A. MANARANCHE, Volere e formare dei preti, Fayard, 1994, p. 181-225.

 

In questa eccellente pubblicazione, P. Andrea Manaranche, con il tono rigoroso e penetrante che gli è proprio, si propone di analizzare la crisi attuale della Chiesa, dal punto di vista dell'identità e della formazione del Sacerdote, tanto l'invecchiamento del clero ed il piccolo numero delle ordinazioni sacerdotali gli appaiono uno dei segni più preoccupanti della società di oggi. Dopo aver fatto l'inventario delle «gnosi recenti» (I) e precisato le loro «incidenze sul ministero apostolico in genere» (II), egli cerca di scoprire gli aspetti di ciò che egli avverte come una strategia di erosione del presbiterato (HI), prima di esaltare, nel punto finale, «l'identità del prete» (IV).

È nella terza parte, dedicata alla «erosione del Presbiterato sotto tutti i suoi aspetti», che l'A. abborda la questione scottante del celibato sacerdotale.

Il punto essenziale della sua tesi si fonda sull'insegnamento della Chiesa, ripetuto tante e tante volte dal Magistero recente e che oggi spesso si finge di ignorare, compresi alcuni ambienti cattolici, come se si trattasse di una questione inutile (p. 223). Il fondamento dottrinale, richiamato in particolare del Decr. Presbyteroum Ordinis 16 e Pastores Dabo Vobis 50, è il legame strettissimo che esiste tra il celibato sacerdotale ed il sacramento dell'ordine, che colloca il prete, configurato a Cristo, a fianco dello Sposo della Chiesa (224). La grazia del Sacerdozio è duplice «quella del celibato e quella del presbiterato; la seconda fiorisce all'interno della prima» (197).

Tutto l'interesse della pubblicazione, al riguardo, consiste nell'evidenziare i presupposti concettuali che sono all'origine della campagna sferrata contro il celibato ecclesiastico (p. 186). L'A. considera quattro argomenti sviluppati dagli oppositori del celibato: 1) - si tratterebbe di un'esperienza contro natura. L'A. obietta che la defezione di numerosi sacerdoti deriva meno dalla «tentazione femminile» che dalla perdita del senso del loro ministero, perché il ministero impone il celibato più di quanto esso lo richieda» (p. 186). L'esigenza del celibato costituirebbe una violenza fatta al candidato al Presbiterato. A ciò l'A. risponde che il Sacerdozio non è un mestiere, ma una chiamata della chiesa che ripete a chi vuole ascoltarla «che essa assume i suoi ministri tra coloro che accettano volontariamente il carisma del celibato (p. 187). 3) -Il celibato avrebbe l'inconveniente di rendere il prete «un libero in permanenza», che si accaparra il lavoro dei laici ed arresta in tal modo il lavoro della pastorale. 4) - Infine il celibato sradicherebbe il Sacerdote dalla comune condizione umana. Ora è precisamente qui che, a nostro parere sta il nocciolo del problema, e cioè in una teologia del ministero ordinato: si vorrebbe il Sacerdote allineato al fedele laico (p. 189).

Nel denunciare il falso dilemma tra religiosi e diocesani, a proposito del celibato (216), l'A. afferma che il celibato per il Regno dei cieli è una realtà diversa dal fatto sociologico del non sposato: «L'amore casto è diverso da una semplice ascesi... è un amore appassionato per Cristo, una speranza esaltante nella vita eterna; un'offerta più ancora che una rinuncia (p. 217). Come lo annuncia la continenza del clero sposato dai tempi più antichi, «la continenza è ciò che lega con cuore indiviso al Signore per le necessità dell'apostolato ... ma è anche ciò che permette di pregare senza stancarsi» (p. 219). Ora è precisamente su tale consacrazione che la mentalità secolarizzata, per la quale il ministero è ridotto ad una funzione, si scontra (p. 220).

L'A. conclude su questo argomento mostrando che si cerca con tutti i mezzi di demotivare il Sacerdote, specialmente rifiutando ogni significato al celibato sacerdotale. E, innanzitutto, separando il Presbitero dal Vescovo «perché è lì il fondamento della questione, anche se non se ne parla mai» (p. 200). Effettivamente le Chiese Orientali non hanno mai esitato sulla continenza o sul celibato del Vescovo; in Oriente solo i celibi sono chiamati all'Episcopato. In tal modo, precisa il nostro A., più che una privazione, il celibato diviene una promozione: permette al Presbitero di vivere spiritualmente al livello del proprio Vescovo, sulle sue stesse orme» (p. 221). Non è questo ripetere l'insistenza del Vaticano II nell'unione stretta del Presbitero con il Vescovo nella dignità sacerdotale: «Nelle singole comunità locali di fedeli, (i Presbiteri) rendono presente il Vescovo, cui sono uniti con animo fiducioso e grande e condividono, per la loro parte, le sue funzioni e la sua sollecitudine... (LG 28). Nessun dubbio che il Concilio ha voluto così collocare il Presbitero a fianco del buon Pastore e dello Sposo che è il Cristo per la Chiesa e che il Vescovo rappresenta per eccellenza.

 

Marc Aillet