G. LAGOMARSINO, Il celibato del clero secolare: per uno studio comparativo dei due Codici di diritto canonico alla luce della tradizione giuridica della Chiesa in Occidente, in «Apollinaris» 66 (1993) 339-370.

Questo articolo provoca bastanti perplessità riguardo l'esposizione logica dell'argomento. Infatti, i primi commenti sugli sviluppi storici sono piuttosto negativi e quasi sembrano critici riguardo il celibato, mentre gli ultimi punti sono una difesa agguerrita della posizione del magistero e della disciplina conciliare e postconciliare. Nella prima parte, nel giudicare i dati storici l'Autore non ha in conto per niente la differenza tra celibato e continenza perfetta. E alcune affermazioni sono, davvero, poco felici. Riportiamo alcuni brani:

«Quindi la prima generazione di cristiani e le immediatamente successive considerano del tutto compatibili fra di loro il sacro ed il sesso, mentre nel secolo seguente il rifiuto di tutto ciò che riguarda il sesso, manifestato da talune sette gnostiche, ..., esercita una influenza, magari inconscia sul pensiero dei primi dottori della Chiesa. (...) Da quanto esposto ben si comprende quale enorme sostegno, per la figura carismatica del prete, risulti il fatto che esso conduca una vita casta, nel celibato» (p. 343).

«Al fianco del sopraindicato aspetto pastorale coesiste l'interesse temporale dei nobili ad urgere l'osservanza della regola celibataria. Risulta infatti evidente come il feudo ... possa ritornare nella disponibilità del senior, per una eventuale successiva investitura, dopo un periodo di tempo relativamente prevedibile, a causa del vincolo del celibato gravante su di un vassus-chierico, senz'altro privo di eredi» (p. 346).

«Tuttavia di fatto, nei secoli successivi, ...Il matrimonio o il concubinato ... dei preti è comunemente accettato dall'opinione pubblica e non scandalizza la moltitudine» (p. 347).

«Infatti, uno dei temi fondamentali della Riforma Luterana consiste nell'abbandono del celibato ecclesiastico... Quanto sopra viene attuato in ossequio ad una più fedele osservanza delle Sacre Scritture, per altro silenziose sull'obbligo del celibato per il presbitero» (p. 347-348).

«[In Trento] La formulazione di una così minuziosa dottrina pone all'aspirante ai sacri ordini nella assoluta impossibilità di evitare l'osservanza della regola celibataria» (p. 439)

Oltre a queste affermazioni, l'Autore usa inadeguatamente il canone 7 del concilio Lateranense I per affermare che questo concilio ha introdotto la regola del celibato, permettendo l'accesso al sacerdozio soltanto ai celibi o ai vedovi (pp. 346-347). Infatti, il testo del canone 7 stabilisce semplicemente la proibizione di contrarre matrimonio per i chierici maggiori già ordinati.

In questi primi punti l'Autore presenta la ragion di essere della disciplina del celibato in termini molto restrittivi: come se il celibato avesse soltanto la finalità di testimoniare la morale e la santità davanti al mondo e di conferire al prete celibe un grande prestigio e ascendenza sui fedeli, rafforzando l'immagine positiva della Chiesa Istituzione (cf. p. 350-351). Non si trovano altre motivazioni più profonde. E si da una visione molto pessimistica delle norme per custodire la castità: «Per tali motivi è imposto al chierico di temere le donne» (p. 354).

L'articolo cambia tono, diventando molto più positivo, quando comincia a studiare il concilio Vaticano II (p. 354 segg.), sottolineando gli argomenti del concilio sull'intima convenienza fra sacerdozio e celibato. I punti 5 e 6 dell'articolo sono assai interessanti, in quanto presentano le contestazioni dei diversi autori contrari alla dottrina magisteriale e la reazione dell'enciclica «Sacerdotalis caelibatus» e del Sinodo del 1971 (p. 361-370).

Infine. Anche se il titolo di questo articolo parla di studio comparativo dei due codici, esso non si riferisce alla comparazione tra CIC e CCEO, bensì tra CIC-1917 e CIC-1983. Ma nell'articolo ben poco si trova di questa comparazione.

Pablo Gefaell