ASPETTI TEOLOGICI E PASTORALI

DELL'ENCICLICA

«SACERDOTALE CAELIBATUS»

 

1. Antefatti e retroscena dell'enciclica

 

La storia del celibato sacerdotale è la storia di molti sacerdoti pii e zelanti, vicini alla santità, per i quali il celibato per il Regno dei Cieli è stato ed è segno, espressione e stimolo dell'impegno pastorale. La storia del celibato è però anche la storia della sua messa in discussione e della sua violazione, come la storia di tanti drammi umani. La critica del celibato e la richiesta di modificare la legislazione che lo regola ricorrono periodicamente nella storia della Chiesa. Si manifestano in particolare nei periodi di crisi e di rivolgimento della Chiesa, come alla fine del Medioevo e al tempo della Riforma, nell'epoca dell'illuminismo e dopo la secolarizzazione, all'inizio del Novecento, e non ultimo nel nostro presente, legate alle discussioni e ai rivolgimenti avvenuti prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II.

L'enciclica «Sacerdotalis caelibatus» del 24 giugno 1967 può essere compresa solo se inquadrata sullo sfondo degli antefatti del Concilio Vaticano II. Nonostante che il tema del celibato sacerdotale non facesse parte dei grandi temi del Concilio, questo argomento venne affrontato e discusso intensamente in ogni fase del Concilio stesso. Questo argomento si trovava, fin dall'indizione del Concilio da parte di Giovanni XXIII, tra quelli di cui si parlava e si scriveva molto. Papa Giovanni XXIII era manifestamente molto preoccupato per queste discussioni, e nel corso del Sinodo romano del 1960 rivolse un accorato invito alla rivalutazione del celibato e rifiutò una modifica della legislazione che lo regola (n. 37). Contrariamente a quanto oggi si vuole a volte insinuare, Giovanni XXIII non aveva quindi nessuna intenzione di apportare riduzioni alla pratica del celibato, né tantomeno introdurre modifiche determinanti.

Nel corso del Concilio, la discussione si ravvivò nuovamente in occasione del dibattimento sulla reintroduzione del diaconato come ordine sacramentale permanente a se stante. A fronte dei continui attacchi alla pratica del celibato nella Chiesa Latina, e delle continue discussioni anche nell'ambito del clero stesso, il Concilio intendeva - nel suo Decreto «Ministero e vita del sacerdote» - dare maggiore risalto e contemporaneamente motivare più profondamente, a livello teologico, il celibato sacerdotale. Però, le prime bozze risultarono insoddisfacenti. Quando poi iniziarono a circolare diversi pareri sulla questione del celibato, che avevano lo scopo di introdurre un'applicazione più flessibile della normativa su di esso, Paolo VI confidò, in una lettera al cardinale Tisserrant, allora decano del Collegio cardinalizio, di non ritenere opportuno trattare tale questione nella plenaria del Concilio. Allo stesso tempo rese nota la sua intenzione di mantenere la legislazione sul celibato, rafforzandola addirittura, sottolineando in quell'occasione le motivazioni che anche attualmente depongono a suo favore.

Su questa linea, la formulazione definitiva del par. 16 del «Decreto sul ministero e la vita del sacerdote» afferma e rafforza esplicitamente la legge sul celibato nella Chiesa Latina. Secondo il magistero conciliare, il celibato sacerdotale non è richiesto dalla natura del sacerdozio, ma gli è per molti versi congeniale. In questo modo, il Concilio rimane contemporaneamente legato alla tradizione della Chiesa Latina ed esprime il suo rispetto per la pratica particolare di altre Chiese locali.

Vi sono di nuovo, nella Dichiarazione del Concilio, che essa non riporta, nelle sue motivazioni, alcuni argomenti che invece risultavano fin nei più recenti documenti ufficiali: ad esempio, non vi si trova riferimento alla purezza del culto, e viene anche evitata una subliminale svalutazione della sessualità. Il Concilio vede il celibato sacerdotale, con Mt 19, 11-12, come un dono di grazia, che può essere compreso e vissuto solo nella fede e nell'esperienza spirituale della fede. Conseguentemente, non si sofferma ulteriormente sui presupposti umani e sulle difficoltà poste dalla vita celibataria. AI contrario, il Concilio pone in risalto con vigore il significato pastorale del celibato. L'astinenza per il Regno di Dio viene considerata «un segno e allo stesso tempo un impulso dell'amore pastorale e una sorgente particolare di fecondità spirituale nel mondo». Il celibato sacerdotale liberamente assunto è espressione di servizio incondizionato a Dio e agli uomini.

Quindi, per il Concilio il celibato sacerdotale è un bene irrinunciabile. Questa constatazione fa parte del lascito vincolante dell'ultimo Concilio, i cui insegnamenti ed impulsi rappresentano la Magna Charta della Chiesa sulla strada verso il Terzo Millennio. Paolo VI potè quindi riallacciarsi a questa indicazione conciliare, quando due anni dopo la fine del Concilio sciolse la promessa e l'impegno presi in quella sede, in merito ad una sua enciclica, con la quale egli si pose nella tradizione del Concilio, rafforzandola (n. 14; cfr. 41). Allo stesso tempo - e questa è la novità e quanto va oltre il Concilio - il Papa affrontò il compito, in questa enciclica, di confrontarsi con le nuove obiezioni poste al celibato e di motivare il medesimo in maniera conforme all'atteggiamento mentale degli uomini del nostro tempo (n. 16). E questa fu un'impresa coraggiosa, se si considerano le impetuose messe in discussione del celibato nell'immediato dopo-Concilio nonché la mentalità dell'epoca, poco incline ad accettare questo tipo di vita. In questa situazione tempestosa, Paolo VI si trovò a dover condurre la nave della Chiesa letteralmente contro vento.

 

2. L'attuale messa in discussione del celibato sacerdotale

 

Molti dei punti di vista che oggi si vogliono far valere contro il celibato, non sono assolutamente nuovi; si ritrovano, ad esempio, già nella Confessione di fede delle Chiese luterane, nella Confessione di fede di Augsburg del 1530, all'articolo 23. Di queste obiezioni fanno parte soprattutto le argomentazioni storiche che affermano come il celibato, in quanto norma valida genericamente per tutti coloro che scelgono il sacerdozio, non sia richiesto dalle Sacre Scritture e derivi da una valutazione unilaterale e negativa della sessualità umana e da concetti di purezza di culto ormai superati. Il celibato per il Regno dei Cieli risulta, nelle Sacre Scritture, come un carisma scelto liberamente, non come una legge (n. 5-7). A questo si aggiunge l'obiezione secondo cui il celibato porta danni pastorali alla Chiesa. A tale proposito si sottolinea anche la mancanza attuale e futura di sacerdoti, nonché la violazione aperta e imbarazzante o segreta del voto di castità, che rendono il celibato inattendibile agli occhi di molti (n. 8).

Accanto a queste obiezioni, che venivano sollevate già in tempi precedenti, ve ne sono di nuove, legate alla mutata mentalità dei nostri tempi. Spesso esse portano alla convinzione che il mantenimento del celibato sia difficile se non impossibile nel nostro tempo e con la nostra concezione di vita (n. 1).

Questi nuovi punti di vista meritano di essere presi sul serio. Sarebbe semplicistico pensare che le attuali difficoltà derivino unicamente da una mentalità ampiamente secolarizzata e da una pratica di vita spesso edonistica. Per quanto queste considerazioni giochino un ruolo, sarebbe ingiusto e superficiale se non si volesse considerare anche che, grazie alla scienza moderna, abbiamo oggi una conoscenza molto più approfondita dell'aspetto corporale e sessuale dell'uomo, che non nei tempi passati. Oggi siamo meglio informati in merito all'importanza che riveste l'aspetto corporeo e sessuale per la maturazione della personalità umana. Affinché l'uomo possa maturare, egli deve essere a conoscenza di questi ambiti, deve accettarli, ordinarli e integrarli. A questo si aggiunge che oggi siamo condizionati, prima ancora di prendere una decisione cosciente, dai molteplici danni prodotti dalla civilizzazione.

Tra questi, soprattutto nel mondo occidentale, un'atmosfera pubblica sessualmente ed eroticamente surriscaldata insieme ad una profonda crisi antropologica, che influisce poi anche su una crisi nel rapporto tra i sessi. Tutto ciò non crea buoni presupposti per una scelta della professione religiosa e per una vita di celibato volontario.

L'enciclica affronta espressamente questi nuovi aspetti antropologici e sociologici. Essa cita l'obiezione secondo cui il celibato è contrario alla natura umana, compromette l'equilibrio interiore e la maturazione della personalità umana, porta all'impoverimento della persona e alla solitudine dei sacerdoti e diventa quindi anche causa di inasprimento e abbattimento (n. 10). Essa cita anche la critica espressa nei riguardi dell'insufficiente formazione dei candidati al sacerdozio in materia (n. 11).

Ma pur contro questa critica, a volte tagliente, espressa nei riguardi del voto di castità, e contro la richiesta avanzata spesso in termini forti, nella fase immediatamente post-conciliare, riguardo ad una modifica del celibato, Paolo VI mantenne rigorosamente il punto del celibato sacerdotale. Grazie a questa determinazione, egli rafforzò allora molti candidati al sacerdozio e molti sacerdoti, soprattutto molti tra coloro che erano diventati incerti a causa delle tante discussioni, nella loro decisione di aderire al celibato e nella loro fedeltà al medesimo: erano grati per quella parola chiarificatrice che veniva da Roma. Ovviamente, molti furono profondamente delusi dall'enciclica e la criticarono esageratamente, senza renderle alcuna giustizia.

Per poter comprendere le due posizioni, bisogna cercare di ricordare gli anni tempestosi che seguirono immediatamente l'ultimo Concilio. I primi anni post-conciliari furono anni di grandi incertezze e notevoli turbolenze. Il movimento di rinnovamento scaturito dal Concilio, che traeva origine dalle fonti della Sacra Scrittura, della liturgia e della tradizione dei Padri della Chiesa, si mescolò spesso - in particolare nel mondo occidentale -con risvegli emancipatori, che sfociarono, nei movimenti studenteschi del '68, in una sorta di rivoluzione culturale. Questo movimento di emancipazione portò alla rivoluzione di molti valori e norme fino ad allora considerati validi, soprattutto nell'ambito della sessualità umana.

Anche se, nel frattempo, molte cose si sono nuovamente stabilizzate e in molte altre si torna indietro, le tendenze che a quei tempi hanno fatto irruzione anche nella Chiesa, non sono assolutamente superate. E così, rimane la critica al celibato. Le obiezioni elencate sono sempre valide nella discussione sul celibato dei sacerdoti, all'interno della Chiesa e a maggior ragione all'esterno di essa. In alcune parti della Chiesa universale, in particolare nel mondo occidentale, esse giungono persino a determinare il clima spirituale. Giovani, che si avviano sulla via del sacerdozio e si confrontano con la questione del celibato, come pure i sacerdoti, che vivono il celibato per il Regno dei Cieli, vengono a trovarsi pertanto spesso in una posizione di difesa a priori ed hanno difficoltà a spiegare e rendere credibile la loro scelta. Ecco perché lo studio dell'enciclica «Sacerdotalis caelibatus» è attuale, oggi come ieri.

 

3. L'argomentazione antropologica nell'enciclica

 

L'aspetto nuovo ed interessante di questa enciclica consiste nel fatto che essa dedica un capitolo a sé stante al confronto con le nuove obiezioni attuali, dal titolo: «Il celibato ed i valori umani». Paolo VI era sufficientemente sensibile alle questioni urgenti del suo tempo e della sua cultura da riconoscere chiaramente come queste ed altre obiezioni ancora andassero a urtare direttamente la comune concezione della vita (n. 12). Nonostante il lodevole progresso egli vedeva la pesante crisi che scuote il nostro tempo. Egli ebbe il coraggio di scoprire le manchevolezze antropologiche della mentalità media attuale e di nuotare contro corrente. Per questo arrivò ad affermare: 'La nostra situazione ha bisogno in modo particolare della testimonianza di coloro che si sono votati completamente agli ideali santi e santissimi (n. 46)'. Perché, secondo lui, tutte queste obiezioni derivano da una visuale unilaterale e riduttiva dell'uomo. L'uomo non è fatto di sola carne, e l'istinto sessuale non è la parte predominante in lui. L'uomo è anche ragione e libero arbitrio ed è capace di tenere sotto controllo i suoi desideri fisici, psichici ed affettivi (n. 53). Questo aspetto ascetico ricorre molte volte nell'enciclica (n. 71; 73-74 ecc.). Con questa argomentazione, l'enciclica fa riferimento al concetto antropologico tradizionale del predominio della ragione e della volontà sulle forze emotive dell'uomo. Ovviamente, il punto chiave dell'argomentazione dell'enciclica non si trova sul piano della disquisizione antropologica, bensì nell'accentuazione della novità del Vangelo di Gesù Cristo. Su questa novità fonda il sacerdozio cristiano, come pure il nuovo significato e il nuovo valore del matrimonio cristiano. Solo partendo da questa novità può essere compreso il dono, la grazia del celibato per il Regno dei Cieli (n. 19-20). La grazia, però, non distrugge la natura né le usa violenza, anzi, la completa e aiuta l'uomo a raggiungere la meta proposta dal Creatore alla creatura (n. 51). Ecco perché il celibato non significa non-considerazione o sottovalutazione della sessualità e della vita emotiva, ma elevazione dell'anima verso un ideale superiore. Esso contribuisce al completamento dell'essere umano (n. 55).

Queste argomentazioni, che senza dubbio sono teologicamente appropriate e corrette, non riuscirono a convincere molti. Esse rimangono astratte e al cospetto di domande concrete sembrano 'distaccate'. Ci si può quindi chiedere, a livello antropologico, se sia sufficiente il solo aspetto ascetico della disciplina e del controllo dei desideri fisici, psichici ed affettivi, per ottenere la necessaria integrazione della componente sessuale nella persona. Non servono forse anche motivazioni positive e un sostegno sullo stesso piano antropologico? Senza dubbio, la motivazione in sé e per sé può essere solo soprannaturale. In alcuni punti, però, l'enciclica dà l'impressione di voler saltare direttamente dal piano antropologico e dalle difficoltà che esso pone, al piano soprannaturale. I problemi umani non vengono affrontati inizialmente sul piano umano, neanche su un piano purificato, illuminato e rafforzato dalla grazia; essi vengono affrontati direttamente a livello soprannaturale.

Questo si dimostra, ad esempio, nel considerare la solitudine alla quale il celibato può condurre e spesso conduce. L'unica risposta, in questo caso, si trova nel riferimento indubbiamente corretto e importante all'unità e alla comunione di destino con Cristo, a partire dalla quale la solitudine dell'uomo può essere non solo sopportata, ma portata al suo più profondo compimento (n. 58-59). Manca un riferimento all'importanza, addirittura alla necessità di rapporti umani cordiali, alla comunione dei sacerdoti tra di loro. Un tale riferimento appare solo molto più avanti (n. 79-81). Suona strana soprattutto una citazione del Crisostomo: «... è opportuno che colui che ascende al sacerdozio, sia puro come se vivesse in Cielo» (De sacerdotio, 1.III: PG 48, 642) (no; 39).

Ovviamente, in questo senso l'enciclica non è completamente unitaria. Nella prima parte fondamentale e anche in gran parte del capitolo sulla vita del sacerdote (n. 73-83), gli aspetti ascetici e spirituali sono chiamati in primo piano, e quindi le domande antropologiche non ottengono soddisfacente risposta sul piano antropologico. Al contrario, gli aspetti antropologici trovano un notevole apprezzamento ed un'applicazione conseguente nel capitolo sulla formazione sacerdotale (n. 60-72). In esso si sollecita che la crescita della grazia divina proceda armonicamente con la crescita della natura (n. 63). Qui l'enciclica concepisce una formazione unitaria, corporale, spirituale e morale dei candidati al sacerdozio (n. 65). Un tale sviluppo armonico presuppone l'ascesi quale condizione per la sequela di Cristo. Essa - così si spiega nel documento - non sarà oppressiva, ma dovrà formare una personalità equilibrata, forte, matura e indipendente (n. 70). Per rendere possibile tutto ciò, si terrà conto delle cognizioni della moderna psicologia e pedagogia come pure delle mutate condizioni di vita nella nostra società, e ci si avvarrà dell'opera di esperti del ramo (n. 61).

Comunque si voglia valutare l'unitarietà dell'enciclica nella sua argomentazione antropologica, rimane il suo grande merito di avere portato, mediante la fondamentale introduzione dell'osservazione antropologica, un tono nuovo nel linguaggio ufficiale sul celibato sacerdotale e di avere intrapreso un cammino che i documenti a venire avrebbero potuto conseguentemente continuare, trattando questo argomento. Determinante è non solo il fatto che l'enciclica eviti ogni forma di svalutazione dell'ambito sessuale ed elimini quegli argomenti che derivavano dal concetto di purezza cultuale; è altrettanto importante che essa chiami in causa per la prima volta, e in maniera costruttiva, riconoscimenti antropologici e sociologici. Così facendo, essa si pone completamente in linea con il Concilio, in particolare con la Costituzione pastorale «Gaudium et Spes». Essa inoltre compie addirittura un importante passo oltre il Concilio, ponendo in evidenza i principi fondamentali della «Gaudium et Spes» esplicitamente nella questione del celibato sacerdotale. Questa era una breccia decisiva: i seguenti documenti ecclesiali ufficiali hanno seguito le orme di Paolo VI su questo argomento. Grazie al suo lavoro di spianamento, i nuovi documenti potevano procedere in maniera più conseguente sulla strada indicata ed intrapresa da Paolo VI, di quanto non sia stato possibile in prima istanza all'enciclica «Sacerdotalis caelibatus».

 

4. L'argomentazione teologica nell'enciclica

 

In. primo piano, per quanto riguarda l'argomentazione nell'enciclica, è l'argomentazione teologica. Tutta l'enciclica è pervasa dal pensiero della Sacra Scrittura, secondo la quale il celibato è una particolare grazia di Dio (Mt 19, 11-12). In quanto dono della grazia di Dio, esso è al contempo un mistero che può essere compreso solo nella fede e che solo nella fede può essere vissuto. Così, è anche grazie all'opera dello Spirito Santo che la comprensione dell'importanza di questo dono per il servizio del sacerdote si è imposto sempre più nella storia della Chiesa (n. 18). Con alcuni brevi tratti l'enciclica tenta di ricostruire tappe importanti di questo sviluppo (n. 35-40).

Purtroppo, questa esposizione biblico-teologica e storica trova relativamente poco spazio nell'enciclica. Essa inoltre mostra qualche indeterminatezza. Così, non si distingue nettamente tra l'impegno all'astinenza, testimoniato fin dai tempi della Bibbia e spesso rintracciato nella Chiesa Antica, e il celibato come legge generale, o come impedimento al matrimonio. L'intervento compiuto dalla riforma gregoriana in questo ambito non viene menzionato (n. 36-37). In luogo dell'astinenza totale, in alcuni passi si parla della castità totale (n. 6; 7; 13); ma la virtù della castità è valida anche per i coniugi nell'ambito del matrimonio.

Anche in questo senso, l'enciclica è agli albori. Infatti, in tali questioni la ricerca storica ha compiuto, nel frattempo, notevoli progressi. Importanti ricercatori hanno dimostrato come la promessa dell'astinenza totale da parte dei chierici risalga molto indietro nel tempo, secondo alcuni addirittura all'epoca apostolica. Ma almeno dai tempi immediatamente successivi al periodo apostolico, quando è venuta a concretizzarsi definitivamente la forma del ministero ecclesiale, si trova l'impegno all'astinenza. E questo vale non solo per la Chiesa Latina ma anche per la Chiesa d'Oriente, la quale prescrive in maniera vincolante l'impegno all'astinenza solo alla figura piena del ministero, e cioè al Vescovo. Insieme a questo riconoscimento, la decisione del Concilio Vaticano II e quella di Paolo VI trovano, oggi, una ragion d'essere ancora più rigorosa di quanto non si potesse pensare allora. Secondo i riconoscimenti storici attuali, l'impegno all'astinenza totale fa parte della forma concreta del ministero ecclesiale quasi fin dal suo inizio.

L'enciclica stessa non si interroga tanto sui nessi storici, quanto sui nessi interni logico-oggettivi tra sacerdozio e celibato. L'accento viene quindi posto sulla riflessione sistematico-teologica. La tesi alla base dell'enciclica è la medesima che è alla base del Concilio: il celibato non è necessariamente legato al sacerdozio, ma tra i due esiste una molteplice conformità; questa affinità viene motivata ampiamente nell'enciclica, a livello cristolo-gico, ecclesiologico ed escatologico. Possiamo tentare di riassumere solo a grandi linee questa triplice motivazione.

La motivazione cristologica è la più dettagliata, e parte dalla novità del sacerdozio cristiano, fondato sulla novità di Gesù Cristo. Questa novità trova il suo compimento nel mistero pasquale con il sacrificio totale di Cristo alla volontà del Padre. La verginità di Cristo è segno della sua dedizione totale al servizio di Dio e dell'uomo. I servitori della Nuova Alleanza partecipano al sacerdozio di Cristo, e per questo Cristo è l'esempio primo e il massimo ideale della loro vita. Lo stretto vincolo tra sacerdozio e verginità, in Gesù Cristo, si trasferisce quindi anche su coloro che partecipano al sacerdozio di Cristo (n. 19). Inoltre, lo stile di vita virginale corrisponde al mistero della nuova vita in Cristo (n. 21). Esso è il sunto di tutti gli ideali del Vangelo e del Regno di Dio (n. 23). Esso è segno di amore senza riserve e allo stesso tempo invito ad un amore aperto a tutti (n. 24). Così, coloro che scelgono liberamente il celibato, traggono esempio e motivazione per la loro stessa adesione alla forma di amore e di sacrificio del Signore dalla vita di Cristo, che si è donato chiaramente ed esclusivamente alla sua opera di salvezza (n. 25).

Dall'aspetto cristologico del celibato consegue la sua motivazione ecclesiologica: infatti, essendo preso da Cristo, il sacerdote si conformerà anche all'amore con cui Egli ama la Chiesa e si è sacrificato per essa (Ef. 5, 25-27). La verginità del sacerdote rende visibile l'amore virginale di Cristo per la sua Chiesa (n. 26). Il sacerdote, che agisce per conto di Gesù Cristo (n. 29) e rappresenta Cristo, deve riflettere in tutto l'immagine di Cristo e seguire l'esempio di Cristo (n. 31). Tutto questo completerà e feconderà la vita religiosa del sacerdote, in particolare la sua preghiera, e la sua aspirazione alla santità (n. 27-30).

Infine, va menzionato il carattere escatologico del celibato. Nella Chiesa, il Regno di Dio è già presente sulla terra, celato nel mistero, (n. 33). Il dono dell'astinenza totale per il Regno dei Cieli è un segno particolare delle ricchezze celestiali e un'anticipazione del completamento nel Regno di Dio (n. 34). Il fatto che un numero così elevato di sacerdoti siano fedeli al loro voto di celibato dimostra come il Regno di Dio sia profondamente radicato nella nostra società umana, e si manifesti come «luce del mondo» e «sale della terra» (Mt5, 13-14) (n. 13).

Con queste chiare e profonde affermazioni teologiche, l'enciclica si erge con potenza contro le onde di una certa mentalità che, in quella fase di una nuova ondata di illuminismo e di un'aspettativa utopistica per il futuro, si infrangevano contro le mura della Chiesa e in parte riuscirono a penetrarle. Essa offre una grande vastità di riflessioni teologiche, che potrebbero essere la base di molte considerazioni. Purtroppo, esse vennero espresse in un linguaggio fin troppo devozionale, quindi non facilmente accessibile a coloro che erano ormai incerti nella loro vita religiosa e celibataria. La ricezione dell'enciclica fu, in un certo senso, anche un problema linguistico.

I documenti ufficiali che seguirono, in particolare la Lettera apostolica post-sinodale «Pastores dabo vobis» di Giovanni Paolo II (1992), ripresero gli argomenti dell'enciclica di Paolo VI in maniera nuova. Questo nuovo documento tentò di legare più intimamente le motivazioni cristologica ed ecclesiologica. Esso vede la motivazione del celibato nella partecipazione sacramentale e nella ripetizione dell'amore totale ed esclusivo di Cristo per la sua Chiesa (n. 29). In tal modo, si evita il pericolo di un'identificazione troppo diretta del sacerdote con Gesù Cristo; allo stesso tempo, in questo modo la motivazione teologica viene collegata direttamente all'accentuazione del significato pastorale del celibato.

 

5. Il significato pastorale del celibato secondo l'enciclica

 

La considerazione decisiva per quanto riguarda il significato pastorale del celibato si trova già nell'enciclica «Sacerdotalis caelibatus». Come indicato, Paolo VI aveva a suo tempo sottolineato che il celibato è sostenuto dall'amorevole dedizione totale di Dio agli uomini (n. 21). Esso nasce da un amore aperto a tutti (n. 24), aumenta l'efficacia pastorale, dona maggiore libertà e disponibilità nell'esercizio del ministero sacerdotale (n. 32). Grazie alla sua caratteristica escatologica, esso costituisce uno sprone a volgere lo sguardo al divino (n. 34). Il punto di vista pastorale, quindi, non si trova in contrasto con la verità teologica; nemmeno rappresenta un'istanza a se stante rispetto alla verità. Anzi, la verità è la luce e la forza interiori, la dinamica interiore della pratica pastorale.

Ovviamente, Paolo VI era un uomo troppo sensibile per non aver individuato i gravi problemi pastorali che si nascondevano - accanto a molti altri motivi - dietro alle nuove discussioni sul celibato. Un grande problema pastorale era, ai suoi occhi, il problema della flessione delle vocazioni religiose e la risultante mancanza di sacerdoti. Era cosciente del fatto che molti pensassero che la mancanza di sacerdoti fosse originata dal celibato; per questo, molti criticavano il collegamento tra ministero sacerdotale e il carisma del celibato (n. 7-8).

A queste considerazioni l'enciclica oppose che è affare dell'autorità ecclesiale esaminare e riconoscere i carismi nonché determinare quali caratteristiche debbano possedere coloro ai quali, mediante il sacramento dell'ordinazione sacerdotale, viene affidata la salute delle anime (n. 15). La Chiesa confida che Dio elargirà generosamente il dono della vocazione alla vita celibataria, che tanto è adatta al sacerdozio neotestamentario, se solo i sacerdoti e rutta la Chiesa la invocheranno con fervore (n. 44; cfr. 45-48). Inoltre, l'enciclica respinge l'opinione secondo cui, eliminando il celibato, il numero delle vocazioni salirebbe subito e in maniera considerevole. Le ragioni per la mancanza di sacerdoti sono da cercare piuttosto altrove. Esse si trovano soprattutto nel fatto che il senso del divino e della santità è perso e quasi spento sia nel singolo sia nelle famiglie. Inoltre, si ritrovano anche nella sottovalutazione della Chiesa e della sua missione di salvezza. Per questo, il problema della carenza di sacerdoti va affrontato alla radice (n. 49).

Questo pensare decisamente dalla radice, non fa chiudere gli occhi dell'enciclica sui problemi concreti, ma piuttosto la aiuta a trovare soluzioni concrete. Proprio l'enfasi sull'amore e sulla generosa dedizione totale come motivazione interiore e dinamica della vita celibataria consente di affrontare con successo situazioni difficili.

Una di queste è la posizione dei ministri sposati di una Chiesa separata, che entrano nella piena comunione con la Chiesa cattolica e in essa ambiscono al sacerdozio (n. 42). In tali situazioni, già Pio XII aveva concesso, in casi singoli, la dispensa dal celibato. Per contro, in questo stesso ambito va considerata la situazione di coloro che non tengono fede agli impegni assunti con l'ordinazione sacerdotale: nell'enciclica vi sono formulazioni molto severe per questi sacerdoti. Essa indica i danni personali e pubblici, lo scandalo, l'inquietudine che ne derivano (n. 83-84). Queste parole severe a volte sono state all'origine di qualche sofferenza personale. Ovviamente, l'enciclica conosce bene anche la situazione spesso complessa di questi sacerdoti: essa parla di una sorta di disperazione, incertezza, passione e smarrimento spirituale e invita ad affrontare tale confratello con consigli e ammonimenti (n. 87). Nei casi in cui sorgano seri dubbi sulla piena libertà e responsabilità nell'assunzione degli impegni sacerdotali, l'enciclica prevede di ampliare le motivazioni per una dispensa dagli impegni sacerdotali (n. 84) e di rendere possibile una cosiddetta 'laicizzazione' (n. 88). L'enciclica vuole applicare giustizia e amore (n. 85).

Il rapporto tra giustizia e amore è un problema di fondo di ogni tipo di pastorale. L'amore non esclude la giustizia, ma la presuppone, perfino incita all'adempimento delle esigenze della giustizia. Allo stesso tempo, però, l'amore supera le esigenze della giustizia, in realtà ne è il reale adempimento. In effetti, rendiamo giustizia ad un altro uomo solo quando lo accettiamo e lo confermiamo come una persona unica nella sua situazione particolare, quindi se lo incontriamo con amore. Questo vale anche per situazioni, in cui una persona si viene a trovare, per propria debolezza, fallimento e colpa in difficoltà che umanamente non sono più risolvibili. Proprio in questi casi l'amore, superando le esigenze della giustizia, riuscirà sempre a trovare una via che apra il futuro ad un altro uomo. A questo proposito, l'enciclica rammenta la paternità spirituale del vescovo e il suo compito di essere, piuttosto che tutore e giudice, maestro, padre, amico e fratello del sacerdote, pronto alla bontà, alla misericordia, all'indulgenza, al perdono, all'aiuto (n. 93).

Per quanto esista una vicendevole affinità tra celibato e sacerdozio, e per quanto la Chiesa abbia il diritto e anche motivi validi per prescrivere formalmente questo stile di vita a tutti i sacerdoti, l'amore come motivazione più profonda del celibato non può essere trasformato completamente in esigenza di giustizia. Rimane la fondamentale differenziazione tra il carisma del celibato e il ministero sacerdotale; essa consente la soluzione di casi particolari difficili e complessi. Riconoscendolo e sottolineandolo, l'enciclica ha indicato una via - nonostante essa comprenda anche delle formulazioni molto severe - che possa rendere giustizia alle spiacevolmente molte difficili situazioni, in cui vengono a trovarsi singoli sacerdoti, anche per loro stessa colpa. Solo il futuro potrà dirci però se ci si potrà limitare alle due situazioni descritte e regolate nell'enciclica, oppure se questi casi singoli e i criteri per le loro soluzioni, indicati nell'enciclica, debbano essere ancora ampliati per ragioni pastorali.

Più importante ancora della questione di tali casi singoli è la direzione fondamentale, indicata da Paolo VI in una situazione confusa, con grande chiarezza e decisione, con l'enciclica «Sacerdotalis caelibatus». Con mente sveglia, il Papa raccolse le nuove questioni del suo tempo. Contro la corrente dei tempi, egli si erse nella grande tradizione della Chiesa Latina e del Concilio Vaticano II. Su queste solide fondamenta egli ha dato nuovo vigore al voto del celibato e un importante contributo ad una più profonda motivazione teologica e spirituale. Con ciò, l'enciclica ha indicato alla Chiesa la strada verso il futuro.

Le successive affermazioni magisteriali sull'argomento hanno ripreso e seguito la traccia segnata da questa enciclica. Il che significa che, nel suo cammino verso il Terzo Millennio, la Chiesa rimarrà fedele alle sue tradizioni e alle decisioni del Concilio Vaticano II, mantenendo il celibato sacerdotale, in quanto arricchimento del sacerdozio. Ovviamente, l’enciclica contiene anche l’indicazione di procedere, pur rimanendo saldamente legati al celibato sacerdotale, con giustizia e misericordia. Solo così potremo rendere profondamente giustizia alla più profonda intenzione del celibato.

 

† Walter Kasper, 

vescovo di Rottenburg-Stuttgart