglio accolte nella fede le verità rivelate da Dio per mezzo di Gesù Cristo (quelle verità sono perciò chiamate preambula fidei). Pensiamo, ad esempio, alla grande scoperta di Platone, secondo cui deve esserci una realtà “soprasensibile”, ossia superiore al mondo che cade sotto i nostri sensi: è una scoperta filosofica, razionale, e nondimeno essa aiuta a comprendere il messaggio rivelato da Dio e ne facilita l’accoglienza.

È chiaro che la verità conosciuta “apre la strada” per conoscere altra verità. Ma è altrettanto chiaro che l’errore “sbarra la strada” alla conoscenza della verità e conduce fatalmente verso altri errori. Prendiamo ad esempio l’idea, oggi assai diffusa, che la libertà individuale di ciascuno sia la sorgente di ogni valore (c’è tutto un movimento filosofico - chiamato “soggettivismo” - che ha teorizzato questo). Si pensa che il bene e il male siano semplicemente modi di vedere le cose: a me questo comportamento può apparire bene, a te può apparire male: io devo lasciarti libero di fare ciò che ti pare, e tu mi lascerai libero di fare ciò che pare a me. È evidente che chi la pensa in questo modo, fintanto che continua a pensare così, non può accogliere il messaggio morale cristiano: se la mia libertà è l’unico criterio del bene e del male, perché mai dovrei piegarmi alla legge di Dio? Così si comprende che un errore filosofico può chiudere la strada alla fede.

Il nostro compito sarà dunque quello di spingere in avanti la conoscenza razionale nella ricerca della verità e nella confutazione dell’errore. Ciò facendo, renderemo un servizio alla stessa teologia. D’altra parte, ci sentiamo invitati dalla nostra stessa fede ad esercitare fino in fondo la ragione. Un assioma teologico classico dice: «La grazia non distrugge la natura, ma la suppone»; nel nostro campo questo può essere tradotto così: «La fede non distrugge la ragione, ma la suppone». La fede non sostituisce la ragione, bensì la completa e la eleva: quindi è necessario che ci sia qualcosa da completare ed elevare: un’attività razionale a cui la fede non si sostituisce.

1.2.2    La filosofia “signora” in casa propria

Ma questo vuol forse dire che la filosofia deve contentarsi di servire alla teologia, fornendole gli strumenti e preparandole la strada? Che, forse, è la teologia a indicare come dei percorsi obbligati, che poi la filosofia deve percorrere?

Niente affatto. La conoscenza filosofica ha una sua specificità che non può mai venire meno. E questo è particolarmente evidente oggi, nella società complessa e secolarizzata in cui ci muoviamo. Nel dibattito sui temi che dilaniano la coscienza delle nazioni e del mondo intero (ad es. sui temi dell’eutanasia, dell’aborto, della politica economica, ecc.), noi cristiani non possiamo portare i nostri argomenti a partire dall’autorità del Vangelo, giacché ci troviamo a discutere con persone (e sono la maggioranza) che non riconoscono questa autorità. Dobbiamo quindi imparare a fondare filosoficamente i nostri argomenti.

La sfida è assai forte, perché alcuni pensatori “laici” (ma meglio sarebbe dire “laicisti”), negano ai cristiani il diritto di proclamarsi filosofi. Essi ritengono che la nostra fede ostacoli la libertà e la scientificità della ricerca, perché sarebbe un insieme di pregiudizi (cioè giudizî formulati prima che l’indagine razionale sia stata compiuta), che vizierebbe la comprensione delle cose.

Altri pensatori “concedono” ai cristiani il diritto di essere filosofi, ma a patto che “mettano tra parentesi” la propria fede e facciano una filosofia “neutrale”.

Cosa pensare di queste critiche? Da parte mia, penso che, prima di dire se il cristiano può o non può essere filosofo, bisognerebbe chiedersi cosa significa essere filosofo[5]. Chi è il filosofo?

Il filosofo è un pensatore che cerca di fondare razionalmente i propri giudizî, senza fare appello a miti, fedi o opinioni della maggioranza. Finché i suoi giudizî sono fondati su argomenti razionali, il suo discorso è scientifico. Per fare questo, non si richiede che il filosofo metta “tra parentesi” la propria fede (cristiana, mussulmana o buddista che sia): si richiede soltanto che non tragga argomenti da verità di fede, che mantenga la discussione su un piano rigorosamente razionale[6].

Pertanto, il cristiano (come ogni altro uomo) può essere filosofo.

Noi cristiani consideriamo certamente la filosofia come “ancella della teologia”. Ma - per essere una buona ancella - essa deve essere una buona filosofia, una “filosofia fino in fondo”, che si avvalga esclusivamente del proprio metodo «senza sbirciare verso la teologia e le sue esigenze, e senza cadere nell’idea errata di dover arrivare a tutti i costi nello stesso luogo in cui il filosofo in quanto credente già si trova»[7].

Per stare al nostro tema, è noto che esiste una disciplina chiamata “teologia morale” o “etica teologica”. Bene, l’etica filosofica è una disciplina autonoma rispetto alla teologia morale: può essere integrata in quest’ultima, ma possiede una propria validità che la teologia stessa deve riconoscere: è signora in casa propria.

1.3          Metodi filosofici

Dopo aver definito i rapporti tra filosofia e teologia morale, occupiamoci più da vicino del metodo della ricerca filosofica. Come dobbiamo condurre il nostro studio per essere dei veri filosofi? È anzitutto necessario coltivare determinati atteggiamenti di fondo, delle “virtù” che ci dispongano adeguatamente al nostro lavoro (1.3.1); poi bisogna sapere quale deve essere il punto di partenza della nostra indagine (1.3.2); dobbiamo inoltre renderci consapevoli dei condizionamenti che “ci portiamo dietro” (1.3.3); così saremo in grado di definire gli obiettivi e le modalità della nostra ricerca (1.3.4) .

1.3.1    Atteggiamenti di fondo

Fra gli atteggiamenti di fondo, fra le virtù che ci consentono di disporci in modo consono al lavoro filosofico-morale, tre attitudini mi sembrano assolutamente indispensabili: lo stupore, il rispetto ed il desiderio. Esaminiamole nell’ordine.

1.3.1.1                    Stupore

Molti filosofi dell’antichità greca hanno insegnato che la filosofia nasce dallo stupore nei confronti dell’essere[8]. I fenomeni naturali, con la loro dirompente potenza, la loro sublime bellezza, la loro delicata tenerezza; l’ordine del cosmo, la precisione dei movimenti astrali; il miracolo della vita; il mistero del cuore dell’uomo… Tutto ciò riempie l’animo di meraviglia e fa nascere la domanda filosofica: «perché c’è l’essere e non il nulla?»; «che cosa è l’uomo?».

L’esperienza dello stupore è esaltante, ma, alla lunga, può causare uno stress eccessivo. Stupirsi vuol dire non esser capaci di spiegarsi il perché ed il come di certi fenomeni: quando è l’universo, l’essere o l’uomo stesso a stupirmi, io devo confessare di non riuscire a capire fino in fondo né me stesso né ciò che mi circonda… Questo è abbastanza frustrante! Non solo: può generare una vera e propria angoscia. L’ignoto, il misterioso, attrae e spaventa allo stesso tempo.

A questo livello, la tentazione più grossa è quella di addomesticare l’angoscia prendendo delle “scorciatoie mentali”, ossia riducendo la realtà a qualcosa di già noto. “Scorciatoie mentali” sono gli schemi precostituiti sulla base dei quali cerchiamo di spiegare tutto, anche quel che non conosciamo. In questo modo evitiamo il confronto con la realtà, che è pur sempre un confronto “duro”; evitiamo il cammino, a volte inquietante, da compiere insieme con l’oggetto che vogliamo conoscere. Così facendo, forse, evitiamo l’angoscia… Ma smettiamo di fare filosofia e ci dedichiamo alla più pericolosa delle attività mentali umane: l’ideologia[9].

Se la domanda filosofica scaturisce dalla meraviglia, la risposta non può essere trovata fuggendo o rifiutando la meraviglia stessa: è necessario rimanere nello stupore.

1.3.1.2                    Rispetto

Per rendere possibile lo stupore, dobbiamo coltivare in noi stessi la virtù del rispetto nei confronti della realtà. Necessita una sorta di “riverenza” davanti all’oggetto del nostro pensiero, che consenta alle cose stesse di manifestarsi nella loro ricchezza. Il rispetto implica la disponibilità ad ascoltare fino in fondo, lo sforzo di tacere per comprendere (e non per preparare il proprio discorso mentre l’altro sta ancora cercando di parlare), la rinuncia ad incapsulare l’oggetto in qualcosa di già noto.

Il nemico più grande, a questo livello, è rappresentato della «volontà di potenza» (l’espressione è del pensatore tedesco F. Nietzsche, 1844-1900), che pretende di dominare la realtà per asservirla a sé.

Nella Bibbia troviamo un comandamento sul quale si è taciuto per secoli: «Non farai per te scultura o immagine alcuna di quello che è in alto in cielo, e di quello che è in basso sulla terra, e di quello che è in acqua, sotto terra»[10]. Mi pare che sia possibile leggere questo in chiave filosofica: non costruirti una immagine della realtà che la sostituisca, così che tu abbia la sventura di confrontarti non con le cose ma con le tue immagini, con i tuoi fantasmi, con le tue idee. Tutto ciò assume una gravità enorme quando si tratta non di oggetti inanimati ma di esseri umani. Dice un profondo romanziere contemporaneo: «È un segno di non-amore e quindi peccato, farsi un’immagine definita del prossimo, di una persona, dire cioè: tu sei così e così e basta!»[11].

Il filosofo deve mantenersi in un atteggiamento di delicato e sensibile rispetto per la realtà in se stessa.

1.3.1.3                    Desiderio

Strettamente collegata allo stupore ed al rispetto, appare la terza virtù che dobbiamo coltivare in noi stessi per educarci alla filosofia: l’amore di desiderio.

I greci parlavano di eros filosofico. Probabilmente l’espressione suona un po’ forte e poco comprensibile per la nostra mentalità… Per “eros” noi siamo abituati ad intendere una sorta di bramosia di godimento. È chiaro che qui non si intende questo, né si intende una specie di concupiscenza intellettuale tesa al “possesso” dell’oggetto: tutto ciò sarebbe contro lo stupore ed il rispetto!

Qui intendiamo parlare di una “sete” di verità, di un “anelito” interiore, viscerale direi quasi, verso il messaggio misterioso racchiuso nella realtà.

1.3.2    Partire dall’esperienza

 Dunque, lo stupore di fronte alla realtà, il rispetto per la realtà stessa e l’amore di desiderio per la verità costituiscono le attitudini fondamentali della ricerca filosofica.

Dobbiamo ora chiederci quale deve essere il punto di partenza della nostra indagine. Da dove “comincia” la filosofia? Forse comincia dai libri dei filosofi? Forse dovremo iniziare dai Presocratici ed arrivare ai giorni nostri per vedere come è stato impostato il problema morale nella storia del pensiero occidentale? Sarebbe legittimo… Ma in questo modo faremmo storia della filosofia e non filosofia![12]

Qualcuno ha detto che la filosofia non abita nei libri, perché ci sta troppo stretta. E, d’altra parte, è certo che la filosofia non comincia dai libri. I libri stessi sono il prodotto dell’attività degli esseri umani, i quali hanno messo per iscritto i loro pensieri. Ma gli stessi pensieri non nascono dal nulla: sono il risultato della riflessione sull’esperienza.

Eccoci al punto: la filosofia non può partire che «dal dato immediato, cioè dagli elementi dell’esperienza»[13].

Ciascuno di noi ha un’esperienza di vita e, particolarmente, un’esperienza morale, personale eppure comune a tanti altri. E ciascuno di noi, sin da ragazzino, ha cominciato a riflettere sulle proprie esperienze ed ha cominciato a formarsi delle idee circa ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bello e ciò che è brutto, sul bene e sul male, sull’uomo, sul mondo, su Dio… Ora, tutto ciò costituisce quel «minimo-di-filosofia»[14] che ogni essere umano, più o meno consapevolmente, porta con sé. È con questo “minimo” che cominciamo a rielaborare la nostra esperienza per giungere alle precisazioni ed agli approfondimenti propri della ricerca etico-filosofica[15].

Ma «nessun uomo è un’isola»: nessuno di noi può vivere umanamente se non è inserito in un contesto sociale: una famiglia, un gruppo di amici, una città… una rete di relazioni e contatti con altre persone simili a noi. E questi contatti si realizzano nel dialogo. Pertanto la riflessione filosofica sulla propria vita si arricchisce e si anima grazie al dialogo con il prossimo, parlato o scritto che sia.

1.3.3    Consapevolezza dei condizionamenti

Riflettiamo un attimo. Abbiamo detto che dobbiamo lasciarci guidare dallo stupore, dal rispetto e dal desiderio; abbiamo detto che bisogna partire dall’esperienza e che dobbiamo rielaborare quel “minimo-di-filosofia” che ciascuno di noi porta con sé. Ma allora, a pensarci bene, non è questo “minimo-di-filosofia” che potrebbe distoglierci dallo stupore, trasformandosi in ideologia? È questo “minimo-di-filosofia” che potrebbe portarci a mancare di rispetto per la realtà e ad incapsularla in uno schema già noto? È questo “minimo-di-filosofia” che potrebbe estinguere l’amore e il desiderio della verità?

In alcuni casi sì. Ma non necessariamente.

È chiaro che noi non cominciamo la nostra riflessione etico-filosofica come delle tabulae rasae o dei fogli bianchi su cui non è scritto nulla. Nel formarsi quel “minimo-di-filosofia”, ciascuno è condizionato dalla propria formazione culturale in senso ampio: dall’educazione che ha ricevuto, dai modelli sociali che gli sono stati proposti, dalle tradizioni religiose, dalla lingua che parla, dalle situazioni economiche in cui è vissuto, ecc.

Orbene, tali condizionamenti sono tanto più forti quanto meno li si riconosce. Se uno si illude di esserne totalmente libero, di avere un’intelligenza pura e vergine delle cose così come sono… ebbene, costui è inevitabilmente destinato a restare schiavo di pregiudizi, ideologie e mitologie che non riconosce ma che operano in lui. Platone descrive la condizione di un uomo del genere con l’immagine di un prigioniero incatenato in una caverna, che vede alcune ombre proiettarsi sul fondo della sua prigione e crede che il mondo sia tutto lì[16].

Nessun prigioniero può liberarsi se prima non capisce di essere prigioniero! Se ci si vuole liberare dai condizionamenti, bisogna prima ammettere di essere condizionati. Bisogna anzitutto riconoscere le tradizioni in cui siamo vissuti: io che scrivo sono cresciuto in un contesto segnato dalla mentalità occidentale, neolatina, italiana; sono cristiano cattolico e vivo in un paese che si dichiara in maggioranza cattolico; sono stato educato in una certa famiglia, in cui si dava importanza a determinati valori e si stigmatizzavano altri comportamenti; ho frequentato le tali scuole, ecc. Bisogna poi esaminare criticamente queste tradizioni nelle loro componenti, talvolta omogenee, talvolta contraddittorie, confrontando gli elementi da esse veicolati con “le cose stesse”, con la realtà oggetto della nostra esperienza.

Così facendo giungeremo ad una sempre maggiore obiettività. Chi è consapevole del rischio di essere condizionato è già potenzialmente libero dai condizionamenti.

1.3.4    Ovvietà ed evidenza

Per liberarci dai condizionamenti, per approssimarci il più possibile all’obiettività è necessario distinguere tra due concetti che molto spesso si confondono e ci confondono: ovvietà ed evidenza[17].

In ogni tradizione vi sono elementi che vengono dati solitamente “per scontati”: sono le cosiddette ovvietà, che vengono ammesse comunemente, in modo acritico, senza ragionarci su, senza nemmeno chiedersi se sono frutto di conoscenza, di fantasia o di pregiudizio… Per gli uomini vissuti prima di Copernico, ad esempio, era “ovvio” che il sole girasse intorno alla terra. Ovvio per loro, ma errato in sé! Dal punto di vista morale è facile rintracciare esempi di “ovvietà” del passato che oggi ripugnano al nostro pensiero: l’idea che esistano razze umane superiori e inferiori, che le donne debbano essere sottomesse agli uomini, che sia lecito tenere alcuni esseri umani in stato di schiavitù, e così via. Tutte queste “ovvietà” oggi sono ritenute… “ovviamente false”! Ma quante altre cose che oggi ci sembrano “ovvie” ripugneranno agli uomini del prossimo secolo?

Chiaramente, il fatto che una certa posizione sia ritenuta “ovvia” non è un criterio per ammetterla come vera. Il sapere diventa degno di questo nome quando abbandona le ovvietà e si volge alle evidenze.

Mi è “evidente” ciò che è presente al mio conoscere e, quindi, ciò che io conosco in quanto mi è presente. Mi spiego. Che sulla Luna vi siano dei crateri è vero, ma a me non è evidente, perché non ho mai avuto modo di osservarli; io “so” che sulla Luna vi sono dei crateri, perché mi fido di altri uomini che li hanno osservati. Dunque, per me la proposizione:

1. «Sulla Luna vi sono dei crateri»,

non è evidente, giacché non la conosco in quanto i crateri della Luna sono presenti a me, bensì in quanto sono presenti ad altri, di cui mi fido. Mentre la stessa proposizione è evidente ad un astronomo, in quanto è presente al suo conoscere, grazie alle osservazioni telescopiche che ha potuto effettuare.

Nel caso dei crateri osservati col telescopio si tratta di una evidenza sensibile, come nel caso della proposizione:

2. «Questo foglio è scritto»,

essa è evidente ai tuoi sensi, alla tua vista. Ma vi sono anche evidenze di tipo intelligibile, come ad esempio la proposizione:

3. «Ogni poligono chiuso da tre lati ha necessariamente tre angoli»,

essa è evidente al tuo intelletto.

Gli esempi 2. e 3. sono casi di evidenza immediata, ossia di evidenze colte direttamente nella realtà (sensibile nel caso del foglio scritto, intelligibile nel caso del triangolo). Esiste tuttavia anche l’evidenza mediata, che è cioè raggiungibile grazie alla mediazione di una serie definita di evidenze immediate. Per capire questo, pensa ai teoremi di matematica: tu sai che la somma dei quadrati costruiti sui cateti di un triangolo rettangolo è pari al quadrato costruito sull’ipotenusa; è evidente questo? Certo! È immediatamente evidente? Certamente no! È da dimostrare. E posso dimostrare un teorema perché parto da una proposizione immediatamente evidente, da cui si ricava un’altra evidenza, e poi un’altra ancora… finché non arrivo alla conclusione. La conclusione, alla fine, è anch’essa evidente, ma grazie alla dimostrazione, cioè in maniera mediata.

Così, in filosofia, vi sono delle evidenze immediate, come  - ad esempio -  che i valori morali possono essere realizzati soltanto da parte di persone (riusciresti a pensare un mattone onesto o un’insalata prudente?); e vi sono delle evidenze mediate, come - ad esempio - che l’umiltà è una virtù (può essere dimostrato, ma è necessario un ragionamento abbastanza complesso).

 

In sintesi, per affrontare la nostra ricerca filosofico-morale, abbiamo bisogno di aprirci allo stupore davanti all’essere, di rispettare la realtà, di desiderare con amore la verità. Il punto di partenza della nostra indagine non può essere altro che l’esperienza e quel minimo-di-filosofia che ognuno di noi porta con sé. Tuttavia, perché il nostro lavoro possa essere scientifico, c’è bisogno che prendiamo coscienza dei condizionamenti derivanti dalla nostra cultura e educazione: il compito della filosofia sarà quello di smantellare le ovvietà per accedere alle evidenze.

1.4          Caratteristiche specifiche dell’etica filosofica

Abbiamo visto in che rapporti stia la ricerca filosofica con la fede ed abbiamo esplicitato le caratteristiche salienti del metodo filosofico. A questo punto dobbiamo applicare quanto detto alla ricerca specificamente etica che ci compete.

1.4.1    L’etica si occupa dell’esperienza morale

Il  termine “etica” viene dal greco éthos, éthous che significa “uso, costume, modo di comportarsi, carattere”[18] e corrisponde al latino mos, moris; per cui tra “etica” e “morale” noi non facciamo alcuna differenza e riteniamo i termini semplicemente come sinonimi: ci è già accaduto e ci accadrà in seguito di usare indifferentemente l’una o l’altra espressione, mossi nella scelta esclusivamente da esigenze stilistiche.

Cerchiamo ora di puntualizzare meglio il compito dell’etica filosofica. Abbiamo detto sopra (1.3.2) che l’esperienza è l’oggetto di tutta la riflessione filosofica; ebbene, lo specifico della riflessione filosofico-morale è dato dall’esperienza morale. Il primo passo della nostra ricerca, fin dal capitolo seguente, sarà dunque quello di vedere, in noi stessi e nel dialogo col prossimo, se esista un’esperienza di questo tipo, essenzialmente distinta da tutti gli altri tipi di esperienza e ad essi irriducibile. Poi si tratterà di descrivere questa esperienza per penetrare nel suo nucleo essenziale e cominciare a trarre da esso le prime conseguenze per il nostro agire.

 

Bene, ci occuperemo dell’esperienza morale. Ma da che punto di vista? Che tipo di conoscenza intendiamo avere di questo oggetto? Ci limiteremo a descriverlo? Oppure ricaveremo delle indicazioni pratiche per il nostro modo di vivere, ossia delle prescrizioni, delle norme? E, in questa seconda ipotesi, che tipo di norme saranno?

1.4.2    L’etica è una scienza meramente descrittiva?

Sono diversi gli indirizzi di pensiero i quali ritengono che l’etica sia una scienza meramente descrittiva e, quindi, non-prescrittiva. Ne presentiamo brevemente i due principali: il positivismo e il pensiero debole.

1.4.2.1                    Le opinioni del positivismo e del pensiero debole

Il positivismo è una corrente di pensiero sorta nel XIX secolo, a seguito degli enormi progressi compiuti dalle scienze sperimentali. A modo di vedere dei positivisti, il metodo delle scienze sperimentali - così valido e fecondo - doveva essere esteso a tutte le altre branche del sapere. Orbene, le scienze sperimentali si limitano a “descrivere” la realtà, senza “prescrivere” nulla. Pertanto, nei sistemi positivisti non c’è spazio per una scienza “prescrittiva”: l’etica non insegna come ci si deve comportare, bensì soltanto come, di fatto, la gente si comporta. La scienza morale non avrebbe altro scopo che la descrizione degli usi e dei costumi dei diversi popoli. L’etica si trasforma così in etologia umana o in antropologia culturale.

Il pensiero debole è un movimento recentissimo e tuttora assai prolifico, che poco o nulla ha a che fare col positivismo. Eppure, nei confronti dell’etica, giunge a conclusioni stranamente simili. Secondo i pensatori afferenti a questa corrente, il ruolo del filosofo sarebbe quello di descrivere i diversi “modelli” di comportamento: le diverse culture, le diverse religioni, i diversi orientamenti politici, le diverse opinioni sul bene e sul male, ecc. La descrizione avrebbe lo scopo di facilitare il dialogo tra i diversi modelli, in modo che dall’uno si passi all’altro e viceversa, in una sorta di “tavola rotonda” che non approda (e non può approdare) a nessuna conclusione. I presupposti di questo indirizzo di pensiero, a quanto pare, sono riconducibili all’esigenza di essere “democratici”. Vi è diversità di pensiero, diversità di costumi, diversità di opinioni… Ma, giacché «gli uomini sono tutti uguali», appare “antidemocratico”, “politicamente scorretto” affermare che qualcuno ha ragione e qualcun altro ha torto. Inoltre, molti esponenti di questo indirizzo di pensiero si definiscono “libertari”, ossia ritengono che la libertà individuale sia il sommo valore o, addirittura, la fonte di tutti i valori; pertanto ogni etica normativa viene definita come “liberticida” proprio perché impone delle norme, alle quali la libertà dei singoli deve sottomettersi.

 

Così, a partire da esigenze diverse, sia il positivismo sia il pensiero debole negano la possibilità stessa di costruire un’etica normativa. Di fronte alla domanda da cui siamo partiti («Come dobbiamo essere per realizzare pienamente la nostra personalità umana?») questi indirizzi di pensiero affermano che non è possibile dare alcuna risposta. Cosa pensare di queste affermazioni? Io penso, caro lettore, che sono una buona occasione per cominciare a ragionare con la nostra testa, in modo critico!

1.4.2.2                    Critica

Esaminiamo, dunque, criticamente gli argomenti degli uni e degli altri.

Iniziamo dai positivisti. Il loro modo di argomentare si può schematizzare come segue:

a) Le scienze sperimentali sono descrittive e non normative;

b) ora, ogni scienza (anche l’etica) deve uniformarsi al modello delle scienze sperimentali.

c) Dunque anche l’etica deve essere descrittiva a non normativa.

Chi conosce un minimo di logica, comprende di trovarsi davanti ad un sillogismo, formalmente corretto[19]. Ma… veridico?

La premessa minore di questo sillogismo  (la ‘b’) è vera? Io direi che è arbitrariamente tenuta per vera. Per quale motivo l’etica (o la filosofia in genere) dovrebbe uniformarsi al modello delle scienze sperimentali? Come si giustifica la scelta di un tipo determinato di scienza (quella sperimentale) come paradigma e modello di tutte scienze? L’affermazione implica una presa di posizione filosofica (e, precisamente, un’affermazione “epistemologica”, ossia di filosofia della scienza) che non viene neanche discussa da chi pretende di imporla. E si noti bene che quell’affermazione non può essere in alcun modo giustificata con i metodi delle scienze sperimentali, i quali dovrebbero essere i soli validi. Intendo dire: non esiste alcun procedimento scientifico sperimentale il quale dimostri che ogni scienza deve uniformarsi al modello delle scienze sperimentali[20].

La conclusione del sillogismo (la ‘c’), scaturendo da una premessa arbitraria, è arbitraria anch’essa. Non solo: essa è anche evidentemente falsa, perché è autocontraddittoria (ossia afferma e nega contemporaneamente la stessa cosa). Afferma che la scienza deve essere non normativa; ma, così facendo, impone una norma: la norma di non imporre norme! E la norma così posta nega la norma stessa. È come se si dicesse: «è proibito proibire»; se è proibito proibire, perché proibisci di proibire? Se è “proibito proibire”, è anche “proibito proibire di proibire”!

Come ha notato un acuto pensatore: «È un dato di fatto: il positivismo, nelle sue svariate fogge, non è una filosofia sbagliata per la semplice ragione che non è affatto una filosofia»[21].

 

Passiamo ora ad esaminare l’atteggiamento del pensiero debole. Anche qui il ragionamento proposto può essere così schematizzato:

a) Tu ed io abbiamo lo stesso valore.

b) Ora, tu ed io abbiamo opinioni differenti;

c) quindi le tue opinioni e le mie hanno lo stesso valore.

Questa volta, il sillogismo non torna nemmeno a livello formale. Perché tornasse, ci sarebbe bisogno di inserire una dimostrazione intermedia (probatio media): bisognerebbe ammettere che:

b1) le opinioni valgono quanto vale l’uomo che le esprime.

Ma non vedo come si possa accettare questa affermazione. Mi sembra francamente assurdo considerare come criterio per valutare un’opinione non il rapporto tra il pensiero e la realtà dell’oggetto pensato, ma il rapporto tra il pensiero e il soggetto pensante.

Senza contare che bisognerebbe provare anche la ‘a’: è proprio vero che tu ed io abbiamo lo stesso valore? Se tu sei un santo ed io un vizioso perverso, abbiamo davvero lo stesso valore? Il saggio Socrate valeva quanto i rozzi despoti che lo condannarono? Adolf Hitler valeva quanto il “Mahatma” Gandhi?

Abbiamo detto che i libertarî si fanno promotori di questi discorsi in nome dello spirito democratico; ma, ahimè, non si rendono conto che la democrazia stessa è messa in serio pericolo da questo tipo di ragionamenti. Torno a citare l’acuto pensatore di cui sopra: «La democrazia quale forma di vita politica e sociale implica non solamente il riconoscimento di certi valori oggettivi messi al di sopra di ogni discussione, ma anche degli obblighi immutabili. La vera democrazia è condizionata dalla netta distinzione fra libertà ed arbitrio»[22].

 

Dunque, gli argomenti del positivismo e del pensiero debole, volti ad affermare che l’etica deve essere una scienza meramente descrittiva e non normativa, sono fallaci.

1.4.3    L’etica è una scienza normativo-categorica

Possiamo dunque sostenere che la filosofia morale non è una scienza soltanto descrittiva (anche se le descrizioni giocano un ruolo importante al suo interno). Essa è fondamentalmente una scienza normativa: prescrive degli obblighi e pone dei divieti.

Certamente vi sono anche altre scienze normative (forse sarebbe meglio chiamarle “tecnologie”): ad es. l’ingegneria o la medicina. L’ingegnere dice: se vuoi che il soffitto regga, devi sostenerlo con travi di queste dimensioni. Il medico dice: se non vuoi morire di cirrosi epatica, devi smettere di bere alcolici. Ossia: se vuoi ottenere tale fine (e non è necessario che tu lo voglia), devi ricorrere al tale mezzo.

Quel che distingue tali scienze o tecnologie dalla morale, è che quelle riguardano alcuni scopi particolari che l’uomo può porsi o meno; la morale, invece, si occupa del fine dell’agire umano in quanto tale: quel fine che l’uomo non può fare a meno di porsi.

Dunque, le tecnologie esprimono una normatività ipotetica: «se vuoi x, allora devi y». Se voglio che il soffitto regga, debbo… Ma non è detto che io debba costruire un soffitto che regga: se sono lo scenografo di un film comico e devo preparare la gag del grassone che sfonda il pavimento, devo costruire proprio un soffitto che non regge! Se non voglio morire di cirrosi, debbo… Ma perché devo fuggire la morte? non potrei invece suicidarmi, magari lentamente?

La morale, al contrario, esprime una normatività categorica: tu devi comportarti in questa o in quest’altra maniera, non solo per ottenere uno scopo particolare, ma per realizzare lo scopo dell’esistenza umana in quanto tale.

Le tecnologie prescrivono come ci si debba comportare per essere dei buoni ingegneri, dei buoni medici, ecc. La morale prescrive come ci si debba comportare per essere buoni in quanto uomini: per essere degni della propria umanità.

1.4.4    Etica e felicità

Da quel che abbiamo detto dovrebbe risultare chiaro, però, che la filosofia morale non si limita a fornire un elenco di norme, di prescrizioni e di divieti. Un’etica ridotta a questo farebbe sorgere immediatamente una domanda radicale: Perché mai dovrei sottomettermi a tali norme? Molto spesso ci si contenta di rispondere: Perché questo è il modo di essere moralmente buoni. Al che è sin troppo facile replicare: Perché devo essere moralmente buono?

Prima ancora di giungere alla formulazione di norme, la filosofia morale è chiamata a riflettere sul fondamento delle norme stesse. Le norme morali sono delle indicazioni, seguendo le quali riusciamo a “guidare” la nostra vita, a governare la nostra esistenza in modo da sviluppare la nostra personalità in relazione con gli altri uomini, con Dio, con il mondo.

Allora è lo sviluppo della nostra personalità a costituire il fondamento della moralità. Come vedremo, la piena realizzazione di questo sviluppo costituisce la felicità vera, e le modalità in cui questo sviluppo si realizza sono le virtù[23].

In sintesi possiamo dire che la filosofia morale è la scienza della vita buona o virtuosa, e che, proprio per questo, è l’arte della felicità.


2.               Fenomenologia della moralità

Il termine “fenomenologia” può suonare strano a chi non ha studiato filosofia in precedenza. Chi invece hai seguito qualche corso di filosofia nelle scuole medie superiori, troverà familiare il suono della parola… ma probabilmente il suo significato potrà risultare alquanto confuso. Pertanto, cerco immediatamente di chiarire in che senso  usiamo questo termine. Qui intendiamo prendere sul serio l’invito del fondatore della “scuola fenomenologica”, il filosofo tedesco E. Husserl (1859-1938), il quale, davanti all’estrema astrattezza del dibattito filosofico all’inizio del XX sec., lanciò un appello: «Torniamo alle cose stesse!» (Zurück, zu den Sachen selbst!). Nel mio intento, dunque, la fenomenologia consiste nel lasciar parlare l’oggetto di cui ci si occupa, per scoprire che-cosa è, quale è il suo nucleo essenziale, e  per cogliere le verità radicate nella sua essenza[24].

Come abbiamo detto nello scorso capitolo, l’oggetto di cui ci occuperemo è l’esperienza morale. Dovremo chiederci, pertanto, se esistano esperienze specificamente morali, distinte da ogni altro tipo di esperienza umana (2.1), ed in cosa si differenzino dalle altre esperienze (2.2).

2.1          Esperienze morali

Anzitutto dobbiamo discutere le posizioni di quei pensatori che negano l’esperienza morale stessa, affermando che essa si può ridurre ad altri ambiti dell’esperienza umana (2.1.1). Prenderemo poi in considerazione alcuni “fenomeni” morali come il giudizio sul comportamento altrui (2.1.2) ed il giudizio sul proprio comportamento (2.1.3).

2.1.1     Tentativi di negazione

Qualche decennio fa andava di moda rifiutare ogni morale, etichettandola con il termine dispregiativo di “moralismo”. Era un atteggiamento culturale che si produceva sotto la spinta di suggestioni derivanti da alcuni pensatori, noti come i «maestri del sospetto»: K. Marx, F. Nietzsche e S. Freud.

Nella concezione di Marx  (1818-1883), la morale altro non è che una sovrastruttura dipendente dai rapporti economici di potere. L’unica struttura reale per Marx sono i rapporti di produzione e di lavoro. Questa struttura genera necessariamente un complesso di sovrastrutture atte a supportare e difendere la struttura stessa, come la religione, la morale, la metafisica, il diritto, le forme dello Stato, ecc.[25]. La morale, pertanto, non avrebbe altro scopo che la difesa del “sistema”: proibire ciò che turba l’ordine economico (ad esempio, se quest’ultimo si regge sulla proprietà privata, considererà il furto come peccato), ed imporre ciò che gli è funzionale (ad esempio, comanderà di lavorare, di stare sottomessi ai padroni, ecc.). Nell’orizzonte di pensiero marxista, dunque, l’esperienza morale - analogamente all’esperienza religiosa - è vista come una sorta di alienazione (l’uomo cerca se stesso in una direzione sbagliata), o di mistificazione (il potere riveste di significati mistici ciò che è puro e semplice strumento per la conservazione dei rapporti esistenti).

Nietzsche (1844-1900), da parte sua, ritiene che la morale tradizionale - che egli chiama «ascetica» o «morale da schiavi» e che viene identificata con la morale cristiana - sia una conseguenza del risentimento dei deboli. Questi ultimi, umiliati dall’esistenza stessa dei forti, non potendo riscattarsi con le armi virili della lotta, capovolgono il punto di vista del valore: chiamano “male” ciò che è bene (ossia la forza, il piacere, l’attaccamento alla terra…) e “bene” ciò che è male (ossia l’umiltà, la temperanza, la rinuncia …)[26]. Pertanto, sebbene Nietzsche teorizzi una sua propria morale, che egli chiama «morale aristocratica», culturalmente il pensiero nicciano ha portato a pensare che l’esperienza morale in quanto tale non sia altro che il prodotto del risentimento dei deboli nei confronti dei forti.

Freud  (1856-1939) è stato il grande scopritore dell’inconscio. Egli ha mostrato che gran parte di ciò che avviene nella nostra coscienza è il risultato di qualcosa che è dentro di noi, nel nostro profondo, ma di cui non ci rendiamo conto. In particolare,  l’esperienza morale sarebbe il risultato di meccanismi inconsci di rimozione e censura, riguardanti soprattutto il desiderio sessuale (o libido)[27]. Il nostro «Io» sarebbe determinato del conflitto tra una parte istintiva, chiamata «Es» o «Id», regolata dal «principio di piacere» (ossia orientata compulsivamente verso ciò che provoca piacere), ed una parte razionale, chiamata «Super-Io», regolata dal «principio di realtà» (ossia dalla considerazione che determinati piaceri non possono essere perseguiti qui ed ora). L’Es è l’uomo allo stato naturale; è il bambino che persegue il piacere senza remore. Il Super-Io si costituisce quando, soprattutto ad opera della figura paterna, al bambino viene proibito di trarre piacere dal possesso della madre. La libido viene così repressa, rimossa, censurata, e la morale (tutto l’insieme delle regole, delle norme e dei modelli di comportamento) è il risultato di questa rimozione e della conseguente identificazione con la figura paterna. Di qui è facile concludere che l’esperienza morale altro non è che il prodotto della repressione sessuale.

Sulla base di queste premesse, alcuni sono giunti a teorizzare la fine di ogni morale.

Tuttavia, la morale non è morta. Un  buon osservatore ha notato: «La stessa critica della morale era spesso sostenuta da atteggiamenti di militanza che a loro volta svelano l’ispirazione morale che stava alla base della stessa critica morale»[28]. Il che equivale a dire: nel loro impegno a distruggere ogni morale, i contestatori dimostravano una notevole dose di… moralismo! Come se pensassero (passi il gioco di parole): è immorale imporre una morale, pertanto abbiamo il dovere morale di imporre l’amoralità.

Sono stati messi in crisi i modelli di comportamento provenienti dalla tradizione, ma al loro posto sono subentrati altri modelli, non meno “moralistici”. Nell’inconscio i tabù legati al sesso sono stati sostituiti con altri tabù, ad esempio quello della morte o della sofferenza. Al risentimento contro la vita e la forza si è sostituito il risentimento contro i deboli, di cui si auspica la soppressione, siano essi feti, bambini malformati, malati, anziani, ecc. Le strutture economiche delle società continuano a produrre i loro modelli sovrastrutturali, servendosi dei potentissimi mezzi di comunicazione di massa per imporre regole di comportamento funzionali al sistema.

E, non ostante tutto, permangono dei veri atteggiamenti morali che testimoniano quanto l’esperienza morale sia radicata nell’essenza del vivere umano. Li esamineremo dapprima in riferimento al nostro giudizio sui comportamenti altrui, e poi al giudizio sul nostro proprio comportamento.

2.1.2    Giudizio sul comportamento altrui

Di fronte a determinati comportamenti del nostro prossimo, spontaneamente sentiamo nascere in noi una reazione di approvazione o disapprovazione.

2.1.2.1                    Lo scandalo

Un primo fenomeno da prendere in considerazione è lo scandalo. Il termine (francese: scandale; spagnolo: escandalo; inglese: scandal) deriva dal greco skàndalon che significa “insidia per cadere”, ma nel linguaggio corrente esprime la reazione di indignazione e di viva protesta morale contro situazioni o eventi che vengono avvertiti come intollerabili. Il senso di irritazione e risentimento implicito nello scandalizzarsi è espresso chiaramente dal termine tedesco Ärgernis.

Nel passato ci si scandalizzava quando l’agire di qualcuno trasgrediva i canoni di comportamento dominanti[29]. Poi, paradossalmente, la trasgressione è diventata “di moda”. Dico “paradossalmente”, perché la moda è costituita da canoni (regole) di comportamento, quindi la moda della trasgressione è un controsenso: è un canone che impone di rifiutare i canoni, è la consuetudine di andare contro le consuetudini. Ma tant’è! Ci si aspetterebbe quindi che nessuno si scandalizzasse più. E invece ci si continua a scandalizzare. L’espressione con cui, più o meno esplicitamente, si esprime lo scandalo è: «Fatti come questo non dovrebbero accadere, non possono essere permessi!».

Ciò attesta indubbiamente la permanenza del senso morale. «Scandalizzarsi, infatti, significa riuscire ancora a sorprendersi che certi fatti possano accadere, significa darne, almeno implicitamente, un giudizio di valore negativo. Ciò non suppone solo che non ci sia apatia morale; implica anche il riferimento ad un orizzonte assiologico [= un quadro di valori], alla luce del quale alcuni fatti suscitano scandalo a differenza di altri»[30]. Nel passato scandalizzava il libertinismo, oggi scandalizza l’intolleranza: il quadro dei valori è mutato (e bisogna esaminare criticamente questa mutazione), ma il senso morale permane. Ossia permane l’attitudine a giudicare un certo tipo di comportamenti come “inammissibili” perché “incompatibili con la dignità umana”, “indegni dell’uomo”.

2.1.2.2                    L’ammirazione

Un altro fenomeno da esaminare è l’ammirazione. Il termine (graficamente identico in francese ed inglese: admiration; in spagnolo: admiración), derivato dal latino ad-mirari: guardare-a, esprime il sentimento di  stima e meraviglia che si prova nel vedere cose insieme belle e straordinarie; il senso di meraviglia è  sottolineato dall’espressione tedesca Bewunderung, da Wunder: prodigio, portento.

Si può provare ammirazione dinanzi ad oggetti assai diversi. E la nostra ammirazione è essenzialmente diversa, a seconda del tipo di oggetto da cui scaturisce: in termini classici si può dire che il concetto di ammirazione non è univoco, bensì analogo. Ad esempio, posso ammirare  uno spettacolo della natura (come un panorama alpestre, un tramonto sul mare, ecc.), o posso ammirare un’opera umana. Evidentemente il senso dell’ammirazione è assai diverso nei due casi: nel primo, si tratta esclusivamente della considerazione della bellezza o della sublimità di uno spettacolo; nel secondo è presente anche la stima per una persona o per il suo comportamento[31].

Concentriamoci dunque sul secondo caso: l’ammirazione per un’opera umana comporta la stima per l’autore dell’opera stessa; possiamo chiamarla “ammirazione-di-stima”.

Tuttavia anche questa ammirazione-di-stima non riveste un significato univoco. Ad esempio posso ammirare l’opera di un artista e stimare il suo artefice in quanto artista, pur senza avere ammirazione e stima per lui in quanto uomo: un uomo può essere un grande pittore pur essendo ladro o violento! Lo stesso può dirsi dell’opera di un tecnico, di uno scienziato, di un uomo di lettere, ecc. Posso dire: «Tizio è grande nel suo campo, ma umanamente non vale nulla».

Ma l’ammirazione può nascere anche davanti al comportamento di un uomo, tale da suscitare in me stima per il suo artefice in quanto uomo. Ad esempio, quando leggiamo il Critone o l’Apologia di Socrate di Platone, il sentimento che sorge in noi non è semplicemente stima per il comportamento di Socrate in quanto imputato, prigioniero o condannato, bensì per Socrate in quanto uomo.

Dunque questa ammirazione-di-stima per un uomo in quanto uomo è un’esperienza morale. Abbiamo detto (v. sopra, 1.1) che la morale nasce dalla domanda: «Come dobbiamo essere per realizzare pienamente la nostra personalità umana?». Ebbene, quando la nostra ammirazione giunge alla stima di un essere umano in quanto uomo, implicitamente siamo messi sulla strada per rispondere a questa domanda: siamo di fronte alla testimonianza concreta di una personalità umana pienamente realizzata.

È evidente che non potremmo scandalizzarci di qualcosa né ammirare qualcuno se non avessimo una qualche idea, magari solo embrionale, di come l’uomo debba essere, di come ci si debba comportare; il che sarebbe impossibile se non avessimo un quadro di valori in base al quale giudicare. Ma proseguiamo nell’analisi.

2.1.3    Giudizio sul proprio comportamento

Non solo il comportamento del prossimo suscita in noi una reazione di approvazione o disapprovazione, ma il nostro stesso comportamento soggiace al giudizio di noi stessi e genera diversi fenomeni.

2.1.3.1                    Il rimorso

Anzitutto esaminiamo il fenomeno del rimorso. Il termine (francese: remords; spagnolo: remordimiento; inglese: remorse) deriva dal latino re-mord­­­­ere: mordere di nuovo, e sta a significare il tormento interiore conseguente alla consapevolezza del male operato. Il filosofo ebreo olandese B. Spinoza (1632-1677) lo chiama «morso della coscienza» (conscientiae morsus), con espressione che traduce letteralmente in latino il termine germanico Gewissensbiss.

«Il sentimento di sofferenza interiore (...) è così profondo da sottendere, condizionare e causare una complessa gamma di altri sentimenti, quali l’angoscia, la tristezza, la paura, il timore, la disperazione, ecc., così bene espressi nella narrazione biblica del fratricidio di Caino, agli albori dell’umanità colpevole (Genesi 4, 9-12), e in una vasta produzione letteraria di ogni tempo, dall’Oreste di Euripide (vv. 385-447) al Macbeth di Shakespeare, al Delitto e castigo di Dostoevskij»[32].

Il rimorso è l’esperienza tragica per eccellenza, in cui il passato colpevole si erge contro il presente creando frattura nell’animo del soggetto. Cos’è che crea la scissione? La consapevolezza di aver “fatto male”, cioè di aver infranto, con la propria azione, il retto ordine delle cose; di aver contraddetto «istanze e appelli di valore che risuonano fortemente dentro di noi»[33]. Nell’esperienza del rimorso è implicito un senso di assolutezza: l’accusa proviene dall’intimo del nostro animo eppure ci trascende, non siamo capaci di manipolarla o di rimuoverla; il retto ordine che abbiamo infranto non è “posto” da noi stessi, ma ci è “im-posto”, per così dire, dall’alto. Infatti, se l’ordine fosse posto da me stesso potrei manipolarlo, adattarlo a quel che ho fatto, in modo da non esserne più condannato… Ed invece, a dispetto dei tentativi che possiamo fare, il giudizio si compie, in virtù di una legge che non sono io a darmi, che mi trascende[34].

2.1.3.2                    La gratificazione

L’esperienza opposta al rimorso è quella della gratificazione. È ciò che sentiamo in noi stessi allorché ci rendiamo conto di aver agito (o di stare agendo) rettamente. Esprimiamo di solito questa esperienza con i termini di “serenità”, “tranquillità”, “soddisfazione”, “gioia”. Magari l’azione per cui ora mi sento gratificato è stata assai difficile, mi è “costata” fatica, dolore; probabilmente “ci ho rimesso” a comportarmi così… Però “ne è valsa la pena”! Il prezzo che ho pagato mi ha acquistato un bene incomparabile: sono stato “me stesso”, non mi sono venduto, ho continuato a costruire la mia vita verso gli ideali in cui credo; posso camminare a testa alta, posso sostenere il mio sguardo ogni volta che mi guardo allo specchio.

La pregnanza di questa esperienza emerge laddove, per contrasto, si vorrebbe mettere sotto accusa un nostro comportamento corretto. Ad esempio, se qualcuno pretende di addossarmi una colpa che non ho commesso, l’essere accusato può infastidirmi, ma non mi toglie una serenità interiore più profonda, perché so di non aver fatto del male. O se qualcuno interpreta con malizia un mio comportamento innocente, non perdo la tranquillità perché sono consapevole della mia onestà. Socrate venne accusato di empietà e di corrompere i giovani, e rispose così:

«Quale pena io merito dunque, o Ateniesi, per essermi comportato in tal modo? Non pena, ma  premio, e un premio che mi sia appropriato».

E chiese di essere mantenuto come un campione, con vitto e alloggio a spese della Città[35].

2.2          Caratteristiche essenziali delle esperienze morali

Cerchiamo ora di approfondire il senso di queste esperienze, esaminandone i contenuti essenziali. Anzitutto dobbiamo notare che si tratta di esperienze che hanno sempre per oggetto dei comportamenti volontari (2.2.1). Poi vedremo che in questi comportamenti la volontà è mossa in un modo del tutto speciale: è obbligata dal dovere (2.2.2). Spiegheremo in seguito che tale dovere, lungi dall’essere “contro” la libertà dell’uomo, la presuppone e la implica e considereremo la dimensione di responsabilità inerente al dovere stesso (2.2.3). Infine metteremo in rapporto il dovere e la felicità (2.2.4).

2.2.1    Esperienze che riguardano la volontà

Una prima, evidente caratteristica dell’esperienza morale è che essa riguarda la volontà. Penso che ciò risulti chiaro se riflettiamo sulle esperienze “positive” che abbiamo descritto sopra: l’ammirazione e la gratificazione.

L’oggetto dell’ammirazione morale è proprio la volontà del soggetto ammirato.

Possiamo ammirare una persona perché ha begli occhi: ma evidentemente non si tratta di ammirazione di stima, perché non riteniamo che sia un “merito” avere begli occhi, ma solo una bella qualità. Non è un merito, perché non dipende dalla volontà del soggetto. È pertanto una qualità che può essere apprezzata, ma non stimata in senso morale.

Posso ammirare ed apprezzare una persona perché è molto intelligente. Tuttavia, se questa intelligenza è un semplice dono di natura, che la persona non ha mai coltivato né messo a servizio della comunità, la stima - che qui forse sarebbe meglio chiamare “apprezzamento” - si rivolgerà unicamente all’intelligenza, ma non alla persona stessa: non è un merito avere un “dono di natura”.

Posso ammirare e stimare una persona assai capace nella sua professione o nella sua arte. Ma qui, anche se la stima non dovesse estendersi a tutta la personalità del soggetto, è evidente che l’ammirazione riguarda anche ciò che il soggetto, con il suo comportamento volontario, ha messo in opera per diventare il professionista o l’artista che è: questo è ciò per cui egli merita stima.

Nel caso dell’ammirazione propriamente morale, quella che proviamo nei confronti della condotta di Socrate, di Attilio Regolo[36], di Massimiliano Kolbe[37], ecc., quel che stimiamo è - come già si è detto - la persona di questi eroi in quanto tale, e la motivazione della nostra ammirazione, se ci riflettiamo bene, non nasce se non dalla condotta volontaria di costoro.

Socrate avrebbe potuto sottrarsi alla condanna con la fuga preparata dai suoi discepoli, oppure scendendo a compromessi con i suoi accusatori; e invece a questi dichiara:

«Cittadini ateniesi, vi sono grato e vi voglio bene; però ubbidirò più al dio che non a voi; e finché abbia fiato e sia in grado di farlo, io non smetterò di filosofare, di esortarvi e di farvi capire, sempre, chiunque di voi incontri, dicendogli quel tipo di cose che sono solito dire»[38].

Mentre conduce chi gli prospettava la fuga ad ammettere:

«Socrate - Diciamo che, in nessun modo, di proposito, si deve compiere ingiustizia, oppure in qualche modo sì e in qualche altro no? Ovvero, che mai il commettere ingiustizia non è buono né bello come convenimmo spesso anche in passato? Oppure tutti quei principî sui quali eravamo d’accordo, si sono in questi pochi giorni vanificati; e già da un gran pezzo, o Critone, e per giunta uomini della nostra età, dopo aver discusso fra noi con tanto impegno, non ci accorgemmo che non c’era differenza tra noi e i bambini? Oppure la cosa resta assolutamente nel modo che allora si diceva, sia che la gente approvi sia che no; sia che noi dobbiamo soffrire mali più gravi sia meno gravi di questi: in ogni modo il compiere ingiustizia è, per chi che la compie, cosa cattiva e turpe? Diciamo così o no?

Critone - Lo diciamo

Socrate - In nessun modo dunque si deve fare ingiustizia (...). Allora ti dico quello che a ciò fa seguito; anzi, ti faccio questa domanda: se uno ha riconosciuto quali cose siano giuste, deve poi farle o invece eluderle?

Critone - Deve farle» [39].

Dunque la grandezza di Socrate che ci spinge all’ammirazione è data dalla sua volontà di non tradire la propria missione di saggezza e giustizia.

Così Attilio Regolo avrebbe potuto sottrarsi all’orrendo supplizio che gli prepararono i suoi nemici o appoggiando in Senato le tesi favorevoli a Cartagine, oppure non facendo ritorno nella città della sua prigionia. Ed invece volle mantenersi fedele al giuramento che aveva fatto.

Così Massimiliano Kolbe avrebbe evitato il “bunker della fame” di Auschwitz se non si fosse offerto volontario per morire al posto di un suo compagno di prigionia.

Un discorso analogo si potrebbe fare per l’esperienza della gratificazione di coscienza: ci “sentiamo bene” perché abbiamo voluto agire in questo modo, anziché in quell’altro; perché la nostra volontà è stata più forte delle lusinghe e delle seduzioni di un comportamento scorretto.

Pertanto possiamo concludere che l’esperienza morale sorge soltanto in presenza di un comportamento volontario.

2.2.2    Esperienze che obbligano la volontà

Ma l’esperienza morale ha a che fare con un peculiare “movimento” della volontà. Cerchiamo di conoscerlo meglio attraverso dei raffronti con altri tipi di esperienza.

Vi sono esperienze umane che non muovono la volontà: ad esempio il conoscere alcune verità della matematica o delle scienze naturali può lasciare la volontà del tutto indifferente. Quando vieni a sapere che la radice quadrata di 196 è 14, ti senti spinto a volere o non volere qualcosa? E quando sai che l’acqua raggiunge la sua maggiore densità a 4° centigradi, la tua volontà come reagisce?  Probabilmente rimane inerte.

Prova a confrontare queste esperienze con altre esperienze umane: ad esempio l’esperienza estetica, che si realizza nella contemplazione del bello. Guardando un paesaggio o un’opera d’arte, ascoltando della musica, ecc., non sono coinvolti solo i sensi (la vista, l’udito…) o l’intelligenza (che comprende il senso, il “messaggio” di ciò che i sensi percepiscono): è coinvolta anche la volontà. Infatti, davanti al bello, nasce il desiderio di protrarre o ripetere l’esperienza.

Tuttavia, comprendiamo facilmente che questo coinvolgimento della volontà è molto diverso da quello che si realizza nell’esperienza morale. Nell’esperienza estetica la volontà è attratta dal piacere, mentre nell’esperienza morale è obbligata dal dovere.

Questo si fa chiaro se ci confrontiamo con le esperienze morali “negative” che abbiamo descritto sopra, particolarmente lo scandalo, il rimorso e l’obiezione di coscienza. Ci scandalizziamo di fronte a fatti che non dovrebbero accadere, che non possono essere permessi, che qualcuno (la società, le autorità ecc.) ha l’obbligo di impedire. Il rimorso ci assale quando comprendiamo che avevamo il dovere di fare o evitare qualcosa e abbiamo tradito il nostro compito, eravamo obbligati a qualcosa e la nostra volontà si è sottratta a tale obbligo. Davanti alla prospettiva di acconsentire ad un’ingiustizia sentiamo insorgere dentro di noi una voce che ci grida con fermezza: non devi! Sei obbligato a rifiutarti, costi quel che costi!

La drammaticità ed insieme il fascino dell’esperienza etica consiste proprio in questo appello del dovere alla volontà che chiamiamo “obbligazione morale”.

2.2.3    Dovere, libertà e responsabilità

Concentriamoci ora sul fenomeno dell’obbligazione morale. In apparenza l’obbligazione, il dovere sembrano realtà che escludono la libertà del soggetto: sono libero se non sono obbligato, mi sento libero quando non ho alcun dovere…

In realtà questo è un modo molto superficiale di guardare le cose.

Consideriamo la realtà in modo un po’ più attento. In quali circostanze percepiamo un dovere? Io non posso percepire il dovere di essere alto così, né di essere nato il tale giorno, né di aver avuto i tali genitori… Non posso percepire queste cose come “doveri” perché non sono libero nei loro confronti!

Comprendiamo facilmente che la percezione di un dovere, che ci obbliga a comportarci in un certo modo, sarebbe impossibile se non avvertissimo contemporaneamente che avremmo anche la capacità di comportarci in un altro modo.

Facciamo un esempio banale: trovo in una strada deserta un portafogli contenente una notevole somma di denaro e i documenti del proprietario; so bene che ho il dovere di restituirlo e questo dovere mi scuote, perché avrei il potere di tenere per me quei soldi. Devo, quindi, ma devo liberamente, tant’è che potrei non farlo.

Dunque, l’esperienza dell’obbligazione morale implica la libertà. Laddove manca la libertà non c’è un’esperienza morale.

Il dovere morale si configura, quindi, come un appello, una chiamata alla quale siamo liberamente tenuti a rispondere. Il che significa che l’esperienza morale è sempre esperienza di responsabilità.

La responsabilità è comprensibile soltanto di fronte ad un soggetto che chiama e “chiede conto” di un determinato comportamento. Per il credente, la responsabilità morale è caratterizzata anzitutto nei confronti di Dio, al quale egli sa di dover “rispondere” delle sue azioni. Ma ogni uomo sa anche che la propria vita si svolge in un contesto di relazione con altre persone, in una società; e pertanto egli è tenuto a rendere conto della propria condotta anche ad altri soggetti umani ed alla comunità in quanto tale. Ed, in ultima analisi, egli è responsabile di  fronte a se stesso, alla propria coscienza, in ordine alla “riuscita” della sua vita, al raggiungimento di quel fine che possiamo chiamare “vita buona”, sommamente desiderabile, o felicità

2.2.4    Dovere e felicità

Se è vero che la mia volontà è obbligata dal dovere, è anche vero che posso percepire un dovere solo se mi si presenta un bene. Intendo dire: una certa azione (es.: restituire il portafogli al legittimo proprietario) si presenta come buona e, perciò, la sento come doverosa.

Tutto sta a capire perché azioni di un certo tipo si presentano come buone (e i loro contrari come cattive). Dobbiamo prendere il discorso un po’ alla lontana, rientrando nel fondo della nostra coscienza, interrogandoci sui nostri desiderî, le nostre aspirazioni, le nostre speranze, i nostri progetti (2.2.4.1); vedremo che questi rimandano a valori e disvalori (2.2.4.2); chiariremo poi il concetto di bene in funzione dell’agire morale (2.2.4.3), ed infine vedremo come inquadrare il problema del male morale (2.2.4.4).

2.2.4.1                    Vivere in pienezza

Ci può accadere di trascinare i nostri giorni in una piatta e banale monotonia, senza nulla che ci coinvolga, senza trovare niente per cui “valga la pena” di impegnarci, semplicemente “lasciandoci vivere”[40]. Trascinando la vita in tal modo, è facile che la nostra volontà sia mossa, di volta in volta, dall’attrattiva del momento, dal piacere immediato.

Di fatto c’è chi si contenta solo di soddisfare il più immediatamente possibile ogni impulso. Eppure, alla lunga, questi modi di vivere risultano… insoddisfacenti! Si fa strada il pensiero del futuro, ci si chiede: quanto durerà questo mio modo di esistere? Cosa mi aspetta quando sarò vecchio? Perché vivere? Comincia la ricerca di uno scopo, si affacciano alla nostra mente tante speranze.

Dietro a tanti e diversi desideri, al fondo di essi, ce n’è uno che li motiva tutti, che dà senso alla nostra facoltà stessa di “aspirare”: il desiderio di essere felici. Ma il concetto di felicità è uno dei più vaghi ed indeterminati che si affacciano all’orizzonte della nostra mente. Cosa significa essere felici? Per qualcuno significa semplicemente “godere”, andare alla ricerca del “piacere” ovunque si trovi. In questa prospettiva la vita buona sarebbe semplicemente la vita “piacevole”, la “dolce vita”. S. Kierkegaard ha descritto una vita di questo genere attraverso l’immagine teatrale del Don Giovanni[41], il seduttore che riesce sempre nelle sue imprese libertine, e che tuttavia è costretto a compierne sempre di nuove, sempre di diverse, perché appena afferra l’oggetto del suo desiderio, esso gli muore tra le mani lasciandogli un vuoto ancora maggiore da riempire. In effetti, il piacere è quanto di più sfuggente ci sia e, quando è ricercato per se stesso, inevitabilmente scompare, lasciandoci un senso profondo di frustrazione che conduce al “male di vivere” e alla malattia mentale - come dimostra anche la psicologia clinica[42].

D’altra parte, come tutti sanno, la tecnologia ha oggi reso possibili le “esperienze virtuali”: il soggetto è collegato ad una certa macchina che è capace di stimolarlo in modo da trasmettergli tutte le sensazioni che egli desidera, in assenza della realtà che normalmente gliele procura. Immaginiamo che qualcuno ci proponga di trascorrere tutta la nostra esistenza in una “realtà virtuale” sommamente piacevole[43]: potremmo pensare che quella vita sarebbe felice? Non credo.

Il fatto è che l’oggetto del nostro desiderio non è il piacere, bensì ciò che procura piacere! Certamente vogliamo godere, ma di qualcosa. O meglio, vogliamo “qualcosa”, e - con esso - accogliamo il piacere che ciò comporta. Questo “qualcosa” che viene desiderato possiamo definirlo un “bene”.

Ciò che si spera è qualcosa di desiderabile. Ma anche qualcosa di scarsamente desiderabile in sé, può essere considerato attraente in vista di un fine ulteriore. Ad esempio un lungo viaggio in treno può essere noioso in sé, ma può risultare assai desiderabile se mi conduce a riabbracciare una persona a cui voglio bene.

Ora tu, caro lettore, stai leggendo queste pagine e forse provi fatica o noia... Cosa ti spinge a continuare? Forse il desiderio di apprendere (o il timore degli esami...). Ma perché apprendere (o perché sostenere esami)? Magari per svolgere un certo servizio. Sì, ma cosa ti spinge a desiderare di svolgere quel servizio? Vedi che torniamo alla questione centrale: «Perché vivere?». Posso affrontare un’esperienza anche spiacevole (cavarmi un dente) o faticosa (alzarmi presto al mattino per studiare) o noiosa (leggere certi libri...), a patto che rientrino nel fine globale del mio vivere.

In effetti c’è qualcosa che non posso fare a meno di desiderare e di sperare, qualcosa che rappresenta il senso di ogni mio desiderio: voglio essere felice, cioè voglio realizzare in pieno la mia esistenza, sviluppare la mia personalità. E tutto ciò che desidero, tutto ciò che spero, lo desidero e lo spero perché penso (so o immagino) che possa contribuire alla mia vera felicità[44].

2.2.4.2                    Valori e disvalori

Ed in effetti, a pensarci bene, le cose che conosciamo e le stesse nostre attività, ci si presentano come desiderabili e attraenti, cioè come valori, se in esse riscontriamo qualche pregio che attira i nostri desiderî: In altri termini: mi si presenta come valore qualcosa che mi appare come fine o scopo di qualche mia tendenza; un fine che è desiderabile (se non l’ho ancora) oppure soddisfacente (se lo sto possedendo) e che, in ogni caso, contribuisce alla mia felicità.

Al contrario, qualcosa si presenta come disvalore se costituisce un impedimento all’acquisizione di un valore, oppure se viene da me conosciuta come ripugnante a qualche mia tendenza o progetto. Sicché ogni disvalore è temuto (se prevedibile per il futuro) oppure subìto come menomazione o sofferenza (se è attualmente presente).

Possiamo quindi approdare ad alcune prime definizioni:

·     Chiunque agisce, agisce in vista di un fine: questo rappresenta l’intenzionalità dell’agire umano.

·     Si presenta come fine ciò che manifesta qualche pregio tale da attrarre i miei desideri (un valore).

·     Chiamiamo “bene” ciò che viene desiderato e si pone come il fine dell’agire; chiamiamo “male” il suo contrario.

Ma bisogna notare che qui, il concetto di “bene” viene usato in modo un po’ diverso da quanto non si faccia nel linguaggio comune. Ad esempio, il fine dell’agire di un assassino è l’uccisione di un’altra persona: tale fine, oggettivamente, è un male; eppure l’assassino non potrebbe desiderarlo se ciò non gli apparisse (soggettivamente, quindi) come un bene per sé (perché, ad esempio, spera di conseguirne qualche vantaggio). In effetti, tutto ciò che viene desiderato, tutto ciò che muove la volontà, deve necessariamente apparire, almeno sotto certi aspetti, come un bene.

2.2.4.3                    Il bene, l’utile e il dilettevole

Da ciò che abbiamo detto appare chiaramente che il concetto di “bene” non è univoco, ma analogo[45]. Infatti esso indica ciò che corrisponde al desiderio; ma qualcosa può essere desiderata a titolo assai differente. Per tornare all’esempio già fatto: posso desiderare di rintracciare il proprietario di un portafogli che ho trovato, posso desiderare di rendergli ciò che ha smarrito, posso desiderare la gratificazione della mia coscienza che consegue da quella restituzione.

Rintracciare il proprietario è un bene utile, ossia un mezzo attraverso cui posso realizzare un fine ulteriore: il fine di restituire il portafogli; dunque l’utile è detto “bene” in funzione di qualche altro bene.

Essere gratificato dalla mia coscienza è un bene dilettevole: la gratificazione scaturisce dalla presenza di un altro bene, ossia l’aver restituito il portafogli; dunque anche il dilettevole è detto “bene” in funzione di qualche altro bene.

Restituire il portafogli è un bene in sé, ossia è bene non come mezzo per ottenere qualcosa, né come conseguenza di qualcos’altro: è bene in sé stesso, è un’azione che corrisponde alla verità delle cose, alla dignità della persona umana; per questo è doveroso, ossia crea nella coscienza l’obbligo di tendere ad esso. Allorché si tratta di un bene vero e proprio, lo si designa come bene onesto.

Definiamo pertanto:

·     Bene utile un  mezzo che consente di raggiungere un fine ulteriore.

·     Bene dilettevole ciò che procura piacere.

·     Bene onesto ciò che è fine in se stesso.

È chiaro che tra questi tre analogati c’è un rapporto gerarchico di dipendenza:

·     Ci si diletta di qualcosa, quindi ciò che procura diletto è più importante (= è bene in senso più forte) del diletto stesso.

·     Qualcosa è utile per qualcos’altro, quindi ciò che è fine è più importante (= è bene in senso più forte) del mezzo per raggiungerlo.

Pertanto il “bene” in senso pieno è l’onesto: ciò che viene desiderato per se stesso e non in rapporto a qualcos’altro.

2.2.4.4                    E il male?

Ma se tutto ciò che vogliamo, lo vogliamo perché rappresenta un bene per noi, in cosa consiste il male?

Dobbiamo distinguere due livelli: il piano dell’essere (livello ontico) e quello dell’agire (livello morale).

Sul piano dell’essere, ogni cosa, in quanto è, è buona in se stessa: il suo essere, infatti, costituisce la sua perfezione. Indagare a fondo questo concetto è compito della metafisica; qui possiamo darne solo brevemente una qualche illustrazione.

Quali cose possono essere definite cattive? Forse un oggetto materiale (una pietra, un liquido, un gas) può essere cattivo? Certamente una pietra può essere - ad esempio - un cattivo conduttore di elettricità, ossia cattiva in quanto poco o nulla utile ad un determinato scopo; ma questo scopo (condurre bene l’elettricità) è una finalità nostra, non della pietra stessa! Un liquido può essere cattivo come bevanda, un gas può essere cattivo in quanto tossico per l’uomo, ma nessuno di questi oggetti materiali è cattivo in se stesso in quanto è.

Forse un essere vivente (un animale, una pianta, un virus) può essere cattivo? Le nostre favole sono piene di “lupi cattivi”, ad esempio… Ma cattivi perché? Perché dannosi per l’uomo o per le pecore, non certo perché in se stessi e per se stessi costituiscano un qualche male. Se le favole fossero scritte dai lupi, esse sarebbero piene di  cacciatori cattivi!

Certo, possiamo esprimere dei “giudizî di valore” (che però non sono giudizî morali) anche per gli oggetti: ad esempio possiamo dire che una sedia è una cattiva sedia se ha una gamba più corta delle altre; o che un occhio è cattivo se non vede bene. Ma comprendiamo in cosa consiste il “male” di questi oggetti: in una privazione di ordine, di forma, di misura, che li rende in qualche modo mancanti, deficienti[46]. A questo livello i moralisti parlano di male ontico, non nel senso che il male sia qualcosa, ma in quanto, al contrario, è privazione di alcuni elementi che contribuiscono a costituire la perfezione di un determinato essere. La malattia e la morte sono mali in questo senso.

Se ritorniamo al piano morale, dobbiamo ricordare che il bene e il male che consideriamo a questo livello, riguardano il comportamento volontario dell’uomo, oggetto di scelta. Abbiamo detto che tutto ciò che vogliamo e scegliamo, lo vogliamo perché ci appare come un bene, ossia come desiderabile. Il male, nel comportamento umano, quindi, non consiste nello scegliere un male, ma nello scegliere male. Abbiamo visto, infatti, che c’è una analogia ed una gerarchia tra i beni. Il male consiste nello scegliere un bene inferiore a scapito di un bene superiore, ossia nel privilegiare l’utile o il piacevole a danno dell’onesto, giacché il bene dell’uomo, la vita buona consiste propriamente nella vita onesta.

In questa prospettiva si capisce che può essere buona un’azione che comporta un male ontico (come per Socrate bere la cicuta), e che per qualificare buono o cattivo un comportamento umano è del tutto fuorviante limitarsi alla considerazione dei beni ontici coinvolti in esso.

 

Con tutto ciò abbiamo descritto gli elementi essenziali dell’esperienza morale, ma siamo ancora molto lontani dall’aver determinato in cosa consista la vita buona e onesta in cui si realizza la felicità vera e doverosa. Sarà questo il tema dei capitoli che seguono.


3.               Il comportamento volontario

La fenomenologia dell’esperienza morale esposta nel cap. 2. ci ha mostrato che essa sorge dinanzi al comportamento volontario. Dobbiamo ora riflettere articolatamente su questo tema. Lo faremo chiedendoci anzitutto a quali condizioni possiamo definire un comportamento come “volontario” e studieremo il ruolo dell’intelligenza e della volontà nel nostro comportamento (3.1); ma, giacché il nostro essere non si riduce a queste due componenti, per quanto importanti esse siano, dovremo esaminare anche il ruolo delle emozioni e dei sentimenti sul nostro agire (3.2). A quel punto della nostra indagine potremo affrontare il tema affascinante e complesso della libertà (3.3): una libertà che si costruisce, atto dopo atto, con il nostro stesso operare, il quale ha il potere di cambiare non soltanto il mondo intorno a noi, ma anche la nostra stessa personalità (3.4).

3.1          Condizioni del comportamento volontario

A quali condizioni il nostro agire può essere definito volontario? Sembrerebbe una domanda oziosa, a cui è fin troppo facile dare una risposta tautologica: è volontario quel comportamento che noi vogliamo porre in essere! Il che è vero… ma è poco. Cerchiamo di chiarire l’argomento anzitutto introducendo una precisazione terminologica classica: quella che distingue gli atti dell’uomo dagli atti umani (3.1.1); dopo di che proporremo un’analisi fenomenologica dell’agire volontario (3.1.2) che ci preparerà ad esaminare il ruolo rispettivo che l’intelligenza (3.1.3) e la volontà (3.1.4) giocano in esso.

3.1.1    Atti dell’uomo e atti umani

È facile rendersi conto che non tutto quello che facciamo dipende dalla nostra volontà. Pensiamo, ad esempio, a tutte le operazioni relative alla vita vegetativa (come la digestione, la respirazione, il sonno e il sogno, ecc.), i riflessi neuromotorî, i tic (che sono detti appunto “movimenti incontrollati”) e così via: sono realmente io il soggetto di questi processi (sono io a digerire, sono io a sognare, ecc.) e, tuttavia, tali processi si compiono in me senza che la mia volontà vi cooperi. Sullo stesso piano, anche se con sfumature diverse, abbiamo anche gli atti compiuti sotto costrizione psicologica (sonnambulismo, allucinazione, raptus, ipnosi…) o farmacologica (droga, alcol): una persona che “non è in sé”, può porre determinati atti, ma - proprio perché “non è in sé” - li pone senza avere un reale potere sugli atti stessi.

Abbiamo visto nel capitolo precedente che una delle caratteristiche dell’esperienza morale è la possibilità di giudicare un certo comportamento come degno o non degno della persona umana. Bene, poniamo il caso di un sonnambulo che, nel sonno, si getta dal balcone e muore: giudicheremo che ha commesso suicidio? Evidentemente no! Egli ha realmente ucciso se stesso, ma non lo ha fatto volontariamente!

Con questo giungiamo ad una prima chiarificazione terminologica e concettuale:

·     Soltanto gli atti volontari sono atti morali (ossia moralmente qualificabili come buoni o cattivi).

Propriamente parlando gli atti non volontari, pur essendo compiuti da un essere umano, non sono qualificabili neppure come umani. Classicamente si distinguono due espressioni:

·     Atto dell’uomo, che indica ogni atto compiuto da un soggetto umano (e quindi anche l’agire non volontario).

·     Atto umano, che indica ogni atto in cui l’uomo esprime se stesso in quanto uomo, ossia ogni atto che in se stesso porta l’impronta specifica dell’umanità.

Ma qual è la caratteristica specifica dell’umanità? Che cosa rende l’uomo diverso da tutti gli altri esseri? L’uomo è un animale razionale: “animale” è il genere prossimo a cui l’uomo appartiene (indica che l’uomo non è minerale o vegetale o puro spirito); “razionale” è la differenza specifica che distingue la specie umana da tutte le altre specie animali.

Ora, dicendo che l’uomo è “razionale”, intendiamo fondamentalmente affermare che egli è dotato di quelle caratteristiche che, nel linguaggio comune, si denominano intelligenza e volontà: l’uomo è capace di intendere e di volere. Pertanto possiamo concludere che:

·     quando un’azione è compiuta con  il concorso dell’intelligenza e della volontà, essa è un atto umano, ossia un atto morale.

Abbiamo detto nel capitolo precedente (2.2.4) che in qualunque azione noi miriamo a qualcosa e che il concetto di bene nasce proprio qui: “bene” è ciò a cui si tende, a cui si aspira. Questo aspirare o volere è definito intenzionalità (da in-tendere = tendere-a).

“Bene” è qualcosa che appare “degno di essere desiderato, degno oggetto di aspirazione”, in quanto è giudicato tale dal soggetto agente. Ora, è evidente che questo giudizio è corretto quando è ragionevole.

Abbiamo così i due elementi della questione: da un lato la facoltà umana di aspirare (volontà), dall’altro quella di giudicare (intelligenza). È necessario dunque mettere in relazione queste due facoltà.

3.1.2    Fenomenologia dell’agire volontario

Se rifletto sul mio agire, mi rendo conto di alcune caratteristiche costanti[47]:

1. Prima di agire mi rappresento più o meno chiaramente quel che mi accingo a fare: ad esempio, penso di conseguire una laurea in filosofia: questo fine appare alla mia intelligenza come un bene.

2. La mia volontà aderisce a questo bene: conseguire una laurea in filosofia mi sembra desiderabile. Ma ancora non decido nulla a riguardo.

3. Passo quindi a chiedermi se effettivamente è possibile che io consegua una tale laurea; ci ragiono su e mi chiedo: ne sono all’altezza? ne avrò i  mezzi? ecc. Se giudico positivamente questa possibilità, procedo.

4. Decido di laurearmi in filosofia: sono seriamente intenzionato a farlo.

5. Penso a tutti passi che devo fare per laurearmi (iscrizione,  frequenza dei corsi, studio personale, esami, tesi, ecc.), ossia ricerco i mezzi necessari per il fine che mi propongo: le azioni che mi permetteranno di conseguire la laurea.

6. Davanti alle cose da fare potrei scoraggiarmi... Invece esprimo il mio consenso: mi sottoporrò a questa fatica!

7. Dunque è arrivato il momento di mettersi all’opera: da dove comincio? Bisogna ragionare. Tra le diverse possibilità che mi si offrono giudico che una sia migliore.

8. Scelgo pertanto di mettere in pratica il giudizio precedente.

9. Davanti ai mezzi scelti (in questi giorni seguire le tali lezioni, studiare dalla tale ora alla talaltra, ecc.) la ragione mi comanda di usarli.

10. Io uso i mezzi necessari per conseguire il mio fine.

11. In fine conseguo la laurea e mi godo i risultati delle mie fatiche.

Nella prima parte del percorso (1-4) gli atti riguardano il fine, nella parte intermedia (5-10) riguardano i mezzi, mentre l’atto conclusivo (11) è il conseguimento del fine, ossia ciò che è voluto sin dall’inizio e che mette in moto l’intero processo.

·     Ciò che è primo nell’intenzione è ultimo nell’esecuzione.

Va notato poi che negli atti elencati c’è un alternarsi di intelligenza e volontà. Questi punti sono rappresentati nel seguente schema[48]:

INTELLIGENZA

VOLONTÀ

1. Semplice pensiero del bene

2. Semplice volizione inefficace del bene

3. Giudizio sulla possibilità del bene

4. Intenzione efficace

5. Deliberazione 

6. Consenso

7. Giudizio pratico sul mezzo più opportuno

8. Scelta di tale mezzo

9. Comando della ragione

10. Uso dei mezzi

 

11. Godimento del bene

 

Approfondiamo ora distintamente lo specifico ruolo dell’intelligenza e della volontà nell’atto umano.

3.1.3    L’intelligenza nell’atto umano

L’intelligenza contribuisce alla realizzazione dell’atto umano in quanto fa conoscere il fine dell’agire e i mezzi per conseguirlo. Un principio dell’etica classica recita:

·     Nulla può essere voluto se prima non è conosciuto (nil volitum nisi praecognitum)

È un principio autoevidente, che non ha bisogno di dimostrazione; anzi, di cui è impossibile una dimostrazione in senso stretto. È possibile tuttavia illustrarne l’evidenza. Poniamo il caso che ti trovi in un ristorante straniero e ti portano un menu redatto in una lingua che non comprendi; il cameriere ti chiede di scegliere tra i piatti indicati; ebbene, puoi fare una scelta? Evidentemente no, perché non conosci gli oggetti tra cui sei chiamato a scegliere. Potrai “volere” questo piatto piuttosto che quest’altro, solo quando avrai ricevuto delle spiegazioni, magari sommarie, sulla loro composizione. È quindi chiaro che la volontà vuole qualcosa, in risposta all’intelligenza che conosce questo qualcosa e lo riconosce come un bene.

Per chiarire la rilevanza morale di questo principio facciamo qualche esempio. Può accadere che una donna subisca una sterilizzazione in diverse condizioni:

a) la donna si sottopone all’intervento sapendo in cosa consiste l’operazione e sapendo anche che tale azione è gravemente disordinata in sé: eppure essa giudica che, nella sua condizione, sia conveniente essere resa sterile;

b) la donna si sottopone all’intervento conoscendone il fine, ma senza essere consapevole del suo disordine morale;

c) la donna si sottopone all’intervento senza conoscerne il fine, semplicemente fidandosi dei sanitari che dicono di operare per il suo bene;

d) la donna è sottoposta all’intervento a sua insaputa dopo essere stata narcotizzata.

Nei casi ‘a’ e ‘b’ il soggetto pone un atto umano perché sa quel che fa, ossia conosce l’atto nella sua consistenza fisica: essa agisce scientemente. Anche se è chiaro che la responsabilità morale è piena solo nel caso ‘a’, giacché il soggetto conosce l’atto anche nella sua qualità morale, cosa che in ‘b’ manca.

Nei casi ‘c’ e ‘d’ il soggetto non compie un atto umano ed, evidentemente, non può essere considerato moralmente responsabile della propria sterilizzazione. Nel caso ‘c’ la condizione della donna è detta ignoranza: essa non sa in cosa consista l’intervento a cui viene sottoposta; nel caso ‘d’ è detta inavvertenza: essa non avverte di essere sterilizzata.

Diamo pertanto le seguenti definizioni:

·     Si definisce scienza la conoscenza dell’atto nella sua consistenza fisica e nel suo fine, come anche la conoscenza della qualità morale di quell’atto, ossia della sua onestà o disonestà. Alla scienza si contrappone l’ignoranza o il dubbio.

·     Si definisce avvertenza quella consapevolezza di stare compiendo un determinato atto, consapevolezza che compare e svanisce assieme all’atto stesso. All’avvertenza si contrappone l’inavvertenza.

·     Perché vi sia un atto umano è necessario che siano presenti tanto la scienza quanto l’avvertenza.

3.1.4    La volontà nell’atto umano

Abbiamo detto che la volontà agisce in risposta al bene conosciuto; tuttavia dobbiamo sottolineare che essa risponde con modalità e caratteristiche che le sono proprie e che non possono confondersi con gli atti dell’intelligenza. È infatti assai facile rendersi conto che una cosa è vedere e conoscere il bene, altra cosa è volere quel bene e tendere ad esso con la propria azione. È noto il verso di Ovidio: «Vedo le cose migliori e le approvo, ma poi seguo quelle peggiori» (Video meliora proboque, deteriora sequor)[49]. So, ad esempio, che è bene studiare… ma ciò non significa necessariamente che io voglia studiare!

Abbiamo detto che si può definire atto morale o atto umano solo il comportamento volontario. Dobbiamo ora puntualizzare questo concetto e lo faremo distinguendo anzitutto il volontario dal suo contrario (l’involontario), e poi distinguendo diverse specie di volontario (semplice o relativo, voluto o tollerato).

3.1.4.1                    Volontario ed involontario

La volontà fa sì che l’azione che io pongo sia “mia”, che il mio comportamento scaturisca da me stesso, dal mio interno; fa sì che io sia “autore e protagonista” del mio agire, e non oggetto passivo dell’azione altrui.

Per tornare all’esempio precedente, poniamo il caso che la donna sappia bene che tipo di intervento le stiano praticando, ma sia costretta a viva forza a subirlo: chi potrebbe dire che commette un atto umano? chi potrebbe considerarla responsabile della sterilizzazione? Non è infatti essa ad agire: essa subisce l’azione e la subisce contro la sua volontà. Viceversa, parliamo di sterilizzazione volontaria (atto umano, quindi), solo quando è la persona stessa a chiedere di essere sottoposta a tale intervento, perché così essa vuole.

Ma potrebbe verificarsi anche un caso diverso: quello di una donna che, in seguito ad un intervento, viene resa sterile in modo non volontario; essa, tuttavia, una volta resa cosciente del suo stato, lo approva con la propria volontà. In questo caso, la sterilizzazione, pur non essendo volontaria, è tuttavia voluta. Come potrebbe darsi il caso che il marito di quella donna desideri che essa si sottoponga ad un intervento di sterilizzazione, ma non faccia nulla per indurre la moglie a subirlo: la sterilizzazione della moglie è voluta dal marito ma non è certamente volontaria da parte di costui, perché non è lui ad agire.

Diamo pertanto le seguenti definizioni[50]:

·     Viene detto volontario un atto causato dalla volontà del soggetto.

·     Viene detto voluto ciò che è approvato dalla volontà (anche quando non è causato da essa).

·     Viene detto involontario un atto compiuto contro la volontà del soggetto.

·     Viene detto non-volontario ciò che si compie senza l’approvazione della volontà del soggetto.

3.1.4.2                    Volontario semplice e volontario relativo

Siamo pertanto approdati ad una definizione di “agire volontario”. Tuttavia dobbiamo notare che, nell’ambito di questa categoria di atti, sono presenti importanti differenze.

Poniamo due casi:

a) un uomo incontra un bambino, figlio del suo peggiore nemico e, con un pretesto qualsiasi, lo prende a schiaffi;

b) un padre vede suo figlio commettere qualcosa di male, per la quale il bambino era stato rimproverato più volte, e per correggerlo si sente costretto a dargli uno schiaffo, seppure a malincuore.

Si tratta, evidentemente, di due comportamenti volontari, ma c’è una sostanziale differenza.

Nel primo caso, la  volontà dell’uomo tende direttamente a percuotere il bambino: egli desidera semplicemente di prendere a schiaffi colui che, nella sua stupida ira, percepisce come un nemico. Nel secondo caso, invece, il padre non vorrebbe percuotere il proprio figlio, giacché questo determina sofferenza sia nel bambino sia nel genitore; pur tuttavia, data la circostanza sfavorevole, vuole percuoterlo perché altrimenti il bambino, non corretto, andrebbe incontro a sofferenze più grandi.

Il primo caso è dunque semplicemente volontario: è un’azione a cui la volontà del soggetto aderisce in pieno. Il secondo caso è limitatamente volontario: è un’azione a cui la volontà del soggetto aderisce solo in relazione a una determinata circostanza non voluta.

Definiamo quindi:

·     Volontario semplice: un atto che costituisce in se stesso l’oggetto di tendenza della volontà del soggetto.

·     Volontario relativo o limitato: un atto a cui la volontà del soggetto tende suo malgrado, per far fronte ad una determinata circostanza.

3.1.4.3                    Volontario voluto e volontario tollerato

Esaminiamo ancora due casi, in apparenza molto simili ma in sostanza assai diversi:

a) una donna con seri problemi di salute rimane incinta e si sottopone ad un intervento abortivo per non peggiorare la propria condizione (è quello che, con espressione assai scorretta, viene detto “aborto terapeutico”);

b) una donna incinta scopre di avere un cancro all’utero e si sottopone ad asportazione dell’utero stesso, con conseguente morte del feto.

I casi sembrano simili, perché gli effetti sono analoghi: la salute della madre e la morte del bambino; in realtà, invece, sono assai diversi per quanto riguarda un punto centrale. Nel primo caso la volontà della donna tende direttamente all’uccisione del feto. Si potrebbe dire che si tratta di un “volontario relativo”, perché l’aborto è voluto come mezzo per ottenere un fine diverso, ossia la tutela della salute[51]; tuttavia - anzi, proprio per questo -  l’aborto è voluto e lo si procura in modo diretto, intervenendo sul feto (che è sano) e non sugli organi malati della madre.

Nel secondo caso, invece, la volontà della donna tende direttamente alla rimozione del cancro, e l’asportazione dell’utero non ha altro scopo che questo: è un organo malato, che non può essere curato e deve essere tolto. La morte del feto è prevista in partenza, è causata da un’azione volontaria (l’asportazione dell’utero), e tuttavia non viene perseguita dalla volontà, né come mezzo né tanto meno come fine: ci si limita a tollerarla come “effetto collaterale”. Nel linguaggio dei moralisti, questo “effetto collaterale” è stato denominato “volontario indiretto”. Tale designazione lascia un po’ perplessi, giacché la volontà di chi compie l’asportazione di un utero canceroso non intende uccidere il feto! Per questo propongo di qualificare questo effetto “volontario-non-voluto” o “tollerato”.

Possiamo pertanto dare le seguenti definizioni:

·     Nel volontario diretto l’effetto costituisce il vero scopo della volontà, o come fine o come mezzo: esso è voluto.

·     Nel volontario indiretto la volontà tende direttamente ad un altro fine e si limita a tollerare gli effetti collaterali dell’azione.

 

Abbiamo così messo a punto il concetto di “volontario”, con le principali sfumature di significato che esso assume. Questa trattazione ci ha portato ad alcune distinzioni che forse possono risultare un po’ troppo “tecniche”; tuttavia, caro lettore, avrai modo di trovarle utili in seguito, quando dovrai esaminare le problematiche dell’etica speciale.

Per ora mi accontento di averti dato una panoramica sufficiente sul ruolo dell’intelligenza e della volontà nel comportamento umano.

3.2          Emozioni e sentimenti nell’agire umano

Intelligenza e volontà manifestano la natura razionale, specifica dell’uomo. Tuttavia non si può dimenticare che l’uomo… non è un angelo! Intendo dire: noi non siamo riducibili alla nostra razionalità; la nostra intelligenza e la nostra volontà sono incarnate in un corpo dotato di strutture ed operazioni che, in varia misura, entrano in sinergia con le facoltà di ordine spirituale-razionale: «L’uomo - dice il grande pensatore francese B. Pascal (1623-1662) - non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo faccia la bestia»[52]

Pertanto, quando ci poniamo di fronte al bene da fare o al male da evitare, non entrano in gioco soltanto l’intelligenza e la volontà, ma anche la nostra sensibilità. Per una comprensione dell’atto umano dobbiamo dunque tenere nel debito conto l’interazione tra la vita sensibile, corporea, e la vita dello spirito. Tale interazione viene chiamata psichismo e le sue componenti naturali di maggior rilievo per la comprensione dell’atto umano sono i sentimenti o emozioni (nel linguaggio classico essi sono chiamati moti della sensibilità o passioni).

Pensiamo ad una decisione come quella presa da Gianna Beretta Molla: una mamma che, malata di miofibroma uterino, rinuncia a curarsi per non danneggiare la bimba che porta in grembo, e muore poco tempo dopo aver partorito[53]. Si può umanamente compiere una scelta del genere unicamente sulla base di considerazioni di ordine razionale? Io penso che sia pressoché impossibile. Entra in gioco una componente emotiva, sensibile, direi quasi “viscerale” nel senso nobile del termine, di amore verso il bimbo portato in grembo, di desiderio che egli sia. Anche se, certamente, non è solo questa componente a determinare il comportamento.

Si possono fare anche degli esempi più comuni: la scelta di sposare questa persona, può essere dettata esclusivamente da considerazioni razionali? Evidentemente la componente sentimentale gioca un ruolo importante! Così l’atto di difendere la propria vita o la vita delle persone care, è motivato solo dal ragionamento o non anche dalla paura, che è - appunto - un’emozione?

Sentimenti ed emozioni fanno da tramite ed assicurano il legame tra la vita sensibile e la vita dello spirito. Essi influenzano in varia misura l’azione: possono disporre e contribuire a determinati comportamenti, come pure possono trattenere ed ostacolarne altri.

Emozioni, sentimenti e moti della sensibilità sono molteplici e di varia natura. Tuttavia essi possono essere ricondotti a due radici comuni: l’amore e l’odio.

L’amore si rivolge verso ciò che ci si presenta come “bene”: se il bene è assente si sviluppa il desiderio; se è presente si manifesta la gioia. L’odio si rivolge verso ciò che ci si presenta come un “male”: se il male è incombente nasce il timore, se è presente si manifestano la tristezza o la collera. Queste “passioni” fondamentali si articolano poi in una gamma assai varia di sfumature.

Ordinariamente emozioni e sentimenti sono accompagnati da alterazioni somatiche riguardanti la circolazione del sangue, i riflessi neuromotorî, la secrezione ormonale (le famose “scariche di adrenalina”), ecc. Sono risposte “spontanee” di fronte a determinati oggetti, quindi in sé stesse non sono volontarie. Possono tuttavia diventare volontarie o perché sono comandate dalla volontà, o perché la volontà non vi resiste.

Facciamo alcuni esempi di passioni comandate dalla volontà. Chi fa uso di materiale pornografico, che cosa vuole se non procurarsi un’eccitazione sessuale? Certamente l’eccitazione, in sé, è un moto della sensibilità involontario; tuttavia, nella misura in cui viene ricercata, diventa volontaria. Ancora: quando si adoperano luci “psichedeliche”, musica oltre un certo numero di decibel, con ritmi frenetici e danze (e, spesso, con uso di alcol o altre “sostanze”), che cosa si cerca se non l’emozione? Gli esempi si potrebbero moltiplicare a piacere.

Ma facciamo anche l’esempio di passioni a cui la volontà non vuole resistere: quando avverto che in me sta montando la collera ed io la lascio crescere, senza fermarmi a ragionare, e la lascio “sfogare” senza reprimerla… la collera stessa, in origine, non era volontaria, ma il mio comportamento collerico risulta volontario perché io non mi sono opposto ad essa.

In che modo le emozioni, i sentimenti ed i moti della sensibilità influenzano il comportamento volontario? È chiaro che, quando questi stati d’animo insorgono senza la volontà o addirittura contro di essa, possono sminuire la volontarietà dell’atto, fino a toglierla del tutto. Pensiamo ad un soldato che ha deciso di obbedire agli ordini e di difendere la postazione; ma, quando si vede assalito dai nemici, viene colto da una crisi di panico e, in preda al terrore, fugge: la sua fuga è “volontaria”? In un certo senso sì, perché l’azione dipende da lui; ma in un altro senso no, perché il soggetto terrorizzato non è pienamente “padrone” delle sue azioni: si dice che un comportamento del genere è semi-volontario. Poniamo poi il caso che questo soldato perda i sensi per il terrore. Un tale svenimento e l’omissione del dovere che ne consegue sono, evidentemente, involontari!

Ben diverso è il caso di passioni che il soggetto vuole procurarsi, o a cui decide di non opporsi. Chi decide di far uso di sostanze psicotrope per provocarsi emozioni particolari e poi, sull’onda di queste emozioni, compie atti vandalici, è doppiamente responsabile di quegli atti: in quanto li ha compiuti ed in quanto si è volontariamente messo in condizione di agire in modo inconsulto. Pertanto:

·     Quando le passioni insorgono senza la volontà o contro di essa, possono rendere l’atto semi-volontario o addirittura involontario.

·     Quando le passioni sono comandate dalla volontà, rendono l’atto volontario più pieno, ossia ne aumentano la volontarietà.

La maturità umana richiede il discernimento ed il controllo delle proprie emozioni e dei propri sentimenti, ma non certo la loro repressione indiscriminata. Non si comporta in maniera degna della propria umanità un individuo che si lascia guidare ciecamente dalle passioni, ma non è neanche umano un comportamento di fredda razionalità, privo di sentimenti. È necessario selezionare e distinguere emozioni e sentimenti che spingono ad un comportamento degno dell’uomo da emozioni e sentimenti contrari, per promuovere ed orientare i primi al vero bene della persona.

3.3          La libertà nell’agire umano

Dopo aver parlato delle passioni è possibile porsi il problema della libertà. Anzitutto va detto che una caratteristica essenziale del volere umano è che esso può divenire oggetto di riflessione. È questo ciò che distingue il comportamento umano da quello degli animali irragionevoli: questi non possono riflettere sul proprio tendere. Un lupo affamato trova del cibo e immediatamente tende a mangiarlo, con un atto semplice ed irriflesso al quale non ha il potere di opporsi. Al contrario, l’uomo ha il potere di “riflettere”, ossia di tornare, con un atto della volontà, sugli atti precedentemente posti dalla volontà stessa.

Facciamo un esempio: dapprima, in base ad un certo criterio faccio un atto di volontà:

1) Vedo un dolce che mi piace e lo voglio mangiare.

2) Sento l’odore di una medicina amara e non la voglio prendere.

In un secondo momento rifletto e, in base ad altri criterî, posso volere il mio atto di volontà precedente, oppure non volerlo più, p. es.:

1 bis) So che il dolce mi fa male, per cui respingo il mio volerlo mangiare: non voglio volerlo!

2 bis) So che la medicina mi fa bene, per cui la voglio prendere non ostante sia amara: non voglio il mio non volerla, ossia voglio volerla!

Questa capacità di riflessione è il fondamento della libertà umana. Tuttavia, tale libertà si esercita in forme e in gradi differenti. Facciamo anche qui qualche esempio[54]: rompo una penna per scrivere in tre circostanze diverse:

a) Calpesto inavvertitamente la penna e la spezzo.

b) Ieri ho costatato che la penna era “esaurita”, pertanto ho deciso di cestinarla e così faccio oggi.

c) Volevo scrivere in fretta, la penna non ha funzionato bene ed io, in uno scatto d’ira, l’ho spezzata.

Dovrebbe essere ormai chiaro che il caso ‘a’ non rappresenta un atto umano, giacché la rottura della penna non procede né dalla mia intelligenza né dalla mia volontà.

Mentre il caso ‘b’ rappresenta un atto umano, perché la mia intelligenza mi ha fatto giudicare che era meglio cestinare la penna, così ho deciso con la mia volontà e l’ho fatto; questa mia decisone è stata dunque pienamente libera; perciò lo è stato anche il mio gesto di buttare la penna.

Il caso ‘c’ rappresenta anch’esso un atto umano, giacché la rottura della penna è determinata in causa dalla mia volontà (è un atto volontario) e la mia intelligenza era consapevole che, compiendo quel certo gesto con le mani, la penna si sarebbe spezzata. È tuttavia un atto libero? Sì, ma solo in parte. È un atto libero perché è scaturito dalla mia interiorità, senza costrizione altrui. Tuttavia la rabbia (una passione) ha, per così dire, accecato la mia intelligenza e trascinato la mia volontà; pertanto si tratta di un atto assai meno libero di altri, che invece siano pienamente dipendenti dai rispettivi atti di giudicare e di volere.

Può accadere anche che io “perda la pazienza”, improvvisamente, ma riesca poi a frenare questa mia reazione: appena rifletto, in un secondo momento, su quella tale situazione e, con uno sforzo di volontà, me ne rendo padrone. In tal caso quel primo movimento improvviso è sfuggito al mio pensare e volere: non è quindi un atto umano, in quanto non è stato da me voluto e pertanto non ne sono responsabile. La morale classica parla a questo proposito di moti primi primi che, in sé stessi, non rappresentano un comportamento moralmente qualificabile.

Comunque può darsi che, in altre precedenti occasioni, io mi sia lasciato trascinare dalla tendenza a “perdere la pazienza” e così abbia permesso che si stabilisse in me una incontrastata tendenza all’ira, e di tali atti precedenti io sono, sì, responsabile; ciò mi rende responsabile in causa (ossia responsabile perché ho lasciato che si producesse la causa, il motivo) anche di questa arrabbiatura qui.

Ricapitolando, possiamo dire:

·     L’atto umano è sempre libero, e tuttavia può essere più o meno libero.

·     Il grado di libertà è direttamente proporzionale alla lucidità dell’intelligenza ed al dominio della volontà.

·     La libertà implica responsabilità: il soggetto può essere chiamato a “rispondere” dei suoi atti.

·     La responsabilità di una determinata azione può essere in atto o in causa.

3.4          L’agire umano come attività immanente

Riflettendo sul nostro comportamento, possiamo cominciare a capire che l’atto umano non termina all’oggetto dell’azione, ma “rimbalza” sul soggetto stesso. «L’“agire morale” non è il “comportarsi verso gli oggetti”, “realizzare qualcosa fuori di noi”, “produrre”, ma “realizzazione di ciò che possiamo essere, realizzazione del proprio essere umano”. L’agire bene fa dell’agente un uomo buono (...). Con l’agire morale trasformiamo innanzitutto e soprattutto  quella parte del mondo che siamo noi stessi»[55].

Cercheremo di mettere a fuoco anzitutto il fenomeno di queste modificazioni (3.4.1) e poi ne espliciteremo la portata chiarendo il concetto di habitus o attitudine stabile, in se stesso ed in ordine all’agire morale (3.4.2).

3.4.1    Gli atti umani modificano la personalità del soggetto agente

Ogni atto umano - e perfino qualche atto dell’uomo non pienamente “umano” - lascia in noi una traccia[56] e modifica, in certa misura, le nostre tendenze, la nostra volontà, il nostro pensiero e finanche il nostro organismo corporeo.

Se, ad esempio, mangio o bevo qualcosa che mi piace, sono poi incline a mangiarne o berne ancora. Se compio una serie di gesti nelle medesime circostanze (ad esempio, appena sveglio mi preparo una tazza di caffè) contraggo l’abitudine di quei gesti, al punto che mi è difficile non ripeterli. Si pensi a quel che accade a molti con la televisione: appena entrano in quella stanza accendono il video, senza neppure pensarci, per abitudine, appunto; tanto che fanno fatica a riconoscere che, in fondo, sono proprio loro che vogliono accenderla. Anche quando immaginiamo qualcosa o qualcuno che ci attrae e ci soffermiamo col pensiero sull’oggetto e lo desideriamo, accade che quel desiderio e l’immagine che lo provoca si ripresentino poi di nuovo, facilmente, e influiscano sulle nostre decisioni successive.

Perché e come accade tutto ciò? Ogni mio atto di pensare, di sentire (vedere, udire, toccare...) e di immaginare esprime un certo significato (l’idea pensata, l’immagine, ecc.), e questo significato è in me, nel mio pensare o immaginare; sicché può ripresentarsi alla mia memoria ed essere ricordato. E se, con un atto umano, voglio soffermarmi su quella idea o su quella immagine, allora le mie tendenze verso l’oggetto rappresentato da quel significato risultano rafforzate.

Pertanto è evidente che i miei atti hanno un “riflusso” sulle facoltà che pongono quegli atti: hanno una sorta di retroazione, di feed-back che modella il mio stesso io e fa acquisire alle mie facoltà l’orientamento stabile ad agire nell’uno o nell’altro modo.

3.4.2    Gli habitus

Queste modificazioni sono non solo inevitabili: esse sono anche indispensabili per condurre l’esistenza. È evidente dall’esperienza di chiunque che l’attività umana non sarebbe possibile senza un adeguato allenamento delle diverse facoltà.

Il termine “allenamento” ci fa pensare immediatamente allo sport. Tutti sappiamo che quando un individuo comincia a compiere un’attività atletica regolare, la sua forza muscolare aumenta e lo mette in condizione di compiere gesti che prima gli erano preclusi.

Si può tuttavia parlare anche di allenamento dei sensi: se un musicologo provetto ed un profano ascoltano un’orchestra suonare, entrambi ricevono gli stessi suoni, ma il primo percepirà sfumature timbriche, abbellimenti o sbavature che all’altro, inevitabilmente, sfuggiranno. Tutta questione di “allenamento”! Lo stesso può dirsi di un pittore riguardo ai colori, ecc.

Ma dobbiamo parlare di “allenamento” anche per quanto riguarda le nostre capacità intellettive. Pensiamo a ciò che accade quando studiamo una grammatica straniera o l’aritmetica: dapprima impariamo delle regole e poi cerchiamo di applicarle, ma notiamo che per eseguire i primi esercizi abbiamo bisogno di molto tempo e commettiamo spesso degli errori; poi, man mano che aumenta il ritmo delle esercitazioni, procediamo più speditamente e con maggiore facilità e precisione.

Lo stesso si può dire della nostra volontà. Se non siamo abituati a star seduti in camera a studiare, i primi giorni del nostro impegno ci sembreranno lunghissimi e insopportabili: avremo bisogno di fare duri e ripetuti sforzi di volontà per resistervi e non andare girovagando. Ma con la perseveranza riusciremo ad acquisire la capacità di dominarci e, dopo qualche tempo, l’autocontrollo ci risulterà assai facile e persino piacevole.

A che cosa è dovuta questa maggiore facilità? Comunemente si dice che dipende dall’abitudine. Ma in che cosa consiste quest’abitudine? «Sul piano esperienziale, dal punto di vista fenomenologico (descrittivo), possiamo solo dire che esiste un qualche cosa che è oltre i singoli atti ripetuti, ma che risulta da essi e ne prepara altri successivi simili ed anche più facili da eseguire rispetto ai precedenti. Chiamare questo “qualche cosa” abitudine è troppo poco. Nella nostra vita, infatti, costatiamo una vasta tipologia di ciò che usualmente denominiamo “abitudini”. Sperimentiamo sovente una certa conflittualità tra abitudine e libertà: pensiamo ad espressioni come: “Che vuoi farci? Oramai ho preso l’abitudine del turpiloquio e non riesco a controllarmi, anche se lo volessi”. Inoltre giudichiamo sul piano dell’utilità ed anche sul piano della moralità le varie abitudini. Così vi sono abitudini utili e dannose, buone e cattive»[57].

La psicologia contemporanea, a questo proposito, preferisce parlare di “attitudine” anziché “abitudine” per designare ciò di cui stiamo parlando: la scelta è senz’altro felice. Si potrebbe usare anche l’espressione “stabile disposizione” del soggetto (o meglio: delle facoltà del soggetto: sensi, intelligenza, volontà…) ad effettuare l’una o l’altra operazione. In termini classici questa attitudine o stabile disposizione è denominata habitus.

·     L’habitus è una attitudine o disposizione stabile delle facoltà del soggetto verso un determinato tipo di atti.

·     Gli habitus si acquisiscono mediante la ripetizione di atti di un determinato tipo.

Stando così le cose, è evidente che la scienza, l’arte, l’abilità tecnica ecc. sono altrettanti habitus.  Il linguaggio latino della scolastica designa questi habitus col nome di virtutes (virtù), e nel nostro parlare comune abbiamo conservato una traccia di ciò, nel dire, ad esempio, che Paganini era un violinista “virtuoso”, ossia molto abile. Tuttavia nel linguaggio moderno usiamo il termine virtù per riferirci unicamente agli habitus morali buoni.

È infatti chiaro, che la scienza, l’arte, l’abilità tecnica ecc. non sono virtù morali, giacché si tratta di habitus che perfezionano determinate facoltà dell’uomo, finalizzandole ad un bene limitato e particolare (il giusto giudizio in una branca scientifica, l’espressione artistica, ecc.): ossia rendono il soggetto un buon scienziato o artista; ma un buon scienziato o artista non è necessariamente un uomo buono!

Ma è anche evidente che non tutti gli habitus “perfezionano” la nostra personalità: se un determinato comportamento “danneggia” la nostra personalità e noi ci procuriamo una stabile disposizione a comportarci in quel modo, è evidente che abbiamo acquisito un habitus cattivo, un vizio.

 

In sintesi: col nostro agire costruiamo la nostra personalità, acquisiamo degli habitus che ci “stabilizzano” in un determinato modo di comportarci. È chiaro che se ci “abituiamo” ad agire in modo libero, rispondendo con la volontà al bene conosciuto, diventiamo sempre più liberi: sempre più capaci di conoscere il bene e sempre più risoluti nel perseguirlo; in questo consiste la virtù, un’attitudine che sviluppa la nostra personalità in modo degno dell’essere umano. Viceversa, se ci “abituiamo” a lasciarci andare, a lasciarci guidare da motivi irrazionali, a non esercitare il controllo sulle nostre azioni, diventiamo sempre meno liberi: sempre più ottusi nel riconoscere il bene e sempre più pigri nel tendervi: in questo consiste il vizio.


4.               Le virtù in genere

A questo punto del nostro cammino, caro lettore, voglio richiamarti alla mente la domanda dalla quale siamo partiti: Come dobbiamo essere per realizzare pienamente la nostra personalità umana? Alla luce delle considerazioni svolte nel capitolo precedente, mi sembra che possiamo dare una prima risposta: dobbiamo essere virtuosi.

Questa affermazione, di per sé, non ci porta molto avanti nel discorso: essa suona pressoché tautologica, giacché abbiamo definito la virtù come un habitus che sviluppa la nostra personalità in modo degno dell’essere umano.

Eppure, a pensarci bene, un sostanziale passo avanti l’abbiamo compiuto. Esaminando il comportamento umano, abbiamo visto che esso è tanto più degno dell’uomo, quanto più risponde alle esigenze della ragione ed è controllato dalla volontà, ed abbiamo sottolineato che in questo consiste la libertà dell’agire umano.

Alla luce di ciò, la virtù ci si mostra come l’attitudine o disposizione stabile ad un comportamento autenticamente libero, ossia ad agire in modo rispondente alle esigenze della ragione, padroneggiando con la volontà la propria condotta.

In questo capitolo ci occuperemo più in dettaglio di questo tema. Anzitutto sottolineeremo l’importanza delle virtù nel discorso etico (4.1), poi indicheremo gli elementi essenziali della virtù e del vizio (4.2); avremo così la possibilità di classificare le singole virtù (4.3); infine vedremo come le virtù entrano operativamente nell’atto umano rafforzandone la libertà e conducendo alla felicità (4.4).

4.1          Importanza delle virtù nel discorso etico

Un certo modo un po’ “giuridico” di presentare la morale, in un passato non troppo lontano, tendeva a concentrarsi unicamente sui singoli atti umani, per classificarli come leciti o illeciti, buoni o cattivi. Ma - come i grandi Maestri hanno sempre fatto notare - gli atti umani non sono comprensibili in modo isolato ed astratto dall’insieme della vita del soggetto che agisce.

4.1.1    L’agire manifesta l’essere

Un principio classico afferma che l’agire manifesta l’essere. Questo significa almeno due cose: relativamente alla scelta delle azioni da compiere e relativamente al compimento stesso delle azioni.

La scelta, dice Aristotele, è un desiderio assunto dalla deliberazione[58]. Noi scegliamo di comportarci in un certo modo anziché in un altro perché siamo disposti a riconoscere e a dare la precedenza a certi valori piuttosto che ad altri. Ad esempio, scegliamo di guadagnarci la vita con il lavoro anziché rubando, perché riconosciamo il valore dell’onesto guadagno ed il furto ci ripugna.

Se tale disposizione è profondamente radicata in noi, potranno anche presentarsi delle occasioni di procurarci un guadagno illecito, ma ci sarà assai facile riconoscere che quel tipo di azione è disonesta e pertanto non va compiuta.

Alle volte gli studiosi di etica spendono fiumi di inchiostro per dimostrare che un certo tipo di comportamento è o non è lecito, e spesso un uomo virtuoso arriva alle stesse conclusioni immediatamente, senza bisogno di grandi studi o ragionamenti, perché conosce il valore “per connaturalità”: essendo buono, riconosce il bene quando lo vede.

D’altra parte, come abbiamo visto, scegliere di comportarsi in un certo modo non significa ancora  compiere, di fatto, le azioni che si sono scelte! Per realizzare il bene conosciuto (o per resistere al male conosciuto), è necessaria una forza interiore, una determinazione, una tenacia che ci fa superare le difficoltà e le tentazioni a cui, inevitabilmente, siamo soggetti.

Da quanto abbiamo detto nel capitolo precedente, risulta chiaro che la ripetizione di atti di un certo tipo rafforza in noi la tendenza a comportarci in un certo modo. Se, ad esempio, siamo abituati a mangiare in modo disordinato o eccessivo e fossimo costretti a seguire una dieta rigorosa, soffriremmo moltissimo e avremmo molte e gravi difficoltà a mantenere il nostro proposito; se invece siamo abituati mangiare con moderazione, dominando il nostro desiderio, non ci sarà difficile resistere alle tentazioni della gola, anzi, ci risulterebbe perfino più difficile eccedere nel cibo anziché mantenerci in un saggio equilibrio.

Dunque sia le nostre migliori o peggiori disposizioni davanti ai valori morali, sia la maggiore o minore forza interiore nel tendere verso il valore conosciuto, dipendono da “come siamo dentro”, dagli habitus buoni o cattivi che abbiamo acquisito.

4.1.2    Il discorso sulle virtù

Ora, come abbiamo visto, le “disposizioni interiori abituali” che consentono di inserire i singoli atti nell’intero nostro percorso di vita morale e che ci abilitano a scegliere e operare il bene, classicamente, si denominano virtù.

Noi continueremo ad usare questo termine, non ostante che nel linguaggio comune si sia introdotto un concetto errato: una persona “virtuosa” sarebbe “uno che non…”: non beve, non fuma, non tradisce il coniuge, non è goloso, ecc.; insomma, la virtù sarebbe una sorta di “freno” alle passioni disordinate. Certamente la virtù è anche questo, ma non è soprattutto questo: il termine latino virtus deriva da vis che significa “forza”. Dunque la virtù è principalmente “motore” della vita morale, anziché “freno”!

Inoltre, nella mentalità comune si tende a pensare alla virtù come ad un “possesso”: qualcosa che si ha e di cui si dispone; invece la virtù è piuttosto un “modo di essere”, è il nostro modo di essere più intimo considerato in termini morali.

Nell’agire virtuoso rivive tutto il nostro passato e si proietta il nostro futuro.  Infatti, possiamo agire in un certo modo perché siamo in un certo modo; e siamo in un certo modo perché siamo diventati così, grazie alle azioni che, fino ad ora, abbiamo compiuto. E con l’azione che compiamo ora, noi ci disponiamo a diventare in un certo modo e quindi a compiere ancora un certo tipo di azioni.

4.2          Virtù e vizi

Alla luce di quanto abbiamo detto sopra, possiamo comprendere la definizione di virtù ispirata da S. Agostino:

·     «La virtù è una buona qualità spirituale, grazie alla quale si vive rettamente e della quale nessuno può abusare» (virtus est bona qualitas mentis, qua recte vivitur et qua nemo male utitur)[59].

Sappiamo già che tale “qualità” è un habitus; dobbiamo ora distinguere gli habitus buoni da quelli cattivi, interrogandoci poi su quale sia il criterio per discernere gli uni dagli altri.

4.2.1    Habitus buoni e habitus cattivi

Le facoltà naturali dell’uomo sono di per sé indeterminate, cioè possono rivolgersi sia al comportamento buono sia al comportamento cattivo: possiamo usare la nostra intelligenza per promuovere l’umanità in noi stessi e negli altri oppure per avvilirla, possiamo usare la volontà per costruire o per distruggere, le passioni possono spingerci a fare il bene con entusiasmo ed energia o a fare il male…

La virtù è un habitus che perfeziona le facoltà operative orientandole al bene; è – per così dire – una inclinazione supplementare, quasi una “seconda natura” che mette queste facoltà in grado di tendere abitualmente al comportamento buono, semplificandone l’azione; mentre il vizio è un habitus di segno opposto, che orienta le facoltà al male e, pertanto, rende il male più attraente e facile.

Ma – e con questo veniamo ad un punto centrale per la nostra indagine – in base a quali criterî possiamo capire che cosa è bene e che cosa è male? Come facciamo a distinguere la virtù dal vizio?

Abbiamo già visto come la ragione sia il criterio del bene dell’uomo. Abbiamo anche visto come la volontà, illuminata da questo criterio, deve avere dominio sull’intero comportamento umano, se tale comportamento deve essere libero (e pertanto degno dell’uomo). Quindi il compito della virtù sarà quello di mettere la ragione e la volontà in grado di governare le passioni e la sfera sensitiva, non ostante il condizionamento che da questa può derivare:

«Poiché la virtù etica è una disposizione alla scelta, e la scelta è un desiderio assunto nella deliberazione, bisogna per questo che il ragionamento sia vero e che il desiderio sia retto, se la scelta deve essere moralmente buona, e che ciò che il ragionamento afferma e ciò che il desiderio persegue siano la stessa cosa»[60].

4.2.2    La “medietà”

Dire “virtù”, quindi, significa dire “governo della ragione”. Questo è già un primo punto fermo.

Tuttavia, per governare c’è bisogno, ancora una volta, di un criterio, di un “programma”. Il criterio, secondo la tradizione classica, è la medietà o “giusto medio”. Per capire meglio questa realtà rifacciamoci alla definizione aristotelica della virtù:

·     «La virtù è una disposizione concernente la scelta, consistente in una medietà in rapporto a noi, determinata secondo ragione, così come la determinerebbe un uomo saggio»[61].

È come se si dicesse: il comportamento cattivo può essere tale per eccesso o per difetto: ad esempio, si può mangiare troppo o troppo poco; la virtù consiste nel mangiare in giusta misura. O anche: si può essere paurosi (rifiutando qualunque rischio), oppure temerari (esponendosi a rischi eccessivi): la virtù sta nel coraggio, che è il giusto medio tra i detti opposti.

Tuttavia Aristotele sottolinea che tale medietà non può essere considerata in astratto: essa va determinata «in rapporto a noi». Cosa vuol dire mangiare in giusta misura? Se, per ipotesi, 5.000 calorie al giorno sono troppe e 500 sono poche, ciò non vuol dire che tutti debbano assumere 2.750 calorie (cioè la media matematica tra 500 e 5.000): esse potrebbero essere troppo poche per un atleta o troppe per un sedentario![62]

Il criterio della “medietà”, quindi, non va confuso con quello della “mediocrità”, il criterio della morale borghese che impone di fuggire da ogni estremo. In alcuni casi “moltissimo” può non essere “troppo” (p. es.: desiderare “moltissimo” la propria moglie), mentre in altri casi “un pochino” può essere “troppo” (p. es.: desiderare “un pochino” la moglie altrui…!).

Notiamo qui che il concetto di medietà non ci fa avanzare di molto nella nostra ricerca. L’etica aristotelica mostra qui un circolo vizioso: la « medietà in rapporto a noi» è determinata dalla ragione, ma non da un ragionamento qualsiasi, bensì – dice Aristotele – «come la determinerebbe un uomo saggio»; ora, la saggezza è la virtù della ragione. Pertanto, è come se si dicesse: la virtù consiste nel farsi guidare dalla virtù. O, in altri termini: è virtuoso l’uomo guidato dalla retta ragione; ma cosa significa “retta”? Significa… “virtuosa”!

Questa incongruenza dell’etica aristotelica è stata rilevata già da S. Tommaso, il quale risolve il circolo affermando che la ragione saggia o retta è quella che indica i mezzi adatti al raggiungimento del fine, che è la vita buona; tuttavia, in cosa consista la vita buona non è determinato arbitrariamente dalla ragione umana, bensì stabilito “per natura”. La ragione, quindi, non giudica arbitrariamente, ma sulla base di una “traccia” costituita dall’umanità stessa della persona[63]. Ci soffermeremo dettagliatamente su questo tema nel capitolo 9.

 Ci basta qui rilevare che, comunque, il concetto della virtù - a cui siamo approdati grazie ad Aristotele - consiste in un equilibrio o armonia, inteso in senso razionale: la virtù è una disposizione armonica dell’uomo, sotto la guida della ragione, la quale ci consente di rapportarci equilibratamente all’oggetto del nostro agire.

Viceversa, il vizio è disarmonia, è mancanza di equilibrio, perché consiste in una abituale sottrazione alla regola della retta ragione. È questo il motivo per cui i vizi possono essere in contrasto tra di loro (es. l’avarizia e la prodigalità, la temerarietà e la codardia), mentre le virtù sono sempre in accordo tra loro, perché dirette dalla ragione e finalizzate al bene della persona in quanto tale.

L’armonia prodotta dalla virtù costituisce dunque la “vita buona”, ossia la realizzazione della persona umana.

4.3          Classificazione delle virtù

Dobbiamo ora esaminare più da vicino le diverse specie di virtù. Abbiamo detto che l’essenza della virtù etica consiste nel dominio della ragione sulle facoltà inferiori.

Questo significa forse che basta avere un intelletto forte e ben addestrato perché si posseggano allo stesso tempo delle virtù morali? No di certo. Non basta conoscere il bene per poterlo compiere: la conoscenza è condizione necessaria ma non sufficiente.

Per chiarire questo punto distingueremo dapprima le virtù intellettuali dalle virtù morali (4.3.1), poi ci occuperemo delle virtù morali più importanti, dette  “cardinali” (4.3.2), infine vedremo come esse siano intrinsecamente connesse tra loro e trovino nell’amore la loro piena coordinazione (4.3.3).

4.3.1    Virtù intellettuali e virtù morali

Richiamiamoci alla mente il già citato verso di Ovidio: «Vedo le cose migliori e le approvo, ma poi seguo le peggiori»: come si ricorderà, l’abbiamo menzionato per sottolineare che non basta conoscere il bene, bisogna anche volerlo (3.1.4). Questo significa che può esserci contrasto tra la ragione e la volontà. Per capire come ciò sia possibile, prendiamo l’argomento un po’ alla lontana.

Quando la mente comanda al corpo di fare un certo movimento, i muscoli obbediscono senza poter opporre alcuna resistenza, se non quella del loro limite fisico: Aristotele dice che la mente governa il corpo «con potere dispotico», ossia come un tiranno che comanda a sudditi che non hanno il potere di contraddire in nulla gli ordini, ma solo di eseguirli.

Alcuni filosofi, tra cui Socrate, ritennero che la ragione potesse governare con potere dispotico tutti i principî operativi dell’uomo: la volontà e gli “appetiti sensitivi” (ossia i desideri dei sensi). In questa prospettiva, se la ragione di un uomo fosse perfetta, il suo comportamento sarebbe necessariamente buono. È nota l’affermazione socratica secondo la quale chi ha la conoscenza non può peccare e chi pecca, pecca per ignoranza. Dunque, le uniche virtù sarebbero quelle intellettuali.

Dietro queste affermazioni c’è un’antropologia insufficiente. In realtà, i nostri desideri non obbediscono prontamente e ciecamente alla ragione come il corpo obbedisce alla mente. Come insegna Aristotele, il potere della ragione sui desideri è di tipo «politico» e non «dispotico»: è simile a quello di un governante che ha a che fare con cittadini liberi, che hanno la capacità di contraddire e devono essere persuasi ed educati a seguire determinate direttive[64]. Il che significa che non sono sufficienti le virtù intellettuali, ma c’è bisogno anche delle virtù propriamente morali, ossia delle buone disposizioni delle nostre facoltà di desiderare[65].

Le “virtù” intellettuali, di per sé, non sono virtù morali, ma semplicemente habitus della ragione, mediante i quali quest’ultima tende correttamente al proprio oggetto, che è la verità. «Gli abiti intellettuali si possono dire  virtù non in quanto facciano essi stessi operare il bene, perché ciò è proprio della volontà, ma in quanto procurano la capacità di operare il bene»[66].

Tutto ciò appare chiaro se si esamina la classificazione delle virtù intellettuali proposta da S. Tommaso. Egli distingue anzitutto le virtù dell’intelletto speculativo da quelle dell’intelletto pratico: le prime sono orientate alla contemplazione della verità, le seconde alla conoscenza dei principî idonei a guidare l’azione. È evidente che le prime (intelligenza, scienza e sapienza), non essendo, di per sé orientate all’azione, non sono virtù morali. Per quanto riguarda le virtù dell’intelletto pratico, S. Tommaso distingue in esse l’arte (o tecnica) e la saggezza. È altresì evidente che la prima non è una virtù morale, perché di essa si può abusare: con l’arte e la tecnica, come abbiamo detto (1.4.3), si può sia promuovere la dignità dell’uomo sia svilirla. Viceversa, la saggezza (come vedremo presto) è una virtù morale, in quanto «si occupa non tanto della conformità dell’intelletto con le cose conosciute (ossia della verità), quanto della conformità col retto volere»[67].

Possiamo dunque dire che il criterio per distinguere le virtù morali è il riferimento al “retto volere”: l’abituale disposizione a scegliere e perseguire ciò che è degno dell’uomo.

4.3.2    Virtù cardinali

Tra le diverse virtù morali, la tradizione filosofica classica ne ha individuate alcune che sono denominate “cardinali”, perché su di esse, come su un cardine, girano tutti i nostri atti, i quali diventano più o meno buoni a seconda che sono più o meno controllati da esse. Tali virtù sono la saggezza, la giustizia, la fortezza (o coraggio) e la temperanza; con esse si compongono virtù dette “annesse”, che costituiscono una sorta ramificazione o articolazione della vita virtuosa. Nei prossimi capitoli le esamineremo in dettaglio. Qui vogliamo darne una prima presentazione, a cominciare dal perché di questa suddivisione in rapporto alle facoltà umane che rendono possibile l’azione.

4.3.2.1                    Ragione, volontà, appetito irascibile e appetito concupiscibile

Il motivo della quadripartizione delle virtù cardinali risulta chiaro se si tengono presenti le facoltà che ci rendono capaci di agire moralmente. Esse sono, da un lato, la ragione e la volontà, sedi delle nostre potenzialità specificamente umane; e, d’altro lato, la componente passionale denominata “sensibilità” o “appetito sensitivo”.

Ma la sensibilità, a sua volta, presenta due potenze appetitive distinte[68]: da un lato quella in forza della quale siamo semplicemente orientati a conseguire le cose che appaiono convenienti ai nostri sensi e a fuggire le cose che appaiono nocive: e questa viene chiamata appetito concupiscibile; dall’altro, è presente in noi una potenza che ci spinge a resistere a ciò che ci contrasta e che potrebbe privarci delle cose che ci piacciono o infliggerci qualche male: questa potenza viene denominata appetito irascibile. Si tratta di due potenze che non possono essere ridotte ad un unico principio, in quanto, talvolta, esse sono in opposizione tra loro. Ad esempio, siamo capaci di costringere noi stessi ad accettare una qualche sofferenza (contraria all’appetito concupiscibile) per ottenere una vittoria su ciò che ci contrasta (e quindi seguendo l’appetito irascibile); o anche, vediamo che, molte volte, quando si accendono i desideri della concupiscenza, l’ira diminuisce, e – al contrario – quando si accende l’ira, diminuiscono i desideri della concupiscenza.

Si definisce abitualmente l’appetito irascibile come tendenza verso i beni difficili da raggiungere (per i quali è necessario lottare, impegnarsi), e l’appetito concupiscibile come tendenza verso il beni facilmente accessibili.

Abbiamo pertanto quattro facoltà che rendono possibile l’azione: ragione, volontà, appetito irascibile ed appetito concupiscibile.

Ora, l’agire virtuoso sta nell’armonico tendere di tutte e quattro queste facoltà al bene secondo ragione. Tuttavia, è esperienza comune che le passioni dell’appetito sensitivo tendono a seguire i propri impulsi e a sottrarsi al governo della ragione e della volontà. La volontà, da parte sua, tende sempre a ciò che è bene o che la ragione le presenta come bene per il soggetto stesso, ma può avere notevoli difficoltà nel  promuovere il bene altrui. La ragione stessa e la volontà, poi, possono essere sopraffatte dalla passione, la quale o distrae o contraria le facoltà superiori o commuove e conturba l’organismo al punto che uno può trovarsi a “perdere la testa”.

Pertanto c’è bisogno che ciascuna di queste facoltà sia regolata da una virtù speciale e che l’insieme di queste virtù conduca l’uomo a vivere bene.

4.3.2.2                    Saggezza

La ragione deve essere stabilmente orientata al vero bene ed è necessario che abbia la capacità, l’attitudine a scegliere i mezzi opportuni e concretamente disponibili nella situazione, per raggiungere il fine stesso. Questa capacità o attitudine è denominata “saggezza”: la saggezza fa sì che l’uomo si comporti bene nella scelta di quei mezzi che servono al fine[69].

Tutte le virtù sono tali perché guidate dalla saggezza e da essa orientate all’atto concreto. Per esempio, restituire un prestito ricevuto è un atto di giustizia (e quindi virtuoso) in quanto la saggezza (il retto orientamento della ragione) mi indica che questo atto va compiuto per realizzare qui ed ora il fine della giustizia stessa. Anzi, si potrebbe dire che gli atti di tutte le virtù possono essere detti “virtuosi” solo se e in quanto diretti dalla saggezza; in questo senso la saggezza è stata definita anche forma virtutum.

Se ci si richiama alla mente quanto è stato detto a proposito della fenomenologia dell’agire volontario (3.1.2), risulterà chiaro che la saggezza consiste nella retta deliberazione, nel retto giudizio pratico sul mezzo più opportuno e nel comando di agire. La deliberazione prepara il giudizio e il giudizio conduce all’azione. Chi giudica rettamente ma poi non agisce, non è realmente saggio: saggio è solo colui che fa anche effettivamente ciò che è retto e opportuno.

4.3.2.3                    Giustizia

La volontà è spontaneamente orientata al bene conosciuto e quindi, per natura, possiede un orientamento abituale verso il proprio bene. Tutto ciò non costituisce problema finché il conseguimento del proprio bene non entra in conflitto con il bene dell’altro; infatti, l’atteggiamento spontaneo della volontà sarebbe quello di preferire il proprio bene a quello dell’altro. E tuttavia, ad un’analisi più profonda risulta evidente che non è degno dell’uomo (= non è bene) preferire il proprio bene se da questo deriva un male (= la privazione di un bene) per gli altri. S. Tommaso parla già di un «istinto naturale» che ci porta verso gli altri e ci spinge a sostenerci a vicenda[70]; ma è soprattutto la ragione che ci fa conoscere il bene dell’altro come qualcosa da fare e da realizzare tanto quanto il bene nostro («fa’ agli altri ciò che vuoi sia fatto a te»; «ama il prossimo tuo come te stesso»). Se la volontà non ha bisogno di un habitus speciale per tendere al bene proprio, essa ne ha bisogno, dunque, per tendere al “bene per l’altro”. Orbene, la virtù che rende la volontà ferma, costante e gioiosa nel dare «a ciascuno il suo», cioè ad ogni uomo il bene che gli spetta, è denominata giustizia.

Se la saggezza è la virtù per eccellenza, si può dire che l’ingiustizia è il vizio per eccellenza: è la perversione della volontà stessa. E siccome la volontà interagisce sempre con la ragione ed è in grado di condizionarla profondamente, «allora l’ingiusto non solo è uno che abitualmente è incline a commettere azioni ingiuste, ma anche a considerare buono ciò che è ingiusto (…). La vera malvagità è l’ingiustizia»[71].

4.3.2.4                    Fortezza o coraggio

L’appetito irascibile, da parte sua, tende verso il bene in particolare con due tipi di atti: da un lato esso affronta il bene da farsi, “pone mano” ad esso; dall’altro esso si oppone e resiste alle fatiche ed alle difficoltà che insorgono nella realizzazione del bene stesso. Il compito della fortezza o coraggio consiste nel perfezionare questi atti e si manifesta nella prontezza abituale ad evitare sia la paura delle fatiche e la viltà, sia la temerarietà che espone a pericoli non necessari e sproporzionati. La pazienza e la perseveranza sono due dimensioni essenziali  di questa virtù.

«Chi è forte si caratterizza per la serenità. Egli è capace di dare ad altre persone sostegno e sicurezza: è in grado di controllare la sua fantasia, che talvolta induce a temere, di mantenere la calma e di stare al di sopra delle inezie, per non farsi distrarre dall’essenziale; non agisce perché raccoglie elogi e lodi, ma perché vuole ciò che in verità è buono»[72]. La fortezza protegge dalla disperazione e apre alla speranza, mette al riparo dall’ira e conduce alla mitezza.

Senza la virtù della fortezza non è possibile diventare saggi, giusti e temperanti. Infatti, se il saggio è colui che fa effettivamente il bene, non potrà essere saggio chi è timoroso o impaziente. D’altra parte, va notato che non ogni forma di coraggio o di perseveranza è virtuosa: chi non teme i pericoli nel commettere ingiustizie potrà anche essere un “eroe” agli occhi di molti, ma non è un uomo buono: nell’uomo forte, il coraggio e la giustizia vanno sempre insieme.

4.3.2.5                    Temperanza

L’appetito concupiscibile, infine, ha bisogno di essere disciplinato in modo che sottostia alla misura della ragione e non abbia il sopravvento sulla volontà: questo è il compito della temperanza. L’appetito concupiscibile si dirige a ciò che secondo la valutazione dei sensi appare come piacevole; la temperanza consiste nella disposizione stabile a mantenere l’ordine del desiderare nell’insieme dell’unità personale corporeo-spirituale dell’uomo. Se questo equilibrio è conservato, le passioni non vengono represse ma ordinate,  il piacere viene goduto pienamente e contribuisce a renderci soddisfatti della nostra vita.

Al contrario, l’intemperanza distrugge il piacere stesso. Infatti la ragione umana si caratterizza per un’aspirazione all’infinito; se ci lasciamo travolgere dalla sensualità, saremo portati a cercare l’infinito laddove non c’è: nelle esperienze dei piaceri sensibili che, per natura loro, sono sempre limitati. Passeremo quindi da un desiderio all’altro, da un piacere all’altro ma con un processo a spirale per cui il desiderio crescerà sempre e il piacere diminuirà costantemente. Si cercheranno così esperienze sempre più “forti”, sempre più perverse, nelle quali godremo sempre meno… L’esito di questo processo è l’abisso della disperazione.

La temperanza è stata definita da Aristotele la «custode della saggezza»[73], in quanto, se la sensibilità è lasciata a se stessa, è in grado di corrompere la ragione, trascinandola nel vortice delle passioni: «Chi è davvero viziosamente intemperante è perfino convinto che è bene per principio seguire l’apparenza puramente sensibile del bene anche a livello dei principî. Così egli diventa anche ingiusto»[74]. Ed evidentemente, l’intemperante, essendo abitualmente orientato verso il piacere facile, risulterà incapace di coraggio e di fortezza. 

4.3.2.6                    Virtù “annesse”

Le virtù cardinali sono pertanto le virtù principali, a cui possono essere ricondotte tutte le altre virtù morali. Tuttavia, il verbo “ricondurre”, in questo contesto, assume un significato per lo meno triplice[75].

a) Alcune virtù sono parti soggettive di una virtù cardinale, ossia costituiscono aspetti diversi della virtù stessa. Ad esempio, la saggezza è la virtù del buon governo; ma evidentemente altro è governare se stessi, altro è governare la propria famiglia, altro è governare un popolo: possiamo dunque dire che l’autogoverno, la buona amministrazione della casa e la prudenza politica sono alcune delle parti soggettive della virtù cardinale della saggezza. O ancora: la sobrietà (che riguarda il rapporto con le bevande alcoliche) e la castità (che riguarda i piaceri sessuali) sono parti soggettive della temperanza; e così via.

b) Altre virtù sono parti integranti di una virtù cardinale, in quanto ne costituiscono una struttura essenziale al punto che, qualora mancassero, la virtù stessa non potrebbe sussistere. Per esempio, la docilità (ossia la capacità di imparare e l’umiltà di accettare i giudizî di coloro che hanno più esperienza di noi) e la solerzia (ossia la capacità di cogliere con prontezza il bene da realizzare) sono dimensioni intrinseche della saggezza: un uomo indocile o pigro non potrà mai essere saggio! La magnanimità, la pazienza e la perseveranza sono parti integranti della fortezza; ecc.

c) Infine, altre virtù sono parti potenziali di una virtù cardinale; vale a dire: sono ordinate ad alcuni comportamenti che hanno qualche attinenza con quella determinata virtù, pur non realizzandone in pieno l’essenza. Ad esempio, la capacità di dare buoni consigli (detta “eubulia”) è strettamente connessa alla saggezza, anche se non è necessario che un uomo saggio sia sempre un buon consigliere. O ancora: l’atteggiamento virtuoso nei confronti dei genitori si denomina “pietà”: esso è una parte potenziale della giustizia, in quanto rende - per così dire - il contraccambio a coloro che ci hanno fatto dono della vita… Tuttavia, appare chiaro che il rapporto con nostro padre e nostra madre non può essere inteso in termini di semplice “dare-avere”: è qualcosa che ha a che fare con la giustizia ma, nel contempo, la supera notevolmente.

4.3.3    La connessione delle virtù e l’amore

Dall’esposizione fatta, emerge chiaramente la connessione esistente tra le virtù: non è possibile coltivarne una senza coltivare anche le altre, e non è possibile trascurarne una senza trascurare anche le altre. Per questo, molto spesso nel discorso etico si usa l’espressione singolare “la virtù” per indicare il complesso dell’atteggiamento e della pratica virtuosa.

Ma forse è possibile dare un nome a questa “virtù” al singolare, costituita dall’insieme di tutte le singole virtù. S. Agostino dice che l’ordine delle virtù, ossia il principio e la sostanza della loro connessione è l’amore; anzi, le virtù stesse non sono altro che l’ordine dell’amore[76].

La virtù, come ordinato amore di sé e del prossimo, rende capaci e degni «di vivere in armonia con le persone e con Dio, sapendo stare alla loro presenza, comunicare con loro, ricevere da loro quei beni esperienziali e sostanziali, i quali, oltre ad essere apprezzabili e desiderabili per se stessi, lo sono ancora di più quando sono doni d’un amore vero tra le persone e da parte di Dio, e sono compresi, apprezzati, voluti come tali»[77].

4.4          Virtù, libertà e felicità

Le virtù allo stato puro non si vedono. Nessuno, camminando per strada, ha mai incontrato la Sig.ra Saggezza o il Sig. Coraggio. Ci è invece capitato di assistere ad esempi di saggezza o di coraggio, visibili in atti di determinate persone; quando abbiamo costatato che quegli atti erano compiuti con prontezza abituale, con una certa facilità - non ostante la loro materia fosse impegnativa - e con gioia, abbiamo capito di trovarci davanti a persone virtuose. Ecco il modo attraverso cui conosciamo la virtù: per via indiretta, ossia partendo dal comportamento virtuoso, per risalire poi all’atteggiamento fondamentale da cui esso scaturisce[78].

Come abbiamo detto, l’habitus virtuoso è il risultato di scelte e di azioni che lasciano nel soggetto una traccia, orientano le sue facoltà ad operare in un certo modo e, pertanto, costituiscono il suo “carattere morale”, assicurando un’esecuzione pronta, sicura, gioiosa e regolare dell’atto buono. Una volta introdotta la considerazione della virtù, il singolo atto smette di essere visto come un evento puntiforme e si inserisce nell’insieme della vita morale del soggetto, come frutto del suo passato e seme del suo futuro. Le virtù, in quanto disposizioni stabili, conferiscono al comportamento umano la capacità di mantenersi unitario e continuo pur nella variazione incessante determinata dalla diversità delle scelte nelle circostanze concrete[79].

Qui emerge la differenza tra habitus e abitudine: l’abitudine è la tendenza a ripetere un certo tipo di azioni, in maniera pressoché “automatica”: chi agisce “per abitudine” non si sofferma a considerare le ragioni del proprio comportamento. L’abitudine conduce direttamente all’azione, in modo irriflesso e rende pertanto meno liberi.

L’habitus virtuoso, al contrario, potenzia proprio la consapevolezza del soggetto, la sua capacità di scegliere “a ragion veduta”. Orienta anzitutto le intenzioni verso i fini buoni e doverosi (operare saggiamente, realizzare la giustizia, comportarsi in modo forte e coraggioso, essere temperanti, ecc.); dopo di che consente di individuare le azioni che realizzano questi fini nelle circostanze concrete e di sceglierle proprio per questi motivi, rendendo buona o onesta l’intera vita.

La stabilità realizzata dalla virtù, quindi, lungi dal togliere la libertà (e la responsabilità), la accresce[80]. D’altra parte, la vera libertà non consiste nel “fare quel che ci pare” ma nel tendere al vero bene senza costrizioni. In questa prospettiva è chiaro che la virtù, in quanto disposizione al bene costituisce un rafforzamento di tale libertà, mentre il vizio costituisce una vera e propria schiavitù[81].

L’uomo è libero quando conosce il fine per cui agisce e può disporre pienamente di se stesso in vista di quel fine. L’uomo è quindi pienamente libero quando conosce il fine ultimo di tutte le proprie azioni e della sua stessa vita, e se tutte le sue facoltà si mobilitano con prontezza ad agire in vista di quel fine: «Vivere la vita veramente buona non richiede solo l’esercizio della ragione e della libera volontà, ma anche l’esercizio di passioni educate. È veramente buona la vita di quel soggetto che non solo sa scegliere rettamente, ma partecipa emotivamente alla buona condotta, si appassiona per il bene e per il male morale, lo desidera o lo rifugge anche passionalmente, per esso sente amore od odio, piacere o tristezza, speranza o timore, ecc.»[82].

Si comprende dunque il legame tra vita buona e felicità: l’uomo virtuoso è felice perché, realizzando il bene nella sua vita, ottiene proprio ciò che vuole, ciò che desidera nel profondo del proprio essere, ciò che ama realmente.


5.               Saggezza

Dicevamo che la saggezza è l’habitus che orienta stabilmente la ragione al vero bene, conferendole l’attitudine a scegliere i mezzi opportuni e concretamente disponibili nella situazione, per raggiungere il fine stesso. Dopo un breve chiarimento di ordine terminologico (5.1), esamineremo le ragioni del primato della saggezza nell’ordine delle virtù cardinali (5.2), per considerare poi le sue operazioni (5.3), i suoi presupposti e i vizi ad essa opposti (5.4)[83].

5.1          Terminologia

Utilizziamo il termine “saggezza” per denominare quella virtù che Aristotele chiama phrónesis e che nella tradizione latina è stata chiamata prudentia, termine che spesso, in italiano, viene tradotto semplicemente “prudenza”. Io preferisco parlare di “saggezza” perché la parola “prudenza”, ha purtroppo subìto molte alterazioni nel suo significato. Nel linguaggio comune essa viene intesa, praticamente, come sinonimo di cautela, circospezione, propensione ad evitare i rischi… Un segno chiaro del fraintendimento di questo concetto può essere ravvisato nell’espressione “prudenza eccessiva”; essa è del tutto priva di senso nella prospettiva dell’etica delle virtù: se è prudenza, non può essere “eccessiva”; se è eccessiva, non è “prudenza”! La virtù, come abbiamo visto sopra (4.2.2), è l’attitudine alla scelta del “giusto medio” il quale, per definizione, è contrario ad ogni eccesso.

Persino un grande filosofo come I. Kant (1724-1804) è stato vittima di un grave equivoco a proposito della prudenza. Egli l’ha definita come «la massima dell’amor di sé»[84] e l’ha confusa con quell’abilità o destrezza della ragione che tutti - chi più e chi meno - possediamo per natura e che ci consente di trovare la strada per raggiungere gli scopi che ci prefiggiamo. In questa prospettiva potrebbe essere qualificato come “prudente” anche il comportamento di un ladro molto scaltro che riesce a portare a segno i suoi colpi in modo abile, senza lasciarsi scoprire. Ma questo è evidentemente assurdo. Questa abilità o destrezza naturale, di per sé, non è prudenza perché non è virtù, ossia non rende buono il soggetto agente. Intendo dire: potrà anche renderlo buono in questo o quel settore della sua attività (un bravo musicista, un valido costruttore, un ottimo… ladro!) ma non lo rende buono in quanto uomo.

Per questo preferisco usare il termine “saggezza” per indicare la vera virtù della prudenza, quella che ci rende capaci di scegliere i mezzi adatti al raggiungimento di quei fini in cui realizziamo la nostra personalità in modo degno dell’umanità che è in noi; in parole più semplici: la virtù che guida le nostre scelte orientandole verso la realizzazione piena del senso della nostra vita.

5.2          Primato della saggezza

C’è un fine che dà senso a tutti gli altri fini nella nostra vita. C’è un bene “essenziale”, in forza del quale tutti gli altri beni sono voluti. E questo fine, questo bene essenziale è: vivere umanamente; o, in altri termini: essere uomini secondo verità.

 Meditando questa affermazione notiamo che essa implica due volte la ragione:  sul piano dell’essere e sul piano del conoscere. Anzitutto sul piano dell’essere, perché è la ragione che costituisce la caratteristica specifica dell’animale-uomo: e quindi si potrebbe dire che il bene umano è vivere secondo ragione. Ma poi anche sul piano del conoscere, perché è la ragione che consente di accedere alla verità in generale e alla verità dell’essere uomini in particolare.

Quale sarà dunque il comportamento buono e degno dell’uomo?

«Il bene dell’uomo in quanto uomo è: che la ragione sia perfetta nella conoscenza della verità, e i desideri inferiori siano regolati secondo la regola della ragione; infatti la caratteristica essenziale in forza della quale l’uomo è uomo, consiste appunto nel suo essere razionale»[85].

Questa frase dice fondamentalmente due cose: anzitutto che, per il bene dell’uomo, la ragione umana deve perfezionarsi nella conoscenza della verità; poi che la ragione così perfezionata deve essere regola dei desideri inferiori. Esaminiamo le cose nell’ordine.

1. La ragione deve perfezionarsi nella conoscenza della verità. Perché? Perché l’essenza della ragione è proprio questa! La ragione è lo sguardo propriamente umano sulla realtà, è l’apertura alla realtà. E la verità è il rivelarsi della realtà. La premessa di ogni agire moralmente buono è necessariamente la verità: come può essere “giusto”, ad esempio, chi rifiuta la verità? È solo in virtù del vero diritto che si può rendere vera giustizia (ossia “giustizia” tout-court, perché una giustizia non-vera – o falsa – è semplicemente “ingiustizia”). La ragione riceve la sua misura dalla realtà: “saggio” è colui che conforma il suo pensiero alla realtà obiettiva[86].

2. La ragione che si perfeziona nella conoscenza della verità deve farsi forma e regola intima dei desideri. Pertanto la virtù della ragione pratica – la saggezza – sarà la causa prima grazie alla quale le altre virtù sono veramente tali: gli atti di tutte le virtù possono essere detti “virtuosi” solo se e in quanto diretti dalla saggezza; in questo senso la saggezza è stata definita «forma delle virtù» (forma virtutum). La virtù, ogni virtù, è una perfezione dell’uomo come essere razionale; la giustizia, la fortezza o coraggio e la temperanza raggiungono tale perfezione (ossia possono essere chiamate propriamente virtù) solo quando sono fondate sulla saggezza.

Per fare un esempio evidente: l’appetito sensitivo verso il cibo, e la tendenza a mangiarne in quantità sufficiente ma non eccessiva, è senza dubbio un’inclinazione spontanea verso il bene, ed è presente anche negli animali irragionevoli. Tuttavia essa viene elevata alla dimensione spirituale quando entra nella dinamica della decisione razionale dell’uomo, da cui scaturiscono gli atti umani. Si può parlare a questo proposito di “virtù della temperanza” solo quando la saggezza assume la predisposizione impulsiva e istintivamente giusta dell’appetito sensitivo e la completa in modo specificamente umano, cioè razionale.

Può essere istruttiva, a questo proposito, l’analogia tra l’atto morale e la creazione artistica[87]: all’origine dell’opera d’arte c’è l’idea che l’artista ha elaborato nella sua mente, e precisamente quell’idea conferisce all’opera la sua “forma”: la forma vivente nella conoscenza creatrice dell’artista è il modello e l’archetipo dell’opera formata, e l’opera è vera e reale grazie alla sua concordanza con il prototipo dell’immagine che era nella mente dell’artista. Similmente, il comando della saggezza è l’idea in forza della quale l’atto morale è quello che è. Il comando della saggezza è il modello e l’archetipo di ogni agire moralmente buono. L’azione diventa giusta, forte, temperante solo grazie alla risoluzione fondamentale della saggezza.

La saggezza dà forma alle altre virtù, conferisce loro quella “misura” (la «medietà in rapporto a noi» di Aristotele), senza la quale la virtù non è nemmeno pensabile. Si capisce, dunque, perché la tradizione classica ha detto: Prudentia auriga virtutum; ossia: tutte le virtù sono tali perché guidate dalla saggezza e da essa orientate all’atto concreto.

5.3          Operazioni della saggezza

Il primato della saggezza dipende, quindi, dal fatto che, per fare il bene, è necessario dapprima conoscere la realtà. La saggezza – abbiamo detto sopra – è essenzialmente una virtù intellettuale; ma il suo oggetto, la scelta, ha direttamente a che fare con le virtù morali. In sintesi possiamo dire che il suo compito è quello di «trovare il giusto medio nelle virtù morali»[88].

Abbiamo detto che non è possibile volere qualcosa (un oggetto, un’attività, una relazione, ecc.) se prima non lo si conosce; ma questo “qualcosa” può essere voluto come fine in sé oppure come mezzo[89]. Se qualcosa ci attrae presentandosi alla nostra ragione come fine in sé, desiderabile per se stesso, la saggezza entra in gioco nell’indagine circa i mezzi necessari per raggiungere il fine (deliberazione) e nel reperimento del mezzo più idoneo attualmente a disposizione (giudizio pratico sul mezzo). Il suo atto principale, però, sarà il comando di usare effettivamente tale mezzo[90]: la deliberazione prepara il giudizio e il giudizio conduce all’azione. Chi giudica rettamente ma poi non agisce, come abbiamo detto, non è realmente saggio: saggio è solo colui che fa anche effettivamente ciò che è retto e opportuno. Decisivo è dunque l’ultimo atto: il comando di agire. La saggezza si manifesta, in ultima analisi, nel comando della ragione pratica che mi dice: questo è buono, questo va fatto qui e adesso.

Dunque la saggezza ci fa conoscere i mezzi che dobbiamo volere ed usare. E i fini? Certamente alcuni fini sono mezzi in ordine a fini più ampi (per esempio, laurearsi è il fine dello studente, ed è mezzo in ordine al fine ulteriore di lavorare). Ma giacché non si può procedere all’infinito, sarà necessario che alcuni fini ci si presentino come desiderabili in se stessi: beni “onesti”, dicevamo sopra (cfr. 2.2.4.3), ora potremmo dire beni “virtuosi” (i termini sono sinonimi). Si tratta dei fini delle virtù: il comportamento giusto, forte, temperante. Questi fini preesistono alla saggezza stessa: ci sono noti in maniera abituale, grazie all’intelligenza:

«Il fine appartiene alle virtù morali non perché esse lo prestabiliscono, ma perché esse tendono al fine prestabilito dalla ragione naturale. In questo sono aiutate dalla saggezza che prepara loro la via, disponendo i mezzi opportuni. Perciò la saggezza è più nobile delle virtù morali e le mette in moto. Ma l’intelletto pratico mette in moto la saggezza»[91].

 La “materia” sulla quale si esercita la saggezza è precisamente l’indicazione della «medietà» in cui consiste la virtù, e l’uso dei «mezzi opportuni» per il suo perseguimento. Dunque – paradossalmente – la saggezza non ha una materia “propria”, ma si applica alla materia delle altre virtù morali, che vengono da essa regolate e misurate[92].

5.4          I presupposti della saggezza e suoi opposti

La saggezza ha dunque una dimensione essenzialmente conoscitiva e tuttavia immediatamente pratica, volta alla realizzazione concreta del bene possibile[93]. Per potersi adeguatamente esercitare in queste due dimensioni, la saggezza richiede alcune particolari disposizioni, che potremo capire meglio se le confrontiamo con i vizi ad esse opposti.

5.4.1    Come virtù conoscitiva

Per capire adeguatamente la situazione e identificare i mezzi concretamente disponibili, idonei a raggiungere i fini virtuosi, c’è bisogno di riflessione, silenzio, interrogazione paziente della realtà, accettazione della fatica dell’esperienza. A questa dimensione si oppone l’atteggiamento irriflessivo di colui che si butta a capofitto nell’azione e si espone ad ogni specie di disordine e di fallimenti: la dissennatezza.

Ma attenzione: c’è sempre anche un difetto opposto: l’inconcludenza, ossia quella forma (trascuratissima!) di imprudenza che consiste nel protrarre indefinitamente la valutazione dei problemi, senza giungere a una conclusione. Questo atteggiamento conduce a rendere infruttuose le decisioni tardive. La rapidità della valutazione è invece una forma eminente di saggezza, che in latino si chiama solertia: essa implica una capacità di “sangue freddo” dinanzi all’imprevisto che ci può cogliere inaspettatamente. Lo stolto, davanti all’imprevisto, o si dà alla fuga, o resta paralizzato, o chiude gli occhi per fare alla cieca una cosa qualsiasi. Il saggio solerte, invece  mantiene l’obiettività e sa decidersi rapidamente per il bene concretamente possibile.

La conoscenza oggettiva della realtà concreta e operabile deve diventare norma dell’azione, la verità delle cose deve divenire criterio d’orientamento della nostra vita. Per questo c’è bisogno di ciò che chiamiamo comunemente esperienza. Dice Aristotele:

«La saggezza non ha come oggetto solo gli universali, ma bisogna che essa conosca anche i particolari, giacché essa concerne l’azione, e l’azione riguarda le situazioni particolari.  È per questa ragione che alcuni uomini, pur non conoscendo gli universali, sono, nell’azione, più abili di altri che li conoscono, e questo vale anche negli altri campi: sono coloro che hanno esperienza»[94].

Una scienza che ha come oggetto solo gli universali, come per esempio la matematica, può essere esercitata egregiamente dai giovani, se hanno agilità mentale e intelligenza. Ma quando si richiede la conoscenza dei particolari, il giovane risulta inevitabilmente inesperto: la saggezza ha bisogno di un sapere che si accumula nel tempo; è quindi una virtù eminentemente “senile”.

Tuttavia non è sufficiente il semplice passare del tempo per trasformare l’imprudente in saggio: la “perizia” consiste nel conservare la memoria delle esperienze fatte, e di serbarla autenticamente, nella sua verità. È questo un obiettivo non facile, giacché il ricordo può modificarsi in noi: potremmo avere qualche interesse inconfessato a deformare la memoria dei fatti; potremmo essere vittime di un meccanismo incontrollabile che opera «ritocchi, omissioni, coloriture, spostamenti di accento»[95]. La vigilanza sulla verità dei propri ricordi è una premessa indispensabile per diventare saggi – e la pratica costante dell’esame di coscienza costituisce un mezzo assai prezioso in tale senso. 

La molteplicità delle situazioni da affrontare, la pressoché infinita diversità dei particolari di cui tener conto nell’agire, fanno sì che nessun uomo possa pretendere di essere autosufficiente e di acquisire da solo la saggezza:

«Nelle cose che riguardano la saggezza, l’uomo ha una grandissima necessità di essere istruito dagli altri, e soprattutto dagli anziani, che hanno acquistata una sana conoscenza degli scopi delle realtà operabili. Per cui il Filosofo, nel VI libro dell’Etica, dice: “È necessario prestare attenzione alle affermazioni indimostrate e alle opinioni degli uomini esperti ed anziani, non meno che alle dimostrazioni: grazie all’esperienza, infatti, essi vedono i principî”»[96].

Dunque, chi vuole diventare saggio deve cominciare col dare questa prova di… saggezza: deve lasciarsi istruire, deve rinunciare alla saccenteria, la presunzione di saper già tutto, deve cioè coltivare la virtù della docilità, che è parte integrante della saggezza stessa.

5.4.2    Come virtù imperativa

La dimensione conoscitiva della saggezza riguarda il passato e il presente, nel suo essere-già reale. La dimensione imperativa di questa virtù, invece, riguarda il futuro, il non-essere-ancora nella sua prospettiva di dover-essere realizzato.

In questa prospettiva, la saggezza consiste essenzialmente nella previdenza. L’uomo previdente è colui che pre-vede le necessità future e pro-(v)vede nel presente a ciò di cui ci sarà bisogno per conseguire gli scopi prefissati. La previdenza è indubbiamente l’aspetto principale della saggezza, giacché tutte le dimensioni sopra enumerate (riflessione, solerzia, memoria, docilità, ecc.) sono necessarie a questo scopo: pre-disporre i mezzi ordinati ai fini:

«La previdenza consiste precisamente in questo: predisporre le cose al loro fine. Difatti essa è la parte principale della saggezza, a cui sono ordinate le altre due parti, cioè la memoria del passato e l’intelligenza del presente; perché dal ricordo del passato e dalla conoscenza del presente noi congetturiamo quel che dobbiamo provvedere per il futuro. Ora, è proprio della saggezza, a detta del Filosofo, nel VI libro dell’Etica, ordinare tutte le cose al loro fine; sia rispetto a se stessi, e così diciamo saggio un uomo quando indirizza bene tutti i suoi atti al fine della sua vita; sia riguardo ai sottoposti, tanto nella famiglia che nella città o nel regno. In questo senso il Vangelo parla del “servo fedele e saggio, che il padrone ha messo a capo della sua casa”»[97].

Dobbiamo però ricordare sempre che “i mezzi”, in prospettiva morale, sono sempre delle azioni: l’uomo previdente è colui che è capace di predisporre le azioni idonee al raggiungimento dei fini.

A questo punto la previdenza mostra il suo lato drammatico: essa riguarda le cose concrete, contingenti e future; vale a dire: cose intorno alle quali non possiamo mai avere una certezza assoluta, una certezza tale che ogni preoccupazione sia fugata[98]. Aspettarsi una certezza di tipo matematico, un’idea chiara e distinta, in queste materie, sarebbe segno di stoltezza e condurrebbe all’irresolutezza. Il saggio «non aspetta la certezza dove e quando non esista; e non si illude mediante false certezze»[99]. Il tipo di certezza richiesto dalla saggezza è la certezza morale: questa in alcuni casi può essere totale (e ciò accade soprattutto davanti a ciò che sappiamo di non dover fare: non uccidere, non rubare, ecc.), mentre in altri casi (più numerosi), deve accontentarsi di una probabilità solo relativa. Anche in questi casi, però, il saggio agisce in modo sicuro e deciso, traendo conferme dall’esperienza della vita vissuta, dalla vigilanza, dalla consapevolezza della rettitudine della propria ricerca del vero bene.

Im-previdenza e in-decisione sono difetti che si oppongono come tali alla virtù di saggezza. Sappiamo però che la virtù si oppone anche agli eccessi, ossia a quelle disposizioni che hanno una somiglianza apparente con la virtù, ma come una caricatura può somigliare all’originale, travisandone profondamente la sostanza. È interessante notare come S. Tommaso descrive l’opera di questa falsa saggezza:

«Qualcosa che ha una qualche somiglianza con la saggezza può essere un peccato contro di essa, e ciò in due modi. Il primo si realizza quando l’impegno della ragione è ordinato ad un fine che non è un bene vero, ma solo apparente: e questo è proprio della prudenza della carne. Il secondo si realizza quando qualcuno, per conseguire il proprio fine, buono o cattivo che sia, si serve non delle vie veraci, ma di quelle simulate e finte: e questo costituisce il peccato di astuzia»[100].

Dunque può esserci una pseudo-saggezza che consiste nel ricercare abilmente i mezzi per fini disonesti: magari i mezzi potranno essere anche buoni, ma l’azione risulterà comunque cattiva. E può esserci una pseudo-saggezza che fa illudere di poter ottenere un fine magari buono, ma con mezzi cattivi: anche in questo caso l’azione sarà necessariamente cattiva. Non soltanto i fini dell’agire, ma anche i modi della sua realizzazione devono essere conformi alla verità del soggetto e delle situazioni reali.

È interessante vedere come, secondo S. Tommaso, le mancanze “per difetto” contro la saggezza siano frutto del desiderio incontrollato dei beni sensibili, che offusca le capacità razionali, ed in modo particolare della lussuria: per questo, per coltivare la saggezza, è necessaria la castità[101]. Ai difetti “giovanili”, però, si oppongono gli eccessi di “prudenza” tipici dei vecchi: essi traggono origine prevalentemente dall’avarizia, da quel surplus di previdenza che tende a conservare e assicurare ansiosamente se stesso e i propri beni[102]. Dunque, per la saggezza si richiede l’esperienza, la memoria e la castità dell’anziano, ma altresì «la freschezza di una giovanile, fiduciosa e per così dire prodiga rinuncia alle riserve di una ansiosa autoconservazione»[103]: è dunque richiesta la virtù del coraggio.


6.               Giustizia

Anche nella trattazione del tema della giustizia prenderemo le mosse da una premessa di carattere concettuale per presentare poi in qualche dettaglio le parti principali di questa virtù.

6.1          Il concetto di giustizia

Pochi termini manifestano una “positività” così forte come il termine “giustizia”. Eppure questo non deve farci dimenticare che non si tratta di un concetto univoco, ma analogo.

 Nella radice del termine è compresa l’idea di una “adeguatezza”, di una “proporzione” o “uguaglianza”, che nell’iconografia tradizionale è ben rappresentata con l’immagine di una bilancia in equilibrio. San Tommaso nota che, nel linguaggio comune, le cose che si adeguano si dicono «aggiustate»[104]. Tutto sta a capire quali siano i termini di questa adeguazione.

Nell’impianto platonico, l’uomo “giusto” è colui che è massimamente adeguato all’idea perfetta di uomo, ossia – potremmo dire – colui che ha realizzato pienamente l’umanità in sé stesso. Platone insegna che la giustizia consiste nell’armonia che si instaura tra la temperanza, la fortezza o coraggio e la saggezza nell’anima dell’uomo buono. Parallelamente, egli considera la città come composta da tre classi sociali: quella dei ceti produttivi (contadini, artigiani e mercanti), in cui prevale l’aspetto concupiscibile e che pertanto devono coltivare la virtù della temperanza; quella dei custodi, in cui prevale la forza irascibile e devono essere guidati dalla fortezza o coraggio; e quella dei governanti, che devono operare secondo la saggezza. Ebbene, la società buona è quella in cui ciascun cittadino opera secondo la virtù che gli è propria, e la giustizia consiste nell’armonico tendere di tutte le componenti sociali al bene comune[105].

Se consideriamo che la regola, la norma di questo ideale dovrebbe essere espressa dalla legge, potremmo dire che la giustizia consiste nella conformità alla legge, come dice Aristotele. Ora, le leggi hanno come fine il bene comune, eppure a volte esse richiedono di praticare anche gli atti delle virtù personali:

«La legge comanda di compiere anche le opere dell’uomo coraggioso, per esempio, di non abbandonare il proprio posto di combattimento, di non fuggire e di non gettare le armi, e quelle dell’uomo temperante, per esempio, di non commettere adulterio né violenza carnale, e quelle dell’uomo bonario, per esempio, di non percuotere e di non fare maldicenza; e così via analogamente anche per le altre virtù e per gli altri vizi, imponendo certe cose e proibendone altre, e ciò rettamente se la legge è stabilita rettamente, ma meno bene se la legge è stata fatta in fretta. Questa forma di giustizia, dunque, è virtù perfetta, ma non in sé e per sé, bensì in relazione ad altro. E è per questo che spesso si pensa che la giustizia sia la più importante delle virtù, e che né la stella della sera né la stella del mattino sano altrettanto degne di ammirazione. E col proverbio diciamo: “Nella giustizia è compresa ogni virtù”. Ed è virtù perfetta soprattutto perché è esercizio della virtù nella sua completezza. Inoltre chi la possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e non solo verso se stesso»[106]

Ora, è proprio questa relazione “all’altro” che conduce Aristotele a riconoscere, accanto a questo concetto generale di giustizia come applicazione di tutte le virtù all’interno della società, anche una giustizia come virtù particolare, che regola la giusta ripartizione dei beni e il loro pacifico scambio tra gli uomini.

Nel mondo latino, la definizione più celebre di giustizia è quella che risale a Cicerone e che viene fatta propria da S. Tommaso: «Un’attitudine in forza della quale, con volontà costante e duratura, si riconosce a ciascuno, il suo diritto»[107].

In questa prospettiva il diritto (ius) appare più originario e fondamentale rispetto alla giustizia (iustitia). Per questo tratteremo prima del diritto (6.2), poi della virtù della giustizia in genere (6.3) ed in specie (6.4), ed infine dei vizi che si oppongono ad essa (6.5).

6.2          Il diritto

Il diritto è un concetto originario, del quale è impossibile dare una definizione nel senso pieno del termine[108]. Possiamo tuttavia descriverlo come un rapporto di consonanza tra un bene e la persona che ne è titolare ed ha pertanto la facoltà morale di pretenderlo come proprio.

Il diritto esprime anzitutto un rapporto particolare tra una persona (o una comunità di persone) e una cosa o prestazione: questa costituisce l’oggetto del diritto o “diritto passivo”, quella ne è il soggetto titolare del “diritto attivo”. Considerato in questa prospettiva, il diritto consiste nella facoltà morale di pretendere una cosa come propria, di possederla, di disporne, di porre una determinata azione o di pretendere una prestazione da altri[109].

 

      Persona (comunità)                                                                 cosa – prestazione

      soggetto di diritto                                                                     oggetto di diritto

      diritto attivo                                                                                diritto passivo

        facoltà morale di pretendere come propria

 

In questo senso è facile capire che possono essere titolari di diritto solo le persone (singole o associate in comunità), giacché solo le persone hanno facoltà morale. Gli animali, ad esempio, non hanno diritti in senso proprio; possiamo riconoscere che noi abbiamo, nei loro confronti, determinati doveri, essi però sono tali sempre in relazione alle persone: le sevizie agli animali ledono la dignità morale del seviziatore stesso, lo sterminio incontrollato di determinate specie lede il diritto delle generazioni umane future ad avere un mondo bello e completo, ecc.

Va poi considerato che, perché esista un diritto, è necessario che vi sia un soggetto (persona o comunità) che pretende ed un soggetto (persona o comunità) a cui la pretesa viene rivolta, in quanto capace di garantire il diritto. In questa prospettiva, il diritto si configura come spazio vitale necessario allo sviluppo della persona.

 

Persona (comunità)                                                               Persona (comunità)

titolare del diritto                                                                 titolare del debito

                                                                                   

   spazio vitale necessario allo sviluppo della persona

 

La società esiste per creare, conservare e sviluppare, col contributo di tutti, le condizioni necessarie perché chiunque voglia,  possa vivere bene e raggiungere il suo fine, la sua perfezione e la sua felicità. Possiamo definire il bene comune come la rete di condizioni in forza delle quali ognuno, se vuole, può raggiungere il suo fine[110]. Le diverse condizioni e situazioni di cui stiamo parlando, da parte loro, costituiscono gli oggetti del diritto: al limite, il singolo potrebbe non avvalersi di esse, e rinunciare a raggiungere il proprio bene, ma non può e non deve operare in modo da danneggiare il bene altrui e il bene di tutti, ossia i loro diritti.

Al diritto di un soggetto corrisponde, per necessità logica, un dovere simmetrico in un altro soggetto.

6.3          Giustizia generale e giustizia particolare

L’uomo giusto è colui che ha un dovere e lo adempie. Dopo aver chiarito il concetto di diritto, possiamo occuparci più da vicino della giustizia come virtù che rende possibile il compimento abituale dei doveri, ossia il rispetto del diritto di ciascuno.

«Lo specifico della giustizia rispetto alle altre virtù è che essa rende ordinato il rapporto dell’uomo con ciò che riguarda gli altri (…), mentre le altre virtù perfezionano l’uomo solo nelle cose che riguardano se stesso»[111].

La giustizia costituisce l’apertura all’alterità in quanto rende ordinato il mio rapporto con il prossimo e i suoi diritti. Ma c’è un duplice modo di intendere questo ordine “all’altro”: posso considerare il prossimo nella sua individualità, oppure posso considerare nel suo insieme la comunità di cui sono parte. Nel primo caso, la virtù della giustizia consiste semplicemente nel dare a ciascuno ciò che gli è dovuto. Nel secondo caso le cose si complicano, giacché io stesso sono parte del tutto verso il quale ho dei doveri; dunque questi doveri riguardano anche me stesso in quanto membro della comunità: il mio bene è ordinabile al bene comune. Ciò significa che anche le mie virtù “private”… non sono poi così “private”!

«Ecco perché il bene di qualsiasi virtù, sia che ordini un individuo in se stesso, sia che lo ordini rispetto ad altri individui, è riferibile al bene comune, al quale è interessata la giustizia. E per tale motivo alla giustizia possono appartenere gli atti di tutte le virtù, in quanto essa ordina l’uomo al bene comune»[112].

Come dicevamo all’inizio del capitolo, Platone ed Aristotele hanno ben presente questa dimensione generale della giustizia, che – come dice S. Tommaso –  «comprende insieme ogni virtù, ed è essa stessa la virtù massimamente perfetta»[113]. Intesa in questo senso, la giustizia diventa una dimensione globale, che non può essere elencata accanto alla fortezza e alla temperanza quale virtù cardinale, in quanto le comprende tutte al suo interno e ne ordina gli atti al bene comune[114].

Ciò non significa, comunque, che la giustizia generale possa sostituire le altre virtù, che sono invece necessarie perché l’uomo sia ordinato direttamente ai beni particolari, sia che riguardino il soggetto stesso (come la temperanza e la fortezza), sia che riguardino i diritti del prossimo inteso – questa volta – come persona altrui: e quest’ultimo è precisamente il compito della giustizia particolare.

In sintesi:

·        La giustizia generale assume tutte le virtù morali (compresa quindi la giustizia particolare) e le dirige al bene comune.

·        La giustizia particolare dà all’altro ciò che gli spetta, tenendo in considerazione il bene comune[115].

L’importanza peculiare della giustizia emerge quando consideriamo il fenomeno dell’obbligazione morale. Certamente tutte le virtù obbligano ad un determinato tipo di comportamento in quanto creano un dovere morale: devo agire in modo saggio, forte, coraggioso, temperante, perché devo realizzare la mia personalità umana, perché devo vivere bene; ho dunque una responsabilità anzitutto nei confronti di me stesso, nell’adempimento di questi doveri; ciò ha evidentemente anche delle risonanze sociali, nella costruzione di una comunità migliore e più umana. La giustizia particolare, tuttavia, aggiunge a questo dovere una specificità nuova: devo agire in modo giusto anche perché nel prossimo c’è un titolo, un diritto che crea in me una responsabilità nei suoi confronti; egli può pretendere da me una certa azione, il mio dovere morale di essere giusto corrisponde ad un debito giuridico nei confronti dell’altro.

Per chiarire questo concetto, confrontiamo due casi diversi di dovere in rapporto al prossimo:

a) Un amico mi ha trattato male, poi si è pentito ed ora mi chiede di accettare le sue scuse; in coscienza so di doverlo perdonare.

b) In un momento di difficoltà finanziaria ho ricevuto un prestito da un amico; ora ho superato la crisi e so di dover restituire il prestito.

Certamente sia nel caso a sia nel caso b percepisco un dovere morale. La differenza sta nel fatto che l’amico del caso a può chiedere il mio perdono, ma non può certamente pretenderlo: non ha un titolo che gli consenta di rivendicare il perdono come qualcosa di dovuto (non a caso la parola “perdono” contiene l’etimo “dono”, che rimanda ad una dimensione di gratuità e di amore): dunque, io ho il dovere di perdonare, ma lui non ha – propriamente parlando – il diritto di essere perdonato. Se non perdono commetto una colpa morale contro l’ordine dell’amicizia, ma non infrango l’ordine della giustizia[116].

Nel caso b, invece, l’amico non ha soltanto la possibilità di chiedermi indietro la somma che mi ha prestato: egli ha un titolo giuridico che gli consente di rivendicare quel denaro come proprio. Dunque io devo restituire il prestito non solo perché gli sono amico, ma perché quei soldi sono suoi e gli spettano. Se non restituisco il prestito infrango l’ordine  della giustizia, oltre a quello dell’amicizia.

Si comprende, quindi, che nelle considerazioni della giustizia le cose esteriori (ad es. le merci che vengono scambiate) e le azioni esteriori (ad es. la prestazione di un servizio a cui sono tenuto per contratto) giocano un ruolo di primo piano[117]. Il rispetto del diritto altrui implica una certa misurabilità: devo potermi chiedere se e in quale misura l’ho rispettato e cosa devo ancora fare o dare per adempierne le esigenze; la materialità dell’azione da compiere e delle cose da dare tende a fissare un riferimento oggettivo.

E tuttavia, alla base dell’azione giusta, dev’esserci il rispetto per la persona altrui, l’attenzione verso di essa, senza la quale la virtù non sussiste. Se in me mancasse il rispetto per la persona altrui, potrei anche porre atti giusti (esternamente conformi al diritto), ma non sarei giusto io! La giustizia, infatti, è virtù della relazione interpersonale; in questa relazione l’azione esterna e le cose esteriori sono l’oggetto immediato del comportamento, ma il rispetto della persona ne è la causa formale.

·        Materia della giustizia sono le cose o le azioni esteriori che costituiscono l’oggetto del diritto e del debito.

·        Forma della giustizia è il rispetto per la persona altrui.

Questa attenzione è chiamata classicamente aequitas ed è parte costitutiva della virtù di giustizia. Più avanti (10.4.3) vedremo che l’equità comprende la retta interpretazione della leggi e, da questo punto di vista, essa si collega in modo particolare con la giustizia generale; qui ci limitiamo a considerarne l’aspetto formale di rispetto ed attenzione all’altro, senza il quale la giustizia non può sussistere. In questo senso le considerazioni dell’equità possono richiedere di superare la rigorosa materialità delle esigenze del diritto: ad esempio possono esigere di rimandare la scadenza di un prestito quando la stretta osservanza dei termini comportasse un grave disagio per il debitore. Una considerazione piatta del diritto senza aequitas si tradurrebbe necessariamente in ingiustizia: summum ius summa iniuria.

6.4          Le parti della giustizia

Da quanto detto, risulta che, per poter parlare di giustizia particolare, è necessario che si realizzino tre condizioni:

a)     Anzitutto è necessario che vi siano almeno due soggetti, l’uno di fronte all’altro: il primo è titolare di un diritto – l’altro del dovere corrispondente.

b)    L’oggetto deve essere un diritto autentico, che crea nel partner un debito giuridico.

c)     Deve esserci la possibilità di dare il dovuto.

Laddove si verificano tutte e tre le suddette condizioni, abbiamo parti soggettive della giustizia: la giustizia commutativa e quella distributiva, che esamineremo nei paragrafi successivi. Se manca qualcuna di quelle condizioni, abbiamo parti potenziali della giustizia: ad esempio – come abbiamo detto sopra (4.3.2.3) – c’è una certa esigenza di giustizia nel dovere di assistere i genitori anziani, giacché essi hanno diritto alla nostra assistenza, avendoci messi al mondo, nutriti ed educati; tuttavia nel rapporto genitori-figli manca la prima condizione, in quanto il legame che unisce i soggetti va oltre la mera relazione di alterità; la virtù che regola questa relazione, ossia la “pietà”, è pertanto solo una parte potenziale della giustizia. Nel caso della gratitudine, per fare un altro esempio, manca la seconda condizione: certamente c’è il dovere morale di essere grati a coloro che ci fanno del bene, in un certo senso essi avrebbero il “diritto” di aspettarsi la nostra gratitudine… tuttavia, se la gratitudine non sorge liberamente, nessuno può rivendicarla sul piano giuridico; anch’essa, dunque, è solo una parte potenziale della giustizia.

6.4.1    Giustizia commutativa

Esaminiamo ora le parti soggettive di questa virtù, cominciando dal suo elemento basilare, che è la giustizia commutativa. La qualifica di “basilare” verte sul fatto che essa è strettamente dipendente dalla relazione “uno-a-uno” in cui i soggetti si incontrano, per scambiarsi (“commutare”) qualcosa (prima condizione della giustizia): il prestito, la permuta, la compravendita, la prestazione lavorativa sono alcuni degli esempi più frequenti di questa relazione.

La dimensione dello scambio rende evidente l’oggetto di diritto e la misura del debito: si tratta di una relazione di dare-avere e bisogna dare esattamente quanto si riceve o si è tenuti a dare. La misura è computabile come un’uguaglianza di tipo aritmetico. Generalmente essa è chiara in partenza, il che rende evidente il dovere di restituzione-risarcimento quando non fosse stata rispettata.

Infatti il diritto rimane anche quando è stata commessa un’ingiustizia. Se ho rubato, ho il dovere di restituire esattamente nella misura in cui ho rubato; se ho danneggiato la proprietà altrui, ho il dovere di risarcire il proprietario nella misura del danno arrecato. S. Tommaso sostiene, a questo riguardo, una tesi apparentemente paradossale: la restituzione sarebbe per eccellenza l’atto della giustizia commutativa[118]. La ragione di ciò è da riscontrarsi nel fatto che, in un mondo segnato da lotte tra interessi contrastanti, l’ingiustizia sembra la condizione più diffusa e – pertanto – la giustizia assume inevitabilmente la connotazione di “riparazione” e “restaurazione” dell’uguaglianza: «Cosicché la struttura dell’atto di giustizia non fa che mettere in evidenza il carattere dinamico della vita collettiva umana. Chiamando “reintegrazione” l’atto fondamentale della giustizia commutativa si vuole infatti significare che non è dato realizzare tra gli uomini uno stato ideale che sia definitivo. Si vuole dire insomma che tutto il susseguirsi storico di “ripieghi”, di soluzioni “non-definitive” e “provvisorie”, di puri e semplici, e sempre nuovi, “miglioramenti” o “ritocchi” appartiene infondo all’intima costituzione dell’uomo e del mondo che lo circonda; e che pertanto ogni pretesa di arrivare a stabilire un ordine imperturbabilmente definitivo è destinata a cadere per forza di cose in seno al disumano»[119].

6.4.2    Giustizia distributiva

La giustizia distributiva regola il rapporto tra la comunità ed i suoi membri, dunque il suo soggetto è il governante, l’amministratore del bene comune. Ciò che viene “distribuito” in questa forma di giustizia è quella porzione di bene comune che tocca al singolo: gli organismi sociali, le categorie professionali ed i singoli, sono tutti in collaborazione tra di loro – col risultato che un popolo, il “tutto sociale”, viene così a disporre di nutrimento, vestiario, alloggio, possibilità di trasporto e di comunicazione, assistenza sanitaria, educazione, scuola, ecc. La giustizia distributiva richiede che tutti questi beni vadano ripartiti e “distribuiti” in maniera equa tra tutti i membri della comunità[120].

Essa viene interpretata comunemente come un comportamento imparziale, equo e appropriato che tiene conto di quel che è dovuto alle persone. In particolare, il concetto di giustizia distributiva è stato sviluppato per risolvere i problemi determinati dalla scarsità di risorse in situazioni di competizione, problemi di natura politica e organizzativa, sia in ordine alla «macroripartizione» (distribuzione delle risorse su larga scala), sia  in ordine alla «microripartizione» (ammissione di determinati soggetti piuttosto che altri a beneficiare di determinate risorse). Per l’uno e per l’altro problema vengono proposti diversi criterî di soluzione.

La giustizia distributiva è stata analizzata da diverse teorie, anche rivali tra loro, le quali però hanno in comune il principio formale aristotelico: gli uguali devono essere trattati in modo uguale, i disuguali devono essere trattati in modo disuguale.

Il problema sta nel determinare chi è uguale e chi disuguale, e come vadano trattate le disuguaglianze.

Sono stati proposti numerosi principî materiali per la giustizia distributiva:

1. «A ciascuno un’uguale quota».

2. «A ciascuno secondo il suo bisogno».

3. «A ciascuno secondo il suo impegno».

4. «A ciascuno secondo il suo contributo».

5. «A ciascuno secondo il suo merito».

6. «A ciascuno secondo gli scambi di libero mercato».

Alcuni autori contemporanei ritengono che ciascuno di questi principî materiali specifichi dei doveri prima facie: essi si pongono come istanze che obbligano in ogni occasione, a meno che non entrino in conflitto con doveri più forti o uguali; per cui, il dovere effettivo di un soggetto viene ad essere determinato dal bilancio tra i pesi di istanze prima facie contrapposte[121].

I principî materiali specificano quali proprietà un soggetto deve presentare per beneficiare di una certa parte di risorse. Molti si mostrano scettici sulla necessità (e sulla stessa possibilità) di aderire ad un unico criterio: «Non esiste alcun chiaro ostacolo all’accettazione di più di uno di questi principî, e alcune teorie della giustizia li considerano tutti e sei validi»[122].

Sono state elaborate diverse teorie della giustizia distributiva, allo scopo di specificare i diversi principî, regole e giudizî, e di renderli coerenti: esse tentano di «stabilire un collegamento tra le caratteristiche delle persone e le distribuzioni moralmente giustificabili di benefici ed oneri»[123].

Non è questa la sede per approfondire i diversi modelli a disposizione per intendere tale giustizia. Ci basti notare che essi hanno senso solo se e nella misura in cui colgono l’essenziale di questo tipo di giustizia, che è l’attenzione alla persona ed alla sua dignità. Questa è anzitutto una base oggettiva, uguale per tutti, pertanto è giusto che a ciascuno sia garantita una quota di beni essenziali che deve essere uguale per tutti (principio 1); e laddove essa è minacciata, c’è bisogno di un’attenzione peculiare perché non vada perduta (principio 2). Tuttavia c’è una dignità ulteriore che si accresce mediante l’impegno soggettivo (principio 3), il contributo oggettivo al bene comune (principio 4), la speciale qualificazione per un ufficio (principio 5): è necessario che queste differenze vadano riconosciute e adeguatamente premiate. Una volta assicurato ciò, deve comunque essere garantito un margine “libero”, nel quale possano avvenire gli scambi di carattere contrattuale, regolati dalla giustizia commutativa (principio 6).

6.5          L’ingiustizia

Come abbiamo già avuto modo di dire (cfr. 4.3.2.3), l’ingiustizia è il vizio per eccellenza: è la perversione della volontà stessa. E siccome la volontà interagisce sempre con la ragione ed è in grado di condizionarla profondamente, l’ingiusto è incline a considerare “buono” ciò che è ingiusto.

Questo è chiaro se si considera la giustizia generale che, comandando gli atti di tutte le virtù, le sostiene e le coordina; pertanto, quando manca la giustizia generale, mancano per ciò stesso le virtù in quanto tali.

Ma un discorso analogo va fatto anche a proposito della giustizia particolare, ossia del rapporto al diritto dell’altro. Il diritto è ciò che spetta all’altro; chi trattiene per sé quel che dovrebbe dare, chi sottrae all’altro ciò che gli appartiene, finisce – in ultima analisi – col danneggiare se stesso, col pervertire la propria volontà e cioè la propria persona nel suo nucleo più intimo: diventa ingiusto, diventa “inadeguato” alla dignità umana che è in lui, si preclude la strada per sviluppare la propria personalità in modo retto[124]. Questo è il motivo per cui Socrate insistette tanto nell’affermare che il più grande dei mali non è ricevere ingiustizia, ma farla:

«Io non preferirei né l’una né l’altra cosa; ma, se fosse necessario o fare o ricevere ingiustizia, sceglierei piuttosto il ricevere che non il fare ingiustizia (…). Io affermo, Callicle, che non l’essere ingiustamente schiaffeggiato, né l’essere ferito o derubato è la cosa più brutta, ma che più brutto e peggiore è percuotere e offendere ingiustamente me e le mie cose; e che ridurre in schiavitù e scassinare le case, e, in breve, commettere qualsiasi ingiustizia contro me o contro le mie cose, per chi la commette, è cosa peggiore e più brutta che per me che la ricevo»[125].

L’ingiustizia ha la sua origine in una egoistica ricerca del proprio bene e nella conseguente chiusura al riconoscimento del bene altrui. Spesso nasce dall’intemperanza, che conduce a soddisfare i propri desideri senza considerare il torto che altri possono subirne, altre volte ha la sua origine in mancanze di coraggio o di fortezza. Ma c’è un tipo speciale di ingiustizia, oggi assai diffuso, che è generato dalla mancanza di saggezza. La giustizia, infatti, presuppone la verità: verità del diritto, verità del dovere, verità della restituzione; nella saggezza la verità delle cose si traduce in decisione. Quando si perde il rapporto con la verità, non viene nemmeno posto il problema di capire se qualcuno ha diritto a qualcosa oppure no, se si è fatto un torto oppure no, e qui l’ingiustizia raggiunge un livello profondamente disumano[126].


7.               Fortezza o coraggio

Il fatto stesso che nel titolo dobbiamo ricorrere a due termini, anziché uno, per designare la virtù in questione, rende evidente la necessità di cominciare anche questa trattazione da un chiarimento terminologico e concettuale (7.1), che ci introdurrà ad affrontare gli aspetti culturali di questa virtù nel tempo presente (7.2). Considereremo poi il rapporto essenziale tra questa virtù e la vulnerabilità (7.3), ed infine presenteremo gli atti della fortezza, ossia la sopportazione del male e l’aggressione contro di esso (7.4).

7.1          Terminologia

Nelle lingue moderne, il termine “fortezza” ha un chiaro riferimento alla forza fisica, al vigore, all’energia[127]. A partire da qui esso si psicologizza e passa ad indicare la costanza dell’animo, soprattutto di fronte alle fatiche e ai pericoli, e si esprime come coraggio (7.1.1), tenacia (7.2.1) e magnanimità (7.2.3).

7.1.1    Il coraggio

In greco questa virtù è chiamata andréia: se volessimo tradurre letteralmente il termine, dovremmo dire “virilità”: la virtù con la quale si agisce “da uomo”, il cui vertice è segnato dalla fermezza d’animo di fronte alla morte in battaglia: «Forte è colui che è risoluto a restare al suo posto nel combattere i nemici, senza fuggire davanti al pericolo»[128]. Ovviamente una terminologia come questa mostra chiari limiti, legati ad una cultura essenzialmente maschilista e bellicosa. In realtà le donne non devono essere meno coraggiose e forti degli uomini, e i fatti testimoniano che in alcuni casi riescono ad esserlo anche di più!

Comunque, Platone fa un passo avanti nella determinazione di questa virtù, definendola come «la scienza di ciò che si deve temere e non temere»[129]. Questa  definizione ha alcuni limiti precisi, ma anche un pregio essenziale. I limiti sono anzitutto quelli dell’intellettualismo socratico, giacché chiama «scienza» quella che è una virtù morale e non intellettuale (cfr. 4.3.1); inoltre bisogna chiarire il senso dell’espressione «si deve»: Aristotele fa notare che potrebbe ingenerarsi una confusione tra il coraggio propriamente detto e  la perizia di colui che, come il soldato mercenario, discerne facilmente i falsi allarmi e non li teme: costui però, di fronte ad un pericolo reale che sarebbe doveroso affrontare, ordinariamente è il primo a fuggire![130] Il pregio della definizione platonica, comunque, è quello di stabilire un confine tra ciò che «si deve» temere e fuggire, e ciò che «non si deve»: si deve temere e fuggire il disonore, non si deve temere il sacrificio eroico della propria vita. È quindi necessario che il coraggio – come ogni virtù – sottostia al comando della saggezza, che prescrive di fuggire certi mali, ma anche di preferire determinati beni al punto di sopportare qualche male pur di conseguirli, evitando la tentazione della fuga.

7.1.2    La tenacia e la pazienza

Affine a questa virtù c’è la fermezza dell’uomo di carattere davanti alle difficoltà. I latini l’hanno denominata perseverantia, ma noi potremmo tradurla meglio con “tenacia”, termine che implica una certa durezza, una resistenza nel tempo, nell’applicazione prolungata ad una cosa difficile. Va da sé che la tenacia presuppone il giudizio della saggezza circa l’opportunità di perseverare in un certo tipo di azione, e pertanto si oppone alla “pertinacia”, ossia alla “tenacia impudente” di colui che è testardamente ostinato nel perseverare nella propria opinione più del dovuto, per cocciutaggine o per orgoglio. Se la pertinacia è un eccesso di tenacia, il suo difetto sarà la “mollezza”, termine che potremmo rendere anche con “fiacchezza” o “fragilità”: la disposizione a cedere al minimo urto, ad abbandonare il bene per la pena causata dalla mancanza di soddisfazione[131].

La perseveranza implica la virtù modesta e quotidiana della “pazienza”, ossia della capacità di sopportare senza turbamento le inevitabili sofferenze connesse con l’impegno diuturno per il bene; va comunque precisato che «chi è forte è anche paziente, ma non viceversa: infatti la pazienza è solo una parte della fortezza»[132]. Chi è forte non solo è capace di sopportare “passivamente” i mali che gli capitano: quando è necessario è addirittura disposto ad agire “mettendosi nei guai”, per così dire.

7.1.3    La magnanimità

In senso positivo la fortezza o coraggio richiede la capacità di “pensare in grande”, di formulare propositi impegnativi e di perseguirli con energia e decisione. Questa virtù è stata chiamata “magnanimità”: «una tendenza dell’animo verso grandi cose»[133], verso il bene difficile contro il male facile; un desiderio di eccellenza che si misura con l’intraprendere le cose migliori, o col compiere in modo eccellente tutte le cose, anche piccole. L’impegno della saggezza nella magnanimità è evidentemente assai importante: essa consente di evitare gli eccessi costituiti dalla sopravvalutazione delle proprie forze (presunzione), dall’ambizione disordinata e dalla vanagloria; ma anche il difetto costituito da quella piccineria d’animo (“pusillanimità”) che porta a sottovalutarsi e a rifiutarsi di tendere a ciò che, pur essendo difficile, è tuttavia proporzionato alle proprie forze.

È necessario riflettere sul vizio della pusillanimità (qualcuno l’ha ben dipinta come l’illusione di un’aquila che si crede un pollo), che si manifesta nella dispersione in tante cose piccole a detrimento di quelle importanti, nella litigiosità che porta a discutere di tutto, nell’attribuire rilevanza ad ogni inezia, perdendo di vista i fini degni di essere perseguiti.

7.2          Aspetti culturali

Se esaminiamo la letteratura classica e moderna, fino al Romanticismo compreso, possiamo notare che la virtù della fortezza è forse la più esaltata e raccomandata; al punto che si è sostenuto che la poesia e le arti figurative siano state inventate per celebrare le imprese dei forti e porle ad esempio delle generazioni future[134].

In tempi più recenti, tuttavia, è emerso un atteggiamento “decadente”, che esalta la viltà e la pusillanimità e deride il coraggio dei forti. È suggestiva la spiegazione di questo fenomeno data da J. Pieper[135]: l’uomo borghese della civiltà industriale ritiene di aver spiegato il mondo, si sente come a casa sua nell’universo e non sembra in grado di comprendere che l’esistenza implica una lotta contro il male, nella doppia dimensione della colpa e della pena, ossia nel male che noi facciamo e in quello che subiamo.

Dall’ideologia del progresso, dal mito di una crescita indefinita verso orizzonti sempre più luminosi, è scaturito un ottimismo ottuso e disincantato, fondato sulla presunzione di poter risolvere ogni male con la tecnica. Il benessere realizzato nelle società industriali ha abituato gli uomini all’abbondanza e alla comodità, rendendoli sempre più dipendenti dal piacere e dal comfort, incapaci di rinuncia, incapaci di sopportare le minime privazioni e i minimi disagi. Una società “molle” è necessariamente “impaziente”: nella mentalità spregiudicata dei nostri contemporanei, c’è un tabù che ha sostituito tutte le proibizioni e le paure ancestrali: il tabù della sofferenza. Alcuni giovani si ribellano – in modo atematico e forse inconsapevole – a questo appiattimento, martoriando il proprio corpo con piercing e tatuaggi, coniando un’estetica della bruttezza e del disfacimento, conducendo una vita durissima e disperata da punkabbestia. Ma la cultura ufficiale finge di ignorare questi messaggi e dichiara la sua guerra a quello che sembra ormai l’unico male reale, il dolore fisico, cercando di sopprimere la sofferenza con i farmaci (abuso di analgesici, antidepressivi, ansiolitici, ecc.) o – laddove questo è impossibile – arrivando alla soppressione del sofferente stesso, con l’aborto eugenetico e l’eutanasia.

La mollezza e l’impazienza della nostra cultura assumono come unico criterio dell’azione il soddisfacimento immediato dei bisogni: è la ricerca del piacere effimero, il carpe diem oraziano a guidare le scelte. Ciò si esprime in una pusillanimità di fondo: l’ideale supremo a cui si tende non è la virtù o la felicità ma, molto più banalmente, il divertimento ed il consumo. Il vizio viene favorito pubblicamente, al punto di essere addirittura «adorato»[136].

Ma l’entusiasmo per la scienza e la tecnica, che fino a qualche decennio fa sembrava “inossidabile”, sta lasciando il posto ad un inquietante pessimismo: lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali – funzionale alla cultura del consumo – ha condotto l’umanità «sull’orlo dell’abisso». Fenomeni come il buco dell’ozono e la catastrofe climatica conseguente, l’avvelenamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, inducono a ripensare il nostro rapporto col tempo: non possiamo continuare a pensare a breve termine, dobbiamo avere il coraggio di affrontare le nostre responsabilità per il futuro, dobbiamo recuperare la capacità di “pensare in grande”, di una rinnovata “magnanimità”.

Il senso diffuso di disagio dell’umanità post-moderna ha trovato una prima e chiara espressione nella “svolta ecologica” della nostra cultura: sta emergendo la consapevolezza che il nostro agire produce effetti irreversibili e che quindi non ci si può muovere sulla base del puro impulso del piacere possibile. «La filosofia può contribuire a far sì che nell’educazione venga sviluppato un senso che faccia prevedere gli effetti a lunga scadenza dell’agire umano sul delicatissimo equilibrio fra pretese umane ed efficienza della natura»[137]. Questo, oggi, significa concretamente impegnarsi da filosofi per una riflessione ed una prassi autentica della virtù della fortezza.

Nelle epoche passate l’appello alla fortezza “terrena” risuonava potentemente quando un popolo era in pericolo e i giovani si mobilitavano per difendere la patria, pronti a morire per essa; la disponibilità al sacrificio supremo, ovviamente, portava con sé la prontezza ad affrontare ogni sorta di difficoltà. Nel cristianesimo delle origini, la fortezza era la virtù dei martiri che davano la vita per la fede; ma anche degli asceti che, per amore della vita eterna, si sottoponevano ad un regime di vita estremamente impegnativo. Il recupero di questa virtù nelle circostanze odierne, probabilmente, può essere favorito dalla consapevolezza della responsabilità verso il pianeta e l’umanità futura: possiamo sperare che una sana “paura” davanti alla catastrofe prevista, faccia nascere il “coraggio” di cambiare i nostri stili di vita molli e pusillanimi e ci induca ad acquisire abitudini forti, maggiormente degne dell’umanità che è in noi.

Possiamo sperare che, anche sul piano estetico, si abbandoni il piagnisteo crepuscolare sui propri “piccoli dolori” e torni a risplendere la bellezza morale del coraggio[138], ad onta delle facili ironie risentite dei vili.

7.3          Fortezza e vulnerabilità

Chi ha meditato sino in fondo sulla fortezza e sul coraggio sarà immune dalla tentazione di considerarle virtù “titaniche”: al contrario, esse presuppongono la vulnerabilità[139]: se uno non potesse essere ferito, non avrebbe bisogno di essere forte! Forte è colui che ha la capacità di accettare una ferita, sia in senso fisico, sia in senso morale; e per “ferita” intendiamo qui ogni danno inferto alla nostra integrità, tutto ciò che causa dolore, angoscia, oppressione, e che trova il suo vertice nella morte.

La vulnerabilità presuppone, nel concetto, una “debolezza” di carattere ontico. La virtù della fortezza assume tale debolezza e la supera sul piano morale. Risultano illuminanti, a questo proposito, alcuni racconti circa il martirio di giovani cristiane, che possono essere letti con profitto, in spirito di ricerca fenomenologica, anche da chi non condivide questa fede. Si pensi, ad esempio, ad una nota pagina di S. Ambrogio in cui si riflette sul martirio di Agnese, una bambina di dodici anni:

«Ma vi fu posto in quel corpicino per un colpo di spada? E colei, nella quale la spada non trovò posto per colpire, ebbe la forza di vincere la spada. Eppure le fanciulle di tale età non sono nemmeno in grado di sopportare lo sguardo severo dei genitori e sono solite piangere per delle superficiali punture d'ago, come se fossero delle ferite. Costei non teme le mani avide di sangue dei carnefici, è immobile ai violenti strattoni delle catene striden­ti  ora offre il corpo alla spada del soldato furente, ancora ignara della morte (…). Realizzò pienamente il magistero della virtù, lei che portava con sé il pregiudizio dell’età»[140].

È chiaro che la ferita non è accettata per se stessa, come se fosse un bene: un “amore della sofferenza” sarebbe contraddittorio, sarebbe patologia. La ferita è subita, anche di buon grado, ma solo perché fuggendo di fronte ad essa si subirebbe un danno peggiore: la sofferenza accolta – in quella determinata circostanza – consente di conservare un’integrità di carattere diverso e più profondo.

Abbiamo già detto che il forte non disprezza la vita, anzi la ama profondamente: sicuramente più di quanto non la ami il pavido. Ma è un amore che risiede non soltanto nella sensibilità, che è inclinata alla conservazione di sé, bensì anche nelle forze morali della razionalità. Tutto ciò si estende a quanto è compreso nell’integrità della persona: la gioia, la salute, il successo… L’uomo forte riconosce che essi sono beni, li ama e li ricerca naturalmente; e tuttavia è disposto a subirne la privazione, per non dover rinunciare a beni più alti, la cui perdita sarebbe una ferita assai più grave.

Ciò significa che è veramente coraggioso chi conosce la paura dell’uomo naturale e la supera non per un istintivo ottimismo («la fortuna aiuta gli audaci»), non per una fiducia presuntuosa sulle proprie capacità, non perché teme di “perdere la faccia” ed essere ritenuto vile, ma perché il richiamo del bene maggiore è più forte.

Sinteticamente potremmo dire che «l’essenza della fortezza consiste nell’accettare le ferite nella lotta per la realizzazione del bene»[141]. In questa prospettiva non viene ricercata né la morte né la ferita, e neppure il pericolo: ciò che si vuole è soltanto la realizzazione del bene ragionevole. Da ciò consegue che si può definire virtuosa solo la fortezza di colui che è guidato dalla saggezza e dalla giustizia.

In questa prospettiva si comprende che la fortezza o coraggio non si oppone solo alla viltà o paura, ossia al timore eccessivo e disordinato. Anche l’insensibilità al timore è un vizio.

«Può capitare – dice S. Tommaso – che uno tema la morte e gli altri mali temporali meno del dovuto, perché ama i beni suddetti meno del dovuto»[142].

E ciò accade per motivi diversi. Si potrebbe pensare, ad esempio, che il suicidio sia un atto estremo di coraggio; in realtà, proprio il suo essere “estremo” ne mostra il carattere vizioso e contraddittorio:

«Quelli che si uccidono lo fanno per amore della propria carne, che vogliono liberare dalle angustie presenti»[143].

Vi sono poi altri che mostrano insensibilità al timore perché pensano che a loro non possano capitare i mali che le persone sagge temono: chi guida l’auto in modo spericolato, ad esempio, è convinto che gli incidenti accadano solo agli altri! Alla radice di questi atteggiamenti c’è spesso la superbia e la presunzione; altre volte c’è la pura e semplice stoltezza: Aristotele parla dei barbari che non temono «né terremoto né flutti» perché non sono in grado di riconoscerne la temibilità[144].

Il peggiore eccesso d’audacia, tuttavia, è quello di chi non teme di compiere il male: il bandito che compie crimini efferati, il guerriero crudele, il terrorista suicida potranno pure apparire coraggiosi ad alcuni, ma questa “apparenza” non è altro che corruzione della vera virtù, e la corruzione delle cose migliori è la cosa peggiore (corruptio optimi pessima).

In sintesi: consapevole della propria vulnerabilità, chi è realmente coraggioso è autenticamente “prudente”: non si lancia nel pericolo senza prima riflettere e discernere saggiamente se sia necessario. E, d’altra parte, «l’uomo non espone la sua persona al pericolo di morte se non per salvare la giustizia. Perciò la lode della fortezza dipende in qualche modo dalla giustizia»[145].

7.4          Aggressività e sopportazione

Parlando delle passioni (v. sopra, 3.2), abbiamo detto che il timore nasce davanti al male previsto; se invece il male è presente, le passioni che ne scaturiscono sono la tristezza o la collera.  L’uomo forte è colui che riesce a gestire in modo retto queste passioni, sopportando la giusta misura di tristezza e aggredendo con la giusta misura di collera.

Non rattristarsi del male significherebbe non amare il bene, essere pericolosamente insensibili. Essere forti (nella dimensione della pazienza) significa non perdere la pace interiore anche in presenza di una grande tristezza; significa conservare la lucidità mentale evitando lo smarrimento del cuore e la depressione, pur soffrendo intensamente. Come sempre la virtù sta nel giusto medio: non nell’eccesso o nell’assenza di tristezza, ma nella misura richiesta dal male presente e compatibile con le esigenze di un saggio e composto dominio di sé.

Molto giustamente S. Tommaso afferma che la sopportazione è l’atto principale della fortezza[146]: l’essenza di questa virtù, infatti, si mostra nella sua interezza laddove al soggetto non si offrono alternative percorribili, e bisogna semplicemente farsi animo e resistere fino alla fine. La sopportazione, tuttavia, non va intesa in senso puramente passivo: «Il resistere implica una grande attività spirituale e cioè un attenersi al bene aggrappandovisi con ogni energia; e soltanto in questa generosa attività trova alimento la forza per la sofferenza corporale e spirituale dovuta alla ferita e alla morte»[147].

Il forte, però, non si limita a sopportare il male: se è sensatamente possibile, egli lo aggredisce con tutta l’energia necessaria, coraggiosamente, con fiducia nelle risorse autenticamente disponibili e con la speranza di riuscire. A questo proposito S. Tommaso ribadisce che il forte assume l’ira, la collera nel proprio assalto, «poiché è proprio dell’ira scagliarsi contro ciò che la rattrista; e quindi nell’aggredire coopera direttamente con la fortezza»[148]. Si deve qui tener presente che l’ira non è di per sé né vizio né virtù, ma passione: diventa viziosa quando precede la scelta della volontà, diventa virtuosa quando l’azione che ne deriva è deliberata e ordinata al debito fine[149].

Queste considerazioni dovrebbero portarci a rivedere i modelli borghesi di comportamento, centrati su una mediocrità smidollata, su una rassegnazione passiva e priva di incisività nel mondo reale. La considerazione classica della fortezza rappresenta un ideale al tempo stesso saggio e giovanile, vitale e ragionevole che può e deve esercitare un fascino rinnovato sulla nostra formazione.


8.               Temperanza

Anche per la quarta virtù cardinale, nel contesto odierno, si pone una urgente questione terminologica, che dobbiamo affrontare prima di ogni altra specificazione (8.1). Considereremo poi l’essenza di questa virtù in se stessa (8.2), e la sua importanza per l’integrazione personale (8.3).

8.1          Terminologia

Il termine “temperanza” appare decisamente fuori moda. La “cultura” della trasgressione sembra porsi come scopo proprio la distruzione di questo concetto, inteso come regolatezza, misura, moderazione, morigeratezza. Mai come in questo campo, la virtù appare come “freno”, ossia inibizione, repressione dei desideri: il “temperante” viene dipinto come un “tiepido”, uno che non è capace di grandi passioni e, pertanto, nemmeno di godere.

Ora, certamente la radice del termine latino temperantia si ricollega al verbo temperare e quindi al sostantivo temperatura: si dicono “zone temperate” quelle caratterizzate da un clima né troppo caldo né troppo freddo. Ma di qui a concludere che la temperanza sia tiepidezza, ce ne corre! C’è infatti un’altra radice verbale che ci aiuta assai di più a comprendere il senso della quarta virtù, ed è temprare, dal sostantivo tempra, che indica durezza, resistenza: un materiale (ad esempio il vetro o l’acciaio) si dice “temperato” quando è stato sottoposto ad un trattamento termico che l’ha reso indeformabile. In quest’ambito semantico va inteso il termine temperamento, che indica le disposizioni connaturate e, in certa misura, non modificabili che formano la base del carattere, e viene utilizzato (come, per altro, il termine stesso di “carattere”) per indicare una particolare energia personale: «È dotato di molto temperamento, è una persona di carattere».

Il termine greco che designa questa virtù, d’altronde, è sophrosýne, ed indica una dimensione assai più vasta: nel suo senso letterale dice «assennatezza ordinatrice»[150], si tratta di un “con-temperare” le diverse parti in una compagine armonica e ben disposta. In latino, la temperatio è propriamente questa disposizione proporzionata (ad esempio, negli strumenti musicali l’accordatura “temperata” è quella che riduce di alcuni commi i semitoni per rendere corrispondenti le note di ottave differenti) ed il temperator è colui che ordina e governa.

Ora, la funzione “temperatrice”, nell’essere umano, è svolta dalla ragione; gli elementi che vanno “con-temperati” sono – evidentemente – i desideri che scaturiscono dalle nostre inclinazioni naturali:

«La natura inclina ciascuno a ciò che è per lui conveniente. Quindi per natura l’uomo desidera il piacere che a lui si conviene. Ma siccome l’uomo, in quanto tale, è razionale, è chiaro che i piaceri sono convenienti all’uomo se sono ragionevoli. E la temperanza non ritrae da questi piaceri, bensì da quelli che sono contrari alla ragione. Perciò è evidente che la temperanza non contrasta l’inclinazione della natura umana, ma si accorda con essa»[151].

Da ciò consegue che la temperanza può essere detta “virtù” solo nella misura in cui procede dalla regola della virtù della ragione, la saggezza. Chi rifuggisse dai piaceri per costituzione temperamentale o per qualche inibizione psicologica, potrebbe anche avere un comportamento esterno materialmente “temperante”, ma non ne possiederebbe la virtù[152].

8.2          Essenza della temperanza

La temperanza consiste dunque in una moderazione razionale delle azioni e delle passioni umane. La sua essenza si coglie bene se la confrontiamo con la fortezza: entrambe hanno a che fare con le passioni, ma – come abbiamo visto (cfr. 3.2) – queste possono ricondursi a due radici fondamentali: la repulsione e l’attrazione.  La repulsione sorge davanti a ciò che è percepito come spiacevole: la paura, la tristezza e la collera sono le sue espressioni fondamentali; per non lasciarsi vincere da esse, nel tendere al vero bene secondo ragione, è necessaria – come sappiamo – la virtù della fortezza o coraggio. L’attrazione, viceversa, ha per oggetto tutto ciò che è percepito come gradevole: il desiderio e il godimento sono le sue espressioni fondamentali; la temperanza consente di gestire razionalmente queste dimensioni e di respingere ciò che attrae i sensi in una direzione contraria a ciò che detta la ragione.

S. Tommaso, nel suo trattato su questa virtù, non si stanca di ripetere che i beni sensibili e corporali, considerati in se stessi, non ripugnano affatto alla ragione, ma piuttosto sono a suo servizio, come strumenti di cui la ragione si serve per raggiungere il proprio fine, che è la vita buona e felice. Perciò il compito di questa virtù non è reprimere il male, ma regolare (temperare) il desiderio del bene[153].

Ora, tra i beni desiderati, quelli che hanno maggiore forza attrattiva sull’appetito sensibile sono quelli che attengono alla conservazione della vita dell’individuo (mangiare, bere) e della specie (accoppiamento). Certamente c’è in noi un istinto naturale al godimento sensibile, nel piacere del mangiare e del bere e nel sesso: si tratta del riflesso delle più potenti forze di conservazione dell’uomo. Ora, queste energie, proprio perché sono così strettamente congiunte al più radicale impulso dell’essere umano, quando degenerano egoisticamente, sopraffanno nella loro irruenza tutte le altre forze dell’uomo[154].

Dunque la temperanza avrà il suo campo principale in questi settori: la continenza nel mangiare, la sobrietà nel bere e la castità sessuale sono le forme primarie della temperanza. E tuttavia l’esigenza di moderazione che essa veicola ha – per così dire – uno spessore più profondo: in tutti gli ambiti dell’agire umano, infatti, si richiede che i desideri siano “temperati” secondo ragione: ad esempio l’orgoglio istintivo dev’essere moderato dall’umiltà, il bisogno naturale di vendicare l’ingiustizia richiede di essere controllato dalla mitezza e dalla mansuetudine, l’inclinazione naturale alla conoscenza dev’essere disciplinata dalla studiosità per evitare di degenerare in mera curiosità. A partire da queste considerazioni si capisce perché la temperanza è una virtù cardinale, in quanto la sua attività è richiesta in tutte le dimensioni virtuose della persona[155].

Il fine della temperanza – per altro comune a tutte le virtù, ma attribuito ad essa per eccellenza – è quella serenità che S. Ambrogio chiama tranquillitas animi[156]: «Non si tratta di una tranquillità puramente soggettiva (Goethe stesso, acutamente, la distingue dalla pace spirituale), non si tratta neppure di quella placidità soddisfatta, che può accompagnarsi con l’angusto orizzonte di una vita facile e comoda. Tanto meno poi essa raffigura il “quieto vivere”, né l’apatia fredda e inerte dello spirito. Tutte queste cose non oltrepassano la superficie di una vita intellettuale e spirituale. Ma si tratta della pace che pervade la parte più intima dell’uomo: essa è il sigillo e il frutto dell’ordine»[157].

La temperanza consente di conservare se stessi, per potersi donare in modo libero e altruistico; viceversa l’intemperanza è un atteggiamento egoistico che – paradossalmente – approda all’autodistruzione del soggetto. Ciò può essere compreso se si riflette sul fatto che l’equilibrio interiore dell’uomo non è un fatto statico, ma dinamico. Le inclinazioni naturali che hanno il compito di conservarne l’esistenza, sono anche le stesse che, se disordinatamente assecondate, possono portare all’autodistruzione: «Oggetto della temperanza sono quelle cose che maggiormente possono turbare l’animo, giacché sono essenziali all’uomo»[158].

Ma forse ci si chiede: come mai le potenze di auto-conservazione possono mutarsi in energie di auto-distruzione? La risposta dev’essere cercata nel dinamismo proprio della volontà umana: questa – come abbiamo visto sopra (4.3.2.5) – è fatta non per restare centrata su se stessa, ma per auto-trascendersi e aderire al bene in quanto tale: è dotata di un’apertura all’infinito. Ora, i beni che attraggono i nostri appetiti sensitivi, proprio per la loro natura “sensibile”, sono necessariamente finiti, per numero e per durata; e non è possibile appagare un desiderio infinito con la giustapposizione di soddisfazioni finite![159] La temperanza consente di non fissarsi sul particolare e di conservare rettamente l’apertura al bene della ragione.

8.3          Virtù dell’integrazione personale

La temperanza si pone dunque come virtù dell’integrazione della vita corporea, dei suoi desideri e dei suoi piaceri, nella dimensione globale della vita personale. Per comprenderla adeguatamente è utile riproporre alcuni temi di antropologia fondamentale che ci introdurranno ad una visione etica più consapevole delle scissioni tra il corpo, con i suoi desideri, e la persona (8.3.1), per recuperare il concetto di virtù in modo più consapevole (8.3.2).

 

Excursus 1. – Panoramica storico-filosofica sulla corporeità

Nella storia del pensiero possiamo riscontrare, molto schematicamente, due posizioni fondamentali circa l’essere dell’uomo, che hanno profondamente influenzato l’etica: il monismo tendenzialmente materialista, e il dualismo tendenzialmente spiritualista.

A. Monismo materialista

Che l’uomo esista corporeamente è evidente a tutti. La tesi monista materialista afferma che egli esiste solo come corpo materiale. Questa posizione è teorizzata esplicitamente sulla scia dell’evoluzionismo positivistico, a partire dal sec. XIX. Tuttavia i suoi presupposti sono presenti fin dall’antichità, nel pensiero degli atomisti come i greci Democrito (V sec. a.C.) ed Epicuro (ca. 342-270 a.C.), ed il latino Lucrezio (ca. 99-55 a.C.);  ritroviamo questo atteggiamento nel medioevo e nel primo rinascimento ad opera degli averroisti latini; esso dilaga nella modernità soprattutto con Hobbes (1588-1679), attraverso gli illuministi, per trovare le espressioni teoreticamente più articolate nella sinistra hegeliana, fino a Marx e i neo-marxismi.

Nell’esistenzialismo di J. P. Sartre (1905-1980), l’uomo e il corpo sono la stessa identica cosa: non c’è esperienza, non c’è relazione che non sia esclusivamente corporea. Il pensiero radicale fa del materialismo un messaggio di liberazione: H. Marcuse (1898-1979) crede di trovare nella riappropriazione del corpo, che deve diventare luogo del gioco e del piacere, il grimaldello per scardinare l’organizzazione borghese della società, fondata sul lavoro dipendente e sul matrimonio. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo le posizioni del femminismo storico (es. S. de Beauvoir, 1908-1986), con le sue battaglie per la liberazione sessuale, la contraccezione, l’aborto, ecc.. Si noti che il materialismo di queste posizioni è un presupposto dato per scontato e quasi mai discusso teoreticamente; ciò ha fatto parlare di “ideologie materialiste” piuttosto che “filosofie”.

B. Dualismo spiritualista

Non ostante le mode culturali, l’evidenza di una realtà pienamente umana e non riducibile alla materia non ha mai tardato a imporsi nella storia del pensiero. Nell’uomo vi sono attività di ordine materiale, come la nutrizione, l’accrescimento ecc., spiegabili facendo ricorso ad un principio dello stesso ordine; ma vi sono anche attività di ordine superiore, come la conoscenza delle idee universali, la libertà, la capacità di amare in senso spirituale. Se ogni effetto presuppone una causa che gli sia proporzionata, è evidente che si deve ammettere nell’uomo un principio di ordine spirituale.

Nel tentativo di comprendere il rapporto tra la componente materiale e quella spirituale dell’uomo, la via più banale consiste nel concepirli come due sostanze una accanto (o “dentro”) l’altra, in modo dualistico. L’esempio classico di questo dualismo è ravvisabile nel pensiero di Platone, il quale considera l’unione tra anima e corpo come del tutto accidentale ed, anzi, frutto di una “caduta originale”, per cui il corpo costituisce una sorta di prigione per l’anima. La concezione dualista, pur attenuata da pensieri “unitari” quali l’aristotelismo,  non scompare mai dalla storia del pensiero, e riemerge prepotentemente nell’epoca moderna. È nota la posizione di Descartes (1596-1650), il quale sostiene che l’uomo è costituito di due “cose”: la res cogitans, ossia lo spirito pensante, e la res extensa, ossia il corpo, organizzato in tutto e per tutto come una macchina. L’uomo è dunque - potremmo dire banalizzando - un automa in cui abita un angelo. Il contatto tra queste res è assai difficilmente comprensibile: Descartes ipotizza che esso avvenga nella ghiandola pineale, l’epifisi, ma non si riesce a capire come avvenga che la materia “tocchi” lo spirito. Malebranche (1638-1715) pensa che Dio intervenga volta per volta, in occasione di una sensazione corporea, a comunicare all’anima l’idea corrispondente. La soluzione data da Leibniz (1646-1716) è invece quella di un’armonia prestabilita, posta da Dio creatore (il Dio “orologiaio”), tra le sensazioni del corpo e i pensieri dell’anima.

Purtroppo c’è da dire che il dualismo spiritualista ha in varia misura inficiato il pensiero dei cristiani: mediante il platonismo, con il corredo di disprezzo per il corpo che ha influenzato tanta parte dell’ascetica, ed il cartesianismo, che ha condotto a concepire estrinsecamente il rapporto tra anima e corpo, con gravi conseguenze. Il platonismo ha condotto ad una visione distorta della sessualità, considerata come una realtà negativa e “peccaminosa” in se stessa. Il cartesianismo ha veicolato una visione “disincarnata” del cristianesimo, sostanzialmente passiva e indifferente nei confronti delle realtà temporali.

C. Personalismo ontologicamente fondato

Se ci chiediamo in che modo il pensiero cristiano abbia impostato il problema dell’uomo, negli scritti dei Padri possiamo individuare una polarità: gli antiocheni ne sottolineano l’unità, gli alessandrini sottolineano prevalentemente la dualità, ed è quest’ultima posizione che ritroviamo anche in S. Agostino.

«Il vero superamento della concezione neoplatonica-agostiniana dell’uomo avviene solamente in Tommaso che accoglie e trasforma categorie aristoteliche. Veramente la sua concezione, che corrisponde all’idea biblica dell’unità dell’uomo, non è una pura accettazione dell’antropologia aristotelica, che in fondo non fa altro che rimanere nell’ambito del dualismo greco, ma ne è una correzione e un superamento radicale»[160]. Tutti sanno che, secondo l’impostazione di S. Tommaso[161], l’uomo è una sostanza unitaria e che l’anima è forma del corpo, ma non a tutti è sempre chiaro ciò che questo significa. Cerchiamo dunque, brevemente, di spiegarlo.

Anzitutto domandiamoci cosa significa sostanza: in termini aristotelici essa si definisce come ciò che è indiviso in se stesso e diviso da qualunque altra cosa. Se mi osservo, posso vedere il colore della mia pelle, sentire il battito del mio cuore, essere consapevole del mio pensare, ecc. Il colore della mia pelle è in me, il battito del mio cuore è in me, il mio pensare è in me... ma il “me”, ossia il mio ”io” dov’è? Non è “in altro”, ma è “in-sé”. Questo essere in-sé significa essere sostanza reale, mentre il colore, il battito, il pensare sono accidenti di questa sostanza, vale a dire: sono qualcosa che modifica secondariamente una sostanza già costituita nella sua essenza, sono “accessorî” alla sostanza. Il colore della pelle può variare (abbronzatura, tatuaggio...), il battito del cuore varia continuamente, il pensiero ancora di più, ma l’io permane. Riflettendo sulla sostanza del mio io, vedo una enorme complessità: il mio corpo è formato da numerosi organi e da innumerevoli cellule, la mia mente manifesta una complessità - se possibile - ancor maggiore, e sia mente che corpo sono me, cioè costituiscono l’unica sostanza che è il mio io. Cos’è che dà unità a questa sostanza? Ci deve essere un principio che «unifica la sostanza, organizzando le sue componenti ed effettuando le sue operazioni»[162], e questo principio, nella terminologia aristotelica, si chiama forma sostanziale[163].

Ora, le componenti della sostanza che è il mio io sono assai diverse: materiali (come gli organi del mio corpo) ed immateriali (come i pensieri della mia mente). E siccome io che sento freddo ai piedi ed ho mal di testa, sono lo stesso io che ha il concetto di giustizia e di infinito, è necessario che un unica forma sostanziale sia principio di organizzazione delle componenti spirituali e materiali del mio io e sia principio delle mie operazioni sia materiali (es. mangiare, bere, accoppiarsi), sia spirituali (es. atti di pensiero e di volontà).

Conosciamo organismi viventi capaci di operazioni materiali analoghe alla nostra digestione e riproduzione, ma incapaci di attività spirituali: la loro forma sostanziale potrà essere denominata anima (in quanto si tratta di organismi viventi), ma sarà semplicemente un’anima vegetativa o sensitiva, destinata a dissolversi con la morte del vivente stesso[164]. Tuttavia, l’organismo vivente che sono io, è capace di attività spirituale, dunque la mia forma sostanziale sarà un principio adeguato non solo alla vita vegetativa e animale, ma anche (e soprattutto, giacché è questo che costituisce lo specifico dell’uomo) alla vita spirituale, sarà cioè un’anima spirituale, che assume in sé anche le funzioni dell’animalità.

Da questo consegue una considerazione di importanza capitale per il nostro tema: l’anima umana è forma del corpo; nell’azione corporea, si coinvolge l’anima dell’uomo, e quindi tutto l’uomo, l’uomo in quanto tale.

8.3.1    Scissioni tra corpo e persona

Quando viene scisso il legame tra corpo e persona, tra fisicità e spiritualità, si cade in errori diversi e parimenti pericolosi. Da un lato si può intendere la vita corporea come una realtà inferiore ed il sesso come qualcosa di “sporco”, da tollerare solo in vista della procreazione (ed è l’errore gnostico e puritano). Dall’altro si può rischiare di ridurre lo spirito a manifestazione più o meno accidentale della realtà fisica.

Quest’ultimo è il caso di chi, come S. Freud, avendo individuato alcune analogie tra le manifestazioni fisiche della sessualità ed altre sfere della persona, considera queste analogie come relazioni di causa-effetto: allora tutte le forme di dedizione, di effusione, di estasi, comunque si producano, vengono considerate come se costituissero una «sublimazione» del sesso. Questa posizione è destinata a sfociare in una vera e propria idolatria del piacere corporeo, staccato dalla sua dimensione profonda e misteriosa, sradicato dalla realtà della persona umana: l’amore (qualsiasi tipo di amore) viene ridotto a sex appeal.

In ultima analisi, la posizione freudiana si può classificare come una forma di monismo materialista, mentre la posizione gnostica e puritana va considerata nettamente come dualistica. Tuttavia il dualismo, oggi, assume connotati assai differenti: si possono ricordare, a questo proposito, l’esagerata automanipolazione dell’uomo, la negazione di determinate realtà biologiche umane e il vitalismo estremo. Quando l’uomo interviene sulla propria corporeità, con manipolazioni del sesso (transessualismo, sterilizzazione), quando esclude uno dei poli dell’atto sessuale (amore e fecondità, sesso e generazione), quando persegue il piacere fisico in modo unilaterale, come se fosse un fine in se stesso, senza rapporto con la componente spirituale dell’uomo stesso, cosa fa se non rifiutare il legame tra sesso e persona, tra “io spirituale” e corporeità? E non è questo legame ad essere scisso nelle patologie legate ad un conflitto con il cibo, come l’anoressia e la bulimia? Non è questo legame a diventare tragicamente problematico nelle tossicodipendenze e nell’alcolismo?

In una visione integrale della persona umana come “totalità unificata”, unità di anima e corpo, è possibile comprendere che la corporeità non esaurisce l’essenza della persona e che la persona non è arbitra della corporeità a suo piacimento.

Oggi si parla spesso di “linguaggio del corpo”, in quanto esso consente la comunicazione tra le persone: «L’espressione, di per se stessa, ha un significato accettabile, a condizione che ci si renda conto che “linguaggio” viene preso qui in un significato derivato. Infatti, il linguaggio, nel suo significato primo e proprio, è un sistema di segni. Pertanto un linguaggio è tanto più perfetto, quanto più possiede la duttilità e la trasparenza dei puri segni, che assolvono nella maniera più adeguata possibile la loro funzione strumentale in relazione allo spirito»[165].

Ora, la corporeità non può essere ridotta a questa funzione di puro segno e di strumento linguistico, in quanto essa ha una propria finalità naturale, ed è guidata da potenti istinti il cui controllo rischia sempre di sfuggire allo spirito, perché vi ha una parte importante l’inconscio. Tuttavia, è desiderio profondo delle persone che la vita corporea, coi suoi desideri, i suoi beni e i suoi piaceri, si realizzi senza ostacoli e senza opacità, nella trasparenza dell’immediatezza. A questo fine sono possibili due vie. La prima è quella della virtù, l’altra via – che è un’aberrazione piena di illusioni – consiste nel trattare il corpo come se fosse veramente quel linguaggio totalmente trasparente alla vita dello spirito. In questa prospettiva, in cui si ignorano alcuni evidenti dati elementari, si tenderà, al limite, a negare ogni somiglianza tra la corporeità animale e la corporeità umana.

8.3.2    Totalità unificata

Torniamo quindi alla virtù, che sola può integrare organicamente corporeità e spiritualità. È possibile definire la temperanza come «sottomissione stabile e crescente della sfera dei sensi e degli istinti all’influenza della volontà»[166], ma a patto che non si intenda tale sottomissione come la soggezione di un elemento (la sfera sensuale ed istintuale) ad un altro (la volontà) che rimarrebbe estraneo ad esso. In questo caso non ci sarebbe integrazione, ma solo obbedienza, magari un’obbedienza eroica, ma non priva di moralismo e, in ultima analisi, di frustrazioni.

Quando si parla di virtù, al contrario, si intende riferirsi ad attitudini stabili del soggetto morale, che orientano il centro della persona verso il bene morale, che rendono integralmente buono il soggetto stesso.

La temperanza ha il compito di realizzare una piena integrazione della sfera sensuale e istintuale nella vita della persona, così da far risplendere la corporeità come realtà specificamente umana e non solo genericamente animale. La forza coinvolgente insita nell’elemento sensuale tende ad afferrare la persona spirituale, ad “ingoiarla” nel corporeo. Contro questo la volontà può forse preservare dalla colpa, ma non trasformare questo negativo “essere ingoiati” in un positivo “crescere” e “donarsi”. Tale trasformazione è opera peculiare della virtù, che orienta la persona a “donare totalmente” senza “dilapidare” se stessa[167].


9.               Il fondamento della moralità

La nostra ricerca, mossa dalla domanda: «Come dobbiamo essere per realizzare pienamente la nostra personalità umana?», è arrivata, per così dire, al “giro di boa”.

Fin qui il concetto-chiave per la risposta a tale domanda si è rivelato essere la virtù: essa è l’attitudine stabile al comportamento libero, ossia pienamente dominato dalla volontà e rispondente alle esigenze della retta ragione.

Come ricorderai, caro lettore, più sopra (4.2.2) vedemmo che è proprio il concetto di “retta ragione” a costituire un problema: in base a quali elementi possiamo giudicare retta o meno retta la ragione pratica? Accennammo già un primo abbozzo di risposta: è retta la ragione che indica i mezzi adatti al raggiungimento del fine, che è la piena realizzazione della nostra personalità umana, ossia la vita buona.

Ma, con questo, non ci sembra di aver fatto un grosso passo avanti. Infatti non sappiamo ancora in cosa consiste la vita buona! Sappiamo che una tale vita rappresenta la “pienezza” della vita, ossia la felicità (cfr. 2.2.4; 4.4). Ma anche questo non sembra sufficiente. Già Pascal aveva detto: tutti desiderano essere felici, anche quelli che vanno ad impiccarsi[168]; e, potremmo aggiungere noi, anche quelli che vanno ad impiccare gli altri! Possiamo dunque dire che la vita buona consiste nell’impiccare se stessi o gli altri?[169]

È evidente che la vita buona consiste nel realizzare il bene. E vedemmo che il concetto di bene è analogo, potendo indicare ciò che è utile, ciò che è dilettevole o ciò che è onesto. È dunque chiaro che, quando si parla della vita buona, si intende la vita onesta, vale a dire desiderabile per se stessa e non in rapporto a qualcos’altro.

Abbiamo compreso che la vita onesta è caratterizzata dal ripetersi di atti moralmente buoni, guidati dalla retta ragione, i quali esprimono, generano e rafforzano la virtù del soggetto agente. Tuttavia non sappiamo ancora in cosa consista l’onestà, ossia la moralità, la rettitudine, la virtuosità della vita.

È giunto il momento di affrontare questo problema. Ci chiederemo anzitutto se il fondamento della moralità, il bene, sia qualcosa di oggettivo - e quindi valido per ogni persona umana - oppure se tutto debba determinarsi in base a scelte soggettive (9.1). Questa riflessione ci metterà sulla traccia del vero bene (9.2). Avremo così la possibilità di introdurre un tema di importanza capitale nella ricerca morale: i diritti umani (9.3). Alla luce di tutto questo potremo comprendere in che modo è possibile giudicare la bontà o la cattiveria di un atto umano (9.4).

9.1          Oggettività o soggettività del bene?

Le teorie morali si possono dividere in due grossi blocchi: da un lato quelle che sostengono che il bene e il male sono categorie valide per tutti gli uomini di tutti i tempi (teorie universaliste), dall’altro quelle che sostengono la tesi contraria, ossia che il bene e il male sono categorie dipendenti dal contesto storico, sociale e culturale (teorie relativiste).

 

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Excursus 2. - Il pensiero contemporaneo e la moralità

A. Universalismi

La “filosofia moderna”, nella sua maturità ha espresso un pensiero fortemente universalista: basti pensare al Bill of Right  della Rivoluzione Americana (1776) e alla Déclaration Universelle des Droits de l’Homme et du Citoyen della Rivoluzione Francese (1789), veri manifesti dell’Illuminismo. In essi si afferma che tutti gli uomini hanno i medesimi diritti; di qui si deducono una serie di norme etiche e giuridiche che debbono regolare i comportamenti umani.

Il problema è questo: noi vediamo che non a tutti gli uomini tali diritti vengono riconosciuti: alcuni sono tenuti in schiavitù, altri sono profughi, senza tetto, senza cibo… In forza di quali argomenti si afferma che, anche se le condizioni umane sono così, dovrebbero essere diverse?

A.1. Lo “stato di natura”

Gli Illuministi di solito si richiamano ad uno stato di natura, anteriore alla costruzione della società e quindi alla costituzione degli ordinamenti giuridici: in questo “stato” tutti gli uomini sarebbero uguali e si lascerebbero guidare dalle stesse norme morali[170].

Che cosa è bene? È bene il comportamento dell’uomo “al naturale”! Si tratta del famoso “mito del Buon Selvaggio”, per provare il quale si diede luogo a tante ricerche etnografiche, tese a dimostrare che le cosiddette società primitive (alcune tribù dell’Africa sub-sahariana, indigeni dell’America, aborigeni dell’Oceania ecc.) erano guidate dalle stesse norme morali ed erano “buone”.

Purtroppo le ricerche antropologico-culturali distrussero questa illusione: in realtà non è vero che in queste società siano insegnate o praticate le stesse norme morali, né che siano riconosciuti agli uomini gli stessi diritti.

A. 2.  Ragione e passioni

Una seconda via per la fondazione della morale, allora, venne cercata nella ragione, la quale dovrebbe discernere tra i desiderî della nostra natura spontanea, tra le passioni, per scegliere di portare a compimento quelli utili a condurre ad un modo di vita sociale ordinato e rifiutare quelli portatori di disordine[171].

Ma il problema è proprio quello del criterio di discernimento: qual è un modo di vita sociale ordinato? quello di Luigi XIV, quello di Robespierre, quello di Napoleone…? In realtà si tratta di “ordinamenti” diversi, ciascuno dei quali rivendica per sé prospettive di giustezza e legittimità. In base a quale criterio si opta per l’uno o per l’altro? La scelta rischia di essere motivata unicamente sulla base delle aspirazioni personali: si sceglie l’ordine che promette di realizzare meglio i nostri desideri.

Ma qui si svela il circolo vizioso di questa posizione: bisogna scegliere quali desideri debbano essere riconosciuti come guide legittime del comportamento e quali invece debbano essere repressi o rieducati: per questo è impossibile che i desideri stessi fungano da criterio! «Appunto perché noi tutti abbiamo, in atto o in potenza, svariati desiderî, molti dei quali in conflitto ed incompatibili fra loro, dobbiamo decidere fra le pretese antagoniste di desiderî antagonisti. Dobbiamo decidere in che direzione educare i nostri desiderî, come ordinare una molteplicità di impulsi, bisogni sentiti, emozioni e intenti. Quindi quelle regole che ci consentono di decidere fra le diverse pretese, e dunque di ordinare i nostri desiderî (comprese le regole della morale) non possono a loro volta derivare o essere giustificate dal riferimento ai desiderî rispetto ai quali devono esercitare una funzione di arbitrato»[172].

A. 3.  Il “puro dovere

Una terza strada tende ad escludere del tutto i desiderî e le passioni nella fondazione della morale. È la via inaugurata da I. Kant[173]. I concetti chiave del suo pensiero morale sono: il disinteresse, l’autonomia, il dovere e l’universalità della legge.

1.   L’idea del disinteresse è fondamentale in Kant. Egli scrive: «In ogni parte del mondo e, in generale, anche fuori di esso non è concepibile nulla di incondizionatamente buono all’infuori di una volontà buona»[174]. Quindi a Kant non interessa un “essere umano” buono, dotato di corpo e di spirito, di intelligenza e di volontà, ma anche di sensibilità e sentimenti: interessa esclusivamente la volontà buona. «La santità della buona volontà e della intenzione morale è tale che ogni pensiero di felicità, ogni desiderio di felicità che entri nella motivazione dei nostri atti non può che contaminare questa intenzione e farla decadere dall’ordine della moralità»[175]. Il soggetto morale è un “agente puro”, che agisce rettamente senza aver bisogno di perfezionare o compiere il suo essere.

2.   Il mondo sensibile, del quale il nostro corpo fa parte e dal quale provengono le passioni, il desiderio di felicità e di realizzazione, è il regno della necessità, governato dalle leggi inesorabili della natura. Viceversa, il mondo morale è il regno della libertà: la volontà non  può essere sottomessa ad alcuna legge se non a quella che essa stessa si dà e che è tutt’uno con essa: è assolutamente autonoma. Questo esclude totalmente la possibilità di un Dio legislatore, ché renderebbe la volontà umana “eteronoma”. Ma esclude anche l’amore dalla motivazione morale, «perché l’amore, a quanto pare, è irrimediabilmente eteronomo. Vi è peggiore eteronomia che fare la volontà di un altro e dire a un altro che si ama: sia fatta la tua volontà e non la mia?»[176].

3.   Una volontà “autonoma” e “disinteressata” così concepita, può essere detta buona solo quando aderisce al dovere senza altra motivazione che il dovere stesso. Pertanto la vita morale  non viene ad essere fondata sul bene, ma sulla forma pura del dovere. Al massimo si potrebbe dire che il bene è fondato sul dovere. In questo approccio non si dice: hai il dovere di fare questo perché è bene; bensì: è bene fare questo perché hai il dovere di farlo! «Il dovere è la necessità di un’azione per rispetto alla legge»[177]. E qual è la “legge”? Kant chiama la legge pratica «imperativo categorico», ossa un imperativo che non dice: «Se vuoi ottenere questo risultato devi…», bensì: «Tu devi e basta, devi perché devi». Il dovere non può scaturire da altro che da sé stesso, e la legge non può scaturire da altro che dalla volontà stessa: «La volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sottostà alla legge (della quale è autrice essa stessa)»[178]. Il dovere di Kant è una forma vuota di contenuto. E non potrebbe essere altrimenti, perché ogni contenuto dovrebbe essere tratto o dal mondo sensibile (la natura, il mondo, il corpo…) o da Dio: in ogni caso non dalla pura ed autonoma volontà del soggetto.

4.   Tuttavia la “forma pura” del dovere deve darsi un contenuto, altrimenti non dice nulla riguardo all’azione: “io devo”, ma “che-cosa” devo? La prima formula dell’imperativo categorico data da Kant recita: «Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale»[179]. Nel caso in cui, ad esempio, devo scegliere se restituire un prestito o meno, vedo che sarebbe un’impossibilità logica o una contraddizione erigere a legge universale una massima che dicesse: «Non bisogna mai restituire i prestiti», perché, se così fosse, non esisterebbero più prestiti! Ma facciamo un altro esempio: devo scegliere se uccidere un uomo che mi ha offeso; qui non c’è nessuna impossibilità logica ad erigere come legge universale una massima che dicesse: «Bisogna sempre uccidere chi ci offende»; tuttavia - secondo Kant - ci sarebbe impossibilità logica a volere che una tale massima divenisse legge universale, perché io potrei trovarmi nella condizione di aver offeso qualcuno e quindi dovrei volere esser ucciso: la contraddizione sta nel volere una legge che comporti la morte di chi la vuole. «Nell’un caso come nell’altro Kant deduce il contenuto della legge morale dalla pura universalità di questa: un atto è proibito o contrario alla legge morale, perché è logicamente impossibile, o contraddittorio, tanto universalizzarne la massima, quanto volerla universalizzare»[180].

Kant, coerentemente con la sua teoria della conoscenza, ha creduto che per “salvare” la morale bisognasse sottrarla all’ordine della finalità: non si deve agire in vista di un fine, non si deve cercare la felicità, non si deve tendere a nulla… Ma questo iper-disinteresse, oltre ad essere letteralmente “disumano”, non raggiunge altro scopo che tagliare fuori la moralità dall’esistenza. Infatti - come abbiamo già detto (cfr. 2.2.4.2.) - chiunque agisce, agisce in vista di un fine.

- Ora, se non ho intenzione di restituire un prestito, se ho intenzione di uccidere chi mi offende… perché dovrei fare diversamente? 

- Perché altrimenti non obbediresti al dovere - risponderebbe Kant.

- E perché devo obbedire al dovere se il mio interesse è un altro?

- Perché altrimenti sarai un immorale.

- Ma perché dovrei essere morale?

- Perché questo è il tuo dovere…

Come si vede si resta prigionieri di un circolo vizioso. La soluzione consisterebbe nel mostrare che il contenuto (non la sola forma) del dovere corrisponde al vero interesse del soggetto, perché indica un bene in sé. Ma è proprio questa nozione di “bene in sé” che viene rifiutata dalla morale kantiana, come la “cosa in sé” era stata rifiutata dalla sua teoria della conoscenza.

A.4.  Lo Stato

Con la separazione totale tra il mondo della moralità e il mondo della natura, l’etica diventa un sistema stabilito a priori. Il filosofo si illude di non aver più bisogno di appoggiarsi sull’esperienza morale degli uomini per farne emergere i principî attraverso la riflessione (cfr. 1.3); pretende di essere lui a dettare «gli articoli di una legislazione della Ragion pura dispoticamente imposta alla loro vita»[181].

Siamo in pieno Idealismo. Il soggetto individuale (il singolo) è considerato irrilevante: in esso si assommano tutte le miserie dei «bisogni, interessi e scopi»[182]. La moralità dell’individuo è «astratta», vuota, irreale, perché egoistica. Si deve quindi superare l’individualità ed accedere alla universalità, che si realizza nell’eticità dello Stato: «Lo Stato è la sostanza etica consapevole di sé»[183]. L’individuo scompare: suo unico compito è adeguarsi alla volontà dello Stato, espressa dalle leggi.

È facile vedere, alla luce della storia del XX secolo, quanto nefasta sia questa concezione. Essa ha condotto da un lato al nazismo, dall’altro al marxismo-leninismo: entrambi sistemi in cui la persona umana non ha altro compito che l’essere a servizio della “causa” statale.

Lo Stato poi, in base a quali criterî stabilisce quali leggi promulgare? Invano cercheremo una risposta! Si prenderà di volta in volta come criterio il sentimento della razza ariana, il futuro della rivoluzione proletaria, il consenso della maggioranza, gli interessi delle lobbies… L’importante è che le leggi siano promulgate in modo formalmente corretto. Lo Stato può comandarmi tanto di sterminare altri uomini in campi di concentramento, quanto di mettere a morte chi ha dato l’ordine di sterminarli. Dall’Idealismo si passa così al Positivismo giuridico[184]. Se ci si chiede: l’eutanasia è un bene o un male? Si risponde: nello Stato “X” è un male, nello stato “Y” è un bene; ma si tenga conto che il legislatore potrebbe cambiare, per cui da domani potrebbe essere un bene anche in “X” oppure un male in “Y”. E questa, ovviamente, è la distruzione dell’universalismo stesso.

A.5.  L’utilità e le conseguenze

L’ultimo baluardo dell’universalismo moderno possiamo rintracciarlo nell’approccio consequenzialista. Questa teoria affonda le sue radici nel Positivismo classico e nella sua morale utilitarista, in forza della quale il bene sarebbe ciò che torna a vantaggio del maggior numero di persone creando il minimo svantaggio. L’atto buono sarebbe dunque l’atto “utile”, che produce conseguenze buone. Ed il dovere morale universale sarebbe quello di tendere alla «massimizzazione del bene»[185].

Dobbiamo notare anzitutto un circolo vizioso in questa impostazione: si dice che è buono l’atto che produce conseguenze buone. E quali sono le conseguenze buone? In base a quali parametri si possono definire tali? L’utilitarismo classico parlava del massimo della felicità per il maggior numero di persone, identificando così l’etica con una sorta di “aritmetica sociale”. Il fascino che l’utilitarismo ha esercitato sulla cultura contemporanea dipendeva proprio da questa presunzione di trattare i valori morali come se fossero merci di scambio. Ma ben presto ci si accorge che la “felicità” è un concetto che non si presta ad addizioni e sottrazioni: da una parte ciò che rende felice uno può essere assolutamente indifferente per un altro; d’altra parte, anche per la stessa persona, i valori, le cose di cui si gioisce, si pongono su piani assai differenti, incommensurabili. E se si stabilisce una preferenza, il criterio in base al quale ciò si opera non è certamente quello dell’utilità, ma - evidentemente - un altro tipo di criterio che agli utilitaristi sfugge.

Inoltre, se applichiamo coerentemente la teoria consequenzialista, ci rendiamo immediatamente conto della sua insostenibilità. Per esempio, immaginiamo che nel villaggio “X” venga commesso un delitto orrendo: non si conosce il colpevole, solo si sospetta che possa provenire dal villaggio “Y”. La popolazione di “X” inferocita minaccia pesanti rappresaglie a danno di tutto il villaggio “Y” e c’è il rischio di una guerra civile con centinaia di morti. Le autorità di “X” e “Y”, quindi, prendono a caso un membro del villaggio, lo dichiarano colpevole del delitto e lo impiccano in piazza riportando la calma tra la popolazione. In questo modo la loro azione, pur comportando l’uccisione di un innocente, ha come conseguenza la salvezza della vita di altre centinaia di persone. È accettabile questo comportamento? Nessuno ha il coraggio di dire: “Sì”, perché tutti, spontaneamente, ci mettiamo nei panni del malcapitato, o immaginiamo che egli possa essere nostro padre, nostro fratello, nostro figlio… E non possiamo accettare che venga fatto agli altri ciò che non vogliamo sia fatto a noi. Ma precisamente questo mette in scacco ogni “aritmetica consequenzialista”: per l’aritmetica, semplicemente, cento è più di uno; per l’etica le cose sono assai più complicate.

B.  Relativismi

Oggi siamo ben consapevoli della complessità della riflessione morale. I mass-media ci hanno abituati a dibattiti tra “esperti” di varia estrazione culturale, che sul medesimo tema sostengono posizioni contraddittorie. Essi sviluppano i propri argomenti a partire da concetti, da riferimenti a valori o a norme, assai diversi gli uni dagli altri, incommensurabili. Sovente chi ascolta ricava la sensazione che su quella materia non ci sia una posizione obiettivamente valida e, pertanto, che tutto debba risolversi in base a criterî “relativi” ad ogni soggetto[186].

Quando si analizzano tali discorsi, risalendo dalle conclusioni alle premesse, l’argomentazione si interrompe. Prendiamo il caso dell’eutanasia. In un talk-show televisivo si fronteggiano due “esperti”. Il primo, favorevole, basa le sue argomentazioni sul “diritto di scelta”, l’altro, contrario, fonda il suo discorso sulla “sacralità della vita”. Questo afferma che di fronte alla vita nessuno ha facoltà di scegliere, quello che di fronte alla scelta nessuno ha diritto di interferire. Sembra  impossibile invocare una buona ragione per convincere l’avversario che la propria premessa sia quella valida: questo fa pensare che la scelta delle premesse stesse sia essenzialmente arbitraria.

B.1.  Emotivismo

L’uso che oggi si fa del linguaggio morale è di fatto emotivistico[187]: i messaggi che si mandano pretendono di essere impersonali ed oggettivi, ma diventano, di fatto, niente più che espressioni di approvazione e disapprovazione soggettiva. Dire: «Questo comportamento è cattivo» equivale a dire: «Io disapprovo questo comportamento: disapprovalo anche tu!». E poiché non ho argomenti razionali per convincerti a disapprovarlo, cercherò di comunicarti nel modo più suggestivo possibile delle emozioni, dei messaggi subliminali, per condizionarti.

Questo è uno dei risvolti sociali più pericolosi dell’emotivismo: l’estrema tendenza a “manipolare” l’interlocutore (e soprattutto la grande massa del pubblico): tra uno spot pubblicitario ed un’argomentazione etica, in questa prospettiva, non vi sarebbe differenza sostanziale.

Dialogare sulla base di argomentazioni razionali significa accettare la “bilateralità” del confronto (tu parli ed io ascolto, dopo di che io parlo e tu ascolti), fare appello all’intelligenza e rispettare la libertà altrui in un contesto di reciprocità. Condizionare mediante suggestioni emotive, invece, è un procedimento “unilaterale” (l’emittente “bombarda” il ricevente coi suoi messaggi), teso a coartare la libertà altrui, privando la controparte della possibilità di vagliare criticamente il messaggio e di replicare. Siamo di fronte ad una vera e propria violenza.

 Ma non basta: dalla violenza psicologica si può passare a quella fisica, al terrorismo. Quando si pensa che non esista nessuna verità oggettiva in grado di fondare i giudizî etici, necessariamente la forza bruta prende il posto del diritto, l’oppressione si sostituisce alla convinzione e il terrore soppianta la fiducia[188].

B.2.  Storicismo, sociologismo e psicologismo

Lo storicismo è la più classica delle teorie relativistiche. I suoi fautori sostengono che ogni scelta morale ed ogni tesi atta a giustificarla siano soltanto l’espressione di una determinata epoca storica. Non ci si chiede affatto se un determinato comportamento sia buono o cattivo, se un certo giudizio morale sia vero o falso. Viceversa, si spendono enormi quantità di energia intellettuale nel ricercare il retroterra storico di quei comportamenti e giudizî, i fattori che possono averli influenzati… Ma la questione della verità e della bontà viene drasticamente eliminata.

La forma di storicismo - nel senso specificato - oggi più in voga è il sociologismo, ossia il tentativo di inquadrare ogni scelta ed ogni giudizio morale in dipendenza dalla struttura sociologica in cui si sviluppa. Anche qui, non ci si chiede “che cosa” venga scelto e “come” tale scelta venga giustificata, ma unicamente il “motivo storico-sociale per cui” si fa quella scelta.

Questo atteggiamento lo si ritrova nella mentalità psicologistica contemporanea, preoccupata di cercare la connessione tra scelte, giudizî e vissuti psicologici più o meno coscienti del soggetto, ma disinteressandosi totalmente alla verità e alla bontà implicate in essi.

Noi non intendiamo affatto negare l’importanza della storia, dello studio dell’ambiente socioculturale e dei vissuti psicologici che sottostanno a determinati atteggiamenti morali. Certamente ogni scelta ed ogni giudizio sono “figli della loro storia”, giacché ogni uomo è “figlio del suo tempo”; ci chiediamo però: le gesta morali che suscitano la nostra ammirazione (cfr. 2.1.2; 2.2.1.), le figure di grandi uomini come Socrate, Attilio Regolo o Massimiliano Kolbe, non hanno dimostrato la loro grandezza proprio nel rendersi liberi dall’atmosfera della “moralità media” della loro epoca e nella capacità di superarla per elevarsi ad una bontà più alta? Ed è il criterio di questa bontà, che trascende le limitazioni dell’epoca, ad interessarci.

B.3.  Genesi, evoluzione e dissoluzione del relativismo

Come nasce il relativismo etico contemporaneo? Il problema va inquadrato nella complessa vicenda del passaggio dalla modernità alla post-modernità.

Con buona approssimazione, si può affermare che, fino al secolo XIX, la cultura esprimeva un sistema sociale stabile, fortemente centralizzato. Il “centro” poteva essere da un lato la piccola polis o il piccolo comune, dall’altro la capitale dell’impero; poteva essere occupato dal tempio o dalla cattedrale, dal municipio, dal palazzo reale o dal parlamento… Era comunque un evidente “centro”, attorno a cui la vita gravitava ed in funzione del quale ciascuno riceveva la propria identità: nobile, cavaliere, chierico, borghese, servo, ecc. E tale identità portava con sé un quadro chiaro di diritti e doveri, regolava la vita fin nei minimi particolari. Questo sistema può essere definito una “totalità etica”. Una siffatta “totalità” ha bisogno di fondarsi su grandi concezioni metafisico-religiose condivise.

Ebbene, a giudizio pressoché unanime dei sociologi[189], la modernità si è sviluppata secondo un movimento di differenziazione e di individualizzazione: da un lato la società si è venuta differenziando in innumerevoli sistemi parziali (non solo famiglia-villaggio-stato-chiesa, ma aziende, scuole, agenzie, organizzazioni, partiti, associazioni, sindacati, ecc.), dall’altro gli interessi e i bisogni individuali sembrano aver preso il sopravvento su qualsiasi dimensione comunitaria.

La nostra società - almeno nei paesi di industrializzazione avanzata - si presenta come una società “acentrica”, caratterizzata da legami “deboli”, da rapidi cambiamenti, individualismo, mutamento e fluttuazione dei ruoli, necessità di adattarsi a condizioni sempre nuove, instabilità. Non essendoci più un centro riconosciuto, non esistendo più concezioni metafisico-religiose condivise, la cultura occidentale ha prodotto la dissoluzione della “totalità etica” ed ha portato ad assolutizzare la singola coscienza individuale: nessuno può dirmi (nessuno sa, nessuno ha l’autorità di insegnarmi) che cosa debbo fare: sono solo io che devo “inventare” la mia vita, il mio progetto, le mie “regole”.

Ormai non si pensa più che possa esistere un senso oggettivo del mondo, un ordine razionale oggettivo che la ragione umana possa cogliere, seppure faticosamente, e realizzare nella sua soggettività[190]. La società stessa è scissa in tante sfere di valore separate e né la fede né la ragione hanno più le risorse culturali per riunificarle in un senso unico e coerente. Lo stesso individuo, quando lavora in un’azienda deve rapportarsi al quadro di valori vigente sul posto di lavoro (es.: primato del profitto, competitività, ambizione, servilismo…), quando frequenta la chiesa si rapporta a valori completamente diversi, e trova ancora valori differenti e contrari ai precedenti nei circoli ricreativi, nelle scuole frequentate dai figli, ecc. Il quadro etico che viene a determinarsi è così contrassegnato dal “politeismo dei valori”.

Non ha senso rimpiangere la “totalità etica” del passato. Essa era un sistema che garantiva, sì, un certo ordine ed una certa sicurezza, ma spesso a prezzo di compromessi assai gravi. L’unicità e l’irripetibilità della personalità di ciascuno era fortemente coartata, i comportamenti tendevano alla omologazione ai canoni dominanti e - spesso - all’ipocrisia sociale.

Di fronte alla disgregazione di questa “totalità”, in una prima fase, la cultura ha reagito come in preda all’ebbrezza dell’esaltazione della differenza, della frammentazione, della nascita di nuove individualità. Davanti a ciascuno si aprono orizzonti di senso potenzialmente illimitati… Qualsiasi scelta diventa comparabile con qualsiasi altra. Non c’è niente che non possa essere rivisto; ogni cosa che facciamo è sempre possibile altrimenti. Così sembra che non abbia più senso distinguere il vero dal falso; si vive ormai in forma “ipotetica”. Oggi la penso così, ma domani potrei pensarla diversamente: non mi impegno in nulla, non metto in gioco più di tanto.

Ma l’ebbrezza dell’infinita possibilità - come aveva evidenziato già S. Kierkegaard[191] - genera l’angoscia: spaesamento, crisi di identità, smarrimento sono i sentimenti più frequenti nella cultura “postmoderna”. Più che libertà, abbiamo trovato disordine ed incapacità di gestire il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo.

Anche l’entusiasmo per la scienza e la tecnica, che fino a qualche decennio fa sembrava “inossidabile”, ha lasciato il posto ad un inquietante pessimismo. «Scienza e tecnica hanno come cessato di essere strumenti nelle mani dell’uomo, e tendono a diventare sempre più fini in se stesse. Lo stesso, e forse in forma ancora più accentuata, potremmo dire dell’economia. Volevamo essere più liberi e ci ritroviamo inseriti in un’anonima processualità (…) Cresce la sensazione che le cose si facciano da sole»[192].

Il senso diffuso di disagio ha però trovato una prima e chiara espressione nella “svolta ecologica” della nostra cultura. Tutti vediamo che la natura si sta ribellando, non accetta di essere trattata come un mero oggetto di sfruttamento arbitrario, e questo provoca gravi danni alla popolazione del pianeta. Si diffonde la convinzione che alle cose della natura debba essere riconosciuto una specifica finalità, che supera l’utilità che l’uomo ne può trarre.

Tutto ciò ha portato alla riscoperta della categoria etica della responsabilità[193]: sta emergendo la consapevolezza che il nostro agire produce effetti irreversibili e che quindi non ci si può muovere sulla base di teorie di carattere ipotetico, fallibilista, relativo. Quando si va avanti con ipotesi, il fallimento è messo sempre nel conto. Ma una cosa è il fallimento di un esperimento scientifico in laboratorio, altra cosa sono gli esperimenti nella vita, dove il fallimento ha tutt’altro spessore!

La conclusione è che non si può andare avanti con la leggerezza delle ipotesi: «Ciò di cui abbiamo bisogno sono piuttosto convinzioni forti, spirito di verità e una capacità di testimoniarcela con fermezza e senza fanatismi»[194].

 

*                      *                      *

 

La tendenza filosofico-culturale oggi prevalente contesta radicalmente che si possa dare una risposta obiettiva alla domanda morale: non vi sarebbe alcun criterio universale e valido per tutti, in base al quale stabilire cosa è retto e cosa non lo è. Bene e male sarebbero delle categorie puramente soggettive. Il “valore” dell’onestà sarebbe semplicemente attribuito a questo o quel comportamento dalla libertà dei singoli uomini.

Ma davvero la libertà umana è sorgente dei valori? Fedeli al nostro metodo, andiamo “alle cose stesse”.

Prendiamo ad esempio delle proposizioni come:

a) «Bisogna difendere i deboli dall’aggressione dei prepotenti»

b) «Lo stupro non è mai lecito»

c) «Gli autoveicoli devono circolare tenendo la destra»

Già davanti ad un tale elenco, la nostra ragione prova un senso di fastidio: è incongruente che la proposizione ‘c’ sia messa sullo stesso piano di ‘a’ e ‘b’. Perché? Perché la proposizione ‘c’ si fonda su una semplice convenzione, posta dalla legge umana e, se il legislatore avesse deciso diversamente, la cosa non ripugnerebbe affatto: bisogna circolare tenendo la destra perché è prescritto; se fosse prescritto il contrario, bisognerebbe circolare tenendo la sinistra.

Le proposizioni ‘a’ e ‘b’, invece, non dipendono da una convenzione umana. Se ci sono (e devono esserci!) leggi umane che prescrivono, in vario modo, quello che le proposizioni ‘a’ e ‘b’ affermano, non sono le leggi a dare valore positivo alla difesa dei deboli e negativo allo stupro. Al contrario: le leggi devono prescrivere la difesa dei deboli, perché questo è “bene”; devono proibire lo stupro perché questo è “male”. L’idea di “bene” e di “male” ci appare radicata nell’essenza stessa della persona umana e delle azioni nominate.

Di fronte ai deboli aggrediti, non è la mia libertà a stabilire che è bene aiutarli (la mia libertà può solo decidere se realizzare questo bene oppure no). Di fronte allo stupro, non ho alcuna libertà di dire: «è lecito». La fonte dei valori è pertanto fuori di me, ossia è “trascendente”. Il valore non lo creo ma lo trovo, e sono nella verità quando lo penso così come esso è nella realtà. Questo è evidente a partire dall’esperienza morale stessa e dall’uso dei termini morali nel linguaggio comune.

Ben più complessa è invece la questione che riguarda il nostro modo di conoscere e discernere il vero bene.

9.2          Il vero bene

Abbiamo già detto che chiunque agisce, agisce in vista di un fine, ed abbiamo chiamato “bene” ciò che viene desiderato come fine dell’agire. A questo punto del nostro percorso dobbiamo chiederci qual è il vero bene a cui le nostre azioni debbono tendere.

Giacché stiamo parlando delle nostre azioni - ossia di atti umani - è evidente che il fine a cui esse devono tendere sarà un fine per l’uomo, un bene dell’uomo. Ora, bisogna tener presente che le azioni dell’uomo sono singolari e concrete, ma sono umane solo se dirette dalla ragione. Bisogna dunque conciliare le esigenze della razionalità e della concretezza.

Alla luce di quanto abbiamo esposto nei capitoli precedenti, dovrebbe essere chiaro che l’agire buono è agire razionale, che la ragione deve essere la guida a cui affidare la direzione del nostro comportamento. Come abbiamo spesso ripetuto, una persona agisce in modo degno della propria umanità quando le sue passioni sono controllate dalla volontà, e la volontà è retta quando aderisce al bene indicato dall’intelligenza.

Ma in che modo l’intelligenza comprende qual è il vero bene? Abbiamo visto che questo bene non è “creato” dalla ragione umana, ma semplicemente “scoperto”. Sì, ma scoperto dove? e come?

9.2.1    L’“umanità” dell’uomo come fonte

La risposta che proviene dalla fenomenologia dell’agire morale e dalla tradizione filosofica classica è: il bene viene scoperto nell’uomo stesso, nell’“essere-tale” dell’uomo, nel suo eîdos, nella sua identità più profonda; in una parola: il bene è radicato nell’umanità dell’uomo.

Ora, l’umanità dell’uomo è qualcosa che troviamo attualizzata in noi stessi e negli altri, ma non in modo statico. L’umanità consiste nell’essere-uomo, che è sempre un divenire-uomo, un farsi-uomo: un diventare sempre più e sempre meglio ciò che si è.

È necessario indugiare un po’ su questo tema, giacché in esso è possibile leggere il fondamento dell’etica classica, così spesso frainteso dai moderni.

Risulta facile notare che l’essere umano ha bisogno di molte cose: di cibo, di casa, di compagnia, di cultura… L’uomo è una creatura strutturalmente “indigente”.

Ora, questa “indigenza” è un fatto, è una carenza costatabile empiricamente. Ma costatare una carenza significa scoprire nell’essere “di fatto” il “dover essere”: lo stato in cui la carenza è tolta. L’uomo si scopre “imperfetto”, sia in senso fisico sia in senso spirituale; ma scoprire l’imperfezione significa cogliere - per contrario - in quale direzione vada cercata la perfezione.

Questo viene comunemente trascurato da tanti autori contemporanei, i quali accettano a mo’ di assioma la cosiddetta “legge di Hume” (1711-1776), che afferma l’impossibilità di derivare giudizî morali dai giudizî di fatto: «Dall’essere non deriva il dover essere» (No deriving “ought” from “is”)[195]. Ma l’indigenza dell’uomo è proprio un “dato di fatto” (un is) da cui consegue rigorosamente un “dover essere” (un ought):  siamo uomini, e questo è un fatto; ma siamo imperfetti, ed anche questo è un fatto; il che significa che il nostro “essere uomini” non è semplicemente un fatto: è un compito! Il compito consiste nel realizzare le potenzialità implicite nella nostra umanità, nello svilupparci nella direzione indicata dalla nostra stessa umanità. Con la sua indigenza, con la sua imperfezione la nostra umanità ci indica delle mete, ci spinge verso dei traguardi da raggiungere, ci inclina verso determinati beni[196].

9.2.2    Le inclinazioni naturali

Che cosa è l’uomo? È anzitutto “qualcosa che è”, cioè un essere. Ma “essere” è anche la pietra, essere è anche Dio... L’uomo appartiene ad un genere particolare di “esseri”: il genere animale. E, all’interno di questo genere, l’uomo si differenzia per una caratteristica specifica: egli è un animale razionale.

Ora, nell’uomo si riconoscono tre gruppi di tendenze o inclinazioni: alcune comuni a tutti gli esseri, altre comuni solo agli animali, altre ancora specificamente umane.

Qui il lettore non familiarizzato con la terminologia filosofica classica potrebbe domandarsi perplesso: che senso ha parlare di tendenze comuni a tutti gli esseri? Quale “tendenza” può mai avere un essere inanimato come la pietra?! Il problema nasce dal fatto che, nel linguaggio odierno, le espressioni “tendenza” o “inclinazione” hanno assunto un riferimento prevalentemente psicologico. Di per sé, tuttavia, i termini non hanno questo significato: essi sono derivati dal linguaggio della fisica (tendenza viene da “tendere”, ossia tirare; inclinazione viene da “inclinare”, ossia piegare verso una direzione), ma qui questi termini hanno un significato che va al di là di quello fisico: un significato meta-fisico.

Tutti gli esseri, in primo luogo, tendono a “continuare ad essere” secondo la propria natura: se non avessero questa tendenza non persisterebbero. Se una pietra c’è, essa rimane identica a se stessa a meno che non intervenga una causa esterna a modificarla. Potremmo dire che, negli esseri inanimati, si tratta di un’inclinazione “statica”, una tendenza passiva.

Anche gli animali sono degli esseri, quindi anch’essi hanno l’inclinazione a persistere nell’essere secondo la propria natura; tuttavia questa inclinazione si trova in essi in modo tipicamente animale: si qualifica, nel linguaggio comune, come “istinto di sopravvivenza”. Oltre a queste inclinazioni, poi, gli animali posseggono tendenze proprie del genere animale, come quella a riprodursi ed – in molte specie – allevare la prole.

L’uomo, in quanto essere animale e razionale partecipa delle inclinazioni comuni a tutti gli esseri e a tutti gli animali, ma in maniera specificamente umana, ossia razionale. Le inclinazioni a perseverare nell’essere, a procreare e educare la prole si manifestano non solo a livello “statico” o istintivo, ma a livello peculiarmente razionale. Inoltre nell’uomo troviamo anche delle inclinazioni specificamente umane come la tendenza a conoscere la verità (e soprattutto la Verità suprema) ed a vivere in società.

Se quindi ci si chiede qual è il bene a cui tutta l’esistenza umana tende, la risposta va cercata a livello della sua razionalità, che non esclude ma ingloba il livello dell’essere animale. Vale a dire: la conservazione della vita, la procreazione e l’educazione della prole, la conoscenza della verità, la vita sociale e tutti gli altri fini a cui la nostra umanità ci inclina, sono “beni umani”.

·     Il compito insito nella nostra umanità è dunque di perseguire i beni ai quali la nostra umanità stessa ci inclina.

9.2.3    Il fine ultimo dell’uomo

Si può giungere così a comprendere che questi “beni umani” sono ordinati tutti al “bene dell’uomo”, che i finalismi scoperti nel nostro corpo e nella nostra mente sono, a loro volta, finalizzati al bene totale della persona.

Qual è questo bene? È la perfezione dell’uomo in quanto tale; è quello stato in cui non si desidera più nulla ma si fruisce appieno del bene conseguito: la piena felicità.

Con questo si potrebbe dire: torniamo forse a fondare il bene sulla felicita? non avevamo escluso in partenza questa strada? In realtà non fondiamo affatto il bene sulla felicità; al contrario: fondiamo la felicità autentica sul bene! E possiamo farlo dopo aver fondato il concetto di bene autentico sulla natura dell’uomo.

9.2.3.1                    La felicità e il bene

Certamente se non ci fosse in noi il desiderio della felicità, non ci sarebbero neppure le nostre azioni (cfr. 2.2.4) e non avremmo nemmeno la possibilità di qualificare come “buono” o “cattivo” alcunché.

In termini filosoficamente precisi possiamo dire che la felicità «costituisce la motivazione formale ultima delle scelte, ma appunto per questo non può essere essa stessa criterio di scelta retta né da essa si possono dedurre criterî di scelta retta: la felicità, che è lo scopo formale della condotta, non può essere regola della condotta»[197].

Vale a dire: tutto ciò che vogliamo, lo vogliamo perché desideriamo essere felici; ma ciò non significa che gli oggetti concreti delle nostre scelte e le nostre azioni possano essere considerati semplicemente come “mezzi” per procurarci la felicità! Non decidiamo - ad esempio - di aiutare un bisognoso perché così facendo saremo felici noi stessi, ma perché è bene aiutarlo. Certo, realizzare quel bene significa contribuire a rendere la nostra vita “buona” e quindi “felice”, tuttavia quel bene rimane un fine in sé, che viene desiderato e perseguito per se stesso e non come mezzo per qualcos’altro: appartiene alla categoria dell’onesto e non dell’utile.

9.2.3.2                    Felicità perfetta ed imperfetta

Tutte le attuazioni buone costituiscono delle attualizzazioni parziali della vera felicità. Ma, a questo punto, ci imbattiamo in quella “sproporzione” per cui, a dirla con Pascal, l’uomo supera infinitamente l’uomo[198]. Intendiamo dire: l’animo umano è caratterizzato da una sete di felicità totale, assoluta, che non potrà mai essere appagata da alcun bene intramondano, relativo - come sono le nostre azioni e le virtù umane -, giacché ogni bene “relativo”, per definizione, lascia ancora spazio al desiderio. Il “Bene assoluto”, beatificante, non può essere che Dio solo[199].

Questa verità, di cui traboccano le pagine di S. Agostino e di tanti mistici, è fenomenologicamente nota a chiunque rifletta spassionatamente sull’umano esistere. Persino gli atei o i miscredenti la intravedono: come non pensare ad un poeta come  G. Leopardi (1798-1837) ed al suo «sentimento di nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo»[200]?

Con questo veniamo forse a dire che bisogna ammettere l’esistenza di Dio per capire che lo stupro è un male e che aiutare i bisognosi è un bene? Ovviamente no. Diciamo piuttosto il contrario: l’esserci interrogati su ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo ci ha portati a riconoscere che il bene supremo, la perfetta felicità è la comunione con Dio!

Certo, per chi rifiuta il pensiero di Dio o lo confina, fideisticamente, al di fuori del sapere razionale, non resta che l’“assurdo”. E questo desiderio di felicità viene a costituire una sorta di maledizione, che impedisce di gustare il piacere e getta nell’inquietudine. Ma questa non è forse la sanzione intrinseca a un atteggiamento ostinato e chiuso alla verità, nella propria orgogliosa autosufficienza? L’uomo è fatto per conoscere il vero (soprattutto il sommo Vero) con l’intelligenza e per aderire al vero-bene (soprattutto il sommo Bene) con la volontà. Allorché rifiuta la verità, egli devia non solo dalla propria dignità, ma anche dalla felicità: il “male di vivere”, la disperazione, con il corredo di violenze, malattie mentali, tossicodipendenze e suicidî che li caratterizzano, trovano qui la loro motivazione esistenziale.

L’apertura alla verità, viceversa, rispondendo alla struttura essenziale della nostra natura, dispone al riconoscimento del fine umano, anche perché ha una certa “connaturalità” con esso: «La beatitudine - dice S. Tommaso - non è altro che la gioia che proviene dalla verità»[201].

Ovviamente la rivelazione di Dio in Cristo viene ad aprire nuovi orizzonti a questo livello, ma senza rinnegare quelli raggiunti dalla riflessione razionale, anzi chiarificandoli.

La felicità a cui può aspirare un uomo saggio che non conosca il Vangelo è la gioia che proviene da una vita virtuosa, ordinata secondo ragione, che trova il suo vertice nell’amicizia umana e nella conoscenza di Dio attraverso le sue opere. Questa può essere anche detta “beatitudine imperfetta”, in contrasto con la beatitudine soprannaturale perfetta[202]. Ma bisogna subito notare che il concetto di “beatitudine imperfetta” è quanto mai problematico, giacché «col nome di beatitudine non si intende altro che il bene perfetto della natura intellettuale»[203]; beatitudine imperfetta sarebbe quindi “perfezione imperfetta” o “beatitudine non beata”! Si potrebbe quasi dire che ci troviamo dinanzi ad un concetto “dialettico”, che si pone e si nega invitando al superamento. Più chiaro è senz’altro il concetto di “felicità naturale”: essa è proporzionata alla natura umana, e quindi l’uomo potrebbe conseguirla con le sue forze (ma non senza l’aiuto di Dio), usando rettamente le facoltà naturali ed arrivando alla conoscenza delle verità umanamente accessibili; comunque all’uomo così “felice” resterebbe pur sempre qualcosa da desiderare. Non bisogna poi dimenticare che le facoltà umane naturali sono in stato di abituale disordine a causa della concupiscenza, che porta a fermarsi sui beni transitori trascurando il bene ultimo[204].

La beatitudine perfetta, o beatitudine tout-court, invece, sorpassa infinitamente le capacità della natura umana, e ne compie perfettamente le attese: può essere pertanto solo un dono di Dio, soprannaturale. La filosofia non può che mostrarne il desiderio e la convenienza, mentre soltanto la teologia può illustrarne l’essenza e le modalità.

9.3          Le basi dei diritti umani

Nella nostra indagine siamo giunti ad un punto fermo:

·     la ragione coglie come beni umani gli oggetti delle inclinazioni (comuni e specifiche) iscritte nella natura umana.

9.3.1    Natura e ragione

È la ragione a far conoscere il bene; vivere bene significa «vivere secondo ragione»[205]. Ma non si tratta di una ragione che trae da se stessa il valore e il senso delle cose: essa trova nella natura umana - corporea e spirituale, animale e razionale insieme - il fine del dovere stesso, ossia il bene.

È la natura ad inclinare verso il bene. Ma questa natura non è un ipotetico stadio anteriore allo sviluppo della società o semplicemente la dimensione biologica, animale dell’essere umano. La base “naturale” dell’etica va ricercata nelle inclinazioni “naturali” insite in ogni uomo. Ma attenzione! Non si devono confondere queste inclinazioni naturali con i desideri spontanei soggettivi o con i gusti di ciascuno.

Le inclinazioni naturali sono connesse anzitutto con la struttura anatomica del nostro corpo: abbiamo un occhio che è fatto per vedere,  un apparato digerente che è fatto per assimilare i cibi, un apparato genitale che è fatto per la riproduzione, ecc. La nostra struttura somatica è portatrice di un finalismo intrinseco: conservare l’essere e propagare la specie. Ad un livello superiore scopriamo in noi stessi l’esigenza di conoscere la verità, di intessere relazioni di amicizia, di vivere in pace. Questi finalismi, queste esigenze costituiscono delle inclinazioni i cui oggetti si mostrano alla nostra ragione come beni da perseguire, ed i loro contrari (la morte, l’estinzione della specie, l’ignoranza, l’inimicizia, ecc.) come mali da evitare.

Dunque il perseguimento di questi beni si rivela adeguato, consono all’esistenza umana, non perché qualcuno lo vuole arbitrariamente, ma perché la natura umana è fatta così. È chiaramente la ragione che coglie questa consonanza, ma non è essa a costituirla.

9.3.2    I diritti umani e il loro ordine

Classicamente, questo rapporto di consonanza tra un bene e la persona, si chiama giusto: è giusto che alla persona venga consentito di cercare o di ottenere un determinato bene, la persona ha diritto a quel bene (cfr. 6.2). E giacché non è si tratta di un rapporto stabilito o “posto” da qualche autorità, ma di un rapporto insito nella natura, esso si chiama “giusto naturale” o diritto naturale.

Questa è la base ed il fondamento dei famosi “diritti dell’uomo” che il pensiero contemporaneo esalta ma non riesce a fondare! L’uomo ha diritto alla vita e all’integrità delle membra, perché la natura lo inclina a questo; ciò vale per il diritto alla verità, alla libertà di coscienza e alla libertà religiosa, alla scelta dello stato di vita, ecc. Da questo scaturiscono i precetti della legge naturale, che mi impongono di rispettare tali diritti e di evitare ciò che è contrario ad essi (come vedremo nel prossimo capitolo).

Nel cogliere il diritto naturale, la ragione giunge anche a conoscere che, nelle inclinazioni e nei precetti che ne conseguono, c’è un ordine, fondato - in ultima analisi - sul fatto che il soggetto di queste inclinazioni è uno: colui che ha diritto alla vita e all’integrità fisica è lo stesso che ha diritto a vivere in società ed ha diritto alla libertà religiosa: è lo stesso individuo. C’è dunque un ordine oggettivo, in base al quale si capisce che non ha senso tendere al bene-essere (alla cosiddetta “qualità della vita”: comodità, agiatezza, salute, ecc.) se rischia di venire a mancare l’essere tout-court: «A che serve guadagnare tutto il mondo se poi uno perde la propria vita?»; e si capisce anche che si può rinunciare ad un bene inferiore (p. es. a un determinato cibo) per un bene superiore (p. es. l’aiuto da dare ad un amico), ecc.

9.4          Fonti della moralità

Evidentemente le nostre singole scelte (e le concrete azioni conseguenti) non hanno come oggetto il Bene beatificante, ma singoli beni concreti. Questo è anche il motivo per cui siamo liberi: di fronte al Bene conosciuto come beatificante, la nostra volontà non potrebbe non aderirvi totalmente, mentre davanti ad una pluralità di beni relativi è sempre possibile aderire all’uno o rifiutare l’altro in base alla propria stima e valutazione.

Se, a questo punto della nostra indagine, ci chiediamo: che cosa rende buono o cattivo un atto umano? Possiamo già rispondere: è buono un atto col quale tendiamo ad un bene umano seguendo l’ordine delle inclinazioni naturali. Ma quali criterî abbiamo per discernere se esso è ordinato o meno?

L’esistenza umana va considerata come una successione di atti, che assume carattere di “successione” grazie ad un particolare sottoinsieme di atti che consentono di “tenere insieme” i diversi momenti: gli atti linguistici che preparano, rappresentano e raccontano l’azione. Ora, per descrivere l’azione, a livello minimale, abbiamo bisogno di considerare tre elementi: la sua struttura oggettiva, la motivazione e le circostanze. Questi elementi sono chiamati “fonti della moralità”, perché consentono di individuare l’atto morale nella sua essenza.

9.4.1    La struttura oggettiva dell’atto

Il primo elemento da descrivere per qualificare l’azione è la sua struttura oggettiva: che cosa vien fatto? È questo un punto di estrema importanza, sul quale non sempre ci si esprime con la dovuta chiarezza.

Un’azione potrebbe essere descritta in termini impersonali, considerandone solo gli aspetti fisici (gli elementi “ontici”), p. es.: «Tizio estrae dalla sua tasca una banconota e la pone nella mano di Caio, il quale la intasca».

È evidente che una descrizione di questo tipo non ci dice quasi nulla sull’identità dell’azione stessa! Potrebbe trattarsi di un pagamento, se il denaro è dato in cambio di una merce; o potrebbe essere una retribuzione, se è dato in cambio di una prestazione d’opera; o di un atto di corruzione, se in cambio si richiede un favore illecito; o di un dono, se è dato spontaneamente e senza contraccambio; o di una estorsione se è dato per evitare un ricatto…

La mera descrizione degli aspetti ontici dell’azione, dunque, non ne qualifica la struttura. Sappiamo infatti che un’azione può essere considerata atto umano solo quando è volontaria, guidata dall’azione e oggetto di scelta. Vale a dire: l’atto umano è sempre intenzionale. L’evento descrivibile con categorie fisiche (dare-una-banconota) non è un atto umano se non procede da un volere che, nel compiere quel determinato movimento, intende sempre qualcosa.

Bisogna chiedersi: a che pro consegnare una banconota? Per pagare, per regalare, per restituire… La struttura oggettiva dell’atto sarà quindi descrivibile come “pagamento”, o “regalo”, o “restituzione”. Mai invece ci si accontenterà di menzionarne gli aspetti ontici.

Per struttura oggettiva dell’atto intendiamo dunque la sua intenzionalità di base che, classicamente, è denominata finis operis: le azioni così descritte possono essere dette «azioni-base intenzionali»[206].

Questo costituisce un primo piano intenzionale, a cui si può aggiungere un ulteriore «a che pro?» (es.: fare un regalo a qualcuno per amicizia, o per adempiere ad un dovere sociale, o per accattivarsene la simpatia…): questo - come vedremo - costituisce ciò che noi chiamiamo movente e che altri designano come intenzione in senso più stretto o, classicamente, finis operantis.

In questo senso si può parlare delle azioni umane come di mezzi ordinati al raggiungimento di un fine. Se il fine (il movente) è accattivarsi la simpatia di qualcuno, il mezzo potrà essere “fargli un regalo” (azione base intenzionale). Mentre il denaro non è un mezzo, ma solo un elemento ontico che entra nell’azione base intenzionale del regalo, come pure i movimenti corporei, gli oggetti materiali e i movimenti fisici che costituiscono l’azione. «I mezzi sono dunque sempre delle azioni umane definite sul piano intenzionale: azioni che sono state scelte, e in quanto sono oggetti di atti di scelta, cioè in quanto nascono da una volontà guidata dalla ragione»[207].

Va subito notato che vi sono atti che corrispondono alle inclinazioni della natura umana e ne rispettano l’ordine oggettivo: ad esempio mangiare. Vi sono altri atti che contrastano con queste inclinazioni e ne contraddicono l’ordine: ad esempio suicidarsi. Come pure vi sono atti che in se stessi né contraddicono né corrispondono alle inclinazioni naturali: ad esempio dipingere. L’atto viene così a collocarsi, sin dalla sua intenzionalità di base, in una specie morale, che può essere buona o cattiva[208].

9.4.2    Il movente

All’intenzionalità di base si aggiunge il movente, o finis operantis, che indica gli atteggiamenti interiori, le finalità personali che portano il soggetto a compiere una determinata azione piuttosto che un’altra e determinano quella finalità ulteriore che consente di qualificare l’azione base intenzionale come un “mezzo” per ottenere qualcosa.

I moventi possono essere qualificati come buoni o cattivi in se stessi. Buone sono quelle intenzioni che tendono al conseguimento del fine dell’uomo, ossia la vita onesta; cattive sono quelle che, soffermandosi sulla ricerca dell’utile o del piacevole, subordinano a questi le considerazioni dell’onestà.

Come abbiamo visto in 3.1.2,  l’atto della volontà che si dirige verso un mezzo è chiamato “scelta”; mentre l’atto che tende verso un fine ulteriore è chiamato “intenzione”.  In realtà questi due elementi formano un unico oggetto dell’azione (o un unico oggetto di volontà). Scegliamo di fare-un-regalo perché abbiamo intenzione di esprimere-amicizia: l’oggetto della volontà è unico: fare-un-regalo-per-amicizia.

Ora, giacché “scegliere-un-mezzo-in-vista-di-un-fine” è un unico atto di volontà, che costituisce un’unica azione intenzionale, si capisce perché non ogni mezzo è compatibile con ogni fine. Poniamo che la mia intenzione si rivolga verso un fine giusto, p. es. aiutare i poveri, e che io scelga, come mezzo per ottenere questo fine, di compiere una rapina… L’azione nel suo complesso risulta contraddittoria rispetto al fine globale: la giustizia non può essere raggiunta con un atto di ingiustizia!

Con questo siamo arrivati ad un punto di estrema importanza per la comprensione del discorso etico: un’azione che nella sua struttura oggettiva contrasta con un bene umano fondamentale non può mai diventare buona: nessun movente e nessuna circostanza varrà mai a giustificarla. Scegliere un comportamento del genere è sempre un male. Uccidere, rubare, tradire, mentire, sono soltanto alcuni esempi di atti intrinsecamente cattivi che, non rispettando la persona umana nella sua natura costitutiva, non possono in alcun modo diventare buoni.

Se la struttura oggettiva dell’azione è buona o indifferente, un movente buono intensifica la bontà dell’atto e lo rende anche soggettivamente buono. Ad esempio: aiutare il prossimo in difficoltà è oggettivamente bene, ma io potrei trovarmi a dover aiutare questa famiglia, la cui casa sta bruciando, semplicemente perché sono un vigile del fuoco. Se agisco unicamente per la costrizione impostami dai miei superiori, con l’unico scopo di conservare il posto di lavoro e senza alcun interesse per le persone che soccorro, farò anche un’azione oggettivamente buona (o materialmente buona), ma questa bontà non arricchirà la mia persona, non contribuirà a rendere buono me stesso. Se invece nella mia intenzione entra anche l’amore per quella povera gente e per il bene comune, l’azione diventerà buona anche soggettivamente (o formalmente), ed io sarò non solo un “buon vigile del fuoco”, ma un “uomo buono”[209].

Così come può accadere anche che un’azione oggettivamente buona diventi addirittura soggettivamente cattiva se compiuta con un’intenzione cattiva: ad esempio per vanagloria o per ipocrisia.

Se poi la struttura oggettiva dell’azione è cattiva, nessun movente buono può modificarne la malizia intrinseca. Prendiamo il caso di una donna incinta, gravemente ammalata, che viene fatta abortire al fine di salvarle la vita (il cosiddetto “aborto terapeutico”)[210]: l’intenzione potrà pure essere buona, ma la struttura oggettiva dell’azione che si pone è intrinsecamente cattiva, e pertanto l’atto è cattivo. Cattivo non solo materialmente, ma anche formalmente, perché non si può compiere un atto direttamente abortivo senza volere l’uccisione del feto, cioè senza volontà omicida, e non si può avere una volontà omicida senza essere formalmente cattivi. Il fine non giustifica i mezzi.

9.4.3    Le circostanze

Per descrivere compiutamente un’azione bisogna poi considerare altri elementi che “stanno intorno” all’atto e, pur non modificandone l’intenzionalità di base, tuttavia la precisano e la specificano: le circostanze.

Se, ad esempio, l’azione che consideriamo è un furto, è evidente che la gravità morale dell’atto sarà maggiore se il ladro è un ricco anziché un povero; rubare ad un povero, d’altra parte, è più grave che rubare ad un ricco: l’identità dei soggetti in gioco è dunque una circostanza importante.

Rubare una mela, d’altra parte, è cosa assai diversa dal rubare un diadema di brillanti: anche l’oggetto materiale su cui verte l’azione ha la sua rilevanza!

Va anche considerato anche il luogo in cui si compie l’azione: rubare in casa d’altri, ad esempio, aggiunge al furto la violazione di domicilio.

I codici penali attribuiscono una gravità particolare ai “reati associativi”, ossia a quelle azioni in cui due o più persone si aiutano reciprocamente a commettere il male: se il furto è fatto con l’aiuto di qualcuno, tra le circostanze rilevanti va preso in considerazione anche questo aspetto.

Un uomo può rubare perché ha fame, per una sfida, per avidità di denaro… Questi aspetti vengono computati normalmente nel “movente”, ma nondimeno costituiscono delle circostanze di cui non si può non tener conto.

Si può rubare con violenza oppure con astuzia; un furto può essere operato “con scasso” oppure “con destrezza”: vanno considerate quindi anche le modalità dell’azione.

Infine si deve tener conto del tempo in cui l’azione è compiuta: un furto risulta particolarmente vile se, ad esempio, è perpetrato in una casa mentre tutti sono impegnati a vegliare un defunto…[211]

Quando si tratta di azioni cattive si parla di circostanze aggravanti o attenuanti. Ma anche il peso morale di un atto buono può variare a motivo delle circostanze: ad esempio, è oggettivamente bene aiutare il prossimo bisognoso, ma se questo aiuto è particolarmente oneroso la bontà dell’azione si accresce; e va notato che un atto in sé buono può diventare cattivo se posto in circostanze sbagliate; come un atto in sé indifferente può diventare buono o cattivo in circostanze diverse.

 

Da quanto esposto in questo paragrafo, penso dovrebbe risultare chiaro il senso dell’espressione classica:

·     Il bene procede da cause integre, il male da qualsiasi difetto (= bonum ex integris causis, malum ex quocumque defectu).

Perché l’atto umano sia buono è necessario che siano buoni tutti e tre gli elementi che lo caratterizzano: che la struttura oggettiva dell’azione sia buona o per lo meno indifferente, che le circostanze tendano al bene, che l’intenzione sia buona.

·     Se la struttura oggettiva dell’azione è intrinsecamente cattiva, nessuna circostanza e nessun’intenzione possono renderla buona.

·     Se il movente è cattivo anche un’azione buona nella sua struttura oggettiva e compiuta in circostanze appropriate diventa cattiva.

·     Se le circostanze sono inappropriate, anche un’azione buona nella sua struttura oggettiva e perseguita per motivi buoni diventa cattiva.


10.         La legge morale

Abbiamo determinato, nel capitolo precedente, il criterio per distinguere il bene (e quindi la virtù) dal male (e quindi dal vizio). Ora ci resta da vedere come questo criterio diventi regola della nostra condotta, traducendosi in “legge”.

Giacché il concetto di legge morale è assai problematico nella cultura contemporanea, cominceremo con l’esaminare brevemente gli atteggiamenti più diffusi a suo riguardo (10.1); scandaglieremo poi più dettagliatamente l’essenza della legge morale (10.2); quindi ci concentreremo sul concetto di legge morale naturale e sulle sue dimensioni (10.3), ed infine metteremo in luce le limitazioni intrinseche della legge riguardo al comportamento morale (10.4).

10.1     Atteggiamenti verso la legge

Nel discorso etico come nel linguaggio corrente, si assiste oggi ad un recupero di valore dei termini legge e legalità, a dispetto delle “allergie” che questi destavano sino a non molti anni or sono, sotto la spinta della contestazione; tali “allergie” trovarono espressione teorica nella etica della situazione, ossia in un progetto di teoria morale che toglie valore alle norme universali per fare del soggetto e della situazione gli unici criterî del retto agire.

Al di là delle ideologie, è possibile riscontare in questo atteggiamento ostile alla legge anche delle motivazioni giustificate. In un passato non molto remoto, infatti, si accentuava a tal punto l’importanza della legge umana nella teoria morale, da rendere l’etica una sorta di appendice del diritto o della “teoria dello Stato” (cfr. 9.1. Excursus 2, A.4), ed è comprensibile che questo abbia generato una reazione di segno opposto che, pur essendo inaccettabile nella sostanza, tuttavia era portatrice di esigenze nobili come l’esaltazione della libertà della persona e della dignità della coscienza.

D’altra parte il rapporto tra legge e libertà è stato inteso spesso in modo inadeguato. Se  infatti si ritiene che “libertà” significhi “fare quel che ci pare e piace”, la legge non può che apparire come una odiosa costrizione, come un limite. Un limite posto in nome di che cosa? Tante volte posto in nome della pura e semplice “volontà del principe” che, considerandosi sciolto dalla legge, si ritiene “libero” di comandare “quel che pare e piace a lui”. È questo l’orizzonte del “volontarismo” (la legge coinciderebbe con la volontà del legislatore), un filone di pensiero che affonda le radici nel nominalismo di certi medievali e arriva fino all’odierno positivismo giuridico.

Noi non riteniamo che “libertà” significhi questo. Siamo convinti che la vera libertà consista nella capacità di tendere al bene senza costrizioni, come abbiamo visto (cfr. 4.4) . Ed in questa prospettiva la legge non può essere ricondotta all’arbitrio dei potenti: deve essere un servizio alla vera libertà e quindi alla virtù delle persone.

Dicevamo che oggi la legge sta “riguadagnando posizioni”: di fronte alle sfide aperte dalle questioni di etica della vita, della politica, dell’economia (solo per accennarne alcune), si sente il bisogno di recuperare la legalità. Ma bisogna stare molto attenti: se questo recupero avverrà nella direzione del volontarismo e del positivismo giuridico (e spesso questa è l’ottica in cui si muovono tanti “codici deontologici” e “di autoregolamentazione”), non è difficile prevedere che la prossima generazione sentirà di nuovo la legge come un peso da scrollarsi di dosso e ci si troverà nuovamente al punto di partenza.

Il modo migliore per recuperare il valore della legge è dunque quello di recuperarne il concetto, ed è precisamente quel che tenteremo di fare in questo capitolo.

10.2     Essenza della legge morale

Il concetto di legge è chiaramente analogo. Parliamo di “leggi chimiche” o “leggi fisiche”, parliamo di “leggi sociologiche”, di “leggi dello Stato”, di “legge di Dio”... È evidente che si tratta di realtà assai differenti. Qual è l’elemento comune che ci consente di denominarle tutte “leggi”? Il fatto che si tratta sempre di regole o norme secondo cui un evento decorre o dovrebbe decorrere.

Le leggi delle “scienze particolari” (chimica, fisica, sociologia, economia ecc.) non sono leggi morali, per due ordini di motivi. Anzitutto perché sono “parziali”: riguardano determinati aspetti o determinati fini, ma non “il” fine globale dell’esistenza umana. Poi perché non creano un “dovere” nel soggetto, ossia non fanno appello alla sua libera volontà.

Come abbiamo più volte ripetuto, la morale si occupa degli atti umani, e quindi ci interesseranno solo le leggi che riguardano gli atti umani. Possiamo pertanto dare una prima definizione:

·     Si intende per legge morale la regola e misura degli atti umani.

Ognuno di noi ha recepito tante leggi nel corso della sua formazione, e tante ne recepisce a tutt’oggi: dagli ordinamenti giuridici dello Stato a quelli della Chiesa, dai regolamenti della scuola a quelli dei circoli ricreativi, dalle norme codificate a quelle non scritte su cui si reggono le amicizie, le famiglie, ecc. Si tratta sempre di regole e misure di atti umani. Ma possiamo considerarle sic et simpliciter come “leggi morali”? Evidentemente no. Ci troviamo di fronte ad una autentica legge morale, quando essa presenta le seguenti caratteristiche: 1. deve trattarsi di un ordine della ragione; 2. deve essere un ordine finalizzato al bene comune; 3. deve procedere dalla legittima autorità che guida la comunità; 4. deve essere stata promulgata. Esaminiamo questi punti per ordine; in fine saremo in grado di determinare gli effetti della legge.

10.2.1                                      La legge è un ordine della ragione

Sappiamo che gli atti morali portano in sé l’impronta specifica dell’umanità, ossia la “razionalità” (cfr. 3.1): spetta infatti alla ragione il compito di ordinare le azioni verso il loro fine. Dunque la “regola e misura degli atti umani”, la legge morale, sarà di ordine razionale.

S. Tommaso afferma che la legge è «un qualcosa che appartiene alla ragione» (aliquid rationis)[212] e specifica che si tratta di una proposizione universale della ragione pratica atta a dirigere le azioni.

Proviamo a chiarire con un esempio: un uomo in difficoltà mi chiede aiuto ed io avverto che è mio dovere aiutarlo. Ma avverto anche che  in questa situazione concreta - rappresentata da questo singolo uomo, dalla sua specifica difficoltà, dalla sua richiesta di aiuto rivolta a me in particolare - sono davanti ad una “forma” che si realizza non solo qui ed ora, ma sempre e dovunque ci sia un uomo che chiede aiuto: avverto un appello alla realizzazione di un valore, che razionalmente può essere formulato in una proposizione universale: «Si deve sempre aiutare il prossimo in difficoltà». Seguendo Aristotele, Tommaso parla dell’azione come del risultato di un sillogismo pratico (syllogismus in operabilibus) in cui la legge funge da premessa accanto alla descrizione della situazione concreta. Il ragionamento pratico si può schematizzare così:

a) si deve sempre aiutare il prossimo in difficoltà;

b) quest’uomo in difficoltà ora mi chiede aiuto;

c) io ora devo aiutare quest’uomo.

La conclusione ‘c’ - che, come vedremo nel prossimo capitolo, è il giudizio della coscienza - scaturisce dall’applicazione alla situazione particolare e concreta ‘b’ della proposizione universale ‘a’, che costituisce appunto la legge.

Nel sostenere che la legge è di ordine razionale non intendiamo escludere il ruolo della volontà, infatti «se la ragione riesce a stimolare all’azione questo è per merito della volontà»[213]. Vogliamo però affermare che la formalità della legge è data dalla ragione pratica e non dalla volontà, in quanto quest’ultima non può fungere di per sé da regola e misura. Con una metafora possiamo dire che la ragione senza la volontà è paralitica e la volontà senza la ragione è cieca: un cieco non può indicare la strada, un paralitico non può percorrerla.

10.2.2                                      La legge ordina sempre al bene comune

Il compito della ragione è dunque quello di formulare una proposizione universale che serva da regola per l’azione: questo costituisce l’elemento “formale” della legge. Ma se ci si fermasse qui, si cadrebbe nell’errore kantiano di ritenere la legge come una forma vuota, priva di contenuto materiale (cfr. 9.1. Excursus 2, A.3): ci si accontenterebbe di definire la legge come un “ordine” della ragione, ma non si capirebbe a partire da dove e verso dove la ragione ordina di muoverci. È la grande questione dell’elemento “materiale” della legge.

Se - come abbiamo visto (cfr. 2.2.4) - ogni azione è compiuta in vista di un fine, di un bene, il compito della legge sarà quello di indicare il retto rapporto tra le azioni umane ed i fini della vita virtuosa.

Ma l’uomo è “persona”, cioè individuo-in-relazione. La natura dell’uomo è socievole, politica. Pertanto egli non può raggiungere il suo fine, il vero bene, se non insieme ad altre persone, in comunità. Impegnandosi a realizzare il proprio autentico bene, la persona realizza anche il bene della comunità e, reciprocamente, impegnandosi per il bene della comunità, realizza anche il proprio bene personale

La comunità è infatti più che la semplice somma degli individui: essa è caratterizzata essenzialmente dall’ordine che regna tra le parti in vista del fine da raggiungere. E, come sappiamo, in etica il “fine” si configura come bene. Così il bene comune è qualcosa di più della semplice somma dei beni degli individui: è ciò a cui tutti i beni individuali ordinatamente tendono.

Ora, giacché la legge dice ordine-al-bene, necessariamente questo va inteso anche come bene comune.

10.2.3                                      La legge procede da colui che guida la comunità

Se la legge riguarda l’ordine al bene comune, essa dovrà essere data dal soggetto del bene comune stesso, ossia dalla comunità; oppure da qualcuno che è stato legittimamente preposto ad esercitare la funzione di guida della comunità stessa.

Il concetto qui espresso potrebbe sembrare banale, e tuttavia può aiutare a comprendere meglio il rapporto tra la razionalità e la legge. Certamente si può dire che ogni essere razionale è “legge a se stesso”, è “autonomo”. Ma questa autonomia può essere intesa in due modo toto caelo diversi.

Per qualcuno “autonomia” significa che la ragione di ogni individuo è il principio regolante indipendente ed assoluto. Questo evidentemente porta alla distruzione della comunità, all’anarchia, al caos.

Il principio di autonomia, al contrario, va inteso nel senso che ciascuno, in forza della sua ragione, è chiamato a inserirsi nell’ordine della vita buona, in modo da partecipare liberamente al raggiungimento del bene comune e ad una sempre migliore definizione di esso e dell’ordine ad esso funzionale. In quest’ambito rientra sia l’attività del legislatore, sia la doverosa critica dell’ordine costituito dalla legge - che va esercitata da ogni cittadino competente - per verificare le eventuali discordanze con il bene comune e collaborare ad operare le necessarie correzioni.

10.2.4                                      La legge deve essere promulgata

È evidente che un precetto non può obbligare prima che sia stato fatto conoscere.

Per quanto riguarda l’obbligazione giuridica, essa scatta in seguito ad un atto formale di promulgazione (quando la legge è inserita nelle raccolte ufficiali delle disposizioni).

Per quanto riguarda l’obbligazione morale, essa è legata alla complessa dinamica della coscienza (che esamineremo nel cap. 11). In questo senso la legge deve essere interiorizzata tra le conoscenze morali del soggetto, e il suo contenuto deve apparire alla luce del principio fondamentale: si deve fare il bene ed evitare il male.

10.2.5                                      Gli effetti della legge

L’effetto della legge morale - di una legge che sia realmente degna di questo nome - è quello di rendere buoni gli uomini, vale a dire: di renderli virtuosi.

Come abbiamo detto (cap. 4), la virtù si caratterizza come una piena sottomissione alla ragione. La legge è precisamente una istruzione rivolta alla ragione perché possa meglio regolare gli atti.

Questo vale tanto per l’individuo quanto per la società. L’individuo è virtuoso quando tutte le sue facoltà tendono armonicamente al bene sotto la guida della ragione legislatrice. La società è virtuosa quando tutte le sue componenti tendono armonicamente al bene comune sotto la guida del legislatore. Quest’ultimo, poi, è tenuto, in forza del bene comune, ad una virtù superiore, intesa come più profonda sottomissione al dettame della retta ragione pratica per il bene comune.

10.3     La legge naturale

È assai importante ribadire che la ragione non crea a proprio piacimento la legge morale, non è principio assoluto. La nostra ragione scopre il bene come fine delle inclinazioni iscritte nella natura umana stessa e formula la legge sulla base di questo fine. Abbiamo definito come “giusto” (iustum) o diritto (ius) il rapporto ordinato tra un bene adeguato, consono all’esistenza umana e l’uomo stesso (cfr. 9.3): il compito della ragione consiste nel cogliere questa consonanza e formularla in una proposizione pratica universale. Pertanto possiamo dire che:

·     La legge è la formulazione razionale del diritto[214].

Se questo diritto non è posto dall’uomo ma dalla natura (es.: il diritto alla vita), la legge formulata sulla sua base sarà “legge naturale” (es.: «non uccidere»), se invece il diritto è posto dagli uomini sulla base di una convenzione (es.: il diritto di eleggere i propri rappresentanti in una determinata assemblea), la legge formulata sulla base di questo diritto sarà “legge umana positiva” (es. una legge elettorale).

10.3.1                                      Precetti della legge naturale

Dobbiamo a questo punto richiamarci a quanto detto nel capitolo precedente a proposito del diritto naturale e del suo ordine (cfr. 9.3.2).  Essendo “bene” ciò che si pone come “fine”, la ragione pratica apprende in modo naturale come “bene da farsi” tutto ciò verso cui l’uomo ha un’inclinazione naturale, ed apprende come “male da evitare” tutto ciò che gli è contrario. Per cui:

·     «L’ordine dei precetti della legge naturale segue l’ordine delle inclinazioni naturali»[215].

Abbiamo visto che le inclinazioni naturali sono un sistema ordinato di rapporti, finalizzato armonicamente al bene dell’uomo.

L’inclinazione iscritta nell’animale irrazionale si attua in modo inconsapevole e non costituisce una “legge” vera e propria: i lupi allevano i loro cuccioli seguendo spontaneamente una “legge di natura”, ma non certo una legge morale! Nell’uomo, invece, è la ragione che afferra il giusto iscritto nella inclinazione e formula la legge morale naturale: «Ogni genitore deve prendersi cura dei propri figli», una legge che ha valore anche per un genitore che “spontaneamente” non provasse alcun “sentimento paterno”. La legge è valida perché la natura umana racchiude in sé questa finalità e, in forza della sua razionalità. richiede il rispetto di questo ordine.

Si è già detto che possiamo indicare tre inclinazioni inerenti per natura all’uomo: inclinazione alle conservazione dell’essere (comune a tutte le sostanze), inclinazione alla conservazione della specie (comune a tutti gli animali), inclinazione alla conoscenza della verità e alla vita sociale (specifica dell’uomo). Tali inclinazioni non hanno rilevanza morale se non nella misura in cui sono riconosciute e ordinate dalla ragione[216].

Tuttavia, per quanto riguarda le inclinazioni comuni agli animali, la ragione si può basare su indicazioni materiali e corporee basate su organi anatomicamente definiti. Ad esempio, che la relazione sessuale ordinata secondo natura debba essere tra un maschio e una femmina (cioè eterosessuale e non omosessuale né autoerotica) è evidente dall’anatomia e dalla fisiologia del corpo umano. Pertanto il “diritto naturale” che si manifesta in queste inclinazioni ha una stabilità ed una universalità dipendenti dalla stessa struttura biologica dell’uomo. Possiamo dire che tale struttura manifesta l’elemento materiale della legge naturale, mentre l’intervento della ragione ne esprime l’elemento formale.

Per quanto riguarda invece l’inclinazione specifica dell’uomo, essa manca di indicazioni somatiche e rivela la dimensione spirituale dell’uomo (intelligenza e volontà) che tende alla conoscenza della verità  e alla vita sociale.

È chiaro che in questo “ordine dei precetti”, fondato sull’“ordine delle inclinazioni”, i gradini superiori presuppongono quelli inferiori: la conservazione dell’essere è fondamento di tutti i valori ed è necessaria - quindi presupposta - ad ogni bene-essere. Ma non si tratta di una semplice giustapposizione di livelli: come sappiamo (cfr. 8.3, Excursus 1) l’uomo non è “un corpo” in cui abita “uno spirito”: è unità sostanziale di principio spirituale e principio materiale, ed è il principio spirituale (ossia l’anima razionale) che dà unità al composto e fa di esso un essere umano.

L’anima razionale spirituale è portatrice delle inclinazioni della natura specifica dell’uomo, ma assume in sé tutte le funzioni e le perfezioni dell’anima vegetativa e sensitiva, quindi anche le inclinazioni della natura generica. E ciò non costituisce una mera sovrapposizione di potenze, ma una vera e propria trasfigurazione dell’inferiore nel superiore[217].

A questo punto dovrebbe essere chiaro cosa significa che l’ordine dei precetti della legge naturale segue l’ordine delle inclinazioni naturali: c’è un ordine gerarchico tra le inclinazioni e, quindi, tra i precetti della legge naturale: «La gerarchia consiste nel fatto che una funzione serve l’altra nella misura in cui lo spirito le regola»[218].

Si comprende quindi il senso dell’affermazione tanto frequente in S. Tommaso: «Il bene dell’uomo sta nell’essere secondo ragione»[219]. Il termine ragione ha qui due sensi:

a.   un senso gnoseologico, in base al quale si afferma che l’uomo, ragionando sulle proprie inclinazioni, scopre i beni da perseguire e deduce in modo “razionale” i precetti della legge naturale, che gli indicano quali mezzi usare per raggiungere quei fini;

b.   ma a fondamento di ciò sta la ragione in senso ontologico, vale a dire ciò che differenzia specificamente l’uomo da tutti gli altri animali.

«Vivere secondo ragione», quindi, non significa semplicemente che i precetti dell’agire devono essere dedotti in modo formalmente corretto, ma soprattutto che si deve vivere in modo conforme alle esigenze dell’esistenza umana e della sua perfezione.

10.3.2                                      Universalità e immutabilità della legge naturale

La legge naturale è una sola e valida per tutti gli uomini e in tutti i tempi, oppure cambia a seconda dei tempi, degli individui e dei contesti socio-culturali?

Il concetto stesso di legge naturale, ossia di legge iscritta nella natura umana, implicherebbe che ovunque c’è un essere umano valga la stessa ed identica legge che vale per tutti gli altri esseri umani.

Eppure la storia e l’antropologia culturale ci mostrano un’estrema varietà di usi e di costumi, tale da mettere in serio dubbio la convinzione che la stessa legge morale sia valida per tutti. Oggi proviamo scandalo di fronte a pratiche comunemente accettate fino a qualche secolo fa, come lo schiavismo e la tortura. Viceversa, i medievali sarebbero scandalizzati - ad esempio - dal nostro sistema di prestito bancario, fondato sulla riscossione di interessi, che loro consideravano assolutamente illecita. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

D’altra parte queste obiezioni sembrano fondarsi su un pilastro ancora più radicale: da parte di alcuni indirizzi di pensiero, tanto antichi (nominalismo) che recenti (esistenzialismo), si nega che ci sia una “natura” comune a tutti gli uomini, e pertanto che esita una “legge morale” dipendente da tale natura.

Dobbiamo pertanto chiederci anzitutto se esista una natura comune a tutti gli uomini  e se sia mutevole o perenne (10.3.2.1), poi vedremo in che senso possa mutare la legge naturale (10.3.2.2).

10.3.2.1               Unità e mutabilità della natura umana

Mostrare l’unità della natura umana è compito dell’antropologia filosofica[220]. Qui mi limito a notare che anche un bambino che guarda i cartoni animati distingue immediatamente non solo Charlie Brown da Snoopy e da Woodstock, ma riconosce che Charlie Brown è un essere umano come Lucy e Linus, che Snoopy è un cane come Pluto, che Woodstock è un uccello come Tweety. Ognuno di questi individui, di cui percepiamo solo la “forma sensibile”, ci si presenta, con immediata evidenza, come appartenente ad una determinata specie, diversa da tutte le altre specie. Ogni individuo è cioè determinato non solo secondo la propria individualità, ma anche secondo la propria specie, la quale comprende più individui. E questa determinazione specifica degli individui la chiamiamo natura.

È evidente dunque che esiste una natura umana, in forza della quale possiamo chiamare “essere umano” chiunque manifesta determinate caratteristiche proprietà, relazioni ed operazioni che ciascuno di noi percepisce anche in se stesso. Ed è su questa natura che si fonda la legge naturale.

Ma a questo punto si apre un’ulteriore problema: la natura umana è immutabile o può cambiare?[221] Il problema si pone, giacché noi vediamo che l’uomo, al contrario degli altri animali, è un essere “capace di storia e di cultura”. Intendiamo dire che l’uomo è capace di modificare consapevolmente il proprio ambiente vitale e, quindi, di modificare se stesso. Mentre i cavalli nascono, vivono e muoiono oggi in maniera del tutto simile a cinquemila anni fa, gli uomini dell’epoca del computer pensano ed agiscono diversamente da quelli dell’epoca della stampa a torchio... pensiamo un po’ quale distanza ci separa dagli uomini dell’età della pietra!

Tutto ciò ha fatto ritenere ad alcuni che la natura umana stessa sia mutevole, che non esista nulla di fisso e di stabile e tutto, nell’uomo, sia passibile di cambiamento; da questo essi deducono che nella legge morale tutto sia mutevole e non esista alcun precetto stabile È una tesi manifestamente assurda nel suo fondamento, almeno per due ordini di motivi.

1.   Abbiamo detto che l’uomo è “capace di storia”, perché ha la “capacità di cambiare”. Ora, proprio questa “capacità” è fondata su alcune caratteristiche della natura umana che devono permanere immutabili attraverso tutti i cambiamenti, altrimenti, se questi elementi venissero meno, l’uomo smetterebbe di cambiare! In termini concisi: la stessa potenza di mutamento è fondata su caratteristiche immutabili della natura umana.

2.   Il fatto che si possa parlare di “storia” ed “evoluzione” implica che vi sia un soggetto permanente, che rimanga identico a se stesso attraverso la storia. Certamente l’uomo è cambiato dal paleolitico ad oggi, ma sempre uomo è!

Questo significa nella stessa legge naturale vi sono elementi mutabili ed elementi permanenti, ma il cambiamento riguarda solo aspetti accidentali e non sostanziali dell’essere umano.

10.3.2.2               Mutabilità di alcuni precetti della legge naturale

La legge naturale impone di agire “secondo ragione”, ed il procedimento proprio della ragione consiste nel passare dalla conoscenza dei principî comuni alle conseguenze proprie. Ma qui si manifesta una differenza importante tra l’ambito speculativo e quello pratico.

La ragione speculativa si occupa principalmente delle realtà necessarie, che non possono essere diversamente da come sono. Per cui, in campo speculativo, la verità insita nei principî passa senza alterazioni nelle conclusioni. Se dico:

- La somma degli angoli interni di un triangolo piano è pari a 180°,

- ma gli angoli A e B di questo triangolo misurano 50° ciascuno;

- necessariamente l’angolo C misura 80°.

A questo ragionamento non si danno né si possono dare eccezioni di sorta.

La ragione pratica, invece, si occupa delle azioni umane, che non sono necessarie, ma contingenti. Certamente anch’essa muove da principî comuni necessari: il primo principio «bisogna fare il bene» ed i precetti che conseguono immediatamente dalle inclinazioni naturali. Tuttavia, quanto più si discende alle realtà concrete, tanto più verrà in crisi questa necessarietà. Le azioni umane infatti sono «contingenti non solo quanto alla loro posizione, che dipende da un atto della volontà libera, ma anche quanto al loro valore, alla forma che essere rivestono per il giudizio morale»[222]. Le azioni umane sono concrete e si sviluppano in circostanze mutevoli; è possibile quindi l’eccezione. Così afferma S. Tommaso:

«Ciò che è naturale per chi ha una natura immuta­bile, necessariamente è sempre e dovunque lo stesso. Ma la natura dell’uomo è mutabile. Per questo, ciò che è natura­le per l’uomo può difettare in qualche occa­sio­ne. Così, l’equità naturale vuole che venga resti­tuito al depositante ciò che egli ha lasciato in deposito, e se la natura umana fosse sempre retta, questo precetto andrebbe sempre osservato. Ma poiché talvolta  può accadere che la volontà dell’uomo sia depravata, si dà qualche caso in cui il deposito non vada resti­tuito, perché un uomo con una volontà perversa non ne usi male, come ad esempio se un pazzo furioso o un nemico della patria reclami un’arma lasciata in deposito»[223].

Si tratta di una mutazione inerente al contenuto stesso della legge: la “verità o rettitudine” del precetto che comanda la restituzione non è più tale in quella data circostanza, perché la natura dell’uomo è cambiata per il difetto conseguente alla depravazione della volontà. Ovvia­mente ci sono dei limiti a questa mutabilità: la natura umana ha un nucleo stabile, perenne, che viene espresso dai principî primi comuni. Ed è proprio in base a questo nucleo immutabile che possono riconoscersi le stesse eccezioni: infondo - ci sembra di poter dire - non si deve restituire l’arma al soggetto pericoloso perché tale restituzione sarebbe irragionevole, ossia contraria alla legge naturale!

I principî primi comuni della legge naturale sono dunque immutabili, non ammettono eccezioni di sorta e sono conosciuti da tutti. Le conclusioni da essi derivate e dedotte, oltre a poter variare in un piccolo numero di circostanze, non sono ugualmente note presso tutti gli uomini e tutti i popoli: ad esempio, Giulio Cesare racconta che presso gli antichi Germani il latrocinio - che è manifestamente contrario alla legge naturale - non veniva considerato delittuoso[224]. In casi come questo, evidentemente, non difetta la verità o rettitu­dine del precetto, ma la conoscenza che determinati uomini ne hanno. La causa di tale deficienza è, ancora una volta, da ascri­versi alla depravazione della natura umana:

«Questo accade perché alcuni hanno la ragione depravata dalla passione, o dalla cattiva consuetudi­ne, o dalla cattiva attitudine della natura»[225].

Nulla - afferma Tommaso - può cancellare dal cuore umano i principî universali  della legge naturale, che sono abitualmente presenti nell’intelletto pratico (come vedremo in  11.2.1.1); ma in alcune occasioni può verificarsi che la ragione venga impedita ad applicare il principio al caso particolare, a causa della concupiscenza o della passione in genere. In questo senso si può parlare di una “cancella­zione” della legge naturale dovuta a ragionamenti fallaci o a comportamenti corrotti abituali.

10.3.3                                      Rapporto tra legge naturale e leggi umane

In molte occasioni abbiamo ripetuto che la natura umana, in forza della sua razionalità, inclina a vivere in società. Quindi è nella natura umana stessa che risiede l’esigenza di organizzare la società in funzione del bene comune. Questo è il fondamento naturale dell’attività legislatrice dell’uomo.

In ogni società deve esserci qualcuno, singolo o collegio, che ha il compito di guidare la comunità e pertanto di promulgare anche determinate leggi in forza delle quali la vita comunitaria può raggiungere il suo scopo, ossia il bene comune.

Con il realismo che gli è abituale, S. Tommaso considera questa esigenza anche da un punto di vista che potremmo definire pedagogico. Abbiamo detto che per natura l’uomo è inclinato al bene, ma che in ciascuno di noi sono presenti gli stimoli della concupiscenza e delle passioni: è necessario dunque esercitarsi nella disciplina, per riportare le passioni sotto la guida della retta ragione. Per i soggetti di buona indole, aiutati da un buon ambiente, bastano come disciplina i consigli paterni; ma per i soggetti più proclivi alla cattiveria, è necessario qualcosa che li tenga lontani dal male con la forza e il timore, affinché non facciano del male a se stessi e agli altri:

«Tale disciplina, che costringe con il timore della pena, è la disciplina delle leggi. Per cui è stato necessario porre delle leggi per la pace e la virtù degli uomini. Giacché, dice Aristotele nella Politica, L. I [c. 2, l. 1]: “Come l’uomo, se è perfetto nella virtù, è il migliore di tutti gli animali, così, se si allontana dalla legge e dalla giustizia, è il peggiore di tutti”; in quanto l’uomo - al contrario degli altri animali - ha l’arma della ragione per placare le concupiscenze e le crudeltà»[226].

Si ribadisce qui il principio che la legge naturale impone di vivere seguendo la ragione, e che in questo consiste la perfezione dell’uomo e la sua felicità. Abdicare a questo compito significa ridurre l’esistenza umana e sociale ad uno stadio peggio che bestiale, perché le bestie sono guidate passivamente dalle leggi ineluttabili iscritte nella loro natura, mentre l’uomo è fornito della luce della ragione per guidare se stesso ed il prossimo che gli è affidato[227]. La legge naturale, quindi, impone di legiferare.

Questo significa che tutte le leggi umane derivano dalla legge naturale? In linea di principio dovrebbe essere così. La legge, infatti, dovrebbe esprimere il rapporto di giustizia espresso dal diritto naturale, secondo la retta ragione:

«Quindi, ogni legge posta dagli uomini in tanto ha valore di legge, in quanto è derivata dalla legge naturale. Se poi in qualche cosa contrasta con la legge naturale non è più legge, ma corruzione della legge»[228].

Ma questa “derivazione” si realizza concretamente in due modi assai diversi.

a.   In alcuni casi si tratta di una vera e propria deduzione di una conclusione necessaria a partire dai principî della legge naturale: ad esempio, dal principio «non uccidere» consegue che chi uccide deve essere punito dalla società.

b.   In altri casi si tratta di una stima relativamente libera, e pertanto soggetta al cambiamento, secondo le circostanze storico-sociali: ad esempio relativamente a quale tipo di punizione un assassino debba ricevere (quanti anni di reclusione, in quale regime carcerario, ecc.).

Le determinazioni del secondo tipo hanno vigore solo di legge umana e variano assai nelle diverse legislazioni; quelle del primo tipo, invece, conservano qualcosa del vigore della legge naturale.

La legge umana è meno estesa della legge naturale e non può proibire tutte le cose che proibisce la legge naturale; nondimeno - come dice Agostino - «dal fatto che non fa tutto, non consegue che si debbano annullare le cose che fa»[229].

Inoltre, (come abbiamo visto nel paragrafo precedente) la legge naturale, nei suoi primi principî e nelle loro immediate conseguenze, rimane immuta­bile. Mentre la legge umana risente dell’imperfezione della ragione pratica umana, per questo è mutevole; e d’altronde, nella misura in cui contiene precetti particolari, essa deve mutare in relazione alle circostan­ze[230].

10.3.4                                      Legge naturale e legge eterna

Abbiamo detto più volte che la ragione umana non “crea” il valore, ma lo “scopre” nella realtà, cogliendo l’ordine delle inclinazioni naturali a cui corrisponde l’ordine dei precetti della legge naturale. Ora, se quest’ordine c’è e non è creato dall’uomo, da chi è creato? Dev’esserci una ragione ordinatrice che è regola e misura di tutte le cose, un criterio d’ordine indipendente da qualsiasi cosa (= assoluto) e dal quale ogni cosa dipende. E questo è ciò che tutti chiamano Dio.

Il piano razionale, il progetto in base al quale Dio ordina e governa ogni cosa è chiamato legge eterna. In base a questo piano, Dio provvede a che ogni creatura raggiunga il fine che le è proprio, ossia il bene.

Ora, questo progetto si realizza in tutte le cose. Se dunque troviamo nelle cose delle inclinazioni naturali in base alle quali esse tendono ordinatamente al fine che è loro proprio, questo avviene in virtù della legge eterna.

Tutte le creature partecipano della legge eterna nel loro essere orientate al fine. Il tipo di partecipazione cambia, però, quando si passa a considerare la creatura razionale, in cui si realizza una vera similitudine con la divina provvidenza. L’assoggettamento alla divina provvidenza che si realizza nella creatura razionale è “eccellente” e del tutto partico­lare: gli essere irrazionali sono oggetto passivo della provvidenza divina, l’uomo è chiamato ad essere anche soggetto attivo: Dio provvede a lui dotandolo di una ragione in base alla quale può provvedere a sé stesso ed al prossimo.

Il piano in base al quale Dio esercita la sua Provvidenza è la legge eterna. Il piano in base al quale l’uomo deve provvedere a se stesso e alle creature a lui affidate, è la legge naturale.

«Per cui è chiaro che la legge naturale non è altro che la partecipazione della legge eterna nella creatu­ra razionale»[231].

10.4     Limiti della legge

Intesa in questo modo, la legge non è padrona della vita morale: essa è piuttosto uno strumento a servizio della persona, in funzione della vita buona. In questa prospettiva è possibile intendere anche l’obbligazione che la legge porta con sé.

È evidente che, nella misura in cui la legge ci indica la strada verso il bene comune, noi siamo tenuti ad obbedire, ma quando la legge è ingiusta siamo moralmente obbligati a disobbedire. Altre volte, tuttavia, è possibile che una persona sia esentata anche dall’obbedienza ad una legge giusta. Come pure può capitare di dover disobbedire alla lettera della legge per adempierne meglio lo scopo. Esaminiamo nell’ordine i problemi.

10.4.1                                      La legge ingiusta

La legge fatta da autorità umane non ha competenze vaste e profonde come quelle della legge morale. Tuttavia, come abbiamo detto, il suo compito è quello di assicurare il bene comune, attraverso il riconoscimento e la difesa dei diritti fondamentali delle persone, la promozione della pace, la tutela delle condizioni grazie alle quali, chi vuole, può vivere come deve (cfr. 6.2).

Perché questo avvenga è necessario che la legge civile sia in armonia con la legge naturale, e quindi con la legge eterna. Quando invece la legge umana si pone in contrasto con la retta ragione, diventa perciò stesso ingiusta e quindi priva di validità giuridica.

È infatti evidente che la validità giuridica (in latino: iuridica) di una legge è data dal diritto (ius, iuris): orbene, una legge ingiusta (dal latino: in =“non”, e iustum = “giusto”, aggettivo derivato dal sostantivo ius, iuris) è, per definizione, una legge che viola il diritto e quindi è priva di validità giuridica.

Pensiamo alle leggi umane che misconoscono il diritto fondamentale e fontale alla vita, diritto proprio di ogni uomo: ad esempio le leggi che, con l’aborto e l’eutanasia, legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti. Esse sono in totale e insanabile contraddizione con il diritto inviolabile proprio di tutti gli uomini e negano, pertanto l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge.

Non solo non siamo tenuti ad obbedire a leggi di questo tipo, ma siamo positivamente tenuti a disobbedire. Come minimo, quindi, ci si adopererà per l’obiezione di coscienza nei confronti di leggi di questo tipo e per limitare i danni che da esse derivano.

10.4.2                                      L’esenzione dall’obbligo della legge

Può anche darsi il caso di una legge giusta da cui la persona può essere esentata in un determinato caso o anche per un certo periodo di tempo. Per capire se ciò debba verificarsi o meno, bisogna tenere presenti due fattori: 1) la condizione per cui si richiede l’esonero dalla legge, 2) il tipo di legge con cui abbiamo a che fare.

1) Il senso comune riconosce l’evidenza del detto classico: «Nessuno è tenuto a fare cose impossibili» (Ad impossibilia nemo tenetur); nel nostro contesto, ciò viene a significare che si può essere esentati dalla legge se ci si trova nell’impossibilità di rispettarla. Questa impossibilità può essere di due ordini: a) fisica; b) morale.

a) Impossibilità fisica è quella che si verifica quando un impedimento toglie all’uomo la qualsiasi possibilità di adempiere la legge. Es.: un pilota di aereo a cui un guasto meccanico toglie il controllo dell’apparecchio, non può salvare la vita dei passeggeri; un uomo gravemente ammalato non può adempiere i suoi obblighi di lavoro, ecc.

b) Impossibilità morale è quella che si verifica quando l’osservanza della legge, pur essendo possibile, richiede uno sforzo eccessivamente oneroso. P. es.: non è assolutamente impossibile andare a lavorare con la febbre a 38°, è tuttavia assai faticoso e rischioso. O, in un altro ordine d’idee: non è assolutamente impossibile correggere tutti gli errori di un libro dattiloscritto, e tuttavia, di fatto, nessuno riesce ad ottenere la perfezione.

L’impossibilità fisica esenta da qualunque tipo di legge. L’odierna psicologia ci insegna che le inibizioni e i condizionamenti psichici, quando sono realmente e gravemente patologici, sono da considerare in quest’ottica.

L’impossibilità morale non ci esime dai precetti negativi della legge naturale, ma può esimere da una norma affermativa. Per chiarire questo punto dobbiamo esaminare i diversi tipi di legge con cui abbiamo a che fare.

2) Non è possibile essere moralmente esentati dall’obbedire a leggi che esprimono esigenze essenziali dell’essere umano: se ciò avvenisse, significherebbe che qualcuno è esonerato dall’essere uomo! Queste leggi, da cui non è possibile essere esentati mai, sono quei precetti della legge naturale che si esprimono in forma negativa, ossia i divieti (es.: «non mentire», «non rubare», ecc.); i divieti, infatti, segnalano il limite estremo oltre il quale il valore morale viene infranto; mentre i precetti che si esprimono in forma positiva (es.: «dì sempre la verità», «fa’ l’elemosina», ecc.) non pongono un limite, ma indicano una direzione complessiva di comportamento, alla quale, tuttavia, è possibile che si dia qualche eccezione. Nel linguaggio classico si dice che i divieti obbligano sempre e in ogni circostanza (semper et pro semper), mentre i precetti positivi obbligano sempre, ma non in tutte le circostanze (semper, sed non pro semper). Mettiamo a confronto il divieto «non mentire» con il precetto «dì sempre la verità»: se sono custode di un segreto e qualcuno mi interroga in merito, certamente non potrò mentire, ma nemmeno dirò la verità: mi basterà tacere! Chi tace non dice la verità, ma non mente neppure.

10.4.3                                      L’epikéia (= equità)

Le teorie morali di stampo giuridico, di fronte a questi limiti evidenti connessi all’essenza stessa della legge, si sono trovate in grande imbarazzo: come stabilire un complesso di norme per determinare in quali circostanze un concreto soggetto può essere esonerato dall’osservare una certa norma?

Storicamente ciò ha portato, nell’epoca moderna, a due tipi di atteggiamenti. Da una parte si è curata con estrema meticolosità la formulazione delle leggi stesse, tentando di rubricare in esse tutto l’esistente (“ipertrofia” della legge); dall’altra si sono compilate numerose raccolte di “casi morali” in cui, anziché partire dalla legge per raggiungere il “mondo della vita”, si prendono le mosse proprio da questo mondo, descrivendo una situazione e il dilemma morale che comporta, per “risolvere” il problema alla luce della legge (casistica).

Ma l’impresa, per quanto meritoria, era disperata su tutti e due i fronti, perché la legge, per natura sua, è destinata a rimanere una indicazione di carattere generale, mentre il mondo della vita, in cui si svolgono le azioni umane concrete, manifesta una complessità tale da offrire sempre e comunque fattispecie nuove e non ancora rubricate.

In realtà, tutti questi sforzi manifestano l’impotenza della legge quando viene separata dalla virtù. Per intendere rettamente l’obbligazione morale contenuta nella legge e per cogliere nella situazione il suo appello è necessario essere “ben disposti” in modo stabile verso il bene da farsi. Evidentemente questo è il compito della virtù, e la tradizione classica ha denominato “equità” la virtù specifica che consente la retta interpretazione ed applicazione della legge; nel linguaggio tecnico dei moralisti essa conserva il termine greco di epikéia con cui Aristotele l’ha introdotta.

La legge, che per natura sua è universale, ha dunque bisogno di essere corretta e completata dall’equità di colui che deve applicarla.

L’equità – come sappiamo (cfr. 6.3) – è un aspetto della giustizia[232]: tra l’altro, essa consente di interpretare le norme secondo la giustizia e l’utilità comune. Questo può comportare l’autorizzazione ad abbandonare la “lettera” del codice per adempierne meglio lo “spirito”.

Ne abbiamo un esempio chiarissimo nell’atteggiamento di Gesù nei confronti  della legge del riposo sabbatico: di fronte ai suoi detrattori, che gli rimproveravano di trasgredire il comandamento perché compiva delle guarigioni (un lavoro!) nel giorno del riposo, Gesù chiede: «Domando a voi: è lecito in giorno di Sabato fare il bene o fare il male, salvare una vita o toglierla?»[233]. Evidentemente il comandamento era stato dato per “fare del bene”, e - pertanto - compiere una guarigione (un bene) in giorno di Sabato non è violare lo spirito del precetto anche se, di fatto, se ne viola la lettera: «Il Sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il Sabato!»[234].

Ma ciò non significa solo che, in determinati casi, qualcuno può non essere obbligato da una certa legge: significa anche che, in altri casi, qualcuno può essere obbligato a fare qualcosa anche se la formulazione attuale non glielo impone.


11.         La coscienza

Facciamo il punto del cammino percorso sin ora. Abbiamo detto che l’etica si chiede come dobbiamo comportarci, o meglio, come dobbiamo essere per realizzare pienamente la nostra personalità in modo degno dell’umanità che è in noi (cap. 1). Per rispondere a questa domanda abbiamo cominciato ad esaminare le esperienze morali;  come abbiamo visto, queste esperienze sono caratterizzate - tra l’altro - da un giudizio sul comportamento, che si esprime in approvazione o disapprovazione di determinati atti o tipi di condotta, i quali vengono così ad essere ritenuti degni o indegni dell’uomo (cap. 2).

Le tappe successive del nostro percorso sono state dedicate allo studio del comportamento volontario (cap. 3) e della virtù in quanto habitus che perfeziona la nostra personalità, rendendo la nostra vita buona e felice (capp. 4-8).

Ci siamo poi impegnati nella ricerca del fondamento della moralità, ossia di quei criterî che ci consentono di qualificare come buono o cattivo un certo comportamento (cap. 9), ed abbiamo visto come questi criterî diventino regola della nostra condotta mediante la legge (cap. 10).

Ma abbiamo notato anche che la legge, in forza della sua universalità, resta sempre, per così dire, a una certa distanza dall’agire concreto: classicamente si dice che la legge è regola remota delle azioni umane. Dobbiamo vedere ora come si compia la necessaria mediazione tra il piano universale su cui si pone la legge, ed il piano concreto in cui si svolgono le nostre azioni: è questo il tema della coscienza, che costituisce la regola prossima dell’agire umano.

Nella trattazione dovremo tenere presente che legge, coscienza e virtù si implicano a vicenda, come appare chiaro dal seguente testo di S. Alfonso M. de’ Liguori (1696-1787):

«Gli atti umani sono regolati da due principî: una regola prossima ed una regola remota. La regola remota, o anche regola materiale è la legge divina; la regola prossima o regola formale è la coscienza. Infatti la coscienza da una parte deve conformarsi in tutto alla legge divina, e dall’altra parte deve render note a noi stessi la bontà o la malizia degli atti umani, in quanto esse vengono apprese dalla stessa coscienza, coma insegna S. Tommaso (…): L’atto umano viene giudicato virtuoso o vizioso in base al bene conosciuto, al quale la volontà tende di per sé, e non secondo l’oggetto materiale dell’atto»[235].

11.1      Valenza antropologica della coscienza morale

Nell’abbozzo di fenomenologia dell’esperienza morale che abbiamo tracciato (cfr. 2.1) siamo giunti ad identificare in noi stessi un’attività di giudizio che si esprime in approvazione (ammirazione per gli altri, gratificazione per se stessi) o disapprovazione (scandalo per gli altri, rimorso per se stessi) di determinati comportamenti. Ora, il fatto che vi sia un’attività, implica che nello stesso soggetto vi sia la capacità di compiere quella medesima attività. La capacità a cui ci riferiamo viene comunemente chiamata “coscienza”.

Tuttavia impoveriremmo di molto la realtà se riducessimo la coscienza all’atto di giudicare. La coscienza è molto di più. Essa è l’organo dell’esperienza morale in senso pieno, è il “luogo” in cui ci poniamo di fronte a noi stessi, diventiamo consapevoli della nostra identità di soggetti unici e irripetibili, ci poniamo in rapporto con il nostro io (cfr. 1.1; 2.2).

In questa esperienza percepiamo che il nostro esistere non è semplicemente un dato (“io sono così”), ma anche  un  compito (“io devo essere, devo diventare…”): scopriamo che il nostro essere è la traccia di un cammino da percorrere, il tema di un compito da svolgere, il germe di una pianta che deve crescere e portare frutto (cfr. 9.2). Scopriamo un progetto che è iscritto profondamente dentro di noi, ma che non siamo noi a darci, un progetto che ci pone in relazione con le altre persone che vivono esperienze analoghe alla nostra e verso le quali ci sentiamo responsabili (cfr. 2.2.4; 10.3.4). L’esperienza dell’obbligazione morale trova qui la sua sede.

«La coscienza è il luogo in cui al medesimo tempo l’uomo sente di essere chiamato a fare il bene ed evitare il male, ricerca i contenuti specifici ed operativi di questo bene e di questo male, è accompagnato e condizionato in tale ricerca dall’educazione e dalle nozioni assimilate fin dall’infanzia, si determina liberamente nell’una o nell’altra direzione e prova gioia per il bene compiuto e rimorso per il male»[236]. Tutta la nostra personalità,  la nostra intelligenza, la volontà come capacità di autodeterminazione, la memoria, i sentimenti, le emozioni… tutto il nostro essere è coinvolto in questa dimensione umana che chiamiamo “coscienza”. Essa ci si rivela dunque come l’autentico “centro” della nostra persona: quello che nel linguaggio biblico si denomina “cuore”.

Il compito della coscienza è quindi quello di rispondere alla domanda morale: come dobbiamo comportarci? come dobbiamo essere? cosa è bene e cosa è male? Tuttavia, non si insisterà mai abbastanza sulla caratteristica essenzialmente recettiva della coscienza: essa non “crea” il bene; può solo “scoprirlo”, diventarne consapevole, esplicitarlo.

Possiamo dire, sintetizzando:

·     la coscienza è la consapevolezza della propria identità e del proprio dovere, derivante dall’apertura del soggetto al mondo, agli altri, a Dio.

11.2     Il giudizio della coscienza

La coscienza dunque è una meravigliosa e complessissima realtà antropologica. Essa non può essere ridotta unicamente alla capacità di formulare il giudizio morale. Tuttavia la formulazione del giudizio è uno dei suoi compiti più importanti. Al punto che talvolta col termine “coscienza” si intende semplicemente il “giudizio morale”[237].

Dobbiamo ora occuparci di quest’ultimo aspetto, ma potremo farlo rettamente solo se ci rendiamo conto che si tratta di un aspetto parziale di una questione parziale[238].

Ci chiediamo in che modo nasca il giudizio sul bene o sul male di una azione concreta. La facoltà di formulare un giudizio morale è denominata classicamente “coscienza potenziale”, mentre il giudizio formulato è denominato “coscienza attuale”. Esaminiamo nell’ordine i due temi.

11.2.1                                  Coscienza potenziale

Possiamo formulare dei giudizî perché possediamo determinati criterî, ossia delle regole, delle norme, dei parametri, dei concetti, delle intuizioni in base ai quali determiniamo il nostro giudizio.

Da dove ci vengono tali criterî? Una risposta molto diffusa è: dalla cultura in cui siamo stati educati. È questa una risposta troppo semplicistica. Certamente la cultura e l’educazione hanno una grande importanza nella formazione della coscienza, perché esse tramandano e veicolano le conoscenze morali (11.2.1.2), tuttavia c’è un livello più profondo di questo, il livello fondamentale della coscienza, che classicamente si denomina sinderesi (11.2.1.1), senza il quale l’educazione morale (e l’esperienza morale in quanto tale) non sarebbe nemmeno possibile, e grazie al quale siamo in condizione di giudicare criticamente anche le conoscenze morali che ci sono state trasmesse.

11.2.1.1               La sinderesi

Noi possiamo giudicare qualcosa se partiamo da alcune premesse. A loro volta le premesse possono essere dimostrate a partire da altre premesse, e così via. Ma, in questo processo, è impossibile procedere all’infinito: devono esserci delle premesse “prime” che non possono essere dimostrate e che tuttavia sono conosciute dal nostro intelletto, non mediante un procedimento razionale discorsivo, bensì con intuizione immediata.

Queste premesse sono autoevidenti (cfr. 1.3.4.), ossia note in forza di se stesse e non di altro. Sono  proposizioni in cui il predicato è implicito nella nozione del soggetto. Ad esempio, se posseggo la nozione di “tutto” e di “parte”, non posso fare a meno di ammettere immediatamente che «il tutto è maggiore della parte».

Ma i concetti di “tutto” e “parte” non sono certamente i primi oggetti del nostro conoscere.

Nell’ordine teoretico, volto alla conoscenza speculativa e alla contemplazione della realtà, il primo oggetto conosciuto è l’essere, ed il primo principio è quello di non-contraddizione, che si fonda sulla nozione di essere e non-essere: «È impossibile che una stessa cosa, sotto il medesimo aspetto e nello stesso tempo sia e non sia». Questo primo principio ed altri principî autoevidenti, sono un possesso abituale della nostra mente.

Nell’ordine pratico, l’ordine della conoscenza morale, il primo oggetto è il bene, e nella stessa nozione di “bene” è implicito il predicato “da farsi”. Il primo principio dell’ordine pratico, sarà dunque:

·     «Il bene è da farsi, il male è da evitarsi».

 Infatti la nozione di “bene” è: «ciò che tutte le cose desiderano», e quindi ciò che va realizzato, ciò che dobbiamo fare o conseguire per compiere il nostro essere.

Il primo principio, per natura sua è “vuoto”, ossia non ci dice “che-cosa” è bene, “che-cosa” è da farsi. E tuttavia è un principio noto a tutti ed indubitabile, innegabile. Dire che innegabile, tuttavia, non significa che non possa essere negato “a parole”, bensì che è impossibile negarlo concettualmente senza contraddirsi. “A parole” qualcuno potrebbe dire: «Il male è da farsi»; ma se gli si chiedesse di spiegare “perché” il male è da farsi, sarebbe costretto a dire: «Perché è bene»! 

A questo primo principio seguono poi principî via via più “pieni” di contenuto e - proporzionalmente - meno noti e più spesso revocati in dubbio, come: «vanno rispettati i diritti di ciascuno»; «non si deve fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a sé», ecc.

Il possesso abituale dei primi principî dell’ordine pratico è chiamato dagli scolastici “sinderesi”. Si tratta di un habitus dell’intelletto pratico: la sua funzione, quindi, non è esclusivamente conoscitiva: suo compito non è solo di “notificare” il bene e il male, ma anche di «istigare al bene e protestare contro il male»[239].

11.2.1.2               Le conoscenze morali

A questi primi principî si aggiungono tutte le conoscenze morali che ciascun individuo si procura con l’esperienza e che ciascun popolo o gruppo umano elabora e trasmette nella propria cultura. Si tratta di tutto quell’insieme di valori, virtù, norme, regole, leggi, costumi e codici morali che chiamiamo ethos.

Evidentemente, avendo avuto esperienze diverse gli uni dagli altri, provenendo da culture differenti, gli esseri umani hanno anche conoscenze morali differenti.

C’è chi ha conoscenze morali più vaste e chi meno: questo è frutto soprattutto dello studio, della lettura, dei viaggi, dei contatti umani. E c’è chi ha conoscenze morali più profonde e chi più superficiali: questo dipende soprattutto da ciò che si è vissuto e dalla riflessione e meditazione sull’esperienza.

Dobbiamo comunque sottolineare l’importanza dell’istruzione e della guida altrui per apprendere i valori e le norme morali. Questa è essenziale soprattutto nell’età evolutiva (che oggi si protrae assai più a lungo che nel passato), e dovrebbe tendere a formare persone capaci di formulare autonomamente i propri giudizî. Tuttavia questa autonomia non può essere intesa presuntuosamente, quasi che uno potesse basarsi unicamente sulle proprie opinioni, escludendo la possibilità che altri, più saggi e più buoni di lui, gli indicassero una strada migliore: per crescere nella conoscenza morale è necessario mantenersi umili ed aperti al dialogo (cfr. 1.3). È qui che si inserisce il ruolo della cultura e dell’ethos di un popolo: a servizio della formazione della coscienza, come estensione ed approfondimento delle conoscenze morali.

Ma bisogna stare molto attenti, giacché in questo campo è assai facile che si insinuino errori. La storia del pensiero morale ce ne offre tanti esempi: in determinate culture la maggioranza degli uomini riteneva leciti i sacrifici umani o la schiavitù, oggi si ritengono leciti l’aborto e la contraccezione… L’errore, come abbiamo visto (cfr. 10.3.2), dipende anzitutto dalle caratteristiche del ragionamento pratico, che ha a che fare con azioni concrete le quali si sviluppano in circostanze mutevoli, in cui possono verificarsi eccezioni che vengono scambiate per regole, ecc.; ma può dipendere anche, come spesso accade, dall’orgoglio e dalla concupiscenza degli uomini che, per seguire i propri desideri disordinati, si rendono volontariamente ciechi alle esigenze del bene.

Si deve poi tener conto che le conoscenze morali non sono relegate nell’ambito intellettuale, ma coinvolgono l’intero uomo, il suo comportamento concreto, la sua realizzazione. Questo, tra l’altro, è il motivo per cui le discussioni su temi morali vengono portate avanti spesso con una foga e una passionalità tali che possono oscurare la lucidità dei giudizî.

11.2.2                                  Coscienza attuale

Il possesso della sinderesi e delle conoscenze morali è la condizione per porre un atto di coscienza, ma non è ancora un atto. Questo si ha quando la coscienza prende posizione davanti ad un’azione da fare oppure già fatta, e giudica questa azione come buona o cattiva. Evidentemente, il giudizio si opera applicando i principî generali, presenti abitualmente nella coscienza, alla situazione concreta.

Come si può facilmente intendere, nel giudizio di coscienza confluiscono più fonti: i principî della sinderesi, le conoscenze morali, le virtù del soggetto e la conoscenza della situazione. Si intende, dunque, che il giudizio della coscienza può errare.

L’errore può dipendere quindi da convinzioni morali sbagliate:

es. 1 -  Presso molti popoli i sacrifici umani erano considerati doverosi.

Oppure può dipendere da una cattiva conoscenza della situazione:

es. 2 - Un giudice in tribunale si è formato il convincimento che quest’uomo sia un ladro e lo condanna; ma in realtà l’imputato è innocente.

 Quando insorge l’errore di coscienza, l’azione che consegue da quel giudizio è in sé cattiva, ma non necessariamente la persona che compie quelle azioni è cattiva: nell’es. 2, il giudice che ha fatto di tutto per appurare le circostanze ed è arrivato, in tutta onestà, a convincersi invincibilmente della colpevolezza dell’imputato, non è un cattivo giudice se lo condanna. La sua azione è cattiva a livello materiale, ma non al livello formale: egli compie un male (condanna un innocente) senza volere il male, anzi volendo il bene (crede di condannare un ladro, di fare un atto di giustizia), quindi senza essere cattivo.

Analogamente, nell’es. 1, un uomo figlio di uomini che praticavano sacrifici umani, educato sin da piccolo in una religione che richiede atti sacrificali di questo tipo, poteva trovarsi ad uccidere i propri figli - il che, in sé, è evidentemente cattivo -  convinto di fare un gesto di profonda pietà, in “buona coscienza”! Egli era materialmente un omicida, ma formalmente innocente.

Ma l’errore può dipendere anche dalla mancanza di virtù del soggetto: abbiamo visto come un uomo vizioso sia incline non solo a commettere il male, ma anche a ritenere “per principio” che sia bene comportarsi in tal modo (cfr. 4.3; 5.4): un uomo del genere, tuttavia, è cattivo formalmente e non solo materialmente.

Va infine detto che il giudizio di coscienza non è l’ultimo stadio del processo dell’atto morale. Di fronte alla mia coscienza che mi dice: «È bene fare così», posso ancore dire: «Voglio farlo» oppure «Non voglio». Il male morale, a livello formale, consiste proprio in questo andare contro il giudizio della propria coscienza: ossia nel compiere volontariamente un’azione o un’omissione sapendo che è cattiva.

In sintesi:

·     La moralità materiale consiste nel giusto rapporto tra l’azione e l’ordine morale oggettivo (ossia è materialmente buona un’azione che effettivamente realizza un bene, è materialmente cattiva un’azione che effettivamente danneggia un bene).

·     La moralità formale consiste nel giusto rapporto tra l’azione e la coscienza morale del soggetto (ossia è formalmente buona un’azione conforme al giudizio della coscienza del soggetto agente, è formalmente cattiva un’azione in cui il soggetto agisce contro il giudizio della propria coscienza).

11.3     Tipi o forme di coscienza

Dopo aver esaminato la struttura della coscienza come facoltà e come atto, consideriamo le diverse figure di coscienza che si intrecciano sia a livello potenziale, sia a livello attuale.

11.3.1                                  Tipi di coscienza potenziale

Ci rendiamo conto che, rispetto ai giudizî morali, non tutti manifestiamo la stessa sensibilità: c’è il tipo superficiale, per cui va tutto bene comunque sia, e c’è il tipo scrupoloso che vede il male dappertutto; c’è chi ha l’attitudine a condannare gli altri per assolvere sé stesso, e chi pensa che tutti siano migliori di lui…

La terminologia tradizionale denomina coscienza delicata quella di chi ha una grande sensibilità per i valori morali che lo porta a percepirli con estrema attenzione e a perseguirli con intensa forza di volontà: possiamo definirla “coscienza virtuosa”.

Viceversa, si denomina coscienza lassa quella del superficiale che poco si cura di conoscere il bene e poco o niente si impegna per realizzarlo e fuggire il male. Va da sé che la coscienza lassa assai difficilmente arriverà a cogliere il vero bene, e comunque, finché rimane lassa, manifesta una preoccupante acquiescenza al male, tanto da apparire abitualmente cattiva, ossia viziosa.

È poi nota la tipologia della coscienza ristretta, caratteristica di chi non riesce ad andare oltre la lettera della legge: non si preoccupa di sapere se un comportamento è buono o cattivo, se produce frutti di virtù o di vizio; riduce tutto alle categorie di “comandato-lecito, proibito-illecito”. La radice della coscienza ristretta è il legalismo, che può sfociare del massimalismo tuziorista (dal latino tutior = “più sicuro”), che allarga a dismisura i confini del male, conducendo alla “malattia degli scrupoli di coscienza”; ma può sfociare anche nel minimalismo che considera lecito tutto ciò che non è espressamente proibito, ed interpreta la legge non come uno stimolo a fare il bene, ma come un semplice “codice” da conoscere attentamente per trovare cavilli e scappatoie ovunque sia possibile.

Infine dobbiamo ricordare quel curioso miscuglio tra tuziorismo e minimalismo rappresentato dalla coscienza farisaica, così chiamata dall’atteggiamento di certi Farisei stigmatizzato nei vangeli. Il fariseo “cieco”, filtra il moscerino ed ingoia il cammello[240], ossia dimostra grande rigorismo su cose di scarsa importanza, mentre è lassista sulle cose più serie. Questo può dipendere dalla perversione della cultura e dell’educazione ricevuta, ma anche e soprattutto dall’ipocrisia del proprio atteggiamento morale, non motivato dalla ricerca retta del vero bene.

11.3.2                                  Tipi di coscienza attuale

Per quanto riguarda l’atto della coscienza, dobbiamo considerarlo nella sua collocazione cronologica rispetto all’azione (11.3.2.1), dobbiamo valutarne la rettitudine morale (11.3.2.2), dobbiamo interrogarci sulla sua certezza soggettiva (11.3.2.3) e sulla sua verità oggettiva (11.3.2.4).

11.3.2.1               Rispetto all’atto: antecedente, concomitante, conseguente

Prima di agire, la mia coscienza giudica l’azione che sto per compiere e me ne indica la bontà o la malizia, presentandomela come doverosa, lecita o proibita: questo giudizio si chiama coscienza antecedente.

Durante l’azione posso sentirmi confermato e confortato dalla mia coscienza che mi approva se faccio il bene; oppure posso sentirmi rimproverato e trattenuto dalla coscienza che mi disapprova se faccio il male: questo giudizio che accompagna l’atto si chiama coscienza concomitante.

Dopo l’azione posso sperimentare la gratificazione o il rimorso della coscienza (v. 2.1.3.) che mi giudica dicendo: «Hai agito bene» oppure: «Hai agito male». Questo giudizio si chiama coscienza conseguente.

Evidentemente, la formazione della coscienza virtuosa deve condurre il soggetto a maturità tale che il giudizio sia formulato prima dell’azione e non soltanto dopo, quando “la frittata è fatta”!

11.3.2.2               Rispetto alla qualità morale: retta o negligente

La coscienza ha il compito di dirigere l’azione e quindi ha il dovere di scrutare con attenzione tanto la legge morale quanto la situazione, per arrivare ad un giudizio valido. La coscienza seriamente impegnata nello sforzo di conoscere la verità e di uniformarsi ad essa si definisce retta.

Viceversa, la coscienza scarsamente impegnata, pigra, superficiale è detta negligente.

La rettitudine e la negligenza non riguardano soltanto il giudizio di coscienza, ma anche (e soprattutto) lo sforzo di formare la propria coscienza nella verità. È chiaro che solo la coscienza retta è legittimata a guidare l’azione.

11.3.2.3               Rispetto alla sicurezza soggettiva: certa , sufficiente o dubitante

Il giudizio di coscienza si può definire certo quando il soggetto non ha motivi validi per dubitare della conclusione alla quale è giunto, dopo aver considerato la legge ed esaminato la situazione: per esempio, mi propongono uno stratagemma per non pagare le tasse; ma io so che evadere il fisco, anche se potrebbe farmi comodo, è un male morale e quindi la mia coscienza dice con certezza il proprio “no!”.

Ma non sempre le cose sono così chiare: ad esempio potrei essere incerto sull’esistenza di una norma morale che faccia al caso mio (es.: se una tassa è ingiusta, ho il dovere morale di pagarla? No! Ma questa tassa, posso “in coscienza” ritenerla ingiusta?), oppure potrei trovarmi davanti a valori opposti in conflitto tra loro (es.: per pagare questa tassa sono costretto a licenziare un operaio:  evado il fisco o metto sul lastrico una famiglia?).

Per poter agire è necessario che vi siano almeno motivi sufficienti, che rendano il giudizio, se non certo, per lo meno probabile.

Lo stato della coscienza dubbia, invece, di per sé non costituisce nemmeno un giudizio: il dubbio è piuttosto una “sospensione di giudizio”. Evidentemente, chi dubita - ossia non sa se quell’azione è un bene o è un male - non può agire e deve continuare la sua ricerca, riflettendo meglio, assumendo maggiori informazioni, ricorrendo al giudizio di qualche persona più competente, ecc., fino a quando non giunge ad un giudizio sufficiente.

11.3.2.4               Rispetto alla verità oggettiva: vera o erronea

Il concetto di “certezza” riguarda il rapporto tra il giudizio e il soggetto stesso. Il concetto di verità, invece, riguarda il rapporto tra il giudizio del soggetto e l’ordine morale oggettivo.

La coscienza vera chiama bene ciò che è oggettivamente bene e male ciò che è oggettivamente male. Viceversa, la coscienza erronea ritiene che un’azione oggettivamente cattiva sia buona, o che un’azione che in realtà è buona sia cattiva (si vedano gli ess. 1 e 2 in 11.2.2).

Un errore viene detto invincibile quando colui che sbaglia non ha né ha avuto la possibilità reale di riconoscere la verità, ed è pertanto “costretto” a sbagliare (dall’ignoranza, dalla formazione ricevuta, dai condizionamenti socio-culturali, psicologici, religiosi ecc.).

Un errore viene detto vincibile quando chi sbaglia avrebbe o ha avuto la possibilità di riconoscere la verità e non l’ha sfruttata: poteva non sbagliare ed ha sbagliato per pigrizia, superficialità, presunzione, concupiscenza o qualche altro vizio.

 

È necessario tenere presente che sono possibili numerosi intrecci tra i vari tipi di coscienza attuale, perché si muovono su piani differenti.

Pertanto la coscienza può essere insieme retta ed erronea, purché sia certa o per lo meno probabile e purché l’errore sia invincibile. È soprattutto necessario tenere presente che:

·     La coscienza retta e certa va sempre seguita.

·     La coscienza erronea può anche essere retta (se l’errore è invincibile).

·     Bisogna comunque sforzarsi di arrivare ad un giudizio non solo certo ma anche vero.

·     In caso di dubbio non si può agire.

11.4     Legge, virtù e coscienza

Al termine di questo capitolo, e a conclusione del nostro percorso, vogliamo mettere in relazione il ruolo reciproco della legge, della virtù e della coscienza; così facendo avremo la possibilità di intendere meglio il senso dell’esperienza morale.

Come dobbiamo essere, per realizzare pienamente la nostra personalità umana? È una domanda che troviamo nel fondo della nostra coscienza, nel luogo in cui scopriamo di essere portatori di un progetto che non siamo noi a darci e che, tuttavia, siamo noi a dover realizzare: un progetto di cui siamo responsabili.

Confusamente avvertiamo che nella realizzazione di questo progetto sta la piena riuscita della nostra vita, vale a dire la felicità.

Dire “piena riuscita della nostra vita” vale a dire “vita buona”, ossia vita che si esprime in una successione di atti buoni, procedenti dalla nostra intelligenza e libera volontà.

La nostra volontà - come abbiamo detto più volte - non può non volere il suo fine (la piena riuscita della nostra vita, la felicità), è necessitata a tendere ad esso. Se nella nostra esperienza incontrassimo un oggetto che ci si presentasse in tutta evidenza come “il Bene” in grado di realizzare perfettamente la nostra felicità (ossia il Bene assoluto), noi non saremmo liberi di rifiutarlo: tenderemmo ad esso inevitabilmente. Ma un tale incontro non avviene, nell’orizzonte di questo mondo. I beni che incontriamo sono sempre singoli, concreti, parziali, relativi: sono questi gli oggetti dei nostri atti, e di fronte ad essi la nostra volontà resta libera ed indeterminata.

Questo significa che, tra i singoli beni che incontriamo, dobbiamo scegliere e scegliere bene, ossia scegliere il bene migliore e più conveniente al progetto della nostra vita. Tale scelta, come abbiamo visto, è operata dalla volontà illuminata dalla ragione e può essere condizionata dalle passioni.

Ecco perché, studiando l’atto volontario, ci siamo preoccupati di mettere in luce non solo come esso resti libero - e quindi in nostro potere - in ogni suo momento, ma anche come esso si possa sbriciolare in una molteplicità di scelte, influenzate da una pluralità di fattori, che fanno della nostra condotta qualcosa di estremamente instabile, precario, fragile, diversamente orientabile. Questo statuto dell’atto umano ci ha condotti a guardare con grande attenzione ai fattori che possono stabilizzare la condotta e la sua direzione, senza diminuirne la libertà.

Questo è precisamente il ruolo delle virtù come attitudini stabili (habitus) in base alle quali le facoltà umane sono orientate all’atto buono. Ed è anche il ruolo della legge, che va considerata come un’istruzione il cui effetto consiste nell’indurre alla virtù e quindi al bene: compito immediato della legge, in quanto opera della ragione, è di mostrare all’uomo il suo vero fine e di fargli conoscere il rapporto dei mezzi al fine, prescrivendo ciò che è conveniente e proibendo ciò che è contrastante.

Ora, come abbiamo visto, la legge crea un obbligo morale quando è fatta propria dalla coscienza. E la capacità della coscienza ad accogliere la legge, dipende dalla migliore o peggiore disposizione della coscienza stessa nei confronti del valore morale: se è una coscienza delicata, lassa, ristretta, ecc. Ossia, in ultima analisi, dipende dalla virtù: più il soggetto è virtuoso, meglio accoglierà la legge.

Ma abbiamo detto che lo scopo della legge è di indurre alla virtù. Notiamo il paradosso: più uno è virtuoso, meno ha bisogno della legge e tuttavia meglio è disposto in coscienza ad accogliere la legge; meno uno è virtuoso, più avrebbe bisogno della legge e, però, peggio è disposto ad accoglierla! Si tratta, letteralmente, di un circolo vizioso, anche se troviamo come suo corrispettivo un circolo virtuoso. Da tali “circoli” si esce solo affermando - come abbiamo già fatto (cfr. 4.4) - che la libertà dell’uomo permane, finché rimane in lui un barlume di ragione; pertanto anche il soggetto peggio disposto alle esigenze del bene ha il potere di cogliere, sebbene con difficoltà, le esigenze espresse dalla legge.


 

Epilogo

 

Siamo così giunti alla conclusione del nostro cammino. Questo libro andrà ora a raccogliere la polvere su qualche scaffale, ma spero che le idee in esso contenute continuino a “lavorare” dentro di te, caro lettore.

Mi sono sforzato di mostrarti come la domanda etica non sia un optional, una “finezza” che qualche spirito sofisticato può porsi se e quando ne ha voglia. La domanda etica nasce inevitabilmente nel cuore di ogni essere umano che si sveglia alla vita. Essa è certamente una domanda sul dovere (che-cosa debbo? e, soprattutto, perché debbo?). Ma è principalmente una domanda sul senso della vita: sulla felicità, che poi è sempre un’esperienza di relazione con il prossimo e con Dio.

Se ricercassimo la felicità nel piacere e nella soddisfazione dei nostri bisogni, se il “senso” della nostra vita venisse riposto in queste cose (e quante volte ciò accade realmente!), allora la nostra vita sarebbe assai esposta alla frustrazione, al fallimento, all’“eteronomia”, in quanto dipendente da troppi fattori che non sono in nostro potere (la disponibilità delle ricchezze, la nostra capacità di successo, le grazie del prossimo, la “buona sorte”, ecc.).

In queste pagine ho cercato di mostrare che il senso della vita sta altrove. Certamente il piacere contribuisce alla riuscita della vita: rappresenta ciò che le ciliegine sono per la torta: un ottimo complemento, ma non certo la sostanza. Certamente la soddisfazione dei bisogni primari è necessaria per la riuscita di una vita; ma non è sufficiente. Ciò che realmente costituisce una vita riuscita è la virtù: l’amore per il bene e la capacità di operare il bene. L’uomo virtuoso è veramente felice perché ama veramente e fa ciò che vuole - come direbbe S. Agostino -, ossia realizza col suo comportamento l’ordine dell’amore: egli può essere felice anche nella “cattiva sorte”, anche nella mancanza di piacere, perfino nella rinuncia alla soddisfazione di bisogni primari e nel subire tormenti. Come Socrate, preferisce patire un’ingiustizia piuttosto che compierla; quindi la sua felicità non può essere corrotta dall’esterno.

Per questo ho insistito nel rilevare che la persona virtuosa è realmente libera: nessuno può costringerla a compiere il male, e - quanto al bene - si può dire realmente che essa è legge a se stessa: fa il bene perché lo ama, non perché è comandato.

Si capisce dunque che la strada per giungere alla felicità è quella dell’educazione delle virtù. Questo libro avrà raggiunto il suo scopo se tu ed io, caro lettore, al termine della nostra conversazione, ci sentiamo un po’ più motivati nel percorrere questo cammino e ci rallegriamo nella speranza di giungere alla meta.

 


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Sommario

Prologo ......................................................................................................................................................................... 2

1.      Che cos’è l’etica?........................................................................................................................................... 7

1.1        Perché occuparsi di etica?.............................................................................................................. 7

1.2        Non basta la fede?............................................................................................................................... 8

1.2.1     La filosofia “ancella” in casa della teologia..................................................................................... 8

1.2.2     La filosofia “signora” in casa propria................................................................................................ 9

1.3        Metodi filosofici................................................................................................................................. 10

1.3.1     Atteggiamenti di fondo......................................................................................................................... 10

1.3.1.1        Stupore............................................................................................................................................ 10

1.3.1.2        Rispetto........................................................................................................................................... 11

1.3.1.3        Desiderio......................................................................................................................................... 12

1.3.2     Partire dall’esperienza......................................................................................................................... 12

1.3.3     Consapevolezza dei condizionamenti............................................................................................... 13

1.3.4     Ovvietà ed evidenza.............................................................................................................................. 14

1.4        Caratteristiche specifiche dell’etica filosofica......................................................... 16

1.4.1     L’etica si occupa dell’esperienza morale......................................................................................... 16

1.4.2     L’etica è una scienza meramente descrittiva?................................................................................. 16

1.4.2.1        Le opinioni del positivismo e del pensiero debole.......................................................................... 17

1.4.2.2        Critica.............................................................................................................................................. 17

1.4.3     L’etica è una scienza normativo-categorica.................................................................................... 19

1.4.4     Etica e felicità........................................................................................................................................ 20

2.      Fenomenologia della moralità........................................................................................................ 21

2.1        Esperienze morali............................................................................................................................... 21

2.1.1     Tentativi di negazione.......................................................................................................................... 21

2.1.2     Giudizio sul comportamento altrui.................................................................................................... 23

2.1.2.1        Lo scandalo...................................................................................................................................... 23

2.1.2.2        L’ammirazione................................................................................................................................. 24

2.1.3     Giudizio sul proprio comportamento................................................................................................ 25

2.1.3.1        Il rimorso......................................................................................................................................... 26

2.1.3.2        La gratificazione.............................................................................................................................. 26

2.2        Caratteristiche essenziali delle esperienze morali................................................... 27

2.2.1     Esperienze che riguardano la volontà.............................................................................................. 27

2.2.2     Esperienze che obbligano la volontà................................................................................................ 29

2.2.3     Dovere, libertà e responsabilità......................................................................................................... 30

2.2.4     Dovere e felicità..................................................................................................................................... 31

2.2.4.1        Vivere in pienezza........................................................................................................................... 31

2.2.4.2        Valori e disvalori.............................................................................................................................. 33

2.2.4.3        Il bene, l’utile e il dilettevole........................................................................................................... 33

2.2.4.4        E il male?......................................................................................................................................... 34

3.      Il comportamento volontario........................................................................................................ 36

3.1        Condizioni del comportamento volontario.................................................................... 36

3.1.1     Atti dell’uomo e atti umani.................................................................................................................. 36

3.1.2     Fenomenologia dell’agire volontario............................................................................................... 37

3.1.3     L’intelligenza nell’atto umano........................................................................................................... 38

3.1.4     La volontà nell’atto umano................................................................................................................. 40

3.1.4.1        Volontario ed involontario............................................................................................................... 40

3.1.4.2        Volontario semplice e volontario relativo........................................................................................ 41

3.1.4.3        Volontario voluto e volontario tollerato.......................................................................................... 41

3.2        Emozioni e sentimenti nell’agire umano............................................................................. 42

3.3        La libertà nell’agire umano....................................................................................................... 45

3.4        L’agire umano come attività immanente.......................................................................... 46

3.4.1     Gli atti umani modificano la personalità del soggetto agente..................................................... 47

3.4.2     Gli habitus.............................................................................................................................................. 47

4.      Le virtù in genere.......................................................................................................................................... 50

4.1        Importanza delle virtù nel discorso etico....................................................................... 50

4.1.1     L’agire manifesta l’essere.................................................................................................................... 50

4.1.2     Il discorso sulle virtù............................................................................................................................ 51

4.2        Virtù e vizi................................................................................................................................................ 52

4.2.1     Habitus buoni e habitus cattivi.......................................................................................................... 52

4.2.2     La “medietà”.......................................................................................................................................... 53

4.3        Classificazione delle virtù.......................................................................................................... 54

4.3.1     Virtù intellettuali e virtù morali......................................................................................................... 55

4.3.2     Virtù cardinali....................................................................................................................................... 56

4.3.2.1        Ragione, volontà, appetito irascibile e appetito concupiscibile...................................................... 56

4.3.2.2        Saggezza.......................................................................................................................................... 57

4.3.2.3        Giustizia.......................................................................................................................................... 58

4.3.2.4        Fortezza o coraggio......................................................................................................................... 59

4.3.2.5        Temperanza..................................................................................................................................... 59

4.3.2.6        Virtù “annesse”............................................................................................................................... 60

4.3.3     La connessione delle virtù e l’amore................................................................................................. 61

4.4        Virtù, libertà e felicità.................................................................................................................. 61

5.      Saggezza............................................................................................................................................................ 64

5.1        Terminologia......................................................................................................................................... 64

5.2        Primato della saggezza................................................................................................................ 65

5.3        Operazioni della saggezza.......................................................................................................... 66

5.4        I presupposti della saggezza e suoi opposti...................................................................... 67

5.4.1     Come virtù conoscitiva......................................................................................................................... 68

5.4.2     Come virtù imperativa.......................................................................................................................... 69

6.      Giustizia.............................................................................................................................................................. 72

6.1        Il concetto di giustizia................................................................................................................... 72

6.2        Il diritto................................................................................................................................................... 73

6.3        Giustizia generale e giustizia particolare....................................................................... 74

6.4        Le parti della giustizia................................................................................................................... 77

6.4.1     Giustizia commutativa.......................................................................................................................... 78

6.4.2     Giustizia distributiva............................................................................................................................ 78

6.5        L’ingiustizia............................................................................................................................................ 80

7.      Fortezza o coraggio................................................................................................................................ 82

7.1        Terminologia......................................................................................................................................... 82

7.1.1     Il coraggio.............................................................................................................................................. 82

7.1.2     La tenacia e la pazienza....................................................................................................................... 83

7.1.3     La magnanimità..................................................................................................................................... 83

7.2        Aspetti culturali............................................................................................................................... 84

7.3        Fortezza e vulnerabilità.............................................................................................................. 86

7.4        Aggressività e sopportazione..................................................................................................... 88

8.      Temperanza...................................................................................................................................................... 90

8.1        Terminologia......................................................................................................................................... 90

8.2        Essenza della temperanza.......................................................................................................... 91

8.3        Virtù dell’integrazione personale......................................................................................... 93

Excursus 1. Panoramica storico-filosofica sulla corporeità......................................................................... 93

A. Monismo materialista...................................................................................................................................... 93

B. Dualismo spiritualista.................................................................................................................................... 934

C. Il personalismo ontologicamente fondato........................................................................................................ 94

8.3.1     Scissioni tra corpo e persona.............................................................................................................. 96

8.3.2     Totalità unificata................................................................................................................................... 98

9.      Il fondamento della moralità.......................................................................................................... 99

9.1        Oggettività o soggettività del bene?................................................................................... 100

Excursus 2. Il pensiero contemporaneo e la moralità.................................................................................. 100

A. Universalismi................................................................................................................................................. 100

B. Relativismi..................................................................................................................................................... 105

 

9.2        Il vero bene............................................................................................................................................ 110

9.2.1     L’“umanità” dell’uomo come fonte................................................................................................. 111

9.2.2     Le inclinazioni naturali..................................................................................................................... 112

9.2.3     Il fine ultimo dell’uomo...................................................................................................................... 113

9.2.3.1        La felicità e il bene......................................................................................................................... 113

9.2.3.2        Felicità perfetta ed imperfetta....................................................................................................... 114

9.3        Le basi dei diritti umani................................................................................................................ 115

9.3.1     Natura e ragione................................................................................................................................. 116

9.3.2     I diritti umani e il loro ordine........................................................................................................... 116

9.4        Fonti della moralità.................................................................................................................... 117

9.4.1     La struttura oggettiva dell’atto........................................................................................................ 117

9.4.2     Il movente.............................................................................................................................................. 119

9.4.3     Le circostanze...................................................................................................................................... 120

10.    La legge morale......................................................................................................................................... 123

10.1       Atteggiamenti verso la legge.................................................................................................. 123

10.2       Essenza della legge morale...................................................................................................... 124

10.2.1        La legge è un ordine della ragione............................................................................................ 125

10.2.2        La legge ordina sempre al bene comune................................................................................... 125

10.2.3        La legge procede da colui che guida la comunità.................................................................. 126

10.2.4        La legge deve essere promulgata................................................................................................ 127

10.2.5        Gli effetti della legge..................................................................................................................... 127

10.3       La legge naturale............................................................................................................................ 127

10.3.1        Precetti della legge naturale....................................................................................................... 128

10.3.2        Universalità e immutabilità della legge naturale................................................................... 129

10.3.2.1      Unità e mutabilità della natura umana........................................................................................... 130

10.3.2.2      Mutabilità di alcuni precetti della legge naturale........................................................................... 131

10.3.3        Rapporto tra legge naturale e leggi umane............................................................................. 133

10.3.4        Legge naturale e legge eterna..................................................................................................... 134

10.4       Limiti della legge.............................................................................................................................. 135

10.4.1        La legge ingiusta........................................................................................................................... 135

10.4.2        L’esenzione dall’obbligo della legge........................................................................................ 136

10.4.3        L’epikéia (= equità)...................................................................................................................... 137

11.    La coscienza................................................................................................................................................. 139

11.1       Valenza antropologica della coscienza morale..................................................... 139

11.2       Il giudizio della coscienza......................................................................................................... 140

11.2.1        Coscienza potenziale.................................................................................................................... 141

11.2.1.1      La sinderesi.................................................................................................................................... 141

11.2.1.2      Le conoscenze morali.................................................................................................................... 142

11.2.2        Coscienza attuale.......................................................................................................................... 143

11.3       Tipi o forme di coscienza.............................................................................................................. 145

11.3.1        Tipi di coscienza potenziale........................................................................................................ 145

11.3.2        Tipi di coscienza attuale.............................................................................................................. 146

11.3.2.1      Rispetto all’atto: antecedente, concomitante, conseguente........................................................... 146

11.3.2.2      Rispetto alla qualità morale: retta o negligente.............................................................................. 146

11.3.2.3      Rispetto alla sicurezza soggettiva: certa , sufficiente o dubitante................................................. 146

11.3.2.4      Rispetto alla verità oggettiva: vera o erronea................................................................................. 147

11.4       Legge, virtù e coscienza................................................................................................................ 147

Epilogo........................................................................................................................................................................ 151

Bibliografia............................................................................................................................................................. 151

 



[1] Cfr. G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Roma 19952; Quale impostazione per la filosofia morale?. Ricerche di filosofia morale - 1, Roma 1996.

[2] Id., Felicità…, cit., p. 105.

[3] S. Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, III, Brescia 19859, p. 189.

[4] Su questi temi si veda Giovanni Paolo ii, Lettera enciclica sui rapporti tra fede e ragione Fides et ratio, 14 .09.1998.

[5] Socrate (469-399 a. C.) ha insegnato all’umanità questo modo di ragionare: prima di giungere ad un giudizio (cioè prima di affermare o negare qualcosa), bisogna definire i termini che usiamo, bisogna cioè risalire al concetto o, meglio ancora, all’essenza della cosa di cui parliamo.

[6] Un santo dottore della Chiesa, Tommaso d’Aquino (1224-1274), ha scritto un’opera in quattro libri intitolata Summa contra Gentiles, forse pensata per il confronto dialettico con gli intellettuali mussulmani. Nei primi tre libri egli si muove su un piano rigorosamente razionale: dobbiamo discutere con persone che non condividono la nostra fede, quindi non possiamo convincerle con argomenti basati sull’autorità della Bibbia o dei Padri della Chiesa; ciò che ci accomuna è la ragione naturale, pertanto argomenteremo sulla sua base. Nel quarto libro, poi, sviluppa argomenti che non possono essere conosciuti dalla ragione umana, come la Trinità di Dio o l’incarnazione del Verbo, che necessitano della fede nella Rivelazione divina.

[7] M. Rhonheimer, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Roma 1994, p. 19. Su questo tema, cfr. tutta la sezione, pp. 16-21

[8] Su questi temi si può vedere A. Vendemiati, Fenomenologia e realismo, Napoli 1992, pp. 137-150.

[9] Intendo qui per ideologia uno schema di pensiero, elaborato sulla base di una teoria prestabilita, in forza del quale si pretende di interpretare l’intera realtà. Una caratteristica del pensiero ideologico è che si preferisce piuttosto far violenza alla realtà, anziché ammettere che lo schema possa essere inadeguato. Si prenda ad esempio il marxismo: questa ideologia parte dal presupposto che tutta la realtà umana sia riconducibile alla struttura economica, e che quindi tutti i fenomeni umani (compresi i sentimenti, l’arte, la religione, ecc.) non siano altro che una proiezione della struttura economica stessa. Così facendo, essa rinuncia a conoscere la realtà dei fenomeni umani, giacché ha “deciso”, ancor prima di esaminarli, che essi “non sono altro che” proiezioni della struttura economica.

[10] Esodo, 20, 4; Deuteronomio 5, 8.

[11] M. Frisch, Stiller, Milano 1980 (orig. tedesco: 1954), p. 120.

[12] Questo è stato un grosso problema in Italia ove, a seguito della “riforma Gentile”, in quelle poche scuole medie superiori in cui si insegnava “filosofia” in realtà… non si insegnava “filosofia”, ma “storia” della filosofia. Si cerca di conoscere la storia di “qualcosa” prima ancora di conoscere “che-cosa” sia. Questo, a mio giudizio, è uno dei motivi principali del disamore e dell’incomprensione che tanti studenti mostrano nei confronti della filosofia stessa.

[13] D. von Hildebrand, Christian Ethics, Chicago 19722, p. 9.

[14] F. Rivetti Barbò, Lineamenti di antropologia filosofica, Milano 1994, p. 26.

[15] Ricordiamo il noto aforisma: Primum est vivere, deinde philosophari, che deve essere inteso nel senso specificato: viene prima l’esperienza di vita, ed è solo da questa esperienza che può scaturire la riflessione filosofica.

[16] Platone, La Repubblica, L. VII, I 514 A -515 D.

[17] Cfr. F. Rivetti Barbò, Semantica bidimensionale. Fondazione filosofica, con un progetto di teoria del significato, Roma 1974, pp. 28-29.

[18] La lingua greca, a dire il vero, ha due termini: 1. e;qoj, -ouj, che significa “popolo, nazione, classe”; da qui deriva l’aggettivo evqiko,j, -h,, -o,n, che significa “abituale, consueto”; 2. h=qoj, -ouj, che significa “dimora”, ma anche “consuetudine, uso, abitudine, costume, istituzione”; è da questo termine che deriva l’aggettivo hvqiko,j, -h,, -o,n, nel significato di “morale, etico” ed anche il sostantivo plurale ta. hvqika, per indicare l’etica.

[19] Si tratta di un classico sillogismo della prima figura, schematizzabile così: ogni M è P, ora S è un M, dunque S è P.

[20] Cfr. A. Vendemiati., Fenomenologia…, cit., pp. 29-36.

[21] D. von Hildebrand, What is Philosophy?, Chicago 19732 , p. 2.

[22] Id., “The Dethronement of Truth”, in Id., The New Tower of Babel, Chicago 19772, p. 67. 

[23] Cfr. G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù, Roma 19952, particolarmente pp. 13-78.

[24] Cfr. A. Vendemiati, Fenomenologia e realismo, Napoli 1992, particolarmente pp. 146-148. Per “fenomenologia”, quindi, non intendo una riduzione della realtà a puro apparire, né una mera descrizione delle esperienze soggettive, né tanto meno una presa di coscienza del significato dei nostri concetti. Io concepisco la fenomenologia come noumenologia, ossia scienza della cosa in sé in quanto intelligibile (noûmenon, letteralmente). Cfr. anche J. Seifert, Back to ‘Things in Themselves’, New York - London, 1987.

[25] «Nella produzione sociale della loro vita, gli uomini entrano in determinati rapporti, necessari e indipendenti dalla loro volontà - rapporti di produzione che corrispondono ad una certa fase di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, la base reale su cui si eleva una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali di coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo della vita sociale, politica e spirituale. Non è già la coscienza dell’uomo a determinare il suo essere, ma, al contrario, il suo essere sociale a determinare la sua coscienza». K. Marx, Per la critica dell’economia politica, “Prefazione” (sottolineature nostre).

[26] «Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no ad un “di fuori”, a un “altro”, a un “non io”: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori - questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi - si conviene appunto al ressentiment»,  F. Nietzsche, Genealogia della morale, 1, § 10 (sottolineature originali).

[27] Cfr. S. Freud, Al di là del principio del piacere, 1920; L’Io e l’Es, 1923.

[28] G. Vendrame, “Il problema morale oggi”, in T. Goffi - G. Piana  (edd.), Corso di morale, I,  Brescia 19892, p. 16.

[29] In questo senso il Nuovo Testamento parla dello «scandalo della croce» (cfr. Vangelo secondo Matteo 9,6; Prima lettera di S. Paolo  ai Corinzi 1,23); e sempre in questo senso S. Kierkegaard  (1813-1855)  - si veda, p. es. L’esercizio del Cristianesimo, parte II -  ha esaltato lo scandalo come la crisi salutare dello spirito, in cui la ragione arriva a «comprendere che non si può più comprendere». Su questi temi cfr. G. Masi, “Scandalo”, in Enciclopedia Filosofica, Roma 19792, vol. 7, c. 378.

[30] G. Vendrame, “Il problema...”, cit., p. 17.

[31] La contemplazione della bellezza della natura può preludere all’esperienza religiosa, suscitando ammirazione per l’Autore della natura. Tuttavia l’esito religioso dell’ammirazione di uno spettacolo naturale non è necessariamente connesso all’ammirazione stessa. Mentre non è possibile ammirare un opera umana senza ammirarne l’autore, in quanto autore.

[32] S. Pignoli, “Rimorso” in Enciclopedia Filosofica, cit., vol. 7, c. 125.

[33] S. Majorano, La coscienza. Per una lettura cristiana, Cinisello Balsamo (Mi) 1994, p. 18.

[34] Lascio per ora in sospeso il problema se questa trascendenza nella coscienza sia, per usare il linguaggio di Husserl, una «trascendenza trascendente» o una «trascendenza immanente», ossia se i valori morali siano oggettivi in senso forte o se essi siano semplicemente percepiti come oggettivi. Accontentiamoci per ora di questa «sospensione del giudizio» (epoché), la quale però non costituisce l’ultima parola: il problema è semplicemente rinviato ai capitoli successivi e, particolarmente, al cap. 9.

[35] Platone, Apologia di Socrate, 36 B – 37 A.

[36] M. Attilio Regolo, console romano (267 e 256 a.C., morto nel 247). Così lo ricorda S. Agostino (354-430): «Fu prigioniero dei Cartaginesi. Essi, che preferivano la restituzione dei loro prigionieri piuttosto che la custodia di quelli romani, inviarono a Roma con questo scopo Regolo, assieme a loro messaggeri, avendolo prima impegnato con giuramento a tornare a Cartagine in caso di fallimento della missione. Egli andò in Senato e caldeggiò la tesi opposta, perché non riteneva utile a Roma il cambio dei prigionieri. Dopo quest’opera di persuasione, senza essere spinto dai suoi, spontaneamente si decise di tornare dai nemici, per tenere fede al giuramento; ma quelli lo uccisero con tormenti diabolici e orribili».  De Civitate Dei, I, 15.

[37] Massimiliano Kolbe (1894-1941), sacerdote francescano conventuale, proclamato santo da Giovanni Paolo II nel 1982, recluso nel campo di concentramento nazista di Auschwitz, offrì la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia, condannato a morire di fame come rappresaglia per la fuga di un detenuto.

[38] Platone, Apologia di Socrate, 29 D.

[39] Id., Critone, 49 A-E.

[40] Per questo paragrafo e i successivi cfr. F. Rivetti Barbò, Essere nel tempo. Introduzione alla filosofia dell’essere come fondamento di libertà, Milano 1990, pp. 185-213.

[41] Cfr. S. Kierkegaard, Aut-Aut (1843).

[42] Si vedano, a questo proposito, le fondamentali ricerche di V. Frankl, Teoria e terapia delle nevrosi, Brescia 19782 (orig. tedesco: 19752).

[43] L’esperimento mentale della “macchina delle esperienze” venne proposto da R. Nozick in Anarchia, stato e utopia, Milano 2000 (orig. americano: 1974), pp. 63-65, quando la “realtà virtuale” era solo fantascienza.

[44] Nota bene: anche chi trascina la sua vita “alla giornata” si comporta così perché pensa che quello è il modo di ottenere la felicità: ritiene di realizzare così la propria personalità. Agisce in modo misero, perché ha un misero concetto di sé!

[45] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 5, a. 6.

[46] Cfr. S. Agostino, De natura boni.

[47] Cfr. J. de Finance, Etica generale, Cassano Murge (Ba) 1984, pp. 32-38.

[48] Ibid., p. 40; cfr. D. Composta, Filosofia morale ed etica sociale, Roma 1983, p. 27.

[49] Ovidio, Metamorfosi, 7, 20.

[50] Chi volesse approfondire questi temi, è caldamente invitato a leggere Aristotele, Etica nicomachea, III, 1, splendido esempio di fenomenologia dell’agire volontario.

[51] Cfr. infra, 9.4.2.

[52] B. Pascal, Pensieri, ed. Chevalier, n. 329.

[53] Cfr. P. Molla – E. Guerriero, Gianna la donna forte. La beata Gianna Beretta Molla nel ricordo del marito, Cinisello Balsamo (Mi) 1995.

[54] Cfr. F. Rivetti Barbò, Lineamenti di antropologia filosofica, Milano 1994, pp. 164-165, che qui seguo quasi alla lettera.

[55] M. Rhonheimer, La prospettiva morale, Roma 1994, p. 43.

[56] Su questo tema cfr. F. Rivetti Barbò, Lineamenti..., cit., pp. 176 ss.

[57] M. Pangallo, Habitus e vita morale. Fenomenologia e fondazione ontologica, Napoli-Roma 1988, p. 13; chi desidera approfondire questo tema troverà ampio giovamento dalla lettura dell’intero volume di Pangallo.

[58] Aristotele, Etica nicomachea, VI, 2 (1139 a 23).

[59] S. Agostino sviluppa il tema in maniera abbastanza estesa nel De libero arbitrio, L. II, c. 19.

[60] Aristotele, Etica nicomachea, VI, 2 (1139 a 22-26).

[61] Ibid., II, 6 (1106 b 36 - 1107 a 2).

[62] Cfr. Ibid. (1106 a 14 - b 5).

[63] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, In Ethicorum, L. VI, l. 2.

[64] Cfr. Aristotele, Politica, II, 1.

[65] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 58, a. 2, c.

[66] Cfr. B. Mondin, “Virtù” in Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino, Bologna 1991, p. 654, che rimanda a S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 57, a. 1.

[67] Ibid., p. 655; cfr. ad loc. cit., a. 5.

[68] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 81, a. 2.

[69] Id., Summa contra Gentiles, III, c. 35. Su questo punto e sugli argomenti dei paragrafi successivi rinvio a  M. Rhonheimer, La prospettiva della morale, Roma 1994,  pp. 183-221.

[70] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 117.

[71] M. Rhonheimer, La prospettiva…, cit., p. 213.

[72] Ibid., p. 214.

[73] Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, VI, 5.

[74] M. Rhonheimer, La prospettiva…, cit., p. 215.

[75] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 48, a. un., c.

[76] Cfr. S. Agostino, De moribus ecclesiae catholicae et de moribus manicheorum, I, 15.

[77] G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù, Roma 19952, p. 66.

[78] Cfr. A. Günthör, Chiamata e risposta, I, Cinisello Balsamo (Mi) 19875, p. 638.

[79] Su questo punto e su ciò che segue, cfr. G. Abbà, Felicità…, cit., pp. 174-181.

[80] S. Tommaso afferma: «L’habitus non produce la sua operazione nell’anima per intima necessità, ma l’uomo se ne serve quando vuole. Perciò, rimanendo l’habitus in lui, l’uomo può non usarne, oppure può compiere un atto contrario. E in questo modo, pur possedendo una virtù, uno può passare all’atto contrario», (Summa Theologiae, I-II, q. 71, a. 4). Il virtuoso, quindi, non può presumere di essere “impeccabile”, anche se è stabilmente orientato al bene e - perfino -  gli è più facile fare il bene che il male: deve essere sempre vigilante ed attento: d’altra parte, tale vigilanza è una dimensione della saggezza stessa!

[81] Il vizioso è davvero meno libero, in quanto il vizio è una disposizione contro la ragione, un’attitudine debole della volontà. Tuttavia egli non è totalmente irrecuperabile, almeno finché resta in lui un barlume di ragione. «Non è la stessa cosa peccare avendo un habitus e peccare per habitus. Infatti non è una necessità usare dell’habitus, ma dipende da chi lo possiede: difatti l’habitus si definisce come abilità di cui uno usa quando vuole. Perciò, come può avvenire che chi ha un habitus vizioso faccia un atto di virtù (se la ragione non è totalmente corrotta dall’habitus cattivo, ma conserva qualche cosa di sano da cui deriva la capacità del peccatore a compiere qualcosa di buono), così può anche capitare che uno, il quale possiede l’habitus talora non operi servendosi di esso, ma per una passione che insorge o per ignoranza». (Ibid., q. 78, a. 2.).

[82] G. Abbà, Felicità…, cit., pp. 176-177.

[83] In tutta la trattazione ci ispiriamo, tra gli altri, a J. Pieper, La prudenza, Brescia-Milano 1999 (orig. tedesco: 19657) e terremo costantemente presenti l’Etica nicomachea di Aristotele (Libro VI) e la Summa theologiae di S. Tommaso d’Aquino (II-II, qq. 47-56).

[84] I. Kant, Critica della ragion pratica, P. I, L. I, c. I, § 8, nota II.

[85] S. Tommaso d’Aquino, Quaestio disputata de virtutibus in communi, a. 9, c.

[86] Mi pare di sentirli, a questo punto, i filosofi di mestiere che sfoderano tutto il repertorio dei loro scetticismi: «Chi mai può pretendere di conoscere la verità?»; «Come si può presumere di parlare di realtà obiettiva?». Vorrei chiedere a questi signori: accettereste di farvi giudicare da un tribunale che non ha alcun interesse a conoscere la realtà obiettiva dei fatti? O cosa direste se nella busta paga, anziché il solito stipendio, trovaste un biglietto dell’Economato che, magari citando Schopenhauer, affermasse che il  mondo è solo volontà e rappresentazione?

[87] Cfr. J. Pieper, La prudenza, cit., pp. 25-26.

[88] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 47, a. 7.

[89] A questo punto, caro lettore, faresti bene ad avere sott’occhio la fenomenologia dell’agire volontario che abbiamo schematicamente delineato nel paragrafo 3.1.2.

[90] Nella tabella indicata in 3.1.2, gli atti menzionati corrispondono rispettivamente ai nn. 5, 7 e 9.

[91] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 47, a. 6, ad 3m. Aristotele afferma: «La virtù fa retto lo scopo, e la saggezza fa retti i mezzi per raggiungerlo», Etica nicomachea, VI, 12 (1144 a 7-9).

[92] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 64, a. 3.

[93] Cfr. Ibid., II-II, q. 48, a. un., c.

[94] Aristotele, Etica nicomachea, VI, 7 (1141 b 14-18).

[95] J. Pieper, La prudenza, cit., p. 39.

[96] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 49, a. 3, c., che cita Aristotele, Etica nicomachea, VI, 11 (1143 b 11-13).

[97] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 22, a. 1, c., che cita Aristotele, Etica nicomachea, VI, 5 e 12; e il Vangelo secondo Matteo, 24, 45. Si veda anche II-II, q. 49, a. 6, ad 1m.: in questo contesto S. Tommaso sostiene che lo stesso nome prudentia derivi da providentia.

[98] Cfr. ibid., II-II, q. 47, a. 9, ad 2m

[99] J. Pieper, La prudenza, cit., p. 43.

[100] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 55, a. 3, c.

[101] Ibid., q. 53, a. 6.

[102] Ibid., q. 55, a. 8.

[103] J. Pieper, La prudenza, cit., p. 49.

[104] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 57, a. 1, c.

[105] Cfr. Platone, La repubblica, LL. I-IV.

[106] Aristotele, Etica nicomachea, V, 1 (1129 b 14-33)

[107] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 58, a. 1. Nella cultura greca quest’idea è presente, ma in modo scarsamente articolato: lo nota Platone citando il poeta Simonide, il quale dice che il giusto consiste nel «ridare a ciascuno ciò che gli è dovuto», ma affermando che egli aveva parlato «per enigmi e in forma poetica», La Repubblica, I, 5-7 (331 D – 332 C).

[108] Cfr. J. Pieper, La giustizia, Brescia-Milano 2000 (orig. tedesco: 19654) , pp. 32-33.

[109] Cfr. A. Günthör, Chiamata e risposta, III, Cinisello Balsamo (Mi) 19843, p. 84.

[110] Cfr. supra, 1.5.2.

[111] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 57, a. 1, c.

[112] Ibid., q. 58, a. 5, c.

[113] Id., In Ethicorum, L. V, l.  2 (ed. Spiazzi, n. 907).

[114] Cfr. Id., Summa Theologiae, II-II, q. 58, a. 6, c.

[115] Cfr. Ibid., a. 12, ad 1m.

[116] Nota bene: peccando contro l’amicizia non infrango l’ordine della giustizia particolare, però infrango quello della giustizia generale, perché il bene comune della società è massimamente rappresentato dalla pace, che è «la tranquillità dell’ordine» (S. Agostino, De Civitate Dei, XIX, 13), ma non ci può essere tranquillità senza perdono (cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2002).

[117] Su questo tema cfr. A. Günthör, Chiamata…, III, cit., pp. 101-106.

[118] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 61, pr.; q. 62, a. 1.

[119] J. Pieper, La giustizia, cit., p. 86.

[120] Cfr. Ibid., p. 111. Su questo tema, cfr. anche: T. L. Beauchamp - J. F. Childress, Princìpi di etica biomedica, Firenze 1999 (orig. americano: 19944), pp. 321-386.

[121] Cfr. W. D. Ross, The Right and the Good, Oxford 1930, pp. 19-36; The Foundations of Ethics, Oxford 1939.

[122] T. L. Beauchamp - J. F. Childress, Princìpi…, cit., p. 325.

[123] Ibid., p. 329.

[124] Cfr. J. Pieper, La giustizia, cit., p. 33-34.

[125] Platone, Gorgia, 469 C; 508 D-E.

[126] J. Pieper, La giustizia, cit., p. 41.

[127] In questo paragrafo facciamo riferimento costantemente a T. S. Centi, “Introduzione e note” in S. Tommaso d’Aquino, La somma teologica. Traduzione e commento a cura dei domenicani italiani, XX, La Fortezza (II-II, qq. 123-140), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984.

[128] Platone, Lachete, 190 E.

[129] Id., Protagora, 160 D (corsivo mio).

[130] Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, III, 8 (1116 b 4-22).

[131] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 138.

[132] Ibid., I-II, q. 66, a. 4, ad 2m.

[133] Ibid., II-II, q. 129, a 1, c.

[134] Cfr. T. S. Centi, “Introduzione”, cit., p. 7.

[135] J. Pieper, La fortezza, Brescia-Milano 2001(orig. tedesco: 19638), pp. 29-32.

[136] Cfr. H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso, Torino 2000 (orig. tedesco: 1993), p. 42.

[137] Ibid., p. 16.

[138] Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, III, 7 (1115 b 7-15).

[139] Su questo punto, cfr.  di nuovo J. Pieper, La fortezza, cit., pp. 33-48.

[140] S. Ambrogio, De virginibus, L. I, c. 2, 7-8.

[141] J. Pieper, La fortezza, cit., p. 41.

[142] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 126, a. 1, c.

[143] Ibid.

[144] Aristotele, Etica nicomachea, III, 7 (1115 b 18).

[145] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 123, a. 12, ad 3m.

[146] Ibid., a. 6.

[147] J. Pieper, La fortezza, cit., p. 52-53.

[148] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 123, a. 10, ad 3m; ma si veda tutto l’articolo.

[149] Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, III, 8 (1117 a 5).

[150] Cfr. J. Pieper, La temperanza, Brescia-Milano 2001(orig. tedesco: 1964), pp. 24-25.

[151] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 141, a. 1, ad 1m.

[152] Cfr. Ibid., ad 2m.

[153] Cfr. Ibid., a. 3, c.

[154] Cfr. J. Pieper, La temperanza, cit., p. 33.

[155] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 141, a. 7; q. 123, a. 2; I-II, q. 61, aa. 3-4.

[156] Cfr. S. Ambrogio, De officiis, L. I, c. 43, 210.

[157] J. Pieper, La temperanza, cit., p. 27, che cita W. Goethe, Sprüche in Prosa, n. 777.

[158] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 141, a. 2, ad 2m.

[159] Cfr. supra, 2.2.4.1.

[160] F. P. Fiorenza  - J.B. Metz, “L’uomo come unità di corpo e di anima”, in Mysterium salutis, vol. IV, Brescia 19854, p. 274.

[161] S. Tommaso espone distesamente il suo pensiero in proposito nella Quaestio de anima. Interessante è anche lo In Aristotelis librum de anima commentarium. Per una esposizione sintetica si veda Summa Theologiae, I, qq. 75-93.

[162] F. Rivetti Barbò, Essere nel tempo, Milano 1990, p. 148. Sul tema che stiamo trattando è illuminante tutta la sezione compresa tra le p. 145-160; per una trattazione teoretica di carattere tematicamente antropologico si veda della stessa Rivetti Barbò, Lineamenti di antropologia filosofia, Milano 1994, pp. 193-238.

[163] Essa non va confusa con la forma sensibile (= conoscibile con i sensi): la forma sensibile della sostanza che ognuno di noi è, è mutata enormemente nell’arco della nostra esistenza dal concepimento ad oggi, eppure ciascuno di noi è rimasto se stesso! La forma sensibile è anch’essa un accidente; la forma sostanziale, immutabile, non è invece accessibile ai sensi, ma solo all’indagine metafisica.

[164] Le forme sostanziali dei composti, infatti, pur essendo semplici e quindi non-corruttibili per-se, sono tuttavia corruttibili per accidens, nel senso che cessano di esistere quando è corrotto il composto di cui sono forma. Cfr. S. Tommaso d’Aquino, In II Sent., d. 19, q. 4, c.

[165] G. Cottier, Scritti di etica, Casale Monferrato (Al), 1994, p. 30.

[166] Ibid.

[167] Rimando ancora al pensiero di D. von Hildebrand, esposto in A. Vendemiati, Fenomenologia e realismo, Napoli 1992, pp. 189-190.

[168] B. Pascal, Pensieri, ed. Chevalier, n. 370.

[169] Cfr. S. Vanni Rovighi, Introduzione allo studio di Kant, Brescia 1968, p. 244.

[170] Paradigmatico a questo proposito è il pensiero di J. J. Rousseau (1712-1778), che trova la sua più efficace espressione nei Discours sur les sciences et les arts e Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes.

[171] La tensione tra ragione e passioni è ben rappresentata da D. Diderot (1713-1784) in Le neveu de Rameau.

[172] A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano 1988 (orig. americano 19842), pp. 65-66.

[173] A chi desidera approfondire il pensiero di Kant, consiglio di leggere S. Vanni Rovighi, Introduzione…, cit. Per una disamina specifica e critica della morale kantiana, in chiave sistematica, ci si può riferire a J. Maritain, La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Brescia 19884  (orig. americano 1964), pp. 121-144

[174] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it. di P. Chiodi, Bari 1985, p. 11.

[175] J. Maritain, La filosofia morale…, cit., p. 125.

[176] Ibid., p. 130.

[177] I. Kant, Fondazione…, cit., p. 20.

[178] Ibid., p. 64.

[179] Ibid., p. 49.

[180]  J. Maritain, La filosofia morale…, cit., p. 137.

[181] Ibid., p. 140.

[182] Presentiamo qui, molto schematicamente, alcuni tratti del pensiero di G. W. F. Hegel, per come lo si può studiare nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, P. III, sez. II, §§ 503-552.

[183] Ibid., § 535.

[184] Per uno studio veramente critico del Positivismo giuridico e per una risposta alle sue istanze e provocazioni rimando a D. Composta, Filosofia del diritto. II. I fondamenti ontologici del diritto, Roma 1994.

[185] Cfr. J. S. Mill (1806-1873), Utilitarianism, Liberty and Representative Government.

[186] Un’interessante disamina del relativismo contemporaneo è fornita dal già citato A. MacIntyre, Dopo la virtù…cit. Purtroppo però egli stesso non è immune da questa pecca. Per la critica del relativismo cfr. A. Vendemiati, Fenomenologia e realismo, Napoli 1992, pp. 36-51.

[187] Un chiaro esempio di teoria emotiva delle valutazioni morali è costituito dall’opera del filosofo empirista americano C. L. Stevenson, Etica e linguaggio, Milano 1962 (orig. americano: 1946).

[188] Cfr. D. von Hildebrand, “The Dethronement of Truth”, , in Id., The New Tower of Babel, Chicago 19772, p. 61.

[189] Su questi temi cfr. S. Belardinelli, Il gioco delle parti, Roma 1996, pp. 15-41.

[190] Cfr. M Weber, Economia e società, Milano 1974 (orig. tedesco: 1922), vol. II, p. 922.

[191] Cfr S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia (1844) e La malattia mortale (1849).

[192] Cfr. S. Belardinelli, Il gioco…, cit., p. 32.

[193] Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 1990 (orig. tedesco: 1979).

[194] S. Belardinelli, Il gioco…, cit., p. 36.

[195] Cfr. D. Hume, A Treatise on Human Nature, III, I, Sect. I,

[196] Per quanto segue cfr. A. Vendemiati, La legge naturale nella “Summa Theologiae” di S. Tommaso d’Aquino, Roma 1995, pp. 148-150.

[197] G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù, Roma 19952, p. 52.

[198] Cfr. B. Pascal, Pensieri, ed. Chevalier, n. 84

[199] S. Tommaso d’Aquino,Summa Theologiae, I-II, q. 2, particolarmente a. 8, c.

[200] G. Leopardi, Zibaldone, 165-9.

[201] S. Tommaso d’Aquino, In Evangelium S. Iohannis, c. X, lect. I; cfr. S. Th. I-II, q. 3, a. 4, c. che cita S. Agostino, Confessiones, X, cap. 23.

[202] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 62, a. 1.

[203] Ibid., I, q. 26 a. 1.

[204] Ibid., q. 82, a. 1; a. 3. La Rivelazione cristiana insegna che questa situazione antropologica (che la filosofia può solo descrivere) è conseguenza del peccato originale.

[205] Ibid., I-II, q. 64, a. 1. Il titolo di questo paragrafo è tratto da un’opera fondamentale che consiglio caldamente di studiare a chiunque voglia approfondire questi temi: D. Composta, Natura e ragione. Studio sulle inclinazioni naturali in rapporto al diritto naturale, Zürich 1971.

[206] Cfr. M. Rhonheimer, La prospettiva della morale, Roma 1994, cit., pp. 85-94.

[207] Ibid., p. 91.

[208] «Infatti tutte le realtà morali conseguono la propria specie dal fine. L’azione buona e l’habitus buono sono specificati dall’ordine al debito fine, in forza del quale bene si pone la differenza specifica dell’habitus e dell’azione morale; l’azione cattiva, invece, è specificata dall’ordine ad un fine indebito, a cui si mescola la privazione del fine debito, in forza della quale subentra il concetto di male», S. Tommaso d’Aquino, In II Sententiarum, d. 34, q. 1, a. 3, ad 3m. Si noti che «L’atto morale non riceve la sua spece dal fine remoto, ma dal fine prossimo che ne è oggetto», Id., De malo, q. 2, a. 6, ad 9m.; cfr. q. 8, a. 1, ad 14m. «Giacché l’atto morale in forza del suo oggetto appartiene ad una specie o è collocato in un genere, si può sapere che un atto morale è cattivo per il suo genere se quell’atto non si riferisce in modo appropriato alla sua materia o oggetto», Ibid., q. 10, a. 1, c; cfr. q. 12, a. 3, c.

[209] L’uomo buono è colui che fa il bene perché è bene e non perché spera di ricavarne qualche vantaggio. Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 19, a. 7, ad 3m.

[210] Cfr. supra, 3.1.4.3.

[211] Con queste esemplificazioni abbiamo inteso presentare le sette circostanze classiche, enumerate nel noto verso di Cicerone: Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando (cfr. De Inventione Rethorica, I, 24).

[212] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 90, a. 1.

[213] Ibid., ad 3m.

[214] Cfr. Ibid., II-II, q. 57, a. 1.

[215] Ibid., I-II, q. 94, a. 2, c.  Su questo tema e sui seguenti rimando a A. Vendemiati, La legge naturale nella “Summa Theologiae” di S. Tommaso d’Aquino, Roma 1995, pp. 118-ss.

[216] «Ogni inclinazione, di una qualunque delle parti della natura umana, ad esempio la concupiscibile o l’irascibile, attengono alla legge naturale in forza del fatto che vengono regolate dalla ragione», Ibid., I-II, q. 94, a. 2, ad 2m.

[217] Cfr. Id., De Veritate, q. 15, a. 1, ad 2m.

[218] D. Composta, “Rapporti tra diritto naturale e biologia” in Atti del IX Congresso tomistico internazionale, vol. I, Città del Vaticano 1991, p. 258.

[219] S. Tommaso d’Aquino, De Virtutibus in communi, a. 13; Summa Theologiae, I-II, q. 64, a. 1.

[220] Rimando a F. Rivetti Barbò, Lineamenti di antropologia filosofica, Milano 1994, pp. 57-63.

[221] Su questo tema cfr. A. Günthör, Chiamata. e risposta,, I, Cinisello Balsamo (Mi) 19874, pp. 322-333.

[222] J. de Finance, “Droit naturel et historie chez saint Thomas”, in S. Tommaso e la filosofia del diritto oggi, Città del Vaticano 1975, p. 111.

[223] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 57, a. 2, ad 1m; cfr. q. 94, a. 4 c.; In Ethicorum, L. V, l. 12.

[224] C. Giulio Cesare,  De Bello Gallico, L. VI, c. 23.

[225] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 4, c; cfr. In III Sententiarum, d. 37, q. 1, a. 1, ad 1m.

[226] Id, Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 1, c..

[227] Ibid., q. 91, a. 2 .

[228] Ibid., q. 95, a. 2.

[229] S. Agostino, De Libero Arbitrio, I, 5.

[230] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae,. I-II, q. 97, a. 1, ad 1m.

[231] Ibid., q. 91, a. 2, c.

[232] Cfr. Ibid., II-II, q. 120, a. 2.

[233] Vangelo secondo Marco, 3, 4.

[234] Ibid, 2, 27.

[235] S. Alfonso M. de’ Liguori, Theologia moralis, L. I, tr. I, 1; cita S. Tommaso d’Aquino, Quodlibet  II, q. 12, a. 2 (ossia: III, a. 27).

[236] M. Cassani, “La coscienza morale nella riflessione teologica contemporanea”, in La coscienza morale e l’evangelizzazione oggi. Tra valori obiettivi e tecniche di persuasione. Bologna 1992, p. 89.

[237] «La coscienza si definisce così: è il giudizio o il dettame pratico della ragione mediante il quale giudichiamo ciò che qui e adesso deve essere fatto in quanto bene o evitato in quanto male», S. Alfonso M. de’  Liguori, Theologia moralis, L. I, tr. I, 2.

[238] Con questo intendiamo evitare di fornire argomenti a chi pensa che «la funzione della coscienza sarebbe stata ricondotta (…) ad una semplice applicazione di norme morali generali ai singoli casi di vita della persona»: opinione di diversi teologi, riferita da Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor (06.08.1993), n. 55.

[239] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 79, a. 12, c.; cfr. I-II, q. 94, a. 2, c.;  De malo, q. 3, a. 12, ad 13m.

[240] Cfr. Vangelo secondo Matteo, 23, 13-32.